Sentireascoltare 97

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digital magazine | novembre 2012 | n. 97

spiritualized steve roach

new wave  of  techno

the

Untold // scuba


turn on – p. 4

Dirtyphonics Beth Orton Melampus DFRNT The Vaccines

drop out – p. 14

The New Wave of Techno   Spiritualized

rearview mirror – p. 92   Steve Roach

recensioni – p. 28   gimme some inches – p. 90   campi magnetici – p. 102   classic album – p. 103


sentireascoltare

#97 novembre Direttore Edoardo Bridda Direttore Responsabile Antonello Comunale Ufficio Stampa Alberto Lepri, Teresa Greco Coordinamento Gaspare Caliri Progetto Grafico Nicolas Campagnari Redazione Alberto Lepri, Antonello Comunale, Carlo Affatigato, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Marco Braggion, Massimo Rancati, Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia, Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco Staff Andrea Napoli, Antonio Laudazi, Antonio Pancamo Puglia, Costanza Salvi, Dario Moroldo, Diego Ballani, Eugenia Durante, Federico Pevere, Filippo Bordignon, Giancarlo Turra, Giulia Cavaliere, Giulia Antelli, Giulio Pasquali, Luca Barachetti, Marco Boscolo, Mario Ruggeri, Nino Ciglio, Stefano Gaz, Viola Barbieri Copertina Untold Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)

SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Provider NGI S.p.A. Copyright © 2012 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


Arrivano in Italia gli ultimi acquisti della Dim Mak di Steve Aoki: i Dirtyphonics hanno diverse frecce drum’n’bass, dubstep ed electro al loro arco. E l’album è in arrivo.

Dirtyphonics Play Hard. Live Hard.

Sono in quattro, Pho, Playte, Capskod e Pitch-In, e hanno le idee chiare su cosa significhi energia live. Dal 2006 ad oggi si son guadagnati la fama di bestie da palco, ma hanno anche precise teorie soniche da rappresentare in studio. Soprattutto ora che sono entrati a far parte della Dim Mak di Steve Aoki, dove la visibilità non scarseggia e gli stimoli a dar qualcosa in più evidentemente fioccano: i due pezzi pubblicati l’anno scorso sono già proiettati verso una facile presa da dj-set, Tarantino con la sua posa electro house semplice da ballare e Oakwood, già più ambiziosa, lanciata con grinta verso l’aggressione nu dubstep. E l’album Dirty è già in dirittura d’arrivo, uscirà nel 2013 e metterà in atto le diverse modalità di gioco del quartetto parigino. Il punto di partenza, eppure, è stata la più comune delle infatuazioni giovanili hardcore, ossia la drum’n’bass: il pezzo con cui son balzati in testa alle classifiche di settore è stato French Fuck, anno 2008, una di quelle scorribande senza troppi scrupoli e con quel certo gusto distorto che non guasta, uscita in coppia insieme a 4

Bonus Level, pezzo ancora più veloce e riempito di inserti 8bit a pioggia (lunga vita a DJ Aphrodite). Poi tutta una serie di pezzi tagliati per pubblico e compilation di genere (Quarks, Teleportation, Glow) e qualche strappo alla regola che approcciava dimensioni diverse (due lavori interessanti con la vocalist Tali, la dnb-virata-pop di The Secret e il dubstep sporco di Lost In The Game, più un altro paio di avvicinamenti in salsa drop con Vandals e Lottery). Fino ad arrivare ad oggi, alla rete di remix che gira intorno a personaggi tendenzialmente estremi (Skrillex, Krewella, Nero, Bloody Beetroots, persino Marilyn Manson) e alla capitalizzazione della loro attitudine da performer. Se volete vederli dal vivo, dovrete essere la notte di Halloween al Viper Theatre di Firenze, per la serata che vedrà susseguirsi alla consolle anche un personaggio di culto come Crystal Distortion e due gruppi che l’Italia dovrebbe ormai conoscere bene, Numa Crew e Wobble Lovers. I Dirtyphonics ci metterano la loro energia e le loro compentenze tecniche, che vanno oltre le abilità


tecniche necessarie al dj-set. L’intervista dà già un’idea chiara della loro coscienza artistica e dello spirito irriverente che si portan dietro. Vale come antipasto, i veri giochi andrano in scena mercoledì 31 Ottobre. Ciao ragazzi, benvenuti su SA Magazinequindi diteci, siete in procinto di mandare in visibilio il pubblico di Firenze con drum’n’bass e hard electro? Yeah, sicuramente! Siam molto eccitati all’idea di venire a suonare i nostri nuovi pezzi e dar vista al solito party da paura. Preparatevi... Come definereste le vostre performance live? Siete in quattro, tutti sul palco, dietro la consolle e sempre con un MC che pompa il pubblico. Insomma, non è il solito dj-set, vero? Ahah, sono due anni ormai che non abbiamo un vero MC, ormai siam noi stessi a metterci al microfono. A Firenze sarà dj-set, ma fidatevi, ci sarà lo stesso quantitativo di Dirty! Avete cominciato producendo hit drum’nbass ma recentemente vi state buttando su qualcosa di differente e su Dim Mak state tirando fuori qualcosa più vicino al dubstep e alla electro house. È un po’ il vostro modo di unirvi alla nuova scena hardcore? Siamo andati di crossover fin dall’inizio. Sì, nel nuovo album ci saranno un sacco di cose e di generi differenti, tante influenze che volevamo esplorare da sempre. Drum’n’bass ovvio, ma anche dubstep, electro, ecc. Il formato album ci ha dato l’opportunità di farlo.L’evoluzione è la base di ogni cosa... Adesso fate parte del gruppo di Steve Aoki. Come state affrontando questa nuova sfida? State prendendo ispirazione da lui? È fantastico, amiamo la famiglia Dim Mak. Abbiamo conosciuto Steve in tour e ci siamo subito uniti a lui e alla sua crew. Non facciamo lo stesso tipo di musica ma condividiamo la stessa energia sul palco e la stessa sete musicale. Lavoro in studio, remix, live... cosa preferiscono i Dirtyphonics? Tutto! Far musica (che sia tua o che sia un remix) è tutto un grande processo, divertente in ogni aspetto. Il culmine è quando suoni quella musica al pubblico.Davvero, ci piace ogni fase di ciò che facciamo. Stiamo sempre insieme e ci divertiamo in ogni situazione. Adesso stiamo portando a termine l’album, pianificando il tour mondiale che seguirà, lavorando sullo stage design, riaprendo il merchandising store, tutto nello stesso momento...Work hard, play hard, live hard! La drum’n’bass morirà mai? Ormai stiamo andando per i vent’anni di vitalità...

Non è già morta? Ma sì, ora la chiamano “fast dubstep” ;) Secondo voi, qual è lo stile/trend/artista che rappresenta meglio i dance party di quest’anno? Voglio dire, se guardiamo alla top100 pubblicata da poco da DJ Mag, sembra quasi che sia tutto in mano dei soliti Van Bureen & co., ma è davvero così? Viviamo in un mondo trance, o la realtà è differente? Ormai ci son così tanti artisti e tipi di pubblico che non è più una questione di singoli generi... È questo il bello delle scene festival di oggi, ci sono tanti modi di immaginare e percepire la musica. Sì, DJ Mag fa la top100 delle realtà più popolari in fondo, ma la scena sta sbocciando e ogni giorno vengon fuori nuove cose. È molto salutare e tutti ci ispiriamo a vicenda. Carlo Affatigato

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Incontriamo Beth Orton in un caffè nel centro di Londra giusto in tempo per la colazione. Lei che non è più abituata alle interviste, troverà il modo di raccontarsi e parlare del nuovo lavoro

Beth Orton Coming from a place of feeling

Sono totalmente fuori fase, dice, scendendo dal taxi. Non le facevo da parecchio le interviste promozionali. E a sentirla è come fosse una cosa del tutto nuova. Beth, che per tutti i Novanta è stata al centro di una scena, non è più abituata alle luci della ribalta. La sua figura alta e magra si muove elegante, e nonostante sul viso le si intraveda una certa stanchezza e tensione, il sorriso non tarda ad arrivare. Mi piace molto vedere la gente che passa qui di fronte, dice fissando la strada, mentre ordina caffé e brioche. Lo sguardo è quello di una donna serena, realizzata. Ma non sempre le cose sono come sembrano e Beth, parlandoci del nuovo disco Sugaring Season, ci 6

rivela che i momenti difficili non sono mancati. Sono passati sei anni dall’ultima volta che abbiamo ascoltato un tuo disco. Hai sempre preso tuttto il tempo necessario, ma stavolta era in qualche modo diverso, come se questo disco potesse alla fine non arrivare mai. Sbaglio? Gli ultimi anni sono stati un periodo molto difficile della mia vita, specialmente dopo che il mio ultimo album, Comfort of Strangers, è uscito. E’ stato un periodo duro e sono diventata molto solitaria dopo che mia figlia è nata. Ho speso troppo tempo da sola, e ho perso un sacco di fiducia in me stessa. L’ultimo disco non è andato cosi


bene e parte dell’insuccesso era dovuto al fatto che ero rimasta incinta, proprio al momento della pubblicazione dell’album e non ho avuto il supporto necessario, per molte ragioni, e nemmono la possibilità di portarlo in giro come avrei voluto. Ma adesso le cose sono cambiate, il mio entusiamo è tornato. Qualche ragione particolare per cui tu abbia scelto Tucker Martine invece di Jim O’Rourke, che aveva prodotto il precedente? Conoscevo il suo lavoro fatto con la moglie Laura Veirs per il disco Carbon Glacier, che mi è piaciuto molto, dopo di che ci siamo tenuti in contatto. L’ho incontrato ad inizio anno, quando mio marito (Sam Amidon, ndr) ha suonato con Laura e ci siamo tenuti in contatto. Una delle caratteristiche del disco è sicuramente il tuo allontanamento dai suoni elettronici che caratterizzavano i tuoi primi album. È questa la musica che hai sempre voluto fare? Quello che per me è stato importante più di ogni altra cosa per questo disco era registrare sul momento, live, portarlo direttamente su nastro e non tornarci troppo su, quindi ho dovuto escludere certi suoni. Non è che ho per sempre voltato le spalle alla musica elettronica, ma per adesso sono più interessata a quello che sto facendo al momento. L’album, in un certo senso, suona come un classico. Era questa la tua intenzione? Si, molto. Ho basato il mio lavoro sui classici, come ad esempio First Take di Roberta Flack (1969), e credo che Sugaring Season sia anche la continuazione del mio disco precedente, Comfort Of Strangers, diciamo che appartengono alla stessa vena. Amo Joni Mitchell, amo Nick Drake, Neil Young. Tutta questa gente mi ha influenzato in maniere differenti. Ascoltavo Stolen Car (da Central Reservation, 1999) l’altro giorno. È quasi una canzone pop, mentre queste sembrano avere una direzione totalmente differente. Non penso a molto quando scrivo una canzone, se non alla canzone stessa. Prendo le distanze dal preoccuparmi di quale tipo di musica sto facendo, a che genere appartiene...non ho necessariamente il controllo su quello che faccio, perchè è tutto molto istintivo, molte volte basato su sensazioni che svaniscono in fretta...non è mai un processo ragionato. Non arrivo mai ad una canzone dal pensiero, piuttosto dall’emozione del momento. E’ tutto molto istintivo. Credo che le emozioni siano uno dei punti di forza dell’album. Da dove arrivano? Ho avuto due bambini, negli ultimi tempi. Quando hai dei figli succede che l’artificio se ne va, tende ad scom-

parire. Quello che rimane, almeno per me, è il materiale grezzo, la materia prima. Credo che scrivendo, col passare degli anni, io sia diventata più onesta. Sono sempre meno timida o imbarazzata, scrivere è sicuramente diventato un processo molto naturale. Parliamo del primo singolo, Megpie. Ha un video interessante, girato nel deserto? Si, abbiamo girato il video in un deserto ai piedi delle rocky mountains, in Colorado. Veramente un bellissimo posto, ma nessuno sa perchè ci sia un deserto li. Forse un lago, o qualcosa del genere, ma nessuno sa con precisione. La cosa mi affascinava molto, cosi abbiamo deciso di aggiungere questi effetti di pellicola in decadimento e il risultato era piaciuto un po a tutti. Poi c’è Call Me The Breeze, che ha un sapore vintage e decisamente country. Rob Burger è venuto fuori con la parte di tastiere, in effetti avevano un suono molto vintage e la cosa ci piaceva. Registravamo tutti insieme, nella stessa stanza. La band non aveva mai sentito alcuna demo delle canzoni, perchè non ce ne erano. Ci siamo trovati una volta in studio e abbiamo comnciato a suonarle...pensa che Candles è stata la primissima versione, prima ancora delle prove. Era prioprio come la senti adesso su disco. Per me era molto importante veramente cogliere il momento, l’attimo in cui quelle canzoni venivano interpretate. Quali erano gli obiettivi che ti eri prefissata per questo disco? I miei obiettivi erano raggiungere un songwriting solido e forte, essere apprezzata come songwriter. Ma anche come cantante. Ma soprattutto ho cercato di fare un bel disco nel senso pieno del termine, perchè ovviamente ci tengo molto che alla gente piaccia il disco. In molti modi ho scritto questo disco per me stessa, veramente, ed è stato per me un grande successo registrarlo e pubblicarlo. Ho dato un’occhiata al tuo live schedule e non ho visto nessun concerto in Italia. Possiamo aspettarcene qualcuno? Abbiamo una serie di concerti in UK ma per il resto ancora niente, mi dispiace! Vorrei davvero venire a suonare in Italia. L’ultima volta era stata Milano, ma non ricordo precisamente quando. Da quando ho avuto figli, ho una memoria terribile, è diventato un po un problema. Piani per il futuro, ce ne sono già? Intendo continuare a scrivere, ovviamente. E’ una cosa che mi tiene viva, che devo fare quasi giornalmente, per cui penso che prima o poi salterà fuori un nuovo album. Luca Falzetti

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Accendiamo i riflettori sulle atmosfere sognanti e melanconiche dei Melampus. Come dire, il gotico americano trapiantato a Bologna. Intervista in anteprima per SA e disco in uscita a fine ottobre

Melampus Curaci le orecchie, Melampus...

Sono in due e vengono da Bologna, la città “che trova sempre il modo di farti incrociare mille volte con persone con le quali stabilisci un contatto solo dopo mesi”. Lui suona la batteria (più droni e loop), lei la chitarra (più piano, percussioni e voce) ma il risultato è ben lontano dal classico duo male-female à la White Stripes. Zero divise dai colori sgargianti e melodie aperte e appiccicose. Le atmosfere dei Melampus sono scure come gli abiti in8

dossati da Angelo “Gelo” Casarrubia e Francesca “Billy” Pizzo e il rock assemblato con eleganza e perizia dai due si propone notturno e minimale, tinto di sensuale intimismo e venature malinconiche. Ovviamente compresso in una forma canzone ben definita, ché alla fine di canzoni si tratta: L’idea iniziale - è Francesca a rispondere a nome dei due - era quella di avviare il progetto con voce, basso e batteria, ma dopo quella prova la chitarra ci è sembrata


più adatta alla composizioni di brani che rispettassero una forma canzone canonica. Non ci interessava la via della sperimentazione. Volevamo comporre canzoni. Facciamo parte di quella categoria di musicisti romantici che ancora cercano struttura e melodia perfette, senza tempo. Sono romantici i due. Imperfetti e inconclusi, pronti a ricercare in quella non finitezza la propria cifra stilistica, a farne elemento caratterizzante puntando alle corde più sensibili dell’animo di chi ascolta. Ne esce una musica fatta di ipnotiche melodie sottotraccia e chiaroscuri emozionali, in cui è però l’immaginario evocato a fare da collante, più che i suoni in sè: Abbiamo cercato di narrare qualcosa attraverso brani che non volevamo risultassero tutti simili tra loro. Un comune denominatore è necessario, fa parte della poetica di ogni musicista o artista in generale. Rimaniamo volentieri su quel versante umbratile e fumoso. Potremmo definirlo gusto ...oppure carattere. Ad aleggiare sul tutto è, pertanto, una forte impronta letteraria e intellettuale, che emerge carsicamente non solo lungo l’intero lavoro, ma in ogni aspetto del progetto. A partire dal nome: tratto dalla mitologia greca, rievoca Melampo, il primo essere umano a cui gli dei donarono capacità divinatorie e da guaritore, mentre la capacità di comprendere il linguaggio degli animali, come da vulgata, fu ottenuta dopo aver salvato due serpenti che gli leccarono l’orecchio. Passando poi per l’immaginario iconografico evocato dagli algidi scatti in b/n e dalla china con cui Francesca rifinisce l’artwork dell’album e i flyer dei live. Terminando, infine, con un titolo che fa molto Faulkner e su cui spirano laterali i fantasmi delle maledette Flannery O’ Connor e Carson McCullers, pronte ad accompagnarci in un viaggio-narrazione oscuro e sofferto, posseduto e larvatamente inquietante : Il titolo è arrivato a noi mentre cercavamo di immaginarci un luogo, fisico o meno, nel quale dare corpo alla tracklist del disco. I nomi propri, sempre femminili, ricorrono spesso in questi nostri testi. Allora una Via dell’Ode ci è parsa il luogo migliore, con la sua idea di movimento e la circolarità del suono. Ho deciso di occuparmi io stessa dell’artwork - e le varie locandine dei concerti - per mantenere una coerenza estetica. In fondo il nome Melampus è già una dichiarazione. Forse, proprio come disse Grant Wood a proposito del dipinto American Gothic, noi siamo le persone che potrebbero vivere in Ode Road. Il percorso lungo la via dell’ode prevede una sorta di via crucis esistenziale da gotico americano suddivisa in nove tracce, in cui scie di sabbiosa musica desertica, psichedelia docile, wave posseduta, un quarantennio di femmes fatales, ambiziose aperture cinematiche e molto altro, divengono solo cangianti (s)punti di riferimento sparsi sotto una tenue luce grigiastra. Riverberi e sfumature

giocano un ruolo predominante, tanto che ascoltando l’omonimo esordio si ha come l’impressione di unire i puntini che compongono una sorta di geografia emotiva o di silhouette esistenziale dei due: Se di cartina geografica si tratta, allora bisogna dire che abbiamo stabilito un itinerario preciso e breve. Nel corso di un anno - è proprio da un anno che Melampus esiste - abbiamo composto molti più brani di quelli compresi nel disco. Grazie al rapporto con Gabriele (Locomotiv Records) e a diverse sessioni di preproduzione, abbiamo stabilito quali brani scartare, quali includere o all’occorrenza aggiungere. Poi tutto accade come scritto nel testo di Dots: improvvisamente si trova il modo di usare la china, improvvisamente si trova il modo di collegare i punti. Quella del duo bolognese è musica che evoca immagini, senza per forza essere imaginary soundtrack. Propone visioni, senza per forza essere visionaria. Il che, in tempi di standardizzazione dell’immaginazione, non è affatto poco. Stefano Pifferi

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La “dance music for oper minds” continua ad essere il trend più marcato di quest’anno e il ritorno su album del producer scozzese segna la nuova tappa dell’emozione d’ascolto. “Going deeper”…

DFRNT Music for patient people

Producer raffinato, abile remixer e artista perfettamente cosciente dell’evoluzione dei tempi. Alex Cowles aka DFRNT lo seguiamo già da qualche tempo, apprezzandolo prima nell’album d’esordio Metafiction, che segnava un modo sincero e affascinante di affrontare le prerogative emozionali del dubstep, e poi nel più recente EP Emotional Response, che l’anno scorso ha rappresentato una delle espressioni soulstep più riuscite nel momento di massima forma del trend. La peculiarità del producer scozzese consiste da sempre nell’insistere in profondità e contenuti: le sue produzioni hanno sempre spessore e vogliono toccare corde interiori, nonostante spesso siano anche notevoli dal punto di vista strettamente tecnico (due aspetti che solitamente si ostacolano a vicenda). Settembre segna l’uscita del nuovo album, Fading, e un livello successivo di consistenza e consapevolezza del sound di DFRNT. Dubstep e post-dubstep son messi 10

temporaneamente da parte e il focus si sposta più su un tessuto house ambientale che punta a creare atmosfere e sensazioni. È Cowles stesso a dirci che è questa la direzione verso cui la scena si sta muovendo, e la cosa mantiene ancora perfettamente attuale la nostra analisi sulla musica d’induzione dance, che ricollegava a inizio anno una serie di uscite con temi e propositi analoghi. DFRNT la definisce “music for patient people”, esaltando la capacità di far soffermare l’ascoltatore su di essa, di stimolare la ricerca di profondità. Da Petar Dundov a Teengirl Fantasy, ognuno in modo personale ma con le stesse intenzioni, l’intreccio di emozioni e sottrazioni continua ad essere la tendenza più marcata di questo 2012, di cui Fading rappresenta solo l’ultima tappa. L’intervista che segue non vale solo come presentazione dell’artista DFRNT, ma anche come efficace inquadramento della situazione attuale, vista da un’angolazione interna che la rende più sincera. Le cose si vanno muo-


vendo nuovamente verso una dimensione più classica, riappropriandosi dell’efficacia d’impatto tipica del sound più canonico, ma tenendo sempre davanti a sé l’idea di evoluzione e mutamento costante. Come potete vedere, riflettere su questa duplicità resta sempre affascinante. Il tuo nuovo album suona ben diverso dal precedente Emotional Response. Potremmo dire “più emozione - meno tecnica”? Dipende da cosa si intende con “tecnica”, in realtà. Non considero Emotional Response un album, faceva parte di una serie di EP tematicamente differenti dalle mie solite produzioni. Odio chi rimane bloccato in un sound specifico e non sopporterei che i miei fans pensassero di sapere esattamente cosa aspettarsi da me. Significa che le cose sono diventate noiose. Negli ultimi anni hai mostrato particolare originalità, un’unicità stilistica che ti rendeva differente dagli altri, nelle avanguardie bass music e post-dubstep. Dal punto di vista tecnico, cosa ti ha spinto a fare un album come Fading, così intriso di ambient house? È una selezione di pezzi con cui mi sento a mio agio. Non avevo deciso niente in particolare, eccetto forse andare oltre il dubstep. Ultimamente ascolto tanta house e dubtechno, penso sia questo che ha cambiato il mio stile di produzione. È un percorso che trovo sensato, ma capisco che ciò possa sorprendere qualcuno. Emotional Response era stato una delle uscite soulstep più riuscite dell’anno scorso, proprio nel momento più propizio per quel sound. Pensi che adesso questo trend stia perdendo mordente? Difficile dirlo. Stavo producendo quel tipo di materiale già da parecchi mesi, se non anni, per cui il tempismo è stato davvero perfetto. Credo che ci sarà sempre posto per quel tipo di sound - ma c’è sicuramente una tendenza a muoversi verso house e techno in questo momento. Anche questo è qualcosa che faccio già da diverso tempo, ma portare a termine un’uscita è qualcosa che richiede lungo tempo e la gente pensa che tu sia saltato su un’altra carrozza da un giorno all’altro. Abbastanza frustrante. Personalmente, Fading mi ha ricordato una serie di dischi di quest’anno focalizzati sulla comunicazione cerebrale, sull’emozione e sullo slow-dancing. Voices From The Lake, Petar Dundov, Alex Under... l’abbiamo battezzata “dance music for open minds”. Hai forse subìto l’influenza di queste uscite? Non di queste uscite in particolare, anche se in passato Alex Under ha esercitato una leggera influenza su di me. Il modo migliore con cui descrivere quel che faccio adesso è “music for patient people”. Potrei anche farne il

titolo del mio prossimo album! [ride] Qual’è secondo te la musica più cool che gira al momento? I produttori più raffinati? Questa è sempre una domanda difficile, e mi trovo sempre in imbarazzo a rispondere. Non mi piace fare preferenze tra un producer e un altro. E poi mi dimentico sempre qualcuno, e ci sono così tanti ottimi produttori e così tanta roba eccitante che è impossibile citare tutto. Per la maggior parte della gente risulterebbe una lista senza senso. Quel che posso dire è di ascoltare i miei Insight podcast (http://insight.dfrnt.co.uk), ogni due settimane ne pubblico uno nuovo con le mie tracce preferite. Da lì si può avere una buona idea di quel che mi piace. Se dovessi scegliere, preferiresti un sound classico prodotto in maniera perfetta (che significa comprensione e apprezzamento immediati da gran parte del pubblico) o uno nuovo, coraggioso e futuristico (più ambizioso ma che raggiungerebbe probabilmente meno gente)? Mi piacciono entrambe le facce della medaglia - e non vorrei mai dover scegliere tra esse - ma c’è qualcosa di speciale ed eccitante nei suoni che spingono in là i limiti, qualcosa che mi ispira particolarmente. Spesso la musica che raggiunge il pubblico maggiore è prodotta stile libro di testo, e così perde qualsiasi spinta e sfumatura che invece puoi trovare nella musica meno popolare. Hai un’idea chiara di come si sta evolvendo il tuo sound e di dove sta puntando adesso? Come suonerà la prossima uscita di DFRNT? Sto decisamente andando più a fondo - ho realizzato che il dance floor non è il posto ideale per la mia musica (a parte forse i remix). Non intendo rivolgermi alle persone che vogliono la hit immediata, preferisco la gente che si prende del tempo per la mia musica, che la apprezzi nella sua sfera privata. Per finire, una curiosità: come è nato l’alias DFRNT? Ahah, mi han fatto spessissimo questa domanda. Prima producevo come Alex C, ma c’era un producer trance che si chiamava così e questo a creato un sacco di confusione - tanta gente dalla Germania che mi chiedeva di esibirmi ai loro party aspettandosi trance. Per cui ho cambiato nome, mi piaceva l’idea di MSTRKRFT e ho pensato di provare qualcosa di simile. Ho scelto “different” ma poi mi sono pentito della scelta. Non intendevo far lavori davvero differenti, e adesso scherzano tutti sul fatto che la mia musica è “DFRNT”. “Oh, veramente geniale”, penso sempre. “Ci avrai messo una vita per partorire questo comicissimo gioco di parole”. [ride] Carlo Affatigato

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La band inglese si racconta a Sentireascoltare in occasione del lancio del nuovo album “Come of Age”

The Vaccines Da Londra con amore

A distanza di diciotto mesi dalla pubblicazione del folgorante debutto What did you expert from The Vaccines? che li ha portati sul podio di diverse classifiche inglesi ed internazionali, i The Vaccines, la Best New Band del 2011 di NME per ben tre volte cover story del popolare magazine britannico, torna alla ribalta. Cogliamo l’occasione per intervistare Justin Young (voce) e Freddie Cowan (chitarra) negli studi milanesi di Sony, in attesa della definizione delle nuove date del tour. La band, nel frattempo, ha già fatto uscire un nuovo lavoro, Come Of Age, album che sta raccogliendo pareri contrastanti tanto quanto l’esordio. Di sicuro, il mese scorso, l’esibizione alla prima edizione A Perfect Day Festival di Villafranca di Verona ha convinto anche chi era partito con qualche perplessità. Freddie Owen lo ricorda come uno dei live migliori di sempre e nell’intervista si intrecciano altri curiosi temi e aneddoti: il rapporto con il successo, le critiche ricevute dalla stampa e, soprattutto, le differenze con il primo lavoro che, come il frontman Justin Young tiene a precisare, “è profondamente diverso anche solo 12

per gli avvenimenti personali accaduti ai membri della band”. Ho visto il vostro concerto all’A Perfect Day a Villafranca di Verona lo scorso agosto. Come vi sono sembrati i vostri fan italiani? Justin: Gli italiani sono fantastici. Era la prima volta che suonavamo in Italia e ci siamo divertiti moltissimo. Freddie: E’ stato fantastico davvero, forse uno dei miei concerti preferiti di sempre perché il posto era bellissimo. Il castello era stupendo e ci siamo davvero divertiti durante il concerto dei Franz Ferdinand. E’sempre bello vederli live. Ed è vero, amo gli italiani. Torneremo sicuramente. Siete tutti giovanissimi e siete stati travolti dal successo. È stato difficile gestirlo? J: Veramente credo che non si sia trattato di un successo così inaspettato e travolgente, almeno non per noi a livello individuale. Sai, eravamo in tour da più di un anno prima del lancio del nostro primo album. Ho suonato nella mia prima band quando avevo undici anni e ho


cominciato a andare in tour quando ne avevo diciotto, poi ho iniziato coi The Vaccines a ventitrè. Anche quando sono nati i The Vaccines stavamo già scrivendo da più di un anno, quindi era una cosa che facevamo per noi stessi. Abbiamo comunque fatto gavetta, non è che ci siamo ritrovati a suonare il nostro primo concerto alla Brixton Academy! Senza dubbio è successo tutto molto in fretta, ma quando ci sei dentro il tempo passa più lentamente di quanto sembri dal di fuori.F: A noi è parsa un’eternità perché eravamo così impegnati! Abbiamo girato tutti i pub all’inizio, poi i club.. anche se non per molto. Il vostro primo album ha vinto moltissimi premi ma siete anche stati criticati pesantemente. Molti pensavano che foste l’ennesima band destinata a cadere nel dimenticatoio. Avete sofferto questi giudizi negativi? F: Penso che chiunque si trovi in questo ambito abbia sperimentato questa bipolarità di giudizio. Sto pensando ad esempio ai Radiohead: Kid A è stato valutato con mezza stellina su Billboard ma dieci sul Time! Non che voglia paragonarci ai Radiohead, ma è così, è parte di quello che facciamo.J: Preferisco far parte di una band che deve dimostrare di valere qualcosa che di una con una sorta di pass, idolatrata dalla gente qualsiasi cosa faccia. Ci sono gruppi che sono apprezzati sempre e comunque, ma penso che così sia troppo facile. Raccontatemi com’è nato il vostro ultimo disco. J: Abbiamo continuato a scrivere dopo il lancio del nostro primo album e poi a Natale abbiamo deciso di registrarne un altro. Abbiamo scelto come produttore Ethan Johns e lui ha scelto noi. Ci sono volute circa quattro settimane, più o meno come per il primo album. Volevamo semplicemente catturare l’essenza della band e mostrare chi siamo adesso, come suoniamo, come ci relazioniamo gli uni con gli altri, come scriviamo i pezzi. È una specie di disco live, sebbene sia stato registrato in studio. Abbiamo cercato di renderlo il più possibile genuino. Abbiamo preso le undici canzoni migliori che avevamo e ci siamo sentiti in grado di fare un buon album. È stato un processo logorante, ma ne è valsa davvero la pena. Secondo voi qual è la più grande differenza tra Come of Age e l’album precedente? J: Undici canzoni diverse? Scherzo. Penso che ci sia un retroscena più profondo. Penso che il sound sia davvero più genuino. Il nostro approccio a questo album è stato molto diverso, sia per quanto riguarda il sound che per il nostro modo di lavorare insieme. È molto più espressivo, più dinamico, le canzoni sono più variegate e penso che siano migliori. È difficile per me dire cosa ci sia di diverso, ma in effetti non lo avremmo nemmeno registrato se non lo avessimo giudicato diverso.

Justin, sei stato operato alle corde vocali e hai perso la voce per un paio di settimane. Questo ha in qualche modo influenzato la registrazione del nuovo album? J: Assolutamente sì. L’approccio è più cauto, sono più consapevole della mia voce e del modo in cui posso e devo usarla. Penso che abbia davvero tratto beneficio da questa esperienza. L’album è più maturo, più appassionato. Insomma, non tutti i mali vengono per nuocere. Avete suonato in apertura per molte band, penso ad esempio agli Arcade Fire e a The Stone Roses. Pensate che un’esperienza simile sia importante per un gruppo giovane come il vostro? F: Assolutamente. Ti apre davvero gli occhi. Tendenzialmente si crede sempre che la propria band sia la migliore, quindi è molto utile andare in tour con band che possono insegnarti qualcosa. In realtà chiunque può insegnarti qualcosa, è davvero molto importante sperimentare realtà diverse. Quali sono le band che hanno influenzato la vostra musica? F: Agli inizi mi ispiravo molto a Mick Jones dei The Clash, poi a Robert Fripp (King Crimson, Fripp and Eno..).Justin mi passa il suo iPhone per farmi dare un’occhiata alla sua libreria iTunes. Ci facciamo una risata dal momento che è praticamente identica alla mia: the Beatles, molto Brit-rock, classici e indie-rock. Qual è l’aspetto peggiore dell’essere sempre in tour? J: La mancanza delle persone a cui tieni.F: Io la prendo abbastanza bassa, mi lascio trasportare dagli eventi. Non sono bravo a mantenere relazioni. Non ho nemmeno più un appartamento. Vivo dove mi trovo. Cerco di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, anche se a volte è dura. C’è stato un periodo in cui avevo molta nostalgia di casa, ma poi ho capito che io ero a casa, amo quello che faccio e mi sento a mio agio. Londra è stata la città perfetta per cominciare quest’avventura ed è sempre un piacere tornarci, ma essere in tour è la mia vita, adesso. Cosa vi aspettate per il futuro? J: Penso che il fatto di aver fatto un album che giudichiamo migliore del primo possa solo spronarci a fare lo stesso per tutti quelli che verranno in futuro.F: Vogliamo solo migliorare ancora. Come Of Age non è qualcosa che ci deve impedire di andare avanti. Vogliamo continuare ad evolverci, cambiare e migliorare. La cosa che spero è di continuare a fare le cose esclusivamente per me, senza vendermi al pubblico. Il giudizio altrui è importante, ma la cosa fondamentale è non perdere di vista le cose che davvero contano. Eugenia Durante

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The New Wave of Techno L’esodo dalle solide certezze del dubstep alle possibilità inventive del sound techno: panoramica dei producers piÚ ambiziosi della scena + focus su uno dei protagonisti: Untold.

Testo: Carlo Affatigato 14


Dubst e p i n t e l l i g e n c e È stato un cambiamento sottile, ma negli ultimi tempi l’ala di produttori più ingegnosi e di talento si è lentamente spostata di territorio. Fino a qualche tempo fa (diciamo 2007-2008) le indagini più cool dell’elite elettronica vagavano nei dintorni del dubstep, quella nuova forma ancora poco definita e piena di mistero che si andava delineando nella seconda metà dei 2000. Era il tempo in cui fioccavano le teorie e i talenti sopraffini, gli anni delle sperimentazioni in breakbeat di personaggi come Zomby (vi abbiamo raccontato tutto in sede di (un)Known Pleasures), Ramadanman (nei suoi inizi più sghembi e affascinanti, Good Feelin, Carla, Drowning), Shackleton (in quel periodo di fervida immaginazione che ha preceduto i Three EPs, dunque Massacre e Death Is Not Final) o il primo Scuba (quei pezzi scheggiati e taglienti di A Muthual Antipathy, vedi Ruptured). Poi le cose sono lentamente cambiate. Il sound dubstep ha iniziato ad assumere una forma sempre più definita e a sposare schemi via via più delineati. Label come Tempa e Deep Medi hanno forgiato il suono dubstep definitivo, caricando sui bassi e su metriche presto divenute imprescindibili: gli artefici li conosciamo, Skream, Benga, Distance, Digital Mystikz, tutti i big che han permesso ad halfstep e dintorni di far presa definitiva sul pubblico. Lo stile diventò presto il trend più vivo del momento, la gente cominciò a sentirsi immersa in una nuova fase di picco inventivo e le serate dj set votate al dubstep passarono rapidamente da una dimensione di evento specializzato a fenomeno di successo, arrivando negli ambienti più cool e facendo felici praticamente tutti, distributori, etichette e organizzatori. E invece, fu proprio in quel periodo che molti artisti iniziarono a prendere distanza dal dubstep cosiddetto puro. Il raggiungimento di una posizione consolidata e ben piantata nel suo profilo formale smise di mettere a proprio agio i produttori più inventivi, quelli che si erano trovati in sintonia col dubstep per quel suo essere fuori schema, senza regole, un campo aperto che lasciava piena libertà alle sperimentazioni e alimentava l’estro, la genialità. La corrente separatista che dal 2009 in poi mise in discussione le certezze dubstep non nacque come precisa volontà di portare avanti il percorso evolutivo, perché nel suo periodo di apice al dubstep in realtà non serviva alcuna spinta al cambiamento. La verità è che l’aria nuova arrivò come esigenza, da parte di chi trovava limitante fermarsi alla battuta halfstep e alla fluidità dei bassi wobble. Parliamo di pochi anni fa, quando ci chiedevamo come fosse nata la tendenza di spingere il dubstep sound verso la techno. Gli attori di tale mutazione, guarda caso, coincidevano con i produttori più inventivi della scena: come Martyn, che fece del suo primo album Great Lenghts uno dei primi esempi compiuti verso le nuove frontiere techstep (rendendo benissimo il fascino di stare a cavallo sul confine, vedi right?star! o Elden St.), 2562 (il suo Unbalance - sempre 2009 - era una gran bella collezione di sapori technoidi, Dinosaur fu la hit più versatile ma c’erano anche Superflight e Escape Velocity) o Falty DL (che finì per esprimere la sua inventiva su Planet Mu in Love Is A Liability, lungo orizzonti un filo più astratti ma anche pezzi di salda matrice techno come Truth o Human Meadow). Quando nel 2010 tornò su album Scuba con Triangulation, non fece altro che ufficializzare una svolta in atto già da tempo: il varco oltre i confini dubstep passava obbligatoriamente per territori più liberi e mentalmente aperti, e arrivare alle durezze di Heavy Machinery o On Deck sembrava essere l’opzione più promettente. 15


Oggi possiamo dire che il ventaglio di possibilità è ampio abbastanza da garantire versatilità su più fronti, tra soulstep, future garage, deep bass e persino imbastardimenti hardcore. Ma resta forte la presenza di artisti un tempo pienamente immersi nel fermento dubstep e ora presi a reinventarsi sulle potenzialità della techno: quest’anno una tappa fondamentale l’ha segnata Pinch col suo FabricLive.61, dando continuità alla svolta personale intrapresa dopo Croydon House e finendo per inaugurare un’alleanza con le dinamiche clubbing più spinte (un pezzo come Swims della coppia Boddika-Joy Orbison lascia poco spazio a dubbi). Quella a cui stiamo assistendo è una nuova ondata di fascinazione techno, e trattasi non di revisionismo ma della rinnovata consapevolezza di avere tra le mani una possibilità espressiva da sempre fertile, ricca di margini di innovazione e libertà di sperimentazione. Lì fuori c’è un manipolo di giovani scalmanati che han voglia di liberarsi dalle redini e scelgono di abbandonare lo schema dubstep guadagnandosi il plauso della scena. Tra i nomi più freschi e hot del momento si segnalano Blawan (passato in soli due anni dagli esordi votati agli spazi di Fram e Iddy a una fragorosa bomba a orologeria come Why They Hide Their Bodies Under My Garage?), Pariah (esordito al’insegna del post-dubstep con Safehouses e poi sfociato di colpo nella hard techno dentro il progetto Karenn, sorprendendoci di persona anche sulla performance live) e Midland (capace di perle UK bass come Bring Joy ma sempre più affascinato dalle teorie tech-house espresse in Placement o Shelter). E a questi si aggiunge un’altra categoria di ragazzi, capitati in questi stessi ambiti senza l’intenzione precisa ma spinti dalla propria inventiva, affascinati dal dubstep ma trascinati in maniera spontanea verso lidi dance più marcati, per il solo piacere di spezzare lo schema: su tutti due nomi di cui vi avevamo già parlato, entrambi da tenere d’occhio scuba

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con grande attenzione nei prossimi mesi, Duct (orientato al post-dubstep ma capace di dj-set sorprendentemente energici) e George FitzGerald (teoricamente uno scienziato del suono UK step di scuola Hotflush, ma l’avete sentita Child?). Il personaggio più interessante però è quello sul quale ci concentriamo oggi: con 4 anni e una ventina di uscite brevi alle spalle, fondatore di un’etichetta ormai pienamente affermata nell’aristocrazia UK bass, Untold è una miccia accesa prossima al boato.

U nto ld : T r av e l l i n g i n Dy n a m i c E n v ironments Jack Dunning è salito alla ribalta in tempi relativamente recenti sotto l’alias Untold, eppure gli son bastate poche semplici mosse per catturare in breve tempo l’attenzione degli addetti al settore. Viene fuori nel 2008, quando fonda la Hemlock Recordings e inizia ad affrontare le produzioni dubstep ispirato soprattutto da una personale ricerca delle suggestioni. Già nel 2009 i riflettori son puntati su di lui, Mary Anne Hobbs lo cita come uno dei giovani da tenere d’occhio e i suoi podcast son pubblicati nelle home page di riviste specializzate come FactMag e XLR8R. Stilisticamente, il ragazzo non è mai stato fermo un attimo. Partito come esploratore di oscurità e disturbi sonori, i primi singoli come Discipline e Yukon trovano feeling nella materia dubstep, inteso qui come metrica degli spazi, una piattaforma in cui è ancora possibile sperimentare certe profondità. Presto il ragazzo mostrerà un’inequivocabile bisogno di mobilità, un sound inquieto che non vuole fermarsi alla proposizione di uno schema (come in Kingdom) ma sente il bisogno di allargare le maglie espressive. Una spinta che lo porterà alla corte della Hotflush, dove Untold si reinventerà con un paio di mosse future garage come Sweat/Dante e, più tardi, la notevole Just For You, uno schizzo selvaggio di velocità e grinta che rimanda a certa speed garage UK. La dichiarazione d’intenti arriva con l’EP Gonna Work Out Fine, tutti pezzi che iniziano a mostrare la vicinanza alla pista (Never Went Away, Palamino) più una Stop What You’re Doing di vera cattiveria UK bass che riceverà anche il bel remix di James Blake. Poi un paio di collaborazioni di lusso (Myth incrocia con Roska la questione funky, Beacon torna a indagare gli spazi con gli LV) e altri due pezzi inclassificabili e affilatissimi come Stereo Freeze (su R&S, eredità technoide, contorni acidi e indole aggressiva) e Anaconda (l’assenza di schema sfocia nell’autismo ritmico, una struttura inafferrabile che mette a disagio). Quest’anno la svolta estetica si esplicita definitivamente con l’EP in tre parti Change in a Dynamic Environment, sei tracce aperte verso ulteriori nuove indagini: Motion The Dance improvvisa indagini space su cassa in quattro, Overdrive esplora i movimenti del continuum per scendere negli inferi della bass music, Caslon aumenta grinta e velocità, Breathe elimina le distrazioni e si getta in pista... il dinamismo è il motore della fase attuale, unito a una capacità di entrare sottopelle che fa aumentare l’aspettativa verso il formato album. È la techno il nuovo campo di battaglia per dar sfogo all’inventiva. Lo è sempre stato, ma negli anni diverse sirene - hardcore, garage, bubbling, grime, dubstep, funky e via dicendo - hanno distratto la scena, seppur con risultati a tratti esaltanti. Ora un po’ tutte le alternative stanno assumendo forme strutturate e “popolari” (non solo il brostep, anche le derive post- di SBTRKT, 17


Sepalcure e Phon.o), le ipotesi minimal e techno dub sembrano aver esaurito il ventaglio espressivo e l’incrocio techno-bass resta l’unica possibilità per mandare avanti l’istinto alla sperimentazione. Nell’intervista in calce Untold ci conferma tutto: la migrazione verso la techno è una realtà diffusa, segno che sono ancora molti gli artisti che non vogliono accontentarsi. Qual è il concept dietro la serie Change in a Dynamic Environment? L’EP fa riferimento a strutture e suoni che erano diffusi prevalentemente nello UK hardcore e nella jungle. Ogni traccia ha determinati “movimenti” e mood intrecciati insieme, per evitare di ripetere la stessa idea per tutta la durata. Ascoltando alcune delle tracce fondamentali dei primi ‘90 (per esempio Dub War dei Dance Conspiracy) le ho trovate molto più dinamiche nella struttura di tanta dance moderna, e ho voluto sperimentarci su. Dopo diversi anni a produrre dubstep & bass music, ora sembri più focalizzato sul sound techno. E non sei il solo: da Pinch a Blawan, Pariah e anche DFRNT, con cui abbiamo parlato di recente. Come interpreti questo trend diffuso verso la techno? Forse il dubstep è divenuto uno stile troppo “definito”, con meno segreti rispetto a prima? Mi piace quando parli di “meno segreti”. Ho sempre approcciato il dubstep come una piattaforma con pochissime regole definite, più come tempo e spazio per la sperimentazione. Mi è dispiaciuto che il sound sia diventato così strutturato, e che sia arrivto un nuovo pubblico che si aspetta uno specifico modello stilistico. La techno è l’ambiente naturale per i producers underground innamorati delle basse frequenze. È un territorio ben preiso e stabilito, e con così tante idee già coperte la sfida è produrre qualcosa di originale. Penso che gran parte della “nuova onda” di produttori stia riscoprendo le regole della techno e stia decidendo quali rispettare e quali spezzare. Techno e la bass music hanno ancora diversi gradi di libertà e possono produrre ancora roba eccitante e densa d’emozione. È questo il posto migliore per i producers ambiziosi di oggi? La cosa che dà più soddisfazione a un producer ambizioso è la libertà di creare musica originale e libera da catene. Dubstep, bass music, techno sono le piattaforme dove queste composizioni possono essere sentite in loco, e gli stili individuali dei dj set forniscono il percorso narrativo. Negli ultimi 5 anni hai prodotto una grande varietà di pezzi: sempre vicino a dubstep, bass, garage, house, techno... cosa ti spinge a inseguire diverse direzioni invece che focalizzarsi su uno stile specifico? È una grazia e una maledizione allo stesso tempo, ma il mio sound continuerà ad evolversi di disco in disco. Sarebbe molto più semplice diventare il classico produttore in serei di uno stile specifico, ma mi annoio molto facilmente, oppure scopro musica nuova (o vecchia) che mi ispira e che voglio incorporare nei miei pezzi. Al momento ti senti più un producer dance o uno orientato all’ascolto? Al momento sto scrivendo pezzi che dovrebbero essere lanciati in pista. Non esattamente dj tools, ma comunque lo scopo principale è far muovere la gente. Detto questo, nell’ultimo mi son ritrovato in realtà a esplorare composizioni più adatte all’ascolto casalingo. Quali sono le tue tracce più importanti? Quali ti rappresenterebbero meglio verso chi non ti conosce ancora? Penso che i pezzi-chiave che ho rilasciato sono Test Signal, Anaconda (su 18


Hessle Audio), Stereo Freeze (su R&S) e Motion the Dance (su Hemlock Recordings). Qualsiasi traccia tra queste rappresenta una buona presentazione del mio sound. In che direzione senti di muoverti adesso? Divento sempre più misterioso e tracky. Quali sono i tuoi producers preferiti al momento? C’è qualcuno con cui preferiresti collaborare? Non sto cercando collaborazioni al momento. I producers con cui mi senti più in sintonia oggi sono Blawan, Surgeon, Kowton, Joe, Sei A, Paul Mac, Randomer, ecc. Come sono i tuoi dj-set oggi? Martellanti e abrasivi, pochissima melodia, conditi sempre da sorprese bizzarre. Stai pensando a fare un album? O trovi che il formato breve sia più adatto alle tue esigenze di ricerca? Sì, un album è in cantiere. È ora il momento giusto. untold

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Spiritu Testo: Federico Pevere 20


ualized Let it come down, We Spiritualized

L’avventura di Jason Pierce come operaio debordante d’incubi negli Spacemen 3 prima, e come droga innamorata di tutto poi, nella sua creatura più splendente e auto indulgente: signore e signori, gli Spiritualized L a d i sta n z a e n o n p i ù l’a b b a nd o n o Non c’era bisogno dell’altro, alle volte succede. Ci si ritrova impigliati nel rumore, nello sfondo che annebbia quando si è giovinastri e poi ci si abbandona senza capirsi. Sulle rive dei Novanta. Così succede a due giovani maestri inglesi, Pete Kember e Jason Pierce, il primo dallo sguardo e i pensieri ruvidi, il secondo nascosto dietro un occhio assonnato ma furbissimo. Siamo a Rugby, l’Inghilterra dimenticata dagli inglesi, e si decide di separarsi. Tutto è allo sfascio, crollano quegli Spacemen 3 capaci di sommergere di suoni e intuizioni i monocromatismi inespressivi della realtà: le Falklands, le colpe della Tatcher, gli acidi, un mondo che va a rotoli, coscienzioso nel suo urlare sfatto. Il sogno tramonta col dividersi di due anime diametralmente opposte e così, tra i rinominati Sonic Boom (Kember) e J. Spaceman (Pierce), cala il gelo. Un’asprezza che si rinforza negli anni (si legga a tal proposito il monografico e l’intervista rilasciata a SA da un particolarmente aggressivo Kember) tra accuse rivolte a Pierce di produrre “una pap21


pa anestetizzante di rime scontate” e, a fare da contraltare, i pierciani silenzi che, almeno loro, ricuciono sul presente dei nostri le due direzioni intraprese e rispettivamente mal digerite: più estremizzante e debordante quella di Kember, più riflessiva ed estetizzante quella di Pierce. Sullo sfondo le diverse interpretazioni sul come rimodellare il rumore, un perenne rinfacciarsi le peggio cose che racconta della vita. E così Recurring degli Spacemen 3 saluta con la manina tremante l’acerbo Lazer Guided Melodies (Dedicated, 1992, 6.8), nuovo sogno di Pierce a nome Spiritualized. In una frase: ciò che conta è la sfumatura, il resto va solo raccontato. Lo pubblica la sagace Dedicated, è il 1992, e sull’astronave salgono Mark Refoy (chitarra), Willie B. Carruthers (basso), John Mattock (batteria) e Kate Radley (tastiere). Il disco è suddiviso in quattro movimenti, il tutto avvolto dalle forme confuse e quasi extraterrestri raffigurate in copertina e poi inamidate in quei suoni - a prima vista sinfonici, poi rivelatori di qualsiasi cosa, figurarsi se umani - che diventeranno il marchio di fabbrica. Ottuso sì, ma così magnificente e accurato da lambire la perfezione. L’attacco di I Know it’s true è fiaba pura dalla trama così delicata e adolescenziale da risultare amabile e disturbante allo stesso tempo, come quasi sempre accade nell’universo pierciano; If I Were With Her Now dà dinamicità al peccato, disegnando una trama dai contorni che si credono lustrati, quasi accoglienti, ma anche affogati in un climax da memorie dal sottosuolo; I Want You è figlio della Manchester anni Ottanta, degli Stone Roses sotto sedativi (forse negli anni dieci..): l’originalità sarà altra cosa; Shine a Light è il primo capolavoro dell’epopea Spiritualized, un bacio jazz colpito con forza, increspature velatamente rumoristiche e poi la voce, eterea, e, per appena un attimo, fiduciosa. Ha inizio l’eterna lotta tra il predicatore e il peccatore, la medesima persona dalle due anime. Il distacco è compiuto, la sintesi tra le asprezze spacemaniane e la penna da libro Cuore di un Pierce rinato è lontana. Kember se la ride, augurando disastri per tutto il decennio, ma lo spazio ritrovato e il cuore a brandelli ridarà forza al talento. L’epopea Spritualized è un animale esagitato, questo è chiaro fin dall’inizio. La genesi di Pure Phase (Dedicated/Arista, 1995, 7.4) lo conferma, tra i continui cambi di line-up. A reggere il tutto, la luminosità del trio composto da Pierce, dalla femme Kate Radley e dal prode Sean Cook, oltre a certi contributi invincibili (The Balanescu Quartet) e alle indecisioni sulla strada da seguire testimoniate anche dal provvisorio cambiamento di nome in Spiritualized Electric Mainline. L’iniziale Medication racchiude tutto ciò che ci si aspetta dalla nuova creatura pierciana: fiumi di theremin ed eclissi di chitarre - così, per rassicurarci e costringerci all’indefinizione (Everyday I wake up, and I take my medication, and I spend the rest of the day, waiting for it to wear off) - pronti a scemare nei cieli stellati di una The Slide Song dai toni già riappacificati (lobotomizzati?) o nei frame fuori sincrono di una All Of My Tears sospesa tra respiri all’oppio e sensazioni Balanescu a divagare sul tema principe. Lo straniamento, l’indefinibilità appunto. Un’indagine che non ha nulla a che vedere con la stasi - d’intenti, s’intende - kemberiana. Inattaccabile, se non dalle droghe a cui ci si rivolge indirettamente. Le sensazioni e le vite sono fili che raccontano vuoti depressurizzati finalizzati al racconto e in bilico tra una vena e l’altra, tra un’aspirata e l’altra. And it hits me, takes me home ;I don’t know where I’m goin’ ;And I don’t know where I’ve been ;But I’d do it all again ;All I wanted was a taste ;Enough to waste a daysi canta in Let It Flow, spenta litania dalle immagini fluttuanti eppure orripilanti (forse il 22


peggior video degli anni novanta tutti). Non mancano le cover, una presa in casa e non esaltante (una These Blues che arriva dal passato arrembante del calderone Spacemen 3 - “per non parlare delle loro cover degli Spacemen 3, semplicemente imbarazzanti”, dirà ancora Kember), l’altra da mozzare il fiato, (Born Never Asked di Laurie Anderson, resa ancora più scarna, limpida) e appena dopo, nell’attesa riluttante di Electric Mainline, un viaggio immobile e impressionista, senza coda né centro. Da sottolineare poi la circolarità di Lay Back In The Sun, apprendistato immagnifico su cui si costruirà l’affresco di Let It Come Down. Un consiglio, come auspica Pierce fra le note di copertina: play loud ‘n’ drive fast.

