Sentireascoltare n 98

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digital magazine | dicembre 2012 | n. 98

Bob mould

w

John Cale

House Is The Temptation

  alke r Sc o t t


turn on – p. 4

Mimes Of Wine   Ronin   The Soft Moon   Yousef

tune in – p. 12   John Cale

drop out – p. 16

Scott Walker   House Is The Temptation   Santo Barbaro

rearview mirror – p. 102   Bob Mould

recensioni – p. 44   gimme some inches – p. 100   classic album – p. 116


sentireascoltare

#98 dicembre Direttore Edoardo Bridda Direttore Responsabile Antonello Comunale Ufficio Stampa Alberto Lepri, Teresa Greco Coordinamento Gaspare Caliri Progetto Grafico Nicolas Campagnari Redazione Alberto Lepri, Antonello Comunale, Carlo Affatigato, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Marco Braggion, Massimo Rancati, Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia, Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco Staff Andrea Napoli, Antonio Laudazi, Antonio Pancamo Puglia, Costanza Salvi, Dario Moroldo, Diego Ballani, Eugenia Durante, Federico Pevere, Filippo Bordignon, Giancarlo Turra, Giulia Cavaliere, Giulia Antelli, Giulio Pasquali, Luca Barachetti, Marco Boscolo, Mario Ruggeri, Nino Ciglio, Stefano Gaz, Viola Barbieri Copertina Scott Walker (foto © Jamie Hawkesworth) Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)

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Canzoni che diventano memorie. La Spoon River dei Mimes Of Wine, forte di un romanticismo in parte lunare e sinistro, in parte solare ed aspro.

Mimes Of Wine Giro di Vite

La musica ha la capacità di prendersi il proprio spazio, di sottolineare un attimo, di farsi firma per un evento, un pensiero, finanche per un’opinione. La buona musica può addirittura trascendere e farsi memoria. Come Haruki Murakami che cita i Beatles in Tokyo Blues e le diverse Penny Lane, Julia, Nowhere Man più che siglare semplicemente uno stacco, un passaggio, un dialogo, si fanno sostanza stessa del libro. Canzoni che diventano memorie. Quelle di Memories For The Unseen hanno lo stesso spirito confidenziale, riservato, intimo del sussurro 4

notturno degli amanti, delle lettere sporche dal fronte, di una carezza inaspettata. E’ il Giro di Vite secondo i Mimes Of Wine, la loro Spoon River, forte di un romanticismo in alcune parti lunare e sinistro, in altre solare ed aspro. In definitiva uno spirito molto “rock”, come dovrebbe essere il rock nel 2012: tagliente, colto, pieno di una passionalità che si è persa da tempo. Come fosse una medium che parla per i suoi fantasmi, Laura Loriga si incarica di trasmettere ai posteri le opinioni degli invisibili: «l’ album raccoglie le storie di dodici


voci che ritornano per parlare a qualcuno di importante, per riaprire un momento del passato, legate da un’idea piuttosto variegata di ritorno. A volte è l’immagine di un ricordo ad essere descritta, a volte le immagini vengono inventate per dare concretezza a quello che viene detto e chiesto. In tutti i brani, chi parla tramite la mia voce, lo fa sempre dal retro della scena (per tre volte sono personaggi vivi solo nei libri), ma si tratta sempre di una presenza centrale, che guarda da molto tempo ciò di cui è parte silenziosa, mossa da un desiderio di essere infine, vista. Si tratta di dialoghi tra fantasmi veri, di battaglie, preghiere, scherzi e amori, dietro ai quali a volte mi nascondo anche io stessa.» Memories For The Unseen, secondo disco firmato Mimes Of Wine ha il carattere intimo del diario personale, enfatizzando sotto questo aspetto l’intimismo pianistico di Apocalypse Sets In. Eppure, se il merito di Laura Loriga fosse stato solo quello di buttar giù un abile secondo capitolo, non avremmo avuto una collezione di canzoni così coesa e dinamica, marchiata da quell’umore agrodolce che è ormai un trademark. Sottolineato da un parterre strumentale assai più ricco, Memories For The Unseen è la testimonianza di una musicista che si conquista il proprio spazio e diventa cosciente delle proprie capacità: «L’approccio in sé è rimasto lo stesso, ma crescendo e cambiando i miei ascolti e le esperienze fatte nei due anni che mi separano dal primo disco, i risultati si sono sicuramente a loro volta trasformati. Ho semplificato i brani per concentrarmi di più sullo sviluppare idee definite, e il concetto che li unisce mi ha guidato nel dare ad ognuno di essi il suo posto e il suo colore». In questo senso, più di una mano arriva dai musicisti che gravitano attorno alla sigla Mimes Of Wine fin dall’inizio e dal rodaggio dal vivo: «In realtà i live del disco scorso sono stati fatti con musicisti diversi e molte variazioni di formazione. Questa volta la band che ha registrato sarà anche quella al mio fianco sul palco. Tutti i suoi componenti hanno influito moltissimo sugli arrangiamenti e il suono finale dell’album: Stefano Michelotti, Luca Guglielmino, Matteo Zucconi, Riccardo Frisari, Helen Belangie. Altre due persone, il cui contributo è stato fondamentale, sono Adam Moseley (con cui ho lavorato sul mix e il master a Los Angeles) e Enzo Cimino. Quest’ultimo si è preso cura delle registrazioni e ha colto in pieno le idee che avevamo in mente per il risultato finale». La vicenda si fa poi del tutto personale. Laura ha ormai una capacità di scrittura autonoma, individuale. Le canzoni dei Mimes Of Wine hanno un respiro e uno sviluppo sufficientemente caratteristici per svincolarsi, di volta in volta, dai variegati riferimenti della stampa. Paragoni che vanno dai più ovvi come Tori Amos, Lisa Germano e PJ Harvey a quelli più strambi come Dead Can Dance e

Diamanda Galas. Interrogata sulle possibili assonanze della propria musica, Laura non si fa pregare: «E’ buffo perchè quasi mai chi fa confronti cita le cose che ascolto di più, ma è anche interessante e un buon segno, perchè altrimenti vorrebbe dire che sono una seria vittima di che quello a cui accenni, il problema di creare cose simili a quello che si sente. Quando capita di sentire l’eco di qualcosa, credo che stia a noi decidere se crediamo di poterlo fare nostro o se è meglio lasciar perdere. Mi piace molto Lisa Germano e il suo modo di scrivere sincero e forte, come mi piacciono la maggior parte degli artisti prodotti da Michael Gira e Young God Records. Non ascolto Tori Amos da moltissimi anni perciò non so dire ora se mi si sia vicina o meno, ma rimane sicuramente un complimento». I Mimes Of Wine, complice anche il tour con i Giardini di Mirò, sono destinati a marchiare a fuoco questo strano autunno 2012, che non sa decidersi se diluire i postumi di un’estate torrida o flirtare timoroso con il minaccioso inverno all’orizzonte Antonello Comunale

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La scusa è l’anteprima del nuovo video dei Ronin “Fenice”. Ottima occasione per parlare con Bruno Dorella dell’ultimo periodo della band, ma anche degli innumerevoli progetti collaterali

Ronin Narrare senza parole

La scelta di fare un video per la title track di un album dal titolo così pieno di significati non può essere casuale. In più l’idea alla base del girato di Fenice, pur essendo semplice, è anche piuttosto evocativa e adatta alla musica. Ti va di raccontarci il dietro le quinte? Il primo video tratto da Fenice è stato Selce, girato da una donna (Fatima Bianchi) che fa parte del mondo della videoart. In mezzo c’è stato il gustoso dono di Angelo Puzzutiello per Gentlemen Only, una sorta di Romanzo Criminale in chiave Roma Underground che ho gradito molto. Si trattava però di un pezzo ironico, il “divertissement” del disco. Tornando ai pezzi di matrice “epica Ronin”, Fenice è stato affidato di nuovo ad una donna (Natalia Saurin), anch’essa riconducibile al mondo della videoart. Questa duplice caratteristica (donna + videoarte) dà ai video dei Ronin una chiave di lettura veramente unica. Lungi dall’essere melensa, lontana anni luce dall’esigenza di “ritmo” e appeal del videoclip. Ecco, se qualcuno volesse capire la differenza tra videoclip e videoart applicata alla musica, potrebbe guardarsi i video di 6

Selce o Fenice, e poi guardare un qualsiasi altro videoclip. Per quanto riguarda il canovaccio di partenza, abbiamo dato a Natalia piena libertà, anche perché la mia visione estetica dell’epica dei Ronin (l’eroe sconfitto, eccetera) è piuttosto maschia e invece volevo lasciare emergere la personalità della regista. Narrare senza parole rende impegnativo decrittare il significato del video: ci si legge inquietudine, solitudine, aspettative disilluse, rimasugli del passato, su cui aleggia la costante presenza della morte. Gli archi di Manzan sul finale, insieme agli stormi di uccelli in volo libero, arricchiscono le suggestioni musicali, ma c’è sempre un forte senso di malinconia.. E’ quello che volevo: la visione dell’epica Ronin virata al femminile. L’intro è di un’angoscia quasi insostenibile, perché non ne capiamo il motivo. Quando poi ho letto che Natalia voleva girare delle immagini in un Luna Park, ho subito capito che ne avrebbe colto l’aspetto decadente. Questo vale anche per me: mettetemi a una festa e vedrete la versione più solitaria e malinconica di Bruno Dorella. La sensazione di isolamento in situazioni


di euforia collettiva mi appartiene in pieno. Infine, il volo finale abbinato agli archi di Nicola Manzan è di grande forza evocativa e il nesso narrativo con la pesca dei cigni di plastica al Luna Park è geniale. A quasi un anno dall’uscita dall’omonimo CD da cui il brano è tratto, quale credi sia il pregio maggiore dell’ultima produzione targata Ronin? La registrazione casalinga, il sapore sanguigno dei pezzi che ricade anche sul suono, l’urgenza espressiva che è stata colta da critica e pubblico. Abbiamo voluto far passare il messaggio che si trattava di un disco “vero” e sentito. Non che gli altri non lo fossero, ma la produzione patinata forse prevaricava il sentimento. Non so. Ma sono contento invece che su Fenice la gente abbia colto il messaggio. Com’è portare un disco così “difficile” - dal punto di vista dell’impegno con cui l’hai scritto e registrato e del significato che ha per l’intera esperienza Ronin in tour? Avete fatto un bel numero di date... Non so se fosse più o meno difficile degli altri. C’erano due brani che, a causa dei contributi esterni di grande spessore (la voce di Emma Tricca in It Was a Very Good Year ed i fiati di Enrico Gabrielli in Conjure Man) non potevano essere riproposti live. Ma questo è successo per ogni disco. Mi tengo sempre un paio di brani che esulano dal set chitarre-basso-batteria, ben sapendo che poi, probabilmente, non potrò riproporli dal vivo. Suonare il disco ogni sera ci ha permesso di migliorare e cementare l’unione anche col nuovo batterista Paolo Mongardi. La prima sera del tour, a Torino, mi ricordo che ero emozionatissimo. Abbiamo saputo dell’uscita di Chet dalla formazione. Il commiato dev’essere stato tra lo struggente e il cazzone, da quanto si è letto sulla vostra pagina facebook. Nel frattempo è arrivato Diego Pasini. Cambierà qualcosa nello stile del gruppo? Nel Luglio 2011, quando stavo per sciogliere il gruppo, Chet e Nicola vennero a Ravenna e mi convinsero a ripensarci. Da lì nacque Fenice. Ho deciso di ritrovarci ogni anno a Luglio, per fare un bilancio dell’annata e capire chi c’è e chi non c’è. I Ronin non devono essere un cappio per nessuno. Chet ha deciso che aveva dato e ricevuto dal gruppo quello che c’era da dare e ricevere. Siamo amici come prima e così dovrebbe essere sempre, se i rapporti sono limpidi e corretti. Gli auguro ogni bene coi Quasiviri. Diego è appena arrivato, abbiamo fatto un paio di registrazioni e un solo concerto. E’ giovane e ha una gran voglia di suonare. Ha portato nel gruppo una bella energia e una sana dose di tensione propedeutica. Ovo, Ronin, Bachi da Pietra sono i progetti che ti vedono impegnato attualmente. Cosa ti piace di ognu-

no di essi e come cambia il tuo approccio - in termini strettamente musicali ma anche di attitudine - passando da una formazione all’altra? Cambia tutto in ogni gruppo: genere, strumento, attitudine. Negli OvO suono la batteria, il genere è in qualche modo riconducibile al noise-rock, io e Stefania Pedretti ci dividiamo equamente le responsabilità compositive e organizzative. Nei Ronin suono la chitarra, scrivo io i pezzi e dirigo il gruppo e il genere è strumentale/cinematografico. Nei Bachi da pietra scrive e dirige Giovanni Succi, io suono la batteria in un ruolo di gregario d’oro che mi piace molto e il genere è più o meno affine alla canzone. Come vedi è tutto molto diverso, non corro il rischio di mischiare troppo o confondermi.... Ultimamente il tuo alter ego nei Bachi da Pietra, Giovanni Succi, ha lavorato sul progetto La Morte con Rico di Uochi Toki. Come lo giudichi? Che ti pare del suo impegno nell’ambito dei reading inaugurato con Il Conte di Kevenhüller? A me sembra straordinario. In questo momento sono davvero pochi in Italia a scrivere e leggere con la sua intensità, nel mondo della musica. Il Conte di Kevenhüller mi ha coinvolto oltre ogni aspettativa, tanto che ora sto seguendo il blog (caproni.org) come se fosse un’avvincente serie TV. Ho visto La Morte Dal Vivo al suo esordio, pochi giorni fa, e ne sono entusiasta, sono riusciti ad inventarsi un modo convincente di affrontare la lettura in musica, ed hanno margini di miglioramento tali che non mi stupirei se diventassero un “caso” nazionale. Se poi aggiungi che Rico Uochi Toki è anche il fonico degli OvO dal vivo, ecco che le mie sorti sono legate a doppio filo a La Morte. Ma non pensare che il mio giudizio su di essa sia ammorbidito da ciò, anzi... Sono severo censore di Rico e Giovanni, e loro lo sono per me. Ci diciamo sempre cosa ci piace e cosa no di quello che facciamo, è il modo migliore di aiutarsi a vicenda. Domanda inevitabile e certamente fuori tema, considerato l’argomento principale di questa intervista: puoi darci qualche anticipazione sul nuovo disco dei Bachi da Pietra in uscita a Gennaio 2013? Sarà un disco hard rock. Non scherzo. Fabrizio Zampighi, Stefano Pifferi

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Arriva Halloween e puntualmente torna The Soft Moon, questa volta con il secondo LP, Zeros. Nell’intervista esclusiva ci racconta l’evoluzione del progetto e del processo creativo, la collaborazione con John Foxx ed i retroscena dello scorso tour in Italia...

The Soft Moon Adult, focused darkness

The Soft Moon è nato come progetto estremamente introspettivo. A livello di registrazione, hai fatto nuovamente più o meno tutto per conto tuo anche per il nuovo album, Zeros? O questa volta hai preferito spostarti dalla tua “cameretta” allo studio? Ho scelto di scrivere anche il grosso di Zeros per conto mio e a porte chiuse, eppure questa volta ho finito per portare tutto il materiale che avevo registrato e prodotto (a metà) in uno studio professionale per espanderlo ulteriormente. The Soft Moon resta un progetto intro8

spettivo e sempre lo sarà, in quanto le mie intenzioni sono tuttora quelle di guardarmi dentro per ragioni terapeutiche, così come di esprimere la mia creatività e le mie sensazioni. Che diresti della tua nuova musica? Dalle due canzoni di lancio, Die Life e Insides, mi è parso che dal punto di vista sonico tu abbia voluto prenderti un altro disco per portare ancora avanti il tuo discorso. Ma qualcosa è cambiato in termini di mood o punto di vista magari?


Credo la differenza principale sia che Zeros tratta di prospettive della vita attraverso gli occhi e le orecchie del me stesso adulto, mentre invece il primo disco puntava alla riscoperta dell’infanzia che mi sembrava di avere rimosso, oscurato. Approcciarmi a Zeros come adulto mi ha portato ad essere molto più focalizzato e preciso. Ho sentito di avere molto più controllo che in precedenza nello sviluppo di questo disco ed allo stesso tempo di poter continuare a lasciare che le cose semplicemente venissero da sè. Hai collaborato con l’ex-cantante degli Ultravox John Foxx e la sua band, the Maths, per il 7” Evidence che è uscito sempre per Captured Tracks lo scorso giugno. Come sei finito a lavorare con lui? Come è stato? Che hai ricevuto da questa collab in termini di esperienza/trucchi del mestiere? John Foxx mi ha contattato un paio d’anni fa proponendomi una possibile collaborazione. Tutt’oggi non so bene come avesse scoperto The Soft Moon. In ogni caso, poco dopo che mi contattò, io e la band avevamo uno show fissato a Londra, così lo misi in lista per discuterne nel backstage. Pochi mesi dopo il nostro incontro mi mandò qualcosa su cui lavorare: una sequenza interessantissima che aveva creato usando uno dei miei sintetizzatori preferiti, l’Arp Odyssey. Dal canto mio, avendo amato alla follia il suo primo album, ho deciso di spingere in quella direzione, sperando di echeggiare un qualche tipo di nostalgia per entrambi e allo stesso tempo di creare qualcosa di fresco. Dopo una serie di back and forth di rispettive idée siamo alla fine arrivati ad aver per le mani un pezzo incredibile. Ciò che ho guadagnato da questa esperienza è stata la realizzazione di non essere poi davvero il lupo solitario che pensavo e quindi effettivamente di poter lavorar bene con altre persone. Ho notato che il nuovo album uscirà il giorno prima di Halloween, esattamente come fu per l’EP dello scorso anno, Total Decay. Questo non è altrettanto valido per il tuo s/t del 2010 ma immagino possa magari essere perchè all’epoca non avevi lo stesso controllo del tuo progetto che puoi vantare ora. Per cui ti chiedo: è una sorta di via figurata che ti sei scelto per incanalare e rilasciare le atmosfere tetre, l’oscurità e le paure che stanno in piedi con la tua musica dove popolarmente appergono? Total Decay doveva in realtà uscire esattamente per Halloween. Per qualche ragione non ho preso l’EP tanto seriamente quanto i full-lenght ed è per questo che mi è stato bene venisse rilasciato in corrispondenza di tale festività, mentre in un’altra situazione tale mossa mi avrebbe fatto sentire piuttosto “fasullo”. In ogni caso per quella release il timing era corretto e mi sembrò una

buona idea. Il fatto che Zeros esca in data similare è una coincidenza. La scelta riguarda piuttosto il lanciarlo in autunno, in quanto sento le sue sonorità come particolarmente adatte per questa stagione. Ma hai ragione: ironicamente [quella delle uscite sotto Halloween] potrebbe diventare una vera e propria tradizione per The Soft Moon. Parlando di touring, dobbiamo onestamente ammettere che il tuo concerto dello scorso anno a Bologna fu ben lungi dall’essere pubblicizzato a dovere. È andato così male in termini di risposta del pubblico da averti convinto a saltare a piedi pari l’Italia nella tua prossima tour-leg europea? O hai in programma di tornare comunque presto a farci visita? A dir la verità, quella data mi piacque molto e anzi finì per diventare uno dei miei personali highlight di quel tour. L’affluenza è stata persino migliore di quanto mi aspettassi, considerando che prima di allora non avevo mai sentito parlare di Bologna. Inoltre, nonostante sia vero che i sold-out si fecero a Milano e Roma, fu effettivamente in occasione di quella performance che ho percepito la connessione più forte col pubblico. Sarò di ritorno in Italia a Marzo 2013! Massimo Rancati,

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L’intervista esclusiva al leader di uno dei club più importanti al mondo, il Circus di Liverpool. Arrivato al suo secondo album, Yousef vuol andare oltre la consolle.

Yousef The Importance Of Being (more than) a DJ

Ha compiuto a Settembre 10 anni di gloriosa attività, il Circus Club di Liverpool, e non vogliamo immaginare cosa devono essere stati i festeggiamenti con dietro la consolle Sasha, Seth Troxler, Maceo Plex, David Squillace e Lewis Boardman. Ovviamente c’era anche lui, Yousef, il fondatore del club, il responsabile del prestigio degli eventi Circus, che negli anni passati hanno ospitato nomi come Laurent Garnier, Luciano, Richie Hawtin, Ricardo Villalobos, Sven Vath, Carl Cox e avviato le carriere DJ degli allora giovanissimi Jamie Jones, Seth Troxler e Loco Dice. Era dietro alla consolle, preso come sempre a offrire al pubblico il più elettrizzante evento house di cui è capace, ma alemo una volta la sua mente sarà andata al suo nuovo album A Product Of Your Environment, al suo sottile smarcamento dalla dimensione club e alle recenti, nuove ambizioni di producer. Una differenza che si nota, se rapportata al primo A Collection Of Scars And Situations. Se quello era l’album fatto per il suo pubblico, che raccoglieva pezzi già noti ai frequentatori del club, il nuovo album ha voglia di offrire anche una differente prospettiva d’ascolto. Accanto a hit da dancefloor come Think Twice o In Fear Of Dusk, che restano comunque il marchio di fedeltà del producer britannico, compaiono anche pezzi più lenti e densi di suggestioni esotiche come What Is Revolution o una prova di coraggio dall’ambizione pop come I See, arricchita dalla sezione cantata di Chari Taft. Anche Yousef, insomma, vuole un orizzonte più ampio del solo ambiente club, ambizione che prima o poi coinvolge tutti i DJ dotati di capacità di producing. L’obiettivo, come dice lui stesso, è invogliare la gente ad ascoltare ed apprezzare l’album anche in cuffia, una mossa importante anche quando non riesce alla perfezione, volta ad evolvere un rapporto consolidato DJpubblico oltre la pista e trasformarlo in un legame più profondo e affezionato. È per questo che Yousef appare così entusiasta nell’intervista che segue: sta scoprendo di essere qualcosa in più che solo un DJ, e vedere che sono in molti ad accorgersene significa che sta andando nella giusta direzione. 10


Ciao Yousef,parlaci dello spirito di A Product Of Your Environment e di come si differenzi rispetto all’album precedente. Il nuovo album era pensato come produzione in studio fin dall’inizio, mentre l’altro alla fine era una serie di tracce precedenti messe insieme. A Product Of Your Evnironment vuole raccontare una storia, essere ascoltato dall’inizio alla fine. Ha molti momenti club ma è più che una serie di tracce da dancefloor, ho voluto mettermi alla prova lato house e techno, coinvolgendo anche elementi live. Possiamo dire che il nuovo album ha un maggiore appeal d’ascolto? Penso a tracce come What Is Revolution o I See... Sì, l’idea era quella, farmi conoscere anche come producer e artista, non solo come DJ. Sono sempre un DJ prima di tutto, ma so bene che tanti album fatti dai DJ si finisce per non ascoltarli mai fino alla fine. Mi sono sforzato di fare un lavoro che vale il tempo speso dall’ascoltatore, e poi magari dopo l’ascolto il DJ può tirar fuori le tracce più forti per il club. Il progetto è in equilibrio tra l’ascolto in casa o in macchina e i momenti in pista. Pezzi come Feel The Same Thing, For The Terraces, In Fear Of Dusk son già finite nei set di Marco Carola, Loco Dice, Carl Cox, Magda, Nic Fanciulli e altri. Cosa si aspetta la gente da un album del leader del Circus? Ti senti forzato a far musica che rifletta le notti nel club, o sei libero di provare quello che vuoi? Al Circus c’è sempre house e techno di qualità, chiamiamo i migliori DJ ma li incoraggiamo anche a prendere iniziativa e mettere nuova musica. Come DJ e come capo del Circus ovviamente voglio sempre spaccare nel dancefloor, ma stavolta ho voluto spingermi oltre. Molti dei pezzi dell’album sono già degli inni al Circus, intendiamoci, ma l’album è pensato come qualcosa in più della semplice dimensione club, ho voluto una maggiore libertà. In quest’album ho sentito suoni meno urbani. Qualcosa di più jazzy, esotico, come serate estive ballando in spiaggia. È il tuo modo di evadere? Grazie. Ascolto ogni tipo di musica e ho viaggato molto quindi sono aperto a ogni influenza. Mi piace pensare che la musica porti l’ascoltatore alla deriva e lo spinga ad ascoltare le melodie e i testi (che scrivo anch’io da me). Ogni traccia è una storia che ho voluto raccontare. Quest’album mette in mostra tutte le potenzialità della house: la melodia, l’immaginazione, il movimento, l’orientamento pop, il clubbing... esiste uno stile più flessibile di questo? Grazie di nuovo, son contento che tu abbia compreso

cosa ho tentato di fare. È stato un progetto molto personale, per me. I pezzi sono mixati in modo da suonare gentili all’orecchio e forti nel club. Concordo, la house è molto flessibile. Dicono che la house è musica di sensazione e se sono riuscito a infondere sensazioni alla gente, allora posso ritenermi soddisfatto. Il tuo club ha celebrato da poco dieci anni di attività. Com’è stata la festa? Sì, è stato un viaggio folle. Dagli inizi umili al diventare club UK dell’anno a ospitare il 500esimo Essential mix party di BBC Radio. Ormai abbiamo chiamato chiunque, Hawtin, Cox, Villalobos, Carola, offerto a DJ come Loco Dice e David Squillace i loro primi concerti in UK, ospitato gente sconosciuta come Seth Troxler e Jamie Jones nei loro primi set di riscaldamento tanti anni fa. Cerchiamo sempre di fare il party più divertente possibile. Il sabato del nostro decimo compleanno è stato incredibile, Seth, Sasha, Davide, Maceo Plex e ovviamente anch’io. È bellissimo aver raggiunto dieci anni. Quali sono i tuoi producer preferiti al momento? Ci son molti stili che apprezzo, Maceo Plex, Davide Squillace, Nicole Mouderber, Just Be, Tom Flynn, Lewis Boardman, Dj Sneak, Hot Since 82, Butch, etichette come Cadenza, Desolat, Intec, Ellum Audio e Cecille. Chiunque produca un buon sound, la cui music sia interessante, abbia sentimento, spacchi in pista e sia più originale possibile. Prossimi obiettivi? Sto già lavorando ad alcune tracce per clubbing. Più tagliate del mio album, studiate per far ballare e stare bene. Ne ho già pronte 5, le farò uscire dopo l’album. Continuo a organizzare eventi Circus a Liverpool, Londra e New York e penso ancora di allargare il raggio d’azione (forse Italia?). L’etichetta Circus è presa a bloccare nuovi talenti. Sono sempre al lavoro e in viaggio. Ora comincia anche il tour dell’album, America, Sud America, Asia, Australia e un’infinità di concerti in Europa. Il DJing è la mia passione, e così anche far musica. Carlo Affatigato

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John Cale Le shifty adventures di un giovane settantenne Un nuovo album, una ristampa celebrativa del debutto dei Velvet Underground, un imminente tributo live a Nico a Brooklyn e altri ottimi motivi per parlare oggi dell’eclettico pioniere del rock

testo: Alessandro Liccardo

Ci sono molti buoni motivi per tornare a parlare, nel 2012, di mr. John Davies Cale. Certo, questo è l’anno della riedizione celebrativa (anche in veste super deluxe) di The Velvet Underground and Nico, ma anche quello che segna il suo ritorno discografico - anticipato lo scorso anno dall’Ep Extra Playful, primo tassello della collaborazione con l’etichetta Domino - con l’album Shifty Adventures In Nookie Wood. I più fortunati lo vedranno anche alla BAM Howard Gilman Opera House di Brooklyn, il prossimo gennaio, alle prese con Life Along the Borderline: A Tribute To Nico insieme ad altri ospiti e con la rivisitazione integrale del già riproposto Paris, 1919 (ancora oggi tra i suoi lavori più accessibili), che festeggerà quaranta primavere. Shifty Adventures in Nookie Wood, dicevamo. In Inghilterra possono vederci un riferimento allusivo all’amplesso (“Do you wanna have some nookie?” sembra sia un’espressione che lascia poco spazio all’immaginazione), eppure il senso del titolo è più complesso, tetro e stravagante: l’ispirazione arriva nientemeno che dal Giappone, dalla foresta Aokigahara (“Il mare degli

alberi”), resa famosa nei primi anni Sessanta da Seicho Matsumoto e celebre ancora oggi in tutto il mondo per l’incredibile tasso di suicidi (si parla di una media di trenta all’anno) che si verificano da quelle parti. Nato nel Galles ma arrivato a New York a ventun anni, Cale attirò le attenzioni di Aaron Copland e fu attivo nell’avanguardia prima di fondare insieme a Lou Reed (col quale si è ricongiunto tanti anni più tardi per Songs For Drella) una delle band più influenti di tutti i tempi. Sebbene di solito si associ l’immagine ad altri artisti come David Bowie e Madonna, quella del “camaleonte” gli si addice particolarmente: se Paris, 1919 è la sua visione del chamber pop, è anche vero che si deve a lui la produzione del debutto proto-punk degli Stooges datato 1969 e di Horses di Patti Smith, tanto per citare due dischi passati alla storia. Amante del rischio, delle novità, ci ha insegnato come anche il suono della viola può “dronare” e, prima di Jeff Buckley, k.d. lang e un’infinità di colleghi che l’hanno aggiunta al proprio repertorio, ha riconosciuto la bellezza di Hallelujah di Leonard Cohen, che interpretò per il tribute album I’m 13