Via i l do lo r e Il grande botto non era preannunciato, non era preventivabile. Questo è certo. Come la fine di una storia d’amore. La responsabilità per quel capolavoro assoluto che è Ladies And Gentleman We Are Floating In Space (Dedicated/ Arista, 1997, 8.8) è riconducibile all’affamata Kate Radley, compagna di vita e di suoni di Pierce. Alle soglie del 1997 Kate si abbandona fra le braccia del bel tenebroso - o meglio, bel famoso - Richard Ashcroft e a Pierce rimane solo la sua voce angelica, telefonicamente dissoluta, che ci introduce nel pezzo eponimo. Tra le lacrime di piccoli sospiri che via via prendono coraggio, c’è un evolversi di echi e rovesci orchestrali/spaziali - scegliete voi -, quasi penosi, così innamorati nel pretendere il proprio amore. Il controcanto di Pierce sul finale si fa dissonante eppure melodico, invasivo e fondamentale. C’è voglia di rivincita, di immergersi nell’amore combattendolo. Si prende fiato e a rifiorire sono i riflessi umani protesi verso il futuro, combattimenti trasversali. Si sommerge tutto, si finisce con un trillo. Un fischio a nome Come Together, proto punk in chiesa. E tutti chini nel muovere le teste, solo 23


se avvertiti dal mantra vociante di un Pierce in odor di santità dopo appena una decina di minuti. Nessuna controindicazione, perché qui si riscopre un mondo frastagliato nei colori semplici e nelle parole. E’ pastiglia - lo splendido artwork ricalca la confezione di un medicinale - che non combatte il disagio, ma lo alimenta, rimodellandolo in qualcosa di simile alla speranza, per lo meno negli odori, nelle atmosfere e nel clima. Pierce, qui come ovunque e successivamente, prima di arrivare alla mente ti stupisce con i suoi pensieri così sventolati, a prima vista così innocui. C’è dell’innocenza evidentemente non traducibile in musica (lì ci si sfoga, i think i can rock’n roll, probably just twisting), c’è la remissività del Drogo di Buzzati e dei suoi pensieri ai confini del mondo. Un Drogo tossico, sia chiaro, investito dal mondo che si è lasciato alle spalle, devoto e schifato, contradditorio sempre. Tutto semplice, tutto vero, siamo inghiottiti comunque. Affidiamoci allora allo sfondo kraut di I Think I’m In Love e raccontiamo la filastrocca di un deserto che vive di promesse. Si materializza uno dei refrain più incisivi della storia della musica: “Penso che tu sia la ragazza dei miei sogni”, dice. Tutto è predisposto per queste sentenze devastanti e quasi ironiche nel raccontare l’aridità dei pensieri. I fiati a preparare le sciabolate interiori di Pierce, un’armonica che stimola e sconvolge, la chitarra ovattata a rendere tutto questo terribile gioco terribilmente vero. All Of My Thoughts si riprende il paradiso, piccolo lampo su un passato deciso ad emergere in un compendio sonoro dai tratti esaltanti, fra bordate brucianti e deliziosi passaggi nel fango soulgaze. L’oasi metafisica, quasi beneagurante, di Stay With Me, nonostante la cascata arpeggiata di un finale che sa di ricostruzione definitiva di quel suono floydiano che sembra emergere ovunque, la scarica primordiale di Electricity o il dialogo dimesso nel rumore (Come on vs. What you needed). E poi il buio di The Individual, uno dei picchi di Ladies And Gentleman We Are 24


Floating In Space, col suo lamento free liberatutti incastrato da una linea di basso rigida che indica la via, fra gli incubi che si sa, prima o poi riemergono; la carezza fatta canzone, la melodia affogata nella trasfigurazione di Broken Heart, melodramma in salsa cassavetessiana, duro e puro, putrido nella sua vorace eleganza, nella sua bianca veridicità, nel suo essere sgranato come le vite e i pensieri sacrificati. E’ il riscatto - sono troppo impegnato per essere abbattuto - e la speranza, è l’arrangiamento per orchestra definitivo con i suoi saliscendi infiniti che altro non sono se non una trasfigurazione emozionale fatta di sospiri infernali fra archetti che ansimano a tempo. No God Only Religion è una frustrata libera da tutto, da omicidi e lente devozioni, pensieri ormai disidratati e botte sulla pelle dell’amore. La successiva Cool Waves può essere riassunta dall’immensa verità di una frase avvolta in quella copertina così spudoratamente gospel da lambire l’infinito, “se devi andare devi andare”. Andiamocene verso l’attesa del gran finale, che sia morte, paradiso, o amore, con qualche luce magari. Cop Shoot Cop è un rimbalzare fra lunghe tiritere quasi svogliate, da pianobar per sole puttane, e gli ammicchi al blues più malato. Si sopravvive in questa amalgama devastante, onnivora e sorprendente, invasiva e pragmatica, così limpida da comprendere vita e morte di chiunque ci si rispecchi. Per l’amore e tutte le sue maledette declinazioni. Liberatosi dall’intransigenza del passato Pierce ci regala il suo capolavoro. La verità, ti prego, dopo l’esplosione Let It Come Down (Arista, 2001, 7.6) è album sottovalutato, eppure uno dei più sorprendenti degli Spiritualized. Dopo l’abbuffata anti-emotiva, o meglio, il ritratto emozionale dell’indifferenza impersonato grandiosamente da Ladies And Gentleman We Are Floating In Space, Pierce si concentra sullo sfondo, un cielo polveroso dove i colori che compongono la tavolozza si fondono con il fuoco, l’ardore dell’anima e lo spegnimento degli eccessi - sonori e vitali - che l’hanno preceduto. L’inizio ondeggiante di On Fire - musica per le vene, da battiti, che si tramuta in un gospel color seppia - è l’impalcatura su cui Pierce costruirà il suo suono: dalle sottigliezze pop di Do It All Over Again alla remissività convulsa eppure riappacificata che circonda la vita (musicale e non) del Nostro in quegli anni di passaggio (una Don’t Just Do Something dal finale narcoticamente natalizio), per finire ancora risucchiati dall’apice assoluto di Out Of Sight. In una frase, il pilastro della sua cattedrale discografica. Perché la bellezza va descritta minuziosamente nel racconto freddo e sincero delle strofe, l’architrave sonora che spezza il tutto prima di salire sullo spazio e toccarlo, rapirlo con precisione, salvaguardando i nostri sguardi, “out of sight is always out of mind”. L’altare e la cripta, con gli archi disordinati e sottopelle e l’alchimia di un vociare gospel e malefico che si fa cantilena in odor di salmo: “life is really what you make it they say; can’t even make my mind up today”. Dalle stelle a cosa, si chiede Pierce in conclusione? A tutto. Soprassedendo sulla lezioncina rock di The Twelve Steps e la strizzatina d’occhio fuori tempo pop di The Straight And The Narrow - o il passo falso di Stop Your Crying -, si viene infine schiaffeggiati dalle meraviglie di una I Didn’t Mean To Hurt You che assale il tramonto dei cuori, tra orde di archi e buffetti pizzicati da una voce quasi spezzettata, pronta al peggio e rassegnata. Un pugnale inaspettato, un wall of sound invincibile e necessario. Pierce si sente forte all’alba del nuovo millennio, almeno quanto si sentirà confuso a livello creativo negli anni a venire. L’assalto robotizzato di This Little Life Of Mine - e il suo finale da battimano con siringa - ci accoglie fra le grinfie soniche di un Amazing Grace (Dedicated/Arista7.2) che segna l’ultima collaborazione con la Dedicated prima del 25


passaggio alla Sanctuary (2004). Un capitolo che le note stampa del disco dipingono come un ritorno alle origini spacemaniane (disco di garage rock che va dritto al punto - d’altronde poche righe sopra si parla di confusione..) e che in realtà si rivela una raccolta di canzoni quasi disinteressate, per la prima volta non legate da un’idea comune. E’ l’inizio del buio emotivo e creativo di Pierce. Assaggiamo rivalsa e straniamento, ci perdiamo nella normalità strutturale ed emotiva di queste nuove composizioni. Amazing Grace è istintivo e naturale, vero nella sua nera immediatezza. Non mancano le nuvole, pregevolissime seppur di maniera (She Kissed Me(It Felt Like A Hit) e Never Goin’ Back), e gli episodi a prima vista più assonnati (la dimessa Hold On, in cui Dylan indaga un rumore bianco appena accennato) riemergono come meraviglie nel jazz squartato di The Power and The Glory. I coretti ironici di Lord Let It Rain On Me diventeranno quasi singalong durante i live, come la perfezione formale di una The Ballad Of Richie Lee strascicata e sofferente quanto insegnerebbe un Neil Young invasato dal soul o coverizzato dai The Go Betweens più robotici. Si tratta di simmetria nell’armonia, quasi di meccanicità nelle melodie. C’è l’odore pinkfloydiano e c’è la spudoratezza nelle imitazioni delle origini del Nostro. E quindi, nonostante l’indifendibile pochezza di pezzi come la vaporosa Lay It Down Slow e l’inutilmente roboante Cheapster, Pierce risolleva la sua creatura dall’anticamera della desolazione e del declino fisiologico raccontando lo spaesamento di una vita intera. E’Oh Baby - assieme alle già citate Out Of Sight e I Think I’m In Love - a completare il trittico del dubbio e della bellezza pierciane. Un’elegia che striscia su veli sintetizzati dall’harmonium e sul nero di una voce che si fa solo all’inizio supplicante, per poi reinventarsi tra le nebbie di una chitarra che emerge grazie a pochi tocchi leggeri. E’ un’esplosione unica, primordiale, l’inizio al contrario della propria anima musicale. L’origine alla fine. Qualcosa di unico in poco più di quattro minuti, perché la vita stessa si racchiude nella brevità e nell’urlo di pochi momenti. In fin dei conti l’album meno riuscito/appariscente dell’epopea Spiritualized, ed è tutto dire vista la qualità del lavoro. Mi è dolce ora raccontare Le origini di un ritorno innanzitutto, la necessità di Songs in A&E (Universal/ Sanctuary, 2008, 6.5), le storie che nasconde. Jason Pierce nel 2005 viene ricoverato al Royal London Hospital in seguito ad una polmonite che quasi lo stronca. Sono mesi infiniti, devastanti. Come vorrebbe la leggenda e in realtà non è, la maggior parte delle canzoni non vengono scritte durante la lunga permanenza al reparto Accident And Emergency Ward (da cui il titolo dell’album), ma ben prima e quindi non sono figlie dirette di quella lunga degenza. Il risultato? Un album pacato, riappacificato, decisamente terreno, a spaziare ovunque, dal rock & roll al soul, tra grandi ispirazioni armoniche (Soul On Fire, il devastante singolo da top 40 che mancava a Pierce da dieci anni) e piccole cuciture laddove l’ispirazione perde colpi (l’inutilmente ammiccante Sitting Of Fire). Il picco emozionale è rappresentato da Death Take Your Fiddle, con il suo attacco “think I’ll drink myself into a coma”, e subito dopo in Am E7 (fare attenzione ai titoli degli album, nascondono insidie), And I’ll take every way out I can find, il tutto accompagnato da un tessuto blues, leggero e devastante, tra file di fiati e parole che sanno di purezza. Menzione speciale per Waves Crash In - lieve e solare marcescenza in forma di ninna nanna - e per You Lie You Cheat. Ispirato solo a tratti, come un comune ritorno al mondo. Lasciamolo ambientarsi. Un ulteriore passo indietro rispetto ad Amazing Grace. 26


L a s i n t es i d i u n v e n t e n n i o f r a i n t e nd ibile Sweet Light Sweet Heart (Fat Possum Reciords, 2012, 7.6) non si ostina, come tutti vogliono far credere, a raccontare di rinascite, ma vuole solo smussare gli angoli rimodellare la propria scultura, per riscoprirsi, magari, migliore. L’ultimo album degli Spiritualized si rivela come la carezza definitiva su tutta la produzione precedente, una sorta di rielaborazione, un tirare le somme. Un best of di tutte le influenze stilistiche (la pelle soul e la pastiglia psych, l’acidità pop e tutta l’aridità di cui è fatta un’anima) a delineare i contorni di un secondo amore, dopo un decennio di poco fruttuosa convivenza. Non c’è nulla del mestierante, c’è solo un’ispirazione rara che rinasce dai propri errori. E’ vero, Hey Jane è un esercizio di stile che vive di solo passato e fa il verso, rispettivamente, a Sweet Jane dei The Velvet Underground e a Hey Jude dei The Beatles. Allo stesso tempo però dimostra una freschezza che pochi si aspettavano, coltellata kraut di desideri e rincorse. E che dire dell’attacco mozzafiato di Little Girl o della favoletta pop di Too Late a introdurre l’arrampicata wave di Headin’ For The Top Now? Quest’ultima l’apoteosi della carne e del movimento, un vortice infinito in cui affogare la voce dimessa e quasi sorridente di un Pierce a suo agio con i demoni. C’è l’insistenza di una Get What You Deserve che fa della partitura orchestrale un’arma precoce e c’è il riempitivo di turno (Freedom). A concludere il tutto, la perfezione formale di So Long You Pretty Things, così fluida tra i sussurri di un Pierce quasi pacificato, così rotondo e per nulla spregiudicato nel raccontare con pochi tocchi, quasi con semplicità, la mestizia di quell’apocalisse. Si chiama in causa di nuovo Gesù, ma ci si prende in giro tra le nostre piccoli anime, magari, alle volte torturandole. Per sempre, si raccomanda Pierce. Se c’è luce nella musica, si tratta solo di un colore, poco altro. Conta la sfumatura e Pierce l’ha colta. In bilico, soppesando parole e rielaborando continuamente il resto, compresi i giudizi altrui.

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Recensioni novembre

1400 Point De Suture - Baisse Les Yeux (et mon cul c est du tofu, Settembre 2012) Genere: black hardcore E’ un disco di ferocia assoluta questo nuovo lavoro dei 1400 Point De Suture, band francese composta da otto elementi tra cui spiccano i nomi di Seb Normal (Feeling Of Love) e Cheb Samir (Capputtini ‘i Lignu, Intellectuals etc etc), stampato per un’ensemble di etichette perlopiù sconosciute come Noway boycott, Et mon cul c’est du tofu, Commence Par Maman, Label Brique e Roue Libre. L’artwork infame e il titolo intimidatorio (Baisse Les Yeux, abbassa gli occhi) sono la giusta premessa del contenuto: i 1400 Point De Suture sparano una raffica di cartucce hardcore, grind e noise a metà strada tra i Napalm Death e i Flipper, forse con ancor più passione per il maligno. A ogni modo paragoni a parte, la cosa interessante è che il disco ha sia testa che muscoli, sia struttura che effetto: grande attenzione è riposta nel gioco pieno/vuoto, il cantato growl (in certi frangenti davvero animalesco) è funzionale alla composizione, mentre i synth inscenano un’apocalisse per niente tronfia. Il resto? Sferragliate hc vomitate con violenza compulsiva, e visite guidate in qualche girone infernale per anime torturate. Ne risulta un lavoro più stimolante e cruento di tanta roba ultra-death-grind-core, oltre che più eterogeneo. Per i seguaci delle tenebre e per gli appassionati dell’estremo dovrebbe essere oro colato. E uno dei dischi dell’anno. (7.3/10) Stefano Gaz

— cd&lp

4 Axid Butchers - Villa Gasulì (4 Warded Music, Novembre 2012) Genere: alternative rock Bresciani trapiantati a Berlino, in perpetua attività live (sono arrivati persino in Sudafrica) e giunti con questo Villa Gasulì al sesto disco (fra live e studio), i 4 Axid Butchers hanno l’ambizioso intento di scardinare i canoni della tradizione nostrana per internazionalizzare al massimo il loro sound, con un piglio che vorrebbe ammiccare alla Madchester degli Stone Roses e degli Happy Mondays e qualche stravaganza di troppo. Si capisce fin da subito che, nonostante la produzione 28

impeccabile e idee valide che portano alle estreme conseguenze i riff intensi e selvaggi delle chitarre, l’habitat più congeniale ai quattro è il live. Lo si intuisce dai cori tirati di Gasulì - un brano che ricorda, per alcuni versi, la cattiveria dei RATM -, dall’ossessività ritmata di Let It Burn (che richiama alla mente qualche guizzo dei Primal Scream), dalle atmosfere sognanti e ipnotiche di My Free Country e Aster, rituali quasi propiziatori di un possibile incrocio fra Incubus e Doors. Non giustificati, fino a prova contraria, la cavalcata in levare di A Globetrotter’s Song (tanto reggae da stonare col resto) e la ballata in lingua El zogadur (che fra la tradizione linguistica e i Radiohead ce ne passano pure troppe..). Ruvidi, selvaggi, ruspanti, per nulla banali, i 4 Axid Butchers riescono meglio quando non pretendono troppo dalla trasversalità dei generi e si concentrano sulla semplicità. Una semplicità che, a volte, è sinonimo di genialità. (6.2/10) Nino Ciglio

Abulico - Il colore dei pensieri (Materia Principale, Novembre 2012) Genere: pop Degli Abulico parlammo nel 2009 in occasione dell’uscita del loro esordio Behind. Allora li si definiva un’entità in bilico tra Radiohead prima maniera e certo post-rock ormai istituzionalizzato, oltre che una band capace di una musica dal buon impatto. Il cambio di rotta più evidente in questo Il colore dei pensieri è dato dai testi in italiano e non siamo sicuri che la scelta abbia giovato alla band. Infatti, se il suono in generale, pur mantenendo elementi di contatto con le istanze post-rock (La purezza del silenzio e in generale scelte formali che ne richiamano l’estetica), continua ad essere materia ricca di stimoli, le melodie al contrario virano verso un pop ad ampio spettro forse meno originale rispetto a quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Materiale con una buona presa ma coscientemente alla ricerca del crescendo ad effetto, delle saturazioni corpose, dell’arpeggio un po’ ruffiano. Nulla di tragico, in effetti, soprattutto perché a sostegno c’è una produzione comunque curata (tra gli strumenti,


Andy Stott - Luxury Problems (Modern Love, Ottobre 2012) Genere: Deep soul Condensare un immaginario di lunga tradizione brit che va dai Cocteau Twins ai Dead Can Dance, via Massive Attack e Everything But The Girl e iniettarlo in un tappeto di scursissimi ritmi groove, techno e deep tenendosi saldo attorno ai 100bpm, può essere un’impresa facilissima o difficilissma. Easy il copia incolla, complicato creare un immaginario credibile e coerente agganciandolo a un percorso già di culto e fama. Dopo gli acclamati eppì Passed Me By e We Stay Together, accolti benissimo un po’ ovunque - dalla madrepatria, agli USA, al nostro Paese -, il mancuniano Andy Stott, artista chiave della Modern Love, è chiamato a un allontanmento dai sensi unici della Berlino di lungo corso, in una direzione fertilissima legata al soul singing (paralleli alla lontana con l’Untrue buraliano e confronto diretto con il James Blake omonimo). Il singolo Numb, rilasciato lo scorso settembre, pareva infatti indicare un lavoro concentrato sulle voci e lo spazio, sempre all’interno di un frame che ben accoglie l’ormai caratteristica (e catacombale) cassa anthemica. E così è, salvo il colpo di coda di un producer che non lascia sguarnito nessun aspetto, nemmeno la già autoriale vena concreta, forgiando in tal modo un album assolutamente inattaccabile e per molti aspetti una vera rivelazione. Luxury Problems, masterizzato nei leggendari Air Studios londinesi (e quindi con dei compressori sui bassi capaci di bucarvi il pavimento) da un Matt Colton già al lavoro con James Blake (appunto), è una gioia anche solo per i sette minuti di doom ambient di Expecting. Un brano che da solo potrebbe esaltare qualsiasi cultore dei catalogi più scuri dell’industrial britannica fino a Demdike Stare e naturalmente alla coda post-Witch della Tri Angle. Questo è un disco, si diceva, di smalti e fascinazioni vocali bianchissime, tutte di Alison Skidmore, l’insegnante di piano di Stott che lui, romanzando, dice di non vedere da quando aveva sedici anni. Una fuori dalle scene e dal mondo delle produzioni musicali che nel mix apparecchiato dal producer diventa un’austera Sade o, meglio, una Laurel Halo di sostanza. Ascoltatela nella traccia omonima Luxury Problems (con tanti saluti a Nina Kravitz), nel picco assoluto che è Lost And Found o nell’unico brano vicino al pop che è Hatch The Plan: avvolgente, austera, gotica, disadorna, ma con i punti giusti perfettamente illuminati. Gli stessi che emergono nella enjana - o meglio badalamentiana - Leaving, finale lynchiano a sugellare il trionfo dell’Andy Stott produttore e autore, antitesi - lo possiamo dire forte - dell’angelico Blake. Con il pregio non indifferente di un disco che non mortificherà i cultori dei beat. Curioso, a tal proposito, un brano come Up The Box, che accoglie un crescendo di drumming filo Fly Lo inframezzato da un zoppicante amen break proto jungle. E’ l’unica licenza (leggi fuori programma) di un album compatto che con altri picchi - e questa volta citiamo la pura deepness di Sleepless (che si mangia vivo un altro producer, Actress) finisce dritto ai primi posti delle classifiche di fine anno. (8/10) Edoardo Bridda

anche violini e trombe), senza sbavature e a suo modo efficacie. Eppure qualche rimpianto per quel che poteva essere e non è stato, nasce. (6.4/10) Fabrizio Zampighi

Actually - Actually (, Ottobre 2012) Genere: 80’s Pop / DIY-trash Actually Huizenga oltre ad essere la dimostrazione di come internet offra visibilità a cani e porci, rappresenta bene quel contesto post-Lana Del Rey in cui anche il pop più commerciale e radiofonico può essere realizzato partendo dal basso, senza nessuna major alle spalle

(almeno inizialmente). L’obiettivo finale non è diverso da quello delle M(ainstream)TV trash-diva, ma queste web stars scrivono i propri pezzi e curano ogni aspetto della propria immagine - video compresi - in completa (o quasi) autonomia... delle Lady Gaga da cameretta. Actually Huizenga in questo senso è idealmente il ponte immaginario che dagli anni Ottanta porta al 2012: è pura pop music nascosta dietro l’estetica hip di un personaggio poliedrico, attento ad essere into a qualsiasi forma “artistica” (film, porno, compresi) in ottica DIY-bubblegum (si veda il sito ufficiale per avere un’idea). Dopo essere stata la leader di due band ipersconosciute 29


i Wet Look e gli Hard Place - esperienze che hanno portato alla realizzazione dell’album Wet Look vs Hard Place (ascoltabile su bandcamp) di due anni fa, ora Actually debutta con l’omonimo disco autoprodotto.La linea generale dell’album è quella del pop 80’s (Madonna, Cyndi Lauper ma anche una versione meno intelettuale di Kate Bush), di tanto in tanto modernizzato da influence clubby (Driving, Lady Shave) e da velleità pseudo-arty (Mine): parliamoci chiaro, Actually è come un b-movie talmente trash e mal realizzato che potrebbe anche trovare un certo tipo di seguito. Se la mettiamo però in termini di puro e sfacciato revivalismo eightiespop, raramente (neanche Patrick Wolf) si è avuto un pacchetto singolo + video fedele e inquadrato quanto Hush, la prima traccia - e probabilmente unica da tramandare - di un disco destinato a pochi e coraggiosi collezionisti di cimeli kitsch. (5.5/10) Riccardo Zagaglia

Adrian Sherwood - Survival & Resistance (On-U Sound, Agosto 2012) Genere: ambient-dub Il passato di Adrian Sherwood, assieme alle origini della sua On-U Sound, sono stati analizzati in queste pagine in un lungo speciale dedicato a Mark Stewart e all’avventura sonora dentro e fuori il Pop Group. Recentemente abbiamo incontrato il deus ex machina del dub londinese dietro all’ultimo lavoro dei redivivi New Age Steppers, in pratica un progetto tra Adrian e l’amica di lunga data Ari Up scomparsa prematuramente. Nelle vicissitudini legate a quel lavoro abbiamo trovato, inoltre, un altro amico, Adamski e Lee Scratch Perry con Hello, Hell is Very Low, ultimissima registrazione di Ari e fine di un cliclo umano e discografico. Alla fine dell’estate scorsa il percorso idealmente rinasce, con un Perry cofirmatario con gli Orb di un lavoro ad alto contenuto raggae dub e con Sherwood impegnato in questo Survival & Resistance. Un disco, quest’ultimo, che si rifà, ancora una volta, alla cultura millenarista dei rastafariani calandola in un presente che per ipocrisie e crisi economica, non ha nulla da invidiare al 1977 dei Pistols. Sherwood, Perry, Stewart, Up, sono vite legate da amicizie di lunghissima data e da frequenze radio perennemente accese sui suoni del mondo di strada più freschi e rappresentativi di vari periodi storici della cultura popolare: dal punk all’industrial, dal breakbeat alla (dub) techno. E dunque se c’è un trademark sherwoodiano, ancor prima del gioco tra sub bassi e vuoti, quello si fonda sempre su una liquida eterodossia tra post-punk, dub 30

e il dance continuum britannico. Un suono meticcio che nelle rispettive epoche fu fondamentale per PIL, Slits ma anche Primal Scream, Tricky e che oggi si configura come l’antefatto di ogni post-moderismo laptop, footwork incluso. Il nuovo album del producer, pubblicato dalla personale On-U dopo i primi due dischi incisi per la Real World di Peter Gabriel, è un lavoro che non deve rispondere a nessun appello se non quello di rappresentare alcuni scuri umori sottopelle - e conseguente bisogno d’escapismo - della common people inglese. Più che l’elettronica londinese attuale, ci senti la Bristol dei 90s, quella stessa città che vent’anni fa riconosceva nel grande Mark, bristoliano anch’esso, un mentore ideale. Balance, con ospite Adamski e Crucial Tony alla chitarra, parte con un piano pensoso, quel piano che ritrovi come strumento portante dell’intero lavoro: circondato da atmosfere loungey e dubby, tra Giamaica e Ibiza in una Starship Bahia, oppure in versione ambient-chamber in Effective e Greenleaves. We Flick the Switch vede l’ugola di Lilli in una sorta di James Bond song e U.R.Sound contiene un sample vocale dell’uomo chiave dell’LSD Timothy Leary. Diversamente dal precedente Becomin A Cliché, Survival & Resistance è un album prevalentemente strumentale sospeso tra sprazzi di sole (Bossa 2) e molte ombre (Two Semitones And A Raver). Ci ritrovi tutti i trick e la sapienza dell’Adrian Sherwood più meditabondo ma nulla per cui valga la pena di scomodare i non fan dell’uomo. (6.8/10) Edoardo Bridda

Aesop Rock - Skelethon (Rhymesayers Records, Luglio 2012) Genere: hip hop Robusti breakbeat, serpentoni di synth o fili di chitarra dal taglio prog-rockadelico, progressioni in crescendo, e sopra acidissimi i soliti assalti da maliditesta, col flow che è una specie di cascata di cubetti di pietra ghiacciata, quando la tecnica si travasa tutta in personalità e comunicativa, grip irresistibile, nelle strofe, e cantati superemo (si comincia con ZZZ Top), negli incisi. Colonna storica della Definitive Jux di El-P e dell’alt hip hop tutto, Aesop Rock è tornato. Taglio indie confermato, anche dalla presenza in due pezzi di una raggaggiante Kimya Dawson (pare che uscirà un album cointestato - a nome The Uncluded - nel 2013, titolo Hokey Fright). Non ci sono bombe dalla presa melodica alla Daylight, il suo meritatissimo hittone datato 2001, ma pezzi ugualmente bomba - proprio come impatto fisico, a scavalcare la solita cervelloticità - come Leisureforce,


Bat For Lashes - The Haunted Man (Parlophone, Ottobre 2012) Genere: art pop La pressione portata dai solidi consensi ricevuti dai predecessori Fur And Gold (2007) e Two Suns (2009) e la conseguente ansia da prestazione, la doppia nomination ai Mercury Prize, l’appellativo “the next Kate Bush” e dunque il blocco creativo, le crisi di panico e, non per ultimo, il ticchettio sempre più assordante dell’orologio biologico. Il terzo album di Bat For Lashes poteva facilmente non arrivare mai. The Haunted Man è la risposta dopo trenta mesi di gestazione, un periodo lungo, caratterizzato da scelte importanti e coraggiose ammissioni, come l’abbandono sia del glitter che dell’alter ego femme-fatale Pearl utilizzato in Two Suns. È disco di svolta questo, e lo si capisce a partire dalla cover in bianco e nero, dai tagli iconograficamente grezzi ed essenziali, agli antipodi dell’estetica tra hippie e misticismo post-moderno del recente passato. La Kahn si spoglia di naiveté in molti sensi: toglie il riverbero sulla voce, le claustrofobie patinate, e mette al centro un’intimità squisitamente pop, tenendosi ben stretta gli arrangiamenti drammatici, le percussioni marziali e le elettroniche pad. In aperta contrapposizione agli umori americaneggianti di Two Suns, The Haunted Man è un lavoro profondamente UK. Il grosso della scaletta ruota attorno alla torch song britannica, fa concept delle preoccupazioni per il lignaggio e tratta degli errori ed orrori dell’hopeless man che tendono a ripetersi lungo le generazioni inglesi (la titletrack, lo stesso album-title ne sono emblemi). Non solo: lo si nota anche nel confronto naturale e immediato con female singer anglosassoni, presenti e passate, quali Kate Bush, Annie Lennox, Florence And The Machine, Adele e i primi Goldfrapp. Il singolone Daniel del 2009 non fu ago nel pagliaio. Anche quando il songwriting cede alle tentazioni radiofoniche e ci si lascia andare in versi à la Lana Del Rey (“Holding you, I’m touching a star / Turning into a Marilyn, leaning out of your big car”, in Marylin), la Natasha Khan interprete non è mai stata così convincente, piacendoci anche in refrain prevedibili come “You’re the train that crashed my heart / You’re the glitter in the dark” (in Laura). Complice uno staff di talenti in produzione (David Kosten, Dan Carey, Beck, Adrian Utley dei Portishead, il collaboratore storico di PJ Harvey Rob Ellis), ciò che abbiamo è un set invidiabile, snello, incisivo e coinvolgente. Al contrario della Marina And The Diamonds di Electra Heart, e parallelamente all’ultima Cat Power (il cui Sun ha avuto una gestazione altrettanto travagliata), Bat For Lashes riesce a conservare autenticità ed eleganza, confermando un percorso d’eccellenza continuata che non disdegna le chart e che solo il desiderio di maternità, di cui la musicista anglopakistana non ha mai fatto mistero, pare ora in grado di arrestare. (7.3/10) Massimo Rancati

1000 O’Clock, Zero Dark Thirty, Crowns 1 (con Kimya appunto), Homemade Mummy, Saturn Missiles. La frenesia nevrotica, le analisi paranoiche eppure lucide, mai deliranti di Aesop incidono ancora. Inconciliante, non scorrevolissimo, monocorde nel senso della trattorizzazione aesoppiana delle strofe, e non per tutti, ma capace di rapire l’ascoltatore che si inoltra tra le ragnatele verbali dell’uomo. Sul Tubo trovate una ricchissima full preview del disco (in embed qui sotto) e un ampio dietro le quinte fatto di siparietti grotteschi e autoironci, con - tra le altre cose - Aesop che porta a spasso per S. Francisco Whiskers, il suo gatto morto, scarnificato sulla copertina. (7.3/10) Gabriele Marino

Andy Burrows - Company (Play It Again Sam, Ottobre 2012) Genere: cantautorato pop Andy Burrows, classe 1979 e sangue british. Figura inevitabilmente legata all’indie anni zero, Andy è stato il batterista storico dei Razorlight prima di raggiungere gli azzoppati We Are Scientists tre anni fa. Da una parte la batteria e dall’altra parte il microfono: Andy Burrows è infatti anche il cantante degli I Am Arrows - di supporto ai Muse al Wembley stadium - e seconda metà del progetto Smith & Burrows con Tom Smith degli Editors. La carriera solista è iniziata ancora ai tempi dei Razorlight con l’album The Colour of My Dreams, realizzato per aiutare l’ospedale della sua città natale. L’animo buono e la vena introspettivo-romantica delineano anche 31


il nuovo album Company pubblicato via Play It Again Sam. Con il supporto di Mark Ronson (presente tra i credits) e Andrew Wyatt, Company si presenta con le percussioni che introducono la title track, poi arricchita strato dopo strato e sempre più orechstrale lungo la sua durata. Pop ‘70s a tonalità vagamente funky in Because I Know That I Can, passaggi USA-Fm (Keep On Moving On) e la perenne ricerca di hugs-songs (Hometown) da spiaggia Lennoniana (Somebody Calls Your Name). Una proposta funzionale e leggera, ma difficilmente inquadrabile a livello di target di riferimento. Cantautorato pop-folk che scivola via lasciando poco, se non qualche isolato sbadiglio (Maybe You). In più Andy Burrows a livello vocale ed interpretativo non possiede di certo una personalità in grado di rendere l’intero contesto meno anonimo: Company risente di un eccessivo e tiepido classicismo che mostra tutti i limiti di una scrittura intelligente quanto priva di fantasia. (6/10) Riccardo Zagaglia

Anthony Phillips/Andrew Skeet - Seventh Heaven (Voiceprint, Maggio 2012) Genere: musica classica Fosse stato un disco solista, Seventh Heaven avrebbe reso più semplice il compito di chi, dovendo pronunciarsi su un album tanto intricato, non sa esattamente a chi imputare scelte definitive in fatto di composizione, arrangiamento, conduzione, produzione. La co-scrittura di questo doppio cd con l’arrangiatore Andrew Skeet - già attivo per Suede, George Micheal e Sinead O’Connor - non esaurisce di per contro il dibattito sulla rilevanza di un talento, quello di Phillips, mai completamente sdoganato dalla stampa specializzata a un pubblico di non soli cultori dei Genesis. Le cause di questa mancanza sono molteplici; in primis, la ritrosia del Nostro a lasciarsi svelare più del poco voluto. In secundis, l’assenza di un’attività concertistica, che ne penalizza fortemente la diffusione oltre il circuito dei fedelissimi al Genesis-credo. Disinteressato a questa e quella questioni, il buon Ant prosegue lento ma inesorabile in una carriera solista con punte di gran pregio ed episodi di puro mestiere, concedendo ai suoi appassionati una delle migliori prove del decennio. Lavoro che mischia ri-arrangiamenti di pezzi contenuti nell’acustico Field Day (2005), brani commissionati nel 2008 dall’Uppm e recenti inediti a quattro mani con Skeet per orchestra di 70 elementi, Seventh Heaven contiene pregi e difetti caratteristici del catalogo philippiano. Se l’incipit Credo In Cantus gioca felicemente la carta 32

di un’enfasi operistica commovente e perfettamente strutturata (grazie anche alla voce di Lucy Crowe) le perplessità emergono all’ascolto iterato dell’opera nella sua interezza. Essendo approdato alla musica Classica mediante una formazione non propriamente ‘conservatoriale’, il modus di Phillips alla composizione è un ibrido che ricorda più il Sakamoto orchestrale di Cinemage (lui pure impegolato col mondo delle colonne sonore) che la ricerca di un Dvořák o il mai abbastanza rivalutato Puccini (volendo restare nella cerchia dei Romantici). A causa della sua stessa strutturazione l’opera in analisi non può fregiarsi inoltre della continuità di una suite scritta con consequenzialità dal primo all’ultimo movimento; gli episodi dunque restano contestualizzabili solo nei pochi minuti della loro durata; un approccio, questo, in linea con quelle soundtrack che necessitano dell’associazione con le immagini sullo schermo per restare impresse nella memoria. Al solito, permane la gioia di ritrovare intatta una grazia espressiva che pur nella maestosità preserva una vena di artigianale miniaturismo (Long Road Home); una sensibilità che ha la poesia di un arpeggio chitarristico pulito e sentimentale, nonostante disponga di un’orchestra di tutto rispetto. Per gli amanti della Classica vera e propria questo rappresenta un difetto; per i cultori di certa outsider music Seventh Heaven è un album da accaparrarsi. (7/10) Filippo Bordignon

Bailter Space - Strobosphere (Fire Records, Settembre 2012) Genere: Noise, indie pop Eccettuata l’antologia del 2004, negli anni ‘00 il trio neozelandese nato nel 1987 non aveva ancora pubblicato dischi: l’ultimo era del ‘99, forse perché gli ‘80 che andavano di moda nello scorso decennio non erano quelli di quando esordirono. Ossia quelli noise tra Sonic Youth e Jesus & Mary Chain, coi primi vagiti del grunge da una parte, lo shoegaze dall’altra, e Neil Young che tornava a fare il suo (e di conseguenza molti tornavano a Neil Young). Tredici anni tra un disco e l’altro e ben poco è cambiato: quando Things That We Found parte come Cinnamon Girl finché entra un cantato 100% Reid, capiamo che i Bailter Space sono sempre lì, a giustapporre le loro influenze in un cocktail che lascia ben visibili gli ingredienti originari eppure suona personale e riconoscibile. Più vario di quello di gente come i Black Rebel Motorcycle Club, per certi versi simili nell’aggiornare certi bassi pesanti del canadese (vedi la title track, che inclina anche verso saturazioni e melodia My Bloody Valentine).


Cody ChesnuTT - Landing On A Hundred (One Little Indian, Ottobre 2012) Genere: black Ebbene sì, sono passati dieci anni dal clamoroso The Headphone Masterpiece che col suo zibaldone di hip-hop, psych, folk, soul, funky e persino krautrock fece balzare sulla sedia anche le chiappe di quelli che come il sottoscritto non masticano black music dalla colazione fino alla cena, pur amandola come è giusto e possibile. In fase di recensione non lesinai superlativi arrivando a sostenere che - scusate l’autocitazione - “sarà difficile accontentarsi di un’opera seconda meno generosa ed estrosa e disinvolta, più regolare insomma”. Ebbene, è accaduto proprio questo: il sophomore di Cody ChesnuTT è un disco ben meno estroso e debordante, la misera normalità di dodici pezzi (contro i 36 dell’esordio) sonicamente ben più ottemperanti il canone soul, tanto da sfoderare in alcuni passaggi una neppure troppo dissimulata devozione. Il bello è che tutto ciò accade ben dieci anni dopo quel debutto già tardo, decade durante la quale periodicamente - vi giuro - non mancavo di chiedermi che fine avesse fatto questo geniaccio sciagurato, al di là di un album sul punto di uscire nel 2006 (The Live Release) e poi evaporato nella nuvola grigiastra dei “lost”. Una vera e propria decantazione che consente all’ormai ultraquarantenne from Atlanta di presentarsi senza l’assillo delle aspettative nel frattempo dissolte, in grado quindi di incidere su una sorta di tabula rasa tutto quel ben di dio che l’estro gli consente. Il risultato è questo Landing On A Hundred che lo vede ringalluzzito, spavaldo, ispirato soul man per gli anni Dieci, autore di una proposta retrò che pure si porta dentro tanta convinzione da annullare la trappola della convenzione. Un lavoro che non ambisce ad essere seminale a prescindere, eppure ugualmente suona attuale, legittimo cittadino del presente in un presente che non smette di masticare le scorte proteiniche del passato. In scaletta c’è molto Marvin Gaye (nel doo wop mielato vaudeville di Love Is More Than A Wedding Day e nel soul solarizzato di ‘Till I Met Thee), ci sono vampe boogie chicagoane (Under The Spell of the Handout) e cremosità quasi Bacharach (What Kind of Cool), piglio urbano foderato funky come un rigurgito Sly Stone (I’ve Been Life) e struggimenti a basso voltaggio (Chip’s Down). Il buon Cody ci tiene a precisare come le incisioni siano avvenute in parte a Memphis nello stesso studio e con lo stesso microfono di Al Green, la cui aura puoi indovinare magari nell’amarognola Everybody’s Brother, ma al di là di questo feticismo vintage piace soprattutto come quel tumulto caleidoscopio che ricordavamo sembri agitarsi sotto la superficie, ad esempio in That’s Still Mama o nell’afro-psych tropicalizzata di Don’t Go The Other Way. Di contro, la viscosità jazzy di Don’t Follow Me indugia troppo dalle parti del cinematico trip-hoppiano, fallendo il bersaglio un po’ come l’up tempo ruvidello sul punto di farsi ska di Where Is All The Money Going?. Difetti trascurabili in un disco godurioso, che c’impone di ritentare la carta delle aspettative. Vale a dire, se Mr. ChesnuTT eviterà di confrontarsi con calibri di bassa levatura artistica (i Ben Harper o i Lenny Kravitz) e insisterà a far sbocciare i frutti della sua splendida ossessione con questa stessa lucida e brillante baldanza, saremo sempre qui pronti a bearci ascoltandolo. Magari senza riservarci tempi d’attesa geologici, grazie. (7.3/10) Stefano Solventi

Il canovaccio prevede altre rimembranze d’epoca come qualche passaggio Pixies (Meeting Place) ma non mancano incursioni Iggy Pop solista (No Sense) o proprio Stooges (in Island visti dal punto di vista di Ranaldo e co., in Dset puri come ai tempi dei Gordons), e se vogliamo qua e là si sente anche qualcosa degli altrettanto coevi Loop. Nonostante tutti i limiti immaginabili da un quadro simile, e pur nell’assenza di brani killer, il ritorno rimane comunque gradito grazie anche e soprattutto al piglio

energico che tiene su il mix di pop e violenza, evitando cali di tensione. (6.7/10) Giulio Pasquali

Baltic Fleet - Towers (Blow Up Records, Ottobre 2012) Genere: post rock Dietro ai Baltic fleet si nasconde Paul Fleming, ex tasterista degli Echo & The Bunnymen, e diciamolo subito è 33


la notizia più interessante di tutta la questione, perché questo secondo Towers è un disco che non offre particolari emozioni. Chiaro il gioco: un post rock che viaggia a ritmo trance/ motorik, con tastiere cristalline made in Kraftwerk, e così giù per le intere dieci tracce del disco, tutte strumentali. E’ un materiale che senza dubbio Fleming padroneggia ma i limiti sono evidenti: disco esageratamente monocorde e interstizio percorso abbastanza anonimo. Tutta la componente ‘80s/90s è di poco appeal (specie quando si parla del drumming), e se si sfila la velina kraut il terreno sotto i piedi non sembra poi così saldo (salvi un paio di buoni episodi come Toir de e Reno). Fleming dice di ispirarsi a Eno, Neu!, Sigur rós e Dj Shadow. Ci sta, ma a noi rimane nelle orecchie un disco discreto, che ha pochi motivi per essere infilato nel lettore. Forse i fan... (5.8/10) Stefano Gaz

Beastmilk - Beastmilk Ep (, Ottobre 2012) Genere: Post Punk Ciò che sta accadendo in Finlandia e che sarà presto oggetto di analisi in SA, ha quasi del miracoloso: guidati dal lungimirante progetto della Svart Records, etichetta indipendente totalmente dedicate alla diffusione della cultura rock finnica, un manipolo di artisti minori sta elaborando concetti musicali heavy votati al passato, conservatori se non isolazionisti, ma trasversali perché frutto della collaborazione di musicisti provenienti da “comparti” molto diversi fra loro. Se il primo grande nucleo di band “suomi” sta costruendo una piccola cattedrale sonica fatta di metal e di folk popolare, i Beastmilk rianimano un suono profondamente legato agli anni ‘80. Fondati nel 2010 da Khvost, leader dei black metallers Code, oggi a capo della miglior entità di folk hard rock del pianeta, gli Hexevessel, in solo quattro mosse i Beastmilk riaccendono la fiamma del post-punk apocalittico, seguendo la lezione mai troppo celebrata dei Christian Death e dei Dead Kennedys. Ma c’è di più: la loro magia sta nell’essere fascinosi come poche band oggi, nel recupero di suoni misteriosi, malinconici e apocalittici molto vicini ai Wipers di Over The Edge, forse la miglior band di pre death punk della storia (da sempre ispirazione principale dei Turbonegro, i padroni incontrastati del death punk moderno). Use Your Deluge è solo un Ep, ma basta per capire che il quartetto finlandese è pieno di talento. Tesi, muscolari, nervosi, oscuri, in Void Mother dimostrano la loro capacità straordinaria di dipingere scenari post nucleari, utilizzando la durezza dei Pentagram, la decadenza dei 34

Joy Division, la liricità dei primissimi Cure e l’elettricità dei Cult di Electric. Ricordate i Warrior Soul di God, Drug And The New Republic? Ecco, i Beastmilk vanno oltre il concetto di “apocalyptic poetry”, della quale Corey Clarke è stato l’interprete di maggior talento, squarciano il buio con autentiche scariche di punk chitarristico. Il risultato lascia attoniti. Red Majesty, contraltare di Void Mother, ideale chiusura di un esordio mozzafiato, è la trasposizione marziale dell’oscurantismo autolesionista dei Joy Division di Closer: un’impressionante caleidoscopio di colori scuri, continuamente lacerati da drumming serrati e una voce ai confini del post black norvegese. Quattro brani, sufficienti a consegnarci una band dalla classe potenzialmente devastante. (7.5/10) Mario Ruggeri

Ben Gibbard - Benjamin Gibbard - Former Lives (Barsuk, Ottobre 2012) Genere: Indie pop Chissà da quanto tempo Benjamin Gibbard coltivava il sogno di realizzare un album solista. Probabilmente da ben prima degli ultimi 8 anni serviti per raccogliere le canzoni contenute in Former Lives. La stessa nascita dei suoi Death Cab For Cutie, che tanto hanno dato alla formazione cantautorale (sia in termini artistici che in termini di celebrità) al nostro, è stato forse il primo tentativo di realizzare questo sogno. Nel 1996 è stato proprio il sodalizio tra lui e Chris Walla, (chitarrista e co-autore nei D.C.F.C.) nato come un “ti aiuto a registrare delle canzoni”, a inaugurare la carriera di una delle indie band americane più solide e acclamate dell’ultimo decennio. Si sa come vanno queste cose, nulla è certo nel mondo della musica e di fronte ad un lavoro di squadra efficente, si mette da parte il proprio ego (e le proprie canzoni) e ci si prodiga a tenere il meglio per i cavalli vincenti. Nella carriera di Ben non c’é stato però solo il meritato successo con i D.C.F.C. ma anche la fortunata parentesi del progetto Postal Service assieme a Jimmy Tamborello (DNTEL) che con il loro crossover di pop zuccherino ed estetica indietronica, fecero letteralmente impazzire gli indie kid della generazione My Space, oltre ad aver delineato un vero e proprio caso discografico per il mercato indipendente americano. Ci sono stati poi i successi dei D.C.F.C. derivati dalle sonorizzazioni per la fortunata serie Tv O.C. fino ad arrivare all’ O.S.T. per un blockbuster come Twilight; nel mezzo, aggiungeteci pure un matrimonio ed un divorzio con l’indie-attrice Zooey Deschanel, seri problemi di alcolismo e pure un timido esordio nel mondo del cinema in-


Converge - All We Love We Leave Behind (Epitaph, Ottobre 2012) Genere: Post Hardcore “For me, hardcore is simply unapologetic music, free of rules. By that definition, we are a hardcore band.” (Jacob Bannon, Pitchfork Magazine, 25 settembre 2012). Liberi dalle regole. Liberi di esprimersi. Una visione dell’hardcore che è stata rivoluzionaria, soprattutto in contrasto con la rigidità dei dogmi HC New York, soprattutto nel periodo straight edge. Una visione che ha permesso di generare il culto dei Converge, band fonte di ispirazione per almeno due generazioni di gruppi e capace di ricavare dalla fusione tra metal e Hc una materia nuova, tangibile, concreta. Come il precedente Axe To Fall, l’ottavo disco della formazione sposta ancora, di poco ma percettibilmente, l’asse musicale. Contrariamente a quel lavoro, All We Love We Leave Behind è stato fatto in casa: nessun ospite, Kurt Ballou alla console, nessun manager, niente di niente. Solo un rapporto diretto tra la band, la Deathwish e la Epitaph. Ed è un ritorno al Do It Yourself, all’indipendenza come generatore d’espressione. Profondo, maturato, Jacob Bannon parla ai suoi fan di vita vissuta, di una parte di sé. Scrive, ma anche disegna le cinquanta tavole che compongono il booklet con le fasi lunari, i contrasti netti fra luce e buio, i crepuscoli con i quali interrogarsi sulla propria esistenza. Ci sono elementi di novità in All We Love We Leave Behind, a cominciare da una Aimless Arrow che è la sublimazione del concetto d’isteria musicale codificato dai Converge stessi e reso armonico dagli ultimi At The Drive In: tempi in progressione, architetture sovrapposte, layer di chitarra appoggiati sulla consueta, impressionante, sezione ritmica. Prima punta di diamante, una Trespasses che rappresenta la sintesi e la cristallizzazione del loro concetto di estremo: drammaturgia black metal in sottofondo, approccio grindcore, scariche elettriche old school hardcore e iperstrutturalità perfetta, scritta da chi, l’iperstrutturalità, l’ha creata. Impressiona l’equilibrio del lavoro, tanto che la sequenza di canzoni potrebbe essere tranquillamente invertita, modificata, senza creare sbilanciamenti al corpus del disco. A Glacial Pace torna ai tempi medi, ovvero al passaggio storico fra l’apocalisse Neurosisiana e lo schizo-core dei Converge stessi, ma è Predatory Glow che apre alle prospettive musicali di una band che pare non avere alcuna intenzione di fermarsi. Predatory Glow è il primo passo verso il futuro: la materializzazione del flusso sonoro dei Sunn O))) riverberata da scariche di prog death metal quasi industriale. Il manifesto di un suono che oggi potrebbe rappresentare la rigenerazione del terrore Slayeriano. Un disco profondo, complesso, oscuro e fulminante. Lo stesso fulmine che illumina il cielo di Coral Blue, che incastona, sulle trame del post core, le aperture melodiche dei Cave In. Quasi una liturgia messianico-apocalittica. Un lavoro che parla dei Converge come di una band ormai da catalogare alla voce “classici”. (7.8/10) Mario Ruggeri

dipendente. Fatte queste premesse possiamo facilmente immaginare la difficoltà di Gibbard nel cercar di mettere da parte dei brani per il suo album in tutti questi anni. Alla fine Ben ce l’ha fatta e in Former Lives ritroviamo tutte le ossessioni musicali che abbiamo imparato a riconoscere nei progetti in cui è stato coinvolto musicalmente, a cominciare dalle Beatlesiane (virate Elliott Smith) Dream Song, Duncan Where Have You Done e la rustica conclusione di I’m building a fire, oppure l’umore autunnale ed agrodolce tipico della band madre nei numeri indie/emo/college di Bigger Than Love (in duetto con Aimee Mann) o la cavalcata indiepop A Hard One To Know fino ad arrivare a quell’immaginario sono-

ro classicamente alt folk che contraddistingue il resto della raccolta. Ed è proprio in pezzi come lily, Oh Woe o Somethings Rattling (Cowpoke) che il nostro tende a perdere terreno e mordente in rapporto alla sua cifra stilistica; questi brani, da un lato testimoniano una mutevole impostazione timbrica della voce che avvicinano pericolosamente Gibbard a Colin Meloy dei cugini Decemberists (Teardrop Windows), dall’altra tradiscono uno spessore musicale anonimamente proteso tra istanze folk-rock e vagheggiamenti country decisamente datati e stucchevoli; la sindrome da Dave Matthews Band è sempre dietro l’angolo insomma. Intendiamoci, Former lives è un disco di ballate e che 35