Your Fan. La recente, interessante compilation Conflict & Catalysis: Productions & Arrangements 1966-2006 ben incapsula il suo ampio e variegato curriculum artistico (tra i suoi partner di lusso ci sono i Modern Lovers, gli Squeeze, gli Happy Mondays e i Jesus Lizards); dopo esserre sempre stato avanti nelle intuizioni, negli anni Novanta si è crogiolato un po’ con artisti-simbolo della new wave del decennio precedente come Siouxsie (The Rapture) e Marc Almond (è lui a suonare il piano in Love To Die For e Come In Sweet Assassin, quest’ultimo uno dei pochi momenti davvero riusciti nel farraginoso Fantastic Star dell’ex cantante dei Soft Cell). Ora ci racconta che la sua passione è l’hip-hop - cita Erykah Badu, Dr. Dre, Eminem - ma è difficile non intuire che nella sua proposta c’è anche molta nu-new wave. Nookie Wood è un disco di contrasti, mescola mood diversi, con coraggio e il più delle volte con successo. Per il precedente blackAcetate del 2005 John Cale compose le canzoni al piano e alla chitarra, ma stavolta - racconta - ha scelto un approccio meno ortodosso. C’è molto studio, ma anche molta improvvisazione (Cale qui suona quasi tutti gli strumenti). C’è l’AutoTune che fa capolino, per esempio, in December Rain (più Pet Shop Boys dei Pet Shop Boys stessi!). Poi c’è Danger Mouse (Gnarls Barkley, ma anche i Broken Bells con James Mercer degli Shins), già all’opera con i Black Keys, Norah Jones (Little Broken Hearts), i Gorillaz e Beck, che si diverte in una jam session con l’eterno ragazzo settantenne dal ciuffo improbabile. John Cale non ama parlare del proprio passato (“lo rivisito giusto quando devo creare setlist per i miei concerti”), ma a ripercorrerlo oggi ci pensano, con riverenza, artisti come Agnes Obel (che ha riletto Close Watch per Philharmonics) e gli Awesome New Republic (Fear Is A Man’s Best Friend). L’artista ha smesso da tempo di assumere droghe (quella più forte adesso, rivela, è il caffè) ma non ha perso la voglia di stupire, di stare attento alla nuova musica che lo circonda, perfettamente sintonizzato con gli umori del nostro tempo (già in Hobosapiens del 2003 si respirava aria di Beta Band, Elbow e Radiohead). Com’è nato questo nuovo lavoro? C’è qualcosa di radicalmente nuovo, in termini di produzione e soprattutto di songwriting, rispetto a quanto già inciso negli ultimi dieci anni? Sì, spero lo si possa avvertire chiaramente. E’ quello che cerco di fare ogni volta, creare qualcosa di totalmente nuovo, perché non mi piace ripetermi quando compongo nuova musica. L’elemento dell’electronica è molto importante - non ho scritto i nuovi brani al piano o alla 14

chitarra, stavolta; spesso si è partiti da una linea di basso, dalla batteria, da un hook. Quando entri in studio hai già qualche idea o molto nasce durante le jam session? Mi riferisco in particolare al brano con Danger Mouse, I Wanna Talk 2 U.. Con Danger Mouse è nato tutto esattamente così, improvvisando, sviluppando un’idea strada facendo. Un processo compositivo bottom-up, come potremmo definirlo. Ho ascoltato Shifty Adventures In Nookie Wood e lo trovo straordinariamente vicino alla nu-new wave che abbiamo ascoltato nel corso del decennio precedente. Questo lo rende classico e, allo stesso tempo, “fresco”. Che tipo di musica ascolti oggi? Quale ti influenza di più? Dunque.. direi Dr. Dre.. mi piace molto Eminem, per come stende i propri testi, delle vere storie “estese”. C’è molta black music tra i miei ascolti, è un qualcosa che ho cercato di fare mio (lo si può notare nel brano Vampire Cafe..). Mi piacciono molto certe tracce ritmiche sloppy, ecco. Nell’era del digitale sembra tutto più semplice, ma c’è ancora spazio per l’inusuale: ho scritto la parte del piano di Face To The Sky sull’iPad, che però non ha configurazione Midi.. C’è molta elettronica in questo disco, ma non sostituisce del tutto gli altri strumenti. Semmai li completa: il batterista (Michael Jerome Moore, ndr) ha il proprio spazio nella scena sonora. Spesso quando pensiamo a John Cale ci viene in mente il musicista sperimentatore, avanguardista. Eppure qui emerge molto il tuo lato di storyteller.. Anche di vero e proprio “commentatore sociale”, per esempio in Mary in cui affronti con delicatezza il tema del bullismo omofobico, ahimé sempre attuale. È sempre stato così. Non interessa cosa fai: sei sempre, inevitabilmente, un commentatore sociale. Poi chiaro, cantautore “di protesta” non lo sono stato mai, però di tanto in tanto sento il bisogno di dire la mia su argomenti che ritengo importanti. Come scegli i pezzi per i tuoi concerti? Non ho una regola precisa, tutto dipende da come si inseriscono nel contesto - specie se il set contiene moltissimo nuovo materiale. Anche come dispongo i brani in scaletta dipende dal mood e da cosa voglio trasmettere al pubblico - quindi con quale pezzo partire, quali inserire a metà e quali eseguire in chiusura. Recentemente hai suonato dal vivo a Chicago insie-


me ad artisti come Bobby Womack e Zola Jesus. Trovo interessante che quest’ultima richiami Siouxsie e Patti Smith, due artiste rock con una personalità molto forte con cui hai lavorato nel corso della tua carriera. Come vedi, oggi, il ruolo delle donne nel rock e nel cantautorato? Trovo che Zola sia fantastica! Le donne oggi sono più presenti che in passato, emergono ottimi talenti, il loro ruolo è più forte, più energico. Tutto questo non può che essere positivo. Pochi mesi fa è uscito un documentario nel Regno Unito, Last Shop Standing, sul boom e sull’attuale crisi dei record shop indipendenti. Se da una parte notiamo che sempre meno persone acquistano cd nei negozi, dall’altra c’è il grande ritorno del vinile. Che ne pensi? Non so.. oggi esce un disco, si fa il CD, il vinile, poi ci sono i download... a me tutte queste edizioni sembrano il più delle volte strategie volte a confondere l’attenzione della gente. Però ritengo ancora importante il ruolo dei record shop indipendenti: non solo sono luoghi in

cui è ancora possibile confrontarsi con appassionati, ma c’è un legame speciale tra questi e le band emergenti che giungono, per esempio, a proporre il loro primo Ep.. Quest’anno abbiamo celebrato il centenario della nascita di John Cage. Un tuo ricordo particolare del maestro? Di Cage ricorderò sempre l’approccio peculiare alla performance, mai eguagliato dai suoi epigoni. Va fatta attenzione ai suoi Pieces, al modo in cui sono organizzati. John, inoltre, non era proprio il tipo di persona cui si poteva dare ordini. Ti vedremo dal vivo in Italia? È ancora tutto da definire. Penso che ci vedremo nel 2013.

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Scott Wa La parabola artistica di un genio musicale contemporaneo che si spinge continuamente al di lĂ dei propri limiti. Un outsider assoluto e una indiscutibile lezione di stile. Testo: Teresa Greco 16


t alker Antistar

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Due flash, in ordine sparso. Q Awards 2003, apparizione assolutamente rara: uno Scott Walker spaurito, dimesso ma dall’inarrivabile carisma riceve un premio speciale alla carriera dalle mani del fan Jarvis Cocker, pronunciando un brevissimo ringraziamento, contornato per la maggior parte da stelline in una scontata fiera delle vanità. 8 gennaio 1997, in occasione del suo cinquantesimo compleanno in diretta alla BBC, David Bowie viene omaggiato da una serie di discepoli-fan, tra i quali Brett Anderson, Damon Albarn e Bono. Sicuramente inaspettata è la telefonata di Scott: “Come tutti, anch’io allora vorrei ringraziarti per quello che hai fatto in questi anni, in particolar modo per la generosità d’animo che hai mostrato verso i tuoi colleghi. Ne sono stato il beneficiario in più di una occasione, lasciatelo dire”. La commovente dedica del maestro all’allievo testimonia dei rapporti di stima profondi tra i due e di come in verità quanto detto da Walker al Duca Bianco valga in realtà per se stesso, assoluto pioniere e ispiratore negli anni per decine di artisti, che da un certo punto in poi della sua carriera gli hanno riconosciuto i meriti dovuti. Si veda anche a questo proposito il documentario di Stephen Kijak uscito nel 2006, Scott Walker 30 Century Man, con le sue numerose testimonianze, da Brian Eno a Bowie, dai Radiohead a Johnny Marr, da Neil Hannon dei Divine Comedy a Simon Raymonde (Cocteau Twins) fino a Jarvis e Marc Almond. Antistar per eccellenza, l’artista americano ha l’assoluto merito di avere una carriera qualitativamente straordinaria che dura ormai da diversi decenni, di essere sopravvissuto a fama e celebrità giovanili negli anni ‘60 con la gabbia dorata dei Walker Brothers, sorta di risposta ai Beatles nonché in un certo senso precursori raffinati delle boy-band che sarebbero venute, di aver avuto il coraggio di annullarsi e ripartire più volte e di aver intrapreso, a un certo punto della carriera sin da metà ‘80, un percorso “altro” di musica sperimentale coraggioso e inarrivabile, da outsider al di fuori di mode e visibilità, per andare continuamente al di là dei propri limiti, perseguendo in tal modo un disegno coerente e alto. E riuscendo in pieno a scomparire progressiva-

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mente come persona pubblica, per rifondarsi ed esprimersi artisticamente al meglio.

Walk e r fa m e Ovvero come un ragazzo di Hamilton, Ohio riesce ad arrivare a Londra negli anni Sessanta con la deflagrante esplosione pop dei Walker Brothers. Il ragazzo in questione nasce il 9 gennaio 1943 come Noel Scott Engel da una famiglia benestante di origine tedesca, figlio unico di una coppia che non durerà a lungo. Il nomadismo, l’essere solitario per natura e a quanto pare una vena ribelle caratterizzerà la sua infanzia, fino al trasferimento da Dallas a New York, dove avviene l’incontro con la musica, che lo segnerà. Ha meno di dodici anni quando accompagna un amico per un’audizione e viene scelto lui, nella più classica delle circostanze. Si ritrova così ad avere una parte, faccia d’angelo dai biondi capelli, nel musical Pipedream di Rodgers & Hammerstein; vi partecipa per un anno e mezzo non troppo volentieri e questo gli consente l’ingresso nello show biz. Scotty Engel, “baritono da Denver” come viene ormai presentato, ha per modelli Elvis Presley e Frankie Lymon ed esordisce nel ‘57 per la RKO con il 45 When Is A Boy A Man / Steady As A Rock, a cui seguirà altro materiale abbastanza trascurabile in stile rockabilly e doo-wop, cantato con una voce da adolescente che non è ancora quella che ben si conosce. Si trasferisce a Los Angeles nel ‘59 dove però non va come previsto e qui conosce precocemente le delusioni di una mancata affermazione. A poco più di 18 anni comincia intanto a prendere forma il suo gusto estetico ed intellettuale, fatto di fascinazione per l’Europa, a base di Federico Fellini, Ingmar Bergman, Jean-Paul Sartre, Albert Camus. Ci riprova allora con il contrabbasso, abbandonando per il momento il canto, diventando un ricercato sessionman, per poi continuare facendosi le ossa nell’ambiente. Più o meno a questo punto incontra un certo John Maus, biondo chitarrista californiano che avrebbe impartito, secondo la leggenda, lezioni a un giovanissimo Carl Wilson. Scott entra come bassista nella sua band, Walker Family, che dopo la fuoriuscita della sorella di John, Judy, prende il nome di Walker Brothers. Non sono ancora quei Walker Brothers, canta John e perlopiù fanno i sessionmen. Nel giro di un anno si esibiscono nel giro che conta e ottengono alla fine del ‘64 un contratto con la Mercury, per cui pubblicano un deludente singolo di debutto, Pretty Girls Everywhere (cover di una hit r’n’b del ‘58 di Eugene Church); intanto Scott ha sviluppato una passione per crooner quali Frank Sinatra e Tony Bennett. L’occasione giusta arriva al secondo singolo su Mercury, Love Her (firmato Mann / Weil), la cui produzione va ai veterani Nick Venet e Jack Nitzche; trattasi di superballad per la cui voce non va bene quella di John, ed ecco come nascono i veri Walker Brothers con la voce caldissima di Scott. Il pezzo ha il wall of sound spectoriano, le armonie al loro posto e finalmente la formula adatta. E di lì a non molto progettano una British Invasion, emigrando a Londra nel febbraio ‘65. L’idea è del nuovo batterista, Gary Leeds, un breve passaggio negli Standells, del quale più che le doti musicali (non partecipò a nessuna incisione del gruppo negli anni ‘60 e dal vivo era doppiato..) contano quelle organizzative. L’idea è quella di far diventare i Walkers più famosi dei Beatles e con questo progetto in mente tentano la strada d’oltreoceano. Ci riescono di lì a non molto, raggiungendo il #1 con il terzo singolo, Make It Easy On Yourself (Bacharach / David). Ed è Walkermania, con il personaggio 19


misterioso e fascinoso di Scott, biondo e occhiali scuri, esistenzialista ed europeo ma dal caldo crooning americano, ed intorno l’industria del pop aureo degli anni ‘60, con grandi autori, arrangiatori ed interpreti. Trattasi di ballad melodrammatiche, perlopiù, come My Ship Is Coming In e The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore, che fece strage di classifiche nell’estate ‘66. Il bilancio è di tre LP realizzati in tre anni più alcuni singoli, la cui qualità è variegata, che hanno dietro Scott soprattutto dal punto di vista artistico, insieme al produttore Johnny Franz e ad arrangiatori come Ivor Raymonde (il papà di Simon dei Cocteau Twins e della Bella Union) e Reg Guest (gli stessi dietro a Dusty Springfield). Take It Easy With The Walker Brothers (Philips, 1965) è il debutto sulla lunga distanza, una sorta di versione più lucidata del wall of sound spectoriano; Portrait (Philips, 1966) è più drammatico e lascia spazio ai singoli membri, Scott con Saturday’s Child (una sorta di River Deep Mountain High) e Where’s The Girl di Leiber / Stoller; seguono alcune sue ottime b-side, come Archangel e Mrs. Murphy. Scott comincia intanto a stare sempre più per conto suo distaccandosi dagli eccessi da popstar degli altri Walkers. E prendendone sideralmente le distanze. Come si evince in Images (Philips, 1967) ultimo disco dei “fratelli”, dove i suoi pezzi svettano: la drammatica Orpheus, la stramba Experience e la romantica Genevieve. L’esperienza Walker Brothers è ormai agli sgoccioli, poco successo dei singoli e le ambizioni di John verso una carriera solista fanno il resto.

Fou r s olo s 1967, 1968, 1969: sono i tre anni che vedono l’uscita dei primi quattro dischi solisti del Nostro e il suo affermarsi come songwriter raffinato; da un lato il lascito “commerciale” dei Walkers e il personaggio, l’idolo delle ragazzine, dall’altro l’emergere della personalità poliedrica di Scott, il decadente interprete 20


dello chansonnier francese Jacques Brel nelle empatiche traduzioni inglesi di Mort Shuman, e infine l’intellettuale curiosissimo che divora classica, avanguardia, letteratura e cinema. E tutto va allora a confluire nella produzione di questi anni. Il primo Scott (Philips, 1967) viene premiato commercialmente da un terzo posto in classifica e vede la presenza di una serie di cover di Brel, la drammatica Mathilde e le siderali My Death e Amsterdam, verso le quali Bowie si rivolgerà presto, nonché Jackie. Non mancano le originali di qualità, come la Montague Terrace (In Blue), song orchestrale e alcune canzoni più vicine a un gusto popolare. Il successivo Scott 2 (Philips, 1968) finisce al primo posto delle classifiche, trainato dal singolo abbastanza facile Joanna, mentre si segnala un gioiellino del calibro della psichedelica Plastic Palace People. È a questo punto che, al culmine della popolarità, la BBC gli offre una serie TV: possiamo solo immaginare come fossero andati quei sei episodi trasmessi , non essendone rimasto niente, a causa del riutilizzo dei nastri. Certo è che il suo desiderio di privacy mal si concilia, con il passare del tempo, con le esigenze del music biz, come si sarebbe visto di lì a poco. Il seguente Scott 3 (Philips, 1969) è quasi tutto suo, a parte tre cover breliane in coda (Sons Of, Funeral Tango e If You Go Away); un preludio di quello che sarebbe stato il sublime Scott 4, il terzo Scott ha dalla sua un’unità di stile che va verso il lirismo, si vedano gli arrangiamenti di Wally Stott. Con tocchi dissonanti che preannunciano un futuro prossimo a venire. Copenhagen, Rosemary, Two Ragged Soldiers ma anche Big Louise, It’s Raining Today. Ottiene un terzo posto in classifica, mentre di lì a poco esce anche Scott - Scott Walker Sing Songs From His Tv Series (Philips, 1969), un estratto di alcuni standard presentati nello show TV. Si avverte lo stridore con la produzione corrente, dato che trattasi di Walker virato mainstream. E a questo punto la scelta si fa radicale: abbandonata la sua identità, il seguente Scott 4 (Philips, 1969) è pubblicato a nome di Noel Scott Engel. Solo pezzi originali per questo capolavoro siderale: lirico e drammatico, malinconico e umorale, mescola love songs tinte di folk, rock e perfino country, in cui si respira davvero un’aria rarefatta e impalpabile; le ispirazioni sono palesi e vanno da Albert Camus, citato in copertina a Ingmar Bergman, il cui Settimo Sigillo diventa una canzone (The Seventh Seal), fino a Ennio Morricone e in generale a tutta la musica sin lì espressa, che sia Brel o il crooning classico che adorava o Phil Spector o Burt Bacharach o la musica contemporanea. Tutto è filtrato secondo il suo gusto alto e reso proprio. Dieci pezzi ineguagliabili da ascoltare di seguito. Perdendosi. Non c’è troppo da stupirsi però se questa perfezionenon fosse da classifica, infatti Scott 4 non vi entrò, anzi fu accompagnato da recensioni alquanto negative.

Lo st. . E allora Scott ne prende atto, ritorna al vecchio nome e ci riprova ancora con la Philips. Che impone un album bizzarro come ‘Til The Band Comes In (Philips, 1970), con originali, co-firmati dal nuovo manager Ady Semel, e cover; risultato altalenante con qualche chicca (Prologue / Little Things, la title track e The War Is Over) che il pubblico ignora completamente. Decide di scomparire per qualche anno, dal ‘71 al ‘75, non senza aver tenuto fede agli impegni presi con la casa discografica. Escono The Moviegoer (Philips, 1972) e Any Day Now (Philips, 1973), il primo una selezione di musica da film, il secondo una serie di pezzi leggeri, musica senza infamia né lode 21


cantata in modo scialbo. Amen. Si avvicina allora alla CBS e ancora una volta la speranza di poter incidere la sua musica svanisce: Stretch (CBS, 1973) e We Had It All (CBS, 1974) sono album country & western oggi disponibili in una ristampa unica, del tutto privi di mordente. Un’altra fase sta per chiudersi su un presente meditabondo, con un effetto sorpresa ..

The Elec t r i c ia n Il passo successivo, il comeback dei tre “fratelli” Walker, sembra il tentativo ultimo di riacciuffare un treno perduto, e in fondo cos’hanno da perdere a questo punto gli americani? Non si erano avute notizie rilevanti sugli altri due, se non su John Maus, il quale aveva persino tentato un ritorno fotocopia selfmade del gruppo, ribattezzato New Walker Brothers con un epigono di Scott .. A dare manforte ai tre c’è una nuova etichetta indipendente, la GTO di Dick Leahy, che dà loro la possibilità di incidere tre album, con Scott come produttore. Si ripropongono ora ad un pubblico adulto come è diventato ormai il loro, e il singolo No Regrets (ballata folk di Tom Rush) fa il resto: riarrangiato pomposamente in mainstream style seventies, entra in classifica al settimo posto e segna il loro ritorno. L’album che seguirà, No Regrets (GTO, 1975) allinea una serie di cover piuttosto innocue (Curtis Mayfield, Emmylou Harris, Kris Kristofferson, Dionne Warwick ..) ma soprattutto mostra la voglia di tornare a presentarsi al loro pubblico; l’immagine è mutuata dall’immaginario di ragazzoni “californiani” tutti sorrisi e ottimismo.. e Scott fa buon viso a cattivo gioco. Il successivo Lines (GTO, 1976) ancora di cover, segna ancor più il passo verso il mainstream, passando del tutto inosservato, mentre la 22


casa discografica sta ormai per essere venduta. L’ultima chance resta allora quella di scrivere il proprio materiale e così Nite Flights (GTO, 1978) si materializza. Ora, non ci vuole molto a capire che il livello delle composizioni di Scott, finalmente lasciato libero di esprimersi, sia pure in un contesto come questo, superi stellarmente quelle degli altri due. I pezzi infatti (Shutout, Fat Mama Kick, Nite Flights e soprattutto The Electrician) parlano un linguaggio che poco ha a che vedere con il mainstream pop dei “fratelli”, tra wave di qualità e oscuri abissi come The Electrician, sospeso com’è tra incubi industrial e orchestrazioni. La musica che verrà parte anche da qua, con il musicista che ha ormai attraversato il presente ed è entrato in uno spazio altro, scomparendo e rinascendo a nuova vita artistica. Nite Flights segna il canto del cigno dei Walkers e pur avendo ricevuto recensioni positive per l’apporto di Scott, fallisce l’obiettivo vendite.

This i s h ow yo u d i sap p e ar . . Mentre il Nostro vive un periodo tormentato dopo lo scioglimento dei Walker Brothers, come riferirà a Alan Bangs (si paragona ad Orson Welles, “un grande che tutti volevano incontrare ma di cui nessuno era disposto a finanziarne i progetti”), il suo nome da inizi ‘80 comincia a diventare un punto di riferimento per altri musicisti, David Bowie e Brian Eno in primis; quest’ultimo ne aveva ampiamente tessuto le lodi sul Melody Maker ai tempi di Nite Flights, e Bowie farà conoscere il pezzo omonimo grazie a una cover nel ‘93, mentre nell’81 veniva pubblicata una compilation di editi, Fire Escape In The Sky: The Godlike Genius of Scott Walker, a cura del fan Julian Cope, senza contare che nello stesso anno la Philips aveva raccolto le cover breliane in Scott Sings Jacques Brel. Questo “hype” gli favorirà quindi un contratto con la Virgin, per cui nel 1984 esce Climate Of Hunter. L’album segna il definitivo spartiacque tra il Walker # 1 e quello successivo, marcando definitivamente un punto di non ritorno con l’artista più pop in senso lato. Raccogliendo tutte le sue migliori esperienze, da quelle orchestrali e crooning di Scott 1,2, 3, e soprattutto 4 e le avvisaglie più futuristiche viste in Nite Flights, con la fida produzione di Peter Walsh, l’artista americano riduce al minimo la strumentazione: pochissima orchestrazione ed arrangiamenti, permane formalmente la forma canzone, che qua e là si sgretola e riduce (Dealer, Sleepwalkers Woman, Track Six), sembra ritornare a tratti (Rawhide, il singolo Track 3) per farsi dissonanza e rarefazione. Walsh spiegherà nel citato documentario Scott Walker 30 Century Man che nelle session del disco i musicisti registravano le loro parti senza conoscere la melodia dei pezzi, sia perché Walker non aveva fatto alcun demo ma semplicemente perché la melodia era un “segreto gelosamente custodito”. Engel intendeva dire che se si fosse conosciuta la melodia, questo avrebbe portato ogni pezzo lontano da dove doveva stare secondo la sua concezione; vale a dire che “tutto doveva essere tenuto un po’ disgiunto” per “evitare che ci fosse la possibilità di andare tutti a tempo”. L’effetto è allora straniante e segna un al di là da cui non si può più fare ritorno. Il tutto accompagnato da testi non facili che permarranno in tutta la successiva produzione di Scott. E ancora non si era visto abbastanza. This Is How To Disappear..

Fa rm e r i n t h e c i t y Come scomparire appunto .. Così come il precedente, Climate passa inosservato commercialmente. Un secondo album per la Virgin era previsto, con la 23


produzione di Brian Eno e Daniel Lanois, ma non se ne fece niente. Da qui in poi le notizie su Walker si fanno sempre più rade, e se già poche erano state le interviste promozionali nel corso del 1984, ora il buio assoluto. Bisogna aspettare addirittura il 1993, quindi quasi un decennio, per un singolo (di cui firma il testo) con Goran Bregovic, Man From Reno / Indecent Sacrifice, uscito in Francia per il film Toxic Affair di Philoméne Esposito, con Isabelle Adjani e per cui Bregovic compone la colonna sonora. Una ballad non propriamente oscura. E infine due anni dopo il ritorno con Tilt (Fontana, 1995), coprodotto con Peter Walsh. L’album prosegue in parte sulla scia del precedente, facendosi però incubo sonoro tout court. Una miscellanea di elementi, in cui coesistono classica, avanguardia, sperimentalismo, minimalismo, industrial, per un marchio di fabbrica che comincia ora a diventare “riconoscibile”. Via del tutto la forma-canzone, la poca melodia sia pur presente non è ingabbiata ma dissonante insieme al resto, il cantato si fa espressionistico, declamatorio, come un lieder sui generis, le atmosfere sono claustrofobiche e morbose, cinematograficamente efficaci sia nelle immagini evocate, sia dal punto di vista sonoro (l’uso narrativo dell’orchestra, della strumentazione minimale, l’utilizzo funzionale degli effetti sonori, delle dissonanze). Alienazione, disagio esistenziale ma anche sarcasmo e ironia gli elementi presenti. I testi stessi sono evocativi più che letterari, sono parte musicale, effetto sonoro che procede per immagini, sia quando rievocano la morte di Pier Paolo Pasolini (la incalzante Farmer In The City, ispirata dalla poesia Uno dei tanti epiloghi, dedicata nel 1969 all’attore Ninetto Davoli), sia nel processo all’ufficiale SS Adolf Eichmann (The Cockfighter), negli orrori delle guerre americane (Patriot), nel narcotraffico sudamericano (Bolivia ‘95). Come detto dall’autore, sono le liriche che dettano il suono all’intera canzone. La compiutezza dell’album rivela le ambizioni di Walker, che nelle interviste non concede moltissimo seguendo la sua indole. E d’altra parte un lavoro artistico dovrebbe parlare di per se stesso, crediamo. E come in tutte le prove che verranno dopo, il fascino malato avvince e si riesce a entrare penetrare compiutamente nell’opera se si ha la pazienza e l’umiltà di addentrarvisi, di aspettare, di insistere.

Cossac ks a r e c har g i n g i n . . Dopo Tilt Walker esce relativamente dall’isolamento, con diverse collaborazioni. Nel 1996 registra I Threw It All Away di Bob Dylan, sotto la direzione di Nick Cave, per la colonna sonora del film To Have and to Hold; nel 1998 coverizza Only Myself to Blame di David Arnold, per lo score del bondiano The World Is Not Enough (Il mondo non basta). Nello stesso anno scrive e produce la maggior parte della colonna sonora del controverso Pola X di Léos Carax, che contiene contribuiti anche di Smog e Sonic Youth. Trattasi di strumentali, orchestrati o sperimentali/industrial, e l’unica volta che si sente la sua voce, è in un estratto di Cockfighter, da Tilt. Nel 2000 è il curatore del prestigioso Meltdown Festival, dove non suona ma scrive un pezzo, Thimble Rigging per The Richard Alston Dance Project; nello stesso anno collabora a Punishing Kiss, album della performer tedesca Ute Lemper, con due pezzi articolati e dissonanti nello stile di Tilt. Nel 2001 produce l’album dei Pulp, We Love Life, ovvero di uno dei suoi più grandi fan, Jarvis Cocker, traghettandone la transizione, con un album raffinato, verso una fase più adulta e preparando il Jarvis solista. 24


A fine 2003 esce un importante e corposo box set, Five Easy Pieces (Mercury), suddiviso in 5 CD tematici e un booklet; l’arduo compito di antologizzare la carriera di Walker viene così bypassato dalla divisione per argomenti e in modo cronologico, racchiudendo numerosi brani rari e fuori stampa. La firma con la 4AD nel 2004, sua etichetta attuale, preannuncia l’uscita di The Drift (2006). Walker continua il suo percorso artistico altro, tassello dopo tassello, ogni volta destrutturando, togliendo o modificando gli elementi costitutivi della sua musica. Di Tilt restano il mood e l’ambientazione sonora: il cantato è parimenti espressionista, declamatorio, lirico, con poca melodia; è ancora più claustrofobico, morboso, oscuro, cinematografico (si vedano l’uso narrativo dell’orchestra , la strumentazione minimale, gli effetti sonori funzionali, le dissonanze). Si assiste a un’ulteriore disgregazione delle “canzoni”, che già nel precedente avevano perso la loro forma: qui diventano momenti di flusso ininterrotto, uno stream assoluto di suoni e parole. I brani consistono in “blocchi di suono”, come vengono definiti dall’autore, che si susseguono per giustapposizioni e contrapposizioni, assenze di ritmo seguite da accelerazioni (Hand Me Ups), incubi sonorizzati (Jolson and Jones, Cue), brevi attimi di calma (A Lover Loves). Fanno eco le liriche astratte e in apparenza casuali, unite tra loro (Cossacks Are, Jolson And Jones), colme di visioni horror, fisiche, attualità (la scomparsa di Woytila, in Cossacks Are, o l’11/9 in Jesse) e Storia (la vicenda Benito Mussolini / Claretta Petacci in Clara, Milosevic in Cue).

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In The Drift dominano la cognizione del dolore e la tragicità estrema della condizione umana, come osservate al microscopio da un narratore, senza darne alcun giudizio. Lo specchio dei tempi oscuri che stiamo vivendo e un punto di non ritorno. Ancora un passo oltre i propri limiti. Appena un anno dopo, nel 2007, Walker pubblica sempre su 4AD in edizione limitata And Who Shall Go To The Ball? And What Shall Go To The Ball?, una suite strumentale in quattro movimenti per una pièce di danza contemporanea della compagnia CandoCo (con ballerini anche disabili) del coreografo Rafael Bonachela. L’americano qui è molto vicino alle sperimentazioni di The Drift, tra sottrazioni ed implosioni, strappi ed improvvise esplosioni, sinfonie irregolari per archi (con la London Sinfonietta) e percussioni sincopate, fughe improvvise ed esplosioni di archi, con rari momenti di quiete. Inoltre droni leggeri, sovrapposizioni alla Philip Glass, orchestrazioni che per alcuni momenti possono ricordare quelle di Bernard Herrmann. Saliscendi che richiamano un sottile gioco di equilibri/disequilibri. Il concept espresso da musica e danza riflette la vita dell’uomo in un mondo meccanizzato, con la dicotomia profonda tra corpo e mente, e viene trasmessa ai movimenti irregolari dei danzatori, anche disabili, che sono come prigionieri in uno spazio chiuso. Ancora una volta, la musica trasmette il disagio e la disperazione di una condizione alienata e spezzata. Due anni dopo, nel 2009, ritroviamo Scott ad occuparsi ancora di musica per balletto, alla Royal Opera House di Londra, con una riscrittura del monologo Duet For One di Jean Cocteau, coreografato da Aletta Collins; e sempre nello stesso anno, una collaborazione con Bat For Lashes in un pezzo del suo Two Suns.