Godspeed You! Black Emperor - Allelujah! Don’t Bend! Ascend! (Constellation Records, Ottobre 2012) Genere: gy!be E ora come la mettiamo? Dopo anni spesi a parlare della morte del post-rock, a pontificare e cercare di storicizzare il genere, ci troviamo con un monolite da più di 50 minuti prodotto dalla band che, volenti o nolenti, ha rappresentato uno dei vertici del genere insieme a poche altre. Una voce a parte, dissonante e rappresentante l’ala più intellettualoide, ideologizzata, impegnata, certo, ma pur sempre una delle più credibili rappresentanti del filone. Ora, un decennio abbondante dopo la (apparente) dipartita, la moltitudine canadese torna in scena. E lo fa a modo suo. In silenzio, senza proclami, in punta di piedi verrebbe da dire, se non fosse che Allelujah! Don’t Bend! Ascend!, titolo chilometrico e profetico come d’abitudine, esplode come una bomba dentro le nostre orecchie. Nessuna avvisaglia aveva preparato il ritorno, se si eccettuano i live del 2011 accolti al solito benissimo un po’ ovunque. Ora un album intero, suddiviso in maniera bizzarra su un lp e un 7” confezionati con quella cura visiva e visionaria che ha segnato un’altra caratteristica dell’ensemble di Montreal. Due tracce lunghissime e due (relativamente) brevi che ci offrono i GY!BE al proprio, eccellente standard. Ossia pronti ad offrire musica dal marchio di fabbrica evidente che, pur nei limiti di un suono riconoscibile, non ha mai nulla di scontato. Eppure.. Eppure tutto suona in perfetto equilibrio: non una nota fuori posto, non una nota in più. Tutto il pregresso del post-rock, anzi di quella particolare forma di post-rock “alla canadese”, rimesso in circolo senza timore e remore. Che condensa, ci si perdoni il verbo non proprio adatto alle distanze dei canadesi, impeto e furia, dolcezza e antagonismo, fierezza e lucidità di intenti. We decided no singer, no leader, no interviews, no press photos. We played sitting down and projected movies on top of us. No rock poses. We wrote songs as long or as short as we wanted. Roba a tutto tondo che si muove tra svisate arabeggianti e grugniti da muro del suono in crescendo epico (dentro Mladic c’è il mondo) e romanticismo d’archi che si vela di minacciose nubi (We Drift Like Worried Fire), creando ponti che sono vere e proprie architravi poetiche di rara bellezza. Le due canzoni del 7”, presenti nella tracklist originale sulla versione cd, procedono invece sulla tangente sperimentale con un avant-cameristica Their Helicopters’ Sing che molto più di quanto sembra ha a che fare con la stockhausiana suite per violini ed elicotteri, e una rarefazione a suon di pulviscolo ambient-noise (Strung Like Lights At Thee Printemps Erable), a dimostrazione dell’ampiezza della tavolozza. È musica che colpisce e trascina. Che coinvolge e trascende. Era così agli esordi - “We knew that there were other people out there who felt the same way, and we wanted to bypass what we saw as unnecessary hurdles, and find those people on our own. We were proud and shy motherfuckers, and we engaged with the world thusly” -, è così al ritorno. (7.5/10) Stefano Pifferi

scorre dignitosamente senza particolari intoppi (tranne la trascurabile apertura acapella di Sheperd’s Bush Lullaby che ricorda i peggiori momenti gospel della serie tv Scrubs) e che a livello lirico restituisce comunque ai fan di Gibbard quell’epica ormai familiare fatta di mediocrità esistenziale e languori sentimentali a sfondo autobiografico ma è anche un disco che tende a ridimensionare la percezione del songwriting di questo artista. Evidentemente se non c’è mai stata la priorità nel mettersi in gioco in prima persona fino ad ora, è anche in virtù del fatto che il nostro lavora molto meglio in una condizione di comunione d’intenti e che in certi casi 36

la band con cui hai sempre suonato fa davvero la differenza. (6/10) Dario Moroldo

Benjamin Biolay - Vengeance (Naive, Novembre 2012) Genere: pop, france E così, come un temporale triste e lunghissimo in mezzo al cielo blu, è arrivata anche la prima grande delusione dalle mani sapienti di Benjamin Biolay che torna con un disco, Vengeance, a distanza di tre anni dal prece-


dente, riuscitissimo, La superbe. In mezzo, la parentesi tutto sommato fortunata della colonna sonora Porquoi tu pleures? a creare tanta aspettativa per questo nuovo lavoro in uscita il 5 novembre. Quello che abbiamo davanti è un disco che, nonostante le volontà di apertura verso una certa commistione electro-pop europea, finisce per trincerarsi dietro le peggiori declinazioni del francesismo sonoro: in Vengeance risuona violentissima la eco di un’elettronica da svecchiare e che pur guardando a MGMT e M83, fa perdere a Biolay la sua cifra migliore, la sua lente retrò eppure magicamente sempre perfettamente al passo col proprio tempo. Appare lontanissima l’epoca degli ultimi grandi brani, singoli di immenso impatto che riuscivano a unire quel ricordo vibrante di una tradizione cantautorale à la Gainsbourg a suoni più marcatamente anglofoni. Reviens non amour e Si tu suis mon regard sono esperimenti-espressione di quella formula pop riuscita che Biolay pare aver momentaneamente messo in un angolo. In Vengeance, mancano i brani, manca tutto lo slancio fortemente tradizionale sempre in grado di accompagnarsi alle esplorazioni più rock ed elettroniche. Se escludiamo qualche rara occasione - in primis la ballata beatlesiana La fin de la fin e poi la title track in duetto con Carl Barat - Vengeance è un disco che evapora facilmente e velocemente nel ricordo. Peccato. (5.7/10) Giulia Cavaliere

Big K.R.I.T. - 4Eva N a Day (Self Released, Marzo 2012) Genere: Trap Rap Se tutto il male non venisse per nuocere che male sarebbe? Potevamo sperare che il grande successo del Trap Rap portasse all’attenzione i migliori prodotti hip hop del sud degli Stati Uniti. Invece quello a cui assistiamo è soltanto una hipsterisca ossessione per i suoi aspetti più grotteschi ed estremi: sorrisi coperti d’oro, remix chopped&screwed, elettronica da dancefloor e volgarità e droga a profusione. Fortunatamente ci sono anche rapper come Justin Scott, meglio conosciuto come Big K.R.I.T., che continuano ad amare la gloriosa tradizione di hip hop sudista saldamente legata alle proprie radici soul e R&B. Scott, del resto, non fa mistero dei propri heroes: Scarface, Outkast, UGK e 8Ball & MJG (è la roba che sta nel mio itunes, ha dichiarato). Questo è il suo punto di forza. Non la personalità, né un enorme talento, ma la semplicità e la chiarezza del suo disegno artistico che gli permette di produrre dischi solidi senza farsi abbindolare

dal richiamo delle classifiche o delle produzioni stellari. Lo scotto da pagare sono le rime copiate da altre centinaia di canzoni e veramente poco ispirate. I pregi invece risiedono nella performance morbida e sensuale da loverman, proprio come quella di Pimp C, e nell’abilità di produrre ottime basi languide che fanno ampio ricorso a samples vocali e strumentali soul e jazz. Basti sentire gli inserti pianistici della drammatica Red Eye, le chitarre dell’ottima Handwriting, i fiati belli e malinconici di Boobie Miles (singolo che ha anticipato l’uscita dell’album) per veder emergere un hip hop morbido e crepuscolare, adatto per viaggiare strafatti su una cadillac fino al mattino. Pur risultando un lavoro di pregio, il risultato complessivo si colloca un pelo al di sotto dell’eccellente K.R.I.T. Wuz Here del 2010. Dispiace, non tanto la somiglianza tra i brani, o il flow alla lunga noioso, quanto l’incapacità di scrivere una canzone - la sua One Day - in grado di innalzarlo al livello dei maestri. (6.7/10) Gianluca Carletti

Boys Noize - Out Of The Black (Boys Noize Records, Ottobre 2012) Genere: Hard electro C’è una curiosa euforia nel nuovo album di Boys Noize, un’effervescenza giovanile che non sentivamo da un po’ nelle produzioni del dj/producer tedesco. Qualcosa che è difficile non mettere in relazione con le recenti collaborazioni messe in atto: senza dubbio lavorare con Mr. Oizo ha dato quel pizzico di schizzo molesto che serviva come il pane (è negli Handbraekes che le strutture quadrate di Alex Ridha si son finalmente sciolte), ma è anche l’effetto degli eccessi della cultura drop di oggi, materiale troppo allettante per non giocarci un po’ sopra. Magari senza tuffarcisi a capofitto, come si poteva temere nella roboante accoppiata con Skrillex promossa quest’estate (il progetto Dog Blood, che invece finora ha partorito solo i due topolini Next Order/Middle Fingers), ma ragionandoci un po’ intorno, prendendo le dovute posizioni, sfruttando la propria indiscutibile esperienza in materia di musica da (s)ballo. Fatto sta che il nuovo piglio collaborativo di Ridha ha portato una ventata d’aria fresca, segnale di superamento di quello status fossilizzato di “producer electro house per eccellenza” guadagnato con Oi Oi Oi e Power. Boys Noize ha in mente un cambio pelle e vuol parlare un linguaggio più giovane, che riesca a ingraziarsi i frequentatori delle nuove mode electro. Lo fa in modo fin troppo ruffiano con Gizzle in Circus Full Of Clowns, che vorrebbe essere lo split definitivo del nuovo dubstep 37


Jimmy Edgar/Machinedrum - JETS EP (Leisure System, Ottobre 2012) Genere: Future funky Sono amici da oltre dodici anni, entrambi hanno ormai consolidato un proprio pubblico di affezionati e nessuno dei due ha nulla da invidiare all’altro in termini di popolarità o vendite. L’idea di lavorare a un progetto comune sarà bazzicata più volte nella testa di Machinedrum e Jimmy Edgar, ambedue noti per discografie che non hanno mai nascosto il piacere della sfida artistica. Perché di sfida si tratta, e nemmeno delle più semplici: di Machinedrum la gente ama l’ingegnosità delle strutture e il senso dell’innovazione, mentre Edgar ha fatto breccia per quel suo modo personalissimo di essere funk, stuzzicando con contaminazioni e senso delle mode. Avanguardia contro cura del design, una miscela eterogenea che suonava imprevedible in partenza, con buone possibilità di elevare in potenza l’efficacia dei due soggetti ma altrettanti rischi di inibire i reciproci punti di forza. L’intreccio è, in una sola parola, splendido. Splendido perché è sotto ogni aspetto differente da qualsiasi cosa ci si poteva aspettare. I due protagonisti fanno sul serio, sono abili a rimettere in discussione i loro modus operandi, a fare un passo indietro quando serve ma anche a trascinare il polo opposto verso un nuovo, sorprendente equilibrio. Nella opener In Her City Jimmy Edgar è un aroma vellutato che si nasconde dietro (e dentro) la mobilità dei pattern operata da Machinedrum, come una corda di violino pizzicata, gocce electrofunk che entrano in contatto ma evaporano all’istante, lasciando solo la sensazione di freschezza. Tutto l’opposto Sin Love With You, dove invece le armonie della forma sbocciano appieno e l’estro ritmico si piega al loro volere, rammentando che Travis Stewart non è solo quello di Room(s) e Sepalcure ma anche l’abile architetto di ritmi conosciuto lungo tutti i primi 2000. I pezzi più sghembi arrivano nel lato B. Mue è un gioco di specchi come solo Stewart oggi è in grado di fare, un equilibrio indefinito tra beats hip-hop e fusione post-dubstep col beneplacito del lato Warp di Edgar. Il vero apice però è Lock Lock Key Key: i campioni vocali in loop stretto sono mezzo scenico ma anche fascino dell’ossessione, soprattutto sotto l’effetto di un progressivo smembramento del tema cardine, quasi che le strutture contenitive di Machinedrum fossero pareti mobili in continua oscillazione, a mutare continuamente il volto del pezzo tra future-garage, turntablism e beatboxing astratto. È questa l’euforia che si scatena quando due produttori con le palle trovano il giusto affiatamento, come con Mr. Oizo e Boys Noize negli Handbraekes o con Hudson Mohawke e Lunice in TNGHT. Stavolta però il marketing non c’entra nemmeno incidentalmente, qui c’è voglia sincera di spingere più in là i propri limiti. Per dirla con le loro parole, “c’è un senso di dove eravamo, dove stiamo andando e tutto quel che sta in mezzo”. Condensi in quattro tracce due spiriti genuini nel loro momento di massima agitazione tecnica, e poi lasci al resto del mondo tutte le derive e le speculazioni del caso. Perfetto. (7.3/10) Carlo Affatigato

bastardo di oggi, una tecnica collaudata di wobble e distorsioni che però non appartiene al suo carattere e rappresenta solo il trick d’immagine per compiacersi gli ascoltatori moderni. Mossa di sola superficie e dunque da censurare, soprattutto quando chi la fa ha dalla sua le armi giuste per venirne fuori con maggiore dignità. Molto più interessante invece ciò che avviene altrove: What You Want, ad esempio, non fa mero cut&paste ma quei drop riesce ad assorbirli e riassumerne l’energia con tatto, così da incorporarli nel proprio sound e aumentarne le potenzialità (è questo che deve fare chi ha la marcia in più, vedi anche Kentaro lato brostep), mentre pezzi 38

come XTC e Rocky 2 compiono il giusto scarto col passato improvvisando psicosi electro e possessioni Ed Banger. Il resto oscilla tra momenti di vocoderato pop in bilico tra Daft Punk e Justice (Ich R U, Touch It), retaggi french (Siriusmo fa né più né meno che il suo ruolo in Conchord), fiamme da arena (Stop), furbate electro massimaliste (Missile) e anche precipitazioni di pura noia (Merlin). L’apice arriva alla fine e riscatta tutto il resto. La Got It ideata con Snoop Dogg è l’incontro tra due pesi massimi che danno spettacolo rispettandosi l’un l’altro, col rapper californiano che fa il cattivo senza invadere lo spazio e il geometra dietro la console che spezza la routine e


inventa un intreccio di sfondi elettronici affilati al punto giusto per non strafare. La danza del corteggiamento tra hip-hop ed elettronica non è mai stata così esplicita e provocante. Se son questi i frutti della via dei featuring intrapresa da Boys Noize, voglia Iddio preservarne l’entusiasmo. (6.8/10) Carlo Affatigato

Buildings - Melt Cry Sleep (Double Plus Good, Settembre 2012) Genere: noise-rock Per comprendere al meglio chi sono e da dove vengono i Buildings (Travis Kuhlman alla batteria, Sayer Payne al basso e Brian Lake alla chitarra), basta skippare alla traccia 5. I Don’t Love My Dog Anymore gioca sul crinale che unisce l’incedere schizo-pachidermico dei Jesus Lizard altezza Liar (diciamo l’interplay basso-batteria di Gladiator, ma c’è pure la slide tanto amata da Denison), le chitarre inacidite degli Shellac di At Action Park e una buona dose di cattiveria post-hc di quella bella grassa cresciuta nella prima metà dei 90s. Riduttivo? Affatto. Perché Melt Cry Sleep è una botta in faccia di quelle che si ricordano a lungo. Il suono è per forza di cose derivativo, avendo il terzetto di Minneapolis metabolizzato naturalmente le influenze di cui sopra, ma questo non significa che il loud rock messo in scena nelle dieci tracce del comeback sia debole o scontato. Code in ralenti stoner che non inficiano l’assalto straight in your face newyorchese fino al midollo (Born On A Bomb), paranoia da Lower East Side a nastro (Noxema Gurl), tempeste ritmiche e giochi vuoti pieno alla Unsane (Invocation), senso di apocalisse avvenuta al crinale tra post-core e retrogusto da blues ferino (Mishaped Head), pigfuck noise-rock made in Chicago (Crystal City), bassi caterpillar a tirare le fila come se non ci fosse un domani (Wrong Cock suonerebbe come potrebbero farlo i Melvins se non fossero i Melvins). Tutti segnali che indicano la via seguita dal terzetto. Se poi pensiamo da dove vengono i tre, quella Minneapolis patria di una delle etichette più rovinose dei 90s (la AmRep per chi se lo chiedesse), e che il master porta la firma di sir Bob Weston allora tutto appare molto più chiaro, ma non per questo più rassicurante. (7/10) Stefano Pifferi

Chelsea Wolfe - Unknown Rooms: A Collection of Acoustic Songs (Sargent House, Ottobre 2012) Genere: Witch Folk Unknown Rooms esce ad un anno dall’ottimo Apokalypsis, dichiarandosi come una collezione di canzoni acustiche. Seppure il ricordo del precedente album è ancora fresco, il contesto in cui quest’ultimo si presenta è profondamente cambiato. Scemata l’infatuazione della gioventù di Brooklyn con il Goth, passati ora in massa alla psichedelia del progressive rock nel tentativo di trovare una parola d’ordine che riesca reggere più di mezza stagione, Chelsea Wolfe ha il buon senso di smarcarsi dal genere mantenendo al contempo i punti di forza che l’hanno resa celebre. Anche questa volta ritroviamo la sua forte personalità femminile, che la porta ad essere continuamente associata a PJ Harvey, ed una certa passione per l’orrore e la weirdness Lynchiana. Un malinconico folk dalle atmosfere witch (Hyper Oz) ed americana (Appalachia) che si solidificano nella memoria del Salem witch trial. Quello di Unknown Rooms è un folk che si rifa al sound ipnotico e psichedelico di gruppi quali gli Espers e Fursaxa senza però mai raggiungere le loro vette di misticismo. Le canzoni di Chelsea non riescono mai a decollare e rimangono sempre ancorate ad una certa banalità del quotidiano come in Boyfriend, producendo un’estetica da filmato amatoriale alla Blair Witch Project dove le streghe non sono mai enigmatiche o minacciose ma semplicemente ragazzine avvolte in lenzuola mentre si filmano nel bosco dietro casa. Unknown Rooms è in definitiva una mossa strategica da parte della Wolfe che vuole sia ricordare ai suoi fan la sua esistenza mentre tenta di evitare la tensione del dover replicare il successo di Apokalypsis. Seppure il progetto sia quasi privo di spessore, riesce a reggirsi completamente sulle sue gambe grazie all’incredibile carisma e voce di Chelsea. Se Unknown Rooms non è un disco imprescindibile esso ha il merito di consolidare la Wolfe come un nome che non ha intenzione di sparire. (6.9/10) Antonio Cuccu

Chrome Canyon - Elemental Themes (Stones Throw, Agosto 2012) Genere: synthorama 80s Con Elemental Themes, debutto del progetto solista Chrome Canyon, il newyorkese Morgan Whirledge aka Morgan Z mette a nudo le radici elettroniche, sci-fi e cinematografiche-cinematiche del proprio immaginario, della propria musica, intuibili in nuce già nel lavoro della band con cui nel 2007 ha cominicato a calcare i 39


palchi, ovvero gli electro-glam Apes & Androids (un unico album autoprodotto nel 2008, Blood Moon), adusi a esibirsi in pubblico con tanto di corredo di ballerini conciati da zombie. Eccoli nero su bianco sul sito della Stones Throw gli ascolti con cui Morgan si è ossessionato negli anni dell’adolescenza trascorsa nella San Fernando Valley: “Vangelis’ Blade Runner score, Wendy Carlos via Tron, Giorgio Moroder’s work on Cat People”. Non che non bastasse ascoltare anche solo mezzo secondo di un pezzo qualsiasi per capire tutto: epica synth, assoli sperticati, batterie asciutte ma progressive, microcitazioni degli sfarfallii anticipatori di Baba O’Riley. Nessuna pretesa sperimentale, solo e semplicemente un amore genuino e folle per un suono e un mondo che trasudano da ogni nota e che si traducono in una cura maniacale del dettaglio. Nota bene: è uno degli ultimi album con il master curato da Nilesh Patel, già ingegnere di fiducia di Air, Björk, Daft Punk e Pulp; e si sente, quei colori brillanti sono un suo trademark. Da incorniciare particolarmente Branches, Carfire on the Highway e Memories of a Scientist. Disco di genere, chiaro, senza cioè il corredo teorico ed estetico - anche ingombrante - di opere Zeitgeist come quelle della compagine retrologica/hauntologica (James Ferraro in testa), ma di tale limpida cristallina ispirazione, così totalmente immerso in un innamoramento senza ombre, da travalicarlo comunque - il genere - in qualche modo. Per cultori, certo, ma anche per chi cerca una buona introduzione a questi suoni o vuole semplicemente capire che musica si fa quando si ama la musica. (7/10) Gabriele Marino

Circle Of Ouroborus - Abrahadabra (kuunpalvelus, Ottobre 2012) Genere: Black-post-punk Il duo finlandese formato dal cantante e “poeta occulto” Antti Klemi e dal polistrumentista Atvar vanta un passato black metal, ancora vivido negli impasti sonori epici e sporchi, ora celati dietro una coltre di nebbia, ora evidenti, in brani quali Remembrance. Forse eccessiva, nonché frastagliata da numerosi Ep e collaborazioni, la produzione dei Circle of Ouroborus vede poi una svolta stilistica nel 2011 con Eleven Fingers, primo album di due su Handmade Birds (peraltro masterizzato da James Plotkin) che lasciò entusiasta tanto la critica quanto gli ascoltatori più curiosi e “riformisti” - gli stessi, per capirci, che hanno esultato di fronte all’arrivo di roba quale Wolves In The Throne Room. Da lì in poi, il loro suono inizia a trascendere i generi 40

verso una forma alchemica ambigua e singolare, sorta di vaporizzazione timbrica dove tutto è sfondo, paesaggio, drone, e al contempo fraseggio, melodia, in un certo senso anche canzone (Breathing Slowly). Il risultato va così a piazzarsi al centro di un ipotetico triangolo magico ai cui vertici troviamo black metal, no wave e post punk (quest’ultimo particolarmente nell’uso della voce e delle ritmiche), e sul quale si estende un’ombra maligna, oscura, simbolico-esoterica, irrorata da una luce giallastra. Ad Abrahadabra, nonostante gli esiti estremamente conturbanti dobbiamo tuttavia addebitare i pochi sforzi impiegati nel superamento di una formula che dura pressoché immutata da tre album; l’assestarsi cioè su un’idea che però vive di marginalità e di scarto, e che non può correre il rischio di rallentare il proprio corso o rischia, fermandosi, di stagnare. Rispetto al passato, comunque, già dal precedente The Lost Entrance of the Just, la componente melodica si fa più accentuata, perturbante nel passaggio tra umori oscuri, drammatico-pagani (These Days and Years To Kill) e aperture quasi badalamentiane, come nei paesaggi piovosi della lunga Daementia Praecox (9:32) che chiude l’album. Elemento centrale di tutto il pensiero “circolare”, resta il suono peculiare e indecifrabile della chitarra synth, superamento “post-tutto” dell’impasto black tradizionale come degli umori wave. Che dire: rock’n’roll da apocalisse culturale. (7.3/10) Antonio Laudazi

Clinic - Free Reign (Domino, Novembre 2012) Genere: psych, garage Bubblegum, con le sue aperture melodiche e persino pacate, ci aveva piacevolmente sorpreso mandando all’aria quel teorema secondo cui, sostanzialmente, i Clinic fanno sempre - benissimo - lo stesso album, ancora e ancora. In realtà, alla luce di questo Free Reign quel teorema oggi risulta addirittura rinforzato, lasciandoci alla memoria l’album precedente come la proverbiale eccezione che conferma la regola. Ade Blackburn e misteriosi soci tornano decisi e convinti all’acidissima e oscura psichedelia garage di sempre, mai tralasciando quell’appeal (che potremmo pure definire pop, in una certa misura) che forse è proprio l’ingrediente vincente di un amalgama sempre uguale eppure sempre mutevole (stavolta si è voluto dare maggior enfasi a tastiere e drum machine). Nove tracce che scorrono ipnotiche, tra geometrie semplici e ripetitive che, vuoi o non vuoi, continuano ancora


Kendrick Lamar - good kid, m.A.A.d city (Interscope Records, Ottobre 2012) Genere: hip hop Il percorso di maturazione del Kendrick diciassettenne, che guida il van della madre per le strade di Compton con i suoi homies, è l’immagine chiave predominante di questo major label debut, nonché l’effettiva attestazione dell’approdo del venticinquenne Lamar nei gradini alti dell’hip hop. Preceduto da cinque mixtape (i primi tre a nome K.Dot), il debutto indipendente su Top Dawg era avvenuto lo scorso anno con Section.80; disco che, nella vena critica di Tupac Shakur, guardava al presente in divenire di Kendrick e alla realtà del suo gruppo Black Hippy, un lavoro sorprendentemente già maturo in cui l’MC californiano palesava tutte le sue ambizioni. Good kid, m.A.A.d. city le rinnova e le appaga facendo un tuffo nel passato del rapper, in quella Compton vissuta durante i suoi tribolati anni da adolescente, narrati con il piglio di un hood movie e che, non a caso, viene sottotitolato ‘a short film by Kendrick Lamar’. La dinamica lirica è basata sul conflitto, soprattutto interno. Gli homies sono giovani criminali, ma sono anche suoi amici, e il percorso ad ostacoli del ragazzo lo lancia in una spirale sempre più oscura e profonda. L’abilità di Lamar nel portare avanti la narrazione si manifesta in un wordplay brillante ereditato da Nas (molti i riferimenti a Illmatic sparsi quà e là) e consegnato con un flow iper-tecnico che ricorda da vicino André 3000. Nessun brano sovrasta gli altri, enfatizzando la compattezza di un concept che fa uso ponderato di registri di produzione diversi che variano dal west coast (The Art Of Peer Pressure) dal retaggio gangsta (m.A.A.d. city), ai beat dancefloor-oriented e dal timbro southern (Backstreet Freestyle) pur rimanendo sempre legati all’immaginario hoodie di Poetic Justice, feat con Drake ma anche pellicola cinematografica del 1993 con Janet Jackson e, appunto, Tupac. La giustizia poetica letteraria, nel cui modello, il virtuoso nel finale viene ricompensato e il vizioso punito ad opera del fato, spesso scatenato dai suoi comportamenti scorretti. Kendrick rappresenta tutte e due le facce della medaglia, appartiene ad entrambe, ma, dopo essere sceso nell’abisso (Swimming Pools), risale la china e concretizza il suo processo di maturazione. Il risveglio di Sing About Me, I’m Dying Of Thirst è idillico e romantico: la scintilla decisiva che lo eleva a miglior disco hip hop dell’anno. Gli altri features, con il compagno Jay Rock e MC Ehit non rubano mai la scena, nella quale Lamar è il deciso protagonista. Gli equilibri si mantengono anche quando ad assistere è Dr.Dre, che nella conclusiva Compton passa simbolicamente il testimone a Kendrick, il quale si lascia andare ad un victory-lap celebrativo. E Meritato. (7.7/10) Luca Falzetti

ad affascinarci dandoci la conferma che questi quattro di Liverpool, a quindici anni dal debutto e al settimo album, sono sempre al top del loro gioco. Miglior traccia? Seesaw. (6.7/10) Antonio PancamoPuglia

Confusional Quartet - Confusional Quartet (Hell Yeah, Ottobre 2012) Genere: free-strumentale Riprende con la stessa andatura, il secondo self-titled dei Confusional Quartet. È il mondo che è cambiato, nei trent’anni che sono intercorsi tra i primi passi fine Settanta e il duemiladodici. Provate a sentire oggi Futurfunk, collaborazione con Sir Bob Cornelius Rifo (a.k.a. The Blo-

ody Beetroots). A parte notare l’uso strumentale della voce (forse per la prima volta si sente una corda vocale nelle scorribande dei Consufional?), probabilmente vi risuoneranno i Battles. O, anche, ciò da cui i Battles provengono, Don Caballero, math di Chicago, eccetera. È una bella sfida uscire dai propri ascolti e seguire i Confusional Quartet laddove ci vorrebbero portare, perché è il luogo “neutro” dove i quattro ogni volta si ritrovano, al di là dagli individuali gusti, provenienze, idiosincrasie. Certo non è facile resistere alle meccaniche e ai riflessi di chi ha in testa ascolti che hanno attraversato gli anni Novanta, specie la seconda metà. E che quindi ha sviluppato una personale storia delle idee musicali affrontando, giustappunto scandagliando quegli anni, coloro che - Tortoise su tutti - presero a piene mani la respon41


sabilità di gestire la complessità nella musica “leggera”. Di fatto è questo il nodo: non tanto di jazz-rock si parla ma di non fermarsi alle strutture facili, come in Cani alla menta: una narrazione strumentale incentrata sul tema di chitarra e tastiera che cantano all’unisono, mentre la sezione ritmica cerca la strada pachidermica. Di nuovo, però, One Nanosecond In Tunisia ricorda i Primus - altro riflesso quasi incondizionato dell’orecchio dell’ascoltatore, e dei neuroni dedicati alla memoria musicale. E capiamo che la storia della complessità non si è mai interrotta, e anche in virtù di questo flusso senza soluzioni di continuità i Confusional Quartet tornano a essere familiari. Specialmente in studio, dopo il passaggio instant-record di Italia Calibro X, dove i quattro fotografavano quel giorno i cui, dopo tanto tempo, si ritrovarono insieme, in sala prove, e a tutti venne naturale non parlare con le parole ma con gli strumenti, ritrovarsi suonando. (6.8/10) Gaspare Caliri

Crystal Castles - III (Universal, Novembre 2012) Genere: Elettro Qualche settimana fa tra i commenti di un post riguardante il tipico crowdsurfing della cantante dei Crystal Castles su Hipster Runoff - uno dei più irriverenti blog di satira sul mondo musicale alternativo - un utente se ne usciva con questa affermazione: “Alice - screams = Grimes”. E se a quel tempo c’erano soltanto un paio d’anteprime di questo terzo lavoro, nonostante l’intento canzonatorio e la diversità palese tra l’omonimo esordio dei Castels e Visions, quelle parole hanno finito per rivelarsi, se non profetiche, perlomeno verosimili. Per (III) il duo canadese lascia da parte la portante 8-bit e le sonorità da rave per innesti atmosferici accarezzati certamente nel passato (il riferimento è a Celestica dal sophomore) ma mai inforcati come in questa prova. L’algida Varsavia, teatro delle frettolose session, ha probabilmente influito nell’immergerli nel territorio di una darkwave dai suoni grezzi e privi delle postproduzioni corpose tipiche di altri connazionali come Trust; merito delle tastiere antiche, dei synth d’epoca e dei supporti analogici mai utilizzati prima d’ora dal duo. Una rivoluzione che colpisce soprattutto Alice Glass e la sua voce che rinuncia all’anima punk (strascichi in Plague, singolo uscito in anteprima, e nel ritornello di Insulin) per ritrovarsi quasi totalmente filtrata fino a risultare irriconoscibile (il carillon finale Child, I Will Hurt You). Grossi i rimandi alla succitata Grimes, soprattutto in riferimento al gotico Halfaxa, pieno di contaminazioni 42

witch house che sono il vero fulcro del disco (Wrath Of God e Mercenary ammiccano ai suoni trance e cavernosi dei Salem,Violent Youth - Telepath è il connubio tra il marchio di fabbrica tradizionale techno-chiptune di Kath con le dissonanze più marce del genere, il messicano Ritualz in testa). III propone un mix ben dosato tra l’hipsteria elettronica in voga un paio d’anni fa, il presente targato Canada e l’universo Crystal Castles. Apprezzabile il tentativo di smarcarsi dalle gabbie soniche del passato, ma l’incastro risulta più di forma che di sostanza. A voler esser buoni: album di stransizione. (6.7/10) Andrea Forti

Cult Of Youth - Love Will Prevail (Sacred Bones, Ottobre 2012) Genere: neo folk Nasce dalla passione d.i.y. questo terzo lavoro dei Cult Of Youth. Sean Ragon, deus ex machina del progetto, ha deciso, per l’occasione, di costruire uno studio di registrazione nel suo negozio di dischi a New York e rinchiudersi in quelle quattro mura assieme al batterista Glenn Maryansky e la violinista Christiana Key. Il parto è Love Will Prevail, disco che allarga ulteriormente i confini musicali dei C.O.Y. Il raggio d’azione rimane folk, anzi neo-folk a giudicare da titoli programmatici come New Old Ways, ma dopo la decadenza pagana dell’esordio e il western cavallerizzo dell’omonimo Cult Of Youth, qui emerge - e ti pareva - una componente psych pop che si fa strada con tutta una serie di riverberini pronti ad appiccicare l’incipit di Man And Man’s Ruin con Prince Of Peace e la già citata New Old Ways. Il compito è svolto con bravura perché, questa è la notizia, il talento dei Cult Of Youth è in ascesa e la maturazione percepibile chiaramente lungo tutte le dieci tracce del disco. E’ altresì vero che le cose migliori rimangono inchiodate ai momenti più Curtisiani, quando il connubio tra lirismo baritonale e esistenzialismo spicciolo assume toni noir (Garden Of Delight), o quando si torna agli accenti western di Path Of Total Freedom più l’eccezione wave post-punk di The Gateway. In definitiva, il meglio continua ad essere legato a quanto già fatto e sentito. E bravo comunque Ragon, uno da tenere d’occhio anche in futuro, basta non si allontani troppo dal quel sostrato nero con cui è cresciuto - tra punk e industrial - perché lì ha il cuore e lì deve restare. (7/10) Stefano Gaz


Lindstrøm - Smalhans (Smalltown, Novembre 2012) Genere: Space disco Quando, a una manciata di mesi da Six Cup Of Rebel, Lindstrøm aveva annunciato l’uscita di un nuovo album (il quarto in solitaria per lui) saranno stati in molti a storcere il naso. Dopo una carriera fatta di filosofia space, sempre a disegnare teorie strettamente personali, sempre restando volutamente fuori fase rispetto al suo stesso ambito d’azione, tornare al lungo formato subito dopo il suo album più sperimentale e astratto sapeva abbastanza di esagerazione. Soprattutto per chi del produttore norvegese aveva sempre apprezzato il profilo intellettuale ma ne aveva lamentato spesso il tocco leggero e fin troppo candido, per chi rispettava il carattere di un Where You Go I Go Too ma in fondo preferiva i momenti più vivaci dei dischi con Prins Thomas. La cosa più bella però è schiacciare play e vedersi svanire in un sol colpo tutte le perplessità. Rà-àkõ-st è subito un gioiellino di energia e armonia, di quelli che prima ti riassumono in maniera egregia tutta la forza della space disco (groove raffinatissimi, sensazioni legate ad altri tempi, quei crescendo progressivi portati al limite ma mai esasperati) e poi te ne presenta il conto nella sua forma di maggiore impatto. Allora capisci quanto è stato importante stavolta il ruolo al mixaggio di Todd Terje, il ragazzo più promettente della scena norvegese e anche quello dal carattere più vivace, e infatti non a caso Smalhans è il più dritto dei dischi di Lindstrøm, quello più assimilabile ai sentori house. Eppure è anche quello che sa toccare più corde, che ti riporta alla memoria il background musicale dei telefilm anni ‘80 e il senso melodico della tua formazione adolescenziale: la materia space sa sempre darti una forte sensazione di familiarità, non c’è da stupirsi troppo se dentro ci senti realtà lontanissime come i Goblin più prog o gli Stadio di Lunedi Cinema. Sono solo sei tracce per poco più di mezz’ora, ma son sei pezzi perfetti. Lindstrøm li ha registrati in studio dopo Six Cup Of Rebel, lavorando senza ansia e senza fretta, forte dell’album recentemente pubblicato. Ha giocato sui loop con l’entusiasmo di un bambino, scendendo nei dettagli e affinando ogni sfumatura singolarmente. Un processo che paga perché lo senti tutto in ogni traccia, in una Eg-ged-osis dai bassi intriganti che si lascia elevare dal tipico senso della melodia norvegese, nel daftpunkismo riacceso di grinta funk di Vos-sako-rv, nella potenza visiva di Faari-kaal che rispolvera l’attitudine da soundtracking e riaggancia la cosmica di Vangelis e Jarre, negli agenti lievitanti di Va-fle-r, un gioco di inserti eleganti che arricchisce l’esperienza d’ascolto e nello stesso tempo ti spara in orbita. La verità è che Smalhans è il generoso dono che Lindstrøm fa al proprio pubblico. Il suo disco popular, se vogliamo. È il sacrificio della propria vena intellettuale per offrire ai fan quel che volevano da sempre, ossia la sua opera più divertente, coinvolta e carica di armonia. Il maestro indiscusso della space music scende finalmente dal piedistallo, mette da parte le lenti da nerd e inforca un paio di Ray-Ban neri, sdoganando i propri piaceri emozionali e spostando la consolle in mezzo alla gente. Questo è l’album che metterà tutti d’accordo e piacerà a ogni categoria d’ascoltatore. Dura poco, è vero, ma l’invito a rimetterlo in play non è mai stato così forte. (7.5/10) Carlo Affatigato, Mirko Carera

Darren Hayman - Darren Hayman & The Long Parliament - Violence (Fortuna Pop!, Ottobre 2012) Genere: songwriting Il songwriter inglese Darren Hayman, ex-Hefner e con una carriera ormai lunga più di un decennio, arriva con Violence alla terza e conclusiva parte di una trilogia, iniziata nel 2009 con Pram Town e proseguita un anno dopo con Essex Arms. Tra side-projects e band varie in cui è da sempre coinvolto, il Nostro non ha perso di vista l’obiettivo primario dichiarato di portare a termine

quest’opera per lui importante, una sorta di epica alla Illinois di Sufjan Stevens, che tratta del nativo Essex e della sua storia, in particolare qui il diciassettesimo secolo e la caccia alle streghe durante la Guerra Civile Inglese. Trecento donne circa furono giustiziate in Essex, Suffolk e Norfolk in quel periodo funesto, e Violence tratta di paura, isolamento, senso di persecuzione. Musicalmente ritroviamo i temi cari all’autore, un songwriting delicato e ironico di formazione in larga parte americana, Byrds, Robyn Hitchcock, ma anche Elvis Costello dal lato UK, qui trattato quasi prettamente in 43


acustico e in essenzialità, e reso uniforme stilisticamente dal concept tematico. Atmosfere sospese, drammatiche, oniriche e scheletriche, e un senso dolente di umana empatia pervade il disco. Hayman compie il piccolo miracolo di comporre un’opera delicata e intensa, incisiva e significativa, da accorto autore di melodie e canzoni qual è mirabilmente. Da tenere con sé per i momenti più introspettivi. (7.1/10) Teresa Greco

De Curtis - Belli Con Gusto (Tannen , Settembre 2012) Genere: rock Baciami Alfredo ce li aveva fatti conoscere per la capacità di muoversi con nonchalance su un terreno borderline in cui il rock classico si incontrava con atmosfere jazzate, interessanti aperture al mondo della soundtrack immaginaria, contaminazioni post-rock. Ora Belli Con Gusto ce li restituisce ancora più maturi nel proporre una forma sonora ampia e varia come input di base ma sempre resa in maniera personale e coinvolgente. Nove tracce strumentali, se si eccettua la conclusiva Plastic Islands impreziosita dal cantato di quel piccolo scrigno di pura bellezza che è Mae Starr (Rollerball) fatela ascoltare a Wyatt, di sicuro apprezzerà - che non stancano mai e che sopperiscono con energia e sfumature alla mancanza di cantato. L’apertura ad altri input è addirittura più stimolante che nel pur ottimo esordio. Funk e soul, soprattutto, ma anche qualche eco fusion, classic-rock, dub e prog, sembrano essersi innestati in profondità nel dna del quintetto, capace di mettere in primo piano il sax di Luca Bronzato come fosse la voce narrante e costruendoci intorno architetture ricercate e perfettamente in equilibrio. Con una sezione ritmica solidissima e varia (Riccardo Orlandi alla batteria e Davide Bronzato al basso), una chitarra alla quale poco si può dire (quel Bruno Vanessi già nei Rosolina Mar) e la tastiera di Andrea Gastaldello che tutto è fuorché un riempitivo (vedi alla voce Mingle), a dimostrare come la coesione e il gioco di squadra sia fondamentale in una esecuzione corale che ha un suo ben definito obbiettivo. Gente che sa prendersi in giro seriamente (Vota Antonio, Il Principe Parlante), che sa giocare con gusto tra calembour e citazionismo mai banale (Gugol Bordello, Senza Ombra Di Dub Io), che prende l’immaginario colto e quello popular fondendoli insieme (Novantesimo Minuto, Il Mio Natale Secco) e che ci fa tornare in mente che la musica è passione e divertimento. Roba da fare con serietà ma senza essere seriosi e/o barbosi, dimostrando di saperci fare senza essere prolissi o altezzosi. Appassio44

nati e appassionanti, i De Curtis non chiedono nulla ma danno moltissimo con umiltà e consapevolezza. Cosa che di questi tempi grami è sempre più dote apprezzata. (7.2/10) Stefano Pifferi

Deacon Blue - The Hipsters (Edsel, Ottobre 2012) Genere: adult contemporary Tutto si può dire, dei Deacon Blue, tranne che manchi loro l’ironia. Perché hipster, loro, non lo sono mai stati nemmeno all’inizio della loro carriera, quando con Raintown contribuirono a ridisegnare le coordinate del pop britannico dopo la sbornia del new romantic e degli inni da stadio, intingendo il pennino in chine ora soul, ora in debito con il songwriting di Bob Dylan e dei Waterboys (anche se presero in prestito il nome dagli Steely Dan) sempre con la giusta dose di personalità. Ricky Ross ha costruito con cura certosina aquiloni di storie e di note, pronti per librarsi nell’aria, forti di una leggerezza spesso solo apparente: la poesia è nelle storie di tutti i giorni, nei piccoli gesti dell’uomo qualunque che percorre le vie di Glasgow con le sue preoccupazioni sperando che prima o poi, tra i nembi, il fumo delle ciminiere e la pioggia scrosciante, arrivi quel tanto sospirato raggio di sole. A undici anni da Homesick - anche se intanto è arrivata la raccolta Singles con tre pregevoli inediti e Ross ha condotto una trasmissione di successo per BBC Radio Scotland - è emozionante ascoltare le nuove canzoni di The Hipsters. Gli ingredienti più distinguibili della ricetta sono ancora qui, intatti - d’altronde, perché stravolgerla quando gli Admiral Fallow e Fran Healy dei Travis hanno fatto tesoro della loro lezione con tanto successo? Eppure questo comeback non è un’operazione nostalgia: sarebbe stato troppo facile, e i Deacon Blue sanno che non c’è bisogno di riscrivere Dignity, o quella Real Gone Kid immancabile nella playlist del calciatore inglese Wayne Rooney durante gli allenamenti prima delle partite della nazionale, e si rimettono in gioco con un lavoro adult ma fresco, ben prodotto da Paul Savage (all’opera con King Creosote e gli Arab Strap) e, soprattutto, con canzoni all’altezza della loro storia. A partire dalla title track e dalla successiva Stars - ovvero, “come fare barba e capelli a Coldplay e Snow Patrol in meno di dieci minuti”. Here I Am In London Town ci riporta a casa: fu proprio Londra, con i suoi AIR Studios, a far partire la loro avventura. Eg White, sopraffino artefice di una serie impressionante di hit (per Adele, James Morrison, Natalie Imbruglia, Will Young, Duffy, Joss Stone..), lascia il segno con la splendida Turn. Gregor Philp, che sostituisce il


Marco Iacampo - Valetudo (Urtovox, Novembre 2012) Genere: folk cantautorato Due anni fa la ripartenza in italiano col disco omonimo che ci presentava Marco Iacampo autore di un folk rock tra il solare e l’indolenzito, abiura piuttosto netta rispetto ai modelli angloamericani (da Lennon a Mark Linkous, per farla breve) che avevano informato la breve ma brillante carriera solista a nome Goodmorningboy. Personalmente trovai che fosse una scelta dignitosa ma un po’ penalizzante, nel senso che malgrado la bontà dei pezzi faticava a ritagliarsi uno spazio proprio, peculiare. Il rischio dell’anonimato aureo stava lì ad un passo. Con Valetudo però il discorso cambia e radicalmente. L’ex Elle sembra aver chiuso il cerchio dell’introspezione portando a galla un bottino prezioso, ovvero un’espressività tanto essenziale quanto efficace, lieve ma intensa, radicata nell’idioma universale del folk con licenza di farsi contagiare da languori bossa, struggimenti british e ugge da chansonnier. Griffato Urtovox e Prisoner Records (etichetta di Michele Bitossi dei Numero 6), prodotto dallo stesso Iacampo e da lui prevalentemente suonato con l’aiuto discreto di un pugno di strumentisti (tra i quali Nicola Mestriner, già tastiere e voce degli Elle), Valetudo mette in fila undici tracce più elusive che allusive rispetto a modelli tanto impalpabili da suonare omeopatici, tipo il Caetano Veloso via Sergio Endrigo di Soltanto io, solamente noi, il Lauzi pacioso di Amore addormentato o il Max Gazzé liofilizzato di Trecento. Altrove sciorina agilità agrodolce come certe morbidezze giovanili Dylan o il garbo del Nick Drake più empatico (Tanti no e un solo sì), altrove spedisce languori Tenco tra caligini british (Gli inverni non mi cambieranno più) e i Perturbazione in mezzo a sonnacchiose inquietudini bossa (Amore in ogni dove). Tutto un gioco di tensioni mitigate che proprio sfuggendo la norma del chiasso riescono a suonare forte, se preferite una reminiscenza del NAM tolta però la gratuità estetica a vantaggio di un forte senso di necessità, vedi il caso dell’amara Non è la California. Uno di quei dischi insomma che navigano ben al di sotto la soglia del clamore ma promettono di ritagliarsi un posto importante nel folto dei tanti, troppi ascolti. (7.3/10) Stefano Solventi

chitarrista Graeme Kelling morto di cancro nel 2004, è ben inserito nel team e co-firma The Outsiders, altro episodio da antologia. La combinazione tra la voce di Ricky e quella della moglie Lorraine è ancora tra le più riuscite dopo quella fra la panna e il cioccolato: funziona sempre, ma in particolare nell’esercizio springsteeniano That’s What We Can Do (toccante dialogo tra padre e figlia), in Laura From Memory e nella tenera malinconia di Is There No Way Back To You?. La macchina è ripartita, e se è vero che ci sono due episodi sui generis e un altro che funziona meglio sulla carta (She’ll Understand) si può ammettere che sì, c’era proprio bisogno di un bel ritorno così, e che siamo contenti di rivedere questi vecchi amici cui forse non abbiamo mai detto, ai tempi, quanto ci facesse star bene la loro compagnia. In attesa di sfogliare l’album dei ricordi (sono in arrivo succulente ristampe di tutto il back catalogue) facciamolo pure senza indugi, questo tuffo nel presente. (6.9/10) Alessandro Liccardo

Death Grips - NO LOVE DEEP WEB (Epic records, Ottobre 2012) Genere: RapPunk La sorpresa dell’uscita di The Money Store era che nessuno ci avesse pensato prima a fare musica come i Death Grips. La sorpresa di NO LOVE DEEP WEB è che non ci sia ancora nessuno che provi a fare musica come loro. Cercando su google “bands like death grips” si trovano solo risposte al limite del comico che vanno dai Have A Nice Life a John Talabot passando per Gaslamp Killer. E’ il segno di un isolamento che ha dell’incredibile se si considera come il loro sound sia allo stesso tempo fresco ed accessibile. Il loro grime, infuso di footwork, unito ad un’estetica hardcore e punk è il semplice assemblaggio di pezzi a portata di mano di chiunque butti uno sguardo al panorama odierno. Se vi è un sound capace di ricapitolare quello che ci piace ascoltare oggi è questo e pe questo la sua fruizione non offre particolari difficoltà se non per semplici ragioni di volume. Eppure ancora una volta, per la band di Sacramento, tutti i riferimenti più prossimi si ritorvano nel passato: i 45


vari Atari Teenage Riot, Rage Against the Machine e Public Enemy. Quello dei Death Grips appare come un vero e proprio solipsismo, che arriva a rasentare la farsa durante la loro parabola di band underground che firma con la major per poi alla fine rompere per divergenze creative. Una scenetta, che al di là della sincerità o meno della band, sembra presa pari pari da un ritaglio di una zine underground nei nineties. E’ una storia di altri tempi che racconta una ribellione contro un business model di altri tempi. Un gesto che ha messo in mostra quanto le case discografiche, che siano major o indipendenti, siano oggi inutili per quanto riguarda la distribuzione capillare della musica. Come se non lo sapessimo già. Infatti l’album è riuscito ad arrivare benissimo nelle case di tutti senza che nessuno si sarebbe mai potuto aspettare il contrario. Le chance sono che la maggior parte di coloro che stanno leggendo questa recensione NO LOVE DEEP WEB se lo siano già ascoltato e la situazione sicuramente non cambia per ogni altro disco recensito, leak o meno, major o meno. Se proprio volessimo trovare le ragioni di questo isolamento, non bisognerebbe cercarle nella musica, ma solamente nel fatto che non se siano mai andati, nel loro non essere mai stati assenti. Dopo aver caricato su youtube The Money Store hanno subito organizzato una bizzarra caccia al tesoro, con una serie di indizi lasicati su /mu/, per poi rilasciare, appena l’attesa iniziava scemare, il leak del nuovo album su creative commons facendo così ancora una volta ripartire l’intera macchina della stampa musicale. Incollati al microfo come un dilettante che insiste di farci ascoltare ancora una canzone, i Death Grips in questi mesi non sono mai mancati a nessuno. Per questo nessuno ha mai desiderato imitarli. Pure tra i due album c’è una continuità senza interruzioni, dovuta alla fretta di buttare fuori nuovo altro materiale, tanto che alla fine si è incapaci di distinguerli. (6.6/10) Antonio Cuccu

Diamond Rings - Free Dimensional (Astralwerks, Ottobre 2012) Genere: synth-electropop Solo due anni fa, ai tempi dell’album di debutto Special Affections, Diamond Rings (John O’Regan all’anagrafe) era il classico nome nuovo rivestito di dosi enormi di hype. Il buzz attorno a Special Affections durò trequattro mesi, sorretto sia dalla bontà del disco sia dal look, abilmente progettato per attirare l’attenzione, del soggetto. Il secondo album Free Dimensional, nuovamente pubblicato sia per la Secret City Records, sia per la Astralwerks Records (che ristampò il debutto nel 46

2011), esce timidamente e senza troppe luci addosso. Un minuto d’introduzione, poi John O’Regan - immortalato in copertina a metà strada tra un androide-androgino retrofuturista e Klaus Nomi - inizia a colororare l’iniziale Everything Speaks, riusto incrocio tra Depeche Mode e David Bowie. In realtà in Free Dimensional sono i ritmi uptempo di brani electropop che strizzano l’occhio ai dancefloor a farla da padrone. E’ il caso del singolo I’m Just Me, della leggerissima ed immediata All The Time e degli abusati synth eighties di (I Know) What I’m Made Of. L’obiettivo è la forma canzone: il canadese infatti non nasconde la continua ricerca della melodia orecchiabile (si prenda la telefonatissima ma irresistibile Stand My Ground), anche a costo di perdere in dinamicità (Put Me On). Fuori dal coro - e piuttosto imprevedibili - il contesto indie rock guitar-diven di Runaway Love e il tentativo - assolutamente dimenticabile - di contaminarsi con sonorità rap&b della conclusiva Day & Age. Free Dimensional non è altro che una collezione di dieci wannabe-hit di derivazione anni ‘80, in grado di regalare qualche minuto di sano intrattenimento e poco più. Se Twin Shadow con il sophomore ha dimostrato di saper andare oltre alla figura appariscente del personaggio, non si può ancora dire lo stesso di Diamond Rings. Staremo a vedere. (6.2/10) Riccardo Zagaglia

Donald Fagen - Sunken Condos (Reprise, Ottobre 2012) Genere: jazz/pop Quel Donald Fagen lì. L’ossessionato. Anima - non ce ne voglia Walter Becker - della perversa creatura Steely Dan, il dildo di acciaio di William Burroughs che sforna bibbie di stile e classe pop, un pop nasale e bianco che succhia tutto quel che può dalla tradizione nera, creando paradigmi di un nuovo modo di intendere la fusion, vette inarrivabili come Aja, ovvero tutto il velluto di un’arte artigianale lungamente affinata nella gavetta newyorkese galvanizzata dal turnismo californiano, tutto questo nell’anno dei Sex Pistols. Proprio le storie - e le leggende - sulle session snervanti del capolavoro Aja illuminano la natura del rapporto ad un tempo carnale e cerebrale, perché il cervello è pur sempre un pezzo di carne, di Donald con la musica. Una musica alla fine anche da tappezzeria, ma che prima è passata da un cesello millimetrico e sotto il bisturi di un’ispirazione melodica e armonica che è sofisticata anche quando apparentemente scontata. In Sunken Condos, quarto disco solista in 30 anni tondi,


troviamo come sempre tutti gli elementi dello steelydanismo fageniano: il tongue in cheeck humor allusivo e il minimalismo descrittivo dei testi; l’anima funky; i coretti femminili a modellare; la purezza timbrica quasi irritante della registrazione (quando ascoltare diventa una cosa da acquolina in bocca); le radici in ultima analisi rag e boogie del suo pianismo; “quelle” progressioni, “quei” saliscendi. E “quella” voce, asciutta e spigolosa, proprio come gli zigomi e la schiena di Donald. Classe a tonnellate anche qui, non si discute, e la cover di Out of the Ghetto di Isaac Hayes funziona perfettamente, ma - giusto per dire - Miss Marlene prende “quella” direzione, quell’incedere, quella cadenza eccetera davvero troppo fageniane, a un passo dall’autoplagio. Nello specifico, ti aspetti che da un momento all’altro si trasformi in I.G.Y., confetto pop dal capolavoro solista The Nighfly del 1982. Quindi? Inevitabilmente, un Fagen che rifà se stesso in chiave minore, la formula magica ormai usurata, ancora più che in Morph the Cat (2006), il grip di una volta ormai diluito. Ascoltare Donald è ancora e sempre un piacere, anche qui; ma poi, dopo, resta davvero poco. Il disco esce il 16 ottobre e dal 10 è disponibile in streaming sul canale MSN Music Premiere. (5/10) Gabriele Marino

Down - Down IV: The Purple EP (Elektra, Settembre 2012) Genere: metal Tra Far Beyond Driven (1994) e The Great Southern Trendlill (1996), tra un’overdose e una pancreatite, prima ancora della tragica scomparsa di un Dimebag Darrel ucciso a colpi di pistola durante l’esibizione di Columbus dei suoi Damageplan, Phil Anselmo trovò la forza di incidere uno dei dischi più importanti e significativi della propria carriera. Quello che diede vita al progetto Down. Nola, pubblicato dalla Elektra nel 1995, era l’anello di congiunzione tra ciò che i Pantera erano stati e ciò che sarebbero diventati prima del loro scioglimento: una metal band influenzata tanto dall’hardcore quanto dal groove hard rock degli Mc5 e dei Led Zeppelin. Nola non fu solo un momento di transizione: in quel disco c’era la matrice di un suono nuovo, lavico, forgiato e fondato sull’approccio sudicio del southern rock, ingigantito da flussi incontrollabili di alcool e droghe. L’importanza capitale della nascita dei Down si racchiude tutta in ciò che accadde anni dopo, quando il loro suono southernsludge divenne ispirazione per la più importante corrente indie metal del nuovo secolo: il southern core. Dai Sourvein ai Cough, da Erik Larrson ai Might

Could, tutti hanno riconosciuto storicamente l’importanza di Nola quale nuovo dettato musicale. Un lavoro che spogliava il metal core dei suoi contenuti più algidi, per conferirgli un carattere più magmatico e paludoso. Qualcosa in cui poter sprofondare. E così, una band nata come supergruppo figlio della fusione di Pantera, Crowbard, Corrosion of Conformity e Eyehategod, è a sua volta divenuta una band itinerante, un carrozzone carnevalesco del Mississipi, in cui musicisti strettamente legati alla tradizione di New Orleans si sono avvicendati, sostituendosi gli uni agli altri per motivi di salute: questa volta, è Rex Brown ad abdicare per combattere i suoi problemi di salute causati dall’alcool, lasciando spazio a Pat Bruders, già con Crowbar, Eyehategod e leader dei death metallers Goatwhore. Cambio line up e un lieve spostamento nell’asse sonoro del gruppo, con un Down IV - The Purple Ep strutturato in trentasei minuti di mini album che non anticipano un nuovo disco ma sono la celebrazione del lato oscuro del metal. Lo stesso Anselmo introducendo il nuovo lavoro sottolinea quanto questo disco sia una dichiarazione d’amore per l’old metal. Le iniziali Levitation e Open Coffins cercano e trovano il contatto con i Black Sabbath di Volume 4, con i Trouble degli esordi e con i Saint Vitus: l’impressionante cono d’ombra dei Down oggi è oscurato ancor di più dalla radice doom metal, che lentamente sta offuscando la luce del groove sudista. Bassi slabbrati, polverosi, spessi; chitarre sgraziate e grezze, meno siderurgiche e più grevi; la voce di Phil oggi più pastosa e matura che mai. The Purple Ep è un passo indietro nel tempo? No, anche se dobbiamo ammettere che i Down sono stati più illuminati in passato e qui sono soprattutto l’energia e la voglia metal ad emergere prepotentemente. Down IV è un disco che apre al dibattito sul “trasformismo della Pantera”, oggi ampiamente rintanata nella grotta dell’heavy metal occulto. Un po’ come accadde proprio alla band madre, i Pantera. Anselmo è pronto con il primo lavoro solista, già definito “..la cosa più heavy che abbia mai realizzato..” e oggi ha scelto per i Down la via dell’oscurantismo doom. Una scelta che sicuramente non tutti apprezzeranno, pur al cospetto di parentesi che non si possono non definire riuscite come un The Curse Is a Lie celebrazione funerea di un brano marcatamente Saint Vitus. Del resto parliamo di una band che non ha mai sbagliato un colpo. (7/10) Mario Ruggeri

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Mimes Of Wine - Memories For The Unseen (Urtovox, Novembre 2012) Genere: alternative rock “Mimes Of Wine è Laura Loriga”. Così scriveva Stefano Solventi all’altezza dell’Ep d’esordio su Mindfinger. Dopo un biennio, vissuto come sempre tra l’assolata East Cost californiana e l’uggioso capoluogo emiliano, il nuovo atteso disco, Memories For The Unseen, dice una cosa fondamentale: la ragazza che dall’androne osservava le cose del mondo, armata solo di piano e voce, è cresciuta ed è cresciuta la formazione che la segue. Mimes Of Wine è Laura Loriga, ma non solo. Il fascino di Apocalypse Sets In stava tutto nell’intimità di una visione condivisa. Un’amica che ti sussurra le proprie paure e i propri sogni a mezza voce sul tappeto melanconico del piano. Da qui piccoli classici nascosti come Fishes, Bolivar e K che la spingevano sulle coordinate delle grandi intellettuali del rock. Stavolta la scenografia dei brani è diversa perché meno espressione introversa-solitaria e più organica, di insieme. Registrato a “La Casa nel vento” da Enzo Cimino con la formazione che è andata in tour (Luca Guglielmino, Stefano Michelotti, Matteo Zucconi, Riccardo Frisari), Memories For The Unseen è un lavoro che è evidente espressione della band e dei giorni passati a suonare insieme. Ha il taglio tipico del secondo disco. Da qui, quello che perde in intimità lo acquista in energia e coesione, restituendo un album più rock, complice anche la post-produzione fatta a Los Angeles da uno che la sa lunga come Adam Moseley. Ciò detto, la mano di Laura è così sicura da fotografare già al secondo disco diverse soluzioni come del tutto autografe e personali. Tolta la tenebrosa intro di Under The Lid, che fa un po’ da ponte con il disco precedente, Alter Of Rain è pura meraviglia romantica, diafana e passionale nello stile della Mojo Pin di Jeff Buckley e il piano altero e nostalgico di Yellow Flowers che tasta astutamente il terreno per una marcetta jazzata mid tempo alla Howe Gelb. La scrittura si fa più classica, ma non meno avventurosa, ed effettivamente molti momenti come Charade, Silver Steps e L’incantatore fanno il paio con molte cose della migliore Tori Amos degli esordi. Auxilio, venata dal fatalismo noir della tromba, mima la struggente fine dei Morphine di The Night, mentre Teethmaker si allinea alle filastrocche alcoliche della tarda Lisa Germano con il finale di Aube, che gira in un valzer romantico e sembra quasi una citazione dell’autrice di Lullaby For The Liquid Pig. Il piano quindi è sempre l’architrave dei brani, ma la chitarra quando appare non è un elemento disorganico. Anzi. L’ultima Hundred Birda, con la sua fragranza grunge lisergica stile Jayne Says fa quasi rimpiangere che non ci sia più sei corde nel disco. I Mimes Of Wine si confrontano con i classici e stanno li. Reggono il confronto. Hanno il vocabolario giusto per dire la loro in questi anni così avari di discorsi significativi. (7.5/10) Antonello Comunale

Ellie Goulding - Halcyon (Polydor, Ottobre 2012) Genere: ch(art)-pop Il concetto post-Kate Bush di “art pop” negli ultimi anni ha fatto prima da contraltare al mainstream pop più becero, poi - successivamente all’esplosione mediatica di Florence & the Machine - ha subito mutazioni creando incroci a metà strada tra i due mondi, quello art-oriented e quello (ch)art-oriented. La venticinquenne inglese Ellie Goulding fino ad oggi si posizionava esattamente a metà strada, su quella stretta linea di confine che generalmente nell’immaginario degli appassionati divide il “buono” dal “cattivo”. Vincitrice nel 2010 del BBC Sound e del Critics’ Choice Award ai Brit Awards, Ellie Goulding è stata catapultata 48

al successo fin da subito raggiungendo le prime posizioni sia nelle classifiche inglesi (con Starry Eyed e la cover di Your Song prodotta da Ben Lovett dei Mumford & Sons) sia nelle classifiche americane (Lights), trascinando l’album di debutto oltre quota 1,5 milioni di copie vendute. Attesa alla prova del nove Ellie si presenta con Halcyon e mette subito le cose in chiaro: per mantenere alta la credibilità coverizza un brano di culto come Hanging On di Active Child ma poi scivola su se stessa infilando nel singolo il feat con l’eterno incompiuto pop-grimer Tinie Tempah, con tanto di simil-drop che non guasta mai (la relazione con Skrillex è, forse, solo un dettaglio). Scritto principalmente insieme a Jim Eliot, Halcyon vive di intuizioni (e di un apprezzabile talento canoro) spesso smorzate da cadute di stile. Maggiore che in passato la


presenza di piano-ballads che sanno tanto di tentativo di Adeleizzazione (I Know You Care, My Blood), loop vocali (l’intro di Anything Could Happen, Only You), vie di mezzo electro/pop che stentano a decollare (Halcyon) e pomp-floor alla Nero (Figure 8). Neanche quando si ricorda di poter giocare sul raffinato (JOY, Explosions e church-choir annessi) riesce ad impressionare positivamente. Rispetto a Lights troviamo una Ellie Goulding meno sfacciata, perennemente indecisa e con in mano tredici canzoni troppo rassicuranti per i fan di Zola Jesus o Bat For Lashes e con melodie troppo deboli per ambire al target del sabato sera. Non siamo di fronte ad un tonfo pesante quanto quello di Marina & The Diamonds, ma dal prossimo disco Ellie dovrà decidere da che parte stare. (5.6/10)

dispiacerebbe nemmeno ai fan di The Field. Insomma, il disco di De Raymondi è tutto quello che vorremmo uscisse ogni giorno: un artista giovane con una lunga carriera ancora da costruire (ma con una solida base teorica, ha infatti studiato al Berklee College of Music di Boston e al Musicians Institute di Los Angeles), una decisa connessione alla tradizione e tante idee che almeno qui non sembrano essere state influenzate da cattivi maestri o da eredità scolastiche ingombranti. (7.6/10)

Riccardo Zagaglia

Ormai sembrano lanciati sulla via della iperproduttività i cinque da Portland. Non paghi di averci sollazzato lo scorso anno con Beyond The 4th Door e Night Gallery, il lavoro in collaborazione con Sun Araw, per non parlare delle tapes in edizione limitata, raddoppiano pure quest’anno. Dapprima Dawn In 2 Dimensions, di qualche mese addietro. Lavoro in cui gli Eternal Tapestry danno sfogo al lato più free e sfattone del proprio fare musica: lunghe suite psych&hard deraglianti e sulla falsariga di Amon Duul, Hawkwind e compagnia cantante. Roba che costituisce il cuore delle esibizioni live del gruppo americano, tanto che alla fin fine l’energia, le estenuanti aperture fuzz-oriented (Wholeodome), la ciclicità (l’ottima Marrow Of The Wand) e la rotondità del suono (anche quando si abbassa il tiro, come nella sognante Bread Of Dreams) sarebbe forse più apprezzabile sotto un palco che seduti sul divano. Della serie, come scapocciare tra le quattro mura quando parte la megasuite I.S.F.S./Dawn in 2 Dimensions/Quantum Leap? A World Out Of Time invece è l’effettivo nuovo album del 2012 e mostra qualche cambio di direzione o meglio, qualche tentativo di ricercatezza che superi i confini dell’hard psichedelia a cui ci hanno ormai abituati. Citando apertamente Faust e la gemma nascosta Algarnas Tradgard - hippies svedesi in fissa con la psichedelia meno ovvia - e buttando tra le righe riferimenti a situazioni e dimensioni se non lontane, per lo meno non abituali, i cinque provano a giocare la carta a sorpresa del collage tra impro e composizione, in presa diretta. Lo psych-folk acustico e bucolico di Sand Into Rain che rimanda a Pentangle o Fairport Convention, ad esempio, unito ad una sempre maggiore centralità dell’immaginario da b-movie sci-fi, allontana definitivamente il quintetto dai panorami krauti degli esordi per una psichedelia tosta ma ricercata, mentre qua e là si rintraccia,

Emanuele De Raymondi - Buyukberber Variations (Zerokilled, Settembre 2012) Genere: contemporanea Non è un caso che De Raymondi sia stato invitato all’ultima Biennale Musica di Venezia insieme ai guru dell’avanguardia elettronica contemporanea (fra i tanti Pierre Boulez). Il suo nuovo disco è infatti una delle più felici mediazioni tra ricerca e ascoltabilità, fra accademia e pop che ci siano capitate fra le mani negli ultimi anni. La base di queste dieci tracce si muove utilizzando campioni di clarinetto suonati dall’esecutore turco Oguz Buyukberber, tagliando il tutto con le armi dell’elettronica, che pulsa un palese ricordo minimalista nell’iniziale Bv01 (Bang on a Can) o l’onnipresente riferimento alla stagione d’oro di Glass e Reich (Bv06, Bv10). Ma se questi riferimenti americani caratterizzano molta della cosiddetta classic pop contemporanea (vedi alla voce Nico Muhly, ex protegé di Glass), il nostro De Raymondi va oltre e innesta nel ricordo minimal un savoir faire melodico tutto italiano, che rispolvera le estetiche così distinte da Francia e Germania del nostro Studio di Fonologia milanese (Berio e Maderna). La melodia focalizzata osmoticamente nelle crepe del suono, senza sforare in industrialismi di difficile decrittatura à la Nono, costruisce quindi un’ambient di classe sopraffina. I quadri sonori di De Raymondi sono sospesi in un universo meditativo che confina con visioni mistico-ECM (Bv07, Bv09) e loop tagliati con maestria e cura certosina. Oltre alla melodia, l’artista potrebbe pure figurare in playlist per dancefloor evoluti, dato che in qualche punto ricorda l’Amon Tobin più sperimentale e visionario, o le ipotesi illbient di DJ Olive (Bv08).Per chiudere, se ci fosse un basso un po’ più marcato non

Marco Braggion

Eternal Tapestry - Dawn In 2 Dimensions / A World Out Of Time (Thrill Jockey, Novembre 2012) Genere: psych

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nel magma sonoro, qualche spunto interessante. In questo senso, The Currents Of Space, The Weird Stone, Alone Against Tomorrow e When Gravity Falls sono buoni esempi del tentativo messo in atto dagli Eternal Tapestry: mantenere l’identità provando a smuoversi dalle fondamenta. Il risultato però non è nè carne nè pesce e manca ancora qualcosa per spiccare il volo. (6.7/10) Stefano Pifferi

Fritz Kalkbrenner - Sick Travellin’ (Suol, Ottobre 2012) Genere: Techno Soul C’è sempre un momento nella vita artistica di un producer in cui si smette di inseguire ricerche e nuove intuizioni e si vuole tirare le fila di quanto raggiunto fino a quel momento, con un prodotto di sintesi che esprima nella maniera migliore lo stile dell’artista e centri in pieno il bersaglio posto sul cuore dei fan. È sempre successo, ma è curioso vedere quanto spesso il fenomeno sia accaduto quest’anno e con quale efficacia: da Last Step (Sleep è il riassunto all’apice delle derive acid meno aggressive di Venetian Snares) a Nathan Fake (Steam Days, trangolazione delle diverse anime di lui apprezzate), da Photek o Brackles (coi loro dischi di riepilogo dell’immaginario personale) a Lindstrøm (Smalhans come figura definitiva del suo modo di pensare space - e ve ne parleremo presto). In un momento in cui le tendenze di maggior successo son quelle che spingono verso l’esplicito e l’aggancio diretto, è questo forse il vero modo in cui anche i produttori più intellettuali possono tenere il passo. I fratelli Kalkbrenner, poi, questo carattere ce l’hanno nel sangue: già l’anno scorso notavamo come l’Icke Wieder di Paul servisse come dolcetto generoso (e un po’ piacione) che nulla aggiungeva o toglieva al proprio stile consolidato. Quest’anno tocca a Fritz che, pochi mesi dopo l’altra operazione di riepilogo sui mood della sua label, chiude col suo secondo album il cerchio intorno a ciò che il suo pubblico ha sempre amato. Che poi significa una cosa sola: ripartire da Sky & Sand. Il corpo più convinto di Sick Travellin’ è quello di pezzi come Make Me Say, Get A Life, No Peace Of Mind o Little By Little, abilissimi (e precisissimi) incastri di quel ritmo positivo berlinese nato techno ma plasmato house che è il vero marchio di fabbrica dei Kalkbrenner, con la firma personale del vocalizzo dismesso che stabilisce l’identità al volo. Nè più né meno che quel che a chiunque viene in mente al solo fare il suo nome, accompagnato ovviamente da una serie di pezzi strumentali come Chequer Heart Day o Monte Rosa funzionali a creare atmosfera 50

(leggi ambient, a tratti quasi chiilout) intorno ai pezzi forti. Non una virgola fuori posto, sound pettinato con cura maniacale e nessun rimescolamento delle carte per quanto casuale potess eessere. La cosa che più si avvicina a una mossa estrosa rispetto al resto è il funk reprise di Willing che tanto piacerà a chi ha amato l’album di Breakbot, col quale Fritz Kalkbrenner condivide la stessa passione di ricerca. Ma guai a guastare l’alta fedeltà al sound di bandiera. Qui non si tratta di mancanza di coraggio, ma dell’impegno preciso di rispettare con esattezza millimetrica l’aspettativa del proprio pubblico. È una scienza, e i Kalkbrenner ne sono i più esimi luminari. (7/10) Carlo Affatigato

Gabriel Sternberg - Phantomschmerz (Klang:hAUS, Ottobre 2012) Genere: dream pop C’è qualcosa di rassicurante nel modo in cui certe cose continuano ad accadere malgrado i timori, gli allarmi, gli sconvolgimenti. Il bioritmo espressivo di Gabriel Sternberg, ad esempio, sembra procedere con beata indifferenza rispetto al bailamme quotidiano, all’intersecarsi schizoide degli stili. Appare refrattario ad ogni ipotesi di clamore e agli input modaioli, semplicemente riprende a tirare il filo esile ma tenace del suo discorso, tremore indie appeso a ugge cameristiche (soprattutto la title track), visioni dreamy post/cinematiche ed emulsioni shoegaze. Balenano come fotogrammi liquidi influenze e riferimenti, tipo i Lush liofilizzati Clientele (nel ciondolare serico e sonnacchioso di All We Want e Pascal On Drugs) o le palpitazioni lo-fi nella bambagia onirica Slowdive (New Citizen, Halfway Between Us), o ancora l’estro androide minimale Lali Puna in Don’t Ask e l’Elliott Smith lunare di Godspeed. Eppure alla fine avverti palpabile il senso di un solco personale che Sternberg è riuscito a tracciare canzone dopo canzone di questo album maturo e robusto oltre e malgrado l’aspetto diafano. (7/10) Stefano Solventi

Giovanni Block - Un posto ideale (Incipit Records, Settembre 2012) Genere: cantautorato Giovanni Block è un giovane cantautore napoletano appena 28enne con alle spalle una gran quantità di premi, segnalazioni e riconoscimenti, non ultimi quelli guadagnati alle Targhe Tenco 2012 in una categoria


Neil Young/Crazy Horse - Psychedelic Pill (Warner Music Group, Ottobre 2012) Genere: psych rock Chi scrive non ha mancato di sottolineare quanto gli ultimi dischi di Neil Young sembrassero più urgenti che ispirati. Bene, con questo Psychedelic Pill - di nuovo in sella ai fidi Crazy Horse dopo il recente Americana - si rientra in carreggiata alla grande. E sapete di che razza di carreggiata stiamo parlando. Sommariamente, si tratta di otto pezzi più uno (la versione alternativa della title track) per quasi un’ora e mezza di caro vecchio country psych ad alto tasso d’elettricità. Ma in realtà in ballo c’è altro. Questo disco è un affronto alla dissoluzione del supporto fonografico, un rilancio avventato, un doppio album (triplo nella versione vinilica) come segno di sfacciata, baldanzosa persistenza. Un lavoro semplice e complesso assieme, certo ben consapevole di non poter arginare un bel nulla ma che ugualmente si butta nella mischia come se fosse l’unico modo per tracciare un confine tra definito e indefinito, tra significativo ed effimero. In ogni traccia avverti frammenti di mille situazioni del catalogo younghiano (le coordinate convergono in particolare verso Zuma, Freedom, Sleep With Angels, il trascurato Broken Arrow e l’immancabile Rust Never Sleeps), detriti frutto dell’erosione di un edificio che eccede ormai se stesso, ma questo non ne svilisce la forza anzi ne sottolinea la natura, ne attesta l’origine amplificandone il mandato. È un disco orgoglioso di portarsi dentro tutti i titoli che lo hanno preceduto, l’approdo solido di un lungo percorso, disposto a farsi preventivamente un baffo di ogni accusa d’obsolescenza perché sorretto da una convinzione granitica, ancor più rilevante in questi anni buoni a polverizzare i riferimenti in una miriade di stili simultaneamente possibili e perciò impossibili, perciò de-stilizzati. Indifferente e fiero come una delle bestie a cui rimandano i suoi soprannomi (bisonte, cavallo pazzo, lupo grigio...), il sessantasettenne Young fa rotolare idee più o meno buone in una panatura scabra e vischiosa come insegna la ben nota ricetta, mantecando il tutto in un crogiolo di assoli che poi sono le variazioni di uno stesso, interminabile assolo iniziato (almeno) quattro decadi fa. Come dire è tutto un gioco signori, una pillola illusoria, ma ne abbiamo/ ne avete bisogno: Ramada Inn è ballata melò tra deserto e asfalto, She’s Always Dancing possiede impeto roccioso e lirismo corale CSN&Y, Born In Ontario snocciola country-stomp sanguigno e beffardello come certi siparietti che alleggerivano le scalette dei 70s, Twisted Road fa country folk tutto mentale e persino un po’ (volontariamente?) caricaturale, Walk Like A Giant trama arpeggi e intagli acidi screziandoli con un fischio ammiccante e coretti beachboysiani fino al ritornello sbruffone. Non si può tacere certo della mezz’ora d’immersione indolente e rapita di Drifting Back, innescata da un ciondolare acustico neanche troppo brillante ma quel che conta è peregrinare in sella al bisogno quasi fisiologico d’astrarsi sulla vibrazione elettrificata. Poi, certo, c’è Psychedelic Pill, il vocoder e il riffone in acido robottizzato spacey, rigurgiti Re-actor e Trans in cavalcata sbrecciata Ragged Glory, la semplicità basale Cinnamon Girl nell’assolo, la versione alternativa che toglie l’effettistica sottolineando filiazioni da Freedom (o meglio dal febbrile coevo Eldorado EP). È il disco di Young più riuscito da venti anni a questa parte, uno dei suoi più importanti per come impatta sul presente e per la potenza con cui tira le fila di una carriera formidabile. Nei “passi” finali della già citata Walk Like A Giant c’è qualcosa di giocoso, improrogabile (sono o non sono i “prisoners of rock’n’roll”?) e assieme struggente. È una baracconata che rimanda a qualcosa di inesplicabilmente profondo che non demorde pur sapendosi quasi sul punto di arrendersi. È lo psych rock come categoria del sentire, del vivere, dell’esprimere. Non ci credevamo quasi più, ma ancora una volta dobbiamo essere grati a Neil Young. (7.6/10) Stefano Solventi

Opera Prima - poi vinta da Colapesce - che lo ha visto tra i finalisti. Quello di Block è un cantautorato italianissimo, nel senso più classico del termine, lontano dalle sonorità e dalle contaminazioni dell’indie nostrano e ben radicato nella storia della nostra musica folk-pop. I riferimenti

vanno da Buscaglione a Concato e si muovono tra le sonorità contemporanee di un Cristicchi o di un Mannarino, infilandosi solo parzialmente in quel fil rouge d’autore retto in primis da Vinicio Capossela. Non molte idee, a dire il vero, ma un’ottima commistio51


ne: da un lato l’afflato più strettamente pop, dall’altro qualche buona ballata all’italiana (Verrà un giorno, Notte da cantautore). Block è sicuramente uno che sa come trattare la scrittura, quella musicale in primis, riuscendo a conferire alla propria classicità una levità e una profondità compositiva non consuete. Sui testi il discorso è diverso: non convince una certa retorica di fondo che fa capolino qua e là in tutto il disco (Violetta e gerani, Notte da cantautore), una scrittura vecchia a cui manca spesso personalità e la voglia di uscire da un recinto già ben noto a un certo pubblico italiano. La sensazione generale è che si debba aspettare qualche anno e la scelta di una più precisa direzione, quest’ultima magari mossa dal desiderio di destrutturare uno schema forse un pò vetusto. (5.8/10) Giulia Cavaliere

Girless & The Orphan - Nothing to be worried about except everything but you (Stop Records, Ottobre 2012) Genere: indie-folk Alla resa dei conti prima o poi ci arrivano tutti. I Girless & The Orphan erano passati più o meno indenni attraverso due Ep e uno split (con i Verily So) grazie a una sorprendente vena creativa che ha regalato loro un discreto seguito di critica e pubblico. Facile dunque aspettarsi, dalla prova in full length, una dignitosissima conferma, che prendesse come riferimento vuoi la novità degli arrangiamenti, vuoi quella stabilità nella line up che è sempre mancata. Non ci soffermeremo troppo su quanto di buono e originale (e non solo di promettente) il duo di Viserba sciorini con naturalezza. D’altronde ce ne eravamo accorti già in tempi non sospetti, quando nella spontaneità del loro folk rock, rintracciammo una commistione di irriverenza e strafottenza che non poteva non comparire anche in Nothing To Be Worried About. È il caso di brani come Mein Vatikampf o Phony, sottili rasoiate condite in salsa punk n’ roll - un po’ alla Neutral Milk Hotel - scagliate contro le istituzioni religiose. Per quanto geniali e azzeccatissime, queste cose erano comunque già abbondantemente nelle corde della band, tanto più che alla prova degli arrangiamenti, il tutto tende ad essere spesso un po’ troppo acerbo. La vera svolta sta nella costruzione dei momenti più minimali e nella leggera virata verso un pop rock più fruibile, meno spigoloso. Quest’ultima è ben testimoniata da Bad Scene, Your Fault (brano praticamente smithsiano negli arrangiamenti) e da Cinnamon And Arrogance (in cui l’incontro dei Pogues con gli Strokes suggella un 52

idillio impeccabile). Quanto ai momenti di introspezione e di intimità, essi sono sapientemente distribuiti nelle nove tracce e, se nei precedenti lavori rappresentavano il punto di debolezza, qui sono il piatto di portata. Your Chest Is A Snuggery, The Speechless One, It’s Your Job To Keep Class-Worm Elite sono tutte dimostrazioni di estrema acutezza, nel maneggiare la forma-canzone alla maniera degli americani, come insegnano Johnny Cash e Simon & Garfunkel. Come dire che, alla resa dei conti, valga l’equilibrio: strafottenti sì, ma con un bagaglio di scrittura non indifferente. (6.8/10) Nino Ciglio

Gli sportivi - Black Sheep (Flue Records, Novembre 2012) Genere: Rock n’ Roll E allora si prendano pure a pugni gli arbitri o le forze dell’ordine, ci si ricopra di patine retroattive, di rock n’ roll alla gelatina, di minimalismo suonato chitarra e batteria e la pecora bianca di un tempo si trasformerà nel nostro peggior nemico. Gli Sportivi, agonistico e sporchissimo duo veneto, danno alla luce il loro primo full lenght Black Sheep, che di lenght non ha proprio un bel niente perché si riduce a otto mirabolanti gesti atletici. Otto brani tiratissimi che sanno di boxe e adrenalina, di sudore e di cori da stadio. E quale miglior formula se non quella del vecchio rock n’ roll che di contemporaneo non ha nemmeno la tecnica di registrazione (analogica, è chiaro), ma guarda con irriverenza a sua santità Iggy Pop (Gimme Gimme Your Hand, Go Back) o al mistero vagamente sexy dei Rolling Stones (Black Cat, Talking About)? Senza pensare naturalmente che è probabile che i due siano persino passati da declinazioni gotiche e decadenti in stile Christian Death o Cramps (How Does It Feel, Commit Suicide). Lo si capisce dall’uso cavernoso delle vocalità e degli effetti chitarristici, che, se vogliamo, è l’aspetto più interessante di un lavoro che, pur non lasciando un attimo di respiro, regala pochi momenti di genuina originalità. E proprio la ricerca dell’originalità non deve essere un limite per l’ascoltatore, giacché Gli Sportivi non ne sembrano affatto interessati, preferendo piuttosto muoversi (e lo fanno abbastanza bene), nei sentieri tracciati dai loro (enormi) predecessori. Ci basti questo. (6.4/10) Nino Ciglio


Santo Barbaro - Navi (Cosabeat, Novembre 2012) Genere: elettronica mutante Il contrasto è affascinante: da un lato i versi poetici di Pieralberto Valli, scarni e introspettivi come pochi, lontani dai finti intellettualismi e perfetti d’esistenzialismo; dall’altro la musica di questo terzo disco dei Santo Barbaro, elettronica spuria venata da certe claustrofobie concettualmente non troppo distanti - pur con le dovute differenze di strumentazione - dal lavoro di formazioni come gli Einstürzende Neubauten. Opposti che in sé racchiudono uno scambio, una sensibilità torbida e minacciosa costantemente sul punto di deflagrare, tra parentesi ambient celestiali (Io non ricordo) e ribollire canceroso (gli Air malaticci in salsa kraut dell’introduttiva Urania), aperture luminose baciate dagli archi e poi sommerse da una techno-idm in formalina (la splendida Prendi me) e incedere marziale dalle valenze quasi blues (il brano Quercia, ispirato a un episodio de Il libro degli esseri immaginari di Jorge Luis Borges ). In Navi i confini si fanno labili, la chiave di lettura pure: i suoni sintetici sono un foglio bianco su cui scrivere liberamente, piuttosto che un genere stringente e hypato; la parola è soppesata e ridotta alle sue forme elementari, in un risparmio narrativo che lascia tutto lo spazio al mood che riescono a costruire i brani nella loro interezza. Febbrili, chimici, visionari, capaci di osare interferenze inconsuete tra linguaggi agli antipodi. “Santo Barbaro come ode alla diversità, alla molteplicità”: Navi, di questa diversità “santa” è lo zenith, l’espressione completa. Come dimostrano anche la new wave zoppa di Terzo paesaggio, lo Springsteen decapitato (altezza Nebraska) de La tempesta, l’electro profonda e narcotica di Non sei tu o il trip-hop di Nove navi. Un linguaggio che si compone pezzo dopo pezzo, in un confronto estenuante tra le parti che ha la facoltà di portare quasi sempre dove non ti aspetteresti. Il precedente Lorna è lontano, per l’estetica generale ma soprattutto per il fattore ritmico: là morbido e allentato, qui ben presente, talvolta rigoroso, seppur aperto a trame più flessibili. Anche se a cambiare è proprio la prospettiva generale: non più solo canzone d’autore, piuttosto un universo a sé stante scolpito nei suoni del sintetizzatore almeno quanto nelle parole. Avventuroso senza suonare ostico, il terzo disco dei Santo Barbaro è un lavoro con cui fare i conti un passo alla volta, dalle prospettive ampie e certamente poco in armonia con con le facilonerie da web 2.0 a cui certo indie autoctono degli ultimi tempi ci ha abituati. Tanto basta a farcelo amare. (7.5/10) Fabrizio Zampighi

Golden Void - Golden Void (Thrill Jockey, Novembre 2012) Genere: Psych rock Hanno lo stesso nome di un brano degli Hawkwind degli anni Settanta, ma vengono dagli Stati Uniti, dove Isaiah Mitchell (chitarra e voce), Aaron Morgan (basso), Justin Pinkerton (batteria) e Camilla Saufly-Mitchell (tastiere). Con la band inglese condividono l’amore per la psichedelia, ma l’oceano di mezzo si fa sentire: il sound dei Golden Void è tutto rock sudista, Americana, seventies nuggets aggiornato ai duemila quel tanto che basta per non sembrare fuori tempo massimo.Questo esordio è stato registrato nei Lucky Cat Studios di San Francisco con Phil Manley dietro alla console. Detto che quest’ultimo ha lavorato, tra gli altri, con Moon Duo e Wooden Shjips il quadro sui riferimenti musicali del quartetto si completa perfettamente. Su tutto, però, bisogna sottolineare come aleggi un fantasma, mai citato del

tutto completamente ma immanente, che sono i Black Sabbath. Sarà perché Mitchell sembra ricercare la stessa vocalità dell’Ozzy in buona forma dei Settanta, sarà per la ritmica rutilante di molti pezzi.Ne escono sette brani per una mezz’ora di intrattenimento in cui spiccano i 6/8 dell’opener Art of Invading, il power fantasmagorico di The Curve, il deserto Meat Puppets di Badlands e una corale Atlantis, che anche per le tematiche semi-fantascentifiche sembra chiudere il cerchio con gli Hawkwind e le loro svisate moorkockiane. Non per tutti i palati, ma sicuramente da tenere d’occhio per chi porta ancora i pantaloni a zampa. (7/10) Marco Boscolo

Halls - Ark (No Pain In Pop, Ottobre 2012) Genere: post-Blake La scena di South London non conosce tregua. Sam Ho53


ward aka Halls, dopo il Fragile EP uscito ad inizio anno, ha visto aumentare l’hype attorno a sé settimana dopo settimana, prima di debuttare ufficialmente in formato lungo con Ark pubblicato per la No Pain In Pop. Il cathedral-sound - con tanto di rumori di fondo dell’iniziale I introduce anche la successiva White Chalk. Singolo lanciato nel periodo dell’anno meno adatto (pieno agosto), White Chalk è fino ad oggi probabilmente il brano simbolo dell’interno progetto. Si parte da un piano sommerso da echi e da una melodia dimessa quanto evocativa, poi arriva un suono alieno. Brividi. Da qui si ricomincia prima di lasciare spazio a battute+pause di derivazione post-James Blake e all’atmosfera goth-spel che può ricordare Active Child e che è parte integrante dell’Halls-sound. Come sono parte integrante anche le sfumature glitchate che si fanno strada iniziando da I’m Not There (ad un certo punto sembra di sentire Bon Iver dietro al microfono), le ambizioni ritmico-melodiche figlie di Thom Yorke (Roses For The Dead), il notturno incedere post2step mutato via Burial di Funeral e l’approccio quasi folktronico di Reverie, rinvigorito da una melodia decisamente riuscita. Come dimostra la decisione di inserire in tracklist più di un passaggio esclusivamente strumentale, Halls per il momento è più un modellatore di atmosfera che un songwriter vero e proprio e nel suo modellare dimostra già - nonostante i vari riferimenti - di avere personalità ed un proprio riconoscibile stile, punto di incontro tra modern classical/ambient, chamber/church-pop e le sonorità elettroniche più acclamate degli ultimi anni. Come Perfume Genius ci consegna un’opera prima imperfetta ma con tutti i chiari segnali di un talento puro che in futuro potrà portarlo a fare ancora meglio. (7.1/10)

di vinili dei Technotronic. L’effetto non è ne noioso ne divertente ma desta il giusto quantitativo di curiosità e attenzione. Ora, rispolverare i 90’s è una delle cose più hype del momento e, ognuno a proprio modo, l’han fatto in tanti (Scuba, Lone, Photek...). Qui Butler scongela al microonde un pezzo di nuova york con la sua proto house e la speed garage d’importazione UK e lo fa con un mix di mestiere, senza punte da turntabilism ma con una sensazione di discreta omogeneità. Quindi via a tutte le derive del caso: cassa dritta, soulful synth, hi-hats in rilievo come se piovesse e due lampi di genio, quel Can You Feel It col basso che fa tanto Grease (i più bravi ci avranno riconosciuto il campione dietro I Can’t Stand It dei Twenty-4-Seven) e l’altro tormentone d’eleganza house Don’t Want To Hurt You. Il mix fila liscio in un batter d’occhio, senza suscitare troppa attenzione ma sicuramente andando a tempo con la testa, macinando ricordi ormai d’essai delle prime serate in disco (quel bomber blu con interni arancio seppellito in armadio potrebbe tornare di moda). L’inedito Release Me si inserisce nel mix con grande coerenza e aria di vecchia scuola house nel tutto, non colpisce, non ferisce ma con la sua diva ai vocals fa sicuramente atmosfera. Sostanzialmente ci sono due tipi di DJ-Kicks: quelli di sostanza che rimangono nel tempo (Scuba, Apparat, Photek) e quelli estetici ed estemporanei ma che a una festa in casa ti fanno fare un figurone (Chromeo, Robyn, Booka Shade). Questo si piazza in questa seconda categoria già dalla copertina. Considerato che Natale arriva sempre più in anticipo e già ad Halloween qualcuno vende luminarie, potrebbe essere il regalo perfetto per la ragazza che ancora non vuole perdonarti quell’I Love Grime ancora nel lettore. (6.5/10)

Riccardo Zagaglia

Mirko Carera

Hercules And Love Affair - DJ-Kicks (!K7, Ottobre 2012) Genere: House

Homeboy Sandman - First of a Living Breed (Stones Throw, Settembre 2012) Genere: hip hop

Tocca agli Hercules And Love Affair - e più precisamente al leader Andy Butler - animare il 42mo DJ-Kicks di casa !K7. L’annuncio in pompa magna era stato dato a fine agosto, ma la storia dei richiami spirituali ora sembra abbastanza una balla, di sciamanesimo, incensi, pratiche di meditazione yoga e guru newyorkesi non ce n’è ombra. Questo DJ-Kicks mira invece a un target di coolness over 30 con ricordi alterati dei decadenti 90s, come fossimo in una festa un po’ ingessata con il Tom Cruise mannequin di Cocktail dietro al bancone e alla consolle Drugo Lebowski in accappatoio con una valigia

Newyorkese figlio di un pugile portoricano, Angel Del Villar II ha metabolizzato l’adolescenza non proprio drittissima per le strade del Queens andando poi in direzione opposta e contraria: prima ha studiato legge all’università (e dopo aver mollato, al terzo anno, ha fatto il community lawyer) e poi si è impegnato anima e corpo in contesti educazionali (tenendo corsi nei licei eccetera; skill questa spottata anche su MTV, che lo ha voluto come personal coach in una puntata del suo reality motivazionale per ragazzi Made, e che lo ha fatto diventare una specie di maitre a penser del settore).

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First of a Living Breed, quarto album in cinque anni, è il suo debutto lungo su Stones Throw. Hip hop rappato benissimo, flow fluido, serrato, piglio maturo, basi classiche, temi e modi conscious, ma senza melensaggini (giusto un po’ di retorica complottista in Illuminati), senza sbavature né momenti di down. Ma anche senza particolari frulli di fosforo o folgorazioni. Comunque, come rapper, bravissimo. (6.5/10)

siano al servizio del dream-glo, è così per i trap/modern beats declinati pop mainstream dei Purity Ring e, in questo caso, del fascino di nicchia del programming juke applicato alla darkwave particolarmente in voga. Attendendo la prova su LP per la pronuncia definitiva, ciò che al momento il nostro ci ha fatto sentire ha già un suo bello spirito, ci piace parecchio. (7.1/10) Massimo Rancati

Gabriele Marino

Howse - Lay Hollow EP (Tri Angle, Maggio 2012) Genere: crepuscular juke È già un anno abbondante che la Tri Angle ha compiuto ufficialmente il passo della maturità. Adesso il trend procede per stimolanti incroci tra oscurità introverse e intellettualismi ritmici più o meno espliciti, una ricetta che finora ha funzionato alla perfezione accontentando le esigenze di innovazione del pubblico senza però snaturare l’estetica di catalogo con rivoluzioni troppo impetuose. Insieme a Holy Other, Vessel e Evian Christ, il giovane da tenere d’occhio oggi è il ventiduenne di Providence Nathaniel Oak (alias Howse): le cinque tracce che compongono l’EP di debutto Lay Hollow si sviluppano non solo su field recordings evocativi, synth lugubri, bassi profondi, droni soffusi, foschia lo-fi e pitch shifted voices - ovvero tutti i tratti salienti dell’elettronica arty manipolata che la label di Brooklyn si è scelta per farsi parallelo beat della coerenza dark/goth 4AD - ma pure su (sorpresa) cablature juke e jungle. Si parla - come è ormai consuetudine - di influenze filtrate dagli ascolti e radicate sottopelle, piuttosto che di background diretto. Il risultato è un continuo, crepuscolare gioco al contrasto fra restraint ambient post-Balam Acab (o Laurel Halo in abito King Felix) e frenesia intelligente. Ne è emblema VBS: ritmica 808 nervosa e gemiti ossessivi su letto texturiale che pare fatto di anime in pena (un caso la medesima provenienza di H.P. Lovecraft?); ancora, vibrazioni artcore jungle ad echeggiare certe produzioni mid-90s di J Majik e Photek che vengono ricontestualizzate nella forma juke-feticcia à la Dream Continuum (Machinedrum + Om Unit) e modernizzate, per concisione, nel taglio. Howse va insomma ad inserirsi naturalmente nel filone di giovani talenti con spiccata conoscenza dell’elettronica d’élite, che sanno di aver qualcosa di potente tra le mani ma si mettono furbescamente i guanti prima dell’uso, spendendo il proprio estro per rinforzare ciò che appartiene ad altre sfere dall’appeal più sicuro. Fu così per Baths ed il suo tessuto ritmico quasi-FlyLotu-

Ice Choir - Afar (Underwater Peoples, Ottobre 2012) Genere: synth pop Nostalgia. O retromania, stando a Simon Reynolds. Fatto sta che dalla fine degli anni Novanta molti artisti hanno iniziato ad attingere a piene mani dai tanto amati quanto vituperati anni Ottanta - la lista è infinita: uno dei primi segnali arrivò da Jyoti Mishra (White Town) con Your Woman, poi si misero di mezzo l’electroclash e il recupero della new wave, per non parlare dei ritorni di band del decennio che giurarono più volte che mai più le avremmo riviste insieme (alla fine pure gli Spandau Ballet, dopo le battaglie legali, si dissero “scurdammoce ‘o passato” e tornarono in pista con riletture acustiche dei vecchi successi). Sembrava che da quest’anno sarebbe tornato in voga il brit-pop, e invece l’insospettabile Kurt Feldman, batterista dei Pains Of Being Pure At Heart (ma anche mente dei Deprecation Guild), ci prende alla sprovvista e confeziona, nel 2012, uno dei tributi più didascalici e fedeli agli Eighties, con tanto di rimandi ai suoni originali dei mitici Fairlight e Synclavier e delle soft keyboards di maggior successo targate Roland, Korg e Yamaha. Feldman si fa accompagnare dai sodali Patrick South (tastiere, basso in tre canzoni di Afar), Raphael Radma (sintetizzatori) e Avery Brooks alla programmazione della drum machine, e intanto il nostro PC si trasforma sotto ai nostri occhi in uno ZX Spectrum, dall’armadio spuntano fuori un Moncler e una felpa Best Company e, quando si materializza anche un walkman, capiamo che è ora di cedere alle lusinghe del musicista di Brooklyn e iniziare il viaggio. L’antifona è chiara già dai colori pastello di sfondo dell’artwork stilizzato: in Afar, opera prima degli Ice Choir, vincono i colori di un pop che scivola liscio, impreziosito di tanto in tanto da citazioni colte (Keats è tirato in ballo nel brano conclusivo Everything Is Spoilt By Use, duetto con Caroline Polacheck dei Chairlift, e il titolo dell’album è ispirato da Wordsworth). Già, proprio come faceva quel volpone di Green Gartside, qui evocato in una A Vision Of Hell, 1996 che sembra pronta 55


The Somnambulist - Sophia Verloren (Acid Cobra, Ottobre 2012) Genere: prog psych Ecco l’annunciato sophomore in studio degli italo-berlinesi The Somnambulist col loro impasto di hard blues, prog, psych, jazz bilioso e vampe cameristiche, nipotastri scellerati dei Dirty Three, crogiolo dantesco di Nick Cave, High Tide e Venus, fautori di sketch febbrili e cangianti colti con l’aria fragrante d’un live in studio affilato come lama. Il mood è tra il furibondo ed il brumoso, una nevrastenia cinematica noir. Violini e chitarre che intrecciano trame suadenti e rugginose, volitive e liriche, come allucinazioni schiantate prima di diventare sogni. Canzoni che partono come un frusciare di trame pensose poi diventano sarabanda acida (Dried Fireflies Dust). Vampirizzazioni languide wave/grunge (A Daisy Field, con ospite la voce di Albertine Sarges). Crossover a folate mitteleuropee e fantasmi hardcore (Logsailor). Romanze malsane col gusto delle giustapposizioni timbriche, la brama incontenibile di suonare con impeto e puntiglio capillare (la title track). Una forma post che conserva il gusto e la fatica del farsi canzone, come è palpabile in quella sorta di Lanegan intossicato dal theremin che è My Own Paranormal Activity. Un’altra prova di buon livello per una band di cui si sta parlando inspiegabilmente troppo poco. (7.3/10) Stefano Solventi

per un mash-up con Hypnotize o Wood Beez del genio gallese degli Scritti Politti. Ma non è finita: ci sono gli Omd (I Want You Now And Always), le produzioni di Jimmy Jam e Terry Lewis per Alexander O’ Neal (Teletrips), i New Order e i Pet Shop Boys degli esordi (Two Rings); subito dopo scorgiamo Mike Francis in disparte (nella title track) e gli Aztec Camera di Love (The Ice Choir). Il tutto è amalgamato dalla voce zuccherosa ma distante di Kurt, un ibrido tra Curt Smith dei Tears For Fears e il già citato Gartside. In soccorso alla band, in fase di missaggio, c’è un altro revivalist col bollino di qualità - Jorge Elbrecht, cantante e chitarrista dei Violens (giunti quest’anno alla seconda prova discografica con la Slumberland Records). Non si sa ancora se avremo modo di ascoltare i nove brani di Afar dal vivo, ma sul disco le citazioni, pur a volte fin troppo diligenti, funzionano perché ci sono melodie ben scritte a supportarle. In attesa di scoprire le prossime mosse di Feldman, il dischetto è effervescente quanto basta ed è una discreta compagnia per poco più di mezz’ora (come i 33 giri dell’epoca). Take a ride. (6.7/10) Alessandro Liccardo

Illàchime Quartet - Sales (Lizard, Ottobre 2012) Genere: rimiscelamenti Potremmo tirar fuori la storia della sostanziale inutilità e anacronismo dei remix-album, pratica in voga tra 90s e 56

00s, se non fosse che faremmo un gran torto all’Illàchime Quartet. La formazione partenopea rimette mano all’ottimo I’m Normal, My Heart Still Works e lo fa con lo stesso spirito che ne aveva segnato la traiettoria lungo le sei tracce: sperimentare su una materia fluida, in continua evoluzione, mai statica o fissa nelle sue coordinate di base fregandosene di confini e limiti. Al tempo lo faceva (anche) con l’aiuto di un numero impressionante, per quantità e qualità, di ospiti nazionali e internazionali (Rhys Chatham, Mark Stewart, Graham Lewis, Salvatore Bonafede), quasi che I’m Normal.. fosse già di per sé un lavoro multiplo negli umori e nelle risultanze. Ora l’affare si complica ulteriormente perché quegli stessi ospiti, su per giù, insieme a molti altri hanno messo mano al materiale originale del trio partenopeo. Anzi, hanno voluto fornire il proprio punto di vista legato, ispirato, suggerito dalle composizioni originali. Sales si allarga quindi fino a raddoppiare il numero delle composizioni e, traendo ispirazione anche dall’omonimo debutto dell’ormai lontano 2004, lascia libero sfogo alla creatività e alla sensibilità di personaggi e collettivi come Philippe Petit, retina.it, Emanuele Errante e Domenico Sciajno, per citarne solo alcuni. Il risultato è ovviamente eterogeneo, apparentemente non coeso, umorale, ondivago com’è giusto che sia. Ma a scavare nel dettaglio, allungando lo sguardo oltre la coltre superficiale non sarà difficile riscontrare lo spirito avventuroso del trio. Nelle versioni originali come nelle reinterpretazioni altrui, c’è sempre quel sentore di


ricerca, di spericolata manipolazione che rifrange, ricostruisce, ridisegna le traiettorie già inconsuete del trio nel tentativo riuscito di proporre sguardi diversi di un sentire comune. Che sia il trip-hop imbastardito di Black Source (rendition di Terminali Source per mano di Black Era feat. Chatham) o la etno-techno di Na-To Versus Nato (Ferc, ossia Elvetico e Rossella Cangini alle prese con Flying Home), l’avant-cameristico di Strada Di Sans Souci (l’ex Terminali Destination impreziosita e trasfigurata dal piano di Philippe Petit), le increspature glitchdub di Vlf, Very Low Fire (i retina.it all’opera sul corpo morto di Pale Fire) o il sabba sintetico con cui Mark Stewart rielabora Discentro (Gramsci On Entertainment). Un lavoro denso per un gruppo di altissimo spessore. (7.2/10) Stefano Pifferi

iTAL tEK - Nebula Dance (Planet Mu Records, Ottobre 2012) Genere: Step goes Footwork Con Nebula Dance i primi freddi accolgono anche il ritorno su prova lunga della stella di planet mu iTAL tEK. Il cambio di mood del producer britannico lo si poteva intuire già dal Gonga EP dell’ anno scorso, e del resto che gli artisti più stimolati/stimolanti stiano evadedendo dai rigidi confini del pure dubstep (kick drum sulla prima, settima e nona battuta e hat open a intermittenza con riverbero lungo in 9 e 15) è ormai evidente. Vengono così percorse sostanzialmente due strade: una che porta alla nuova ondata techno del nostro recente approfondimento, l’altra speculare che aumenta i bpm e trascina il genere verso il footwork. Nebula Dance prende a velocità massima la seconda via, vola sui 150-160 bpm e abbandona anche quei tempi hip hop a cui ci aveva abituati. Ora, chi segue Planet mu obietterà che ultimamente molti dei suoni della label suonano cosi. Vero, del resto a precisa domanda nell’intervista a Mike Paradinas, il padre padrone della label rispondeva che sul pianeta mu “ci si influenza a vicenda”. Ecco che allora la chiave di lettura di Nebula Dance non può altro che risultare come pieno manifesto d’intenti del sound Mu di oggi e domani. Del pure dubstep rimane solo una timida colonna vertebrale, parti corporee ed esoscheletro hanno la genesi del nuovo e ribelle footwork che, privo di confini e spazi chiusi simboli del genere predecessore, apre a qualsiasi incastro e tappeto ritmico. Le combinazioni sono pressochè infinite, si aggiunge e si toglie, si spezza e si prolunga, si accelera e si frena, senza tratti circostanziali o predefiniti. Le tracce di Nebula Dance viaggiano tra synth corposi e accelerati di cui il liquid wonky di Rustie ci aveva

già parlato (Intercruise, Steel Sky), provocazioni 8 bit in Pixel Haze che con la dubstep han sempre giocato in uno scambio alla pari di corteggiamenti, cinematismi d’atmosfera su Discontinuum e Human Version. Nulla di veramente nuovo, in fondo, ma è ripetendo l’ascolto e familiarizzando con l’album che si viene invasi da una crescente sensazione di ansia, da una frenesia controllata. È come esser sparati dentro un flipper dalle pareti morbide, che raggiunge il suo apice in Glokk: quel continuo rullante perfettamente impazzito nipote dei 90s (ancora ritornano) e di quella jungle che dei club e dei rave UK fu prima carnefice e poi vittima e che Scuba aveva sintetizzato nella sua Jungle Rinse Out. Questo è sicuramente il quid in più che trasforma l’album, un coup de theatre studiato e stiloso che sposta l’asticella dal semplice esercizio ginnico a prova artistica senza imperfezioni. Planet Mu mostra i muscoli e manda in stampa il primo libro di testo e linea guida sul passaggio viscerale dal pure dubstep al footwork, abbandonando finalmente la catena e il collare della parola step con una sola missione: evadere. (7.2/10) Mirko Carera