Bish b o s h e n d i n g Le sorprese non sono finite e Scott continua ancora a lasciare senza fiato. A sei anni da The Drift, senza contare gli intermezzi susseguitisi nel frattempo, fa un altro centro, riuscendo a mutare ulteriormente le variabili a sua disposizione, senza alcun segno di cedimento, anzi proseguendo con una classe infinita, spanne sopra tutti. In finale d’anno, il 2012 vede Bish Bosch (in spazio recensioni) svettare e offrirsi come ennesimo capolavoro. In sintesi, ritroviamo la struttura che abbiamo imparato a conoscere con gli album dell’ultima parte della sua carriera, destrutturata e con voce narrante-cantante, con alcuni significativi cambiamenti. Più ricco di sfumature e meno oscuro rispetto al precedente, con una pienezza di suono, vi si trovano chitarre, tastiere e fiati, una novità assoluta. Il mood è meno claustrofobico e morboso, e le storie raccontate e cantate confluiscono in un unicum organico, un fluire ininterrotto di cantato, recitato, sofferto e declamato. Il narratore Walker si fa guida in un Inferno dantesco, una sorta di dipinto visionario di Hieronymus Bosch, citato nel titolo in un gioco di parole - dove bish bosh significa “job done, sorted” - per esprimere l’ordine delle parti, apparentemente messe accanto ma in realtà unite fluidamente in un tutto organico. Bish Bosch è quindi un’esperienza totalizzante che ripaga ascolto dopo ascolto, confermando Walker come genio musicale contemporaneo e outsider al di fuori di mode e tempi. Un osservatore acuto della contemporaneità e della condizione umana sempre più lacerata e dolorosa. Uno di quei rari artisti concentrato totalmente sulle sue espressioni artistiche. Si può andare ancora più in là? “I’m for permanence” (Scott Walker, TV tedesca, 1969). 26


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House Is The Temptation Testo: Carlo Affatigato 28


Da qualche tempo alla Rinse tira una nuova, sorprendente aria. È la house, propugnata da un poker di personaggi carismatici lungo quattro punti cardinali: energia, rigore, eleganza e grooves. Ha compiuto 18 anni giusto lo scorso settembre, Rinse FM, festeggiando con una doppia data tra Manchester e Londra e una line up che comprendeva non solo la propria crew ma tutti i membri dell’unitissima élite UK che va da Skream, Joker e J:Kenzo a Pearson Sound, Jamie George e Kode 9. 18 anni di alacre attività e continui rapporti con pezzi grossi e giovani emergenti della scena, dopo i quali puoi permetterti oggi di avere una timeline di lusso ogni giorno della settimana, distribuita tra forze giovani come Monki o Sian Anderson e veri pezzi di storia della scena elettronica londinese come Plastician o Distance, più una folta scuderia di soggetti amatissimi dal pubblico che con la Rinse son legati a doppio filo: Roska, Redlight, Zinc, Brackles, Youngsta, Elijah & Skilliam, tutti protagonisti di un continuo inseguimento delle espressioni dance underground più divertenti del momento. Come label discografica, invece, da circa un lustro s’è imposta in una scena vivace e ricca di fermenti affermandosi come una delle realtà più cool della Londra musicale. Ha inseguito i trend ma sempre prendendo una precisa posizione estetica a riguardo: quando s’è trattato di affrontare il dubstep lo si è fatto tramite i Rinse Mix di Skream, Plastician e N-Type, che com’è noto hanno di quel mondo un proprio personale punto di vista, per molti versi lontano dallo schema offerto intanto su Tempa; nel frattempo, il funky e il grime diventavano ufficialmente concreti terreni di indagine di casa e iniziavano a sparigliare le carte, dando l’assist a uscite crossover frizzanti come quelle di Skepta, Oneman e più recentemente Roska. Una costellazione di inziative e direzioni che restituiscono l’immagine non di un gruppo gerarchico con una linea adottata dall’alto (come invece - e ce ne siamo accorti più volte - può essere la Planet Mu di Paradinas), ma di un team fresco e fortemente unito dall’esperienza in radio, che condivide la voglia di esprimere il vero fun londinese in tutte le sue forme. Da qualche tempo, poi, alla Rinse sembra esser arrivato un nuovo vento di passione che viene da lontano: la house. Qualcosa che non si credeva pienamente fittable col sound di casa, sempre eclettico, estroso e attento alla vivacità del pubblico giovane, ma che proprio per questo diventa ufficialmente la nuova sfida. Perché se i soggetti in questione iniziano ad appassionarsi allo schema 4/4, ovviamente lo fanno con precise direttive caratteriali, plasmando una forma trasversale che unisca movimento e rigore. E se si erano già avute certe avvisaglie del passaggio a una nuova fase di revisionismo interno (vedi la Rinse:15 di Roska o l’arrivo di Katy B), oggi abbiamo una manciata di nomi vecchi e nuovi da tenere d’occhio, che stan portando avanti alcune teorie originali sotto schema quadro. Nessuno di loro è ancora esploso definitvamente in questo senso, quindi gustatevi questa disamina come un’anticipazione su quel che potrebbe fare il botto di qui a qualche mese.

Zinc : la “c r ac k ” Se è vero che i nuovi trend hanno origine dalle influenze reciproche, in questo caso l’inizio di tutto va ricondotto a 29


zinc

Zinc. O meglio, al volto che Zinc ha mostrato grossomodo nell’ultimo lustro, rileggendo in maniera drasticamente diversa i frutti di un’esperienza lunga ormai vent’anni: lui è quello di pezzi storici dell’era jungle e drum’n’bass come 138 Trek e Super Sharp Shooter, uno dei più affezionati sodali di DJ Hype (i due hanno collaborato più volte, Disappear, Six Millions Ways To Die, Show Me The Lovin) e per lungo tempo impegnato a indagare i presupposti evolutivi del continuum verso l’hip-hop e quel precursore del dubstep che fu il breakstep. Fino a fine 2000, quando si sedette a tavolino e si inventò un suo modo di rendere i groove, gli inserti sintetici e tutti quei meccanismi dance di pancia figli di anni di DJing e produzioni rave/UK garage su un più elastico e irriverente tessuto in 4/4. Crack house, la battezzò, e fu l’intuizione che lo fece rinascere a nuova vita. Nel 2009 pubblica sulla propria Bingo Bass il primo Crack House EP, seguito pochi mesi dopo da Crack House Vol. 2, venti tracce per circa due ore di ascolto inedito. Ed è subito chiaro che la house non è solo segno di svecchiamento (attenzione, non è un controsenso) ma vera e propria tentazione: quello adottato è un pattern più universale, sul quale riversare i frutti consolidati dello sballo sperimentato con le produzioni dnb. Tecnicamente parlando, i genitori più diretti sono la deep house e l’acid, dove la prima viene spogliata delle sue forme più eleganti e soul e la seconda viene traslata su un piano meno hardcore e più popolare. Un pezzo come Killa Sound spiega tutto, lo spazio importante dei loop vocali che catalizzano gli effetti dance e l’indispensabile groove sintetico killer, il vero elemento di scarto tra la normale tech-house e la crack di Zinc, più le sirene à la Kill Bill che lanciano un parallelo concreto con quel che Quentin Tarantino fa del cinema: riciclo sfrenato (qui prevalentemente dai ‘90) e ricerca ossessiva del piacere esplicito, con una determinazione e una pressocché totale assenza di distrazioni intellettuali che colloca il prodotto finale proprio sopra la sottile linea di separazione tra erotismo e pornografia. Pezzi come 128 Trek (il crack house remix della sua stessa hit dnb) e soprattutoo Wyle Out (con Ms. Dynamite) rappresentano invece l’anello di congiunzione diretto con la rave culture, 30


gli elementi sono esattamente gli stessi (luci, bleeps e droghe) e quel che cambia è solo la recettibilità di tempi e strutture ritmiche. L’impatto sulla scena è enorme. I pezzi migliori del Crack House Vol. 2, Love To Feel This Way e Nexx, finiscono nelle compilation più estroverse (I Love Techno dei Cassius e ancora Rinse:15 di Roska, che resta ascolto imprescindibile per chi si appassiona al tema corrente) e il nome di Zinc riacquista lo spolvero di un tempo. La formula giovane e elettrizzante finisce per conquistare un palco prestigioso come la Rinse (che dei nuovi modi per esaltare il pubblico dance non se ne lascia scappare nessuno), Zinc inizia ad essere presenza fissa nella programmazione e sarà uno dei producers dietro l’album di Katy B (l’altro è Geeneus). L’anno scorso, lo step successivo alla serie crack house è Sprung, stavolta proprio su Rinse, un EP di 4 pezzi ancora più dritti e tagliati per l’eccitazione collettiva (nonché perfetti come dj tools): Unlike Me e Juicy Fruit son le due mosse di stile per la clubbing fashion, mentre Sprung e Recovered son due vere gemme di energia esplosiva che spinge verso l’aggressivo e può cambiarti la serata in un attimo. Le ultime tappe del percorso arrivano quest’anno, prima Goin’ In e poi Like The Dancefloor con A-Trak, e portano la crack house verso un’immagine più radiofonica e commerciale (si parla di successo, of course), ma con Zinc c’è sempre da stare in allerta e chissà che presto non arrivi la sua crack release definitiva. Per dicembre è già pronto il nuovo EP, Only For Tonight, e i primi ascolti sembrano volgere a un’immagine house pop compiuta. Terremo gli occhi aperti.

Ma r k Ra d f o r d : il r i g o r e Quando a marzo il Rinse:18 di Mark Radford è stato recensito su ResidentAdvisor, Andrew Ryce esordiva chiedendosi furbescamente: “Che diavolo ci fanno Alex Niggemann e Steve Bug in una compilation Rinse?”. Quello è stato in effetti il primo squarcio del velo, la prima incursione della house tra le release ufficiali della Rinse. Radford era entrato a far parte della crew da un annetto circa, con una finestra settimanale fissa nella timeline radio (adesso ha la prestigiosissima prima serata del sabato), ma si era fatto notare dai talent scout già qualche tempo prima, grazie a una serie di serate underground londinesi in cui il ragazzo sembrava star dando un nuovo slancio di euforia alla scena UK house live (cosa non facile per un pubblico esigente come quello di Londra, soprattutto se parliamo di un genere così altamente storicizzato). E che house, poi. Parliamo del lato più rigoroso e old-fashioned del filone, quello che discende direttamente dalla prima fase deep di Chicago e che oggi è ancora vivo grazie al lavoro di etichette come la Poker Flat, che teoricamente della Rinse sarebbero concorrenti in piena regola (aspetto, questo, che fa riflettere su quanto sia editorialmente rischiosa la mossa di cui stiam parlando). Più che la fresca gioventù di nomi caldi UK come potevano essere i Disclosure o Benjamin Damage, i set di Radford preferiscono riscoprire il classicismo e l’eleganza della house recente, e infatti il suo mix includex lavori come la Speechless della coppia Agoria-Carl Craig o il John Tejada remixer, stando ovviamente sempre attenti ai nuovi nomi della scena underground come James What, No Artificial Colours o A1 Bassline. Eppure anche Radford veniva da un background e un bacino d’esperienza jungle/drum’n’bass e solo recentemente è scoppiato l’amore house. In una recente intervista su Pulseradio la racconta come la sua vera fase di maturazione, spiegando che “col tempo è cambiato il tipo di party a cui andavo, dalla 31


mark radford

UK garage a una house più funky e soulful. La mia attenzione si è spostata verso groove più morbidi e lontano dalle aggressioni dnb, e quando ho iniziato ad appassionarmi ai bassi dark e profondi della deep, ho trovato il mix davvero sexy”. Se in Zinc parlavamo di mossa di rinnovamento, in Radford i 4/4 sono l’effetto della crescita estetica. Prerogative niente male per un genere che si appresta a compiere 30 anni di vita. E non è finita...

T Wi lli a m s : l’ e leg an za Tesfa Williams è un altro che proviene da un punto di partenza stilisticamente lontanissimo. Per tutti gli anni ‘00 lui è DJ Dread D, giovanissimo produttore grime partito per gioco all’età di 13 anni e arrivato alle prime produzioni ufficiali al giro di boa della maggiore età, con un bel pezzo di cattiveria ossuta come Invasion e una serie di interessanti 12’’ usciti sulla Black Ops di Jon E Cash. Poi una pausa riflessiva durante gli anni della laurea, alcuni anni di silenzio serviti a focalizzare bene la migliore direzione e prendere la rincorsa per poi partire in velocità. Spinto da una costante voglia di cimentarsi in nuovi orizzonti, prima fonda la Deep Teknologi, label dichiaratamente orientata verso influenze world music legate in particolare all’India e al Nord Africa (il padre è dei Caraibi e gli ha trasmesso la passione per i vinili) e poi incide come T Williams un paio di EP (Chop And Screw sulla sua Teknologi e T Williams sulla Local Action del collaboratore di FACT Tom Lea) che compiono la svolta decisiva verso un sound house dal carattere tribale più o meno marcato. La house entra in punta di piedi nell’universo sonoro di Williams. Sempre su Pulseradio l’intervista più interessante sul web, dove il producer racconta: “C’era un rave di old-skool garage a Londra, il Liberty. Alle 6 di mattina si trasformava in un rave house, e mi ritrovai anch’io, da appassionato di garage, ad ascoltare house. Insieme a un amico iniziammo ad ascoltarla prima per mezz’ora, poi per un’ora, poi per due e finché ci passavamo intere notti. Venendo dal grime non amavo particolarmente la house, alla fine di ogni sessione d’ascolto ci dicevamo, un po’ per sentirci più a nostro agio, ‘è come la garage, vero?’. Poi alcuni dj bravi a guardare oltre come Wig Man mi hanno introdotto alla house più afro/soulful di Quentin Harris, DJ Gregory e Dennis Ferrer. 32


t. williams

Fu lì che scoprii il vero vibe house, nel suo momento storico migliore in UK.” Accolto alla Rinse con grande entusiasmo, la sua visione house ve l’abbiamo raccontata all’uscita di Rinse 21: il four-on-the-floor di Williams è denso di umori e amante dell’eleganza, ragiona su mood deep e sulla puntuale presenza di sezioni cantate a rendere il tutto più easy all’ascolto, estendendone l’efficacia anche fuori dalla pista. I quattro pezzi del suo ultimo EP Pain & Love raccontano meglio di mille parole le armonie di cui il ragazzo è capace, in particolare con due brani di spicco come Can’t Get Enough (la voce funky è di Himal e serve tutta al movimento clubbing) e Think Of You (capolavoro di raffinatezza deep/soul con la voce femminile di Tendai a raddoppiare la sensualità di una formula erotica a priori). T Williams oggi non è solo “uno dei bass producers più interessanti della scena londinese”, come dicono ormai tutti. Lui è la perfezione in carne ed ossa della cosiddetta house sensation del momento, e la speranza è che venga fuori l’album-capolavoro a tema prima che la spinta al cambiamento lo faccia spostare altrove.

M os ca : la g r o ov e s c i e n c e Giovanissimo ma dotato di un sorprendente bagaglio di conoscenze musicali, Mosca è finito sulla bocca di tutti a fine 2011 grazie alla super hit Bax, un tessuto ritmico tech-house di grande energia con tanto di inserto tribale seminascosto nell’ombra e un giro acid ipnotico da fase finale di una notte in disco, tutto apparentemente semplice ma irresistibile. In precedenza, erano già usciti per Night Slugs e Fat City una manciata di pezzi che avevano fatto breccia sugli intenditori di nuove intuizioni, così che prima l’esplorazione degli spazi tra afrobeat e west dance di Square One, poi il giro slow house groove-addicted di Tilt Shift si son beccati i remix di Roska, Julio Bashmore, Bok Bok e L-Vis 1990. I frutti dolci del successo però Mosca li ha raccolti da fine 2011 in poi, coi tre pezzi di garage sghemba contenuti nel Wavey EP che ricevono consenso unanime in tutte le riviste specializzate e l’altro eppì di quest’anno Eva Mendes, contenente la collaborazione eccellente di un semidio come Robert Owens, Accidentally. Più che il cambio di rotta che abbiam visto per i tre qui sopra, per Mosca la house è la forma sposata con convinzione per la sua flessibilità, che permette 33


mosca

di tirare in ballo ogni sorta di influenza derivante dal crate digging senza per questo rinunciare all’appeal di prima mano. Il profilo più interessante del producer londinese lo disegna stavolta Fact Magazine, in una lunga intervista che ben rende lo spirito compositivo dietro ai suoi pezzi: appassionato da sempre di world music proveniente da ogni parte del mondo, per lungo tempo il ragazzo è conquistato dai fermenti ritmici del terzo mondo (kuduro, kwaito, zouk, cumbia, reggaeton) senza però riuscire a integrarli al meglio in un dj set (“quella roba proprio non era mixabile, a meno che tu non sia un dj fenomenale come DJ Rupture. E io non lo sono.”). Successivamente scopre il lato urbano della world music (il pezzo illuminante è stato Vem Nha Nha del brasiliano Mr. Catra, che infatti fa da fulcro per l’intera intervista) e inizia a farsi attrarre dalle sue prerogative dance per il mondo occidentale. Niente in Mosca può prescindere dal groove. Qualsiasi sia la componente esterofila dei suoi pezzi, c’è sempre il gancio infallibile del giro melodico che rende ogni conquista più facile. Eva Mendes è il suo cavallo di battaglia metropolitano, atmosfera elegante ma taglio netto e concreto che comanda in pista, mentre la coppia Dom Perignon / Orange Jack sfoggia l’estro che si può mettere in gioco nello schema house e un pezzo sulla carta minore come Murderous è una gemma di equilibrio fashion+beat che trasuda Londra da ogni poro. Qui in fondo non c’è molta filosofia da fare, i 4/4 sono il mezzo maestro per catturare il pubblico in modo immediato ed esaustivo, ed è 34


questo un fine per cui si è disposti a giocarsi qualsiasi carta, persino quella patinata di What You Came For, il rework di Bax fatto con una Katy B ormai popstar, nonché l’esordio ufficiale di Mosca su Rinse. Ci vuole anche faccia tosta, e alla Rinse nessuno può dar lezioni in merito. Quattro linee direttrici che raccontano una rinnovata attenzione verso la musica house, capace più di ogni altro genere di flettersi ed evolversi per qualsiasi esigenza. Che sia voglia di riscoprire la vecchia scuola delle emozioni oppure determinazione a ricreare energia clubbing per più pratiche necessità d’evasione, il movimento intorno alla cassa in quattro, regina incontrastata della pista praticamente da quand’è nata, è una delle tendenze più interessanti del momento. E non è un caso infatti che quattro dei nomi londinesi più sul pezzo in questo senso siano finiti nella crew storicamente più attenta all’underground UK. Tutti sembrano completamente d’accordo nel dire che non c’è mai stato momento migliore per la UK house di questo. Il bello è che lo si dice da alcuni anni ormai, ed c’è sempre una release che stabilisce un nuovo apice. Tra la New Wave Of Techno che vi abbiamo raccontato e l’escalation house di cui sopra, sembra non esserci più spazio per altro negli ambienti veramente cool: col funky in declino, il footwork che sembra preferire la dimensione intellettuale, il dubstep che ormai è storia e la tangente modern beats ricchissima di inventiva ma ancora poco apprezzata in pista, sembra che lo scettro dance l’abbiano ancora gli stili storici. Retromania? No, questa è voglia di ripartire, e i livelli di energia son troppo evidenti per considerarla semplicemente una fase di transizione. Fai tanto l’hipster sofisticato sempre in cerca della dimensione alternativa e intanto non passa notte in questo 2012 senza che un DJ europeo mandi Child.

/ / H ouse T emptation : T he E ssentials / / Zinc - Sprung T Williams feat. Tendai - Think Of You Mosca - Eva Mendes George FitzGerald - Child Disclosure feat. Sam Smith - Latch Julio Bashmore - Au Seve Gerry Read - Roomland (Youandewan Remix) Cooly G - Love Dub Maceo Plex - Frisky Maya Jane Coles - Nobody Else

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Santo Barbaro Testo: Fabrizio Zampighi 36


Cantautorato mutante Esce “Navi�, terzo disco dei Santo Barbaro. Una buona occasione per ricostruire le vicissitudini di una formazione che del cantautorato sta facendo un linguaggio inedito e affascinante 37


L a n ot t e è u n m u r o Al Cosabeat si arriva percorrendo una strada strettissima che passa per la campagna forlivese. Da fuori, lo studio di registrazione di Franco Naddei ha l’aspetto di una vecchia casa colonica, confinata in un’area verde piuttosto rustica che sembra quasi fare da filtro naturale tra l’edificio e l’ambiente esterno. Il pomeriggio d’ottobre in cui arriviamo c’è un consapevole silenzio autunnale ad accoglierci nel giardino che circonda lo stabile. Una pace quasi irreale che sa di isolamento, nonostante il primo centro abitato sia solo a pochi minuti di macchina. Vien quasi da pensare che un disco di artigianato autarchico come Navi, i Santo Barbaro, potessero concepirlo soltanto tra queste mura: dieci brani slegati da un’attualità musicale che vista da qui sembra ancora più aliena, capaci indirettamente di rappresentare un viaggio nell’io più recondito di chi li ha partoriti. «Nel cantare ci metto me stesso, la mia vita, la mia incompiutezza. Non me vergogno. Dalla bocca esce ciò che 38


sono» dichiarava qualche tempo fa a E20 Romagna l’altra metà del progetto Pieralberto Valli riferendosi alla peculiarità della sua voce e dei suoi testi. Eppure il discorso potrebbe valere per tutta la poetica del gruppo, che incompiuta non è, ma certo procede senza freni in una ricerca formale febbrile, personale, mutevole, che non porta quasi mai dove ci si potrebbe aspettare. L’ultimo Navi è un chiaro esempio in questo senso, anche se a ben vedere è così fin dagli esordi per i Santo Barbaro. Quando esce Mare Morto, nel 2008, in formazione ci sono lo stesso Valli, Marco Frattini (batteria), Francesco Tappi (basso e contrabbasso) e Giacomo Toni (pianoforte e fisarmonica) ma la sostanza non cambia. Già allora il linguaggio è composito, letterario, visivo e musicale al tempo stesso (il CD esce inizialmente inserito in un libretto con i testi e accompagnato dalle foto di Francesco Fantini, per poi essere ristampato dalla Ribess Records assieme a un libro di racconti - Un giorno passo e ti libero - indipendente dal disco), per un lavoro che sancisce le linee guida del progetto su un ventaglio stilistico comunque ricercato: «Il primo disco era incentrato sul concetto di straniero, una sorta di concept involontario se vogliamo. Una riflessione sulla diversità, sui viaggi da una realtà all’altra, data anche da esperienze personali. In questo senso, la dicotomia Santo Barbaro ci piaceva e ci piace tutt’ora. Questo concetto rimane il cuore di tutto il discorso: dove c’è una diversità, dove c’è anche disaccordo, c’è la possibilità che nasca qualcosa di nuovo». Il “barbaro” come personificazione della diversità, quest’ultima da santificare ed eleggere a manifesto programmatico. Sembra una banalità e invece non lo è, soprattutto in un mercato veloce e caotico come quello in cui ci troviamo ad operare, a suo modo spietato nel non dare visibilità a tutto ciò che non sia immediatamente targetizzabile e in linea con i tempi di assimilazione ridottissimi del web. Nel caso di Mare Morto l’universo musicale di riferimento è una canzone d’autore elegante, parente alla lontana del jazz ma anche piacevolmente distesa nella riscoperta di un esotico che parte da certi accenni al Sud America per arrivare fino al Medio Oriente (Occhi immensi). In mezzo, riferimenti a esponenti di primo piano di un certo cantautorato moderno come Giancarlo Onorato (Santo Barbaro, Nuovi schiavi) e Marco Parente (Nero deserto), ma anche il Nick Drake di Three Hours (Guerre), certo blues in orbita Hugo Race (Cecità), pianoforti in stile Black Heart Procession (Noir) e persino post-rock (Mare morto). «Volevamo ridestare la centralità della parola, del testo. Ma non per giungere allo stomaco di un pubblico vasto e sconosciuto, piuttosto per scavare nella nostra coscienza e mettere in discussione la nostra percezione delle cose» dichiarava il gruppo al nostro Luca Barachetti ai tempi del primo disco. Segno di una scrittura che prima di tutto è ricerca interiore e poi parto ad uso e consumo di terzi. Nei testi non c’è l’eleganza distaccata di un Tenco o il narrare puntuale di un De Andrè - anche se Valli è un estimatore della produzione del genovese -, piuttosto una serie di input capace di aprire delle porte, comunicare sensazioni, lasciando all’ascoltatore la responsabilità di interpretare. Un procedere per immagini montate in ordine sparso e date in pasto attraverso una calligrafia in parte già riconoscibile e senza sbavature. Lorna, arriva l’anno successivo e finisce - immeritatamente, lasciatemelo dire - per passare quasi sotto silenzio. E’ sufficiente fare una breve ricerca su Google per rendersene conto: nel momento in cui scriviamo il celebre motore di ricerca dà come risultato sei recensioni in tutto - tra cui la nostra - e molte di queste non stanno sui principali siti internet di informazione 39


musicale. Un delitto, se si pensa a tutto il ben di Dio che c’è all’interno del disco. Il secondo lavoro dei Santo Barbaro è una mezza rivoluzione, sia dal punto di vista musicale che della line-up: della formazione originale rimane il solo Valli e tra i crediti, questa volta, troviamo Franco Naddei (Francobeat) e il polistrumentista Diego Sapignoli (già Aidoru, Hugo Race, Sacri cuori, Pan del Diavolo, Vinicio Capossela). Il trio si dimostra la scelta migliore, vuoi per la caratura dei nuovi arrivati, vuoi per un’idea di canzone d’autore che qui si fa ancora più imprevedibile nei richiami. A dimostrazione un brano come Naufragio, vicino per indole all’ultimo Fabrizio De Andrè nella parte iniziale e poi inghiottito dalle chitarre elettriche o magari un Non balla nessuno voce-chitarra nei primi minuti e delirio di batteria ed elettronica in chiusura. Giusto, l’elettronica. Compare qui per la prima volta ed è una svolta piuttosto importante nell’ottica dell’evoluzione del gruppo. Come sottolinea del resto anche Naddei: «Lorna è stato una sorta di terra di mezzo. Su quel disco io sono entrato a gamba tesa facendo comparire le prime cose elettroniche, elettronica che, alla fine, è un linguaggio che comunque possiede anche Pieralberto. In realtà, ho cercato di far venir fuori Pieralberto in un contesto diverso da quel cantautorato a cui si riferisce di solito, portandolo su altro pianeta. I brani di Lorna, alla fine, hanno comunque mantenuto un’identità basata su chitarravoce al centro e l’impianto strumentale attorno». Nel nostro caso due sono gli elementi che sottolineano uno scarto decisivo rispetto al primo disco: da un lato un impianto musicale flessibile, volutamente sfilacciato e mutante (ascoltatevi L’uomo del sogno) nel suo toccare l’ambient, il folk, la canzone d’autore, i ritmi sintetici con la stessa efficacia; dall’altro i testi di Pieralberto Valli, perfettamente adagiati negli spazi ampi concessi dalla musica, peculiari nella metrica e molto più evocativi rispetto agli esordi. O per meglio dire, poetici. Del resto in quale altra maniera potremmo definire versi come Lei incide i giorni sulle vene di un bosco / rincorre la neve sui camini fumanti / lei che ascolta le foglie vagare nomadi sulle colline / tu non sai le carovane di lupi che si nascondono nei silenzi dei vespri (Il vuoto) oppure Potrebbero mancare forse anche millenni / per chi mendica su croci improvvisate / maledico l’uomo che sorride al mio specchio / il dolore che diventa passatempo /e se tu sei il padre perché non mi somigli / se tu sei il padre perché non premi il grilletto / che a me tremano un poco le gambe / nel vedere il destino che giunge su una scia di polvere (Su una scia di polvere)? E dire che lo stesso Valli, interrogato a proposito del suo stile nella scrittura, si schermisce dietro un «In realtà detesto scrivere i testi. Mi piace scrivere in libertà, senza vincoli, ma quando si tratta di calcolare le metriche e adattarle alla musica, faccio fatica. Di base, mi piacciono più la musica e la melodia». Lorna è il disco che, in un mondo ideale, avrebbe dovuto sbancare alle Targhe Tenco. E invece passa veloce come l’acqua per finire presto nel dimenticatoio, lasciando tuttavia in eredità ai diretti interessati una serie di concerti utile per riflettere sulla direzione da imprimere al progetto. E’ ancora Naddei a parlare: «Portando in giro Lorna, ci siamo accorti che i concerti diventavano delle performance che cambiavano in continuazione. Se per esempio eravamo in un locale in cui prima di noi suonavano dub, poteva succedere che anche il nostro concerto guadagnasse qualche elemento dub. Qualsiasi brano, se è efficacie, lo si può girare in tutti i modi. Noi cerchiamo sempre di tendere a un’evoluzione. Se Pieralberto domani venisse fuori con l’intenzione di fare il prossimo disco con un gruppo di africani e senza di me, quelli sarebbero i nuovi Santo Barbaro». 40