Jake Bugg - Jake Bugg (Mercury Records, Ottobre 2012) Genere: singer songwriter Preparatevi a sentir parlare molto di Jake Bugg. Il ragazzino di Nottingham, acustica in spalla e sigaretta in mano, è stato presentato al grande pubblico come il ponte generazionale tra Bob Dylan e Arctic Monkeys, un fenomeno mainstream che arriva a braccetto proprio con il ritorno forte del Beat nelle sale cinematografiche, quello di On The Road di Kerouac, e delle tendenze radiofoniche tra 50’s e 60’s, riportate in auge in questi anni da act come Black Keys, Jack White e M Ward. L’immaginario a cui guarda il ragazzo è proprio quello del post-war dream con in testa l’America del blues urbano e del boogie, in cui si affacciano l’iconografia dei Beatles dell’era Love Me Do (cinquantesimo anniversario proprio quest’anno) e coadiuvato da una produzione attentissima ai suoni vintage e sporchi del pre-war mainstream. Bugg si affida quindi a stilemi collaudatissimi, con il songwriting di chi scopre per la prima volta il mondo e il suo disincanto, non senza un pizzico di superficialità tipicamente giovanile e strafottenza british. Il singolo Two Fingers su tutti, con melodie infettive à la Beach Boys e un’attenzione particolare ai chorus, sfoggia l’efficacia e l’immediatezza di un grande disco pop. Lighting Bolt è un pezzo blues veloce e dal suo57


no sporco, furbo quanto basta per catturare l’orecchio amante di certe sonorità blues e alt country che si ritrovano poi in pezzi dal piglio decisamente più rock-ish. La voce del ragazzo è ammaliante e duttile quanto basta per sfoggiare ritornelli radiofonici (Seen It All), oppure ballate folk che tanto ricordano il recente The Tallest Man On Earth e numeri da blue eyed singer quali Slide o Broken, canzone che con un piccolo sforzo di trasposizione ricorda il post-crooning portato recentemente alla ribalta da Lana del Rey con Video Games. Forse quello che manca ancora a Jake è proprio quella capacità di configurare a suo piacimento il classicismo dei modelli di Dylan e il pop moderno con uno sguardo del tutto contemporaneo, quella capacità di rendersi voce ed interprete della britland degli anni ‘10, come Alex Turner aveva saputo fare benissimo nel 2006 con uno spettro di riferimenti totalmente differente. Se con il tempo riuscirà a trovare la giusta quadratura, Bugg potrà seriamente essere considerato il nuovo talento del songwriting in terra d’Albione che tanto manca in questi anni. (6.9/10)

l’ideale continuatore della grande opera dei mai troppo celebrati Revelators. Oggi che ha rallentato la corsa, The Savage Heart pulsa di Great Balls Of Fire, di radici Gospel e staffilate blues velocissime. E’ l’orologio del tempo che riparte, è il Rock Around The Clock che si materializza nuovamente. Times Around The Sun, Where Da Money Go che, per bocca dello stesso Jones, è la canzone che meglio lo rappresenta oggi, parte dal 1952 e arriva a fatica ai Detroit di Mitch Ryder, impattando con la tradizione della jukebox generation statunitense. C’è del soul? A volte. C’è del blues? Quasi ovvio, nella struttura di brani così old fashioned. C’è del revivalismo? Assolutamente no. Jim Jones non è tipo da ancora di salvezza nel passato. Lui, da sempre, preferisce lo sviluppo musicale istintivo. Non ha mai avuto la pretesa di riportare in auge un genere, né di modificare il corso della storia del rock. Jones traduce un linguaggio antico come il mondo, in una forma musicale anfetaminica e scattante. Forse lo preferivamo nella sua versione “speed”, ma The Savage Heart rimane un disco tutt’altro che trascurabile. (6.4/10)

Luca Falzetti

Mario Ruggeri

Jim Jones Revue - The Savage Heart (Pias, Novembre 2012) Genere: Rock And Roll

Jonwayne - Oodles Of Doodles (Stones Throw, Marzo 2012) Genere: beats

Il debutto di Jim Jones, The Jim Jones Revue, venne registrato in quarantotto ore. Non una di più, non una di meno. The Savage Heart è stato concepito e prodotto in un arco di tempo di tre mesi. Il debutto della nuova forma musicale del reverendo Jim, in puro spirito rock and roll, fu per tutti quanti un’autentica folgorazione. Uno dei migliori dischi di rock and roll (non chiamiamolo punk, per cortesia) dell’ultimo decennio. Saturo, veloce, graffiante, adrenalinico. Quello era il Jim Jones che, nella sua nuova avventura, raccoglieva l’esperienza stoogesiana dei leggendari The Hypnotics e la metteva a servizio del fifties rock. Bill Haley on speed, qualcuno scrisse, ed aveva ragione. Oggi sono trascorsi alcuni dischi, parecchi tour (la vera essenza della Jim Jones Revue band, che sul palco scatena tutto l’erotismo del rock and roll) e la verità è che il gruppo inglese non ha tirato il freno (forse in parte sì) ma ha scelto liberamente di essere. E, più precisamente, di essere una rock and roll band minimalista, essenziale, primitiva. The Savage Heart è la sublimazione della cifra stilistica del nuovo re del rock and roll (con molta ironia, ma neppure troppo): il pianoforte. Tra jelly Roy Morton, Jerry Lee Lewis, Little Richard e l’honky tonk. Ecco, Jim Jones oggi suona più come l’erede di Little Richard che

Spacca. Come rapper e come produttore. Simple as it is. Abbiamo scoperto Jonathan Wayne a maggio con il progettino Jonwayne Fucks Disney, una serie di divertiti e divertenti quadretti che seviziavano - ma senza cinismo - Alice nel paese delle meraviglie, Gli Aristogatti, Dumbo, Mulan, Peter Pan, Pocahontas e La Sirenetta, un divertissement da una botta (e una notte) e via fatto con sampler, registratorino, iPad e ovviamente Youtube. A giugno JW ha poi fatto uscire una cassettina di beats e rap, intitolata semplicemente Cassette, con un packaging stile Marlboro, una cosa marcissima, underground sul serio, smezzata con Jeremiah Jae della cricca Brainfeeder. Doverosamente, in attesa dell’album vero e proprio sempre su Stones Throw, recuperiamo adesso questo doppio ciddì uscito a marzo, che è un beat tape che raccoglie le sue produzioni degli ultimi due anni. Pochissimi sample (giusto qualche corda e qualche voce sparsa) e tanta elettronica vintage, povera, lineare, fortemente influenzata videogame e 8bit (basta sentire lo splendido dittico Big Like Curby e ElecTricity, o gli sfarfallii di Change Up e Hella-Copter; Purple Waterfall sembra uscita da uno dei livelli sottomarini di Supermario), per un electro hop asciutto e ficcante, come se El-P si fosse

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trasformato in un ragazzino chiuso nella propria cameretta (Read Velvet, Turkish Machine, Tubes). 48 frammenti con ottimi spunti melodici, spesso e volentieri sorprendentemente agrodolci e slacked (e teneri, Stella by Starlight; e dimessi, Corridors), che ce lo fanno accostare alle cose migliori del tedesco electro-pop Jim Avignon; altre volte più sinistri, sul versante James Pants/Residents (Blood Hungry Bros., After Midnight). Compatto eppure vario, mai automatico, mai riciclativo, Jon spezza la scaletta con qualche take più propriamente HH (Tire Loma, madlibiana), crossover/nu- (Bingo), wonky (Calling to Me) o al contrario lounge (Relaxxx). Si poteva forse sfoltire un po’ il menù per rendere l’ascolto meno stordente, ma in fondo il gioco funziona anche per la quantità e varietà di carne messa al fuoco. Il rapper e produttore losangelino, discograficamente sulla piazza dal 2010, look che sembra uscito da un Grande Lebowski portato al Sundance, e una età indefinibile tra i 25 e i 35, non è un visionario, non è un chirurgo dei suoni, ma un eccellente miniaturista, che sa benissimo il fatto proprio. Da scoprire. (7.4/10) Gabriele Marino

Karriem Riggins - Alone Together (Stones Throw, Ottobre 2012) Genere: instrum hiphop Figlio d’arte (il padre Emmanuel produttore e tastierista), batterista per jazzmen di prestigio come come Hank Jones, Oscar Peterson, Milt Jackson, Donald Byrd, Ron Carter, ma anche per l’ultimo Paul McCartney, produttore per i Roots, Common, Queen Latifah, Erykah Badu, Talib Kweli, MED, Phat Kat, Proof, Pete Rock (come testimonia il free podcast Produced That), sodale e amico storico di Madlib (ha risollevato - o provato a risollevare - le sorti di molti dei suoi dischi pseudofree) e Dilla (fin dai tempi degli Slum Village), Karriem Riggins arriva solo adesso al debutto solista, divisto su due vinili, il primo uscito a luglio, il secondo il 23 ottobre assieme alla versione cd completa. 34 pezzi di hip hop strumentale più immerso nel funk che nel jazz. Karriem è strabravo, e il “singolo” Moogy Foog It ha un motivetto strisciante che ti entra in testa, ma l’impressione è che per Alone Together valga un po’ il discorso fatto a suo tempo per l’esordio del superbassista Thundercat. I pezzi sembrano tutti skit per dischi “altri”, manca la sostanza, ci sono solo tanti spunti, tanti studi ritmico-timbrici (Alto Flute, Up; titoli autodescrittivi come Africa, Harpsichord Session, Water, Ding Dong Bells; i paradiddle scampanellanti di daOOOOOH!; la lezione madlibiana in alcune take latin, afro e disco; la lezione

dilliana in No Way, col produttore esplicitamente omaggiato nella traccia conclusiva), ma pochi numeri da appuntarsi sul taccuino, esercizi da producer insomma, e neppure così golosi. Francamente solipsistici. Forse Karriem ha nelle collab la sua vera dimensione naturale, spalla di lusso, in cui esprimere al meglio le sue - tante - skills. Per completisti della scena e del catalogo ST. (5.1/10) Gabriele Marino

Keiki - Popcorn From The Grave (Cheap Satanism, Novembre 2012) Genere: satanic pop Continua il filone horror cinematografico della Cheap Satanism. Dopo i Joy As A Toy arrivano i Keiki, duo belga che con Popcorn From The Grave tentano, a loro detta, la strada del satanic pop. Un’etichetta che invoglia più del dovuto, perché questa patina horror-cimiteriale è l’unico vero scarto rispetto a una qualsiasi indie pop rock band di medio livello. Al sodo funziona così: lei canta e spesso fa il verso a Pj Harvey, lui invece partorisce riff un po’ azzeccati un po’ bolliti, salvo poi alla bisogna tirare fuori un theremin per servire la necessaria dose di esoterismo. Un compitino che si potrebbe dire svolto, ma al terzo disco i risultati dovevano essere più incisivi. (5.5/10) Stefano Gaz

King Of The Opera - Nothing Outstanding (Trovarobato, Novembre 2012) Genere: rock-psichedelia E chi se lo aspettava un Alberto Mariotti così. Abbandonate le vesti del bluesman solitario e waver nell’anima, l’ex Samuel Katarro ritorna con un progetto che se dal moniker suona ambizioso, nelle scelte musicali spinge ancora di più sull’acceleratore. Prog? Psichedelia? Shoegaze? Indie? Folk? Questo e molto di più, a dire il vero. Il cambio di prospettiva è per certi versi shockante, anche se già nel secondo disco a nome Katarro - The Halfduck Mistery, qui richiamato dal brano The Halfduck Misery qualche chiaro segnale della necessità di passare a una musica più strutturata, rispetto agli esordi, lo si coglieva. Segnali che in Nothing Outstanding si trasformano in un’esplosione di colori (come quelli della bella cover firmata Ilaria Magliocchetti Lombi, vicina per tonalità al mai troppo lodato Loveless) e di input davvero difficile da arginare. Con il buon vecchio Katarro morto e sepolto - come ha testimoniato anche il tour portato in giro nella prima 59


Vitalic - Rave Age (Different Recordings, Novembre 2012) Genere: Pumped electro rave Il singolo Stamina rilasciato a inizio ottobre è stata una delle sorprese più eccitanti dell’anno. Tre anni di silenzio dall’ultimo Flashmob e già su Vitalic non contava più nessuno, dopo che il buon profilo tardo-electroclash di OK Cowboy sembrava essersi disciolto lungo una maggiore omologazione electro house. Poi due mosse shock, No More Sleep a luglio (e la cosa prometteva già bene) e Stamina, appunto, la bomba più violenta dell’anno, seguita da un videoclip di psicosi e ossessioni a metà strada tra Se7ev e Baby’s Got A Temper: un furore di aggressività ravey trasportata su un tessuto electro machista che neanche Boys Noize. E nell’esaltazione generale il pubblico elettrofilo si era convinto che Rave Age sarebbe stato il disco giusto per saziare senza sensi di colpa la fame di fuoco hardcore. Sfizio non soddisfabile in toto. La rave age di Vitalic poteva essere dura ma doveva per forza scoprire gli angoli all’attitudine d’ascolto, un doppio campo d’azione in cui, si sa, il producer parigino è uno dei massimi esperti. Quindi accanto a ordigni nucleari hard-rave come Rave Kids Go si aggiungono pezzi di autoironia sfacciata à la Crookers come No More Sleep e The March Of Skabah (quanto saranno fighi live?), lapilli di rabbia giovanile (La Mort Sur Le Dancefloor, siam nei pressi dei Designer Drugs), splendide evoluzioni drogate della materia french nu-rave (Next I’m Ready, nonostante tutto quel refrain è killer come fosse pop) e persino rielaborazioni in salsa soundtracking (Nexus). Come a dire che oggi Vitalic è hardcore sì, ma non per forza di nicchia. L’unico neo possibile per quel che poteva essere l’album più cattivo dell’anno è il reflusso della sponda synthpop/ electroclash presente da sempre nel background di Vitalic. Qualcosa che va ancora più che bene quando riprende con stile le geometrie stuzzicanti di Miss Kittin in Lucky Star, ma che rischia di sfiorare il pacchiano nei momenti più 80s (la Fade Away altezza Scissor Sisters o Under Your Sun più sintonizzata sugli Hot Chip). Ma in un disco come questo, così in dialettica coi confini tra electro, rave e tamarro, certe cadute di stile si possono accettare anche come funzionali all’obiettivo. Anche perché tutto il resto si fa perdonare senza problemi. Dopo Rave Age è guerra aperta alla generazione Skrillex: qual’è oggi l’hardcore con le palle? (7.2/10) Carlo Affatigato

metà del 2012 e intitolato platealmente The Death Of Samuel Katarro - Mariotti privilegia il lavoro di squadra, coinvolgendo in maniera maggiore i sodali ormai storici Francesco Paolo D’elia (Wassilij Kropotkin, co-autore di alcuni brani) e Simone Vassallo. Il risultato sono nove stazioni sonore imponenti, tra i Grateful Dead/Godspeed You! Black Emperor dell’iniziale Fabriciborio e il binomio Pavement/Hüsker Du di Worried About, i Mercury Rev della title track e i Pink Floyd post-rock di Heart Of Town, la psichedelia ampia e deragliante - sorta di Velvet Underground altezza Venus In Furs traviati dagli Spiritualized - di Pure Ash Dream e i Kaleidoscope (UK) via Fairport Convention della già citata The Halfduck Misery. A sentirlo cantare, il Mariotti, si stenta a riconoscerlo, voce matura e impostata su un impianto musicale maestoso e avvolgente (tra gli strumenti, chitarre elettriche, batteria, tastiere, violino). Quest’ultimo efficacie nel sommare livelli strumentali fino all’inevitabile sbronza, 60

riuscendo nel contempo a gestire gli spazi e a mantenere il controllo sulla chiarezza del messaggio. E infatti i pregi maggiori di Nothing Outstanding, alla fine, sono tutti rintracciabili nella sostanza della scrittura: nove brani capaci di coinvolgere senza agitare storture gratuite o falsi miti. (7.2/10) Fabrizio Zampighi

Kiss - Monster (Universal, Ottobre 2012) Genere: Heavy Rock In bilico tra eccessi di paraculaggine e quel rigor mortis musicale che porta a riscoprire il sapore del rock, Monster dei Kiss s’incasella come il ventesimo disco di una band che, da almeno quindici anni a questa parte, non ha proprio più niente da dire ma lo dice in grande. Nel nostro caso, parliamo della promozione coordinata di un libro fotografico definitivo - un tomo grande come una chitarra - fatto a mano in Italia e di copertine personaliz-


zate, ognuna con un differente Stato americano. Il tutto per la modica cifra di 4250 dollari, spese di spedizione incluse. Non dicendo nulla di nuovo, l’album almeno riporta il gruppo verso il rock and roll. Ferri da calza in mano, Paul Stanley e Gene Simmons, cuciono una piccola coperta di Linus che gli “enta” e gli “anta” del rock troveranno persino calda. È una piccola macchina del tempo Monster, che riporta ai “mitici 70’s” quando i Kiss erano ancora i Kiss (fino ad Alive II) e non la pantomima (da Dynasty in poi, perché saranno anche diventati famosi per I Was Made For Lovin’ You, ma quest’ultima rimane pur sempre una canzone obbrobriosa) di una glam rock band assetata di fama e successo. In questo disco si respira il rock, dal boogie di Hell Or Hallelujah alle arene gremite di Wall Of Sound (con un giro di chitarra che piacerà tanto a Slash), a una Back To The Stone Age che sfrutta lo stacco di chitarra degli MC5 per poi risolversi in un treno alla Back In The Saddle degli Aerosmith. A proposito, e per capirci, oggi i Kiss di Monster sono più Aerosmith degli Aerosmith degli ultimi vent’anni. Ironico, visto che Steven Tyler li ha spesso definiti come dei cartoon character. Paul Stanley, del resto - producer ufficiale del nuovo lavoro - definisce l’ultimo parto come “il disco più potente mai fatto”. Poca fantasia e tanta autocelebrazione, detto in tutta franchezza. La verità però è che in questo “tutto già sentito, tutto già suonato” una vibrazione ce la senti. È troppo poco per reggere il confronto con chi oggi il rock lo suona veramente pestando sull’acceleratore, ma abbastanza per non distruggere il ricordo una band. (5/10) Mario Ruggeri

La morte - La morte (Anemic Dracula, Novembre 2012) Genere: reading Cosa c’è di più commerciale della morte? Chissà se Giovanni Succi (Bachi da Pietra) e Riccardo Gamondi (Uochi Toki) pensavano a questo paradosso quando hanno deciso di intitolare la loro estemporanea(?) joint venture alla Nera Signora. Certo è che il risultato della collaborazione, commerciale, non lo è di sicuro, considerato che stiamo parlando di un reading musicale costruito su estratti di opere che vanno dal Medioevo ai giorni nostri. Come facilmente intuibile dal titolo, nel disco si parla di trapassi da questo a quell’altro mondo, con al centro la voce di Succi - già allenata dal lavoro di lettura portato a termine nelle registrazioni de Il conte di Kevenhüller - e sotto la superficie l’elettronica di Rico (oltre ai contributi al violino, violoncello e contrabbasso di Teresa Tondolo,

Viola Mattioni, Lucio Corenzi): la prima è semplicemente perfetta nel suo strisciare inesorabile sottoterra, un po’ Bachi da Pietra, un po’ Vincent Price; la seconda è decisamente efficacie nel creare un ambient profonda e inquietante che richiama certe interferenze della band madre senza tuttavia perdere la sua funzione prevalentemente descrittiva. Trecento vinili in edizione limitata (via Anemic Dracula Records / Corpoc) per questo viaggio dantesco tra feci e peste, fucili e oscurità. Un teatrino infernale catartico e affascinante, poetico e scabroso, oltre che - purtroppo per noi - non solo letterario. (7.1/10) Fabrizio Zampighi

Lapalux - Some Other Time EP (Brainfeeder, Ottobre 2012) Genere: wonky soulstep Torna Stuart Howard, ancora introdotto da una copertina di una bruttezza rara (sembrano tutte versioni clubfighette dell’immaginario evocato dal culo guantato degli Strokes dell’esordio), con il suo wonky goloso e innervato di soulness al calor bianco ma sotto azoto liquido. Parlando di When You’re Gone lo avevamo passato ai raggi x e il paragone con James Blake, per quanto forse scontato, continua a sembrarci il più calzante. Dentro Some Other Time c’è infatti la lezione della nu-black liofilizzata e tagliata glitch e wonky in chiave intimista. In Quartz si affacciano fascinazioni per il minimalismo Steve Reich ovviamente nelle versioni Four Tet e Teebs, con una voce che chiama in causa gli echi di silenzio di The Weeknd; Jaw Jackin’ ha il piglio dei pezzi migliori di Crooks and Lovers dei Mount Kimbie, giusto per ribadire l’area stilistica di riferimento; Forgetting and Learning Again richiama i modi di certo indie agrodolce anche nostrano (gli Albanopower di Merry Christmas Darling); Strangling You with the Cord è la zampata electro-funk; su Close Call/Chop Cuts si affaccia ovviamente - l’autotune. Meno folgorante di When You’re Gone, comunque molto buono. Ribadiamo: senza troppa fretta, ma aspettiamo l’album. (6.8/10) Gabriele Marino

Lightning Bolt - Oblivion Hunter (Load Records, Ottobre 2012) Genere: noise tribale Quando si ha una forte impronta identitaria e una personalità altrettanto evidente, anche gli “scarti” di produzione hanno il loro perché. Ad essere sinceri, Oblivion 61


Hunter non è uno scarto nella pur gonfia discografia dei due di Providence, ma nemmeno un disco ufficiale nel senso più vero del termine, dato che le registrazioni qui presenti risalgono a un 4 o 5 anni fa, poco prima della realizzazione di Earthly Delights. Registrazioni casalinghe su quattro piste dimenticate unite ad un paio di classiconi del repertorio live mai registrati prima e molto, molto free e improvvisate. Roba “pretty raw sounding” nella definizione dei due, come se il resto della discografia fosse roba per educande o muzak da centro commerciale, e che si tramuta nel “solito” - ormai siamo arrivati a definire solito, qualcosa di altamente disturbante e a-melodico, segno dei tempi - assalto al fulmicotone. Con un basso irriconoscibile così come la voce (è una voce?) che rantola e digrigna qualcosa mentre i tentacoli di Chippendale avvolgono batteria e ascoltatori in un flusso ritmico parossistico. Un procedere che sfiora quasi la sfasatura ritmica, come in tempi non sospetti succedeva a campioni del grind come Brutal Truth e pochi altri o, paradossalmente, a certi freaks della techno più acida (Baron Wasteland). Il classic rock smostrato di Fly Fucker Fly, le contorsioni pelviche di Oblivion Balloon, il folk come lo possono intendere due freaks (The Soft Spoken Spectre) e soprattutto l’improvvisazione delirante, eccessiva e senza freni di World Wobbly Web, umori prog e malsana tendenza al disfacimento, non aggiungono nulla al già noto, ma ci dicono di una band che, può piacere o non piacere, resta innegabilmente uno dei punti fermi della musica del terzo millennio. Ferina e incontrollabile, eccessiva e fuori di testa, fisicamente deformante e mentalmente ottundente, quella dei due da Providence è roba che non corre il rischio di sembrare macchietta, perché è già macchietta. Geneticamente e consapevolmente. (6.8/10) Stefano Pifferi

LU-PO - Stendere la notte (Rai Trade, Novembre 2012) Genere: contemporanea La Kočani Orkestar in combutta con lo Yann Tiersen della soundtrack di Amélie, per una musica tascabile ma al tempo stesso orchestrale: potremmo sintetizzarla così la proposta musicale di Gianluca Porcu in arte Lu-Po. Qualcosa che ha a che fare con una brass band di paese ma anche con la musica classica, con un’elettronica marginale ma anche con un approccio surreale e virtuoso un po’ à la Sebastiano De Gennaro, se ci passate il paragone. Surrealismo sottolineato da una conclusiva La Vampa che arriva a citare - non si sa 62

bene come - i Daft Punk e in generale da un disco che sembra partorito col fast forward. Nulla di demenziale, sia ben chiaro. Piuttosto la capacità di unire leggerezza, malinconie soffuse e un parco strumenti che comprende pianoforte, violino, violoncello, clarinetto, chitarra, trombone, qualche percussione e molto altro. Il tutto arrangiato alla perfezione tra richiami e contrappunti, cinematogafico nelle aspirazioni almeno quanto nella pratica, dal momento che il materiale costituirà la colonna sonora di una pellicola di Carlo Sarti in uscita questo autunno. Purcu non è nuovo a certe esperienze, tanto che può vantare un passato da compositore per operette, televisione, teatro e danza. Oltre al curriculum, tuttavia, il Nostro possiede una sensibilità tutta sua capace di semplificare il messaggio e di rendere gli immaginari che richiama immediatamente condivisibili. Se non ci credete ascoltate lo Johann Sebastian Bach riletto da qualche marching band funebre di New Orleans dell’ottimo Valzer del bugiardino o una Carrillon che in qualche passaggio ricorda pure il tema principale del Pinocchio di Comencini. (7/10) Fabrizio Zampighi

Lukid - Lonely At The Top (Werk Discs, Ottobre 2012) Genere: Beats In un maturo equilibrio tra downtempo, hip e trip hop di lunga tradizione Ninja Tune e alcuni misurati condimenti, bass, vintage space / jazz / funk dal sapore vinilico, Foma, secondo lavoro di Luke Blair, raccolse giudizi tra il buono e l’entusiastico un po’ ovunque. Il motivo era da ricercarsi sia nel cavallone wonky che allora stava montando, con le migliori traiettorie proprio da queste parti (Los Angeles di Flying Lotus era uscito pochi mesi prima), sia perché sulla Werk di Darren J. Cunningham / Actress si stavano sintonizzando svariate orecchie, tutte attentissime nello scoprire dove quella rinascita di beat leggi Lone, Zomby e lo stesso Actress - andasse a parare. Da allora e ancor di più dal debutto Onandon del 2007, Luke si è rivelato un ragazzo timido e schivo. Un Charlie Brown, come l’ha descritto Cunningham in una recente intervista su Fact, un ragazzo che si è sempre tenuto lontano dai riflettori e la cui musica, dal successivo Chord - un triplo 12’’ con otto inediti su undici, e gli editi provenienti da Foma - all’ultima release sulla personale Glum - Spittin Bile, 2011 - ha perso progressivamente calore e certezze (la summer vibe, i caldi beat hop ecc.) acquistando sempre più filtri e incertezze. Lonely At The Top - che vede la luce su Ninja Tune - vor-


rebbe essere tante cose. L’album introspettivo, un riassunto di due anni di ricerche ondivaghe e, non ultimo, un viaggio/sondaggio nelle proprie depressioni nel tentativo di trovare una via d’uscita. Ci troviamo il presente di droni e voci dal catalogo Modern Love, hype più che mai (Manchester, appunto, Talk To Stranger e l’Andy Stott richiamto a gran voce in Riquelme) e una serie di ipotesi: l’IDM confidenziale di USSR, i crudi beat quadrati in salsa 8bit (The Dog Can Swim), l’ambient drone (The Life Of The Mind) e i ritorni sporadici ai fasti di Foma e ai suoi Labour days (Laroche, Bless My Heart e la buona Southpaw). Chord, inserendosi nel dibattito post-dubstep, l’involuzione l’aveva saputa sublimare, quest’ultimo lavoro suona come un diario d’appunti. (6.5/10)

Importa poco se capitano, ciclici, mood al limite del riciclo. 2 è un disco vincente, a tratti irresistibile (Freaking Out The Neighborhood, My Kind Of Woman), lo specchio di un talento in crescita esponenziale che, per cultura pop, fa già scattare paralleli con Ariel Pink. È una scommessa azzardata e senz’altro prematura, ma non ci sentiamo d’escludere che una hauntologica del calibro di Mature Themes possa spuntare proprio da questo cilindro. (7/10)

Edoardo Bridda

Poteva uscire soltanto dalla fucina di follia che è la Snowdonia - da poco ricollocata nel nord Italia - o da pochi altri posti l’esordio di Fabio “Spezzy” Soregaroli. La sigla Magic Crashed - autoironico gioco linguistico con la precedente band Magic Secret Room - è infatti appannaggio pressoché esclusivo dell’artista dreadlock munito, uno squinternato di quelli giusti, con le rotelle che girano eccome, anche se fuori fase rispetto alla norma e all’ordinario. Uno che ci tiene di brutto a farci sapere che ha fatto tutto da solo e che, anticonvenzionale per anticonvenzionale, non si è limitato a suonare una strumentazione tradizionale ma anche “tavolino del computer, alcuni sonagli, un organetto, [..] alcuni bicchieri, [..] uno strumento arabo indefinito, un cacciavite e tutto ciò che fa un rumore registrabile”. L’aggiunta di una copertina coloratissima e fumettosa conclude l’analisi preliminare mettendoci subito tutto in chiaro: la Snowdonia è tornata e Magic Crashed è il suo profeta. Perché Io Lo Sapevo è un quadro dipinto da bambini, una stanza lasciata allo sbando durante un compleanno di 4 anni, la cameretta che ognuno di noi ha sempre sognato. Un posto libero, senza regole né costrizioni, primordiale nel suo caos disorganizzato e piena di una genialità a sprazzi, incontrollabile e fine a se stessa. E come tale, piena di tutti i difetti del caso: incontrollata, senza senso della misura, iper-stratificata, priva di ogni contatto con la realtà. Prendete come vaghi punti di riferimento Bluvertigo e Camillas, così come Musica Per Bambini o Da Cucina e Devo o, in alcuni casi, una versione ridotta di Elio o degli Offlaga instupiditi da abusi di zuccheri preadolescenziali e sarete pronti per salire sull’ottovolante di Magic Crashed. Un luogo in cui alto e basso, bello e brutto, grottesco, popular, ironico e surreale si mischiano senza posa in un frullatone misto di techno-pasticciata (Spazio Contorto), grunge bastardo (Go Machines Go),

Mac DeMarco - 2 (Captured Tracks, Ottobre 2012) Genere: garage-pop Mac DeMarco è il personaggio più interessante dell’attuale roster Captured Tracks. Canadese, classe 1990, vero e proprio weirdo, esordisce la scorsa primavera con Rock and Roll Night Club, release da trenta minuti che spaccia per EP. Arrivato ora al proper-debut e “long-playing” dall’identica durata, gli appioppa il contraddittorio titolo 2. Giusto per complicare l’opera di catalogazione agli addetti ai lavori e, lo si immagina, ghignarsela. Il nostro si è però messo in riga, per quanto possa rigare dritto uno che si faceva chiamare Makeout Videotape, che tuttora etichetta la propria musica come “jizz jazz” e diffonde video di culturismo homemade davanti allo specchio. 2 mette da parte gli eccessi di produzione lo-fi a mo’ di tape-recordings e l’ossessione per gli interludi da radio FM vintage (che abbiamo tutti presente grazie alla serie Grand Theft Auto) del precedente lavoro; si attenuano inoltre le divagazioni glam e le odi goofy a certi Ween in favore di uno sforzo chitarristico luminoso, intenso e immersivo, che accarezza tagli sbilenchi, minimalismi e sprazzi jangly visti anche altrove sulla stessa label (Beach Fossils). Il risultato è un set lineare e coeso, che gode dell’abilità nel retro-decostruzionismo soft-rock 70s/80s e del gusto innato per la melodia che fanno capo a Mac DeMarco. Non solo: filo conduttore delle undici piccole gemme garage-pop in discussione è un crooning casual e di tale disarmante sincerità da renderle non solo immediatamente appetibili, ma che porta persino l’ascoltatore a relazionarsi naturalmente con l’eccentrico ragazzotto che chiama “honey” la propria sigaretta (Ode to Viceroy) come fosse “best buddy” da una vita.

Massimo Rancati

Magic Crashed - Perchè Io Lo Sapevo (Snowdonia, Ottobre 2012) Genere: follia-core

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funkettoni da casa di cura (Ahhhhh), siparietti surrealpop tra campioni di classica contemporanea e Morgan in sedicesimo (Il Settimo Sigillo), valzer autistici (Waltzer Con Mortaretti), 8-bit bambinesco (Cunts 04), filastrocche, calembour, frankestein sonori irritanti a volte e illuminati in altri. Senza schema né direzione, alla lunga stancanti ma che lasciano sempre una piccola genialata. Coerenza, si sarà capito, ce n’è poca, almeno sul piano musicale, mentre immaginario e apparato testuale ben al di sopra della media dicono di un genietto irregolare, fieramente scazzato e consapevole, anzi menefreghista, del suo isolamento. Proprio di quelli che fanno al caso di casa Snowdonia. (6.8/10)

Il crossover industrial-rock di Ulrike - sì, quella Ulrike Meinhoff la cui voce echeggia sull’acido delle chitarre -, lo spettralismo rock della citata Zena, tutto echi e sospensioni ad affossare un noise-rock minaccioso, la disturbante rendition del canto anarchico ucraino La Makhnovtchina, la scelta stessa della sigla, omaggio all’anarchico ucraino Nestor Makhno, dicono molto dell’idea politica, prima ancora che musicale di Silo Thinking. Se poi, l’unico brano cantato - la citata Custer - si trasforma musicalmente in una sorta di aggressivo noise rock in tensione alla primi Massimo Volume e concettualmente in una sorta di rivendicazione esistenziale, fiera e disincantata, allora il senso del tutto si disvela. (7.4/10)

Stefano Pifferi

Stefano Pifferi

Makhno - Silo Thinking (Wallace Records, Ottobre 2012) Genere: rock

Mandrake - Zarastro (Forears, Dicembre 2011) Genere: baroque folk-pop

Se parlavamo di disco “politico” per Irrintzi di Iriondo, non possiamo esimerci dal farlo per Silo Thinking. Dietro la sigla Makhno si cela infatti qualcuno che a livello musicale e non, molto ha in comune col chitarrista basco-italiano: quel Paolo Cantù che, guarda caso, aveva proprio condiviso con Iriondo l’ultimo volume della serie Phonometak per segnalare la prima uscita a nome proprio dopo una carriera ultradecennale con band di poco conto (commerciale) ma dall’infinito valore (ideologico-musicale): Tasaday, Afterhours, Six Minute War Madness, A Short Apnea, Uncode Duello tanto per limitarsi alle sigle più longeve. Vale lo stesso, identico discorso fatto per il sodale summenzionato. Cantù ha suonato e/o collaborato con praticamente tutta la scena avant/impro di matrice rock dell’ultimo ventennio. Diversamente da Iriondo però, Cantù considera Makhno una questione privata. Zero ospiti, fatta salva la presenza alla voce e testo in un pezzo (Custer) di Federico Ciappini (anch’esso Six Minute War Madness), e non solo in fase di ideazione ma anche di registrazione e mixing. Con l’ausilio di chitarra, basso, batteria oltre a clarinetto, elettronica e nastri, Cantù/Makhno mette in scena un disco di rock mutante e mutato, sperimentale senza perdere la radice rock, dai forti umori nineties ma aperto al futuro, alla compenetrazione di input, alla contaminazione finalizzata al messaggio. Rievocazione di un passato collettivo - Stiv, con la dedica/omaggio al mai troppo compianto Stiv Livraghi (Tupelo, Playground) o Zena, riesumazione della coscienza ideologicamente schierata di un passato ormai preistorico - e, insieme, esaltazione del rock inteso come rielaborazione personale, della propria storia, del proprio trascorso.

I Mandrake sono giovanissima band livornese che ha debuttato via Forears lo scorso dicembre con l’album Zarastro. Giorgio Mannucci, ideatore del progetto e cantante della band, lo avevamo già incontrato con i The Walrus, formazione concittadina con all’attivo Never Leave Behind Feeling Always Like A Child del 2008. Se con il gruppo precedente si era dalla parti di un rock garagista in salsa brit, con i Mandrake Mannucci vira verso i territori più raffinati del baroque folk-pop. Zarastro si presenta infatti con undici canzoni che uniscono uno spiccato senso per la melodia all’innegabile preparazione tecnica del gruppo. Una formazione che, pur avendo assimilato la lezione dei padri - i Beatles in primis, con l’orecchio puntato a Sgt. Peppers e White Album, ma non mancano un certo gusto per le armonie vocali a marca Beach Boys e il pop sofisticato del primo Sting -, riesce a costruire un album in equilibrio tra rigore e personalità, più che coeso nell’insieme e credibile nella sostanza dei singoli episodi. Il breve sussurro di I’m So Confused - part 1, traccia di apertura, introduce all’arpeggio acustico di Time, in cui l’incedere groovy della voce è via via evidenziato dalla presenza di violino, flauto e mandolino. The Copelands è un crescendo elettrico venato di malinconia, da cui emerge la capacità vocale di Chianucci - peraltro sempre in primo piano ma mai sopra le righe - grazie al riuscito gioco di compresenza tra i vari strumenti (non solo chitarre e violino, ma anche viola, tromba, piano e contrabbasso). La successiva I’m So Confused - part 2 - uno dei brani più convincenti del lotto - gioca con gli accenti di un folk essenziale a cui il violino conferisce un’atmosfera bucolica che sul finale si tinge di delicati arabeschi sinfo-

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nici, come anche in Nothing Is Predictable, altro episodio folk in aria chamber. Il mood cambia ancora con la marcetta pop di Uncertain Moment, mentre Soft Temple chiude un album che già dal primo ascolto convince per la personale ricercatezza ed eleganza. (7.1/10) Giulia Antelli

Mark Eitzel - Don’t Be a Stranger (Merge, Ottobre 2012) Genere: singer/songwriter Tutto ciò che precede questo disco ne sembra la più naturale premessa. Eppure ugualmente l’ascolto ci lascia stupiti. Piacevolmente stupiti. Eravamo rimasti ad un Klamath (anno 2009) nel quale Mark Eitzel insisteva col cantautorato contagiato d’elettronica che finiva per convincerci quanto la scelta non fosse convincente, soprattutto dopo quel The Golden Age che l’anno precedente aveva visto gli American Music Club rendersi protagonisti di una reunion di altissimo profilo. Poi sono successe un bel po’ di altre cose, tra cui un infarto nel 2011 che quasi lo lasciava secco e la morte di Tim Mooney - storico batterista proprio degli AMC nonché dei Sun Kill Moon - nel giugno di quest’anno. Non proprio un periodo facile insomma per Mark, che pure ha trovato la forza per mettersi nel solco giusto e rientrare sulla scena in grande stile. Il suo stile. Le tracce di questo Don’t Be A Stranger sono lirismo colto da riccioli di fumo nel jazz club e dalle penombre di certe camere spoglie, qualcosa tra la baldanza sonnacchiosa Morphine (Oh Mercy, Why Are You With Me) e la placida inquietudine dei Lambchop (I Love You But You’re Dead), tra i bozzetti più eterei del primo Tim Buckley (I Know The Bill Is Due) ed il laconico struggimento di Tim Hardin (Costume Characters Face Dangers In The Workplace), per non dire dell’immancabile aura dell’amatissimo Leonard Cohen (Lament For Bobo The Clown). Se c’è un difetto, va cercato nel fatto che la sobrietà espressiva a tratti sembra mettere il guinzaglio alla vena soul, meritevole di ben altre evoluzioni. Ma per il resto è un disco riuscito che senza eccessivi colpi di genio ci restituisce uno dei migliori cantautori statunitensi quasi al suo meglio. In bocca al lupo Mark, di cuore. (7/10) Stefano Solventi

Massimiliano Martines Massimiliano Martines & RanocchiDelfiniDorsistiStilolibertari Band (Liquido Records, Ottobre 2012) Genere: cantautore, wave In tempo di crisi ci si deve pur adattare. E se è vero che estetica è sinonimo di sensazione, è vero anche che la strada che deve prendere l’arte è un meccanismo estetico. C’è chi come Massimiliano Martines ha fatto di questa convinzione un disco, coniugando la sua esperienza di poeta, drammaturgo e anche musicista nella fervida città di Bologna. Meccanismo Estetico, terza prova dell’istrionico cantautore pugliese (qui accompagnato dalla bislacca Ranocchidelfini dorsisti estilo libertari band), è un’opera in movimento, fatta di inserti teatrali, testi taglienti, suoni bizzarri, campionature azzeccate e un bel bagaglio di cantautorato in pieno stile italiano. Non si tratta certo di un disco facile fatto di melodie o ritornelli canticchiabili, tutt’altro: qui trovano spazio anche alcune sonorità volutamente fastidiose, rumori poco piacevoli, volti a determinare la fonte stessa dell’estetica citata nel titolo. Se, dunque, Martines ci sembra esagerare in questa operazione in brani come Frutti di stagione, Americana o Frutta fresca, molto più equilibrato ci pare nelle “stranezze” di Mistress (che rimanda alla freschezza di un Capossela immaturo) o nella title track (un ossessivo crescendo in stile Tabula Rasa Elettrificata dei C.S.I.) Ampiamente promossi, invece, i momenti di intimità o introspezione, sia quando strizzano vagamente l’occhio al teatro canzone di Gaber (Le Memorie di Adriano, Quante Quante Quante Quante), sia quando si trasformano in ritmiche di assalto alla Pan del Diavolo (Sugli Alberi). Disco sostanzialmente immaturo, nella sua geniale stravaganza, che ha ancora bisogno di equilibrare il peso delle armi a propria disposizione (e ce ne sono parecchie) pur acciuffando in gran stile la sufficienza. (6/10) Nino Ciglio

Matthew Friedberger - Matricidal Sons Of Bitches (Thrill Jockey, Settembre 2012) Genere: soundtrack, art-prog Dopo l’esperimento di Solos, ciclo di vinili a cadenza mensile ciascuno dedicato a uno strumento diverso, si fa subito a liquidare il nuovo album Matricidal Sons Of Bitches come l’ennesima, bislacca autoindulgenza di Matthew Friedberger. Per alcuni versi è di certo così: la metà maschile dei Fiery Furnaces, già dal 2006, con il doppio Winter Women / Holy Ghost Language School, aveva messo in chiaro che le sue sortite da solista sarebbero servite come totale valvola di sfogo per una creatività 65


di per sé ultra-debordante (vedi il progetto madre); e queste quarantacinque (quarantacinque!) mini-tracce strumentali, concepite come colonna sonora di un inesistente film horror, si ascrivono del tutto a tale, incompromissoria visione artistica. Poi però, ascoltando e soprattutto leggendo i titoli delle canzoni, si scopre che l’idea è non solo intrigante, ma anche riuscita: la narrazione di questo fantomatico “nonfilm” è tutta affidata alle musiche e a nomi di brani che ripercorrono in tutto e per tutto una sceneggiatura, includendo persino scampoli di dialogo (ad esempio: Expectant Fathers - In for a Surprise IV. “That’s a Rendezvous and a Half!”). Banalmente, un film per le orecchie; nei fatti, un’avventura immaginifica tra prog e psichedelia, affidata in larga parte alle tastiere (ma con un’infinità di altri strumenti nel mezzo, incluse arpe, terrificanti voci al contrario, stacchi lounge..), densa di ossessivi temi ricorrenti e di cadenze armoniche e melodiche immediatamente riconoscibili allo stile di Matthew; che sarà anche il più autoindulgente dei nerd in circolazione, ma la sua dote di genio ce l’ha, eccome. Adesso però, dopo che anche Eleanor (con risultati più godibili) s’è svezzata da solista, vogliamo un nuovo album dei Fiery Furnaces. Dai. (6.5/10) Antonio PancamoPuglia

Max Petrolio - Humor Pomata (Seahorse Recordings, Novembre 2012) Genere: rock dadaista “Ma dove atterreremo con tutto questo simbolismo” si canta in Humor 4: in realtà ce lo chiediamo anche noi quando abbiamo a che fare con Max Petrolio. L’arte del musicista napoletano certo non aiuta a risolvere l’interrogativo, vista la sua propensione ad attorcigliarsi sui soliti testi shockanti - spesso connessi con l’ambito farmacologico/biologico - e su una musica che, tra la wave di Discussioni in famacia con animali abili e l’elettronica di Telefoni Mortimer, ci pare non abbia ancora trovato un centro di gravità. Detto questo, Humor Pomata è forse l’episodio migliore - o, per lo meno, uno dei più credibili - della discografia di Petrolio, soprattutto per la scelta di limare l’invasività autoreferenziale delle parole in favore di una forma canzone che abbozza una certa completezza e compostezza di fondo. Anzi, in qualche caso è proprio quella forma canzone a reggere tutto il peso della costruzione, come accade nel rock molliccio e disturbante di Humor 3 o in una Humor 2 a suo modo crepuscolare e raccolta. Parentesi che in qualche maniera fanno apprezzare la costanza messa in campo dal padrone di casa nel ricercare 66

comunque una formula personale - qualcuno dice vicina all’arte contemporanea, noi non ne siamo così sicuri -, anche se poi a farci cambiare idea pensano le solite sparate un po’ fini a se stesse. Nello specifico, una chiusura di disco affidata a un elenco semplice e interminabile di oggetti che va dalla chiusura lampo al Fissan, dall’imballaggio ai coni vaginali, dai peli sulla saponetta agli anticoncezionali, dalla crosta ai sottaceti. E dello “humor” del titolo, nemmeno l’ombra. (5.6/10) Fabrizio Zampighi

Menomena - Moms (Barsuk, Ottobre 2012) Genere: indie rock La novità più macroscopica e impossibile da ignorare in casa Menomena, per parlare di questo quinto disco, è certamente l’abbandono da parte di Brent Knopf, andatosene per concentrarsi unicamente sul suo side-project Ramona Falls. Nella band di Portland sono quindi rimasti i soli Justin Harris e Danny Seim a dividersi i compiti vocali e gli strumenti, in quello che di fatto diventa un duo dopo ben quattro album registrati come trio. Arrivato dopo un periodo di fratture personali all’interno della band, da cui ne uscì il comunque convincente Mines (2010), Moms riparte dal rinnovato legame a doppio filo tra Jestin e Danny, le cui madri hanno occupato, seppur in maniere diverse, ruoli fondamentali nella loro formazione e alle quali questo semi-concept è ispirato. Quella di Harris ha infatti tirato su suo figlio praticamente da sola, mentre quella di Seim l’ha lasciato troppo presto, essendo morta nel 1994. Due storie diverse ma che comunque finiscono per sfociare qui in una celebrazione quasi catartica dal punto di vista emozionale dei due protagonisti, che ritroviamo soprattutto nei testi e nell’interpretazione vocale, come in un suono che, seppur mantenendo l’estrosità giocosa dei capitoli precedenti, risulta qui più aggressivo che mai, ma anche drammatico in alcuni passaggi. C’è, infatti, una spessa patina lirica che permea il sound e le composizioni del disco, adesso più attente a centrare il punto piuttosto che cercare il colpo ad effetto spiazzante, come spesso capitava nei capitoli precedenti. Le affinità con gruppi come Tv On The Radio e Mercury Rev rimangono quindi al loro posto, anzi forse si intensificano le somiglianze tra questo e Nine Types of Light, in cui i TVOTR avevano preso una direzione simile. Certo è che la pastosità black delle composizioni che hanno fatto le fortune dei dischi precedenti si ritrovano in abbondanza anche qui, come i sax glossy di Plumage, le chitarre ruspanti a-la Black Keys (ma senza strafare) di Capsule, i synth impazziti figli dei Flaming Lips di Ba-


ton, seguendo una scaletta di power-ballads che man mano sembrano incupirsi fino ad arrivare alle percussioni sincopate dell’aggressiva Giftshoppe, i bassi torbidi di Tantalus e gli archi drammatici della lunga e conclusiva One Horse. Certo, rimangono i difetti cronici della band, come, ad esempio, la ristrettezza di alcune soluzioni vocali che possono risultare stancanti sulla lunga distanza. Il bilancio del disco è comunque più che positivo e, anzi, rinforza una discografia già compatta che trova in Moms il suo capitolo più emotivo. (7.1/10) Luca Falzetti

Michael Mayer - Mantasy (Kompakt, Ottobre 2012) Genere: Electro techno Michael Mayer, boss della Kompakt insieme a Wolfgang Voigt e Jürgen Paape, sapeva bene che non avrebbe traumatizzato i fan annunciando il forfait della Kompakt Total di quest’anno in base a una non meglio specificata fobia verso la ricorrenza del 13esimo anniversario. Sapeva che sarebbe bastato annunciare il suo nuovo album, a distanza di 8 anni dall’ultimo Touch e di 4 dalla collaborazione con Superpitcher in Supermayer, per ripagare in toto i sostenitori. E d’altronde, che Mantasy sostituisca perfettamente la mancanza dell’estiva Kompakt Total ce lo si poteva immaginare: Mayer è uno che tranquillamente digerisce set-fiume da 4 ore, pubblicizzando in maniera antologica la sua label, e il disco segue e prosegue lo stesso concetto, inbarcandosi su di un autobahn che da Colonia spinge verso le sconfinate steppe della fantasia mentale, in maniera cinematica e di spessore, rivistando tra tutti quelli che hanno pubblicato su Kompakt Ambient e Kompakt Extra (Gui Boratto, Oxia, Superpitcher, SCSI-9, The Field, Axel Bartsch) e creando un po’ la colonna sonora dei suoi desideri. Il punto in più sono le sensazioni, il bagaglio mai pesante che accompagna durante tutto il disco/film/viaggio. Mayer riesce a costruire immagini ben definite su ogni singola traccia, tra equilibrismi lo-fi tipici degli Air di Les Voyage Sans La Lune (Lamusetwa), paranoie in bianco e nero e sottofondo polizziottesco (Wrong Lap, Roses), e sudori punk con tensioni alla Lola Corre (Rudi Was A Punk, con quel carillion ossessivo). Questo per tutta la prima metà dell’album, mentre la seconda è sicuramente votata più al ballo e alla techno, tra gli omaggi space e fantascentifici di Voigt Kampff Test e Neue Furche, dove sono fortissimi i richiami al basso killer dell’Oxia di Domino (Kompakt Total 7, chiaramente). Quest’anno il ritmo fine a se stesso non paga, e presu-

mibilmente non pagherà nemmeno negli anni a venire. Mayer, che di questa tendenza ne aveva fatto anche piú di un manifesto, non si è sottratto e finisce con Mantasy per viaggiare sulla stessa strada ferrata già percorsa quest’anno da Amirali, Deniz Kurtel e Yousef, ossia house di pensiero, devota alle sensazioni, cassa dritta ma mai fine a se stessa e passo indietro rispetto al club. Ogni nota un’idea, ogni nota un richiamo, ogni nota un messaggio per l’ascoltatore che può limitarsi a scorrere le immagini restando dentro il suo spazio mentale. Non c’era maniera migliore in casa Kompakt per sconfiggere la fobia del numero 13 che schierare la sua punta di diamante. Vero è che chi ha amato e seguito Mayer dai tempi di Touch o anche prima rimarrà con una certa sensazione di fame, ma adesso il 14 non fa per niente paura. (6.8/10) Mirko Carera

Moro - Silent Revolution (Cosabeat, Settembre 2012) Genere: indie folk-rock Giunto al secondo album dopo il debut My Favourite Season del 2010, Moro - al secolo Massimiliano Morini, da Forlì, classe 1972,- si presenta con Silent Revolution, pubblicato lo scorso 9 settembre tramite l’etichetta Cosabeat. Complice anche la parallela professione di traduttore e insegnante di inglese, il progetto di matrice anglofona presentato da Moro si rivela assai convincente, accodandosi di fatto a quella lunga tradizione cantautorale che affonda le radici direttamente negli anni ‘60. Siamo infatti dalle parti di un folk-rock debitore tanto al Donovan di Mellow Yellow quanto alla lezione universale di Dylan, passando per quel songwriting intimista ma arricchito di strumentazione elettrica che vede nei Wilco l’esempio più recente. Lo si coglie subito nell’iniziale Love And Understanding e nella title-track, due brani in cui la dosata elettricità di cui sopra si accompagna ad una vocalità essenziale e pulita, mentre A Pose By Any Other Name vira verso i territori più ritmati, e raffinati, del pop, rimandando a certa eleganza paulwelleriana (Weller che, tra l’altro, è uno dei maestri dichiarati del musicista romagnolo). Some By Time apre la strada alla seconda parte del disco, caratterizzata da un minimalismo folk che molto deve a Leonard Cohen e che si ritrova anche in No Clue, dove l’arpeggio dell’acustica si unisce alla grazia in chiaroscuro delle liriche. Altri episodi pop venati di malinconia sono Ordinary Days e Squander, mentre la conclusiva Lie To Me, con il suo crescendo country-blues, tira le somme di un lavoro nel complesso ben costruito, il cui maggior 67


pregio è quello di sapersi destreggiare con originalità tra presente e passato. (6.9/10) Giulia Antelli

Naked Truth - Ouroboros (RareNoise, Novembre 2012) Genere: jazz-prog A un anno di distanza da Shizaru tornano i Naked Truth di Lorenzo Feliciati, con una formazione leggermente modificata rispetto al passato. Alla tromba e alla cornetta c’è ora Graham Haynes (figlio del più noto Roy Haynes, batterista, tra i tanti, anche per Lester Young) al posto del dimissionario Cuong Vu, oltre ai soliti Pat Mastellotto alla batteria e Roy Powell alle tastiere. L’aggiornamento della line-up porta, da un lato, alla riconferma di un fluire morbido e indeterminato dei fiati in gran parte riconducibile al Miles Davis post-Bitches Brew (più di un punto di contatto con gli Animation di Bob Belden), dall’altro a un suono corale ancora più spinto e tirato nell’intrecciare contributi strumentali e generi. Tra texture ambient, (Orange) e incroci di fiati allungati su drumming free (Dust), prog-jazz-rock (Dancing With The Demons Of Reality) e funk (Right Of A Nightly Passage), Ouroboros vorrebbe riassumere “l’uno e il tutto, ma anche l’eterno ritorno e la nozione di infinito”. Un viaggio di quarantanove minuti in bilico tra attese incombenti e detonazioni improvvise gentilmente offerto da una band in ottima forma. (6.9/10) Fabrizio Zampighi

Neurosis - Honor Found In Decay (Neurot, Ottobre 2012) Genere: Post-hc Il fatto che i Neurosis siano una delle band più importanti della musica estrema degli ultimi dieci anni (e oltre) è una verità incontrovertibile e diventa superfluo continuare a ribadirlo ad ogni occasione. Forse, complice anche l’impenetrabile alone di culto che li circonda, quell’aura quasi mistica che nel corso del tempo hanno saputo ritagliarsi addosso, sembra di trovarsi di fronte ad artisti la cui rilevanza abbia di gran lunga superato quella delle proprie creazioni. Proprio come accade a molti altri, in molti altri settori. I Neurosis come band e come esperienza collettiva nel corso del tempo sono più influenti dei loro stessi dischi, di cui almeno quattro o cinque (Souls At Zero, Enemy Of The Sun, Through Silver In Blood, Times Of Grace, A Sun That Never Sets) stanno in una stretta graduatoria che va dall’eccellente al capolavoro. 68

Tanto si ribadisce per dovere di cronaca, perché a questo punto, al cospetto del decimo disco in carriera, che arriva dopo cinque anni da Given To The Rising, quel malinconico senso di delusione che immediatamente ti prende di fronte al riff sciattissimo di We All Rage In Gold sembra quasi un effetto collaterale inevitabile. Eppure la visione storta dei Neurosis, anche se sbiadita rispetto al passato, non è del tutto persa. Il riff sabbatthiano di cui sopra, dopo un tenebroso intermezzo per sola voce si incardina in una visione acida delle loro, in un territorio che conoscono bene, dove sludge, doom, psichedelia e folk si trovano a mimare quel brivido esistenziale da catastrofe che è il vero marchio della band di Oakland. Tutto il disco continua così. Molte trovate stucchevoli e scialbe vengono salvate in corner da aperture visionarie degne dei tempi andati. Si vedano la cornamusa pagana che apre in due la marcia sfiancata di At The Well; l’intro industrial di My Heart For Deliverance, che esplode in un riff epico e acido, salvo poi incunearsi in un’oasi folk che fa il paio con i dischi solisti di Kelly e Von Till. Bleeding The Pigs probabilmente è l’apice del disco con il suo tribalismo catastrofico che dà lezioni di apocalisse a Tool e derivati. Il lato più heavy fa quadrato in All Is Found... In Time che è un’altra vetta, tra continui cambi di ritmo e d’atmosfera. Produce, come al solito, Steve Albini che firma un’altra produzione incentrata sulla sezione ritmica a fare da scheletro al disco piuttosto che il fondale a margine. A conclusione non è colpa di Honour Found In Decay se si avverte qua e la qualche elemento di stanchezza. Piuttosto sono i dischi elencati più sopra che stanno davvero oltre nel micro mondo apocalittico dei Neurosis. (6.8/10) Antonello Comunale

Niccolò Fabi - Ecco (Universal, Ottobre 2012) Genere: cantautorato Sul Niccolò Fabi esordiente era difficile scommettere, tutto diviso tra bel faccino e divertissement, e non gli avremmo certo prefigurato una luminosa carriera. Invece eccoci al disco numero sette, a dire qualcosa che somiglia proprio a Ecco trovandoci di fronte al frutto di una naturalissima e pregevole evoluzione artistica. Impossibile, diciamolo subito, dimenticare il fatto privato, quello tragico che due anni fa portò Fabi drammaticamente su tutti i giornali (la morte della figlia): sarebbe ipocrita insomma valutare questo lavoro dimenticando quanto sia stretto il nodo per un autore tra la propria scrittura e fatti così essenziali della propria esistenza. Fabi corre dritto per una strada che è il proseguio del tut-


to coerente di Solo un uomo (2009) e dà vita a un lavoro maturo, dalla scrittura riflessiva, accurata e misurata. Testi introspettivi, a riflettere su un sé che si muove nel proprio tempo - il nostro - con tutte le riserve del caso. Ironico, sofferto, attento: questo è un Fabi che, ancora una volta, non vuole sedurre l’ascoltatore ma sedersi con lui e insieme a lui riflettere. A suo modo, Ecco non è un disco semplice, con questa forma narrativa che non esclude lo slancio pop ma in qualche modo, lo costringe a un rallentamento anche quando non sarebbe previsto (Indipendente, Le cose che non abbiamo detto). Una buona prova insomma, radicata nelle origini di quella nuova scuola romana di cui Fabi è da sempre esponente e che vede al centro quel sound voce e chitarra a lui molto caro. Nota speciale per gli abiti: arrangiamenti curatissimi e un’ottima produzione. (6.9/10) Giulia Cavaliere

Ninos Du Brasil - Muito N.D.B. (La Tempesta International, Novembre 2012) Genere: electro-tribale Che l’etnico e il terzomondismo siano una delle direttive principale degli ultimi anni in musica, è un fatto assodato. Ormai non c’è produzione musicale che in qualche maniera non peschi in quel serbatoio ampio e sconosciuto che va dall’Africa, al Sud America, all’Asia e ritorno. Se tra le ultime uscite nostrane ci vengono in mente gli Honeybird & The Birdies o i Mombu, tra gli stranieri - tanto per fare qualche nome - potremmo citare nell’ampio contenitore che è il “rock” i primi Liars per certi elementi ritmici tribali, come del resto gli Akron / Family, gli Elfin Saddle o i Sepultura per il metal. Per quanto riguarda la battuta sintetica, invece, è inevitabile prendere come punto di riferimento la proposta di Ricardo Villalobos, bilancia di stile fra le sue origini cilene e il minimalismo berlinese o le incursioni sporadiche di Four Tet nel jazz nero e nei ritmi sincopati della world. Nella maggior parte di questi casi il paradigma estetico ha cercato comunque di inglobare elementi musicali esotici in uno stile “occidentale” già codificato su categorie aliene alla world, fornendo un sincretismo ambivalente e non sempre del tutto integrato. Il discorso non vale per i Ninos Du Brasil, che invece assumono come punto di partenza la musica di un mondo diverso dalle loro origini culturali. Nel disco d’esordio della neonata band/progetto, si parla di batucada, uno stile musicale/percussivo brasiliano vicino alla samba e influenzato dall’Africa, diffusissimo durante il Carnevale di Rio. Sulle strutture ritmiche del genere il trio innesta un’elettronica inquietante fatta di ambient e di impennate ritmiche,

oltre a un’attitudine viscerale e fisica non troppo distante dal mondo dell’hardcore. Del resto non potrebbe essere altrimenti, visto che Nico Vascellari (artista visivo, già With Love e Lago Morto), Nicolò Fortuni (With Love, Ohuzaru, Man On Wire) e Riccardo Mazza (A Flower Kollapsed) arrivano da un passato musicale solido e urticante. Nessun compromesso, insomma, per un disco che è un tripudio di percussioni e poliritmie generate da cuica, congas, campane, jambè, rulli, piatti, claves, maracas, fischietti, campanelli ma anche bottiglie, lattine e pezzi di legno. Una cacofonia analogica perfettamente calibrata che si sovrappone all’elettronica, generando un suono oscuro, profondo, abrasivo e senza vie di fuga. Il progetto ha una sua ragion d’essere e suona decisamente credibile, anche quando gli elementi sintetici e i tamburi copulano per dar vita a un’estetica non troppo distante dalla tribal (vedi ad esempio la conclusiva Hysà, che ricorda i fasti percussivi di 20Hz di Capricorn e di gran parte della tribal anni novanta). A quanto pare, Muito N.D.B. ha anche discrete potenzialità in termini di diffusione e di hype, visto che piace un po’ a tutte le latitudini: dalle sfilate di moda (con tanto di articoli su Vouge Italia), alle istallazioni artistiche (la biennale di Architettura a Venezia), ai concerti veri e propri nei club. (7.2/10) Fabrizio Zampighi, Marco Braggion

Occhi di astronauti - La città verrà distrutta domani (Autoprodotto, Maggio 2012) Genere: electro hop Occhi di astronauti è il moniker frutto di una collaborazione tra Groovenauti (Max Prod, musiche) e Lato oscuro della costa (Polly, testi), che a maggio ha fruttato l’album La città verrà distrutta domani, in free download sul loro sito occhidiastronauti.com. Se la scena italiana non fosse impegnata a incensarsi negli specchi delle proprie brame sicuramente non lascerebbe passare inosservato questo lavoro. Se la scena italiana non fosse impegnata a lanciare dissing circensi capirebbe l’impatto di questo album, che da una parte sicuramente innova - forse anche a una velocità troppo elevata per i confini nostrani - e dall’altra cementifica un concetto base dell’hip hop: il messaggio, la forza di una frase, visionaria o urbana che sia. Sulla parte musicale Occhi di astronauti dimostra di aver tenuto spalancate e ricettive le pupille verso le ultime tendenze elettroniche, definendo un modo nuovo di fare basi per il rap, almeno nel belpaese, con richiami precisi ai lavori di Flying Lotus, Sbtrkt, Circlesquare, Muxmool e 69


Rustie (ma il citazionario potrebbe andare avanti ancora molto, tra dubstep postdubstep electro e wonky): musiche che disegnano in maniera perfetta l’ambiente suburbano e marziano in cui lo scritto di Polly si muove a incastro tra accelerazioni pause e reprise. Scrittura e interpretazione guardano meno ai tecnicismi e tanto a cosa dire, sospesi tra il reale e il fantascientifico-contemporaneo tanto caro ai romanzi di Dick o ai fumetti de l’Eternauta, con un rap ansioso e frenetico - a volte in fuga, altre fermo - e assoluti lampi di genio, con messaggi stampati in spazi concisi: io sogno sabbie blu nella spiaggia industriale ombrelloni di lamiera in questo mondo surreale tutto intorno teloni in pvc con su stampato il mare (Spiaggia Industriale); senso pratico senza panico sesso aggrappato al maniglione antipanico nell’elenco di vizi, stravizi e ossessioni (caramelle Haribo) della title track; non mi dire che hai amato questo caos che tutto distrugge e genera la mia barba è il sogno di un’epoca, nella Notte d’oro che è forse il momento più convincente, insieme alla struggente rivolta ambientale di La ballata del petrolchimico, ovvero non spolverate i fucili per la rivoluzione serviranno i vinili, con quella voglia di evadere dal reale attraverso le proprie bolle. Pescando ancora e a caso tra le rime: ci siam persi di vista tra gli schemi degli iphone, i supereroi dei dialoghi abitudinari, le citazioni di Bresci e di quel Federico dove sei Federico dove sei Federico (Aldrovandi?), nell’attualissima Sbarre, la traccia che chiude il disco. Sono tante le visioni e le paranoie che in simbiosi parassitaria tra groove e testi proiettano oltre la stratosfera questo La città verrà distrutta domani, scavando un solco tra chi ha prodotto fino a oggi e chi produrrà da oggi e avrà voglia di uscire dalle solite rime, dalle solite case chiuse dei sample funky, dal solito citazionismo, dal solito superego del rap nostrano. Album così ne escono pochi e passino pure in secondo piano le sbavature, le forzature e le imperfezioni tipiche dei primi lavori, figlie di un’anarchia che serpeggia tenebrosa in tutto il disco. Nel rap italiano ad oggi per chi scrive questo è il disco dell’anno. (7.3/10) Mirko Carera

of Montreal - Daughter Of Cloud (Polyvinyl Records, Ottobre 2012) Genere: disco glam collage Daughter of Cloud è il rare, b-side e unreleased album degli Of Montreal. Copre un arco temporale che va dall’indie caso che fu Hissing Fauna, Are You the Destroyer? all’ultimo pantagruelico Paralytic Stalks, in pratica cinque furiosi anni nella produzione discografica di Kevin Barnes che nella vita di un musicista “normale” si tradurrebbero in dieci o venti. 70

Vista la natura compilativa del lavoro - diciassette tracce, di cui dieci completamente inedite - troviamo molti episodi sketch sui due minuti e altri sui quattro, tutti carichi di arrangiamenti e soluzioni ritmiche. Il tentativo era quello di farlo suonare come un nuovo album della band, il risultato è un caleidoscopio a tratti straniante e raramente geniale, ma sicuramente mai trascurabile tout court. Si va dall’hip hop recente dalle parti della Anticon - e ce n’è un bel po’ - (Stepping’ Out, Partizan Terminus, Alter Eagle, Subtext Read, Nothing New, Obiousatonicnuncio), alla nota synth-tronica (Jan Doesn’t Like It, Noir Blues To Tinnitus), passando per episodi più disturbati (Hindlopp Stat), ballad al piano (Expecting To Fly), qualche basamento indie chitarristico Hissing Fauna (Psychotic Feeling, Tender Fax, la roureediana Kristiansand) e condimenti glam-disco-psych uptempo che riassumono, in pratica, la portante sonica dell’ultimo Barnes. Sono tre i convincenti episodi prettamente pop (Our Love is Senile, Sails, Hermaphroditic e la citata Psychotic Feeling), il resto è pane per i denti dei cultori. Un sorriso (Georgie’s Lament) scappa sempre, l’effetto è quello di una sbronza a un passo dalla china discendente. That’s Barnes baby. (6.8/10) Edoardo Bridda

Opossom - Electric Hawaii (Fire Records, Settembre 2012) Genere: vintage pop Mentiremmo spudoratamente se vi dicessimo che conoscevamo bene il buon Kody Nelson, già nei neozelandesi Mint Chicks; un piccolo culto proveniente da lontano sinora colpevolmente sfuggito al nostro radar, e non fosse per la sempre provvida Fire Records ci saremmo persi anche il suo debutto in solitaria col moniker di Opossom. Sarebbe stato un peccato, perché a partire dalla copertina e - ovviamente -dal titolo Electric Hawaii è un’esplosione di colori e suggestioni pop, in un’amabile salsa vintage-psichedelica che richiama alla mente, oltre a certe caramellosità Beatles (Blue Meanies, come da nome) le visioni dei vari MGMT, Ariel Pink e, nemmeno a dirlo, Flaming Lips e Mercury Rev (Inhaler Song). L’approccio diy/one man band ci ha piacevolmente ricordato anche quel Matt Berry che l’anno scorso ci ha consegnato in sordina un altro dischetto per cultori (Witchazel), ma al posto di quel gigioneggiare eclettico tra i generi qui troviamo una mira più precisa, con intuizioni melodiche e di arrangiamento di pregio. Tra gustosi citazionismi (Girl non ricorda forse la velvettiana Femme Fatale nell’incedere melodico? O Watchful Eye non sembra Only Love Can Break Your Heart del vecchio


Young ripensata dagli High Llamas?), camei strumentali degli dell’Eno pop (la title track), bassi alla Macca, voci trattate ed elettronica cheap il punteggio si porta a casa con mucho gusto. (6.8/10) Antonio PancamoPuglia

Oratio/Nicolò Carnesi - Non vado più al mare (Malintenti Dischi, Ottobre 2012) Genere: pop, cantautore Le nostre parole non varranno il solito “non ci finiscono mai di stupire questi due autori eccezionali”, perché (va detto subito) Non vado più al mare è un disco che non aggiunge nulla di nuovo alle carriere di (ora possiamo pure dirlo) questi due autori eccezionali. Non ci sembra una novità l’incredibile carisma espressivo di un Carnesi che ha conquistato la penisola con il cantautorato - velato indie rock - di Gli eroi non escono il sabato; non ci sembra neppure una novità l’intimissimo (quanto ironico) sound d’antan di Oratio, ennesimo esponente di una scena (quella cantautorale siciliana) che fra i vari Colapesce, Dimartino et similia, sta portando alla ribalta i fasti della Trinacria. Non vado più al mare si configura come uno split, in cui, con l’aiuto delle note basse di Antonio Di Martino e della bella grafica di Mirella Nania, i due brani cantati da Oratio (al secolo Andrea Corno) suggellano all’inizio e alla fine i due interpretati da Carnesi. L’atmosfera rimane quella di un cantautorato allegro, spensierato (con alcune aperture a cui acceneremo), in cui di mare ce n’è pure fin troppo, ritmato sugli stilemi già collaudati nei dischi solisti: c’è Luca Carboni nei ritmi in levare e nelle armonie (come non notarlo nella title track?), c’è la maturazione di uno stile di scrittura più solido e robusto in Carnesi, seppure a volte sacrificato sull’altare della cantilena (Vampiri), c’è il ritrovato gusto per la ballad d’autore in Curo la forma (“Io curo la forma, io temo la forma ed è la cosa più stupida che mi poteva capitare”). Non rispondono all’appello (ma si erano fatte sentire nei due dischi solisti), le influenze della wave più internazionale per Carnesi (Smiths, Cure, ecc.) e la vena tagliente e d’assalto di Battisti o Bugo per Oratio. Tutt’al più spunta questa interessante deriva vagamente italo disco in Lungimirante (Righeira, perché no?), che è senza dubbio l’apertura più intrigante e originale dell’Ep. Rimane un senso d’incompletezza e mancato appagamento alla fine di un ascolto attento, ma il lavoro è senza dubbio degno di essere fruito con acuta leggerezza. La stessa con la quale, probabilmente, è stato concepito. (6.5/10) Nino Ciglio

Paolo Saporiti - L’ultimo ricatto (Orange Home Records, Settembre 2012) Genere: avant-folk Dopo la parentesi Universal suggellata da un Alone efficace nel trasformare in folk elegante un songwriting crepuscolare e da sempre attratto da un’intima ricerca di sé, Paolo Saporiti ritorna con un disco che va nella direzione esattamente contraria. Anche se, in realtà, L’ultimo ricatto non è una rivoluzione copernicana per il musicista milanese, piuttosto un accondiscendere certe attitudini in odore di minimalismo da sempre presenti nella sua poetica e forse messe un po’ da parte nelle ultime uscite discografiche. La novità è uno Xabier Iriondo a far da musicista aggiunto, arrangiatore e agitatore, quest’ultimo già collaboratore di Saporiti ai tempi dell’Ep Just Let It Happen e qui fondamentale nel dar sostanza a un disco dall’approccio quasi concettuale: suono destrutturato dai trattamenti rumoristi del chitarrista degli Afterhours, estetica ridotta all’osso, indole cantautorale comunque presente. Le cose migliori si ascoltano quando le ruvidezze avanguardiste di Iriondo abbandonano il descrittivismo da fondale entrando prepotentemente nella struttura dei brani. Quel che accade in una Sad Love/Bad Love che dal binomio banjo-voce passa nel finale a un crescendo orgiastico e acuminato o a una War (Need To Be Scared) che ricorda Tim Buckley in un’alternanza di chitarre elettriche e archi, nelle ingerenze free che sfilacciano We’re The Fuel o nel blues urticante di Stolen Fire. L’idea alla base del disco è affascinante, i risultati incoraggiano: e se questo fosse soltanto il primo step di un connubio capace di regalare ulteriori gradi di compenetrazione stilistica? (7/10) Fabrizio Zampighi

Parallel 41 - Parallel 41 (Baskaru, Ottobre 2012) Genere: impro-ambient New York e Napoli. Julia Kent e Barbara De Dominicis. Parallel 41 è un progetto di ricognizione psico-geografica dei suoni, che arriva dopo numerosi progetti analoghi, secondo una tradizione che a partire da Alan Lomax ha fatto del field recordist una figura molto romantica e negli ultimi anni abbastanza abusata. In verità, Parallel 41 trascende una scena oltremodo affollata e arriva a risultati prettamente musicali di grande respiro. Il sottotesto teorico che fa poi da scenario nel disco e da sostanza in Faraway Close il video-dvd di Davide Lonardi, arricchisce ulteriormente e ci permette una digressione concettuale quantomeno affascinante. 71


Parallel 41 in effetti assomiglia a Landings di Richard Skelton o alla Odomez Serie di Nothing Out There. E’ sintomatico come in questi casi, il supporto discografico non sia sufficiente. Landings si accompagnava ad un libro di prosa (ed in molti casi della Sustaine-Release anche a foglie e arbusti della campagna in cui Skelton registrava); i vari dischi della Odomez Serie avevano sempre qualche elemento di corredo, anche qui un diario e in alcuni casi veri e propri bulloni della Kuhlmann Factory abbandonata. Parallel 41 accompagna alla musica le riprese di Lonardi che, invece di limitarsi a fare da cronista si avventura in documenti d’epoca e in alternanze di montaggio che effettivamente tracciano percorsi e similitudini. Napoli e New York sono due città-dominio, con una comunione dello spirito più segreta e nascosta di una semplice riflessione sul caos che li contraddistingue. Se ne accorge soltanto qualcuno che abbia camminato con attenzione a più riprese in entrambe. Le mutevoli scenografie e le umanità diversissime che si alternano davanti allo sguardo passando da Via Marina a Via Toledo, e poi ancora per la Pignasecca e i Quartieri Spagnoli, hanno lo stesso identico modo di accompagnarsi l’un l’altro, di quello in cui a Manhattan le tradizioni irlandesi, italiane, portoricane, cinesi si compenetrano, nel Lower Side. Da qui anche quel senso di tradizione arcaica che permane come un riflesso pagano delle diverse culture e a cui si allude nel video. Di fatto la musica di Parallel 41, nell’unione tra il violoncello di Julia Kent e l’elettronica per voce di Barbara de Dominicis, allestisce una soundtrack che trae linfa vitale da tutto questo secondo un processo semi-ritualistico che è comune a molti musicisti da presa diretta. Da qui anche la scelta di non precludersi altre tappe, nel viaggio ideale tra Napoli e New York e di trovarsi in altri luoghi come Forte Marghera o in un tunnel abbandonato in provincia di Bolzano. Quello che fa la differenza, al di là del coltissimo e inspirato suono della Kent è la voce della De Dominicis che si cala in uno spoken word teatrale e lirico abbastanza originale. I brani, lungi dall’anestetizzarsi sui field recordings (la metro di NY, il mercato di Porta Capuana..) li compenetrano tramite il suono del violoncello e della voce è il risultato è spesso deliziosamente musicale, come nel valzer decadente di Illusory Rendesz Vous o nel superlativo droning mimato di The Naked City, che per atmosfera noir ricorda alcune cose del Tin Hat Trio. I risultati sono sufficientemente maturi per vagheggiare un Parallel 41 parte seconda. (7.4/10) Antonello Comunale

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Paws - Cokefloat! (Fat Cat, Ottobre 2012) Genere: slacker rock Un certo tipo di attitudine diffusa nei primi ‘90s non smetterà mai di esistere... ed è giusto così. I PAWS forse non erano neanche nati (il leader Philip Taylor è del 1990) quando il dio degli slacker - probabilmente incarnato qualche anno dopo dal Drugo di The Big Lebowski insegnava la retta via a band come Dinosaur Jr. o Pavement e guidava i ragazzini americani tra skaters, fumetti brainless, scatole di pizza, birre e Beavis & Butthead. Dettaglio non trascurabile: come gli inglesi Yuck, anche i PAWS - nonostante le affinità con quel contesto - non provengono da villette a schiera statunitensi ma bensì dalla piovosa Scozia. Il gioco dei PAWS e del loro album di debutto Cakefloat! è quello più classico: melodia (tanta melodia), chitarre svogliate ma protagoniste e youth-mood dall’inizio alla fine. Catherine 1956 contiene l’elemento che fa la differenza tra band come Blink 182 o Feeder e i PAWS: la genuina onestà di chi sa scrivere un buon pezzo orecchiabile, non perchè lo deve fare a tutti costi ma perchè gli riesce in totale spontaneità. Teste che si muovono e busti dondolanti in Jellyfish (strano incrocio tra Wavves e i Sum 41), titoli che parlano da soli (la scanzonata Boregasm), virate garage-punk ancora in ottica Wavves (Bloodline) e inni lo-fi sotto la produzione di Rory Atwell (ex Test Icicles). Tra i momenti più memorabili e fuori dal leitmotiv musicale di Cakefloat! abbiamo l’unico passaggio acustico Get Bent che rappresenta l’apice dell’immaginario kids against parents (“Why do you spend all your free time in your room?”) e i ricordi in zona Hüsker Dü di Tulip. In giro con i Japandroids (al termine del tour con i nostri Be Forest), i PAWS potrebbero non maturare mai e, ironicamente, è il migliore augurio che gli possiamo fare. Forever young. (6.8/10) Riccardo Zagaglia

Peter Broderick - These Walls Of Mine (Erased Tapes, Ottobre 2012) Genere: mind-folk Cominciavo mesi fa la recensione di itstarthear.com, con un promettente “Largo ai giovani, il dirompente Peter Broderick!”: mai proclama fu più sacrificato e vittima dall’entusiasmo - seppur tiepido - del momento. E si sa, le recensioni vivono di sottigliezze, di ciò che rimane (se di buono qualcosa c’era) più di ciò che è stato realmente aggiunto all’opera, di un continuo soppesare a discapito dell’osservazione (brutto mestiere quello del recensore), soprattutto visti i tempi affamati e impulsivi che il mon-


do musicale è costretto - per sua colpa, sia ben chiaro - a subire. Il caso dell’artista danese è eclatante; una sovrapproduzione (due dischi in meno di un anno e chissà quanti in programma) che nulla giunge - ribadisco, semmai toglie - all’opera tutta, alla forma che un musicista è capace di dare alla sua creatura, soprattutto se, come in questo caso, si parla di avanguardia legata direttamente al cantautorato e a tutte le sue forme future, innovative o meno, non sembra avere gran importanza. Andiamo al sodo, il nuovo These Walls Of Mine, a parte il titolo suggestivo, nulla evoca se non un parziale passo indietro, un vago assopimento del talento di Broderick. Ci si allontana sempre più dall’ondata neo - classicista dei vari Arnalds o O’Halloran per avvicinarsi sempre più ad una voluta non-direzione dal sapore rapeggiante e quasi sospesa nelle sue minim(alist)e e solo vagamente suggestive intuizioni sonore. Assemblate come e con che fine, lo spiegheremo poi, ora la rigida analisi. L’iniziale Inside Out There apre spiragli che rimandano ad un passato recente (una quasi rivelazione in salsa islandese) incapace di ri-sintonizzarsi , avvinghiato com’è alla ricerca spassionata dell’insipido arrangiamento esotico (il western alla Johnny Cash di Freyr! tra coretti soleggianti) o del balbettio suggestivo (una quasi luminosa I’ve Tried). Si fa poi il verso a Moby (Proposed Solution To The Mistery Of Soul), per poi passare, soprassedendo sull’imbarazzante rap di When I Blank I Blank, all’eponima These Walls Of Mine, collage dal sapore improvvisato, a dir poco. Il battimano notturno di Copenhagen Ducks si eleva quasi come una piccola perla in quarantena (sognante e cadenzata, quasi appena colta), capace, lei sì, di emergere fra il (talento) sommerso che la circonda. Un album che vuole essere visto come esperimento, un laboratorio musicale (e vocale, e testuale) dove il come - la casualità dei testi visti come dialogo con i fan, l’introspezione insistita, il mezzo internet come collante sul tutto - prevale volontariamente finendo così per comporre un quadro desolato, senza direzioni, dove a mancare è la seppur minima poetica. Un album fine a se stesso, dove i flebili abbozzi di genio, come se fossero dei freddi calcolatori, non trovano riscontro tra le angolature umane e istintive di cui un’opera di livello si nutre e si nutre ancora, tralasciando i fini, e quindi, concentrandosi finalmente sulle origini. These Walls Of Mine soccombe in preda ad isterismi troppo insistiti sul perché di un’operazione volutamente autoreferenziale, tralasciando inesorabilmente la sostanza. Come un piano sequenza in un deserto e, quest’ultimo no, non è un complimento. (5.8/10)

Pharm - Pharm (Face Like A Frog, Novembre 2012) Genere: dopo rock Quando c’è di mezzo Fabio Reeks Recchia non c’è mai da stare tranquilli. Il romano ha trafficato sempre con musiche, band e progetti borderline. A volte estemporanei, a volte dalla lunga tradizione: tanto per fare qualche nome Zu, Eraldo Bernocchi, Okapi, Damo Suzuki, Germanotta Youth e moltissimi altri. Uno avvezzo a mischiare, a giocare coi ruoli, a sconvolgere le carte in tavola, specie quando si trova a fare comunella con una formazione atipica come questi Pharm. Collettivo audio-video formato da Cristiano De Fabritiis (batteria e live electronics), Claudio Mosconi (basso), Matteo D’Incà (chitarra), Alessandro Rebecchi (videomanipolazioni) e dal citato Reeks ai live electronics e percussioni, Pharm è in realtà un tritatutto. Post-rock colto alla Tortoise, attitudine punk, Primus, hardcore evoluto, industrial dei 90s, destrutturazione, reminiscenze del Coltrane imbizzarrito, il jazzcore romano, le colonne sonore immaginarie, il funk, la Canterbury più avventurosa, il rock in opposition meno standardizzato e moltissimo altro trova accoglienza nelle sette lunghe tracce del lavoro. Ne escono canzoni che sono interi universi fissati in una istantanea appena dopo il big bang, colori e fusioni transmediali liofilizzate in composizioni irregolari e libere, che non perdono mai in coerenza e forza visionaria pur muovendosi tra umori, suggestioni, sensazioni ovviamente eterogenee. Post-rock malinconico e pacato dei June Of 44 imbastardito col glitch’n’cuts (Western Machines), manovre smuoviculo da funk alien(at)o e in modalità weird-exotica (Joe Chip), trip-hop agnostico e cinematico (Q), l’hardcore evoluto dei Victim’s Family mischiato al rumorismo e sgretolato in un caleidoscopio di decostruzioni (Buone Cose A Lei), la via schizoide del jazz più libero e funkettoso pronto a tornare alla casa madre Africa (L’Africano), il crossover dei 90s rielaborato in chiave terzo millennio (Sorbetto): Pharm è veramente una ossimorica galassia di suoni in opposizione e comunione. “Una guida galattica per autostoppisti post-rock”, dicono scherzando ma non troppo nella press, e la realtà non è molto lontana. Sperimentale e coraggioso, mai scontato e prevedibile, libero e folle, Pharm è una ottima via da seguire, se se ne ha il coraggio. (7.2/10) Stefano Pifferi

Federico Pevere

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Photek - Ku:Palm (Photek Productions, Ottobre 2012) Genere: Slow techno Dopo due decenni di carriera Photek dev’essersi preso proprio una cotta forte per lo spirito dance dei nostri tempi, per far iniziare il suo ritorno al formato album con un pezzo di tech-house dritta e dai molteplici stimoli come Signals. D’altronde lo aveva già anticipato in fase di presentazione, Rupert Parkes si confessa particolarmente affascinato dai fermenti dei giovani di oggi e, complice anche l’esperienza DJ-Kicks che ha rinvigorito il suo spirito dance, ha voluto che Ku:Palm si riposizionasse entro certi confini techno densi di suggestioni e atmosfere. Si era giocato anche l’accostamento ai suoi due album più importanti, Modus Operandi e Solaris, rispolverando così quel suo personale concetto di “slow techno” raccontato anche nella nostra intervista di maggio, che aveva finito per farlo avvicinare inconsapevolmente al dubstep. Tutti filamenti che trovano il loro spazio all’interno del nuovo album. L’impianto principale segue un percorso techno rallentato fino alla modern braindance, dove è bello sentire le affinità soundtracking di Shape Charge (campo non estraneo a Rupert, vedi Animatrix o The Italian Job), l’inseguimento di certe mode europee in Quadrant o le ricorsioni all’acido di Mistral, fino ad arrivare a un pezzo morbido come Munich, vinicissimo alla deep house. Tutta la moderna euforia per la contaminazione dancey invece è concentrata in una manciata di pezzi come Signals, Oshun e One Of A Kind, che riprendono ancora una volta, a modo loro, l’estetica ‘90, stavolta nell’accezione più vicina al clubbing collettivo (echi progressive, divas e stomp fitti, lontani ma non troppo dall’ultimo Scuba). La cosa che Photek non ci racconta giusta è a proposito della non-volontarietà della sua recente fase dubstep, giustificata come un’affinità spontanea raggiunta a partire dall’esplorazione techno. Un discorso che fila ancora per un pezzo come Aviator, con un beat valido tanto come halfstep che come tech-house, ma che non regge più coi due pezzi più potenti dell’album, la Sleepwalking con Linche e l’esplosiva This Love con Ray La Montagne, due pezzi che il dubstep l’hanno nel sangue e non fanno nemmeno tanto gli schizzinosi con le sue frange più hardcore. Come se dopo le collaborazioni con Pinch e Kuru ci fosse ancora bisogno di conferme. In ogni caso, Ku:Palm nel complesso rispetta quanto anticipato nella varie interviste. In maniera tanto fedele che diventa quasi prevedibile: magari gli mancherà quella miscela di imprevedibilità e ispirazione che ha reso tanto esaltante il suo DJ-Kicks, ma resta comunque un disco onesto e pieno di buone maniere. Quei pezzi fre74

schi e fantasiosi che finiscono nei suoi mix son materia per chi ha meno primavere alle spalle, questo l’autore lo sa e gestisce la cosa spingendo sull’esperienza, sulla cura delle atmosfere e su un senso estetico dal tratteggio classico. Modus Operandi è un’altra cosa, ma Photek è ancora vivo. (7/10) Carlo Affatigato

Pinback - Information Retrieved (Temporary Residence, Ottobre 2012) Genere: Indie rock A cinque anni dal precedente Autumn of the Seraphs, che aveva rappresentato il culmine di una carriera divisa tra virtuosismi e irresistibile urgenza pop, si riaffacciano i Pinback. Come al solito, nelle pause tra dischi solisti e il ritorno dei redivivi Three Mile Pilot, Rob Crow e Zach Smith si sono presi il tempo necessario per realizzare questo Information Retrieved che già dai primi ascolti suona come l’album più “prodotto” nella discografia del duo di San Diego. Fortunatamente non ci troviamo di fronte ad uno sterile prodotto di studio: in apertura Proceed to Memory mette subito le carte in tavola con basso iperattivo, chitarra funzionale e batteria, proverbiale crescendo emotivo e una delle migliori performance vocali di Crow. Del resto, quello messo in campo, è il classico suono Pinback, tra finezze strumentali (gli intrecci tra chitarra e basso di Glide) e calcolate atmosfere jazzate derivanti da una grande esperienza live in quasi quindici anni di carriera. L’album convince proprio quando i due riescono a mantenersi nel giusto mezzo tra esperienza e preziosismi pop, come accade nelle due ballate per pianoforte Drawstring e soprattutto Diminished, apice del disco (“Should it be so hard to have a nice day?”), mentre in altre parti addomesticare eccessivamente l’impeto live (il singolo Sherman e His Phase) o assecondare spinte più “cerebrali” (il tempo dispari di Winslow You Idiot!) non sempre ripaga. In definitiva, Information Retrieved è un buon lavoro, ma mette in luce alcuni limiti che il suo predecessore era riuscito a nascondere: il ripetersi di alcune formule standard e una certa monotonia, che si affaccia specialmente negli ultimi brani. (6.5/10) Giorgio Bonomi

Prins Thomas - II (Full Pupp, Ottobre 2012) Genere: Space Disco Uno-due, la space disco norvegese si gioca in un sol colpo le sue due carte più forti, Prins Thomas e Lin-


dstrøm, per definire il suono che affascinerà il pubblico ora che la fase di dichiarazione d’intenti è terminata e la scena ha la giusta attenzione addosso. Per Lindstrøm ve lo anticipiamo - lasciate a casa i dubbi nati dopo Six Cups Of Rebel e preparatevi a ricevere quello che avete sempre desiderato dalla space music ma non avete mai osato chiedere. Prins Thomas, d’altra parte, intraprende una strada speculare a quella di Lindstrøm: l’idea alla base del disco è quella di aumentare il bacino di utenza della space music usandone tutti i canoni tipici ma adattandoli più a una scena europea che semplicemente norvegese. L’intenzione è quella di scaldare l’ambiente e sdoganare il genere, come da più parti intravisto nelle recenti produzioni del filone. Eccoci allora a contestualizzare un album che ha tutti i must come si deve del suono in questione: tracce lunghe ed esercizi in crescendo qui quasi a sfiorare un escapologia prog anni 70, basi perfette per incastri di fattori lievitanti, suoni 8 bit e richiami anni 80 (Bom Bom, Bobletekno). La cassa dritta è la nuova passione space, i loop son divertenti e ben congegnati (Tjukkas Pa Karussel) e la noia vien tenuta lontana. C’è aria di divertimento, un pezzo come Sur Svie che gioca su groove spensierati è la conferma di come sia imprescindibile oggi per questo genere guardare più al divertissement e all’happy dance che all’intelletto, a dimostrazione che il vero innovatore nascosto oggi è Todd Terje (e infatti se l’è accaparrato proprio Lindstrøm). Con Prins Thomas l’opera riesce a metà. La sensazione è di avere a che fare con un ottimo mestierante, che dimostra di stare a suo agio sotto i riflettori del rinnovato interesse verso la space music ma che non fa molto per rendere umano un suono già inorganico per definizione. Non mancano le idee (il disco non annoierà, anzi), quello che manca è il sentimento, il calore, l’umanità, tutta la precisione d’incastro che invece a Lindstrøm è riuscita alla perfezione. Il paradosso di Prins Thomas II è che il voler guardare cosi scolasticamente a scenari europei renda il tutto invece molto norvegese. Un peccato? Per niente, ma questo è agire (solo) da comprimario. (6.4/10) Mirko Carera

Public Enemy - Most of My Heroes Still Don’t Appear on No Stamp (SLAM jamz, Luglio 2012) Genere: hip hop Quest’anno i Public Enemy festeggiano 25 anni d’attività rilasciando ben due album. Il primo ad uscire è questo Most of My Heroes Still Don’t Appear on No Stamp: una sorta di concept album su una società dro-

gata di celebrità il cui titolo è preso in prestito dal loro successo dell’ottantanove Fight the power. Nonostante l’età e l’abbandono di Terminator X, storico DJ/producer del gruppo, Flavor Flav e soci si trovano in grande forma. Le prime due tracce, le vere perle dell’album, fanno venire voglia d’ascoltarne altre cento di questo calibro. Run Til It’s Dark è un opener totalmente nello stile che ha reso famoso il gruppo: drumming incalzante, rumorosi assoli di chitarra, breakbeat inconfondibilmente early 90s e bombe di scratching. E’ la solita sarabanda di sempre, una festosa guerra funky a colpi di fight the power che si fa più classica e morbida, grazie ai fiati, nella successiva Get Up Stand Up con Chuck D e Flavor Flav a declamare il solito corollario d’incitamenti (aiutati questa volta dal poco noto ma talentuoso Brother Ali). Se tutto deve tornare alla base, non mancano le stoccate e la coscienza politica: Catch the Thrown, parodia di Watch the Throne, accusa di elitismo Jay-Z e Kanye West, due musicisti certo apprezzati per talento e scelte di produzione (Large Professor qui presente è il produttore di Nas), ma duramente criticati per aver propagandato la cultura egocentrica dello swag. Presi dalle invettive i PE risultano carenti proprio nelle soluzioni innovative, tutte sotto la bontà degli episodi più ortodossi salvo l’ottima I shall Not Be Moved, composta soltano da un riffone bluesy incalzante e cori di sottofondo (ci ricorda un pò i pezzi più festaioli di R. L. Burnside). Che siano ormai demodè come la Nation of Islam è sicuro. Con tutta probabilità Killer Mike e El-P hanno trasporato la formula dell’hip hop politicizzato che fa muovere il culo nella musica contemporanea meglio di loro. Tuttavia, c’è qualcosa per cui Flavor Flav e co. rappresentano un esempio importante ancora oggi: quel qualcosa che fa di quei vecchi negri bisbetici che odiano la televisione e lo star system dei veraci outsider con un senso d’identità nera che sarebbe bene non dimenticare troppo alla svelta. Don’t believe the hypebeast! (6.5/10) Gianluca Carletti

Redshape - Square (Running Back, Ottobre 2012) Genere: Techno È sempre lo stesso feticcio sottinteso dall’artista mascherato: come ancora recentemente visto in SBTRKT o John Talabot, l’idea è quella di scollegare la persona dalla musica, il progetto da chi lo fa. Un modo di approcciare la composizione musicale che Redshape sposa già dal 2006 (quando si faceva apprezzare con pezzi come Steam, Cashmere, Blood Into Dust usciti su Delsin e Styrax Leaves) e culminato poi nell’album di debutto The 75


Dance Paradox, un lavoro acclamato da più parti per quel profilo techno armonico, dotato di forte empatia e predisposizione al contatto mentale. Da allora il producer berlinese è famoso per i suoi live set incendiari e, appunto, per l’aria misteriosa che non lo abbandona mai, nemmeno ora che arriva un secondo album di consistenza abbastanza differente rispetto al primo. Interviste precedenti al rilascio di Square raccontavano un Redshape preso a riascoltare molta della musica che gli si era dileguata attorno negli ultimi tempi, raccogliendo dettagli che magari sul momento pensava smarriti o semplicemente accantonati. L’album raccoglie in pieno quest’idea: è un disco che non vuole innovare ma preferisce specchiarsi in quella techno originaria da cui parte. Non apre nuovi confini ma piuttosto dilata e sedimenta i punti fermi di un quadrato ben preciso, destrutturando, rimodulando e mascherando qualcosa di giá ben presente, seguendo una linea ben precisa fatta di sintesi sulle sue stesse passioni, proponendo schegge di suono studiate e introverse, chiudendosi a guscio dentro se stesso senza cercare per forza il punto di contatto di The Dance Paradox. Anche qui si segue un percorso armonico, per certi versi analogo all’ultimo, suggestivo Deepchord o al Gui Boratto di Chromophobia (anche se li il taglio estetico era più house), un viaggio a circuito chiuso e scale sintetiche, con alle spalle le lezioni paterne degli Orbital. Le tracce mostrano una loro varietà peculiare, c’è sia la techno di studio/approfondimento di It’s A Rain che quella più disinvolta di Atlantic, dove certe idee kraut fanno capolino in un gioco space a metà strada tra il Lindstrøm prima maniera e l’Actress più geometrico (è questo uno dei pochi punti di contatto con The Dance Paradox). Starsoup poi è un viaggio per club berlinesi, siano essi il Panorama Bar o i vecchi private party, quasi a dire “ecco, è così che si fa, è cosi che va fatto” e la stessa sensazione serpeggia in Paper, che puntuale torna a riprendersi quel retaggio industriale che la techno si è sempre portata dietro come un metallico cordone ombelicale. Eppure la techno non è l’unica componente del disco. Seguendo il filo, vengon fuori anche pezzi di musica bianca da stanza del silenzio (Landing, Enter The Volt) e un esempio di mobilità come Until We Burn, quasi una bonus track di Blue Lines dei Massive Attack. Square è un album che non vuole a tutti i costi far ballare ma che rimanda mentalmente a quel momento, sintetizzando tutta una serie di visioni proprie di una techno europea sempre fedele a sé stessa. Redshape semplicemente si ferma a riflettere, a far provviste al centro di un quadrato, assimilando onde di idee dai quattro angoli cardine della techno, caratterizzando e 76

contestualizzando la materia originaria ora con un approccio di studio e sintesi, ora con un abile camouflage. Da un lato rientra in quella sfera culturale/intellettuale da sempre presente in ambito techno, dall’altro si aggancia al trend della brain music più volte rintracciato quest’anno. Un gioco - sempre che di gioco vogliamo parlare - che gli riesce benissimo. (7/10) Mirko Carera

Rick Ross - God Forgives, I Don’t (Def Jam Recordings, Luglio 2012) Genere: hip hop Scrivere di un disco di Rick Ross è un po’ come per un food blogger recensire un BigMac. Impossibile tesserne le lodi, così come difficile è mantenere una completa serietà riguardo il sapore e la consistenza del suddetto panino senza scadere nell’ipocrisia o nella banalità. Insomma, due morsi a un BigMac in alcune occasioni li dai così, senza pensare. Così come non disdegni un paio di pezzi di Ross, se consumati nel contesto giusto. Per quanto riguarda la fruibilità di un intero disco, in questo caso il suo ultimo God Forgives, I Don’t, il discorso cambia radicalmente. Immaginate un gangster movie patinato anni Ottanta, scritto però dal peggior sceneggiatore di Hollywood e il cui protagonista reciti continuamente le stesse battute al limite del caricaturale, senza coinvolgimento emotivo alcuno. Ross impersona proprio questo personaggio stereotipato, l’epitomo del ‘drug dealer’ milionario e ‘self made’ che allo stesso tempo è anche, a suo dire, una leggenda del rap accanto a Tupac Shakur e Dr. Dre, pur essendo sulle scene da appena qualche anno. Niente di negativo in questo tipo di rappresentazione, d’altronde Jay-Z l’ha fatto con discreto successo con American Gangster (2008), se non fosse che la narrativa usata da Ross nei testi è del tutto monotona e priva di profondità, incapace quindi di relazionare chi lo ascolta o invogliare a farlo di nuovo. Sullo stesso stile pacchiano e ridondante sono messi insieme i beat, molti sovrapprodotti (Shameless, Pirates, Hold Me Back) o semplicemente già sentiti. Il nuovo disco segue il mixtape di inizio anno, Rich Forever, presentando una lunga sfiza di collaborazioni che sono poi l’implicita legittimazione del suo status di superstar. Sono proprio queste, alla fine, che salvano alcune delle tracce del lavoro: quella con Dr. Dre e Jay-Z nel pezzo old school 3 Kings, quella con Nas nell’apocalittica Triple Beam Dreams, oppure con André 3000 nella lunga Sixteen e anche Wale e Drake in Diced Pineapples. Un parco giochi dove scorrazzano un po’ tutti, insomma, la tipica cash-cow di cui la Def Jam ha sempre bisogno. Ma


al personaggio di Ross servirebbe molta più sostanza per reggersi in piedi con le proprie gambe. (4.3/10) Luca Falzetti

Ringo Deathstarr - Mauve (Club AC30, Ottobre 2012) Genere: My Bloody Valentine Shoegaze revival: negli ultimi anni ne abbiamo viste di tutti i colori, dallo shitgaze passando per tutte le sfumature dreamy per finire agli annunciati “se non vedo non credo” prossimi comeback dei mostri sacri Slowdive e My Bloody Valentine. E’ proprio quello dei My Bloody Valentine il nome che spesso viene - giustamente - citato quando si parla dei Ringo Deathstarr: i texani infatti non fanno nulla per nascondere la propria devozione per la band di Kevin Shields e Bilinda Butcher. Non l’hanno fatto nel debutto Colour Trip dello scorso anno e non lo fanno neanche in Mauve, sophomore pubblicato per la Club AC30. Un conto è partire da influenze nette e mostrare comunque grosse dosi di personalità, un conto è emulare. Buona parte dei tredici brani che compongono Mauve segue lo stilema MBV (soprattutto il periodo Isn’t Anything) e lo si capisce già dalle atmosfere della iniziale Rip marchiata del classico muro di distorsioni e feedback sotto il quale si snoda l’armoniosa linea melodica di Alex “Bilinda” Gehring. E’ però in brani come Fifteen che si rischia il plagio: stesso moto ondoso chitarristico, stessi giochi di specchi a due voci e persino l’impostazione della batteria sembra essere presa letteralmente in prestito. I My Bloody Valentine più noise-oriented rivivono anche in Burn, nel bel riff che si impone in Drain, nell’estasi immolante di Waste e nei Velvet Underground frullati di Do You Wanna?. Le variazioni vanno ricercate in una certa attitudine slacker-punkish tipicamente americana (Slack per l’appunto) e nei non riuscitissimi passaggi più pacati (Brightest Star in zona Slowdive e Drag). I revivalisti Ringo Deathstarr continuano a guardarsi le scarpe impolverate dal deserto texano. Scarpe che si rifanno al miglior modello presente sul mercato venti anni fa e che per quanto curate e di buona fattura, rimangono pur sempre una moderna imitazione. (6.3/10) Riccardo Zagaglia

Robert Hood - Motor: Nighttime World 3 (Music Man Records, Settembre 2012) Genere: Techno Robert Hood è il versante ortodosso dell’elettronica non accademica contemporanea. Lui e la sua Underground

Resistance sono l’esatto contrario del movimento/non movimento maximal/glo/wonky, perché Hood non cerca altrove i riferimenti della sua musica: non cita un passato mitico che non può più ritornare, non fa un’operazione di retrofilia come i ragazzi inglesi. Il suo è un riferimento continuo a Detroit e alla techno che ha contribuito a diffondere e a fondare. La sua è una continua crescita verso un futuro ancora tutto da pensare. Questa fedeltà a se stesso nel nuovo album si smarca leggermente dal peso motorico cui siamo abituati ad associare le produzioni dell’uomo. Sarà che è emigrato in Alabama - la terra dei suoi antenati - con la moglie un po’ di anni fa, sarà che Detroit sta lentamente decadendo, fatto sta che il nuovo album (terzo di una trilogia iniziata nel lontano 1995) suona un po’ più rilassato, quasi un intelligent techno music da ascoltare in salotto. Non che non si possa ballare, ma il feeling che si ha dopo aver ascoltato le 12 tracce è quello di una lunga e piacevole frenata rispetto ai tempi di Minimal Nation o di Rhythm (tanto per dirne due). Il disco, che è stato ispirato dal documentario di Julien Temple Requiem For Detroit?, anche se in cristallina slow motion non manca di mordente. Lasciando perdere l’iniziale ed estatica The Exodos, già in Motor City si comincia a far sul serio con bassi robotici ed echi plastificati, The Wheel riporta a galla le connessioni con il minimalismo vocale dei Kraftwerk, Drive (The Age Of Automation) è da smascellamento onirico, Hate Transmissions è puro stile drexciyano e Black Technician distillato 100% Hood. Il ritmo rallenta però su tracce ben prodotte ma meno convincenti dal punto di vista dell’anima e del trip autoindotto, vedi l’easytronica di Assembly o il jazzino di Slow Motion Katrina. Un disco che in definitiva conferma Hood come una voce fondamentale della techno, aliena da vizi esterni alla sua missione e concentrata su una critica continua e costruttiva di sé e del proprio operato. Come ha dichiarato in una recente intervista: “As long there is a seed there is hope”. Respect. (7.3/10) Marco Braggion