Senti la tempesta che cresce Ricerca formale, dicevamo. Per Navi, il terzo disco della formazione romagnola, sarebbe meglio parlare di direzioni potenziali, attracchi possibili, futuri incerti. Come quelli suggeriti dal brano Nove navi, chiusura di scaletta che lo stesso Valli elegge in realtà a manifesto del nuovo corso: «Il disco è fondamentalmente autobiografico. Tutto parte dalla numerologia: nove sono le personalità, i destini. Le nove navi sono quindi i futuri potenziali, tra cui un individuo deve scegliere. Fuor di metafora, la direzione che deve prendere nella vita. Non ci sono appigli o consiglieri che ti dicano come muoverti, tutto dipende da te e la scelta ovviamente non è facile». Si parla di elettronica nei dieci brani del disco: teutonica, razionale, ma anche aperta a ogni tipo di contaminazione. Con la canzone d’autore a far da filo conduttore, da chiave interpretativa, tanto che considerare Navi come un disco di elettronica pura sarebbe quantomeno riduttivo, se non proprio un errore. I testi si fanno ancora più essenziali e risicati rispetto al passato, in una fusione a freddo 41


con la musica che cerca di privilegiare le fascinazioni suggerite dall’insieme, dai brani nella loro interezza. Lontani, per una volta, dalle inutili e vetuste anche se spesso inevitabili, quando si parla di canzone d’autore - vivisezioni tra parole e musica. Il disco è un parto estenuante, iniziato da semplici demo chitarra e voce e arrivato, tra rimpalli e riletture infinite, a ciò si ascolta nel prodotto finito. Indice, quanto meno, della libertà creativa alla base del progetto. «Per me è stata una grande fatica» ci dice Pieralberto Valli «Sono arrivato in studio solo con i provini e abbiamo passato il tempo a smontare pezzo per pezzo quello che era stato fatto per costruire tutto il disco sulla voce. Per Urania per esempio, abbiamo fatto quattro versioni finite e poi ne abbiamo scelta una. In tutto ci abbiamo lavorato un anno, con le pause inevitabili tra una registrazione e l’altra. La cosa difficile, quando lavori molto in studio, è che puoi fare qualsiasi cosa con i suoni». E’ Naddei il “barbaro” della situazione. Sua è buona parte della responsabilità per le macchine utilizzate nella parte più elettronica del lavoro. E infatti si procede sui binari atipici e creativi tipici del personaggio, lontanissimi dalle ultime tendenze e certamente poco interessati a sancire un’appartenenza stilistica o ideologica certa. Anzi, si va esattamente nella direzione opposta, privilegiando il significato e lo svolgersi dei contenuti, piuttosto che una forma mentis riconoscibile e aggiornata: «Io [Franco Naddei, ndr] vengo dall’elettronica dei Depeche Mode in giù e ho quaranta anni. Non mi andava di competere con ragazzi giovani - su cui tra l’altro sarebbe stato molto difficile avere la meglio - che utilizzano il computer e due plug-in. Il mio linguaggio è semplicemente diverso. All’interno del disco ci sono comunque riferimenti precisi, come i Talk Talk e i Massive Attack ad esempio. Però è anche vero che nel momento in cui, in fase di scrittura, ci sembrava di essere troppo derivativi, abbiamo subito cambiato direzione cercando di suonare più originali possibili». Nulla che appaia dispersivo o raffazzonato - come del resto era già accaduto in Lorna -, piuttosto una visione della musica come linguaggio tout court, a trecentosessanta gradi, e non come atto strategico. L’obiettivo è raggiunto, a giudicare da un disco che colleziona archi, pianoforte e basso, che concede enorme spazio ai synth e alle drum machine e che, nel contempo, mostra in alcuni dettagli un’indole sperimentale da coltivare. Nello specifico, i suoni percussivi in odore Einstürzende Neubauten ricavati dalle lamiere autocostruite di Jessica Stenta e perfettamente integrati nel tessuto sonoro. «Questo disco è un po’ una scommessa, un parto travagliato, perché ognuno di noi due ha voluto osare qualcosa in più seguendo il suo linguaggio e stimolando l’altro a fare altrettanto». Chiudo gli occhi e non ricordo più Resta infine da chiedersi in che termini la proposta dei Santo Barbaro sia riconducibile o meno al mondo della canzone d’autore. Lo è per la profondità degli argomenti, per la vena poetica dei contenuti e per la sensibilità; non lo è (soprattutto ora) se il termine di paragone è l’estetica dei classici o dei figliocci copia carbone dei classici. Qui siamo a duemila anni luce da casa, con una band che si dimostra abile nel ridefinire un linguaggio, non solo a frequentarlo. Un elemento che si spiega con le dichiarazioni di un Valli debitore solo in parte - e in tempi recenti - verso l’immaginario condiviso («In realtà fino a Mare Morto non ho mai avuto nulla a che fare col cantautorato. Prima suonavo punk, elettronica, trip hop, post rock. Quando ho deciso di passare ai testi in italiano mi sono guardato un po’ intorno e ho cominciato ad 42


ascoltare i cantautori, in particolare De Andrè») e ancor più con quelle di Franco Naddei: «Tra i cantautori apprezzo soprattutto Lucio Dalla, che era davvero avanti. Le rivisitazioni moderne di cantautorato mi lasciano piuttosto freddo. Le trovo eccessivamente ripetitive rispetto ai modelli originali. In generale, il cantautorato l’ho sempre visto come un binario morto, in cui a spiccare sono in pochissimi. Anche i tentativi di svecchiamento del genere non sono sempre efficaci, come dimostrano produzioni di gente come Leonard Cohen negli anni Ottanta. Credo che il linguaggio cantautorale debba essere reso potente e originale da quello che sei tu, non tanto prendendo ad esempio qualche modello precedente a cui per forza di cose si finisce per rimanere troppo attaccati». Un ragionamento che non fa un piega, se ci pensate, ma quanti lo mettono davvero in pratica? Soprattutto negli ultimi tempi, da quando la new wave del cantautorato si è riguadagnata uno spazio notevole negli ascolti del pubblico e, proprio per questo, è forse capitolata in una sclerotizzazione (per quanto spesso gradevole) dal punto di vista estetico e delle finalità. Da quel Vasco Brondi/Le luci della centrale elettrica - tanto bistrattato ma alla fine fondamentale nell’aprire un varco negli appetiti cantautorali del nuovo pubblico con il suo Canzoni da spiaggia deturpata - in poi, è tutto un ritorno di sonorità nostalgiche pensato per ascoltatori forse non del tutto consapevoli, talvolta fin troppo accondiscendenti. E allora non si sfugge nemmeno alla domanda inevitabile sullo stato di salute della cosiddetta “scena italiana”, a cui Naddei risponde con una chiosa che idealmente chiude il nostro percorso: «Di sicuro ora c’è più libertà. E la libertà ha lati positivi e negativi. Fare dischi oggi costa pochissimo e questo ovviamente permette a molte cose belle di emergere ma anche a molte cose brutte. Il giudizio sulla proposta musicale ormai lo dà la fruizione del pubblico. A volte il mondo indipendente è schiavo dell’estetica molto più del mondo major. Ci sono molti gruppi che sono nella posizione in cui sono perché se lo meritano e molti altri per cui invece questo ragionamento non vale. Non so. Senti certi testi che citano “You Tube” o “Berlusconi” e se da un lato identifichi tutto questo in un meccanismo generazionale, dall’altro ti rendi conto che questo tipo di musica è destinata a invecchiare all’istante. E’ musica morta, scaduta in partenza. Io ho seguito il sogno “pop” per anni facendo pali e traverse per etichette anche grosse. Alla fine non se ne è fatto nulla, però nel momento in cui ho deciso di smettere di voler piacere a tutti i costi, musicalmente sono rinato».

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Recensioni

— cd&lp

dicembre

(etre) - Abitacolo Ostile (2006-2001) (Privileged To Fail, Novembre 2012) Genere: abstract

A C Newman - Shut Down The Streets (Matador, Ottobre 2012) Genere: pop rock

Una vera e propria parata di all-star, Abitacolo Ostile. Con un incipit del genere però, si corre il rischio di spostare l’attenzione, guadagnatissima nel corso degli anni e degli album, da (etre), sigla dietro cui si cela Salvatore Borrelli, uno dei musicisti più sensibili e meno valutati del panorama non solo nazionale. Dieci composizioni in ensemble (con una pletora di ospiti nazionali e internazionali) registrate qualche anno addietro e confezionate solo ora, in cui (etre) omaggia altrettanti capisaldi della cultura più trasversale e ricercata. Ognuna delle quali rende appieno lo spirito dell’omaggiato, rielaborando sensazioni e suggestioni provenienti dall’arte, filmica, pittorica, letteraria o musicale, di ognuno di essi. La disgregazione del non-suono che rimanda alla filosofia dell’”eternità di tutti gli essenti” di Severino (L’Avenir Se Prend-il Dans L’Origin con Zero Centigrade, The North Sea e Sascha Neudeck); la fratturata ritmica del jazz rimanda all’infrazione ayleriana (Goodbye Dragon Hymn insieme a Zavoloka, Valerio Cosi, Xabier Iriondo, Elio Martusciello e Donato Epiro); l’accumulo bambinesco e parodico di voci infantili su tappeti cinematici che tira in ballo lo humour nero di Todd Solondz (Unquiet Night In The Intermediary Distance col supporto di Lucky Dragons, My Jazzy Child e Nobuko Hori); la stasi estatica fatta di fruscii e piccole rifrazioni in omaggio all’arte filmica di Kiyoshi Kurosawa (Petrified By The Sun In Convalescence And The Long Departed Lover, insieme a Midori Hirano e Moskitoo) non solo che esempi di un procedere che è prima “ideologico” che strettamente musicale e che trova nella controparte sonora - collagistica, astratta, deviata e mutante - una sua definizione totalizzante. Ascoltatelo con la richiesta e dovuta attenzione e lasciatevi trascinare dalle volute architettate da Borrelli. Dopo di che sbrigatevi ad accaparrarvi una delle purtroppo sole 150 copie. (7.2/10)

Nel terzo lavoro solista di A.C. Newman - due anni abbondanti dopo il buon Get Guilty - avverti una specie di entusiastica rassegnazione. Il buon Carl sembra infatti arrendersi all’inevitabile: per quanto genuinamente tenti di abbozzare un percorso solistico, è innanzitutto il leader dei New Pornographers, quella la cifra espressiva e l’orizzonte stilistico. D’altro canto, si muove in questa falsariga senza pigrizia, fa perno sulla padronanza per approfondire e svariare, con generosità. Nelle dieci tracce di Shut Down The Streets non azzecca mai l’impasto killer, però riesce sempre a mantenersi su un livello di piacevolezza arguta, vivace, a tratti persino raffinata. Accanto ai consueti pedaggi Beach Boys (lo slancio frugale di Do Your Own Time, le trovate e gli struggimenti a fuoco lento di They Should Have Shut Down The Streets), ai divertissement power-pop (l’incalzante Encyclopedia Of Classic Takedowns, ospite Neko Case ai cori), alle glasse 60s (There’s Money In New Wave, I’m Not Talking) e alle gelatine remmiane (Hostages), capita infatti d’incontrare miraggi desertici come Wasted English, valzerini sghembi punteggiati di loop sintetici (You Could Get Lost Out Here) oppure trepidazioni traditional (mandolino, clarinetto, tuba...) come The Troubadour. Ok, Newman non sarà un grandissimo e tende un po’ a ripetersi ormai, ma una cosa possiamo sostenerla senza remore: la sua proverbiale immediatezza è una trama di complessità risolte grazie ad una fervida miscela di attitudine e talento. Appena un gradino sotto al genio. (7/10)

Stefano Pifferi

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Stefano Solventi

Adrian Crowley - I See Three Birds Flying (Chemikal Underground Records, Novembre 2012) Genere: folk songwriting Il sodalizio tra Chemikal Underground e Adrain Crowley iniziato nel 2009 continua con il sesto disco del cantautore di origine maltesi ma cresciuto a Galway, una delle mille capitali del folk irlandese. Della voce si è già scritto tutto, basta leggere la recensione di Season of the


Andrew Bird - Hands Of Glory (Mom And Pop, Novembre 2012) Genere: folk rock Un disco così non te lo aspetteresti da quel meditabondo perfezionista che risponde al nome di Andrew Bird. Appena otto mesi sono passati dalla pubblicazione di Break It Yourself, del quale il qui presente Hands Of Glory rappresenta una sorta di appendice basale. Il materiale proviene dalle stesse sessioni, ma lo spirito è rilassato, amichevole, ruspante. Scosso da slanci appalachiani, scorticato d’irrequietezza errebì e indolenzito di trasporto gospel. Riuscendo comunque - anzi forse proprio per questo - ad azzeccare inedite combinazioni di profondità e rarefazione. Quattro le cover, il rodeo zompettante del traditional Railroad Bill (dove Bird sbriglia l’estro al fiddle), l’ombrosa When The Helicopter Comes dei The Handsome Family, una agrodolce Spirograph dal repertorio degli Alpha Consumer e quella If I Needed You firmata Townes Van Zandt il cui lirismo stratificato ci ricorda i Byrds del riflusso spiritual/country: sembrano dichiarazioni di non appartenenza alle rapide del presente, come il passo dell’amico che resta indietro e che ti mette una mano sulla spalla facendoti sussultare. Non si tratta però di abbracciare la causa del passato per smarcarsi snobisticamente dall’attualità, semmai di sposare una dimensione espressiva che sia tanto più avulsa quanto più stringente. E per farlo non c’è una formula, una ricetta, un manuale d’istruzioni: somiglia più ad un sortilegio, che in qualche modo ti fa toccare le corde di un archetipo. Lo stesso che miracolava la Band nella casa rosa e marezzava d’entusiasmo il primo Tim Buckley: l’inspiegabile capacità evocativa d’una mistura folk, errebì e gospel lasciata fermentare in un caldo, fiero, spontaneo isolamento artistico. E’ quello che senti nella prosciugata rilettura di Orpheo Looks Back (qui semplicemente Orpheo) e nei notevoli inediti: una Something Biblical che procede con garbo commovente e tenace, l’iniziale Three White Horses con le caligini country e le vibrazioni Arcade Fire, la conclusiva chiusura del cerchio di Beyond the Valley Of The Three White Horses, col suo lungo crepuscolo di suggestioni cameristiche e fatamorgane di celluloide. Questo disco ribadisce la statura di Andrew Bird mettendo sul piatto nuovi indizi e prospettive inattese. Ed è solo un’appendice. (7.4/10) Stefano Solventi

Sparks firmata da Teresa Greco. Qui basti aggiungere che l’attacco dell’iniziale Alice Among The Pines fa pensare immediatamente a Charlie Fink dei Noah And The Whale, che vengono richiamati anche per altre particolarità stilistiche. Il percorso intimistico e bucolico già segno di fabbrica di un autore che si è oramai rassegnato a essere definito “serio” dalla stampa irlandese e britannica (“è impossibile toglierti di dosso un’etichetta quando te la mettono addosso all’inizio della carriera”), qui si fa più umbratile, come sottolineato anche dalla brughiera al confine tra il magico e il tragico ritratta in copertina. Le canzoni di Crowley sono fatte di poco o niente: qualche accordo di chitarra, qualche raro fiato (The Mock Wedding), pochi tocchi di tastiera (The Morning Bells) e su tutto un canto che non lascia indifferenti, specialmente se ascoltato in un pomeriggio invernale. I quadri bucolici, ma soprattutto la personale descrizione di Dublino (From Champion Avenue to Misery Hill) fanno pensare a Dickens o, per meglio rimanere in territorio

irlandese, il Joyce di The Dubliners. Allora i riferimenti si fanno chiari (irlandesità profonda e sofferta, povertà, campagna e pioggia, il folk) per un gemello di Neil Hannon che ha scelto la brughiera e la riflessione alla città e all’ironia. La materia che trattano, però, è la stessa: l’animo umano di fronte al precipizio della vita. (7.1/10) Marco Boscolo

Adriano Modica - La sedia (Cardio a dinamo, Novembre 2012) Genere: canzone d’autore E’ un disco che colpisce senza far rumore, il nuovo di Adriano Modica. Diversamente da quanto accadeva nei due episodi precedenti, La sedia rinuncia a un approccio immediato e diretto (pop?), delegando al secondo o al terzo ascolto (almeno) il compito di districare tutti i fili. Non che la materia sia ostica, tutt’altro. La ragione è da ricercare invece nelle aspirazioni di un lavoro a suo modo “orchestrale”, allentato, capace di rinsaldare 45


il legame profondo di Modica con la canzone d’autore ma anche di esplorare una dimensione nuova per quella psichedelia sognante ormai marchio di fabbrica del musicista. «La sedia è fermarsi, darsi una calmata e guardare al passato per non dimenticarsi di essere stati vivi, al presente per preoccuparsi e chiedersi il perché e al futuro per ricordarsi che c’è sempre un’altra possibilità per fare meno schifo. Considero il coltivare la memoria come la base di un progresso sano, sottintendendo per progresso la rielaborazione delle cose in funzione del benessere e non la manipolazione del concetto di benessere in funzione delle cose. Non imparare dagli sbagli è al di sotto persino delle bestie». La trilogia inaugurata dai due lavori pubblicati in passato trova quindi compimento: dall’infanzia (la stoffa morbida e confortevole di Annanna), all’adolescenza (la pietra dura della realtà esemplificata da Il fantasma ha paura), all’età matura qui rappresentata dal legno, materiale caldo e comunque vivo. Si fa pace con i mostri della vita reale, insomma, affrontandoli finalmente con occhi diversi. Un concept sui tempi moderni? Probabilmente si, ma alla maniera di Modica. Il che significa distorcere il punto di vista fino a interiorizzarlo in un grandangolo autobiografico sfumato, grazie soprattutto a una musica che gioca con gli spazi vuoti, le pause, gli arrangiamenti articolati. Con la poetica dei testi che segue a ruota: non più le fotografie oniriche ma essenzialmente descrittive dei “cassetti chiusi a chiave” di qualche anno fa, piuttosto suggestioni da cogliere, espressionismo slegato dalla consecutio temporum. Se Che mi dai è il brano più cinematografico e lisergico del lotto con i suoi cerchi concentrici di fagotto, mellotron e voci, l’iniziale Alieni è il Modica più familiare, Almeno il cielo è sempre uguale è l’Italia musicale in bianco e nero di cinquanta anni fa, Il divano mescola Syd Barrett e un’indole da brass band, L’albero delle mollette è cabaret in stile Liza Minnelli traviato dai Beatles (con la chiusura affidata agli intrecci vocali del “Coro acrobatico delle voci nell’armadio”). Quel che rimane di un disco registrato in analogico, ambizioso (numerosissimi i contributi strumentali, dal timpano al vibrafono, dal clavicembalo agli ottoni, dal flauto dolce agli archi) e a cui partecipa con un cameo anche quel Duggie Fields nel ‘69 coinquilino del Barrett già citato, è il misto paradossale di classicismo ed estrema libertà formale che si respira al suo interno. A dimostrazione che la personalità, quando c’è, non ha bisogno di effetti speciali o di trucchi da imbonitore. (7.2/10) Fabrizio Zampighi

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Aerosmith - Music From Another Dimension! (Columbia Records, Novembre 2012) Genere: tamarrock+ballads Nati ad inizio anni ‘70 come band di culto all’ombra dei giganti del rock (dai Led Zeppelin ai Rolling Stones), gli Aerosmith riuscirono a lasciare una traccia importante (Toys In The Attic e Rocks) appena prima dell’arrivo dello spazzino chiamato punk. Letteralmente a pezzi e autori di prove indecorose nella prima metà degli anni ‘80, Steven Tyler e compagni (all’epoca i chitarristi Perry e Whitford abbandonarono la causa per qualche anno) tornarono sulla cresta dell’onda, aggrappandosi alle spalle dell’esplosione glam/hair (e di MTV), con gli album Permanent Vacation e Pump, prima tuffarsi nei ‘90 con ballate strappalacrime di successo (Amazing, Cryin’ e poi I Don’t Want to Miss a Thing). Anni zero praticamente nulli, tanto che l’ultimo album vero e proprio (il dimenticabilissimo Just Push Play) risale addirittura ad undici anni fa, seguito poi da problemi di varia natura, cover e uscite minori. Si ripresenano nel 2012 con Music from Another Dimension!, album che sulla carte avrebbe dovuto rappresentare il grande comeback sulla scena mondiale. Purtroppo per loro, partendo dall’artwork old-style (e decisamente primi-883), è chiaro fin da subito che gli Aerosmith non riescono a bissare quanto fatto dagli AC/DC qualche anno fa: la riproposizione, quasi caricaturale, di se stessi è la medesima, ma manca il tiro giusto... e non solo. L’album infatti si apre con LUV XXX, introdotta da un discorso da datato sci-fi movie è il classico riff-orama hard bello ritmato con chorus che rimanda a Love In a Elevator, Steven però appare distante e fiacco, protagonista - un po’ come su tutto il disco - di una ricercata energia ormai persa (si pensi all’ultimo Kiedis). Rock-blues tamarro (tra Stones e AC/DC) come Oh Yeah o la decente Legendary Chid (ad un certo punto è impossibile non pensare a Sweet Emotion), aperture corali insensate (Beautiful, dove Tyler insegue Matthews Shadows degli Avenged Sevenfold), autocitazionismi vari (le chitarre+fiati di Out Go The Lights) e tentativi speed che non vanno da nessuna parte (Street Jesus) Poi ci sono loro, ovviamente, le cheesy-ballads languide da rimorchio: la semiacustica Tell Me, We All Fall Down, la pacchianissima (telefilm anni ‘90 dietro l’angolo) What Could Have Been Love? e il disastro annunciato di Can’t Stop Loving You, un pezzo alla ultimo Kid Rock in compagnia dell’ex-reginetta del country-pop Carrie Underwood, negli anni soppiantata da Taylor Swift. Chiude Another Last Goodbye (co-scritta da Desmond Child,


Eagle Twin - The Feather Tipped the Serpent’s Scale (Southern Lord, Ottobre 2012) Genere: Post Stoner Non è dato sapere se il messaggio criptico (e non avrebbe potuto essere altrimenti) rilasciato dagli Eagle Twin al termine delle registrazioni di The Feather Tipped the Serpent’s Scale - “questo disco segna il termine di un lungo e oscuro processo di ricerca, per tutte le persone coinvolte nel progetto..” - significhi la fine di un’era (o la fine del tutto). Ipotizziamo che loro, sconfortati dalla poca considerazione a fronte di una carriera sinceramente titanica, abbiano optato per una legittima riflessione: continuare o dichiarare terminato il proprio excursus musicale? Gli eventi ce lo diranno ma, nel frattempo, non possiamo non rilevare come quest’ultimo lavoro del gruppo sia uno dei dischi di metal estremo più interessante degli ultimi anni. Una radice ultra core e doom nella loro storia (provengono dai seminali Iceburn e Ascend) e la forza di isolarsi dall’universo per penetrare i misteri dell’occulto, hanno permesso al duo di Salt Lake City di sviluppare un concept a partire dal già significativo debutto The Unkindness of Crows, che oggi esplode in tutta la sua soffocante meraviglia. E per l’occasione, la produzione di Rundall Dunn ha significato l’aggiunta di un terzo uomo, di un concepteur d’elite, in grado di trasmettere alla band le regole soniche già applicate ai Wolves In The Throne Room, agli Earth e ai Boris. Descrivere gli Eagle Twin oggi è praticamente impossibile se non partendo proprio dai Wolves In The Throne Room dai quali la band eredita, non tanto il caos pagano della radice black metal, quanto la violenza oscurantista del doom estremo. Ma sarebbe limitativo definirli una doom band. Anzi, sarebbe fuorviante. Provate ad immaginare la fusione di Earth, Slayer e Pentagram, polverizzare il risultato in una macina composta dalle mole monolitiche di Mayhem e Saint Vitus e, infine, immaginare il risultato soffiato nell’oscurità del cosmo. Sarete vicini alla poetica maledetta di una Ballad Of Job Cain divisa in due parti, continuamente altalenate tra drumming epici, spoken gutturali, lastre di doom siderurgico e stomp gong alla Bongripper. Ancor di più in Lorca, sembra di avvicinarsi nuovamente alle prime note del debutto dei Black Sabbath, ma sconvolto dall’ascetismo malefico dei Bong e dalla marzialità neurosisiana. Gli Eagle Twin non solo hanno coraggio, ma anche un progetto musicale solido e inattaccabile che sublima nell’apocalisse Coleridgiana di Snake Hymn, in cui si materializza l’incubo dronico dei Sunn O))) prima che il break tipico degli Slayer di Angel Of Death squarci il velo e apra a una danza sacrificale violentissima. Niente da dire, gli Eagle Twin hanno scritto una delle migliori pagine di doom core degli ultimi anni. (8/10) Mario Ruggeri

storico filo conduttore tra Aerosmith e Bon Jovi). Considerando il livello di Music from Another Dimension! speriamo sia davvero un sincero “last goodbye”: gli Aerosmith del 2012 hanno tutti i sintomi di una ispirazione che non c’è e di un attaccamento maniacale a certi stereotipi (loro, in primis) legati inevitabilmente al passato e forzatamente riproposti fino allo sfinimento (l’album, tra le altre cose, è fin troppo lungo) nel segno dell’obsolescenza. (4.4/10) Riccardo Zagaglia

Allah-las - Allah-las (Innovative Leisure, Ottobre 2012) Genere: 60’ garage Il debutto di questo quartetto losangelino per Innovative leisure è un’esperienza totalizzante. Come chiudere gli occhi ed entrare nella macchina del tempo destinazione West Coast, la San Francisco garage e surf dei ‘60 e di Greg Shawn: Nuggets, Bomp, tutta quella roba lì. Ci siamo arrivati alla fine, un retrò completamente identico al vintage. Viene da chiedersi come faccia a piacere un disco così nel 2012, perché indubbiamente piace. La risposta è in realtà abbastanza semplice, gli Allah-Las hanno trovato la ricetta perfetta: evirare il garage di cui sopra della sua componente rock’n’roll, sostituendola con il jingle jangle 47


dei Byrds e il surf dei Beach Boys. D’altronde fare garage oggi pare davvero diventato sinonimo di saccheggio, quindi tanto vale razziare dai Byrds e dai Beach boys che piacciono a tutti giusto? E se due più due fa quattro, un fac-simile con sapore alla Youger than Yesterday dovrebbe quantomeno essere gradevole, fosse anche solo un quarto dell’originale andrebbe benissimo. Ragionamento perfetto, funziona proprio così. Gli Allah las hanno il merito di padroneggiare bene la materia, di far scorrere queste dodici tracce senza intoppi, di far vorticare di atmosfere svagate, leggere psichedelie e spiaggie in salsa lounge con assoluta naturalezza, permettendosi anche di uscire dai binari con la bossa nova di Ela Navega. Qualcosa di simile l’avevano fatto un paio d’anni fa i Fresh & onlys con Play it strange, ma qui la copia è di fedeltà assoluta. Si finisce col rimuginare il ritornello “beh cosa ci vuole, lo potevo fare anch’io”. E invece l’hanno fatto loro, onore al merito. (6.8/10) Stefano Gaz

Anthony Phillips - City Of Dreams (Voiceprint, Dicembre 2012) Genere: musica elettronica Confacendosi a meraviglia col significato della collana Private Parts and Pieces, anche l’undicesima edizione della raccolta si rivela espletazione di spunti e annotazioni decisamente privati; la musica elettronica qui affrontata da Phillips è - più che in passato - soliloquio disinteressato a considerare l’esistenza di un qualsiasi sottogenere nato e cresciuto negli ultimi quarant’anni (da quando cioè, l’elettronica fece breccia sul mercato popolare grazie ai vari Morton Subotnick e Walter Carlos). City Of Dreams rinuncia momentaneamente al mood acustico delle opere più note di Ant discostandosi pure dalle recenti dolcezze orchestrali in coppia con Andrew Skeet in Seventh Heaven. Risultato di queste investigazioni sono trentuno acquerelli che alternano pacificazioni ambient (Watching While You Sleep, Coral Island, Astral Bath) a soluzioni strumentali vicine per enfasi visiva al mondo delle colonne sonore, a cui si aggiungono alcuni episodi di scherzoso stordimento (la titletrack). Nei momenti più riusciti si gioca seriamente alla sottrazione, evocando paesaggi di indubbia profondità come nel caso di Desert Flower. Nella mancanza di un filo conduttore che leghi insieme una canzone alla successiva c’è spazio anche per uno scampolo tastieristico più convenzionale e lì il professionista sa commuovere con una progressione di accordi di meticolosa semplicità (Air & Grace). King Of The Mountains parte con l’enfasi fluida del tipico Vangelis cinematografico per sovraincidere 48

un assolo di chitarra elettrica che rimanda al Göttsching di fine Anni ‘70. I guai si odorano quando è selezionato sul synth un timbro oltremodo datato (Piledriver) o nell’azzardo di frenesie robotiche sprovviste del giusto ingranaggio (lo schizzo jungle Night Train To Novrogod). Il tutto - va ribadito senza che questa voglia risultare necessariamente un merito - senza il benché minimo criterio commerciale. Se ce ne fosse bisogno, Phillips ribadisce al mercato e ai suoi fedelissimi l’assoluto disinteresse nel dare alle stampe un prodotto che non riproduca tale e quale il suo estro del momento. Davvero indipendente, a tutto e a tutti. (6.9/10) Filippo Bordignon

Antibalas - Antibalas (Daptone Records, Agosto 2012) Genere: Afrobeat Sono passati 5 anni dal precedente Security nel quale il collettivo di Brooklyn aveva spinto i propri limiti stilistici fin quasi oltre l’afrobeat nel cui ritorno in auge aveva giocato un ruolo non secondario e al quale qui torna, ispirato in parte dall’aver lavorato al musical Fela!, in parte dal ritorno al banco della produzione dell’ex-membro Gabe Roth (anche produttore dei primi 3 dischi). Il gruppo infatti ricompatta le linee tornando ad una più stretta osservanza del manuale, dalla quale però riparte cercando la novità altrove, quasi più dall’interno che non nella contaminazione. I riff di chitarra e di organo acquistano infatti maggiore centralità rispetto a prima, guidando il flusso musicale ampiamente dispiegato nella durata lunga dei brani e sostenuto dalla forza poliritmica dell’ensemble, questa affidata anche a fiati in contrappunto e ricamo ritmico: vedi l’apertura subito in ballo di Dirty Money, che rallenta solo leggermente in The Ratcatcher ma arriva vicino al reggae in Him Belly No Go Sweet, viaggia dispari sulle stratificazioni ritmiche di Ari Degbe e Ibéji prima di ripartire nella frenetica apoteosi finale di Sáré Kon Kon col sax che si riprende il centro della scena tirando il tutto senza nessuna voglia di smettere. Per qualcuno è un paradosso che un gruppo occidentale sia così calato dentro una musica che nella terra e negli anni d’origine veniva suonata con un orecchio agli strumenti e l’altro alla porta da cui potevano irrompere militari, e vede in ciò la causa dell’assenza della tensione che animava i dischi di Fela Kuti; ma i testi, che esprimono talvolta sotto metafora talvolta direttamente temi cari al movimento Occupy (per il quale hanno anche suonato, e si guardi anche il video della suddetta Dirty Money),


Holly Herndon - Movement (RVNG Intl., Novembre 2012) Genere: experimental Movement, l’esordio di Holly Herndon, è una sorta di saggio anatomico: il corpo in relazione alla tecnologia e la decostruzione dello stesso allo stato pre-codificato. Più in generale è disco ultra-concettuale, che passa in rassegna vari nerdismi 90s (realtà virtuale, post-umanesimo, cyborg manifestoes e cyber-femminismo) per poi incasellarsi, estremamente contemporaneo, nel dualismo fra tecnofobia e tecnofilia. Un dualismo che in musica viene steso attraverso il doppio binario curriculare della nostra: da una parte il club come appreso dagli anni spesi in consolle a Berlino, dall’altra l’accademia come da laurea in Electronic Music and Recording Media al Mills College di San Francisco e attuale dottorato a Stanford. Si parla quindi di laptop e composizione vocale processatissima, di combinazione fra gelide astrazioni avant-garde e techno viscerale, di blend fra cerebrale e fisico. Eppure i paragoni - logici ed immediati - con gli ultimi lavori di Actress e Laurel Halo sono riduttivi: la proposta della Herndon è ben più coraggiosa ed intenzionata ad abbattere muri e nozioni assodate. La stessa concezione di elettronica come “intrattenimento” è limitata in Movement a due episodi su sette, ovvero la cavernosa Fade - che suona come il risultato di una collab fra Ellen Allien, Andy Stott e i Knife dopo una visione di Ghost In The Shell - e l’acida, kinetica, Aphex Twin-esca titletrack. Episodi che non possono che essere letti come concessioni all’accessibilità, come antri in cui sciogliere la tensione. La maggior parte del discorso è infatti estrema, ansiolitica, tenuta per isolamenti drastici degli elementi essenziali del grottesco, a tratti deliberatamente disgustosa. È il caso di Breathe, in cui respiri, sospiri e ansimi sono microprocessati, tritati e deformati per il massimo disagio; ancora di Dilato, controparte ideale dell’I Am Sitting In A Room di Alvin Lucier e della Numb di Stott, con la ripetizione del titolo affidata ad una bella voce outsider - quella del baritono classico Bruce Rameker - e condotta per via di time-stretching e pitch-shifting dal gutturale all’angelico, fino al totale, inquietante spoglio dei ruoli di genere. Movement è breve e disgiunto, ma non l’ennesima residenza per la sperimentazione inconsistente. La Herndon crede davvero nelle sue idee, la perseveranza che ci mette per realizzarle è palpabile e fa struttura da sè. Non solo: all’ascolto ripetuto vengono rivelati diversi livelli di profondità, tanto che dall’attrazione inconscia per l’orrorifico si arriva a rovescio alla sfera intima, quasi-sessuale. Come da concept, dalla antica (ma del tutto superata?) diffidenza e timore per tutto ciò che è tech, all’oggi dei device come estensione di noi stessi e della nostra espressione. Il lato sintetico della voce umana e quello organico della “musica fatta al computer” sono qui entrambi legittimati. Non è un disco facile e non può esserlo, ma alla dedizione si rivela per ciò che è: arte. (7.5/10) Massimo Rancati

mostrano che si può guardare comunque il mondo sfruttando la prospettiva, certo più sicura ma diversa, offerta dal vivere al centro dell’Impero. Magari senza senso di pericolo, ma con “tiro” e ispirazione. (7.2/10) Giulio Pasquali

Atlas Genius - Through The Glass EP (Warner Music Group, Novembre 2012) Genere: pop rock Ennesimo nome nuovo destinato al successo? Gli Atlas Genius sono tra le “next big things” della scena Australiana (recentemente vi abbiamo parlato dei Gypsy & The Cat e dei Collarbones) ed hanno tutte le caratteristiche

per fare breccia tra il pubblico figlio di O.C.. La band è formata da Keith Jeffrey, Steven Jeffrey, Michael Jeffrey e Darren Sell e se siete stati abbastanza attenti vi starete chiedendo “ma sono fratelli?”. Risposta affermativa, tanto che qualcuno li ha già etichettati come i Kings Of Leon australiani, non solo per alcune sfaccettature vocali di Keith. Gli Atlas Genius escono per la Warner Bros e non sorprende quindi che stiano già iniziando a ricevere un discreto airplay radiofonico negli States grazie al brano Trojans ed il suo appicicoso chorus “Your trojan’s in my head”. Detto questo, la formazione guidata da Keith Jeffrey non eccelle in nulla e lo dimostra senza troppi veli nell’EP di debutto Through The Glass. 49


Più un assaggio che un vero e proprio EP considerato l’esile contenuto, il quattro tracce Through The Glass si apre con la sopracitata Trojans, brano in cui le particolarità vanno ricercate in alcune e vaghe inflessioni alla Foals, probabilmente più evidenti nella successiva Back Seat: pulizia sonora, giochetti in direzione mathpop e andazzo svogliato ma trascinante. Il terzo brano in scaletta, Symptoms, rimedia un innocuo incrocio tra Temper Trap, Phoenix e un Miike Snow svuotato della componente electro prima di lasciare spazio ad una versione acustica di Trojans, probabilmente progettata per finire in una scena conclusiva di qualche telefilm americano. La musica contenuta in Through The Glass e gli altri brani disponibili su internet, tra cui If So presente nella soundtrack del videogioco Fifa 13, per il momento non ci permettono di sbilanciarci più di tanto. Attendiamo l’album, con aspettative piuttosto tiepide. (6/10) Riccardo Zagaglia

ginaria, drums and wires per davvero, a mostrare come l’amandran sia davvero l’origine del blues, sia per l’affinità tra lo ‘ngoni e la chitarra, sia per i call and response, sia per raccontare il quotidiano e gli umori profondi di una cultura (emblematica Afrika/Afro blues, ma anche le venature fusion di So/Fanzia). Ma nell’arte come in biologia è la mescolanza che rende più forti: così i 4 membri del gruppo che lo accompagna provengono da zone diverse del centroafrica (Senegal, Costa d’Avorio, Camerun) più un cubano, e tra il groove del titolo, un’aria diffusa da canti tradizionali e frequenti assonanze afrobeat, la musica esce dall’ortodossia trovando uno dei momenti più alti nel funk di Ambita/ Bakadaji o nei ricordi d’India col basso in evidenza di Yala (ma non solo, vedi Mama Don) mentre il manifesto Donnya oscilla tra swing e blues (e dal vivo prende una in perfetta naturalezza una piega reggae). A questo punto della carriera Sissoko ha ormai la mano sicura per essere se stesso mentre rilegge la tradizione. (7.1/10) Giulio Pasquali

Baba Sissoko - African Griot Groove (Afrodisia, Giugno 2012) Genere: Amandran Come ci spiegano le note di copertina, Sissoko appartiene ad un’illustre dinastia di griot: figura centrale nella cultura dell’africa subsahariana, un po’ saggio, un po’ cantastorie, un po’ memoria collettiva della comunità, come ai tempi in cui i ruoli di sacerdote, poeta, sciamano degli elementi e filosofo non erano così distinti. Un’eredità ancestrale protrattasi però anche oltre i tempi del colonialismo e delle varie diaspore africane, grazie a un adattamento alle nuove circostanze che, specie in situazioni di emigrazione, continuano a vedere necessaria la presenza di qualcuno che interpreti e trasmetta la cultura di un popolo (e lo stesso Sissoko si è trasferito da tempo in Calabria). Nella pratica dei griot musica e aspetto scenico hanno sempre rivestito un ruolo centrale: non stupisce quindi vedere alcuni di essi avere successo nello spettacolo. Baba porta avanti da anni una ricerca sull’amandran e sulla musica tradizionale del suo paese d’origine, in un’ottica di contaminazione che lo ha portato a suonare i suoi strumenti tradizionali (lo ‘ngoni, a corda, e i tamani, tamburi parlanti) con gruppi piuttosto lontani tra di loro (Art Ensemble of Chicago e Buena Vista Social Club per dirne due), o a metter su collaborazioni che portavano a mescolare il suo patrimonio musicale col jazz o col folk rock (vedi il progetto con Aka Moon e Black Machine, o quello con Il pozzo di san Patrizio). Stavolta la scelta è diversa: si torna all’essenzialità ori50

Balmorhea - Stranger (Western Vinyl, Ottobre 2012) Genere: Chamber post rock Con il quinto disco, il duo di Austin (benché ormai fisicamente separato) prova a cambiare direzione: con calma, com’è nelle loro corde, ma il camerismo dei dischi precedenti qui accoglie variazioni di suono e dinamica dovute ad una paletta strumentale che adesso include anche, tra le altre cose, inserti elettronici, chitarre elettriche, oltre a una maggiore presenza delle percussioni. Siamo sempre lungo le onde di strumentali sereni, ottimamente prodotti, che fluiscono piacevoli e atmosferici l’uno nell’altro (i due brani iniziali), ma già nel terzo Fake Fealty le dinamiche portano a momenti di grinta ritmica che proseguono anche nella successiva Dived. Archi e piano sono qui come al solito, ma le chitarre effettate richiamano in Jubi certo Metheny anni ‘80, tracciano etereità in Shore e nel bozzetto Islet (ma anche in Pyrakantha, prima del crescendo con elettronica, steel drum e infine batteria tradizionale), mentre la più strana del lotto, Artifact, giustifica gli accostamenti precedenti al post-rock coi suoi arpeggi da Fripp primi anni ‘80 (e anche certi controtempi si collocano tra i King Crimson di quel periodo e i suoi dischi con Andy Summers). Passi avanti, forse ancora da focalizzare del tutto, ma intrapresi con l’eleganza consueta. (6.9/10) Giulio Pasquali


King Dude - Burning Daylight (Dais, Novembre 2012) Genere: dark folk Parlavamo poco tempo fa dei Cult of youth ed ecco arrivare l’illustre compare, TJ Cowgill aka King Dude, altra punta di diamante del neofolk americano. Un po’ cantante un po’ imprenditore (si è inventato uno marchio streetwear a croce in giù dal nome Actual Pain, di cui cura personalmente accessori magliette eccetera) Cowgill l’anno scorso aveva sorpreso con Love, disco struggente che rileggeva in chiave nera e scarnificata parecchia della tradizione folk a stelle e strisce scomodando i vari Dylan e Cash. Come i suoi predecessori anche questo nuovo disco è intriso di sacralità, invocazioni a Dio e al Diavolo, personaggi rassegnati allo scorrere del tempo e quindi al sopraggiungere della morte (i drive my hearse in reverese coz’ i know when i die o ancora there’s no use in lying cuz’ i know that i’m dying my friend/ my body is leaving and i know Death is reeling me in). Tutto gira intorno a voce e chitarra, gli elementi essenziali del King Dude pensiero. Temi morriconiani a sfondo western, ballate per cuori spezzati, Cowgill che gioca a fare il crooner con la sua voce greve e baritonale. Ed è proprio la voce il topos più indagato, un canto estremo e quasi parodistico nei timbri funerari (Barbara Anne) o nell’esaltazione del vibrato (Lorraine), in ogni caso alla ricerca di nuove forme e soluzioni senza rinunciare a un pizzico di ironia. Anche la musica allarga il respiro, agguanta la rabbia del blues (I’m Cold), vede assimilata la lezione Dirty Beaches (Holy Land che rilegge in chiave polverosa i Suicide, You can break my heart che già dal titolo bussa alla porta di papà Elvis) e soprattutto pone molta più attenzione negli arrangiamenti, finalmente incisivi in un fiorire di strepitii tenui e altezzosi. Così Burning Daylight riesce a avanzare con maggior complessità quella dicotomia tra dolcezza e oscurità che è il vero tratto distintivo della poesia Cowgilliana. I detrattori potrebbero dire che è uno un po’ finto il Dude, uno pronto a marciare nell’hype del ritualismo stile chitarra e passamontagna, eppure sotto la maschera c’è un songwriting ispirato, capace di emozionare e centrare sempre il bersaglio (Jesus in the countryard). Il dark folk 2012 è marchiato col suo nome. (7.5/10) Stefano Gaz

Bambounou - Orbiting (50 Weapons, Novembre 2012) Genere: Techno Che la techno sia il vero, nuovo terreno di conquista dei producer votati all’inventiva non lo dimostra solo quel che abbiamo raccontato su speciale e osservato dal vivo, ma anche quel che stan facendo due delle label più dinamiche e originali che si son viste quest’anno, Monkeytown e 50 Weapons. Entrambe dirette con mano caparbia e decisa dai Modeselektor, d’estrazione intellettuale la prima e più club-oriented la seconda, nel 2012 le due etichette han saputo offrirci uno spaccato affascinante delle direzioni più prolifiche recitate dal verbo techno, passando dalla rigidità da club di Shed e Benjamin Damage/Doc Daneeka alle aperture garage ben orchestrate da Phon.o e Lazer Sword, senza contare le teorie personali più caratteristiche di Otto Von Schirach o Anstam e le mosse da fuoriclasse di Mouse On Mars e Addison Groove. Coi Modeselektor a dettare i tempi, tutto avviene sem-

pre a gran velocità. Il giovane produttore parigino Bambounou, ad esempio, non ha fatto nemmeno in tempo l’anno scorso a venir fuori da etichette underground come Youngunz e Sound Pellegrino che già questo agosto era al primo EP su 50 Weapons, poi un altro paio di mesi e arriva l’album che fa impazzire diversi addetti al settore, tra cui una garanzia di qualità come Laurent Garnier. Facile pensare che le esitazioni spariscono quando non si hanno dubbi, perché il ragazzo in effetti sembra tutto tranne che un principiante in cerca del proprio nord: Orbiting mostra sicurezza e autorevolezza in ogni risvolto, componendo un mosaico di sfumature piantate tra le derive moderne a partire da un midollo osseo fatto di tensione minimal techno e aggressività urbana. Da una parte Mass e Let Me Get che esaltano i loop stretti del juke, con scoppi di energia dancey che il ghetto difficilmente avrebbe replicato, dall’altra Splaz, Great Escape e Any Other Service che riprendono le fascinazioni future-garage con rinnovato spirito melodico e una punta di sana invidia verso la coppia Jimmy 51


Martha Wainwright - Come Home To Mama (V2 Music, Ottobre 2012) Genere: pop La nascita di un figlio, la morte della madre. La ruota gira e sono carezze e ceffoni, il togliere e il dare della vita che spesso riverberano sul versante pop-rock come invasive infusioni di concretezza. Con Martha Wainwright, invece, le cose non vanno così. Forse meno addicted alla messinscena rispetto al fratello Rufus, è comunque uno spettacolo d’arte varia quello che allestisce con questa terza prova d’inediti (a quattro anni dal buon I Know You’re Married But I’ve Got Feelings Too). Se nel frattempo lo splendido live dedicato ad Édith Piaf faceva supporre un rinculo verso territori nobili dell’arte canzonettistica, questo Come Home To Mama - registrato nello studio di Sean Lennon - cala sul piatto una rinnovata voglia di sparigliare le carte. Decisiva è stata la mossa d’affidare la produzione a Yuka C Honda delle Cibo Matto, che ha portato in dote ghiribizzi elettronici e il prurito della misticanza stilistica, oltre al di lei marito Nels Cline, ospite pregiato alla chitarra. Ne risulta un album poliedrico e vivace, croccante d’intelligenza e sensibilità. Il registro svaria dalla spersa malinconia bluesy di All Your Clothes alla piacioneria folk-errebì di Can You Believe It, passando da spasmi ed esotismi David Byrne (la tesa I Wanna Make an Arrest, una Radio Star irrorata glam), solennità crepuscolari (la gravità à la Sandy Denny di Everything Wrong) e altri approcci diversamente arty (le impalpabili arguzie di Leave Behind, la wave acidula di I Am Sorry, lo pseudo trip-hop di Some People...). Quanto a Proserpina, pezzo scritto dalla madre Kate McGarrigle nei suoi ultimi giorni, è un melò cameristico corale che per quanto suoni avulso dal resto del programma sembra esserne l’ombra luminosa, il momento di massimo artificio che va a coincidere col massimo di (struggente) verità. Del resto con Martha la messinscena è solo un altro modo in cui il vero può (rap)presentarsi, prassi che ne potrebbe mettere a rischio la credibilità se la caratura di autrice ed interprete non fosse a livelli (oramai) altissimi. (7.2/10) Stefano Solventi

Edgar+Machinedrum: sono le direttive che lasciano più il segno durante l’ascolto, strappi intelligenti a una regola base che invece affonda i colpi in Data o Off The Motion, svelando il retaggio minimal da club underground di Bambounou. È un suono abrasivo e votato alla notte, che però sa esibirsi in slanci electro d’impatto pià cerebrale, come in Capsule Process e EX06. Orbiting è l’album giusto per riassumere lo stato di forma della techno 2012 e presentare un autore con le mani in pasta nella scena che conta. Le scimmie di Berlino non ne sbagliano più una. (7/10) Carlo Affatigato

Bettye LaVette - Thankful N’ Thoughtful (ANTI-, Settembre 2012) Genere: Soul, r ’n’b 50 anni di carriera accidentata che da qualche anno ottiene i meritati riconoscimenti: le nozze d’oro con la discografia arrivano nel momento migliore per questa signora del soul old style. Per festeggiare, dunque, autobiografia e disco nuovo che, dopo Interpretations 52

costruito su firme UK, stavolta pesca il repertorio dagli USA (con significativa eccezione). Con la produzione di Craig Street (già con Norah Jones, tra gli altri) che fa tessere al gruppo una trama sonora notturna, fremente di distorsioni e di un occasionale tremolo sulla chitarra (calzante, benché dai Calexico e da Tarantino in poi sia diventato quasi più inflazionato del flanger negli anni ‘80), la nostra sfodera tutte le arti che ben le conosciamo: graffi e passione, ruvidità e cuore, e la profondità sensuale di una voce che ha cinque decenni di lezioni soul da impartire. Anche troppo, però: il repertorio di vocalizzi, ricami, rubati, variazioni melodiche che Bettye conosce in tutti i suoi recessi viene squadernato in misura forse eccessiva, quasi senza interruzione e, invece di essere utilizzato come decorazione e abbellimento al momento giusto, spesso diventa una spezia che prende il posto di qualsiasi altro sapore. Certo, Everything’s Broken di Dylan che aveva già una struttura blues funziona, come I’m Not The One dei classicisti Black Keys che risulta personale pur senza esagerare in distanza dall’originale; la title track era di Sly


& The Family Stone quindi ci siamo (e la versione ha tutti i pregi e nessuno dei difetti del disco) e Everybody Knows This Is Nowhere è la conclusione che scioglie la tensione su una nota lieve. Ma, pur senza pretendere filologia fuori luogo, altre volte dispiace veder sparire le belle melodie originali: vedi Yesterday Is Here di Tom Waits (retta da un piano che sembra uscire da un grammofono), o il classico Dirty Old Town (l’eccezione di cui dicevamo, ma col testo riportato negli USA delle tensioni razziali) presente in due versioni (un mid tempo vibrante la prima, un blues rilassato intorno a una bella figura di batteria la seconda). Crazy degli Gnarls Barkley, invece, era nell’originale che soffriva di qualche sguaiatezza, e qui migliora sia nell’arrangiamento rarefatto che nell’interpretazione vocale, più misurata rispetto al resto; ma rimane il fatto che, come nelle due precedenti, se avesse cantato un altro testo e cambiato il titolo non l’avrebbero riconosciuta neanche gli stessi autori. Ma non si può certo chiedere a Bettye di rinnegare la sua natura e la sua storia, o un genere che vive più di cuore che di osservanze e per il quale tutto ciò va benissimo: anche un po’ meno, però. (7/10) Giulio Pasquali

Bison B.C. - Lovelessness (Metal Blade, Novembre 2012) Genere: Heavy Metal Quiet Earth. Dark Ages. Infine Loveleness. Ovvero, un pianeta terra quieto, un’era oscura e infine una vita senza amore. In pratica, la trilogia della disperazione, secondo i Bison B.C. che, nel breve giro di tre dischi, sono passati da band metal emergente (e parzialmente grezza) a gruppo di riferimento nella scena heavy nordamericana. Vengono da Vancouver e hanno allineato la loro carriera a quella della Metal Blade che ne ha patrocinato gli ultimi lavori, credendo ampiamente nelle loro possibilità. Ebbene Loveleness è la risposta più concreta a questo atto di fede e racconta perfettamente origini e sviluppi dei Bison B.C. Fondamentale conoscere le loro radici, per entrare perfettamente nel quadro apocalittico di uno dei migliori dischi metal dell’anno; e quindi è doveroso ricordare come la prima incarnazione della formazione congiungesse le partiture aggressive e secche del thrash metal, la greve cadenza del doom con lo state of the art dell’Heavy Metal inglese. Tutta la loro vita si è concentrata sullo sviluppo di un tema fatto di tre elementi ben distinti e, se prima il punto di caduta della band era la difficile amalgama fra i generi oggi, trovata la qua-

dratura del cerchio, diventa l’arma vincente. Tutto ha inizio con An Old Friend in cui James Farwell, cantante e chitarrista, dimostra una versatilità non comune, danzando (metaforicamente) tra il power metal ortodosso degli High On Fire, il chitarrismo degli Iron Maiden e l’incedere tipico dei Black Sabbath, spezzato da una marcia speed chiaramente thrash metal, alla Forbidden. La forza sta nel tema di fondo, lanciato con la prima canzone del disco e poi mai abbandonato, come dimostra il gioco a intarsi di Last and First Thing, tutta sviluppata sul classico intreccio di “guitar twin” Judas Priest, che si aprono solo con un sottile gioco di armoniche vicino ai primi Machine Head: ed eccolo il thrash evoluto che ritorna in una scarica di watt che il Logan Mader di Davidian ha consacrato a status metal. Metal, metal, sempre più metal in Blood Music, ma ribadiamo, è nell’insieme, nell’omogeneità, nel trademark musicale, che i Bison B.C. si giocano le frecce migliori. E centrano il bersaglio. Una band sicuramente non innovativa, ma nel conservatorismo tipico del metal di ogni tempo, sfavillante. (7.2/10) Mario Ruggeri

Blood Command - Funeral Beach (Fysisk Format, Dicembre 2012) Genere: Post Metal Bergen, Norvegia, crocevia culturale del Nord Europa. Terra silenziosa ma così importante per la storia della musica. Bergen, la città di Grieg, del Peer Gynnt Ibseniano, landa desolata di atrocità Black Metal, dance (Royksopp) e NAM (Kings Of Convenience). Bergen: confine delle sperimentazioni e dei Blood Command che gettano i semi nel 2008 e, dopo un paio di lavori sotto misura, raccolgono i frutti, nel 2012, con Funeral Beach. Non si gridi al capolavoro, non ancora, perché i Blood Command devono ancora chiarire a loro stessi alcuni punti fondamentali, come ad esempio l’equilibrio da tenere in fase di composizione, però il dato di partenza è interessantissimo, Funeral Beach nasce dall’esigenza di fondere la club music (loro passione) con il punk hardcore (loro provenienza artistica). Un esperimento che, letto da un altro punto di vista, ricorda quello degli ultimi Justice che partendo dall’elettro pop, sfociavano nel rock. I Blood Command si prendono il rischio di tentare una strada di fusione, di commistione, fra generi apparentemente in conflitto tra loro e, come già detto, a volte non si capisce dove vogliano andare esattamente, soprattutto quando si concedono al pop o alla tentazione di un bel singolo da classifica (Wolves At The Door). 53


Raime - Quarter Turns Over A Living Line (Blackest Ever Black, Novembre 2012) Genere: post-industrial Erano attesi per il battesimo sulla lunga distanza, Joe Andrews e Tom Halstead, in arte Raime, dopo che la trilogia su Blackest Ever Black degli Ep - Raime Ep / If Anywhere was here we would know where we are / Hennail aveva preparato il terreno dando ampie indicazioni sul tipo di sonorità che i due volevano visitare. Più che musica, quella dei Raime è una scenografia, uno studio d’ambiente, una forma di soundtrack della notte metropolitana. Il risultato finale si traduce in un design profondamente noir: paranoico, inquieto, disturbato. I Raime abitano le ore della notte con la stessa sicurezza con cui i colletti bianchi si affollano intorno alle 8.00 del mattino. Arriva da qui l’evidenza proclamata con cui seguono una tradizione prettamente britannica. Da un lato il flirt, quasi istintivo, con la corrente dubstep, che viene trattata come indole di fondo, come materiale grezzo, privato dei suoi riflessi più carnali. I due brutalizzano di fatto il sound Hyperdub con una lama minimalista che stacca letteralmente la sostanza delle cose dalle notti più lussuriose di Burial, Scuba e Kode9 lasciandone solo uno scheletro esanime. Dall’altro il tributo alla tradizione post-industrial e dark-ambient, di cui si pongono evidentemente come gli ultimi profeti. Lo scontro tra la ritmica algida, digitale, inumana che sa di dub androide e la saggezza dei sample concreti e metallici che si stendono come nebbia nelle strade, apre un varco sensibile con l’isolazionismo di metà ‘90: Scorn soprattutto, ma anche Main, :Zoviet*France:*, Thomas Köner, Techno Animal e tutti i nomi catalogati nella seminale Ambient 4: Isolationism. Nascono così i brani di Quarter Turns Over A Living Line, che asciugano se possibile una tavolozza di suoni, mostrata negli ep, già estremamente austera di suo. Ne è un esempio The Last Foundry, che riprende la This Foundry del Raime Ep, riletta poi magistralmente da Regis, dove l’elettronica aveva ancora un taglio concreto e nell’ordine delle cose. Il confronto con quella contenuta nel disco di debutto, non potrebbe dare indicazioni più chiare su dove stanno andando a parare Andrews e Halstead. Il mimalismo maniacale della ritmica di Soil And Colts segna evidentemente un ulteriore stato del degrado costante verso cui tendono le composizioni dei Raime. Sempre più vuote, con gli echi sempre più profondi e i suoni sempre più distanti. La catastrofe sceneggiata in Exist In The Repeat Of Practice non nasconde per altro l’ossessiva disposizione dei suoni e dei campionamenti. C’è sempre una forma di eleganza molto inglese nel modo in cui i Raime mandano in rotazione e giocano con la circolarità, si veda la fragranza blues di Your Cast Will Tire che riprende il taglio urbano post-Neubauten degli Heaven And, o ancora la maestria con cui si mette mano al lato più “aereo”, con i campioni di archi e strumenti a corda di The Dimming Of Road And Rights che mandano in gloria il disco e chiudono malinconicamente sui i titoli di coda per quella che potrebbe essere la soundtrack ideale di La Fin absolue du monde. (7.5/10) Antonello Comunale

Eppure, quando rimangono concentrati, i ragazzi di Bergen riescono a tirare fuori dal cilindro qualcosa di paradossalmente vicino agli At The Drive In, solo che in versione più ballabile. Un hardcore isterico, quello di Funeral Beach, ma anche saltellante come March of the Swan Elite, tra i pezzi più convincenti di tutto il disco. Non per portarla sempre sul rock, ma i Blood Command convincono maggiormente quando l’ago della bilancia si sposta sull’hardcore. E’ lì che la loro reinterpretazione di Orange 9mm, Refused e Justice diventa materia indubbiamente interessante. I numeri ci 54

sono, l’idea pure. Ora, spazio alla chiarezza. E il gioco è fatto. (6.7/10) Mario Ruggeri

Born Blonde - What the Desert Taught You (Moriarty the Cat Records, Novembre 2012) Genere: britpop / psy Nell’ultimo decennio in tanti hanno provato - invano a far resuscitare la scena britpop: i residui post-britpop brevemente fagocitati dai Coldplay, un ramo della scena


indie-UK mid-00 (dai Kaiser Chiefs ai Kasabian, passando per i Jet), progetti paralleli/solisti minori e gruppi da facepalm come i Viva Brother. Le recenti live reunion (Stone Roses, Blur, Suede e Pulp) da una parte dimostrano che la nostalgia di quel periodo oggi è diffusissima, dall’altra hanno la fisionomia di chi ha il compito di celebrare il passato, tarpando ulteriormente le ali ad un’ipotetica rinascita. Nonostante le premesse, cinque londinesi capitanati da Arthur Delaney da un paio d’anni girano per le terre albioniche armati di buona volontà e sostegno alla causa. Si chiamano Born Blonde e per la Moriarty the Cat Records pubblicano il loro album di debutto What the Desert Taught You, uscito dopo una serie di singoli piuttosto promettenti. Il tocco dei Born Blonde è spesso influenzato da una psichedelia spacey, più cullante che acida (l’iniziale Solar) e da sonorità puramente anni ‘90. Si prenda I Just Wanna Be: intenti fluttuanti (“I just want to fly. I don’t want to fall”), pattern di batteria collaudato, strofa vagamente Oasis e ritornello abbastanza anthemico per riaccendere le speranze del popolo brit. Certi The Verve e The Charlatans rivivono in brani come Light On, sorretto da un basso bello corposo.Dopo una parte centrale del disco più radiofonica (Signs Of Fear), con These Days I Dream of Pyramids si torna ad ondeggiare lentamente. La voce melodica e sognante di Arthur è perennemente protagonista e tende ad assumere una connotazione più roca quando aumenta i giri. A livello strumentale bisogna riconoscere alla band il coraggio di smarcarsi da qualsiasi moda del momento (distorsioni shoegaze o hip-hyped sounds ad esempio), cercando una soluzione di derivazione brit ‘90s che va ad attingere da varie fonti, senza necessariamente clonare. In questo senso importante un utilizzo di piano/tastiere mai invadenti ma quasi sempre presenti (Dreamland, Radio Bliss). What the Desert Taught You non brilla di originalità e presenta qualche filler di troppo (dovuti probabilmente ad una capacità compositiva ancora da rodare), ma nel complesso si fa più che apprezzare, soprattutto se si è alla ricerca di un ascolto poco impegnativo. (6.4/10) Riccardo Zagaglia

Brian Eno - Lux (Warp Records, Novembre 2012) Genere: ambient Lux è inequivocabilmente un album di musica discreta. E perché farne oggi, nel 2012, di musica discreta? Impossibile comprenderlo se non si pensa a Scape, l’applicazione per iPad che Eno ha rilasciato da poco.