Rover - Rover (Wagram, Ottobre 2012) Genere: songwriter “I’m a singer in the dark”. Oggi l’amore più inquieto, più vibrante, quello che ci tiene in pugno, ha un nuovo nome e arriva dalla Francia, anche se si esprime nella lingua più passpartout che ci sia: Rover, moniker di Timothée Régnier, è stato definito una next big thing prima ancora che uscisse il suo primo, omonimo album (pubblicato in Francia a febbraio e distribuito ora anche in Italia). Im77


possibile confonderlo: statura imponente, un volto che ricorda Depardieu e Meat Loaf, un timbro espressivo, virile ma vulnerabile, un’aria da bohemien e un bagaglio d’esperienze di vita e di ascolti che si intrecciano dando vita a un racconto che si sviluppa in undici eclettici tasselli. Troppo semplice pensare che il nome sia solo un omaggio alle auto inglesi - “rover” sta per “viandante”, ed è di certo una definizione non troppo lontana dalla realtà. In trentatré anni Régnier ha viaggiato moltissimo: dalle Filippine a New York (dove ha studiato con alcuni componenti degli Strokes), dalla Francia al Libano che lo ha visto membro, con il fratello, di una band punk-rock. Le influenze sono le più disparate, tutte in bella mostra in quest’opera prima: figlio dei Beatles e di David Bowie (soprattutto quello della prima metà dei Seventies), il cantautore e polistrumentista fa propria anche la lezione di Jeff Buckley e di gruppi indie-rock inglesi e a stelle e strisce. La sua voce è ora calda, ora spigolosa, grave ma capace di librarsi nell’aria in un arioso, malinconico falsetto, come si può notare nell’opener Aqualast. L’elettronica che riveste episodi come Remember (si pensi agli Interpol di Antics uniti a un Richard Butler meno abrasivo del solito) e Tonight (cocktail d’amor nero tra i Placebo e i Lotus Eaters) è ben centellinata, mentre un piano dolente scandisce il passo di Wedding Bells (come se Patrick Wolf rileggesse Le Chat du café des artistes al posto di Charlotte Gainsbourg. Il battello ebbro di Rover prosegue il viaggio tra le maree; dopo il buio più nero ci sono sprazzi d’intima quiete (Lou) ma è solo un’illusione, perché si ripiomba subito dopo in atmosfere di matrice radioheadiana (Silver). Quando Regnier mescola meglio le carte la sua proposta ci guadagna in compattezza, senza per forza cadere nella banalità. È il caso di Carry On, una vera highlight: una strofa alla My Way si adagia su arpeggi di synth in stile Grandaddy appena sullo sfondo, fino a quando il robusto ritornello si fa spazio e s’innalza, lirico, alla ricerca di un orizzonte. Nonostante qualche passaggio un po’ forzato e la sensazione che certe pose da maudit siano troppo costruite, questo debutto ha più pregi che difetti. Se la ricchezza di stili facilita la scorrevolezza del tutto, dall’altra non sempre fa capire bene chi abbiamo di fronte (maschera glam e chanteur confidenziale anche nella stessa canzone). Uno, nessuno e centomila. Col tempo Rover riuscirà ad elaborare una proposta più personale emancipandosi da numi tutelari che, messi insieme, non sempre vanno d’accordo, ma per il momento possiamo accontentarci. (6.5/10) Alessandro Liccardo

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Schoolboy Q - Habits & Contradictions (Top Dawg, Gennaio 2012) Genere: hip hop Schoolboy Q, stage name di Quincey Matthew Hanley, è parte della crew Black Hippy, formata anche da Kendrick Lamar, Ab-Soul e Jay Rock. Crew che da qualche anno sta rivoluzionando il volto dell’hip hop a Los Angeles e, dopo la firma con la Interscope, probabilmente destinata a diventare la next big thing anche da questa parte dell’oceano. Kendrick Lamar è sicuramente stato, almeno finora, la figura di spicco del gruppo. Merito sopratutto del suo debut dello scorso anno, Section80, un disco hip hop dai due volti: uno oscuro e introspettivo, l’altro svaccato e vizioso, tutto supportato da un’angolatura personale del ‘qui e ora’ che finisce poi col divenire generazionale. Così è anche questo Habits & Contradictions, che segue a distanza di un anno il primo mixtape di Q, Setbacks, e che lancia il rapper tra le punte di diamante Black Hippy. Il volto impietrito di Quincey sulla cover, come quello di una vittima impotente e fuori controllo, la dice tutta. Nichilismo, vita di strada, erba, criminalità, ragazze e party. I soliti cliché, direte voi, ma in questo caso tutto è filtrato dagli occhi di Q, che con più che discreta abilità dipinge una sua visione della realtà paranoica, borderline, schizofrenica e oscura, vissuta tra le gang locali ma in disparte, sicuramente ben lontana dai finti clamori e glamour dell’hip hop moderno. Q è essenzialmente un MC nel senso classico del termine, forse meno ‘autoriale’ rispetto a Lamar, ma che possiede un flow più versatile che sa passare dall’euforia estatica (There He Go) alle più tetre delle riflessioni (Blessed, feat proprio con Lamar) e anche a pezzi totalmente anestetizzati (How We Feeling). Molta attenzione è stata posta in fase di produzione, la quale straborda di nomi che vanno da membri di Digi+Phonics a THC e Lex Luger; i beat sono infatti grande parte della riuscita di questo disco: mai banali, con bassi pieni che arrivano forti allo stomaco, stratificati al punto di riuscire a scoprire elementi nuovi col passare degli ascolti, ma soprattuto attenti a discostarsi dalla plasticità inconsistente di molte produzioni moderne. Anche quando Schoolboy si avventura in numeri azzardati e forse evitabili, come la rivisitazione/solo-dissing di Niggas In Paris di Jay-Z e Kanye West, Nightmare On Figg St., il beat incattivito ne salva perlomeno il risultato finale. La scelta dei sample poi parla chiaro: questo non è certamente un disco di nicchia destinato ad un pubblico esclusivamente black. Basti considerare le scelte di Portishead (Cowboys in Raymond 1969), Menomena (Wet And Rusting in There He Go) e addirittura Genesis (Firth Of Fifth in Gangsta In Designer) per capire che anzi, questo è un disco pensato


per arrivare ad un pubblico più ampio. Il pezzo che scotta di più sui piatti dei dj, e probabilmente anche uno dei singoli dell’anno, è sicuramente Hands On The Wheel, con A$AP Rocky. Il beat estatico è costruito sul sample di una versione della folk singer Lissie di Pursuit Of Happines, canzone originariamente prodotta da Kid Cudi nel 2010, altra grande promessa mai realizzata e che ha sofferto molto delle scelte sbagliate in ambito di produzione. ‘Life for me is just weed and brews’, ripete qui Quincey, mentre il cerchio si stringe stretto intorno alle aspettative del debut su major: reggerà la pressione? (7.5/10) Luca Falzetti

Stan Ridgway - Mr. Trouble EP (A440, Luglio 2012) Genere: Wave western Secondo EP di seguito per Ridgway dopo il precedente The Complete Epilogues, il quale raccoglieva qualche outtake dall’ultimo album Neon Mirage pubblicata in precedenza su una serie di EP digitali, cui aggiungeva qualche cover e due pezzi dal vivo. In entrambi i casi si tratta di EP solo come concetto, però, visto che la durata è da album - qui però raggiunta grazie a quattro canzoni live (due delle quali, misteriosamente sono le stesse di Complete Epilogues), tra ripescaggi volti a dimostrare che la sua carriera non limitava le perle ai Wall of Voodoo e ai primi fortunati dischi da solo (Stranded, Afghan Forklift) e la testimonianza del modo spettrale e sommesso in cui ora esegue live il capolavoro Camouflage. Se invece guardiamo ai brani nuovi, ci troviamo davanti a qualcosa di più di qualche canzone che valeva la pena pubblicare anche se non aveva trovato la via dell’album: pur non scostandosi dal suo stile tra Morricone e l’elettronica, swinga efficace nell’iniziale The Drowning Man col violino e il sax a dipingere una notte waitsiana, mette un sitar su una title track che evoca certi 2/4 del suo vecchio gruppo, sintetizza le due in una Gone Deep Underground tirata da un gruppo che suona con voglia contagiosa (chitarre che fanno dialogare tremolo e distorsione e l’organo che contrappunta), la stessa voglia che in All Too Much si scatena sul riff di Cantaloop (versione Us3) rimpolpandola di fiati entusiasti, chitarre pungenti e baldanza vocale. C’è anche spazio per il racconto lirico un viaggio Across The Border con appropriato stile tex mex e, prima dei brani live, di una cupa ninna nanna come We Never Close. Decisamente non solo per fans. (7/10) Giulio Pasquali

Stubborn Heart - Stubborn Heart (One Little Indian, Novembre 2012) Genere: soul+elettronica Dietro al moniker londinese Stubborn Heart si celano Luca Santucci - già presente in veste di vocalist negli ultimi dischi di Leila - e Ben Fitzgerald. Non sappiamo se sia voluto o meno ma Stubborn Heart era anche il titolo di brano ‘60s-soul dei The Sheppards, ed è proprio partendo dagli ultimi (e riusciti) tentativi di modernizzare il concetto di soul che sembra plasmarsi l’omonimo progetto, svelatopochi mesi fa tramite l’EP Need Someone uscito via Kaya Kaya Records. Le vocalità soulful colorano l’album di debutto (intitolato semplicemente Stubborn Heart) pubblicato per One Little Indian con tonalità contemporaneamente vicine sia alle oscurità noir-crooneristiche sia ad un certo sophisti-romantic revival. Se il duo iniziale Penetrate-Better Than This si muove in un’ottica non lontana da un SBTRKT rallentato e più suadente, lungo la tracklist Luca e Ben dimostrano di conoscere bene quasi tutte le vecchie e nuove tendenze in ambito elettronica made in england: loop sghembi e andamento quasi marziale intervallato da pause e battute minimal (Head On), atmosfere urbane e notturne del trip hop contrabbassato di Interpol (uno degli episodi più affascinanti), velluto puro (It’s Not That Easy), virate slow (Head On), profondità da London-club (Two Times a Maybe) e tanti ricordi garage/2 step che si tramutano poi in un post-dubstep ritmico che evita di eccedere nel dosaggio di bassi (Starting Block, Need Someone). Se è vero che il gioco è bello finchè dura poco, quello del soul+elettronica sta ormai iniziando ad arrivare pericolosamente in zona red alert, ma contemporaneamente è interessante notare come ogni progetto, pur andando a pescare un po’ di qua e un po’ di là, abbia le proprie peculiarità e tratti caratteristici. Per questo motivo le dieci ed eterogenee tracce che compongono l’esordio dei Stubborn Heart suonano più come una ulteriore variante di un movimento in pericolo saturazione che un tentativo di tentare la fortuna seguendo la moda del momento. Rispetto ai fratellastri, per ora, al duo sembra però mancare la capacità di scrivere i classici pezzi da novanta presenti ad esempio nei debutti di SBTRKT e Jamie Woon. (6.8/10) Riccardo Zagaglia

Tamaryn - Tender New Signs (Mexican Summer, Ottobre 2012) Genere: dreamgaze Farà contenti gli insaziabili di revival dreamgaze il ritor79


no dei Tamaryn, disco che riprende esattamente dove l’esordio The Waves (2010) aveva lasciato ed imbastisce una nuova tavolata in celebrazione eterna dei ricorrenti My Bloody Valentine e Mazzy Star. Nove le portate con titoli descrittivi secondo tradizione e, al solito, sapori di atmosfere dilatate, qualità espansive, coesione che punta regolarmente all’inglobare i sensi in limbo sospeso e riverberato. E va detto, Tender New Signs è comunque un bel sentire. I Tamaryn d’altronde ancora galleggiano sul tanto anonimato grazie a più d’un barlume di melodia ed al rinnovato l’approccio in produzione, self/lo-fi sulla carta, eppure preciso, cristallino nella resa dei singoli dettagli. La scena attuale non è però la stessa in cui si inserì il debut: l’affollamento di proposta è, nel frattempo, divenuto costipazione; in ballo troviamo esordienti come Echo Lake ed i nostrani Brothers In Law che, con grande confidenza nei propri mezzi, cambiano le regole dei giochi puntando, a loro modo, su declinazioni straight-forward pop e quindi sulle canzoni. Ai Tamaryn queste - salvo le rare eccezioni I’m Gone e Heavenly Bodies - mancano, ed uno sforzo minimo in consolidazione widescreen non è loro sufficiente a tenere il passo dei sopracitati, specie sul piano dell’interesse sulla lunga distanza. Di nuovo, in ottica conservatrice dei prodotti locali, ben più gustose le promesse mantenute dai Be Forest con il solo singolo Hanged Man. (6.2/10) Massimo Rancati

Tender Trap - Ten Songs About Girls (Fortuna Pop!, Ottobre 2012) Genere: indie Indie girl pop inglese moderatamente nostalgico, a tratti energico. Come a dire Belle & Sebastian meet The Knack (rispettivamente Memorabilia e Train From King’s Cross Station). E poi spensieratezza, qualche lustrino, chitarrine soft-punk’n’roll, colori un po’ sbiaditi tra sixties e nineties, coretti e voci multiple tra Shangri-Las e Dum Dum Girls (Step One), melodie, cembali e un bel po’ di mestiere. Già perché la titolare del progetto in questione, Amelia Fletcher - 46 anni e non sentirne che la metà (e qui potremmo spendere fiumi di caratteri sul tema “ogni cosa a suo tempo?”, ma non lo faremo) - è una veterana della melodia al femminile, avendo militato in più di una band: veri e propri spin-off, molto (troppo?) simili tra loro, dagli Heavenly ai Talulah Gosh, dai Marina Research ai Betty And The Werewolves, fino agli odierni Tender Trap, appunto. Stringendo, Ten Songs About Girls parla proprio di questo: 80

di ragazze, per di più da un punto di vista femminile. Anagraficamente si tratta del quarto album in dieci anni, con poche novità rispetto ai capitoli precedenti, andando ad abbandonare definitivamente lo spleen del primissimo periodo per assestarsi su territori sicuri, sorta di abbecedario del twee pop più scanzonato, filtrato dalle epoche e perciò (meta)citazionista, per spiriti malinconici e/o neofiti del genere. Nulla di nuovo sotto il sole, ma almeno è un sole primaverile, rosato, che scalda il giusto e mette di buon umore. (6.6/10) Antonio Laudazi

The Gaslamp Killer - Breakthrough (Brainfeeder, Settembre 2012) Genere: beats/world Dopo una carriera underground tra mix (ricordiamo lo splendido A decade of Flying Lotus) ed EP (l’ultimo, Death Gate, nel 2010), William Bensussen arriva al grande passo e non può che essere su Brainfeeder. Come abbiamo sottolineato all’epoca, è stato lui il vero artefice - al di là delle splendide vetrine lotusiane, Testament prima, Ancestors poi - del successo di Gonjasufi, e allora è naturale che la formula sia quella lì, il trademark gaslampiano: schegge ruvide di world music psichedelica - una space e spiced world music - che passano per la tecnologia sampledelica e zoppicante dell’hip hop post-J Dilla. Ruvide, e qui ancora più ruvide. Il disco si apre con la manipolazione della voce stoned e filtrata dal telefono di Eric Clapton, da Are You Hung?, primo frammento di We Are Only In It For The Money, il disco sessantottino di Zappa acida parodia degli hippie e dei Beatles del Sgt. Pepper. E si continua a battere i Sessanta psichedelici, se Veins, con Gonjasufi al latrato come sa lui, sembra riproporre in qualche modo gli archi di Eleanor Rigby, ma ancora più austeri e massicci. Gaslamp padroneggia gli ingredienti e alterna atmosfere esotiche e terzomondiste come tra palafitte suadenti e oppiacee (la bellissima Apparitions, sempre con Gonja; la metallica e sinistra Critic, con Mophono; il bel quadretto ethnofolk Nissim, con Amir Yaghmai al tamburo yiali e alla chitarra), omaggi colonna sonora (il western col fischio morriconiano tagliato scansioni industrial di Holy Mt Washington, con la drum machine di Computer Jay), personali take fusion (Dead Vets, con il mitico Adrian Younge di Black Dynamite e Michael Raymond Russell del duo MRR-ADM, scuro e pastoso funk progressivo; Meat Guilt, con una batteria legnosa come nei dischi jazzrock anni Settanta in primissimo piano nel mixaggio) e numeri in cui si fa più forte l’accento su ritmi ed elettronica: Flange, con il Miguel Atwood-Ferguson produttore


e arrangiatore già al lavoro con gli archi per Flying Lotus, uno dei numeri più tosti ed efficaci, vicino per certi versi agli assalti di Terror Danjah; l’orgia di pulsazioni e bolle monome a riempire i vuoti della batteria pestata di Impulse, ospite ovviamente Daedelus; Peasants, Cripples & Peasants, con Samiyam, guidata da un’unta e grumosa linea di synth a cui restare abbarbicati; il cervellotico saliscendi di elettronica progressiva di 7 Years of Bad Luck for Fun, con Dimlite. Gaslamp confeziona un esordio-manifesto che è anche un crew album (visti quanti feat?), ma soprattutto un disco potente, compatto, conciso, senza fronzoli, la cui riuscita si spiega adocchiando il consiglio Keep It Simple Stupid, tutto un gioco di bacchette sul charleston e sopra sitar e synth, per una lenta epica marcia iniziatica. Se c’è spazio a metà programma per un siparietto che riprende un qualche video didattico anni Cinquanta in cui si spiega l’uso della parola Fuck e lo sovrappone a stralci della Primavera di Vivaldi, si chiude seri se non proprio seriosi, acconciamente In the Dark: pestamento batteristico alla post-HC o alla Sabot, con finale da ghost track tipo una ninnananna Berlin in mezzo alle macerie mediorientali. (7.4/10)

pop rock che non uscirà mai dal circuito locale”, ma i The New Electric Sound hanno i pezzi giusti per poter raggiungere una certa fama. La coppia iniziale farebbe invidia a molte indie band già affermate (gli indegni Kooks ad esempio): What If I Disappear con il suo chorus che sembra creato apposta per qualche rock club e le atfmosfere surfy-californiane di Suitcase non lasciano indifferenti. Funzionano bene anche il singolo Heart Beat - a metà strada tra il drumming di Tighten Up dei Black Keys e sentori Arctic Monkeys - e la cavalcata heartland Crimson Sky. La formula - già di suo comunque fin troppo generica - non prevede molte variazioni sul tema se non qualche atmosfera da modern Beach Boys (California Coast) e alcune post-romanticherie sulla scia dei dimenticabili The Crookes. Privi di spunti realmente interessanti, i The New Electric Sound potrebbero trovare prima l’appoggio delle radio e poi un buon successo sfruttando la sempre più evidente coda indie goes to mainstream. Poco male se tutto ciò non accadrà: ci sarà sempre qualcuno in grado di apprezzare canzoni spensierate e senza pretese. (6/10) Riccardo Zagaglia

Gabriele Marino

The New Electric Sound - The New Electric Sound (, Ottobre 2012) Genere: indie pop rock

The Orb/Lee “Scratch” Perry - The Orbserver in the Star House (Cooking Vinyl UK, Settembre 2012) Genere: Ambient house

Il bello - e contemporaneamente il brutto - di Spotify è che è possibile trovare veramente di tutto. Come fare a stare dietro alle decine di uscite settimanali? Praticamente impossibile. Fortunatamente esistono playlist perennemente aggiornate in cui vengono caricati di volta in volta tutti i nuovi dischi.Tutto ciò ovviamente è utilissimo anche per scoprire musica nuova: non conosci il nome? Beh, clicchi play e ascolti... più facile di così. Ovvio che, in situazioni come questa, per riuscire a fare presa sull’ascoltatore o hai dei suoni, delle atmosfere o intuizioni fuori dal comune o è meglio puntare tutto sull’immediatezza. Lo sanno bene i The New Electric Sound, scoperti per caso proprio grazie a Spotify e capace di risultare orecchiabili fin dal primo ascolto. Su di loro si hanno ancora poche informazioni: qualche foto da ragazzi per bene e una strampalata bio sul sito ufficiale: provengono dallo Utah, si sono formati lo scorso anno e dicono di ispirarsi a The Surfaris, Dick Dale e Buddy Holly. Con appena 1400 fan su Facebook e l’omonimo album di debutto appena pubblicato senza l’appoggio di nessuno, verrebbe quasi da bollarli come “una qualsiasi band

“Volevamo fare un album minimale, moderno, soul con alcune influenze reggae e metterci sopra le vocal di Perry”: così Alex Paterson spiega la nascita di un secondo lavoro collaborativo, per la serie Mission It’s possible, questa volta tra gli Orb e uno dei padri - se non il Padre - del dub Lee ‘Scratch’ Perry. Dopo il Metallic Spheres con David Gilmour, The Orbserver In The Star House - registrato a Berlino - vede il duo spostarsi dalla psych/ambient di quel lavoro verso il lato più housey dell’Orb pensiero - quello che ritroviamo nell’esordio doppio The Orb’s Adventures Beyond The Ultraworld - ma decisamente declinato reggae-dub e con ricami di claps e sample a tirare in ballo rispettivamente hip house e tutta una vintalogy di produzioni giamaicane. L’album pare suonato sotto formalina, tanto è ovattato e dubbato, eppure sotto la coltre fumogena troviamo anche una certa freschezza: qualcosa del pop che rese celebri brani come A Huge Ever Growing Pulsating Brain e Little Fluffy Clouds (il singolo - re-edit ? - Golden Clouds), la dub-house (Ball Of Fire, Hold Me Upsetter, Go Down Evil), una pimpante funk-house (Thirsty), ma anche 81


un reggae-dub bello e buono (Police & Thieves). Il tutto accompagnato da spazzolate black, trick orbiani, e il sourrounding toasting di Perry, il cui canto millenarista e gentilmente senile dà all’intera operazione un senso e una direzione. Perry e The Orb - ovvero, in quest’occasione, Alex Paterson e il fido Thomas Fehlmann - hanno realizzato anche un podcast per Fact (il mix 341) e, a quanto pare, porteranno l’album in un tour. Segno che l’avventura li ha divertiti almeno quanto ha divertito noi. (7/10) Edoardo Bridda

The Script - #3 (Sony, Ottobre 2012) Genere: soft(pop|rap|RnB) Spesso è facile accanirsi contro le pop star che sculettano mosse dal burattino di turno, ma in fin dei conti le Katy Perry del caso non si prendono sul serio e chiunque abbia un minimo di buon gusto dovrebbe sapere che vanno prese per quello che sono, cioè intrattenimento spicciolo. Non sono peggio quindi quegli artisti che avrebbero anche le capacità di muoversi autonomamente e realizzare qualcosa di buono, ma che si piegano senza vergogna - già dall’esordio o anno dopo anno - al dio denaro (ogni riferimento a The 2nd Law dei Muse è puramente casuale)? E’ in questi casi che si presentano le situazioni più avvilenti, ovvero quando si cerca di far passare per “serio” (magari solo perchè vagamente tendente al rock) quello che in realtà non è: difficilmente dimenticherò un vecchio numero di RockStar in cui i Rasmus venivano etichettati come i nuovi Sex Pistols, i The Calling come i nuovi Pearl Jam e il proto-Jersey Shore Jive Jones come la nuova versione dei RHCP. Se l’omonimo di debutto dei The Script fosse uscito sette o otto anni prima, in quella lista avremmo trovato anche loro con l’appellativo di nuovi The Police per via del timbro del cantante Danny O’Donoghue o nuovi U2 per motivi non solo geografici. Dopo il buon successo internazionale dei due predecessori The Script e Science & Faith, la band di Danny O’Donoghue - che ha trovato anche il modo di diventare giudice nel talent show The Voice - torna con il terzo album in studio intitolato #3. Come per altre band (Maroon 5, ma qualcuno potrebbe dire anche Coldplay), anche per i The Script è arrivato il momento di giocare a carte scoperte: la maschera da band finta-credibile non regge più, meglio allora liberarsi del peso e mostrarsi al mondo per quel che si è realmente (cioè il nulla). Arriva così il singolo n.1 in UK Hall Of Fame (in duetto con il The Voice-collega Will.I.Am dei Black Eyed Peas) 82

che incredibilmente non è neanche la traccia peggiore di un disco che in ogni momento sembra guardarti implorando “cestinami al più presto”. Rispetto ai due dischi precedenti cresce la presenza della componente rap generando così un crossover rap-pop-rock (Broken Arrow, If You Could See Me Now, Good Ol’ Days) da mano sul cuore che in confronto i Linkin Park sembrano i Silencer: chiaro, gli Script guardano al mercato americano (dove fortunatamente i vari OneRepublic e The Fray sembrano scomparsi) e lo dimostrano con il soft-r&b di pezzi come No Words e Give The Love Around. Peggio ancora quando si segue l’orribile tendenza post-Coldplay di piazzare la cassa dritta sotto le chitarre alla U2 come nella debole Kaleidoscope. (4/10) Riccardo Zagaglia

The Soft Moon - Zeros (Captured Tracks, Novembre 2012) Genere: dark-synth-wave Luis Vasquez (The Soft Moon) a metà strada tra regista e malvagio protagonista di film horror, con l’album di debutto ci ha rinchiusi dentro ad un buio e claustrofobico loculo assicurandosi di aver gettato la chiave prima di andarsene. Sbattiamo impotenti contro il muro a ritmo degli inarrestabili beat wave-punk cercando inutilmente una via di fuga. Ci addormentiamo dalla stanchezza ma la nostra mente non può fare altro che tornare sull’accaduto (l’EP Total Decay dello scorso anno).Ci risvegliamo sperando che tutto sia stato solo un brutto sogno, ma neanche il tempo di renderci conto della nostra situazione che parte inesorabile It Ends, primo passaggio del sophomore Zeros. Niente da fare, siamo ancora lì. L’eco della drum machine ci illude sull’effettiva dimensione della nicchia e non contento il perfido Vasquez ci fa spara nei timpani il nostro stesso respiro, sempre più affannato. Torniamo a tirare pugni contro le pareti (Machines tra dark-noise e martellante industrial) ma ci accorgiamo che forse l’unica possibilità è quella di scavare sotto di noi. La soluzione forse è quella giusta, vediamo qualche spiraglio di luce nelle guitar+bass di scuola Cure della titletrack dove l’unica presenza vocale è rappresentata da dei liberatori ma ancora sofferenti “ahhhhh”, la discesa si fa rapida e all’improvviso ci troviamo immersi nell’acqua (Insides) ma non abbiamo le forze per nuotare, ci facciamo quindi cullare e trascinare fino allo sbocco di quella che probabilmente è una fogna. Siamo fuori, ci ripuliamo velocemente... uno sguardo attorno, sembra la metropoli di qualche film anni ‘80 (Remember The Future), ci incamminiamo a ritmo ma presto si fa notte e saliamo


su di un taxi post-Drive (Crush). Diamo uno sguardo allo specchietto e notiamo che alla guida del taxi c’è proprio lui, Luis Vasquez, che se la ghigna e sembra dirci “die die die...” (Die Life). A questo punto la vita inizia a scorrerci davanti agli occhi, ripensiamo ai tempi andati (Lost Years) e iniziamo una sorta di rituale-preghiera (Want) sperando che possa servire a rimanere vivi... è un crescendo, i giri salgono sempre di più. Stop. Silenzio. Il nostro cuore, il nostro respiro, ƨbnƎ ƚI. Titoli di coda.Trama immaginaria di un film forse leggermente prevedibile, ma incredibilmente riuscito nella sua opprimente tensione. (7.2/10) Riccardo Zagaglia

The Soft Pack - Strapped (Mexican Summer, Settembre 2012) Genere: indie rock The Soft Pack sono quattro ragazzi di San Diego, attivi dalla fine dello scorso decennio e arrivati con questo Strapped al loro secondo LP, dopo un paio di EP e il debut omonimo datato 2010. The Soft Pack si aggiungeva alla folta lista di dischi di guitar band adrenaliniche che impazzavano (impazzano ancora?) nelle playlist e nei dj set votati al megareimpasto garage dei ‘60s, il punk dei ‘70s, passando dal college rock anni ‘80 e soprattutto dal lo-fi tipico dei ‘90. Il pacchetto completo, insomma. Coordinate semplici e molto spesso abusate, ma che risultano essere efficaci e persistenti col passare delle generazioni. Meno rumorosi dei Wavves, più immediati dei Surfer Blood ma forse non brillanti quanto i Crocodiles e freschi come i Beach Fossils. Ecco, basterebbe sapere questo per raccogliere i singoli buoni per il dj set e chiudere il capitolo in materia, se non fosse che questo secondo disco arriva giusto in tempo per ricordarci che in questi due anni i ragazzi son cresciuti e che sì, anche il loro suono è maturato, aggiungendo qualche novità alla formula seppur rimanendo fedele al blueprint dell’esordio. Il singolo apripista Bobby Brown serve proprio questo scopo, mostrare cioè le rinnovate ambizioni del gruppo nell’uso di strutture pop più complesse, accompagnate da un certo gusto patinato per le melodie che vanno a contrastare i loro pezzi più veloci ed immediati. Parlando di strutture, è difficile non pensare a qualcosa di già sentito o di familiare in molti episodi del disco, con suoni che evocano il passato più o meno recente dell’indie chitarristico britannico. Head On Ice, ad esempio, sembra uscita direttamente da uno degli ultimi dischi dei Jesus & Mary Chain, non esattamente un riferimento

dei più originali. D’altro canto, sparsi per il disco, ci sono spunti melodici interessanti e anche spazio per il pezzo trascinante che non ti aspetti: Oxford Ave, strumentale di appena due minuti, ma che sembra aprire spiragli compositivi interessanti, attraverso l’uso di fiati e di una sezione ritmica in maggior risalto. A non convincere molto sono, a vedere bene, i testi e il cantato: i primi mancano decisamente di profondità mentre ai vocals di Matt Lamkin gioverebbe un po’ di cattiveria in più. A conti fatti, il ‘difficile secondo disco’ non è poi così difficile se ti attieni alle regole: mantieni la stessa formula del primo, aggiungendo qualche variazione sul tema. Basterebbe questo, se i Soft Pack avessero nel DNA un sound particolare che spinga l’ascoltatore a tornare più e più volte, cosa che invece qui non accade come dovrebbe. (5.3/10) Luca Falzetti

The Souljazz Orchestra - Solidarity (Strut Records, Ottobre 2012) Genere: Afrobeat latino Non che i titoli scorsi lasciassero dubbi sulla presenza di una forte spinta ideale nel gruppo né sulla natura di quegli ideali (Freedom No Go Die, o un Manifesto sicuramente più Marx che Roxy Music), ma Solidarity, certo, li fuga da subito: per il titolo, ma ancor più per la copertina da gruppo africano anni ‘70, di quelli per i quali musica e lotta per la libertà erano la stessa cosa, ai tempi in cui non doveva essere free solo il jazz ma anche un’America Latina in pieno subbuglio. Per i canadesi, però, jazz, Africa e Caraibi sono riferimenti soprattutto musicali, come ormai sappiamo. Riferimenti che qui troviamo più che mai fusi insieme nel calderone di un suono sporco e vintage, animato da un’incalzante frenesia ritmica nella quale ribollono fiati e organo hammond. Stilisticamente più omogenea rispetto al passato, la band limita le divagazioni al reggae di Jericho e al ragamuffin di Kingpin, mentre le morbidezze presenti qua e là nei dischi precedenti qui si ritrovano solo nella Spagna accorata della conclusiva Nijaay. Per il resto, l’afrobeat accentua l’elemento funk in Kelen Ati Leen e in Conquering Lion, ferve afrocubano in Serve & Protect e nella Ya Basta che usa lo slogan zapatista come response al call di tutto quello che individuano come male del mondo - il Terzo, soprattutto, la cui anima pervade da tempo stile e cuore di Chrétien e soci (non i primi bianchi cui accade, vedi Antibalas), qui più coerentemente che mai. (7.2/10) Giulio Pasquali

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Thee Oh Sees - Putrifiers II (In The Red Records, Ottobre 2012) Genere: garage 60s Ormai potremmo anche non recensirli più i dischi degli Oh Sees. Potremmo limitarci a darne una segnalazione volante in sede news e bona lì: coscienza a posto e spazio per altre recensioni. Ma così facendo non faremmo torto solo a John Dwyer o agli eventuali suoi fan. Faremmo torto alla musica in generale, perché, nonostante o proprio grazie alla sua elefantiasi produttiva, i californiani stanno diventando un pilastro per tutto quello che sarà il garage sixties da qui in avanti. Che tradotto significa, provate voi a mantenere un simile standard qualitativo producendo dischi lunghi in pratica ogni mese o poco più. Putrifiers II non aggiunge nulla al già noto, ma il bello è che non sbaglia nemmeno nulla. Tutto è perfettamente in equilibrio e al proprio posto, senza però risultare l’ennesima copia di una copia. Il principio dell’imitatio tocca la congrega di San Francisco solo marginalmente: fornisce loro gli strumenti di base - jingle-jangle vocale, perentorietà delle ritmiche, chitarre distorte ma orecchiabili, amore indiscusso per certi intarsi melodici - ma lascia pure ampio spettro alla sperimentazione e alla fusione in chiave personale. In formazione classica, del gruppo ormai fanno parte in pianta stabile Mikal Cronin e Chris Woodhouse, i Thee Oh Sees sciorinano perlette di un certo livello tra sixties pop tutto coretti e lustrini (Flood’s New Light), spensieratezza californiana (Hang A Picture), folk-pop cristallino con intrecci vocali (quasi)prog canterburyano (Wicked Park), olezzi west-coast a go-go (vai a dire a Dwyer chi erano i Greatful Dead) e garage-rock storto (Wax Face) o sciolto nell’acido (Lupine Dominus), senza dimenticare i momenti più lisergici e stranianti (So Nice, Cloud #1, la title track). Dimostrando ancora una volta che la pasta di cui sono fatti è di quella buona. Gusto per le copertine escluso. (7/10) Stefano Pifferi

Tim Burgess - Oh No I Love You (O Genesis, Ottobre 2012) Genere: folk, songwriter Non sta fermo un attimo, Tim Burgess. Dopo la prima avventura solista del 2003 è andata avanti la carriera dei suoi Charlatans - l’ultimo album Who We Touch risale a due anni fa, ma nel frattempo sono arrivate le ristampe deluxe di Us And Us Only e Telling Stories (che è anche il titolo della sua autobiografia) - e lo si è visto impegnato nel supergruppo Chavs con colleghi di provenienza Primal Scream, Libertines, Klaxons e Razorlight. Ora torna 84

con un bizzarro caschetto biondo, ma soprattutto con il nuovo Oh No I Love You, anticipato ad aprile dal malinconico singolo A Case For Vinyl (rilasciato in tempo per lo scorso Record Store Day) e interamente composto con un partner-in-crime d’eccezione, Kurt Wagner dei Lambchop. Si incontrarono a Manchester, tanti anni fa. Tim, dopo avergli riconsegnato la chitarra, chiese a Kurt se avrebbero mai scritto un brano insieme: oggi quel brano è diventato un album, inciso a Nashville in meno di tre giorni con la produzione di Mark Nevers (già all’opera con Lambchop e Clientele); uno strano intreccio, quello tra le melodie di Burgess e le parole di Wagner, che funziona perché evita il pastiche country-folk da cartolina, buono come sottofondo in un giorno di pioggia. Tim e Kurt dialogano, cercano di comprendersi, e il primo interpreta la poetica del secondo con convinzione e non senza trasporto emotivo. L’Americana di cui il lavoro è intriso si mescola con venature classic soul (nell’irresistibile White), archi che svolazzano leggeri (The Hours, ipotetico nuovo incontro felice tra Paul McCartney ed Elvis Costello), cori gospel (A Gain), slide guitar a-là-Mark Knopfler (The Graduate), belleandsebastianismi a mo’ di zucchero a velo, chitarre effettate che s’insinuano nella scena sonora, sgombra da orpelli, quando meno te l’aspetti (c’è qualche reminiscenza Cocteau Twins sul letto morbido su cui si adagia il falsetto di Burgess in The Economy) e un po’ di Bob Dylan, quel tanto che basta. In The Doors Of Then Art Garfunkel va a braccetto i Cherry Ghost con insospettata naturalezza. Nell’ironia dolceamara che permea il monologo dell’amante bastonato dopo una storia ormai bell’e finita, ogni ingrediente è dosato con parsimonia: Nevers, grazie a scelte oculate, fa fare bella figura anche a canzoni impalpabili, forse troppo slegate l’una all’altra, senza una vera meta e trascinate troppo per le lunghe. Pur riuscito solo in parte, Oh No I Love You si rivela, dopo ascolti pazienti, un disco intimo, bucolico, dal fascino discreto, distante da certe interlocutorie prove soliste di un altro protagonista degli anni Novanta “a forma di Union Jack” come Brett Anderson. Il merito è dei musicisti coinvolti (tra cui Carl Broemel dei My Morning Jacket e Chris Scruggs) e anche di Kurt Wagner, che dimostra ancora una volta di avere talento e buon gusto (e la stessa generosità che ebbe con i Morcheeba ai tempi di Charango). Il maestro della Madchester che oltre vent’anni fa infiammò il Regno Unito si mette in discussione da umile discepolo. E di questi tempi non è mica poco. (6.2/10) Alessandro Liccardo


Tim Hecker/Daniel Lopatin - Instrumental Tourist (Software, Novembre 2012) Genere: Noise, ambient Dopo essersi conquistato un posto di rilievo nelle cronache musicali di questi anni, Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) passa in qualche modo alla fase due della sua carriera. Insieme a C. Spencer Yeah (Burning Star Core) si fa curatore di una serie di lavori tra free-jazz e musica elettronica, intitolata SSTUDIOS, sulla nuova label messa in piedi da Lopatin stesso, la Mexican Summer, di cui il qui presente Instrumental Tourist, altro non è che il primo capitolo. Un tipo di collaborazione a cui non è nuovo se ci si ricorda anche di Channel Pressure, lavoro a quattro mani con Joel Ford e dello split con Rene Hell di qualche mese fa. Stavolta però, c’è più interesse del solito, visto che a collaborare alla stesura dei brani è stato chiamato Tim Hecker reduce dalle vette di Ravedeath, 1972 e nome di assoluto prestigio nel settore dell’ambient più lirica e creativa. Va subito chiarito, che come nella maggior parte delle collaborazioni di questo tipo, la somma delle parti non è superiore ai singoli elementi. L’iniziale Uptown Psychedelia chiarisce quanto l’intervento del canadese sia preponderante nella struttura del disco. Le maggioranza delle soluzioni sonore sono sue. Il droning effettato e rumoroso che trascende nel riverbero liturgico di Scene From A French Zoo è lo stesso di Radio Amor, Ultraviolet e Ravedeath. La mano di Lopatin si avverte più sulla cornice, che sulla tela. Tutto il lavoro di distruzione e ricostruzione di Intrusions, e il remastering di Whole Earth Tascam che replicano le trovate di Replica, per l’appunto. Gli spunti più interessanti del disco però arrivano tutti da Hecker: il fatalismo triste di Racist Drone, la trascendenza di Grey Geisha, il lirismo solenne di Vaccination No. 2. Lopatin c’è e il suo trademark si sente, ma la sua sta rapidamente diventando una maniera la cui trovate non hanno più molto ossigeno, proprio mentre viene superato a destra e sinistra dagli epigoni della prima ora, ovvero i vari Motion Sickness, Ricardo Donoso, Le Révélateur, Rene Hell, Ghostrider tutta gente che dopo aver ascoltato Russian Mind e Zones Without People, ha evidentemente visto la luce. (6.5/10) Antonello Comunale

Topsy The Great - Steffald (From Scratch, Ottobre 2012) Genere: math noise E’ un disco dalla forte identità l’esordio dei Topsy the great. Interamente strumentale, Steffald - coproduzio-

ne Fromscratch e Santa valvola - attacca e finisce con un susseguirsi di trame math noise e schizofrenie heavy, stipate in un flusso assolutamente omogeneo che non lascia un attimo di tregua. Volessimo cercare una stella polare i Don Caballero sono certo della partita, ma sia chiaro che Steffald non cede alla devozione e al convenzionale. La rielaborazione eseguita dal trio pratese è sì studiata e meticolosa, ma non rinuncia a un retrogusto free, caldo, merito anche di una registrazione con grana quasi live. Il risultato sono una mezz’ora abbondante di accelerate, dilatazioni improvvise, aggressività, vuoti noise, un succedersi di tanti piccoli nuclei compositivi che non perdono mai il filo del discorso. Non si segnala un episodio in particolare perché è la massa che conta, quindi tracannatevela tutta. (7/10) Stefano Gaz

Tori Amos - Gold Dust (Mercury, Ottobre 2012) Genere: pop La Tori Amos del 2012 decide di affidarsi a se stessa, ovvero di posizionarsi tra le confortevoli coordinate del proprio repertorio rileggendolo in chiave orchestrale. L’iniziativa si deve alla gratificante esperienza live con la Metropole Orchestra datata 2010, la qual cosa fa cadere fin da subito il sospetto che si tratti di un’operazione in scia a quelle analoghe ad esempio di Antony e Peter Gabriel. Sia come sia, anche in questo caso - come già per l’ex-Genesis e per l’efebico statunitense - il risultato è lusinghiero. In mano ad artisti dotati di meno talento una scelta del genere potrebbe somigliare ad una digressione retrogada e anche piuttosto comoda. Oltre che una confessione d’imbolsimento senile. E un po’ giocoforza lo è. Tuttavia in virtù della statura di Tori l’effetto ottenuto e d’un tuffo di testa nella dimensione del classico senza con ciò fare sconti alle inquietudini del presente. Vedi come in Yes, Anastasia sembrino fronteggiarsi il lirismo volatile Laura Nyro ed i tremori prewar PJ Harvey, oppure come Silent All These Years faccia pensare ad una Fryda Hyvonen rabbonita Eels (quelli “with strings”, ovviamente), per non dire di quelle Precious Things e Flying Dutchman che spremono imprendibili (stra)visioni Kate Bush. E via discorrendo, per un totale di quattordici tracce che di certo solleticheranno timpani e cuore dei fan della prima ora, e che nel carosello di avanguardie e retromanie contemporanee non dovrebbero fare fatica a ritagliarsi un senso. (6.9/10) Stefano Solventi

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Totally Enormous Extinct Dinosaurs Trouble (Polydor, Giugno 2012) Genere: Dance pop Dietro al wertmülleriano moniker Totally Enormous Extinct Dinosaurs si nasconde Orlando Higginbottom, un ragazzetto pieno di spirito cresciuto alla radio tra una trasmissione di Annie Mac e la Rinse FM, avvistato prima come remixer di alcuni mainstream acts (Lady Gaga, Katy Perry) e poi come produttore al progetto Kinshasa One Two insieme a Damon Albarn e DRC Music. Da lì al lancio di produzioni personali il passo è stato breve, l’album di debutto Trouble arriva quest’estate e si presenta come un esordio fatto di tante luci e qualche ombra, eppure con qualcosa di quanto meno inaspettato. La formula di Trouble in fondo è molto semplice: da una parte, si tirano in ballo una serie di suoni UK giovani e frizzanti come funky e garage (con l’intenzione, secondo le sue dichiarazioni, di liberarsi dai trend scontati che appartengono a una certa dance), dall’altra ci si inserisce con un cantato dreamy leggero e mai sforzato, tanto catchy da fare invidia agli Stargate. Per certi versi il percorso è simile all’idea di fare musica degli Artful Dodgers, partire da contenuti dance anche ricercati (perché il ragazzo ha tecnica e talento, e si sente) ammorbidendone però i contenuti, verso una forma finale dai tratti popolari (sette singoli estratti sono un messaggio chiaro) che strizza l’occhio a un pubblico in gonnella abbigliato American Apparel e scarpe Vans Era. I 14 pezzi dell’album gravitano dentro a quella dance che rimbalza dai club alla radio, sempre piena di richiami verso altre produzioni e reinterpretazioni dal gusto personale. Ecco allora la titletrack che omaggia gli ultimi sentiti su Rinse FM, Shimmer che va a braccetto con SBTRKT (di cui peraltro TEED apre i concerti), la indie disco + Londonbeat nel singolone Your Love, una Household Goods che mischia Surkin prima maniera e anche certi Bloody Beetroots, il gusto acid di Solo che piace tanto a Maya Jane Coles e rimanda ai pattern minimal di Lucio Aquilina e Richie Hawtin, ma anche una Panpipes fatta da drum machines drogate, suoni deep e bassline killer. Eppure l’album sa catturare con momenti di facile assorbimento come la semplicità dreamy di Fair, il classico burialize effect della future garage (Closer è un perfetto esempio di cosa fermenta oggi nella giovane scena dance britannica) o Tapes & Money, il pezzo più catchy dell’album e quello più citato nei dj-set giovani di quest’estate, passo electro scattante, parte cantata in stile Twin Shadow e citazione colta dei KC & The Sunshine Band di Get Down Tonight. Parliamo fondamentalmente di pop radiofonico, pensato per le radio UK (che infatti han gradito) e per chi non 86

sempre ha voglia di sentire Skream o Roska. Il profilo è cool, tanto cool che c’è quasi il rischio che bruci troppo velocemente tra i canali mainstream spegnendosi in fretta, ed è questo l’unico vero limite del disco: a volte si ha l’impressione che TEED scherzi o tratti con sufficienza la materia prima coinvolta nei pezzi (tutta l’ottima pasta funky/dubstep dalle forti potenzialità vista in Brackles), lasciando che il tutto sfoci semplicemente in una dimensione pop piaciona, sebbene sempre godibile. Ma in fondo è proprio quel che cerca, far presa sulle ragazze che si sono appena lasciate alle spalle Twin Shadow per allietare i pomeriggi di shopping da Colette una volta terminato il mix di Jamie XX. Album buono per ogni occasione, leggero ma fatto con stile, come nelle migliori tradizioni di elettronica contaminata pop. Ci si poteva anche aspettare qualcos’altro, ma nella sua semplicità il target è centrato. (6.8/10) Mirko Carera

Tracey Thorn - Tinsel and Lights (Strange Feeling, Ottobre 2012) Genere: Xmas pop Per i cinquant’anni la cantante anticipa di un paio di mesi il Natale e ci regala il suo Christmas album. Dopo la bella impressione di Love and Its Opposite del 2010, la Thorn esplora il catalogo altrui, non sempre in tema dicembrino, ma comunque scegliendo brani in qualche modo caratterizzati da un’atmosfera da luci colorate e neve che scende dal cielo. Se non ce l’hanno, come nel caso della In The Cold, Cold Night dei White Stripes, tanto meglio: la classe della voce degli Everything But The Girl è tale per cui l’esecuzione fa sembrare che questa scheggia americana sia stata scritta in un villaggio dell’Hertfordshire, magari proprio nella sua Hatfield. Accanto alle dieci cover, tra cui vanno sottolineati almeno il duetto con Green Gartside, frontman degli Scritti Politti (una corale Taking Down The Tree dei Low), e la Snow di Randy Newman (uno che sa raccontare con piano e poche parole), ci sono due traditional (Hard Candy Christmas e Have Yourself A Merry Christmas) e due brani originali. Quest’ultimi meritano un discorso a parte: Joy, in apertura, setta il mood del disco, fatto di agrodolce nostalgia, spesso di un tempo pre-adolescenziale d’innocenza che in qualche modo viene turbato, mentre la title track è una ballad che sa di balli ancestrali, testimonianza degli interessi folk dell’ultima Thorn. Se nel 2010 si era parlato della voglia di Tracey Thorn d’esprimere il proprio soul con accenti personali e una voce ancora in grado di emozionare, questo Christmas album mostra un lato ancora più intimo che si rivolge


ai tutti quelli che vogliono tornare bambini. Forse un passaggio laterale in una parabola già straordinaria, ma che testimonia che arriveranno sorprese. Non solo sotto l’albero. (7/10) Marco Boscolo

Vatican Shadow - Ornamented Walls (Modern Love, Ottobre 2012) Genere: industrial-noise Vista la materia con cui traffica Vatican Shadow è abbastanza sorprendente non trovare mai riferimenti a Muslimgauze quando si legge della sua musica. Sorprendente perché è palese come Dominick Fernow abbia fatto tesoro dell’approccio integralista di Bryn Jones, non solo da un punto di vista strettamente musicale, ma anche a livello iconografico e di immaginario. Quello che per Muslimgauze è Hamas, per Vatican Shadow è la guerra in Iraq, con tutti gli interconnessi riflessi propagandisticomediatici (indimenticabile la cover della prima edizione di Kneel Before Religious Icons raffigurante Malik Nadal Hassan). Ne consegue una sorta di prolungato concept che fa lo stesso uso della musica come metodica diffusione di dispacci politico-integralisti. Da qui un senso della discografia labirintico e confusionario, che tende a disperdersi in mille direzioni. Solo quest’anno, con l’approdo a label di un certo livello e con una certa diffusione, come Type e la qui presente Modern Love, Vatican Shadow è assurto all’onore di cronache meno occulte e ci si sta rapidamente dimenticando di citare ogni volta Prurient e Cold Cave, come è giusto che sia per un progetto come questo che è destinato a durare a dispetto del piglio collaterale con cui era nato. Ornamented Walls arriva a pochi mesi dalla pubblicazione su vasta scala di Kneel Before Religious Icons e serve quanto meno a mantenere l’attenzione desta in occasione del tour europeo. Composto di brani contenuti nell’ep Operation Neptune Spear (sulla cover dell’edizione in cassetta 17 copie della Hospital la foto di Joe Biden..) e da 25 minuti di materiale inedito è il classico disco che serve a battere il ferro finchè è caldo. La prima parte riprende il “Live Mix Rehearsal For First Live Performance May 5, 2012 Los Angeles In The Shadow Of The KSM Trial At Guantanamo Bay, Cuba” dell’Ep. Una fotografia delle escursioni live di Vatican Shadow, che si manifestano di volta, in volta, come soffocanti, opprimenti, senza mediazione. Nei passaggi mid-tempo, lo scenario è del tutto analogo al Muslimgauze più attendista (Veiled Sisters, Gun Aramaic..). Cairo Is A Haunted City Mythic Chords è una debilitata marcia funebre con ventate apocalittiche, sorta di soundtrack per la distru-

zione in atto. Gli episodi più veementi come Nightforce Scopes e Yemeni Telephone Number vivono sul crinale di fascinazioni old-school come Esplendor Geometrico e S.P.K., e le aperture neo gotiche di Church Of All Images Church Of The NSA e Boxes Were Wired To Batteries Then Loaded Into A Brown Toyota Cargo Truck restituiscono quel senso di ansia opprimente, quell’umore da campo di concentramento, che effettivamente fanno la differenza per un suono così legato alla tradizione postindustrial come questo. (7.4/10) Antonello Comunale

Vernon Sélavy - Stressed desserts blues (Shit music for shit people, Ottobre 2012) Genere: psych blues Fotografare l’old time in polaroid. Questa sembra la missione dei Vernon Sélavy, gruppo del giro Movie star junkies, Vermillion Sand e Capputtini i’ lignu, qui al debutto con Stressed dessert blues, coprodotto da Shit Music For Shit People e Azbin Records. I soggetti sono sempre gli stessi - profumi beat/stradaioli ancor più che prewar, amore per le ballads e per peccatori d’ogni risma - ma niente bianco e nero. I colori vogliono essere quelli di una psych tropicalia tutta riverberi e percussioni, di una malinconia assolutamente consolatoria, quasi una saudade che trova il suo punto più alto in The days you lies will bloom, l’ibrido più riuscito del lotto. Poi è giusto dire che si poteva osare di più. Tralasciando il doo-wop abbastanza didascalico di The way it goes, il resto viaggia sempre su ottimi livelli, fornendo più di un momento sopra le righe (Fifteen apple seed, All the sinners burn). Un sound che non differisce molto dalle premesse, specie sul versante Movie star Junkies, dando qua e là il senso del doppione. Ne risulta un disco di facile apprezzamento per i cultori della scena, con un potenziale ancora tutto da sviluppare. (6.7/10) Stefano Gaz

Vinicius Cantuária - Indio de Apartamento (Naive, Ottobre 2012) Genere: new bossa A un anno e mezzo dall’apprezzato disco con l’amico Frisell, il cantautore di Manaus trapiantato a NY torna a farsi sentire con un album che prosegue sui suoi binari recenti: quelli di una bossa tanto classica quanto minimale, che anima la tradizione con una scrittura sapiente e piccoli dettagli, spesso opera degli illustri amici della scena della Grande Mela cui il Nostro appartiene ormai 87


da tempo. Suona quasi tutto lui, infatti, salvo ricorrere all’aiuto discreto ed elegante di ospiti quali Sakamoto (che decora la serenità di Moça Feia con un piano asciutto anche nell’assolo finale, e ugualmente appartato in Acorda), Norah Jones (sempre al pianoforte, che arpeggia lirico in Quem Sou Eu) e il sunnominato Bill Frisell, che ricama da par suo Chove La Fora e Pe Na Estrada. Il chitarrista è presente anche in This Time, duetto con Jesse Harris che non solo presenta un organico più allargato rispetto al resto del disco, ma dove gli ospiti invece di agire tra le pieghe si fanno sentire, contribuendo a una canzone dalla scrittura abbastanza solida ed efficace da aspirare a diventare uno standard. Si tratta anche di una delle poche canzoni lunghe del disco, metà della cui scaletta è sotto i due minuti o di poco sopra: si ferma intorno al minuto e mezzo perfino la title track, uno strumentale che parte con le percussioni più incalzanti del disco prima di divagare verso l’ambient e che, grazie all’uso dell’elettronica, spicca nella paletta sonora del disco. Come del resto fa Purus, stessa trance leggera e assonanze dell’ultimo De Andrè. Qui hanno un senso di compiutezza anche i bozzetti: d’altronde una mano sicura e ispirata sa anche quando si può chiudere senza ulteriori fronzoli. (7.2/10) Giulio Pasquali