Niente a che vedere con il caso Cage-iano, se pensiamo che le due cose (disco e app) sono state raccontate in un’intervista unica (che potete ascoltare qui). “Abbiamo molte più chance di scegliere come ascoltare oggi”. E abbiamo molte più chance di scrivere per i fatti nostri l’album che vogliamo ascoltare. Come ha detto Brian al Guardian: “A partire da Discreet Music e da Music For Airports, ho mostrato il processo della musica generativa in azione. Con Scape, quello che voglio fare ora è vendere il processo a chiunque, e non il mio output di quel processo”. Lux è esattamente un’altra versione di quel “process in action”. Una composizione di 75 minuti in 12 sezioni che porta a compimento la sonorizzazione delll’istallazione, Music for the Great Gallery of the Palace of Venaria, realizzata l’estate appena passata alla Galleria Grande della Venaria Reale di Torino. Un’ora e un quarto in quattro parti, suddivisione che ricorda subito Music For Airports, rispetto al quale è un po’ più “dramatic” (soprattutto per i picchi dinamici sulle note alte nella seconda e terza parte), con un uso degli strumenti che ricordano On Land. Più estatico di Discreet Music (diciamo più vicino - ma con meno “mistero” - a Neroli). Lo stesso mattoncino-tema minimalista è rilasciato piano piano, in vena, per tutta la durata dell’album, con un’insistenza e un effetto ipnosi che ricordano Morton Feldman per pianoforte. C’è un ragionamento in più da fare. La musica ambientale nasce come musica per rassenerare le ansie dei fruitori degli ascensori dei primi grattacieli, grazie all’opera della Muzak. Musica industriale per calmierare psicodrammi standard. Brian è colui che ha rigirato la frittata, e l’ha pensata come musica come supporto, superficie di iscrizione personale. Musica “per”, da far abitare ai rumori della giornata, del momento in cui la si ascolta. Oppure - ma allora è thinking music - il supporto di iscrizione è per i nostri pensieri. Con Lux viene da domandarsi da che parte stiamo. Da che parte sia oggi la musica generativa di Eno. La questione non è tra musicista e non-musicista, ma l’eterna tensione tra ascoltatore e non-ascoltatore. È una questione davvero peculiare alla musica generativa. Nell’ascensore oggi ci stiamo con le nostre cuffie che abbattono il rumore di fondo. Siamo isolati. Eppure i pensieri sono più roboanti del rumore meccanico del contrappeso dell’elevator che va su e giù. E i picchi minimalisti delle tastiere di Eno interagiscono con i nostri neuroni. Li influenzano in definitiva molto di più che nel passato, e quindi sono subdoli, se fruiti dentro il manifesto Eno-iano di una vita. Non è una forma di meditazione: Eno si scarta in modo assertivo e definitorio dall’ambientale mistico-new age-iana di compositori 55


come Steve Roach (da noi intervistato qui e con mille rigagnoli di acqua santa di Palo Alto ancora da esplorare nelle dune del deserto). Brian è dentro il presente. E capisce bene che rifare la stessa cosa non vuol dire davvero riproporla, dato che i requisiti a contesto (noi) sono (siamo) cambiati. (7/10) Gaspare Caliri

Brokeback - Brokeback And The Black Rock (Thrill Jockey, Novembre 2012) Genere: rock I Brokeback sono lo sfizio che Doug McCombs si concede dall’ormai lontano 1995. Un combo mutante che dal 2010 si è consolidato in quartetto: assieme al bassista (qui anche chitarrista) dei Tortoise ci sono musicisti dell’area chicagoana come James Elkington degli ex-inglesi The Zincs (chitarra, organo e batteria), Pete Croke (basso) e Chris Hansen (chitarra), questi ultimi assieme nei tosti Head Of Skulls. Registrato negli studi dell’amico John McEntire, Brokeback And The Black Rock è il quinto titolo del progetto e rispetto all’ormai lontano predecessore Looks at the Bird (Thrill Jockey, 2003) suona potente e rilassato, un divertissement da professionisti con la fiammella della passione ancora accesa. Otto strumentali che miscelano brume desertiche, retaggi prog-psych (in senso tortoisiano, vedi Don’t Worry Pigeon) e un pizzico di peregrinazioni post, in una forma estremamente fruibile, a tratti persino radiofonica (come i Calexico in estasi lisergica di Tonight At Ten e Will Be Arriving). A sorreggere il tutto c’è un piglio friendly che nei titoli diventa persino umoristico, come a stemperare la naturale attitudine ad un eccesso di epicità: vedi la drammatica Colossus Of Roads o i miraggi morriconiani che pervadono Gold! e The Wire, The Rag, And The Payoff. Va sottolineata una eccessiva attenzione nel suonare per suonare (esercizi sulle strutture, calligrafie strumentali...) che sposta il baricentro emotivo sul sentire (che in effetti è un bel sentire, McEntire sa il fatto suo) determinando di contro un ascolto appagante ma poco evocativo, senza mistero. Mi verrebbe da definirla una raccolta di brevi soundtrack per gratificanti chill-out salottieri. Mah. Fate voi. (6/10) Stefano Solventi

Calvin Harris - 18 Months (Columbia Records, Ottobre 2012) Genere: Trance pop Non deve stupire se Calvin Harris prima lo selezionia56

mo nella summer compilation mainstream e poi finiamo in sede di recensione per dirne tutto il male possibile. La compilation estiva rappresenta la classica selezione goliardica che sporge la testa oltre il davanzale ad osservare cosa succede “fuori”, a scorrere i pezzi con la massima spensieratezza senza spendere tempo in analisi o solidità di stile, aspetti sotto i quali invece la preferibilità della musica del soggetto in questione crolla miseramente. Ed è qualcosa che in Harris si è accentuata soprattutto in tempi recenti, perché in fondo il primo album I Created Disco riusciva ancora a mantenere una propria dignità, grazie soprattutto all’autoironia e all’esplicito richiamo dei meccanismi classici di catalizzazione dance ereditati dai 70/80. Ora invece è tutto diverso. Lo scozzese ha furbamente assorbito lo spirito di quelli con cui condivide i piani alti della DJ Mag top 100 (quest’anno ha raggiunto il 31° posto) e ha gettato il solito fumo negli occhi con un album alla David Guetta, pieno di collaborazioni illustri e singoli già di ampio successo, dandosi con convinzione nella trance, che non è solo il genere che storicamente s’è svenduto ai meccanismi commerciali peggio di tutti gli altri, ma anche l’unico col quale puoi ancora produrre un pezzo piatto come pochi e riscuotere comunque gli applausi degli affezionati della scena. Che poi è proprio il caso di Bounce con Kelis - giro melodico di sconfortante monotonia, n. 2 nella UK chart - e di Sweet Nothing, cordiale ma banale nella struttura, con in più il demerito di ridurre Florence Welch ad anonima voce femminile di genere. Con dieci featuring eccellenti su tredici brani veri totali c’è poco da discutere sulla nuova piega stilistica dell’autore, dell’happy pop di Feel So Close (una manna per radio e negozi d’abbigliamento) o della scelta electro house di Awooga (il modo più facile per far massa in un album dance). Come sempre in questi casi contano i nomi e l’immagine adottata, e la scelta di un profilo danzereccio così povero di spunti e omologato a schemi vecchi di dieci anni (Drinking From The Bottle, Let’s Go) non fa altro che rivolgersi sulle file di ascoltatori meno esigenti e caratterizzate da una fruizione di massa e “ignorante” (ci scusino i fan ma è così: qualsiasi altro dance act disponibile oggi, compresi Deadmau5, Zedd o Madonna, offrono energie e stimoli più solidi di 18 Months). Mettici anche il brutto di vedere artisti di differente estrazione che rinunciano ai propri caratteri distintivi per appiattirsi sullo stile imposto (I Need Your Love e We’ll Be Coming Back, prove di carisma fallite per Ellie Goulding ed Example) e le delusioni si accatastano. Alla fine gli unici a fare una minima figura sono Rihanna (la hit


Scott Walker - Bish Bosch (4AD, Dicembre 2012) Genere: contemporanea Riesce molto difficile racchiudere nello spazio limitato di una recensione l’ennesima opera compiuta di quel genio musicale contemporaneo che conosciamo sotto il nome di Scott Walker. A distanza di sei anni dall’oscuro ed estremo The Drift e intrapresa sin da metà anni Ottanta una strada che lo ha definitivamente separato dalla prima parte della sua carriera “pop”, l’artista americano procede senza minimamente guardarsi indietro, andando continuamente al di là dei propri limiti. In questo consiste la sua sfida, effettuata con autentica passione artistica e un sottile e crudo sense of humour: superare la forma musicale, mescolando generi e modi, attitudini, umori e materiali più disparati, di cui la musica è solo una parte. Il risultato, anche e soprattutto in questo caso, è un patchwork che trascende le singole parti, per farsi risultato artistico a tutto tondo, capolavoro. “Lavoro fatto, in ordine”, recitano le note stampa a proposito del significato dell’espressione Bish bosh, che nel titolo dell’album diventa Bish Bosch, citando il visionario e simbolico pittore fiammingo Hieronymus Bosch. L’’ordine’ è quello derivante dalla giustapposizione delle parti. In questo caso l’album non è un vero e proprio concept ma consiste in tante piccole narrazioni che nel disegno del musicista diventano un unicum organico, un fluire ininterrotto di cantato, recitato, sofferto e declamato. Lirica e drammatica, tesa e liberatoria, più ricca di sfumature e meno oscura rispetto al precedente disco, l’opera segue il filo della voce narrante Walker, che si fa guida attraverso l’humus figurativo e sonoro, iterativo e cinematico. Come un dipinto di Bosch, si scoprono sempre nuovi tasselli e angolazioni che ne completano il senso, mescolando bene e male, senza dare alcun giudizio. Musicalmente Bish Bosch è abbastanza affine a The Drift per quanto riguarda l’aspetto formale: abolita quasi del tutto la forma canzone, il cantato-recitato, lirico ed espressionista procede liberamente come un flusso, accompagnato dall’onnipresente ritmo, e dall’uso di chitarre, tastiere e fiati, che ne contrappuntano il narrato. Tutti elementi, questi ultimi, che rappresentano una novità assoluta. L’orchestra è usata soprattutto funzionalmente per gli effetti sonori; l’effetto è quello di una pienezza assoluta di suono ed è lasciato totale campo libero alla sperimentazione e alle soluzioni di arrangiamento: fra gli “strumenti” usati è presente perfino un machete. Testi e suoni procedono di pari passo, intersecandosi gli uni negli altri, in un procedimento cinematografico che richiama molto una danza sonorizzata, più che un album sperimentale tout court. E non a caso dopo The Drift Scott Walker aveva composto And Who Shall Go To The Ball? And What Shall Go To The Ball?, una suite strumentale per una pièce di danza contemporanea del coreografo Rafael Bonachela pubblicata in edizione limitata nel 2007, mentre nel 2009 si era occupato delle musiche di un altro balletto, Duet For One, coreografato da Aletta Collins ed ispirato a Jean Cocteau. I testi di Bish Bosch uniscono tante piccole e grandi storie, flash e narrazioni che comprendono vicende storiche (l’esecuzione del dittatore rumeno Ceausescu e di sua moglie Elena in The Day The ‘Conducator’ Died, un buffone della corte di Attila e la recente scoperta astronomica di corpi substellari freddi fuori dal Sistema Solare nella lunga suite SDSS1416 + 13B (Zercon, A Flagpole Sitter), Gorbacev, Reagan, i nazisti, il Ku Klux Klan..), ambientazioni geografiche (Danimarca, Alpi, Hawai (Hepizootics!), antica Roma e Grecia..), metafore prese dalla medicina e dalla biologia molecolare, citazioni bibliche, cinematografiche e quant’altro. Il tutto unito in un procedimento che unisce cut-up, reinvenzione storica, sci-fi e spesso mescolamento di più di una storia in uno stesso pezzo (come nel caso della suite citata), con termini ricercati di inglese colto e vocaboli specifici di genere. Non è un disco facile, Bish Bosch, ma l’ascolto ripetuto ripaga ampiamente, rivelando via via sempre nuovi indizi, in un’esperienza sonica totalizzante e immersiva. (8.5/10) Teresa Greco

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We Found Love sarà anche facile e leggera, ma almeno la popstar tiene le redini di stile sui binari a lei funzionali) e Dizzee Rascal (l’unico che in Here 2 China è capace di mettere all’angolo Calvin Harris e far valere senza compromessi il suo grime inossidabile). Ma non bastano a tenere a galla una barca in cui tutti sembrano volersi fiondare sul fondale per vedere l’effetto che fa. Tanto il risultato si sa già: vendite alle stelle e sorrisi da ogni parte tranne che dalla critica. In quella condizione da summer compilation di cui sopra ci vive mezzo mondo, e questo disco se lo meritano tutto. (3.8/10) Carlo Affatigato

Cemeteries - The Wilderness (Lefse, Novembre 2012) Genere: bedroom dream-pop A dimostrare che la scena newyorkese non è tutta brookl-hip e feste ci pensa il solitario Kyle J. Reigle, mente e creatore del progetto Cemeteries. Nel leggere la sua bio, che descrive il suo appartamento situato nella desolante zona industriale di Buffalo, mi sono immaginato Kyle recluso all’interno di un loculo, unico avamposto abitativo in un grigio panorama, composto da ciminiere ed industrie perennemente al lavoro sotto al cielo plumbeo. E’ tutta questione di immaginazione, come quella che porta facilmente ad associare il nome Cemeteries a stili musicali (black metal o darkwave) piuttosto lontani da quelli proposti nell’album di debutto The Wilderness, pubblicato per la Lefse, da sempre brava a coprire tutte le sfumature della musica indipendente, spaziando tra post-r&b (how to dress well), chillwave (Neon Indian, Teen Daze) e chitarre (i nostri A Classic Education) con un occhio sempre puntato al futuro (attenzione a Mister Lies) e all’attitudine DIY (Youth Lagoon). Il progetto Cemeteries può essere considerato come il corrispettivo dream-pop (e probabilmente meno ispirato) del fragile Youth Lagoon. In The Wilderness l’atmosfera è perennemente ovattata al limite del subacqueo (Deerhunter, Atlas Sound i riferimenti), sia quando a dirigere sono accordi acustici (Young Blood), sia quando invece sono arpeggi dal DNA 100% dreamy (What Did You See) o tappeti di tastiera (In The Trees). Kyle cede alle tentazioni eighties di scuola Wild Nothing nella titletrack, uno degli episodi musicalmente meno cupi di un disco caratterizzato da una tavolozza dalle tonalità crepuscolari che se diluite portano a situazioni decisamente fluttuanti (in Summer Smoke gioca con i Pink Floyd). The Wilderness pur regalando qualche picco emozio58

nale, è il classico lavoro destinato quasi esclusivamente agli appassionati del genere, soffre infatti di un’eccessiva staticità di fondo che va a braccetto con una mancanza di coraggio che ben si sposa con la figura timida di Kyle. (6.4/10) Riccardo Zagaglia

Chad Valley - Young Hunger (Cascine, Ottobre 2012) Genere: balearic dance-pop Non è un caso che ogni release a firma Chad Valley finisca sistematicamente ai vertici della sezione popular del celebre aggregatore Hype Machine. L’oxfordiano ha, infatti, sempre avuto intuito nel far fremere la blogosfera, a partire dall’ingresso nel business con un EP (selftitled, 2010) che aveva dato al web esattamente ciò che domandava: variazioni più smaccatamente tropical-pop al tabù chillwave sull’onda della ripresa della balearic. Equatorial Ultravox (2011) aveva battuto il medesimo sentiero, mentre per questo Young Hunger la virata decisa è per un revival ultra-patinato tra citazionismo billionario di 80s e 90s (“If you wanna be my girl/Then you gotta get with my friends” in My Girl, tributo diretto alle Spice Girls). Il nostro - che all’anagrafe fa Hugo Manuel - non può, è chiaro, puntare nuovamente sul tempismo perchè il trend è già strabordante; gioca quindi duro, scorretto se volete, imbracciando un parco ospitate che va da Twin Shadow ad Active Child, passando per Glasser, El Perro del Mar e Totally Enormous Extinct Dinosaurs. Ne vien fuori una piccola sintesi-manifesto di un genere minore, di quella che lo stesso Chad Valley chiama “pop music for people who don’t listen to pop music”, ovvero che possa essere legittimata anche dal pubblico, che dir si voglia, alt o hipster. Gli ingredienti ci sono tutti: chattering drums e disco beats, armonie auto-tuned (My Girl), la tavolozza che spazia dal minimalismo atmosferico (Fathering Mothering, con Anne Lise Frøkedal) al synth bass del glo più nostalgico (titletrack), il ponte con l’indie-R&B bianco che sta definendo il roster - altrettanto a favor di blog - della stessa Cascine (Evening Surrender), la posa da frontman che non offusca il trademark - col solito occhio di riguardo alla balearic nordica - da producer. Perdonati un paio di gestioni restrittive (I Owe You This, Manimals) delle controparti vocali (egomania?) per altrettanti episodi che in mano a nomi da milioni di click ci avrebbero già bombardato le radio (Fall 4 U e Tell All Your Friends), Young Hunger si rivela un album immediato, divertente, infettivo. (6.9/10) Massimo Rancati


Spaccamombu - In The Kennel Vol. 2 (GoatMan, Novembre 2012) Genere: metal Incontrarsi su un terreno di mezzo. Questo il senso della collana In The Kennel, parente stretta dell’ormai mitizzata In The Fishtank olandese ma ben radicata in quella provincia italiana sempre vigile e irrequieta. Nello specifico, quella Provincia piemontese che molto spesso ci siamo ritrovati a trattare qui, col Canalese noise prima e con le singole uscite, poi. Ora, il secondo volume della collana compie già qualche passo decisivo in più rispetto al primo numero. Non più cd, bensì bellissima edizione in vinile; non più una collaborazione in studio tra entità diverse quanto una fusione di due progetti in una nuova vita. Il nome dei protagonisti si cela poco dietro l’intellegibile a.k.a. Spaccamombu a dimostrazione della fusione “a caldo” tra esperienze in apparenza lontane ma che, nell’accogliente studio Blue Rec di Mondovì e cullati dalla GoatMan Records, si sono dimostrate in grado di stupire. Da un lato Paolo Spaccamonti, chitarrista silenzioso e solitario, dal taglio cinematico e umorale; dall’altro i due Mombu (Luca T. Mai degli Zu e Antonio Zitarelli dei Neo), rumorosi e afro-addicted in formazione atipica. Nel mezzo i cinque pezzi del vinile totalmente immolati al verbo del metal sabbathiano e post-. Sorpresi? Beh, se per il versante Mombu, il trafficare con le musiche estreme era piuttosto comprensibile (vedi alla voce Tom Araya Is Our Elvis di Zuiana memoria), per Spaccamonti è una vera sorpresa trovarcelo accanito fan dei quattro in nero. E, dall’ascolto delle cinque tracce del vinile, nemmeno in soggezione. Che si tratti di rinverdire fasti doomy (Antro) col supporto dello stravolto sax di Mai, di tirate metallone con break da urlo e stop’n’go assassini (Mountains Crashing Sound) o catacombali incroci tra sludge straniante e jazz-metal alieno (Idemortos), la potenza di fuoco è fatale. Quando poi il trio libera i fantasmi afro - una Assufais veramente notevole e la conclusiva The Altar Of Iommi che racchiude molti mondi - allora la fusione riesce al massimo. Centrifugando il percussivismo tribale di Zitarelli (sempre più influenzato dalle poliritmie africane), l’attitudine ipnotica degli ultimi Ex (quelli più afro), la follia cosmica e libera di Sun Ra, certo jazz nordico limitrofo al noise made in Rune Grammofon (i Noxagt, per esempio), la devozione a Tony Iommi che riecheggia anche in progetti particolari (gli Om meno devozionali), sfilacciamenti ambient-fusion e chissà quant’altro. Centro pieno? Decisamente. In alto le corna. (7.5/10) Stefano Pifferi

Christina Aguilera - Lotus (RCA, Novembre 2012) Genere: voci sprecate Quando le attenzioni dell’universo girl-pop si spostarono dalla sfida Spice Girls-All Saints alla sfida Britney Spears-Christina Aguilera, dovevano ancora scoccare i rintocchi del nuovo millennio e per le due teen-diva i più prevedevano un destino effimero similare a quelle di tante altre star usa&getta. Invece (purtroppo? Malauguratamente? Sfortunatamente?) ancora oggi, nel 2012, il music business sembra non riuscire a farne a meno, nonostante successo e vendite in calo più o meno costante. Se Britney Spears ha toccato il fondo (artistico e non solo) abbastanza presto per poi, in parte, riprendersi, Christina Aguilera l’ha raggiunto negli ultimi anni, dando vita ad un album destinato alla derisione (Bionic) e attirando il gossip più cinico e di bassa lega. Prima

di Bionic una carriera partita a livello disney-teen pop, mutata prima in un porno-pop dirtyzzato di r&b e poi nel revival retro-pop di Back to Basics, probabilmente ad oggi il disco a suo nome più coraggioso (ed è tutto dire). Bionic è stato un disastro perchè i suoi stessi fan avevano intuito la fregatura: era un disco realizzato con la sola necessità di seguire la moda del momento (l’electrodance-pop di Lady Gaga). Veniamo a Lotus, ritorno discografico successivo alla parentesi cinematografica - in compagnia di Cher - del consigliatissimo (...) Burlesque e alla fastidiosissima Moves Like Jagger con i Maroon 5. Avvio affidato alle velleità arty di Lotus Intro, dove il produttore Alex Da Kid manipola il sample della sdoganatissima Midnight City: una Christina Aguilera per certi versi inedita. L’illusione termina qui: Army Of Me rigurgita sonorità dance radiofoniche (leggasi Katy Perry) su cui piazzare il solito potente vocione, Red Hot Kinda Love è 59


semplicemente impresentabile e il singolo trash-pop Your Body debole (qui producono Max Martin e Shellback, come nella successiva e wannabe disco-hit Let There Be Love). Chi si fa incantare dall’innegabile talento canoro apprezzerà maggiormente l’accoppiata balladry Sing For Me-Blank Page (quest’ultima in compagnia di Sia). L’assenza di una direzione precisa è evidente in Around The World - a metà tra Rihanna e la Lady Marmaladecitazione “voulez-vous coucher avec moi ce soir” - e nella finta naughtytudine di Circles. A rendere ancora più chiara la situazione “proviamole tutte pur di salvare il salvabile” ci pensano i feat con i due colleghi televisivi - come lei giudici nel talent show The Voice - Cee Lo Green (presenza quasi impalpabile in Make The World Move) e il divo contry Blake Shelton, nell’arrangiamento pessimo di Just a Fool. Unica nota positiva: nessun tentativo brostep. (3.3/10) Riccardo Zagaglia

feat con Guerre) mette le cose in chiaro impastando ritmi ‘90s - 2step&bass - con linee e timbri soul. La titletrack è settata maggiormente su tonalità pop&rap (qui il guest è HTML Flowers), ma poi i due tornano a mettersi i guanti vellutati che non avrebbero stonato addosso a Frank Ocean, nella successiva Too Much e nella più ritmata - ma comunque sinuosa - Missing. Se pensate che lo slow-minimal soul di Cocooned sia decisament deep, aspettate di sentire l’apertura di Teenage Dream (l’obiettivo dei due era collaborare con How to Dress Well su questa traccia), sviluppata poi su variazioni che possono riportare alla mente certe cose di The Weeknd. Ottimo lavoro dietro ai tasti sia in One Day che nel chill-sound di Losing, prima di approdare alla conclusiva e vagamente spettrale Red. Die Young difficilmente può competere con i pesi massimi, ma si contestualizza perfettamente e si muove con grande gusto all’interno del movimento nu r&b. (6.9/10) Riccardo Zagaglia

Collarbones - Die Young (Two Bright Lakes, Novembre 2012) Genere: nu r&b / elettronica All’interno della recensione del debutto degli Stubborn Heart avevamo descritto la contaminazione tra black music e le ultime tendenze elettroniche come un “movimento in pericolo saturazione”. Negli ultimi due anni tra James Blake, Jamie Woon, How To Dress Well, The Weeknd e la dimensione clubby di SBTRKT (solo per citare i nomi più noti) si è assistito ad una vera e propria rinascita di un contesto black - spesso inglobato da artisti bianchi - che in questi giorni sembra non conoscere limiti. Con un 2013 già spianato tra inc., Brolin, Autre Ne Veut e - si spera - Twigs, il 2012 post-r&b ha ancora da sparare qualche cartuccia. Una di queste risponde al nome Collarbones. Collarbones è un progetto australiano composto da Marcus Whale e Travis Cook - i quali vivono più di 1000 km di distanza l’uno dall’altro - con già all’attivo un album, Iconography dello scorso anno, passato pressochè inosservato. A meno di un anno di distanza da Iconography i Collarbones ci riprovano - sempre per la Two Bright Lakes - con il sophomore album Die Young, un disco tributo alla gioventù spenta crudelmente troppo presto, tanto che tra le note del booklet troviamo frasi come “RIP River, Aaliyah, Lefteye” e “Thanks to all our teen crushes”. Marcus (stanziato a Sydney) e Travis (di casa ad Adelaide) nelle interviste esprimono apprezzamenti per R.Kelly e Miguel ma sono ben consapevoli di porsi sopra ad un piano mediatico e concettuale totalmente differente e maggiormente legato all’elettronica. L’iniziale Hypothermia (in 60

Corin Tucker - Kill My Blues (Kill Rock Stars, Settembre 2012) Genere: Indie rock Al secondo album solista, Corin Tucker lascia da parte le interessanti esplorazioni semi-acustiche dell’esordio 1000 Years, per far tornare le chitarre elettriche in primo piano. Una scelta che certo non sorprende, considerata la reazione tiepida riservata al disco precedente, ma che sembra essere una diretta reazione al successo delle altre due Sleater-Kinney Carrie Brownstein e Janet Weiss, ormai lanciate nelle Wild Flag. “Eccomi, sono tornata” esordisce la cantante nell’inno post-femminista Groundhog Day che apre l’album, mettendo da subito in primo piano la sua voce inimitabile, per niente segnata dagli anni che passano. Il risultato, grazie anche al drumming frenetico dell’ex Unwound Sara Lund, non sfigura rispetto ai momenti migliori delle Sleater-Kinney nei brani più movimentati (Kill My Blues, I Don’t Wanna Go, No Bad News Tonight), mentre rispetto all’album precedente convincono maggiormente anche i pezzi più lenti, dall’esperimento quasi psichedelico None Like You alle chitarre schiaffeggiate di Outgoing Message, forse l’apice emotivo dell’album. Come ai tempi di Call the Doctor conmuove l’omaggio a Joey Ramone Joey, mentre le noti dolenti arrivano invece con il singolo Neskowin, un malriuscito tentativo di trasformare il sound del disco in chiave dance-rock. In generale, ci troviamo di fronte ad un buon seguito, lontano come ci si poteva aspettare dagli apici emotivi del trio di Olympia, ma che mostra un’artista di nuovo


Walking Mountains - Walking Mountains (40033 Records, Dicembre 2012) Genere: ambient, psych Walking Mountains è Bartolomeo Sailer, sound artist di stanza a Bologna. Il suo nuovo progetto segue l’epopea Wang Inc., marchio di culto che lo ha fatto conosce alla scena elettronica internazionale fin dal 1999 - sulla Sonig dei Mouse On Mars - nonché progetto ideale per comprendere il passaggio che, tra i Novanta e i Duemila, ha portato la comunità elettronica verso sonorità concrete e un approccio maggiormente “suonato” (un nome di punta? Matmos). Da allora, Bart approfondisce queste tematiche in un frame di musica (pop)olare e non solo. Negli ultimi anni ha ampliato particolarmente lo spettro d’analisi nelle musiche per visuals con video artisti come Saguatti, Federico Pepe, Yuri Ancarani, mentre recentemente si è cimentato in Toilet Paper - progetto in condivisione con Pierpaolo Ferrari e Maurizio Cattelan - e in una mastodontica maratona per l’etichetta digitale 40033 records che lo ha portato alla realizzazione di una ottantina di tracce minimal dance in un anno. Sempre per quest’ultima label, grazie al crowd founding, esce l’atteso debutto omonimo Walking Mountains, un album che ha richiesto più di un anno di lavoro e che si presenta come un melting pot degli ascolti di una vita, oltre che di ripescaggi mirati di psych, rock, kraut, prog e di tutte le pietre miliari 70s (da cui eredita lunghezza e suggestioni). Al centro il concetto di rivoluzione, gesto che sottintende una forte (e meditabonda) componente di resistenza passiva sviluppata sia a partire da un mondo familiare e interconesso (e mai del tutto decifrabile), sia all’interno di mura domestiche che liberano ma anche asfissiano. Il taglio potrebbe richiamare il concetto di broadcasting dal mondo che sappiamo ha intrigato gli Animal Collective nella realizzazione dell’ultimo album, qui sotto la lente di ingrandimento dell’open vision liquida dei Mouse On Mars e degli incastri acustico elettronici dei Matmos (al netto di humor). Molto attento, Bart, a vestirsi delle miriadi di band che hanno influenzato il disco: Amon Düül e (a)simmetrie Can, cosmica Cluster, la psichedelia più marcia dei Throbbing Gristle (Ὀδύσσε&i ota;α Book XII), l’influenza dichiarata capitale di ESKMO (guarda caso un mouseonmarsiano doc), il free-jazz di Peter Brotzmann e il trip hop più esoterico e black di Tricky. Molto a fuoco il taglio sonico, dove ambientazioni di cielo (ambient e psych) e terra (l’etno) oculatamente s’affidano a rock (chitarre) e hip e hop (campioni, filtri, break). Interessante anche la scelta di sondare dicotomie quali l’intimismo (e la sofferenza) del solo (No Poetry) vs la forza (e la propulsione) della moltitudine. Altrettanto importante la resa delle tracce, lungamente lavorate e soggette al continuo feedback della community di Bandcamp (dove sono state originariamente pubblicate). Materiale che nel master finale a cura di Mauro Andreolli (presso Das Ende Der Dinge), ha goduto di un sound all’altezza degli immaginari di riferimento. Molto suonato (e percosso), ma pur sempre frutto di una sensibilità elettronica, Walking Mountains è un album a cui si ritorna sapendo di scoprirci sempre qualcosa di nuovo e ben cesellato. Certo prog via King Crimson (Holding Back), i Nine Inch Nails (My Revolution), lo status facebook di Umberto Palazzo e il sax di Enzo Casucci (The Dominant Class), la voce di Vincenzo Vasi (Ⓐ) on and on e mai nulla che sia una banale citazione. (7.3/10) Edoardo Bridda

pronta a tirare fuori i denti e ormai avviata da protagonista anche in questa carriera solista. Se era lecito aspettarsi forse qualcosa di più dopo gli esperimenti dell’album precedente, è anche vero che il formato da rock band è quello che si addice di più alla bionda cantante dell’Oregon, che non è mai sembrata così a suo agio dai tempi di The Woods. (6.5/10) Giorgio Bonomi

Daniel Maloso - In And Out (Kompakt, Novembre 2012) Genere: Latin body music Dopo il grande interesse suscitato negli addetti ai lavori, forte dell’esperienza alla Cómeme e del successo ottenuto con la hit Ritmo Especial, non stupisce più di tanto vedere su Kompakt il messicano Daniel Maloso, sostanzialmente per tre buoni motivi: primo, la label di Michael Mayer & co. resta sempre ottimo trampolino di lancio 61


e traguardo di consolidamento nello stesso tempo (a dirlo sono i nomi passati e presenti della scuderia, Oxia, Steve Bug, Popnoname, Jürgen Paape, SCSI-9, The Field); secondo, la scena minimal o comunque techno sud-americana vanta ancora ottimi ascendenti tra le release Kompakt (vedi anche Gui Boratto e Matias Aguayo); ultimo, il sound di Maloso, così attento all’intreccio ritmo/groove, non poteva trovare che trovare naturale delta e foce nella casa di Colonia, che a questa maniera di massaggiare e coccolare i bassi modulati da synth ha dedicato parte pressochè totalitaria delle proprie uscite, peccando quasi di settarismo. Per In And Out quindi c’è stato uno scambio quanto meno alla pari, con la Kompakt che ha messo a disposizione tutta la propria caratteristica libreria di suoni (quelli sentiti in toto da Superpitcher a Jürgen Paape a Rex The Dog) e Maloso che nel goderne ha offerto il proprio mestiere, manipolando secondo voglie, usi e costumi non soltanto germanici ma genuinamente latini, che ripartono dalle sensazioni di producer di classe amanti di una techno (Aguayo) e di una micro-house (Boratto) dai sapori dolci e meldiosi. Non stupiscono e non dispiacciono dunque certi salti a gravità zero nella spacey di Lindstrøm prima maniera (Boney, Right Kind, sono le stesse, lunghe levitazioni in salsa norvegese) e divertono anche le esibizioni muscolari di Body Music e Cafe Obscuro, vigorose ma brave a non trascendere nel kitsch e nemmeno nel rozzo già visto in Rebolledo. Il marchio di fabbrica della label ovviamente è ben presente in tutte le tracce, anche con una certa ridondanza: le lunghe armonie panoramiche micro house di They Came At Night le adottava Superpitcher già nel 2004, ma va detto che lo stile di Maloso è maturo e sicuro, distinguendosi per la notevole cura dell’estetica e della produzione. L’unico limite, purtroppo invasivo e penetrante, è frutto del vortice imbalsamatore orchestrato da Mayer e Voigt, che ormai fanno album col limitatore di fantasia in mode ON. E Daniel Maloso qui ci finisce dentro a piedi uniti. L’innovazione in casa Kompakt è finita con Supermayer nel 2007, da li è solo un rielaborare secondo varianti di stile e piacere differenti. Fortuna vuole che a Maloso l’esercizio riesca piuttosto bene, anche perché trattasi di prima prova, ma per il secondo album urgono innovazione e novità, tenendo bene a mente anche le scelte fatte dai predecessori: chi ha voluto innovare, anche solo parzialmente, ha allargato i suoi orizzonti (SCSI-9 e Oxia, che han pubblicato gli ultimi album altrove) e nel frattempo a Colonia vanno in onda solo repliche, benché recitate alla perfezione e 62

capaci ancora di non annoiare. Le evoluzioni non si faranno attendere. (6.5/10) Mirko Carera

DE MAGIA VETERUM - Deification (Trascendental Creations, Novembre 2012) Genere: Black Metal Che cos’è black metal oggi? O, un passo in avanti, cosa possiamo considerare “pure black metal” oggi? Chiediamolo a Maurice De Jong, olandese con un passato e un presente nel suo progetto più famoso, gli Gnaw Their Tongues, ma autore del miglior disco black metal radicale dell’ultimo quinquennio grazie al suo side project De Magia Veterum. Il potenziale nervoso del gruppo si era già intuito nel predecessore The Divine Antithesis, ma nessuno si sarebbe mai aspettato un disco così fulminante come Deification. Il black metal, nel corso dell’ultimo decennio, ha attraversato fasi particolari, spesso diverse fra loro e si è decomposto in tante correnti: dal black ortodosso di scuola norvegese, al black progressivo poi sfociato in prog puro (penso agli Opeth), al black ammantato di oscurità dark e industrial (penso ai Blunt Aus Nord), per arrivare al black sperimentale e spirituale di un gruppo come i Wolves In The Throne Room. Ma ciò che è, insieme, nuova teoria del caos e continuazione della specie, oggi è solo nei De Magia Veterum. Non è tanto il vortice horror della strumentale di apertura, Eradication, liberamente ispirata agli Entombed di Left Hand Path e al King Diamond di Abigail ad essere il centro nevralgico di un ottimo disco, quanto il delirio isterico di Thorns (la polverizzazione degli Emperor e dei Dissection degli esordi). Thorns è un cataclisma, la convergenza di ferocia e satanismo. Una lunga serie di scosse nervose che diventano quasi il grindcore applicato al black metal. Passage riprende i passaggi Zorniani dei Painkiller, riscrivendoli secondo le teorie di Burzum. Ecco, immaginate Filosofem se fosse scritto con il sangue e spogliato di tutte le concezioni elettroniche. Ci potremmo avvicinare a Deification. C’è qualcosa di veramente malvagio in De Jong e nella sua visione della musica. Qualcosa che in Evoked in Passion espolode in un vortice di ferocia insopportabile: oltre certi livelli di suono, il rapporto con l’ascoltatore diventa sofferenza fisica. De Jong, che scrive e produce tutti i suoi lavori - e anche in questo è vicino a Burzum - ancora in Shall Not Take Form applica al free jazz schizoide il black metal e produce qualcosa di impenetrabile. Come se tutto fosse un messaggio


subliminale. Resta il fatto che Deification oggi si pone come un disco di riferimento per il black a venire. (7.5/10) Mario Ruggeri

Deftones - Koi No Yokan (Reprise, Novembre 2012) Genere: alternative metal Anche se questo album fosse stato meno convincente, i Deftones sarebbero da considerare senza dubbio il gruppo più interessante compreso nel discusso fenomeno nu-metal, se non altro perché la qualità media e la longevità artistica della loro produzione superano, per ragioni differenti, sia i Korn sia i System Of A Down (fermo restando che lavori come l’omonimo dei Korn o Toxicity dei SOAD sono dischi fondamentali per il genere e per una certa idea di metal alternativo e contaminato). Ko No Yokan lo dimostra “solo” una volta di più. Che la band di Sacramento possieda più elasticità creativa di molti complessi a lei contemporanei non è una novità. Oltre a quel muro chitarristico così potente e allo stesso tempo quasi volatile nella sua molecolarità, e alla voce calda ed emotiva di Moreno, il segreto sono le doti melodiche superiori che quest’album non si astiene dal dispensare a piene mani e che permettono di apprezzare meglio la ricchezza di sfumature presente nel loro stile. Niente crisi, il settimo LP li restituisce oltretutto in forma come non li ricordavo dai tempi dell’omonimo del 2003, dopo qualche lieve ma comprensibile flessione. Il dittico iniziale lascia pochi dubbi: Swerve City, con il suo insieme di Black Sabbath, Nirvana, new wave e emocore, e Romantic Dreams hanno il pregio di suonare tanto classiche (cioè “deftoniane” fino al midollo) quanto fresche. Leathers, che aveva anticipato il disco, è addirittura più incisiva nel contesto dell’album. Poltergeist rispolvera tutti i trucchi preferiti dei quattro californiani, a partire dal canto melodico sui controtempi. I Deftones sono tuttora uno dei complessi rock che usa meglio il dj, e nonostante l’assenza di Chi Cheng (che sta ancora recuperando dopo il terribile incidente d’auto del 2008) la scelta di Sergio Vega, ex Quicksand, al basso è sembrata da subito la più naturale. Tutto al posto giusto, e anche se alcuni riff li avevamo già sentiti, è difficile domandare di più a una band del genere dopo quasi vent’anni di carriera. (7.2/10) Tommaso Iannini

Denise - Universe (Al-Kemi Records, Ottobre 2012) Genere: glitch pop Universe è il disco della presunta maturità di Denise Galdo, autrice salernitana di spiccata sensibilità dreamypop, fantasiosa, favolistica, rediviva Alice in un paese che non è mai stanco di meraviglie. Lasciatasi alle spalle l’ala salvifica e lungimirante di Gianni Maroccolo (già produttore del primo disco), la musicista si affida a Roberto Vernetti, Cristian Milani e Michele Clivati. L’intento, ça va sans dire, è quello di superare il clima bambinesco e ingenuo che caratterizzava Dodo, do! e che, in un modo o nell’altro, era riuscito a conquistare l’ammirazione della critica (passando ovviamente per le varie Trl, Radio Dj e quant’altro, mai sazie di ritornelli e stornelli prêt-à-porter) Eppure l’ingresso nel mondo degli adulti non è così facile, quando manca la leva militare. Se da un lato è palese l’approccio a sonorità più emancipate rispetto alla parte glitterata degli Eighties (il suono di Mantra of The Universe e Halfman può essere cifra di ciò) e c’è il tentativo - per quanto solo accennato - di accostarsi a una tradizione che parte dal jazz-folk passando per Kate Bush e Regina Spektor (Sailors è una bella, ma troppo classica ballad), dall’altro la zampata del manierismo “pascoliano” è dietro l’angolo. C’est-à-dire: ben venga questo mondo di meraviglia visto dall’artista con gli occhi di un fanciullino e condito di sincopati ritmi pop e accenni elettronici di natura squisitamente sognante (e quindi archi, archetti, stelle e stelline, giocattoli e giocattolini), ma attenzione a non farsi prendere troppo la mano. E quale miglior testimone di questa indole manieristica se non proprio l’accanimento sull’onomatopea (ancora in Rain e Piggy Poggy), la faciloneria gigiona storpiata nell’electro-indie-pop di Superpop o la strozzatura forzata di una bella (è doveroso dirlo) vocalità?. Rimangono gli spunti programmatici finalizzati a uscire dal Baby Denise Universe e che, salvo gli episodi indicati sopra, si sporgono appena in dirittura d’arrivo (Lighthouse Keeper). Troppo contaminati, tuttavia, da un immaginario che in tempi come i nostri ha smesso di affascinare. (5.8/10) Nino Ciglio

Dj Balli - Tweet It! (Extratone Mix) (Sonic Belligeranza, Novembre 2012) Genere: extravaganza concept DJ Balli + Ralph Brown manipolano tweet. Concept a 140 bpm: electrocabala della comunicazione 2.0 (14 brani x 1:40 min) in picture disc. (7/10) Marco Boscolo

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Egyptian Hip Hop - Good Don’t Sleep (R & S Records, Ottobre 2012) Genere: art pop, psychedelia Li si era dati per desaparecidos, un po’ come i Late Of The Pier del loro primo collaboratore, Sam Eastgate (Wild Human Child, 2010). Invece, a distanza di due anni dall’acclamatissimo EP Some Reptiles Grew Wings (prodotto da Hudson Mohawke), rieccoli gli Egyptian Hip Hop, quattro mancuniani neanche ventenni che ritorviamo maturati sia tecnicamente (il frontman Alex Hewett è stato touring member per Connan Mockasin e Charlotte Gainsbourg), sia artisticamente. Rispetto al progressive synth-pop di stampo “upbeat” (e a favor di NME) visto in precedenza, Good Don’t Sleep si rivela fin da subito un album dalla lenta combustione, dalle qualità espansive e sorprendentemente coeso. Un unico mood dai tanti blend esplorati in dodici tracce scritte su una prosa psichedelia narcolettica, contraddistinte cioé dalla diversa intensità di movimento e scandite da una attiva, pulsante e vagamente esotica sezione ritmica. I richiami vanno dai 90s alternative agli 80s gothpop; ci troviamo sapori Warpaintiani (The White Falls) e - d’altronde in cabina di regia c’è il medesimo Richard Formby - dei Wild Beasts di Smother (Tobago, Strange Vale), per un suono che è già piuttosto caratterizzato: synth e torbide bassline a far da fondale nebbioso ad effetto “wall of sound”, in grado di esaltare al massimo le intricate trame chitarristiche che dai citati 80s di genere possono sorprendere in calibrate e scientificizzate pose Talking Heads. Complice inoltre una sensibilità tutta chorus che torna a rompere la quiete ripetitiva (Yoro Diallo, SYH), Good Don’t Sleep scaccia il rischio noia, risultando, anzi, intrigante ed immersivo. Comodità da stereotipo indie incluse nella scatola (leggi: vocalità “shoegazey”) ma tutto il potenziale a disposizione per il classico debutto da qualche culto, come fu quello dei Wu Lyf lo scorso anno. Merita. (7.2/10) Massimo Rancati

El Perro Del Mar - Pale Fire (Memphis Industries, Ottobre 2012) Genere: folk Preceduto in estate da un sorprendente singolo Innosence Is Sense, che lasciava presagire una svolta goth-pop, efficace ma fin troppo anonima in un territorio a metà tra Zola Jesus e Esben And The Witch dove perdeva su tutti i punti, Sarah Assbring consegna finalmente alle stampe l’atteso ritorno sulla lunga distanza, sgombrando il campo dagli equivoci. El Perro Del Mar non traffica con l’oscurità. Sarah, anche se gli anni passano, resta la 64

ragazza bionda con i capelli da marinaretto che sogna una forma di amore impossibile, tra Liala e un romanzo Harmony. Esattamente quel profilo anni ‘60, leggero e soffice come le nuvole estive che ce l’ha fatta amare fin dall’esordio. Pale Fire si colloca come l’ultimo tassello di questo personalissimo mosaico pop. Parla la stessa lingua di brani storici del suo catalogo come Change Of Heart, This Loliness, Candy, Let Me In, eppure non conserva un grammo della magia di quest’ultime, colpa soprattutto del pesante corredo elettro, che se pure si era intravisto in Love Is Not Pop, stavolta domina su tutte le canzoni. Una soluzione che aiuta l’omaggio verso la dance pop anni ‘90 che Sarah afferma voler fare con questo disco. Brani come Hold Off The Dawn, Home Is To Feel Like That e I Carry The Fire, in questo senso riescono a stabilire una relazione con i vecchi Ace Of Base o Cardigans, in un modo sicuramente più efficace di Maria Minerva, che sostanzialmente fa la stessa cosa. Il singolo, con quell’irresistible refrain “Solitude is my best friend..” e gli ancheggiamenti pop-funk riesce finanche a farci ricordare gente come Luscious Jackson, Soul Coughing e il Beck di Odelay. Sostanzialmente i brani da best of ci sono anche stavolta, soprattutto I Was A Boy, ma la scelta di adeguarsi all’andazzo digitale quando lei, da sola con la sua chitarra, evocava mondi interi e si rivelava come l’unica degna erede di Claudine Longet, toglie parecchi punti al disco. (6/10) Antonello Comunale

Emptyset - Collapsed (Raster Noton DE, Ottobre 2012) Genere: elettronica Emptyset sono James Ginzburg, producer americano di Washington ma di stanza a Bristol che durante due lustri ha suonato praticamene di tutto sotto svariati alias (30Hz, P Dutty), dalla dubstep ai break, passando per grime, acid e tech-house (tra gli altri ha collaborato con Pinch fondando con lui il Multiverse, un network d’etichette). E l’artista Paul Purgas, attivo in solo soltanto con un 12’’ di quest’anno, Dual Capacity co-firmato Shelley Parker, in area ambient scura, post-industrial, noise e paraggi (non a caso la giovane etichetta dell’eppì, la WCEC, ha ospitato Mick Harris). Assieme dal 2007, James e Paul producono costantemente per svariate label specializzate e di genere tra cui Caravan e Future Days su album e eppì. Collapsed è il loro biglietto da visita Rasten Noton: smussati i looping più grezzi e accantonato il 4/4 in area Minus per pulseprogramming, minimalismo e noise effect (Core, Wire) rigorosamente analogico, il duo si posiziona sulla scia di


Byetone, ovvero sul lato più muscolare della faccenda abstract techno iniziata dai Pan Sonic e proseguita con rigore dai mastermind dell’etichetta tedesca (Armature). Tra i nuovi ingressi della label, sicuramente più interessante la giapponese Kyoka. (6.2/10) Edoardo Bridda

Fausto Balbo - Login (Snowdonia, Ottobre 2012) Genere: Kraut / glitch Pubblicato dalla solita ammirevole stoica Snowdonia in coproduzione con Afe Records (il disco è apparso in streaming su bandcamp a luglio, la distribuzione Audioglobe è di ottobre), ecco la quinta release maggiore in 12 anni di attività discografica per il cuneese classe 1970 Fausto Balbo, a due anni da quel Detrimental Dialogue smezzato con Andrea Marutti che ci era molto piaciuto. Fausto fa stavolta con la sua elettronica glitch di ispirazione metà krauta metà industriale - ma dal taglio artiginale e fragrante - una specie di concept pessimista sul web e sul web 2.0 dei social e dei login appunto, con lo spirito di chi dopo un giro circospetto e attento corre prima possibile a fare logout, agli antipodi insomma dell’ottimismo modernista, yuppie e fintoingenuamente pro-tecnologico del James Ferraro di Far Side Virtual. L’elettronica di Balbo è rabdomantica nel senso che si aggira zoppa alla ricerca di una forma propriamente musicale, e te la fa intuire, te la fa immaginare, restando sempre orgoliosamente al confine tra concreta pura e suono orientato/organizzato. Come già abbiamo avuto occasione di sottolineare, è questo un ambito inflazionato e rischioso, ma il nostro sa bene come costruire i suoi materiali e il risultato, per quanto apparentemente anche di base, riesce a suonare freschissimo e godibile. E’ un viaggio nella rete non consolatorio da un punto di vista della dimensione sociale-comunicativa, tutto grumi, inciampi, interdizioni; più appagante forse per chi cerca davanti allo schermo la sublimazione di un’esperienza individuale/individualistica di ritiro appartato, di meditazione. Dal romanticismo austero subito ricondotto a un algido inciampare di bit di Harvester of Bits appunto, all’effetto didgeridoo di aphextwiniana memoria di Virus Scan, dalla illbient arabeggiante e misteriosa - poi addensantesi in figure quasi gobliniane - di Hardmysticmeeting, ai suoni al limite dell’infrasuono che fanno agghiacciare il gatto di Hi Mr. Kemp, dalla mimesi naturalistica e dalle krauterie di Bird’s Room, al melmoso drone dub di Clozier e allo sfarfallio spacey di Walkin’ with Klaus (il pezzo più

formato - nel senso di musicale - del lotto). Fino ai quasi diciotto minuti conclusivi di Will Future Man Develop a Third Ear?, che stimolano lo spuntare di questo famoso terzo orecchio con un fantastico concertino di ciguettii - fischi, rumori e rumorini - che diventa poi un muro di micro-contrappunti come di grilli in trance, diciotto minuti che passano ipnotici e lisci come fossero manco cinque. Login by Fausto Balbo (7.1/10) Gabriele Marino

Fauve! Gegen A Rhino - Polemos (Bedevil, Novembre 2012) Genere: avant Avevamo visto giusto puntando sulla formazione toscana Fauve! Gegen A Rhino. Per modalità compositive e di distribuzione si dimostrano sempre più emancipati, figli di una generazione “liquida” per manegevolezza del medium e impatto libero, ma accesi dal sacro fuoco del furore conoscitivo intragenere. Un atteggiamento che li porta a mostrarsi come epigoni di nessuno e originali compositori, pur nella trafficata ampiezza della tavolozza di colori usata. Polemos è la collezione, uscita in formato digitale, dei tre Ep a concetto rilasciati dall’un tempo trio e ora duo (da segnalare la defezione di Matteo Moca avvenuta dopo la registrazione del primo ep) nei mesi scorsi, e incentrati sulla riflessione sulla lotta come “modalità di origine dell’evento”. In When You’re Dancing, You’re Struggling, When You’re Struggling You’re Winning e When You’re Winning You’re Losing c’è un intero universo di forme e modalità sonore agile e scomposto tra heavy rhythm, ambient malsana, techno atipica, destrutturazione acidrock, devianze trip-hop, perversioni Liars e increspature Fennesziane, trance da droga sintetica e mantra dal futuro. Roba che è a tempo stesso minimale e massimalista, che costruisce orizzonti rimescolando input da ogni dove, che frantuma generi e preconcetti, convogliando in sé la migliore accezione del termine “musica liquida”. La tavolozza di colori dei Fauve è orizzontale sul piano dello spazio-tempo e condita di ogni ben di dio musicale. In essa infilano le manine per dipingere paesaggi sonori nuovi e sporcare quelli evidenti e riconoscibili, col sostegno di una impalcatura progettuale e ideologica di grandissimo spessore. Leggere e guardare il video di Serse per averne conferma. (7.5/10) Stefano Pifferi

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Fear - The Fear Records (EM Records, Dicembre 2012) Genere: Punk Personalmente, non ho mai nutrito per i remake di nessun genere. Preferisco gli originali o almeno, accetto le riproposizioni se fatte con arte e intelligenza, con gusto, rispetto e con (addirittura) magari qualche idea innovativa. Ma le autocelebrazioni no. Soprattutto quando si tratta di celebrare un culto totale, distruggendolo. Sarebbe interessante chiedere ai The Fear, motivazioni economiche a parte, perché incidere nuovamente un disco, trent’anni dopo, dopo aver perso giocoforza tutto lo smalto e la rabbia del revolt punk dei primissimi anni ‘80. E torniamo, non si scappa, al ragionamento di sempre: Debord, McLuhan, la storia si ripete. Prendete una musica, estrapolatela dal suo habitat originario e allora, solo allora, capirete quanto la storia, l’ambiente, la società nella quale è stata composta siano importanti tanto quanto l’idea creativa. Soprattutto se parliamo di punk. I Fear, per gli amanti del rock, sono un’istituzione. Per tutti gli altri sono quelli che hanno copiato i Guns’n’Roses rifacendo I Don’t Care (da The Spaghetti Incident!?) senza sapere, loro malgrado, che furono i G’n’R a coverizzare il manifesto del gruppo che faceva paura: Fear appunto. The Fear Album, edito nel 1982, fu una sorta di elegia del caos rivoluzionario, da mettere in fila con i Germs di G.I., i Discharge di Hear Nothing, See Nothing, Say Nothing, i Poison Idea di The Fear E.P., i Gbh e bande armate non troppo dissimili; un disco violento, fastidioso, pericoloso, scomodo, una sorta di blitz sonoro effettuato a colpi di We Destroy The Family, Let’s Have a War, Gimme Some Action. Più che canzoni, manifesti sociali. Ed oggi? Ecco, provate ad immaginare una canzone ingrassata, imbolsita, pigra, senza più rabbia ma con la voglia di rappresentare la rabbia. Come una proiezione di un tempo che è stato. Ecco, il risultato, senza cattiveria, non può che essere pericolosamente tragico. Perché se al punk togli il suo contesto di rabbia giovanile, o ti chiami Jello Biafra, oppure rischi di fare magre figure: e se sei un simbolo del punk, allora l’affare si complica. Certo, i The Fear anche oggi si fanno ascoltare ma qualcuno dovrà anche spiegarci il senso di un’operazione del genere. (5/10) Mario Ruggeri

Fergus & Geronimo - Funky Was the State of Affairs (Hardly Art, Luglio 2012) Genere: garage soul Rieccoli, i Fergus & Geronimo, quel duo di folli garage 66

boys tanto promettenti usciti con il loro buon primo disco poco più di un anno fa. Funky was the state of affairs è un titolo decisamente adatto a sedici canzoni che vanno a comporre un mix delirante di parlato (The strange one speaketh, My phone’s bene tappe, baby), rumorismi (The Uncanny Valley) rock’n’roll, garage (Spies) e parecchi residui (post)punk (Roman nvmerals, Drones). Rispetto all’esordio i passi avanti sono moltissimi. Si riconferma soprattutto l’eterogeneità delle ispirazioni, in particolar modo aggiungendo i deliri funky tutti basso, tromba e synth che vanno a chiudere l’album. Funky was the state of affairs ha a tratti perfino la forza di un concept che non si presta a una facilissima interpretazione, anche a causa di scelte stilistiche disparate che comunque vanno a dare al disco una forma unitaria. Un buon lavoro, insomma, pieno di slanci low-fi e ricco di estemporaneità. (7/10) Giulia Cavaliere

Franco Battiato - Apriti Sesamo (Universal, Ottobre 2012) Genere: Cantautorato Capire Battiato, avrebbe detto il buon Castoldi, non è affatto un’operazione scontata. Tanto più se, dopo cinque anni e mezzo, l’attesa (l’ultimo lavoro di inediti fu Il Vuoto, 2007) ha divorato i fans, che, trepidanti, hanno guardato con mal celata malizia le opere cinematografiche, teatrali e sperimentali del maestro. Apriti Sesamo arriva in una stagione inattesa della vita di Battiato, in cui, di certo non nel silenzio assoluto, il cantautore catanese sta affrontando la sperimentazione su vari fronti. Rimarrà deluso, dunque, chi si aspettava da questo ventottesimo album un’opera di indagine e di ricerca sul suono. Essa non è stata abbandonata, quanto piuttosto relegata al campo di altre arti non meno nobili come il melodramma (recentissima è l’opera di ologrammi, balletto e lirica dedicata alla figura di Bernardino Telesio). Si può dire che, sul fronte del sound, Apriti Sesamo poco si distacca dall’esperienza de Il Vuoto o, meglio ancora, dei Fleurs. Ma nessuno aveva aspettative diverse. Gli strumenti dell’artigiano pop sono maneggiati con la perfezione che si confà a chi è maestro assoluto nel genere. Con l’immancabile ausilio del fido Sgalambro e di un cast d’eccezione come Faso (Elio e le storie tese), Gavin Harrison (King Crimson), Simon Tong (Verve), Battiato cuce dieci episodi di vita, fra nostalgie e indignazione, echi sacri e mitologia pagana. Il tutto sapientemente distribuito nel consueto pastiche di citazionismo: si va da Santa Teresa d’Avilia (Un irresistibile richiamo) a Dan-


te (Testamento), da Stefano Landi (Passacaglia) al poeta arabo Ibn Hamdis (Aurora), da Sheherazade di Nikolai Rimsky-Korsakov (Apriti Sesamo) ai sempreverdi Vangeli. L’impressione è quella di un Battiato per nulla stanco e per nulla sazio di novità liriche. Se si eccettua un po’ di moralismo di troppo nel singolo Passacaglia (“La gente è crudele e spesso è infedele” et similia), il ritornello ridondante e a marcetta di Eri con me e il cantato femminile (pur pregno di significato politico) in stile pubblicità della Lines di Caliti Junku, il disco presenta svariati momenti in cui l’orecchio corre ad opere decisamente fortunate di Battiato: Testamento suona molto alla maniera di Fisiognomica, La polvere del branco ricorda alcune cose di Gommalacca, il tutto in un’operazione che nei due precedenti dischi di inediti non era avvenuta. Il richiamo alla gioventù e la nostalgia di essa porta con sé anche un auspicio militante per le nuove generazioni (in Quand’ero giovane si canta “Viva la gioventù che fortunatamente passa senza troppi problemi”), ridimensiona gli spazi bucolici investendoli di una saggezza popolare ormai dimenticata (Caliti junku) che diventa critica sociale (“The world outside is insane”), s’allarga, infine, in atmosfere favolistiche, da Mille e Una Notte, con il finale di Apriti Sesamo, che, come la roccia della favola, sembra quasi spalancare un’aspettativa di speranza, di rinascita e reincarnazione (non a caso la parola torna spesso nel disco). Se dunque l’impegno del cantautore è sconfinato in altri fronti estetici e la ricerca sul suono non progredisce in maniera evidente (non si pensi però che gli arrangiamenti siano deboli), nulla si può certo contestare all’accanimento e all’ardore di questo signore di sessantasette anni che ancora non smette di deliziarci. (6.9/10)

di contaminarsi con concetti musicali contemporanei. Blak and Blu per Gary Clark Jr. è l’album d’esordio su Warner, la quale ha evidentemente individuato in lui un potenziale tornaconto economico: Gary ha diviso lo stage con alcuni dei nomi più prestigiosi del blues, ha presenziato all’evento Red, White and Blues alla Casa Bianca, ha recitato nel film Honeydripper, è stato nominato “Best Young Gun” dal Rolling Stone (eh beh...) ed ha collaborato a più riprese con Alicia Keys. Insomma, in un periodo in cui in USA la tradizione (dai Mumford & Sons a Taylor Swift) è tornata a dominare, uno come Gary Clark Jr. la vince facile. Gary Clark Jr è sicuramente un musicista abile quanto furbo e lo si può intuire dalla linfa, sapientemente impostata sul gusto vintage, che scorre lungo le tredici tracce - alcune già presentate in passato - di Blak and Blu. L’iniziale Ain’t Messin’ ‘Round ha il compito di catturare l’attenzione con il suo trascinate soul-rock bello tirato, sorretto egregiamente dalla grana grossa del blues cattivo e ‘60s della successiva When My train Pulls In. Altrove troviamo tentativi soul (la titletrack), scie Prince, modernizzazioni vicine all’r&b (The Life) contrapposte a stereotipati retro boogie-roll (Travis County), la vecchia black sixties (Please Come Home) e gli ancora più vecchi blues delle paludi (Next Door Neighbor Blues). Blak and Blu è una sorta di mini guida tascabile “For Dummies” sulla storia della musica nera dell’ultimo secolo. L’autore, Gary Clark Jr, conosce molto bene la materia e i suoi riferimenti principali ma non si è sforzato abbastanza da rendere l’opera interessante, inoltre la produzione affidata a Mike Elizondo e Rob Cavallo (mr. rock patinato) finisce per appesantire il tutto. (5.7/10)

Nino Ciglio

Riccardo Zagaglia

Gary Clark Jr - Blak and Blu (Warner Music Group, Ottobre 2012) Genere: blues-soul-rock-pop

Gentless3 - Speak To The Bones (Viceversa, Dicembre 2012) Genere: folk rock

Etichettato dai soliti noti come “il nuovo Hendrix” o “il salvatore del blues”, il ventottenne texano Gary Clark Jr. ha passato gli ultimi anni tra lo studio (alcuni album introvabili e un paio di EP) e il palco. Il nuovo Hendrix, il salvatore del blues... ma qualcuno oggi sente veramente il bisogno di un nuovo Hendrix (non lo doveva già essere Lenny Kravitz? Ecco...) o del salvatore del blues? La musica, fortunatamente, evolve e per farlo spesso lo fa passando anche dal revival, senza però che ci sia per forza la necessità di avere un nuovo qualcuno o colui in grado di salvare un genere che negli anni ha perso parte del suo fascino, forse proprio perchè fin troppo legato ai cliché del passato e spesso incapace

Sono tanti i motivi d’interesse per questo sophomore dei Gentless3. Alcune arrivano dalla cartella stampa, dove ad esempio si narra che le incisioni sono state effettuate anche al Teatro Coppola, della cui occupazione vi abbiamo parlato qualche mese fa, esperienza che prosegue e cui rinnoviamo il nostro più cordiale in bocca al lupo. Inoltre, veniamo a sapere che la produzione artistica di questo Speak To The Bones è di Joe Lally nientemeno, e che anche un altro tipo poco raccomandabile (si fa per dire) come Cesare Basile ci ha messo lo zampino. E’ però alla prova dell’ascolto che arrivano le notizie più gustose, visto che il trio ragusano pare essersi affrancato quasi del tutto dai fantasmi post-rock per abbracciare 67


una forma canzone matura ma non supina, cupa e calda, elaborata seppure diretta al cuore. Il banjo e le tastiere cambiano gli scenari intrecciando trame tradizionali e inquietudini 90s, ma ad indicare la rotta è la scrittura, di un’intensità duttile ed espansa, capace d’impastare con disinvoltura la palpitazione tenue Mark Kozelek ed il ciondolare afflitto Black Heart Procession (Destinations Unknown), il lirismo essenziale Karate ed il malanimo Alice In Chains (V For Vittoria), ugge Willard Grant Conspiracy (Letters From A New Form) e paturnie Lanegan (My Father Moved Through Dooms Of Love). Un pantheon d’influenze che pure sa tenere al centro la propria voce, densa e febbrile in Speak To My Bones, struggente nella dedica ad Elliott Smith buonanima di Ellis Island, bieca ma venata di tenerezza speranzosa nella conclusiva Saved, come dire che c’è uno spiraglio di luce alla fine del tunnel noir. (7.1/10) Stefano Solventi

Giancarlo Frigieri - Togliamoci il pensiero (Contro Records, Ottobre 2012) Genere: canzone d’autore Si definisce un cantante “povero”, Giancarlo Frigieri, facendo torto a sé stesso. Anche se un mood involontariamente scompigliato lo cogli davvero in una poetica che rimane comunque riconoscibile, per certi versi tradizionale, innegabilmente autarchica. Quinto disco in carniere e un immaginario sonoro in bilico tra rock ad ampio spettro e Giorgio Gaber, Francesco Guccini e Pierangelo Bertoli, ma anche, per dire, un Mauro Mercatanti dei tempi di Infedele alla linea. Tanto per sottolineare che qui di laccature ordinarie e ben codificabili legate a una riscoperta à la page della canzone all’italiana ne troverete ben poche. Al massimo una sensibilità d’autore che mira al quotidiano, a una dimensione locale e da essere umano con tutti i pregi e i difetti del caso. Del resto l’ex Love Flower/Julie’s Haircut/Joe Leaman ci ha abituati a un punto di vista tutto suo sul mondo e sulla la vita, rinnovato con stile ad ogni passaggio discografico. Anche con un Togliamoci il pensiero che non fa eccezione in questo senso, adottando il linguaggio della semplicità folk-rock (la title-track) e mescolandolo, di volta in volta, a richiami tra i più disparati: il Messico di frontiera de Il nemico, la chiusa quasi hardcore del L’altra, il blues-funk di Senza canditi. Con quel valore aggiunto di cui si diceva poche righe più su, ovvero la capacità di scrivere su un attualità semplice e legata a filo doppio alle umane solitudini. Quel che accade soprattutto in una La polisportiva che nei suoi cinque minuti riesce a dipingere un universo ristretto, contestualizzato, ma 68

anche commovente e con le sue regole, tra badanti e pensionati, gnocco fritto e balli di gruppo. (6.8/10) Fabrizio Zampighi