White Hex - Heat EP (Avant!, Novembre 2012) Genere: cold post punk I White hex sono un duo composto da Jimi Kritzerliz (già Slug Guts) e Tara Green, australiani ma di stanza a Berlino, giunti ora al debutto sulla media distanza con questo Heat. Hanno il gusto per l’ossimoro i due, perché vedi l’artwork, scorri la playlist, e scopri che di caldo non c’è proprio niente. E’ un post punk glaciale e drogato quello di Heat. Patterns ultradilatati, sulla scia dei conterranei HTRK (simile anche l’atonalità vocale delle due cantanti), piglio nichilista alla Curtis con citazione d’obbligo per un titolo quale Nothing comes, a piccole dosi blues funereo. Funziona. C’è semplicità ed efficacia, fascino nel costruire un immaginario popolato da metropoli intorpidite (Desperate Heat), corpi atrofizzati (Ice cold) e vacanze monocrome (Holiday). La sensazione è che - nel bene e nel male - i White Hex potrebbero aver detto tutto qui sulla loro poetica, ancor prima di giungere al full-lenght. (6.8/10) Stefano Gaz

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White Lung - White Lung (, Ottobre 2012) Genere: Punk Nell’ambito del dibattito nato tra lettori e redazione sulla nostra fan page in seno alla recensione di Uno dei Green Day - disco che ha diviso e legittimamente aperto ad una critica piuttosto serrata - qualcuno ha posto una domanda difficile e intelligente: “Che cos’è il punk oggi?”. Tutto e niente, verrebbe fisiologico rispondere, anche perché il punk, nel suo lunghissimo percorso dal 1977 ad oggi, si è trasformato, arricchito, separato in casa. Ha assorbito - e non avrebbe potuto essere altrimenti - elementi musicali, sociali, culturali provenienti dall’esterno, risolvendosi poi in un’entità mutante fatta di una solidissima base (il punk, appunto) e di deviazioni provenienti da generi diversi. Pensate al blues, che ha portato al blues punk dei Gaunt, dei Chrome Cranks e della JSBX; pensate al garage sixties che fuso con il punk ha portato alla definizione di un genere scolpito da gente come i Gravedigger V, i Rippers o i Morlocks. Pensate al death punk reso intoccabile dai Turbonegro. Potremmo proseguire per intere pagine. Eppure il punk, paradossalmente, da genere definito (forse anche troppo) si è tradotto in milioni di satelliti che gravitano intorno a un pianeta. Si è sfaldato, sfaccettato, perdendo il connotato originario. Ebbene, che cos’è quindi punk oggi? Se dovessi spiegarlo ad un alieno, sceglierei i White Lung. Da Vancouver, Canada, con una lunga militanza nelle milizie indipendenti del punk rock, legati a doppio filo alla Deranged Records, cassa di risonanza delle riot band più interessanti degli ultimi tempi, i White Lung rappresentano oggi la purezza del punk, per come la potremmo interpretare con l’esperienza degli ultimi trent’anni. Da più parti definiti come l’incrocio tra le L7 e le Babes In Toyland, traviati dalla voce femminile di Mish Way e capaci quasi di creare un malinteso storico che sposta l’asse critico (della stampa) verso l’indie punk, i White Lung sono invece ciò che è stato il punk, durante la sua collisione con il “core”. E’ St.Dad a dimostrare come sia ancora credibile oggi un brano suonato senza alcuna velleità creativa, ma compresso nella sua rabbia martellante. Così come Thick Lip altro non è che la base punk dalla quale gli At The Drive In hanno poi elaborato il loro hardcore trasversale. Chitarre profonde e acide, batteria pneumatica in quattro quarti, poco spazio per la melodia fine a sé stessa e un occhio di riguardo per il post punk in Glue, ma soprattutto la voglia di presentarsi con una manciata di canzoni scomode, chiassose, dure, affilate. Se i The Men sono oggi considerati il futuro del punk, allora i White Lung ne sono il presente. Sono la certezza


che trent’anni non sono passati invano e che il punk, svestito dai suoi inutili orpelli, può ancora fare male. (7.4/10) Mario Ruggeri

Yousef - A Product Of Your Environment (Circus Recordings, Ottobre 2012) Genere: House Al fondatore e resident del Circus di Liverpool è naturale non chiedere altro che un album specchio dell’aria che tira nelle sue serate, e così infatti è stato per il primo A Collection Of Scars And Situations del 2009: una discesa senza distrazioni nel tech-house fun formato collettivo. Per il sophomore, invece, Yousef vuole ampliare lo spettro offerto e, accanto al suo regolare assetto da guerra in console, si diletta in una manciata di pezzi dall’appeal più armonico. Tra gli effetti migliori del nuovo piglio due pezzi di ottima house profumata pop, con le azzeccate parti cantate di Had No Sleep (synth 80s meet Chicago) e I See (soul femminile venato di jazz, siam vicini agli Hercules And Love Affair), più gli slow beats di What Is Revolution e Indigo Child (è il mood deep-jazzy-esotico à la Frivolous, perfetto per rendere in cuffia le atmosfere delle serate tardo estive). Il resto di A Product Of Your Environment scorre inevitabilmente nelle espressioni più clubbing-oriented, col giusto fiocchetto d’apertura di An Old Friend, l’appropriato retaggio old school (tipo Marshall Jefferson in Think Twice) e quel tipo di approccio popolare che riconduce ad Ibiza (Beg, Feel The Same Thing). Magari a tratti ci si avvicina pericolosamente al formato dj tool, ma anche questo fa parte del gioco: se sei furbo conosci il pubblico che ti segue, catalizzarlo è la cosa più sensata che puoi fare. I professorini, che dicessero quel che vogliono. (6.9/10)

serie di segnali analoghi da più parti, dopo l’ultima Madonna prodotta da Benny Benassi, la generazione EDM dai Nero a Krafty Kuts e il nuovo fenomeno demential dance Gangnam Style. Il problema però è che qui le tracce son tutte uguali, tutte fondate su jingle semplicissimi e anche un po’ infantili (Lost At Sea o Clarity, l’effetto profondità zero figlio di David Guetta), beat gradasso su schema electro (tipo Stache, che gira per 4 minuti intorno al nulla) e parti cantate femminili tanto anonime che quasi ne apprezzi l’omologazione servile allo schema (nel pop le cose funzionano così, no?). Alla fine Hourglass è un pezzo onesto e l’ingresso della ragazza di Skrillex Ellie Goulding serve a sparigliare un po’ le carte con una ventata di hardcore, ma su ogni mossa il produttore tedesco specula senza freni e anche i pezzi sulla carta più trascurabili come Follow You Down alla fine infastidiscono per quanto si crogiolano sui meccanismi più prevedibili, senza compensare con nessun tratto caratteriale. E allora rivogliamo Illusion. (5.4/10) Carlo Affatigato

Carlo Affatigato

Zedd - Clarity (Interscope Records, Ottobre 2012) Genere: Commerciale Turatevi il naso e castigate all’angolo i vostri standard qualitativi in fatto di musica. Arriva Zedd, l’ultimo pompatissimo nome della dance commerciale, nell’album studiato per sbancare la concorrenza: forte dell’enorme successo ottenuto col singolo Spectrum (numero uno su Beatport per quasi 3 settimane), Clarity vuol essere l’affermazione definitiva e senza sbavature di quella categoria di musica dance che si sentiva nelle radio dei primi anni 2000, con le sue furbe triangolazioni sfumate tra electro house, trance e mediterranean progressive. Qualcosa che di per sé non è un male e che riflette una 89


Gimme Some Inches #31

Solito appuntamento coi formati minori. Questo mese ricco di perle nascoste per Cannibal Movie e Mushy, Virus e Scorpion Violente, Johnny Mox ed Expo ‘70...c’è solo da ascoltare È la Yerevan tapes a marchiare il rientro in pista dei Cannibal Movie. Sempre in obsoleto formato cassetta, i due cannibali del sud Italia spingono sull’acceleratore e tirano fuori due lunghissimi deliri per organo e batteria: Mondo Music, più che un tributo all’immaginario costituente del duo, è una dichiarazione d’intenti bella e buona nel suo mostrarne il lato ancor più dilatato e free. Arrembante il lato A con l’organo di Donato Epiro a svisare acido e distorto mentre il drumming di Gaspare Sammartano gioca di piatti e tribalismi vari; più ipnotico e meditativo il suo corrispettivo opposto, ma in entrambe le composizioni self titled, a spirare è un vento orientale, fatto di fumi ed effluvi dal vicino e lontano oriente a dimostrazione che non esistono confini se l’animo è ben disposto. L’altra tape del mese è appannaggio della nostra vecchia conoscenza Johnny Mox, predicatore a furia di human beatbox e gospel punk se90

gnalatosi con l’ottimo We=Trouble. Stavolta però il trentino ci sorprende perché la tape Lord Only Knows How Many Times I Cursed These Walls è un quattro tracce strumentale per chitarra acustica e poco altro. Sorpresi vero? Bene, ascoltatele attentamente queste canzoni senza voce e scoprirete chitarre suonate come percussioni, polvere desertica tra i capelli, tramonti rosso sangue e una gran voglia di fuga. In poche parole, il Johnny che non t’aspetti, ma dopotutto ci sono mai piaciuti quelli che ripropongono sempre la stessa cosa o abbiamo in cuor nostro preferito quelli che ci sorprendono? Alzando i giri dei vinili parliamo di due 12”. Il primo è apripista per il comeback di Mushy, signor(in)a in nero già trattata all’epoca di Faded Heart. Stavolta la romana spinge più sull’etereo e forse risente della positiva influenza degli A.R.Kane, presenti in una versione della title track esclusiva per questo ep. Il 12” My Life So Far per Mannequin vede

fumose lande dreamy quasi shoegaze pronte ad ammantare la un tempo gelida synth-wave di Mushy che si scalda e si/ci scioglie il cuore. Tanto che questi lievi spostamenti di interesse ci fanno ben sperare per un full-length ancor più personale. L’altro 12” è lo split tra Expo ‘70 e Ancient Ocean, visti passare da poco per le italiche lande. Pur conoscendo vita, morte e miracoli di Justin Expo ‘70 Wright, non possiamo negare di essere rimasti colpiti dalla marea montante di droning nero pece in cui la chitarra sembra sparire: infatti la suite Waves In Caverns Of Air è per solo moog! Che sia un viatico per un futuro prossimo? Il compare John Bohannon aka Ancient Ocean si muove sulla falsariga, chitarra e folate di agghiacciante disperazione per una Decomposition Decay che alterna vuoti gelidi, arpeggi estatici, pieni da noise totale e stratificazioni di layers. Da rivedere in un lavoro compiuto, ma le premesse sono ottime. Producono No=Fi e Sound Of Cobra, realtà che qui conosciamo bene. Riprendiamo da dove avevamo lasciato con le uscite del giro più


tetro. Già da qualche mese è in circolazione l’ultima tape di Niding, il più recente progetto di Viktor Ottosson (già Attestupa e Street Drinkers). Forse meno convincente della precedente Afgudaskymning, Plågor offre sei nuove tracce che mischiano black metal downtempo, noise/ industrial, voci quasi cold-wave e umori che più cadaverici e putrescenti non si può. Unico difetto, i pezzi sembrano esser meno focalizzati e più istintivi, immediati, ma senza un eccesso di freschezza. Speriamo che il nostro ritrovi presto la strada di Den Dag Som Aldrig Gryr. Chi invece torna per raddoppiare sono i newyorkesi (anzi, nukeyorkesi) Anasazi con il secondo 7”, stavolta per Sacred Bones. La label di Brooklyn non si è fatta intimorire dalle giacche di pelle, le borchie e le acconciature mohawk dei nativepunx e ha rilasciato I Saw The Witch Cry, due pezzi di deathrock suonato con carica e attitudine peacepunk. Due bei ceffoni in pieno volto attendendo il full-length di debutto. Nel frattempo, consigliatissimo. Nuovo singolo anche per novello aedo del folk funereo, King Dude. Uscito nell’estate appena conclusa come anticipazione dell’LP fuori

proprio in questi giorni, You Can Break My Heart vede un’ulteriore virata del ragazzone di Seattle verso i terreni storicamente battuti da icone come Johnny Cash e Woody Guthrie, con un accento doo-wop che non dispiacerà ai fan della pop music più retrò. Per il resto, grandi distese desertiche e riverberi che innalzano polveroni all’orizzonte; Burning Daylight, il nuovissimo album, ne è l’ennesima conferma. Dalle nostre parti, e più precisamente dalle rozze campagne del veronese, tornano a far capolino i Virus, band insolitamente sboccata - ma nel modo giusto - nel piatto (in tutti i sensi?) panorama della Pianura Padana. Dopo il primissimo split 7-inch con gli amici Dots (un’altra banda di scoppiati), il duo voce + chitarra&batteria (sì, avete letto, non voce&chitarra + batteria, au contraire) sguinzaglia una nuova manciata di brani irruenti, volgari, monelli come un discolo pestifero e insolente. Noise punk di scuola Detroit, ma irrimediabilmente forgiato dalle cascine della Bassa, l’ignoranza è tale da omaggiare/insultare sia Italia che Stati Uniti. Non ci credete? Sentitevi I Live in Italy e poi ne riparliamo. Anzi, meglio, andate di-

rettamente sul sito della Depression House e compratevi sto singolo. Last but not least (anzi!!!), diamo il bentornato al duo più perverso di Francia, mesdames et messieurs gli Scorpion Violente sono nuovamente tra noi. A due anni da Uberschleiss, Nafi e Toma hanno deciso di insozzare a dovere nuovi solchi in vinile, e per farlo hanno scelto la neonata (e francese) Teenage Menopause (già album per Catholic Spray e JC Satàn). La malefica sinergia ha dato vita a The Rapist, maxi EP su 12” che riversa cinque nuove mostruose creature, se possibile ancora più ostiche, più minimali e più paranoiche di quelle già pubblicate. One note one rhythm one hour, potrebbe essere il motto di questa nuova prova, a metà tra disco anfetaminica, kraut e minimal wave suicida, con un occhio di riguardo al crooning anni ‘50/’60 che tanto piace a nostri cugini d’Oltralpe. Giù il cappello, non c’è che dire. Stefano Pifferi, Andrea Napoli

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Steve Roach Visioni del taoismo elettronico 92


Se Brian Eno fu il sommo teorizzatore, Steve Roach si conferma massimo esponente del genere Ambient, forte di una discografia monumentale riletta su SA e arricchita da una lunga intervista. Testo: Filippo Bordignon

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Impegnandosi si ribalta l’illusione e si torna alla propria Origine

Maestro Ippen Chishin

Dell’ambient inteso come “genere” i più conoscono sufficientemente nascita e vagiti apripista; il raggio d’interesse dell’ascoltatore medio è delimitato tra gli scritti del compositore Erik Satie (nei quali si vagheggia la necessità di un sottofondo sonoro armonizzato con il luogo che lo contiene) e la geniale teorizzazione di Brian Eno; dalla seconda metà degli Anni ‘70 in poi sono inoltre emersi altri nomi prontamente ricondotti all’universo eniano, come quelli di Harold Budd, Jon Hassell, Daniel Lanois. Poco o nulla si sa però dell’ambient (r)evolution a opera della generazione successiva agli artisti di cui sopra. In questo contesto, lo statunitense Steve Roach (classe del ‘55) può essere considerato il più pregevole continuatore di un modus di intendere l’evocazione sonora che ha subìto negli anni le più disparate contaminazioni. Ciò che ascoltiamo oggi è meticciato che annovera il contributo del minimalismo alla Steve Reich (occhio alla quasi omonimia), della kosmische musik e delle tante sottocorrenti elettroniche posteriori come space, industrial strumentale, drone, trance, downtempo ecc.. Quando l’operazione riesce, i meriti di Roach son presto detti: aver cementato la stabilità di una musica quartomondista archiviando definitivamente le divagazioni cosmiche per concentrarsi sui paesaggi del nostro Pianeta; aver praticato estenuantemente l’arte della collaborazione come possibilità principe per il rinnovamento del genere; aver superato la condizione di un ascolto da sottofondo infarcendo le composizioni di una qualità dinamica derivata da un grande talento negli arrangiamenti elettroacustici. Forse esagera, lo scrittore Piero Scaruffi, definendo Roach dalle colonne del suo pur imprescindibile database cultural/musicale omonimo “(..)uno degli uomini che può ambire al titolo di massimo musicista vivente”; è vero altresì che, ai suoi massimi livelli, il musicista di La Mesa ha costituito l’immagine sonora di una sorta di taoismo dissimulato: dentro al suo repertorio infatti, l’ascoltatore ispirato può derivare una filosofia del vuoto come possibilità di esistenza nella quale il senso della totalità non viene stemperato in quello dell’individuo. Ma andiamo con ordine. Motociclista professionista innamorato dall’infanzia dei deserti californiani, nel 1975 Steve appende le ruote al chiodo per buttarsi come autodidatta nello studio di una strumentazione elettronica che in breve padroneggia abbastanza da sperare di farne una professione. 94

L’esordio, a nome Moebius, è collettivo, sotto la direzione di tale Bryce Robbley; il vinile omonimo (1979, Moonwind) scorre nella piacevolezza dell’opera elettronica semi-strumentale, inzuppando timbriche Kraftwerk con una synth-wave dall’accento britannico (le buone forchette gusteranno la cover robotica dei Doors Light My Fire). Esaurita l’esperienza Moebius dopo una sola uscita, Roach focalizza la propria attenzione sul conio di una carriera solista. Il primo step in proprio è il promettente Now (‘82, Fortuna) in cui gli orizzonti si allargano su paesaggi magari suggestivi (Comeback) ma fuori tempo massimo rispetto ad artisti e album del passato (nel mucchio, i Tonto’s Expanding Head Band di Zero Time o il Michael Hoenig in Departure From The Northern Westland), soprattutto negli episodi ritmati Growth Sequence e Inquest. Il successivo Traveler (‘83, Domino) tenta la miniaturizzazione delle precedenti intuizioni, finendo per raccogliere nove canovacci che sarebbero perfetti con l’aggiunta di una traccia vocale ben congeniata, magari dal sapore new wave. Nonostante i titoli suggeriscano visioni di bucolica spiritualità le atmosfere sono limitate a un feeling androide in odor di Vangelis (ma privo della suo talento melodico). Structure From Silence (‘84, Fortuna) sancisce la nascita del Roach-sound, elargendo tre composizioni di rarefatta bellezza le quali si pongono, già dopo un primo ascolto, come prosecuzione ideale dell’ambient teorizzato da Eno nei lavori per la Obscure e Ambient Records di fine Anni ‘70; i diciassette minuti di Reflections In Suspenction dilatano senza stirare le più nobili intenzioni delle pietre miliari Discreet Music e The Plateaux Of Mirror, abbandonando l’iconografia cyborg già prossima al tramonto in favore del mondo sensibile. Quiet Friend è la personale scoperta del silenzio, ricamata con l’espressività di un Arvo Pärt e ammorbidita in un contesto di spirituale discrezione, una dolcezza che passa di accordo in accordo doppiando i battiti di un tempo organico. Empetus (‘86, Fortuna) è prova ibrida tra il Roach degli esordi e il guru ambient lì a venire, ideale per gli amanti del sequencer e oggi disponibile rimasterizzata in edizione doppio cd. Lo stesso anno esce il primo di una serie di lavori tematici capaci di stregare il completista e spesso consigliabili in qualità del loro valore effettivo: Quiet Music (suggeriamo l’edizione per la Projekt The Original 3-Hour Collection) calca le orme dell’Eno discreet per tentare un ulteriore diradamento; scopo ultimo di queste registrazioni antologiche (dall’83 all’86) non è soltanto stimolare il cervello a produrre benefiche onde alfa ma sperimentare ulteriori forme di sottrazione, unendo improvvisazione a


composizione. Non solo colonna sonora per partorienti, sedute terapeutiche o yoga dunque: là dove l’operazione riesce (The Green Place Part I & II) comprendiamo anzi come non sia materia da sottofondo; essa richiede al contrario una partecipazione che ne giustifichi le pause, ne goda i silenzi, ne sfrutti la durata. Per la capacità di amalgama del materiale (tastiera, suoni naturali e flauto) Roach riceve la benedizione dal pianista Harold Budd, il quale riconosce nel Nostro un talento che lo sottrae al torpore di certi presunti alfieri del genere. Con Western Spaces (‘87, Fortuna) il musicista inaugura il filone delle collaborazioni, comprendendo come la contaminazione sia elemento fondante per la muta continua della propria pelle d’artista. Oggetto di questo singolare ritratto a quattro mani con Kevin Brahney sono le zone desertiche degli States sud-occidentali. Una curiosità: le note di copertina contengono una poesia di Linda Kohanov, moglie di Roach nota ai più come psicoterapeuta specializzata nella branca che impiega i cavalli (Equine Facilitated Psychotherapy) per trattare le patologie mentali. Con Brahney l’avventura avrà un seguito di maggior rilievo qualche anno più tardi, grazie anche al contributo del musicista Michael Stearns: gli episodi meno datati di Desert Solitaire (‘89, Fortuna) amalgamano elettronica, sussurri di sax e chitarre processate fluendo in un algido magma di lodevole spontaneità (la titletrack, Flatlands, Specter e il dark ambient Knowledge & Dust). Stears tor-

nerà a intersecare la discografia del Nostro nel mistico Kiva (‘95, Hearts of Space), prova in trio insieme a Ron Sunsinger che combina canti rituali degli indiani americani a un tappeto sonoro di elettronica e strumenti etnici in grado di amplificare con invidiabile misura le voci degli sciamani. Gli Anni ‘80 si concludono con due produzioni particolarmente interessanti. The Leaving Time (‘88, Novus), grazie al contributo del polistrumentista di Carlos Santana Michael Shrieve, è la raccolta di brani più strutturati secondo il formato canzone dell’intero repertorio roachiano, forte di riff ficcanti, assoli dal taglio cinematografico e sprazzi di tempi al cardiopalma (Edge Runner); l’esperimento non era comunque nuovo per Shrieve, il quale già vantava la militanza nel trascurabile side-project di Klaus Schulze Richard Wahnfriend. Il doppio Dreamtime Return (‘88, Fortuna) è invece uno degli incontrastati masterpiece prodotti in solitudine. Complice un viaggio nelle zone meno battute dell’Australia, Roach sviluppa, a partire da quest’album, una sensibilità aggiuntiva che mischia l’evocatività ambient con la spiritualità non detta della migliore world music. Iniziato all’utilizzo del didgeridoo dal maestro David Hudson egli perviene a una formula che sposa il primitivismo aborigeno con il presente dell’elettronica occidentale (Airtribe Meets The Dream Ghosts) sviluppando un ibrido lontano dalle dissertazioni cosmiche di stampo teutonico e dall’Eno solo

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apparentemente On Land. Da qui in poi, i nuovi dettami del suo stile saranno impastati con una fanghiglia di elettronica terrigna, arricchita con strumentazioni folkloriche secondo un modus disinteressato all’archeologia musicale o all’etnomusicologia; Dreamtime Return è un sogno universale e non spaziale che, traendo nutrimento dalla spontaneità dell’esistenza, approda in stati d’animo d’indescrivibile profondità (The Other Side, Magnificent Gallery, Truth Is Passing, Trought A Strong Eye) senza che si profili un solo accenno di artificio. I nineties si rivelano decade della consacrazione definitiva. Si apre con Strata (‘90, Hearts Of Space) in coppia con Robert Rich: 10 tracce prive di esitazioni in cui il synth e il campionatore incontrano i dettagli di Rich (le percus-

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sioni, la steel guitar, il flauto in bambù) conseguendo un risultato apolide che pure si tinge di umori asiatici (Ceremony Of Shadows) da una prospettiva non esattamente occidentale. A questo gioiello del genere poi definito tribal-ambient i due daranno seguito nell’ancor più meritorio Soma (‘92, Hearts Of Space), avvicinandosi come pochi altri compositori americani al concetto Zen di nyat; (Vaquità); al di là dei singoli episodi infatti, la raccolta si regge su un equilibrio perfetto descrivendo una struttura in cui, oltre ai gesti testimoniati dalla registrazione, non è funzionale sottrarre ne aggiungere alcunché (così come non è possibile sottrarre ne aggiungere alcunché alla Vacuità senza negarla o annullarla). La vena tribal-ambient (complice il trasferimento del


Nostro in una zona semidesertica di Tucson, Arizona) è sfruttata in chiave solista coi meritevoli World’s Edge (‘92, Fortuna, soprattutto nel monolite da 60 minuti To The Threshold Of Silence), Origins (‘93, Fortuna) e Artifacts (‘94, Fortuna). La padronanza delle pause, la ricerca di atmosfere in bilico tra melodia e investigazioni armoniche così come la fusione di atto compositivo con atto improvvisativo raggiungono in questi lavori un apice in completa opposizione con la rivoluzione inglese avviata nello stesso periodo a opera degli apostoli breakbeat. Roach si rivela tra i rarissimi papabili continuatori dell’estetica cosmica la quale, nel frattempo, stancatasi dei viaggi interstellari ha trovato una nuova dimensione scrutando gli spazi sconfinati della mente in uno stato di estatica mancanza (The Magnifican Void, titolava appunto un album del ‘96 per la Hearts Of Space). Con Halcyon Days (‘96, Hearts Of Space) si cementerà una formula pronta a divenire scuola, spingendo sul versante acustico grazie al contributo di Steven Kent e alle traslucide manipolazioni sonore di Kenneth Newby. I motivi di plauso proseguono nel progetto Suspended Memories insieme al messicano Jorge Reyes e allo spagnolo Suso Saiz: sia Forgotten Gods (‘93, Hearts Of Space) che Earth Island (‘94, Hearts Of Space) vantano il merito di proseguire nell’attualizzazione del quartomondismo tracciato da Hassell in capolavori di fine ‘70 quali Vernal Equinox e Earthquake Island; brani come Different Desert, Saguaro o The Sky Opens mostrano un trio presente in ogni atto: non c’è un solo istante in cui la loro improvvisazione vaghi infruttuosamente nei territori di suono e forma; è questo l’inspiegabile esempio di un non genere che ha smesso di cercare conferma nell’esperienza dell’udito e si limita a ondeggiare con l’autorevole purezza di una vibrazione continua, quali che siano gli strumenti impiegati. L’incanto prosegue per un’ulteriore uscita con Reyes, Vine~Bark & Spore (2000, Timeroom Editions), in cui i paesaggi desertici messicani e dell’Arizona si fondono in un macrovuoto colmato di percussioni fantasma (Sorcerer’s Temple) e dettagliatissime allucinazioni uditive (l’inquietante titletrack). Da segnalare poi una delle più durature collaborazioni del Nostro, col compositore belga Dirk Serries (alias Vidna Obmana). Il risultato però, è sintomatico di un’altalenanza ispirativa che segnerà la discografia di Roach da qui in avanti. Significativo in questo senso il triplo Ascension Of Shadows (‘99, Project) il quale manifesta un’autoindulgenza ribadita nel nuovo decennio con le operazioni tematiche Fever Dreams (‘04-’07, Project) e Immersion (‘06-’11, Project). Immersion si articola in ben 7 cd di one-track album colpevoli di un’ingiustificabile lentezza. Certo: il misti-

co esprime essenzialmente lo stesso pensiero in ogni momento; ma è innegabile rilevare nelle fluttuazioni in questione una staticità strutturale che ne fa prodotti buoni appena per la seduta di meditazione di un aspirante yogī davvero troppo chic. Nel profluvio creativo che va dal 2000 ai giorni nostri evidenzieremo comunque alcune opere di indubbio valore: Midnight Moon (‘00, Project), acquerelli crepuscolari che afferrano l’ineffabile; Prayers To The Protector (‘00, Fortuna) i canti religiosi del lama Thupten Nyandak Pema accompagnati da finezze sonore di lodevole trasparenza; Time Of The Earth (‘01, Project), colonna sonora dark ambient per il film omonimo di Steve Lazur dedicato ai deserti sud-occidentali degli States, disponibile come Day Out Of Time in edizione deluxe con dvd; Darkest Before Dawn (‘02, Timeroom Editions), ghiaccio bollente per il miglior one-track album dell’intero repertorio; Trance Spirits (‘02, Project), sabba percussivo oliato dalla chitarra di Robert Fripp con Jeffrey Fayman e Momodou Kah. Meno entusiasmante la sezione dei live: là dove non regni calma piatta le uscite a valere davvero l’acquisto sono Storm Surge (‘06, NEARfest Rec, si azzardi la trance con strofinamenti dark ambient in Core Meditation e Void Passage-Portal) e Journey Of One (‘11, Project), efficace bignami d’estetica neo-tribale. Per gli irriducibili poi, segnaliamo The Lost Pieces concernente quattro uscite di materiale inedito solista e non, registrate tra il 1987 e il 2001 tra cui si distinguono i vol. 1 e 4 per l’ecletticità delle musiche contenute. Affatto preoccupato d’inflazionare la propria discografia con una produttività che molti giudicano mero esercizio di tranquillizzazione, Roach prosegue sulla strada non lastricata del proprio sound. Generoso e forse prolisso (3 uscite solo negli ultimi 8 mesi) egli ha in serbo per chi vorrà ascoltarlo l’inesauribile visione della propria spiritualità che solo per convenzione ha scelto di evocare grazie al medium della musica elettronica.

Intervista Steve, cominciamo dal presente: cosa aggiunge il recente Back To Life rispetto alla tua discografia precedente? Per arrivare al risultato che senti in Back To Life ho rinunciato per tutto il 2011 e parte del 2012 all’attività concertistica. Dopo oltre venticinque anni di esibizioni volevo focalizzarmi solo sulla composizione per ‘tornare alla vita’ con un feeling rinnovato. Rompere quella routine mi ha permesso di concentrare lo sguardo su un singolo punto del paesaggio. Perciò se la domanda è “cosa c’è di diverso rispetto agli album precedenti?” la risposta è che sono io a essere diverso in virtù di una serie di cambiamenti che 97


si traducono di volta in volta in un approccio differente nel mio modo di intendere la musica. La vita e il trascorrere del tempo innescano naturali mutamenti percettivi, accendendo qua e là scintille che illuminano angoli a cui non avevi ancora dato importanza. Limiti dell’ambient? La tua immaginazione. Eccezioni a parte, si tratta di un genere popolato esclusivamente dal sesso maschile.. Hai ragione; è davvero strano perché la mia musica trova un pubblico accanito anche nel gentil sesso. Eppure a livello compositivo la bilancia pende quasi esclusivamente per i maschi. E non ho una risposta soddisfacente per spiegarlo. Qualcuno ti accusa di autoindulgenza.. Ho affinato quello che sono solito chiamare ‘l’orologio interno’; si tratta di uno strumento utile che mi segnala quando qualcosa sta andando per le lunghe o non funziona a dovere. Se mi trovo ad ascoltare della musica che per vari motivi innesca questo allarme cerco di abbandonarla all’insorgere dei primi sbadigli. Ovviamente si tratta di un meccanismo soggettivo diverso da ascoltatore ad ascoltatore. 98

Credi in ‘Qualcosa’ che influenza il tuo modo di comporre? Il mio modo di essere non prevede il ricorso a un Credo specifico. Vivo con consapevolezza il presente lasciando fluire la creatività; per quel che mi riguarda non c’è separazione tra quotidianità e spiritualità; da anni ormai la mia sensazione è che siano fuse l’un l’altra in un continuum inscindibile. Il tempo creativo che trascorro in studio e la vita di tutti i giorni sono una specie di unica meditazione dinamica alla quale abbevero la mia professione. Come lavori, per stratificazioni sonore? La prima cosa che faccio appena sveglio è entrare nella Timeroom, il mio studio, ancor prima che albeggi. Solitamente 4-5 notti alla settimana le dedico al lavoro, rintanandomi in studio fino al mattino (beh, poi naturalmente ci sono i giorni che dedico alle scartoffie, l’amministrazione del catalogo, le interviste, tutta la fase di promozione e via dicendo). Alcuni giorni li spendo esclusivamente componendo. Diciamo innanzitutto che la piega presa da ogni singolo giorno interagisce di per se sul mio approccio alla musica. Ma sono tante le varianti che incorrono a determinare la risultante: le condizioni atmosferiche, le azioni della quotidianità, il labirinto del tempo percepito così come talune variazioni emotive registrate a livello subcosciente. Quando spalanco la porta della Possibilità è a questi mondi che attingo per registrarne le risonanze. A volte perciò, quello che sentite su cd sono semplicemente io che scopro e fermo nel tempo delle rilevazioni. Una sorta di improvvisazione meditativa.. Il processo consiste nel mettersi in contatto con le più profonde correnti del suono e fluire assieme a loro.. un modus che ha generato spesso interi brani. Suppongo potresti chiamarlo ‘improvvisazione’. Molte volte questa spontaneità fornisce le basi per l’edificazioni di brani sostenuti da un’energia che mi spinge ad aggiungere questo o quell’elemento, rimodellando la visione iniziale. Altre volte invece un pezzo è terminato subito dopo averlo suonato alla prima take. Naturalmente l’impiego della tecnologia significa anche l’impostazione di parametri che sono io a determinare e talvolta è quello stesso lavoro a ispirarmi alcune scelte: se, a esempio, sto cesellando un rumore specifico, quel rumore può suggerire sviluppi che non erano inizialmente previsti. Operazioni queste che possono richiedere giorni di preparazione ma anche un solo istante.. Queste idee ribollono fino a quando il momento è propizio per renderle manifeste. Il quadruplo Mystic Chords And Sacred Space (‘03, Projekt) è nato così: un progetto sedimentato per anni da cui magari ho estrapolato delle intuizioni per altri album senza però compromettere


l’unitarietà della struttura originale. Nel processo ha giocato un ruolo importante una sorta di energia tantrica. Esigenze in fatto di strumentazione? Mi ostino a impiegare tastiere ‘old school’, una console interamente analogica e, in definitiva, una strumentazione che posso ‘suonare’ davvero. Oggi il trend è buttare tutto dentro al computer ma preferisco la sensazione tattile dello strumento vero e proprio. È pacificante sapere di poter lavorare a un pezzo senza dover per forza accendere il computer per arrivare a una qualche forma di ‘connessione’. È di qualche utilità non sapere dove si andrà a parare? Certo che sì. Tante volte il mood migliore per entrare in studio è abbandonarsi alla sacralità di un atteggiamento mentale che faccia tabula rasa di ogni aspettativa o intenzione. Una sorta di vacuità attraverso cui lasciar emergere la musica. “Steve Jobs è personalmente responsabile di aver ucciso il business musicale”, tuonava Bon Jovi qualche anno fa.. Non la penso così; nel mio caso iTunes si è dimostrato un mezzo efficace per veicolare la musica, sopratutto se lo confronto con certi contratti discografici stipulati negli Anni ‘80 e ‘90. Ovviamente, come tutti i mondi in fase di formazione, ci sono degli aggiustamenti da fare. La faccenda più complessa è contrastare i siti illegali che sviliscono il valore di un’opera e ne disattendono i copyrights. Sono passato attraverso supporti fisici come il vinile, la musicassetta, il cd, il laser disk, il dvd ecc. e ora stiamo vivendo la possibilità del download.. ma in ultima analisi è sempre e solo la musica che deve restare il fulcro del discorso; le modalità con le quali sarà distribuita e ascoltata continueranno a cambiare ma a preoccuparmi principalmente è che a evolversi sia soprattutto l’oggetto di questa contesa. Il resto sono questioni che possiamo trascendere. Un paio di battute su alcuni artisti coi quali hai collaborato, tipo Robert Rich o Fripp.. Guarda sono ormai un po’ di anni che non sento Rich. Ma più in generale ho notato che i miei rapporti con gli altri artisti si esauriscono al termine della nostra collaborazione forse perché poi mi immergo totalmente in nuovi interessi, in altri progetti. Taluni invece gravitano attorno a un’orbita lenta ma costante, come nel caso di Dirk Serries: ci siamo riavvicinati lo scorso dicembre dopo dieci anni e, come se niente fosse, abbiamo ricominciato a lavorare a del nuovo materiale. Il risultato è Low Volume Music per la Projekt. Si tratta di un lavoro di cui sono particolarmente entusiasta poiché suona davvero ‘puro’, evocando immagini di paesaggi sospesi tra

esistenza e possibilità. Qual è il merito che attribuisci alla tua musica? Da dove vivo e ho il mio studio si gode la vista di un paesaggio desertico: ci sono canyon, montagne, spazi sconfinati dove lo sguardo è libero di perdersi. Seppure abbia ‘ritratto’ anche oceani e rigogliosi pendii ho bisogno di abitare questo tipo di luoghi. Sono cresciuto a San Diego in California e da ragazzo ho passato più di una notte dormendo nel deserto e guidando la motocicletta nella giornata seguente attraverso le montagne per vedere il tramonto sull’oceano Pacifico. L’intero ciclo di un giorno mi spiego? Questa è, in ultima analisi, l’ispirazione più duratura, al di là di ogni musicista che abbia apprezzato. Una connessione con gli elementi naturali

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che formano il nostro Pianeta, ecco di cosa sono intessute le mie opere. Un equilibrio divenuto celebre in lavori come Structures from Silence e Dreamtime Return.. Riascoltare Dreamtime Return mi reimmerge in un bacino di ricordi ancestrali davvero significativo; scampoli di un’esistenza primordiale che può essere sovrapposta benissimo con quella della vita nel mondo moderno. Con questa prova mi sono calato con maggiore profondità nel materiale sonoro, dando il via anche a una serie di viaggi che - separandomi per lunghi periodi dal mio piccolo mondo confortevole - mi hanno permesso di accedere a qualcosa di ben più significativo. Come nel caso del soggiorno in Australia; quell’esperienza ha reso possibili lavori per me particolarmente significativi e collegati tra loro come Origins, Artifacts e la collaborazione con Jorge Reyes e Suso Saiz. C’è ancor oggi una profonda impronta di quei luoghi nel mio ambient tribale. Nomini Reyes e Saiz ed è doverosa una parentesi agli album dei Suspended Memories... Lì si trattò di aprirsi alla magia del momento presente, un momento che ci trovò riuniti in virtù di interessi e desideri comuni; tutti e tre ci sentivamo legati insieme da una sorta di fratellanza epperciò - per un breve ma intenso periodo - scegliemmo di rispondere a quella strana chiamata. Se avessimo condiviso tutti lo stesso continente sarebbe stato logisticamente più semplice registrare altro materiale. Jorge è morto nel 2009 e da allora non passa giorno che non pensi a lui. Hai una definizione per un termine inflazionato come ‘bellezza’? Un sentimento al di là del linguaggio verbale che trasporta in un territorio di pura ispirazione scevri da ogni domanda, un non luogo dove sperimentiamo che le forme della Bellezza sono sovrapponibili al concetto di Verità. Cosa ti attrae in uno strumento timbricamente limitato come il didgeridoo? La prima volta che ascoltai un didgeridoo mi fece l’impressione di un sintetizzatore acustico. Ed effettivamente, coi veri sintetizzatori, si amalgama alla perfezione quasi fosse il partner ideale per il mio sound. Adesso, quando lo suono, mi pare di essere una sorta di oscillatore umano-analogico: è come se il mio corpo fosse nientemeno che il filtro e l’amplificatore dello strumento. Nella tua sterminata discografia c’è un album che riassume al meglio il tuo sound live? Decisamente il Live At Grace Cathedral (‘10, Timeroom Editions). E la ragione sta nell’interazione con il grande spazio della cattedrale di San Francisco. In quel caso l’edificio è diventato lo strumento per eccellenza, il 100

migliore che si potesse concepire per dare vita al mio sound. Avendo già suonato all’interno di alcune cattedrali in Europa sapevo come sfruttare spazi del genere. Quando mi calo in sfide come quella studio la ‘location’per settimane al fine di entrarci in sintonia. Ne deduco che gli edifici sacri sono il massimo per l’elettronica meditativa.. Sarà forse utile sapere che è stata la prima e unica volta in cui ho sistemato anche dei microfoni panoramici per registrare e manipolare ulteriormente suoni, silenzi e riverberi durante l’esibizione. Mentre suonavo sentivo la musica ascendere e distribuirsi nello spazio con l’integrazione del riverbero naturale dell’edificio: un’esperienza che le parole non possono raccontare. Con cattedrali di tali dimensioni poi, è come suonare ‘en plein air’ ma coi vantaggi di uno spazio ben delimitato con cui posso interagire attivamente. È un’esperienza che, come essere umano, da un lato ti ridimensiona e dall’altro ti innalza. Fondere la propria energia in uno spazio del genere è un’azione che può trasformarti. Ma sopratutto, ti assicuro che l’impatto di quel posto ha portato me e la musica a un altro livello. Nuove leve dell’elettronica? Non saprei scegliere uno su tutti. Ascolto spesso la selezione musicale del programma Groove Salad trasmesso dalla web-radio Soma Fm. Quel genere di downtempo mi è affine. Ma se ti guardi attorno a chi passeresti il testimone? Sono in contatto con un giovane artista inglese che si chiama Robert Logan, una persona piena di talento e decisamente più matura rispetto alla sua età. Non so se lo conoscete ma vi consiglio caldamente un suo album del 2009, Inscape. Stiamo pensando a una collaborazione: la nostra differenza di età e il diverso approccio tecnico sono per me motivo di curiosità. Penso inoltre che sia importante, per i giovani artisti, confrontarsi con la metodologia che fu alla base della prima elettronica fin che c’è ancora, così da poter conservare un po’ di quelle sonorità nelle orecchie per la musica del futuro. Ce l’hai un album altrui che incarna perfettamente la tua concezione di musica ambient? Jon Hassell resta al top della lista. Ascoltati il suo ultimo Last Night The Moon Came Dropping Its Clothes In The Street.. un capolavoro che esprime, a mio avviso, la flebilità della bellezza in contrasto con un sottobosco di sonica sensualità. L’ho visto nella tournée promozionale.. sbalorditivo. Tangerine Dream, Eno, Schulze a parte, nomina un autore che ti ha influenzato ma che non risulti così evidente.. Sì ma, oltre a questi nomi, ti assicuro che ad avermi in-


fluenzato pesantemente è tutto il catalogo dell’etichetta tedesca Ecm. Prendo tutto in blocco, dai primi Anni ‘70 e per i successivi venticinque almeno. Roba che ascolto ancor oggi con grande piacere. Erik Satie: “C’è bisogno di creare musica ‘da mobilio’ (..) capace di mascherare il rumore di coltelli e forchette senza però cancellarli completamente”. È questo che speri per la tua opera? Ho bisogno di calarmi senza riserve nel pozzo dell’intenzione creatrice, alla scoperta di timbriche incontaminate; questa necessità presuppone una partecipazione totale con il Suono: affinché il processo giunga a completamento e la musica si ritagli una propria indipendenza è necessario concepirla a livelli differenti, anche sotto il profilo del volume; una volta si ritaglierà un suo modo

di esistere con una voce appena udibile e un’altra volta necessiterà volumi poderosi. Come vorresti suonasse Roach tra dieci anni? Vorrei continuare a schiudermi e fiorire in forme che non posso e non voglio anticiparmi. Speriamo solo di esserci ancora, vivo e vegeto. Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista? Quando ci si è guadagnati - ed è un processo difficile - il dono della vera libertà creativa, per continuare ad attingere a questa fonte immacolata è necessario non dare mai nulla per scontato. La sfida è mantenersi in vigile ascolto per rappresentare l’immagine che sta al di là del prossimo soggetto. Essere un artista ti sprona a mantenere scintillante la tua luce.

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CAMPI MAGNETICI #18

Frankie HI-NRG MC La morte dei miracoli (BMG)

Ricordiamo benissimo la première del video di Quelli che benpensano, assieme a Barbie Girl degli Aqua (truestory), in una delle primissime puntate di Volevo Salutare, trasmissione domenicale postprandiale di Linus e Albertino con Frankie ospite spesso e volentieri e che nella sigla voleva appunto salutare “prima i porno kings e poi le porno queens”. La canzone e il video ci colpirono subito. Il trucco stava tutto nel ritornello cantato da Riccardo Sinigallia e nel campione di Ice One, che aveva scovato in un pezzo di Jimmy McGriff, Blue Juice, un nanosecondo di tromba speciale, che andava rallentato e messo in loop, a creare una specie di atmosfera bernardherrmanniana da Taxi Driver, vedere appunto il video. Fuori da quel pezzo capolavoro, che nel testo metteva alla berlina - si dice così? - yuppiesmi e ipocrisie borghesi, La Morte dei Miracoli ci serve, visto che siamo dentro a Campi Magnetici, per spendere due parole su un momento in cui l’hip hop italiano stava cercando di costruire qualcosa, su più fronti. Frankie veniva dal successo underground di Fight Da Faida (1991) e Verba Manent (1993), coi quali si era proposto o comunque era stato accolto come l’alternativa intellettuale a Jovanotti da una parte e alle posse e alle cricche marce come Sangue Misto, Spaghetti Funk o Colle Der Fomento dall’altra. Frankie era una figura nuova, il rapper colto dal lessico forbito e le lyrics conscious che mancava, ad un tempo censore dei costumi e - col senno di poi - primo indie-rapper italiano (anticipatore per modi e toni di Caparezza, che infatti lo indica come maestro e che guardacaso è stato suo sodale al Tenco 2008). Frankie era rassicurante (occhio, soprattutto per il pubblico nonrap): street come un sofà, ecumenico come un concilio. Frankie e il suo rappato-parlato verboso e squadrato, ma senza mai arrivare al taglio del bisturi, giustamente definito a un certo punto “paleolitico” da Aelle, hanno finito poi per soccombere a liriche sempre più intrise di una retorica che se non adeguatamente servita dalla 102

musica è facile che diventi sterile, immobile. Ma La morte dei miracoli è un disco inattaccabile. Skit stranianti come Cubetti tricolori e Manovra a tenaglia e basi semplicemente splendide, scure e introspettive, a tratti claustrofobiche, fantasticamente anni Novanta (gli scratch di Dj Stile e dello stesso Ice One), a servire pezzi-manifesto del Frankie-pensiero come Accendimi (contro la TV cattiva maestra), Tieni giù le mani da Caino (contro la pena di morte), Il beat come anestetico (dove il rap non è stile di vita, ma esercizio di lucidità mentale ed escapismo dalla quotidianità), Autodafè (dove il peggior nemico è quello che ti trovi - huskerduianamente - ogni giorno davanti allo specchio), Cali di tensione (il pezzo più freestyle ed egotrip, dove si parla soprattutto della “scena”). In La morte dei miracoli Frankie era un rapper che diceva qualcosa in maniera personale e riconoscibile, ma soprattutto facendo buona musica. Poi un’ispirazione sempre più stitica, che ha fruttato solo 5 album in 15 anni (ma forse è stato meglio così), con singoli tremendi a segnare una specie di punto di non ritorno nella curva di Gauss della carriera: Rivoluzione, Sanremo 2008 (con la tromba di Roy Paci e il cameo rap finale di Enrico Ruggeri), ovvero il political rap - il tag è di wikipedia - sotterrato da tonnellate di qualunquismo “contro”, e School Rocks! (2011), ovvero il modo sbagliato di dire le cose giuste, di usare la comunicatività rap per mandare un messaggio - occhei - ma nella più totale noncuranza del lato estetico della faccenda, quando il focus sul contenuto, su un certo tipo di contenuti, fa andare a gambe all’aria ogni cura della forma. E si sa che il medium è il messaggio. gabriele marino


classic album

Fugazi Repeater (Dischord, Gennaio 1990)

Il primo vero LP dei Fugazi (dopo tre EP) non poteva che uscire in una data spartiacque, come il 1990. Siamo al passaggio di consegne tra due decenni di indie americano e a uno snodo cruciale della scena di Washington. Repeater rappresenta una sorta di pivot dal punto di vista artistico e critico, ma anche un momento di svolta e di collegamento tra diverse fasi creative e storiche. Più che a un ricambio tra generazioni, nella capitale si assiste a un fenomeno diverso, un rimpasto generale in cui gli stessi musicisti creano nuovi gruppi, come in questo caso. Se in principio c’erano i Minor Threat e i primi complessi del giro Dischord (i Bad Brains hanno sempre giocato a parte), l’estate del 1985 vede molti creatori del DCcore originale orientarsi verso un nuovo stile, stufi della deriva machista e della stagnazione in cui è caduto l’hardcore di Washington. Invece di salvare la vecchia scena, i protagonisti della prima stagione puntano a costruirne una nuova con presupposti totalmente differenti. Nascono gli Embrace di Ian MacKaye e salgono alla ribalta i Rites of Spring di Brendan Canty e Guy Picciotto, che sublimano l’approccio più aperto e melodico all’hardcore nella forma “confessionale” definita emocore. L’intreccio tra personale e politico e l’apertura mentale e stilistica gettano i semi della nuova formazione che MacKaye, Picciotto e Canty creano nel 1987 insieme a Joe Lally. Se infatti i Fugazi sono una band politica in senso non comune ma coerente, alla loro tanto (giustamente) decantata integrità corrisponde uno stile tutt’altro che monolitico. Le aperture dell’emocore si trasformano in un tentativo di decostruzione paragonabile a quello dei Gang Of Four o di altre formazioni new wave. Oltre a incorporare ritmi reggae e dub e soluzioni (vocali - canto “cantilenante” o declamato - e strumentali) nemmeno troppo lontane dall’hip-hop, i Fugazi scompongono l’hardcore secondo i principi di una funk band: il senso del groove, l’interscambio ritmico, l’alternanza dei ruoli ritmico/percussivi e melodici tra chitarre e basso diventano altrettanti marchi di stile del quartetto. Nello stesso modo i nostri usano l’hc come filtro per le suggestioni armonico/melodiche che arrivano dal rock underground americano: le timbriche dissonanti e

gli accordi atonali dei Sonic Youth, il rumorismo graffiante dei Big Black, e, perché no, l’intreccio tra riff potenti o dal picking forsennato e arpeggi melodici dei Dinosaur Jr, senza però i muri di distorsione e gli assoli. Le accelerazioni compatte del vecchio hardcore si evolvono in costruzioni più lunghe e complesse. Più dei riff di chitarra è il groove - per quanto spezzato e imprevedibile - il filo conduttore di una trama avvincente fatta di break strumentali, stop& go, pieni e vuoti dinamici, botta e risposta tra voci e strumenti. Le parti delle canzoni s’incastrano in modo inusuale, ma con la tendenza a risolversi in frasi di grande presa e ritornelli da cantare a squarciagola con tanto di coro. D’altra parte, pure il brano più semplice, il reggae rock a passo svelto di Merchandise, mantiene un taglio obliquo. Alla dinamica double face di tanto rock alternativo (vedi i Pixies) i Fugazi arrivano sempre con il loro stile, cioè un po’ di traverso. Repeater fotografa bene le convergenze più o meno parallele insite in tanto post-hardcore. L’obliquità ritmica, armonica e melodica si ritroverà in band della stessa scena come Girls Against Boys, Jawbox e Shudder To Think. Ma non solo. Per rendere l’idea dello spettro musicale, si possono mettere a confronto due pezzi. Da una parte Two Beats Off offre un riff quasi alla Led Zeppelin e passaggi che non sarebbero dispiaciuti neppure ai Jane’s Addiction o a un gruppo crossover. Dall’altra, il metodo compositivo dei Fugazi verrà ripreso in maniera più astratta e formale da complessi di area post-rock, June of 44 su tutti. Shut the Door adotta uno schema piano/forte che l’anno dopo sarebbe entrato nel mainstream con i Nirvana, ma la doppia dinamica, nell’uso degli armonici e nelle esplosioni quasi statiche, rimanda piuttosto a quello che avrebbero fatto, ibernandone il pathos in schemi più cerebrali, gli Slint. Da un estremo all’altro, insomma, del cosiddetto alternative. Sembrerà paradossale, ma pure se non si sono mai ufficialmente sciolti sembra difficile che i Fugazi possano “riformarsi” come molti loro colleghi. In ogni caso, ci mancano molto. Tommaso Iannini

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