Giovanni Marton - Ogni sguardo non è perso (Seahorse Recordings, Novembre 2012) Genere: dark pop d’autore Cresciuto a pane e studi musicali - soprattutto chitarra classica, ma anche solfeggio, armonia e composizione -, il ventitreenne Giovanni Marton esordisce sulla lunga distanza con Ogni sguardo non è perso (sottotitolo: Formulario di estetica stagionale), album che arriva dopo l’EP del 2011 Non sogno l’estate. Il giovane polistrumentista si presenta con un debutto convincente sotto diversi aspetti, grazie a una personalità cantautorale già matura che, seppur orientata principalmente verso sonorità dark pop, riesce comunque a costruire brani eterogenei. Un campionario di suoni caratterizzato da una scrittura sottile, misurata, che di volta in volta rimanda a paesaggi fuori dal tempo e dallo spazio, in bilico tra dissolvenze barocche ed eclettismi cameristici. Tormenta estiva, il brano che apre il disco, introduce l’ascoltatore a un songwriting che per i suoi giochi di luce e ombra fa pensare al lato intimista e visionario del Morgan migliore, come anche L’ultimo sole, pezzo che vira verso territori maggiormente synth senza però rinunciare alla linearità della forma-canzone tradizionale. Perdersi tra gli sguardi, con la sua tenue melodia impressionista, immerge in uno scenario da Parigi in bianco e nero, dove la suggestione chamber non è più solo musicale ma anche cinematografica, mentre Il tuo mondo non è perso è un ipnosi electro rock à la Bluvertigo. Nel disco c’è spazio anche per due ospiti illustri: Fabio Cinti in Nuovi sistemi stellari (un synth d’autore in aria Battiato) e Lele Battista in Idillio Borghese (ottimo esempio di artigianato pop, per uno dei brani più riusciti del lotto). Tanto per sottolineare ancora una volta i legami di Marton con tutto il revival 80s connesso a una certa canzone d’autore all’italiana. Nel complesso, il pregio maggiore di Ogni sguardo non è perso è la voglia di sperimentare soluzioni musicali insolite e personali, pur nell’ottica di un songwriting sempre riconoscibile. Un buon esordio di un autore da tenere d’occhio. (7/10) Giulia Antelli


Green Day - ¡Dos! (Reprise, Novembre 2012) Genere: garage pop Non staremo qui a parlarvi degli attuali tormenti di Billy Joe, quarantenne ragazzaccio in rehab reduce da bravate come quello sfogo anti-Bieber all’iHeart Radio Music Festival (dai, ché su Facebook l’avete cliccato e pure condiviso). E nemmeno a ribadirvi chi, anzi che cosa siano i Green Day oggi come ieri (macchina da soldi per teenager lo erano già ai tempi di Dookie e di Woodstock ‘94, le indignazioni dei puristi “punk” lasciano il tempo che trovano). Essì, neanche l’arte della preterizione ci salva da questo ¡Dos!, seconda installazione dell’annunciata trilogia aperta dall’invero innocuo (e a tratti fastidioso) ¡Uno! e chiusa ovviamente dal venturo ¡Tré! (indovinate chi ci sarà in copertina?). Freddure a parte - chi conosce i nomi della band l’avrà capita, nemmeno a spiegarla -, la scelta di tre album sparati a breve distanza riflette una - per loro - audace diversificazione stilistica: il disco precedente era dedicato alle canzoncine punk pop, il prossimo sarà dedicato alle canzoncione in stile rock opera (alla American Idiot, per capirci), mentre questo vede i tre californiarni alle prese con le - si fa per dire - canzonacce garage. Operazione per certi versi gustosa, anzitutto perché richiama palesemente il loro side-project Foxboro Hot Tubs (ne hanno pure semiriciclato una canzone, Mother Mary, per il singolo Stray Heart, peraltro parente melodica di Everybody’s Happy Nowadays dei Buzzcocks) e poi perché certe dinamiche riescono ai nostri meglio della solita roba. La voce di BJ è ovviamente sempre - sin troppo - riconoscibile per indurci nell’illusione che non si tratti dei Green Day, però cose come il bridge di Fuck Time e Wild One - puro Weezer - hanno il loro bel sapore bubblegum (appena sporcato di ruggine e di testi inevitabilmente adolescenziali), laddove l’evidente strizzata d’occhio agli Strokes di Lazy Bones fa quasi tenerezza; e se la scontatissima dedica a Amy Winehouse (Amy, appunto) nasconde una melodia che più beatlesiana non si può, Nightlife è l’inevitabile concessione poppettara (scivolone pari alla ruffianissima Kill The DJ del disco prima), con l’ospitata della rapper Lady Cobra. Uno, due, massimo tré ascolti: impossibile chiedere di più a un disco così. Non è poco, eh. (6.3/10) Antonio PancamoPuglia

Gypsy & The Cat - The Late Blue (Alsatian Music, Novembre 2012) Genere: indiepop+psichedelia I Gypsy and The Cat sono due ex DJ australiani, Xavier Bacash e Lionel Towers, votati alla causa dell’indie pop.

Un album d’esordio, Gilgamesh del 2010, capace di ricevere - soprattutto nella terra dei canguri e nei territori mitteleuropei - consensi ad ampio spettro, grazie ad una proposta tanto fresca quanto azzeccata. Se in Gilgamesh il duo proponeva un pop di derivazione eighties (che la scena electropop australiana sia ai vertici ormai da anni non è un caso) che li ha portati ad aprire per Kylie Minogue, nel sophomore The Late Blue Xavier e Lionel si sono tuffati tra le variopinte onde sixties. Scritto in tour e registrato in una fattoria, The Late Blue, può far vanto della produzione del guru della new psichedelia Dave Fridmann. Ed è proprio Dave Fridmann (recentemente dietro all’acclamato Lonerism dei Tame Impala) il nome chiave di una sterzata sonora che va a rafforzare la scena acida made in Australia. L’obiettivo dei musicalmente rinnovati Gypsy & The Cat sembra essere quello di portare il discorso psichedelia+pop di Lonerism su livelli ancora più radiofonici e vendibili, lasciando quindi da parte tutte le contaminazioni jamoriented anni’70.All’interno delle dieci tracce di The Late Blue è il singolo di lancio Bloom a svettare: prendete un po’ di Cure, un po’ di The Drums, tocchi jangly (non lontana Every Beat Of The Heart dei The Railway Children), infarcite il tutto in un’atmosfera surf/estiva e avete l’indiepop-hit perfetta. Regnano melodie funzionali come quella di It’s a Fine Line (qui e in Soul Kiss la mano di Fridmann è più evidente che mai), armonie The Zombies, qualche falsetto di troppo (nella MGMTiana Sorry), repliche Foster the People (Only In December) e un perenne senso di psichedelia annacquata evidente ad esempio negli accompagnamenti acustici di Broken Kites e della titletrack (impossibile non vedere arcobaleni ovunque). Furbi quanto volete, anche questa volta i Gypsy and The Cat zitti zitti hanno realizzato un bel dischetto senza troppe pretese. Pubblicato in Australia tramite la propria label Alsatian Music, dovrebbe essere disponibile a livello internazionale ad inizio 2013. (6.6/10) Riccardo Zagaglia

How To Destroy Angels - An Omen EP (The Null Corporation, Novembre 2012) Genere: soft postindustrial Il secondo EP degli How To Destroy Angels lascia aperte molte soluzioni. Può dare l’idea di una compagine molto eclettica, oppure che gioca un po’ a carte nascoste o che ha un progetto ancora in fase di sviluppo. Ogni ipotesi è valida. Anche se non si tratta di un vero album (per cui bisogna aspettare l’anno prossimo), dal confronto tra An Omen, pubblicato solo in MP3 e vinile, e il precedente 69


EP iniziano a delinearsi meglio i connotati della creatura di Trent Reznor, Maryqueen Maandig e Atticus Ross. Di sicuro, il disegno musicale ha una sua personalità, sia rispetto ai Nine Inch Nails, sia rispetto alle colonne sonore, pur risentendo come logico di entrambe le esperienze. Semmai le tracce di industrial sono più sfumate, il rock non abita più qui mentre le assonanze con il triphop diventano più di una suggestione in un pezzo come On the Wing, dalla melodia pigra e indolente. Una forma canzone piuttosto statica e dilatata e la voce di Maryqueen sono gli elementi principali dei primi due brani. L’idea di stile di Keep It Together è piuttosto chiara: una specie di trance pop, una song elettronica avvolgente e minimale, che sfrutta in particolare la ripetitività delle parti strumentali e la circolarità della melodia vocale. Sarebbe forse la direzione più interessante su cui lavorare, a giudicare anche dal duetto finale tra le voci di Maryqueen e Trent Reznor. La successiva Ice Age, il pezzo più curioso del disco, parte dagli stessi motivi di fondo, ma ci troviamo al cospetto di un elegante etnofolk 2.0, che ai bassi elettronici sostituisce percussioni analogiche e suoni di strumenti a corda. Gli altri pezzi, a prevalenza strumentale, spaziano tra diverse direzioni: con The Sleep of Reason Produces Monsters lambiamo i territori dell’ambient, The Loop Closes sembra un brano dei Nine Inch Nails senza le chitarre (la voce è soltanto di Trent) e Speaking In Tongues è il momento più sperimentale e indecifrabile, tra voci pesantemente filtrate, bisbigli, distorsioni e suoni enigmatici. È ancora un lavoro di transizione, ma chi apprezza Trent Reznor può ascoltare con interesse. (6/10) Tommaso Iannini

tempi di From Her To Eternity dimostra di non aver capito molto del personaggio: Race al massimo può rientrare in quella vasta tradizione che parte da Leadbelly, passa per Robert Johnson e Son House e arriva fino a Howlin’ Wolf. Con una puntatina, magari, verso l’ultimo Mark Lanegan, a cui il Nostro assomiglia sempre più nel timbro vocale ruvido e polveroso (ma chi dei due è l’uovo e chi la gallina?). In We Never Had Control ritroviamo il nucleo dei Sacri Cuori Antonio Gramentieri e Diego Sapignoli già all’opera nel precedente Fatalists, oltre al “guastatore” Franco Naddei (Francobeat, Santo Barbaro) addetto ai synth. Una presenza importante, quest’ultima, perché se il duo citato poc’anzi lavora sulle più classiche atmosfere desertiche (Snowblind), Naddei si occupa di creare sfondi sintetici che staccano un po’ lo stile raceiano dai soliti canoni. Quelli, per dire, che nell’electro-boogie di Ghostwriter lucidano le scarpe a John Lee Hooker chiamando a supporto vaghe atmosfere à la Depeche Mode. Se Dopefiends ricorda la Ghost Riders In The Sky cantata da Johnny Cash, No Stereotype è a metà strada tra la State Trooper di Springsteen e una Peggy Sue in stile Hellraiser, Shining Light sembra fare il verso, col suo violino ancestrale, al duo Nick Cave-Warren Ellis mentre Meaning Gone è puro blues tra west e Mississipi. We Never Had Control non stravolge l’universo di riferimento del chitarrista australiano - chi lo conosce già, ci si ritroverà ampiamente - ma riesce a costruire un immaginario credibile e maledettamente affascinante, grazie anche alla collaborazione di Francesco Giampaoli, Vicky Brown, Catherine Graindorge, Violetta DelConte Race e Hellhound Brown. (7/10) Fabrizio Zampighi

Hugo Race - We Never Had Control (Interbang Records, Ottobre 2012) Genere: blues La musica di Hugo Race si potrebbe paragonare a un fiume: procede spedita e, pur sembrando a prima vista sempre uguale, di disco in disco cambia la portata, la velocità, la profondità dei fondali su cui scorre. Del resto l’australiano stesso è in perenne movimento: una vita pressoché nomade (si dice) in stile hobo contemporaneo, buona parte della quale spesa entro i patrii (nostri) confini. A fissare su nastro un blues che, nonostante gli innamoramenti temporanei - il jazz dei tempi di Last Frontier o magari gli accenti più folk di questo We Never Had Control -, rimane l’architrave di tutta la sua produzione, oltre che la naturale espressione di un’esistenza affascinata dai crepuscoli. Chi continua a vederlo come una filiazione del Nick Cave a cui prestò la chitarra ai 70

Indian Jewelry - Peel It (Reverberation Appreciation Society, Novembre 2012) Genere: noise-psych Li avevamo lasciati con la “psichedelia nera sempre più industriale” ma in assetto variabile di Totaled - e li ritroviamo con uno psych post-punk che certo tra cupo e chiaro sceglie le ore notturne. La musica di Indian Jewelry è scorticata, nomen omen da titolo dell’album, e nondimeno l’effetto sull’ascolto è come fare uno scivolo su carta vetrata. Con una novità rispetto al passato che tanto abbiamo celebrato: la fine della scivolata è nota (See Forever), l’abrasione costante, senza picchi e imprevedibili cambi di direzione. Ciò che è intatto è la capacità di fare forse ottimamente ciò che oggi viene fatto già bene da altri - vedi le reminiscenze tra Peaking Lights e Fabulous Diamonds in Eva


Cherie. Indian Jewelry nel 2012 vuol dire però principalmente essere punto di riferimento nel genere “bad trip psichedelico in formato canzone”. Musica psych fatta di spazzatura, come direbbero i diretti interessati. Le undici tracce di Peel It - disponibili in full streaming - sono tali - ossia canzoni - quantomeno per durata e per riconoscibilità; non comportano sconquassi stilistici, lavorano sulla formula, ne cesellano una serie di varianti di medio-alta se non alta qualità (come nella drittissima ma perforante Heart Of A Dog). Il lavorìo ritmico è ipnotico eppure sempre in primo piano, come in Unknown Pleasures, la voce di Tex Kerschen (e a volte di Erika Thrasher, nomen omen part. II) riverbera con eco cose indicibili. Le pennate di chitarra sono moltiplicate per le x virgola volte delle dimensioni frattali, il basso un binario da cui non si sfugge. La sporca cinquina di Houston si è fermata a pensare e scrivere. Tutto se non altro apprezzabile, ma noi li preferiamo quando camminano sballati al buio. (7/10) Gaspare Caliri

Jah Wobble/Keith Levene - Yin & Yang (Cherry Red Records, Novembre 2012) Genere: Cockney dub rock Quando nel 2006 Mark Stewart ci dichiarò che stava registrando con il chitarrista dei PiL tracce per il nuovo album, il nome di Keith Levene sembrava il più improbabile tra i chitarristi delle varie line-up della formazione di John Lydon. Non che Keith fosse morto, lo avevamo avvistato nell’album del 2004 dei Pigface per esempio, ma sicuramente rimaneva un eroinomane dai tempi dai tempi di First Edition, perso nei meandri della propria dipendenza da almeno due decadi. Contrariamente ad ogni pronostico, il mitico chitarrista c’è finito veramente su un album di Stewart e non parliamo di Edit, uscito a un paio d’anni di distanza dalla nostra intervista, ma del recente, deludente, The Politics Of Envy, album del 2012 che fa coppia, in negativo, con l’attessissimo ritorno discografico dei PiL. La faccenda è curiosa perché negli ultimi anni Levene, non solo ha provato a uscire da una dipendenza trentennale ma, a quanto pare, da un paio d’anni è pulito e in forma sufficiente da imbracciare lo strumento. Jah Wobble lo ha voluto prima in un paio di tracce di Psychic Life con Julie Cambpell, poi in un mini tour che negli scorsi mesi ha riproposto il mitologico Metal Box (Metal Box In Dub Tour). Secondo quanto dichiarato da NME, John Lydon aveva chiesto pochi mesi prima al bassista di riunirsi ai PiL e s’era visto sventolare un cachet piuttosto salato. Chissà che invece non sia stato l’egomaniaco frontman

ad aver voluto l’ex amico unicamente come turnista e non come parte integrante della band. Sia come sia Levene ne è stato fuori a priori. Le sue skill chitarristiche sono indubbiamente compromesse e questo Yin & Yang, come il precedente eppì firmato dalla coppia, lo dimostra ampiamente. La seicorde che tagliava vetro e fregava il metallo è ancora lì, sepolta sotto le macerie e, non senza sorpresa, può ancora regalare notevoli colpi al cuore (Vampires). Eppure, l’uomo, spesso distratto e slabbrato negli arrangiamenti (Black On The Block) è, in definitiva, dolorosamente non paragonabile agli episodi maggiori della discografia della Public Image Ltd. Oltre al fatto che l’ombra lunga dell’ex band dei due amici si distende lungo tutta l’avventura. Il recitato cockeny holligan di Jags And Staffs richiama quello di Religion, mentre in Understand al canto troviamo Nathan Maverick conosciuto come Johnny Rotter, cantante di una Pistols Tribute band che ha contribuito in alcuni show del Metal Box In Dub (e che qui canta come se i Blur fossero scesi a Gunter Grove). D’altro canto, la quarantecinquesima (?) prova wobbliana, pur con il buon trattamento alla harrisoniana Within You Without You, i gustosi gli inserti jazzati al sapor di Miles Davis (grazie alla tromba di Sean Corby, collaboratore di lungo corso di Wobble), l’onesto taglio 60s psych e il dub di Jah, è a pieno titolo annoverbile tra le classiche jam trasportate su album del Nostro, pro e contro compresi. Levene nel mezzo. (6.8/10) Edoardo Bridda

James Ferraro - Sushi (Hippos In Tanks, Novembre 2012) Genere: electro / wonky Sempre concettuale James Ferraro, anche quando non si dà a una personale possibile sistematizzazione estetica della hauntology - il controverso ma comunque importante Far Side Virtual - o non si cimenta - situazionista? - con la tradizione della musica corale. Sempre concettuale: anche quando sulla testa fa vincere l’orecchio e per una volta si concentra - sempre fedele però al proprio immaginario - sui suoni di oggi. Copertina nerissima e minimale, la scritta Sushi appena distinguibile in toni di grigio, stile finto bassorilievo, e dentro una musica decorativa e golosa, proprio come i piatti di pesce crudo giapponese: ma una musica, sotto sotto, a ben sentire, rigorosa e monocroma, fredda sotto la superficie calda di nowness electro/wonky. Anche se il singolo SO N2U ha un gusto break/downtempo innegabilmente primi anni Novanta (e l’incipi71


taria Powder ha in trasparenza un’anima praticamente drill, altro fantasmatico richiamo quindi a quel decennio), il focus è sempre e comunque sugli anni Ottanta, stanza degli specchi dalla quale Ferraro non ha la benché minima intenzione di uscire: Ottanta non più però concentrati in forma di ultralucidi acquerelli elettronici miniaturizzati - Far Side Virtual appunto - ma aggiornati ai nostri giorni e quindi declinati, strato su strato, con tutti i trick che la cosmesi produttiva anni Dieci mette a disposizione, vedere i sapori addirittura juke/footwork spalmati tra le tracce (specialmente i cut vocali di Jump Shot Earth, Flamboyant e della soulrappusa Lovesick). Laddove Far Side era naif e lineare, Sushi è grumoso e barocco: un guazzabuglio di suoni che per svagatezza e formato può anche far pensare a un update degli Psychic Chasms di Neon Indian (altro disco controverso e importante), ma con tutt’altra capacità costruttiva e di sintesi (Baby Mitsubishi, con sotto l’house che cova; Condom; Bootycall), cosa questa che ci piace ascrivere alle basi - occhio - alla fine hip hop di tutto (E 7; appunto e di nuovo, Lovesick). Ancora un buon disco per Ferraro, che non smentisce la sua anima di giocherellone cervellotico, perfettamente a metà tra genio incompreso (o al contrario sovrastimato) e slacker elettronico. Qui sotto lo streaming integrale dell’album, attraverso il canale Soundcloud di Dazed Digital. (6.9/10) Gabriele Marino

James Yorkston - I Was A Cat From A Book (Domino, Agosto 2012) Genere: folk James Yorkston non è più una sorpresa. E’ la sua discografia a parlare per lui, esemplare nel delineare una scrittura folk elegante, sensibile, legata a filo doppio alla tradizione inglese quanto personale in certi passaggi. Ai tempi del buon esordio Moving Up Country (ristampato di recente), di Yorkston si accorsero Bert Jansch, un John Peel che lo chiamò a partecipare ad una delle sue celeberrime session e persino John Martyn, quest’ultimo talmente impressionato dai suoi brani da volerlo con lui in tour. Tanto per dire che al Nostro è bastato un pugno di buone canzoni per ritrovarsi in un batter d’occhio - e meritatamente - ad attraversare la storia della musica anglosassone. Da allora sei album pubblicati, tra materiale inedito, raccolte e cover (ad esempio le Folk Songs in condivisione con i The Big Eyes Family Players), utili a definire i canoni di uno stile sempre in bilico tra intimismo e melodia. Paradigmatico, in questo senso, I Was A Cat From A Book, un lavoro che in termini di immaginario non cambia pra72

ticamente nulla ma riesce comunque a suonare fresco. Registrato per buona parte in presa diretta, il disco snocciola undici brani tra il Nick Drake altezza Bryter Layter di Catch e i violini in stile Hurricane di Border Song, le malinconie chitarra, voce e poco più di The Fire And The Flames (i primi Radiohead non sono poi così lontani) e le atmosfere vagamente Belle & Sebastian di Sometimes The Act Of Giving Love. In generale il mood varia, tra suoni riconducibili alla tradizione irlandese/scozzese - un immaginario che Yorkston si porta appresso anche solo per ragioni biografiche - e una morbidezza d’insieme garantita soprattutto dalle tastiere e dal contrabbasso (quello del Lamb John Thorne). Tutto suona estremamente rassicurante e i toni “caldi” della registrazione danno consistenza a una musica che riconferma il talento cristallino del musicista scozzese. (7/10) Fabrizio Zampighi

Jello Biafra/Jello Biafra & The Guantanamo School Of Medicine - Shock-UPy (Alternative Tentacles, Novembre 2012) Genere: punk Il fatto che Jello Biafra non avesse ancora allungato il suo sguardo caustico sul movimento Occupy, era una sorta di cattivo presagio. Di quelli che fanno pensare cose che non si vorrebbero mai pensare, tipo “vuoi vedere che il vecchio leone è diventato veramente vecchio?”. La risposta alla domanda oziosa non ha tardato ad arrivare ed è affidata a questo 10”. Tre soli pezzi, e questo è male, di infinito punk in opposition, e questo è bene. Si parte con l’hard-rock cafonissimo della title track, 30 secondi che sembrano gli ac/dc, e poi via di sarabanda jellobiafresca tra hardcore evoluto e punk da bava alla bocca: bassone infinito e drumming insistito col santone della controcultura a sciorinare i suoi versi caustici e velenosi a creare un ponte tra grande depressione e attualità in crisi, a dimostrazione della lucida visione del grande vecchio from Frisco. Barackstar O’ Bummer rispolvera il tiro dei migliori Dead Kennedys mentre dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, di che pasta è fatto il nostro: riottoso, punk al midollo e contro ogni sistema: il target stesso, quell’Obama osannato a destra e sinistra (Barackstar O’ Bummer / outta nowhere to save the day / what a package / marketing hope and change / never seen / so much excitement and faith / since MLK / where’ve I heard this before? 1992 / called him the “Man From Hope” / a “New beginning” was his tune / signed our sovereignty / over to Wall Street / he should have been impeached / for treason), da la misura delle mire di un leone mai domo. Nemmeno a cinquant’anni suonati.


A concludere We Occupy, già edita nel 7” in cui Biafra prestava la sua voce incazzata a quei loschi figuri dei D.O.A. per un inno all’occupazione che supera il tempo. We occupy, gonna occupy. E se lo dice il quasi sindaco di Frisco, c’è da credergli. (6.5/10) Stefano Pifferi

Jimi Tenor - The Mystery Of Aether (Sähkö Recordings, Novembre 2012) Genere: etno Figlio un po’ del fortunato sodalizio con Tony Allen (l’Inspiration/Information del 2009) e di una lunga collaborazione con i sodali Kabu Kabu, il nuovo The Mystery Of Aether di Jimi Tenor è l’ennesima tappa di un viaggio nel mondo afro-lounge-jazz-exotico-blaxploitation per big band e fiati. Un trip che il Nostro ha intrapreso con forza prima con Beyond the Stars e poi con l’afro ensemble di stanza a Berlino in Joystone. Calato perfettamente in un immaginario vintage tra Strut, Fantastic Voyage e Vampisoul, ora come ora il Tenor elettronico su Warp non è neppure più un ricordo. Inforcando la direttrice afro-jazz cinematografica, il finalandese continua a testa bassa su un immaginario testardamente retrò a cui, bisogna ammetterlo, non manca più nulla in termini di sfumature (le soundtrack fantascientifica di fine Sessanta, la psychedelia bucolica dei primi 70s, il jazz-rock più esoterico, il mambo, suoni da balera latina ecc.), smalti (questa volta Jimi si costruisce anche gli strumenti da solo) e influenze (Martin Denny, Sun Ra e ovviamente gli Africa 70 di Allen, ma anche tante chicce come scampoli di folk-prog sempre primi Seventies). Come nelle migliori parabole da world hyppie, quest’album parla d’esplorare il cosmo per il nostro bene materiale e spirituale. In brani cantati come Universal Love, Eternal Mystery, Dance Of The Planets e Resonate And Be ci si riferisce addirittura alle particelle di noi umani che risuonano nella canzone suprema del cosmo. Tutto il folklore è ovviamente parte del gioco (certi passaggi da Pantera Rosa à la Lounge Lizard - Africa Kingdom - lo confermano) e di un disco svagato e generoso. Il perfetto album per chi si trova nella fase di scoperta di questo tipo d’ecletismo dalle parti di Strut e co. (6.8/10) Edoardo Bridda

Kaki King - Glow (, Ottobre 2012) Genere: instrumental Kaki King, chitarrista da Atlanta classe ‘79, sforna il sesto lavoro lungo a suggello di un periodo di crisi creativa

che ne aveva messo in dubbio prospettive e direzione. A sentire la dozzina di tracce che compongono questo Glow, sembra tornato tutto a posto. La ragazza è dinamica e intensa sulle sei corde spalleggiata dal quartetto d’archi ETHEL nella discreta ma evocativa trama sonica apparecchiata dal producer newyorkese D. James Goodwin (già al lavoro per Devo e Murder By Death). C’è lei e la sua ossessione folk con digressioni psych-blues e svalvolate jazzy che governa con padronanza febbricitante (se il fingerpicking è notevole, l’abilità con percussivi e tapping è impressionante), mediando apprensioni e furore, incantesimi traditional e astrazioni avanguardiste, senza farsi mancare una presenza di spirito in bilico tra gioco e autoironia. La scrittura è sorretta da una buona ispirazione però sempre chiaramente al servizio dell’impatto timbrico, mirata cioè a creare la scena nella quale il suono suonato possa consumarsi in apprensioni meditabonde (le atmosferiche Skimming the Fractured Surface to a Place of Endless Light e Fences con quel un gioco di armonici da nipotina acustica di Jimmy Page), frenesia noir (Streetlight In The Egg) o incendi mercuriali (Great Round Burn, The Fire Eater), con tutto ciò che sta nel mezzo (la trama arty di Cargo Cult, la pseudo bossa di Kelvinator Kelvinator, gli esotismi di Bowen Island...). Ok, siamo di fronte ad un prodotto che aspira a mediare il massimo dell’espressività col massimo della vendibilità, ma tutto sommato ci riesce bene, senza mai suonare eccessivamente patinato o - peggio - artefatto. Katherine possiede del talento vero. La sua carriera d’ora in avanti probabilmente somiglierà ad una sfida per mantenerlo tale. (6.9/10) Stefano Solventi

Kelly Hogan - I Like to Keep Myself in Pain (ANTI-, Luglio 2012) Genere: Country pop Mentre la grande discografia arranca impelagata nel paradosso di politiche sempre meno attente alla qualità artistica (per non usare la parolaccia “commerciali”) con le quali - retromanie a parte - poi invece vende sempre meno, un’etichetta come la Anti- continua la caccia ai più o meno grandi esodati del rock e dintorni. Stavolta va a prendere una cantante dalla lunga carriera che, dopo un inizio che l’aveva vista militare in vari gruppi, si era indirizzata verso un ruolo da seconda voce di lusso per un gran numero di colleghi (Dylan, Tortoise, Neko Case...), e le propone di fare un nuovo disco suo dopo undici anni. Lei allora si rivolge agli amici/colleghi di una carriera e loro le inviano le canzoni che vanno a comporre la sca73


letta di quello che è solo il quarto disco solista. Il quale nonostante le grandi firme non si discosta granché dal lontano predecessore, visto che la cantante di Atlanta riporta tutto al suo tipico stile country pop venato soul, col risultato che l’eterogenesi delle scritture finisce per lo più per dare al disco semplicemente le giuste dinamiche di scaletta - e anche una band piena di nomi illustri (Booker T., per dirne uno) si limita ad assecondare il disegno generale (in questo, il contributo come autore di Andrew Bird ci sta anche bene, ma Plant White Roses finisce per nascondere l’ironia con cui Stephin Merritt scrive questo tipo di canzoni). Non che il disco sia monotono: la generale impressione Emmylou Harris dell’iniziale Dusty Groove ma anche della title-track (dono di un Robyn Hitchcock mascherato da cowboy) o le rimembranze Eddie Brickell di We Can’t Have Nice Things e Haunted, si stemperano in testi che affrontano temi che a Nashville non sono proprio il pane quotidiano, o nel dolore di Ways of This World (lascito del compianto Vic Chesnutt e presumibilmente uno degli ultimi frutti della sua penna). Rimane una generale coerenza stilistica, elegante, che forse è un pregio (anche come potenzialità commerciale, volendo), forse smorza possibili, interessanti deviazioni. (6.8/10) Giulio Pasquali

Kevin Drumm - Relief (Editions Mego, Ottobre 2012) Genere: drone Un ritorno formale alla materia noise era ampiamente prevedibile per Kevin Drumm. Si era capito che i due capitoli su Hospital, Imperial Distorsion e Imperial Horizon, altro non erano che fenomenali deviazioni da una strada abbastanza integralista, fatta di rumore, caos, scontro di frequenze. Relief è l’atteso comeback alle maniere di Sheer Hellish Miasma, ergo grandissimo lavoro di stratificazione su multitraccia e caos predominante per tutti o quasi i 37 minuti dell’unico brano di cui è fatto il disco. I due episodi ambient oriented della Hospital non sono però passati del tutto senza lasciar traccia. Si avverte in alcuni frangenti una vena maggiormente meditata che va ad insinuarsi nel densissimo layer cacofonico delle distorsioni. Eppure la forma finale che assume Relief è quella di un lunghissimo quanto inutile torrente sonoro con variazioni di registro scarsissime se non proprio nulle. Una sorta di fiume guadato a metà e per questo fondamentalmente inconcludente. Di fatto siamo di fronte ad un 74

disco di passaggio in attesa di capire dove voglia andare a parare il musicista. (5/10) Antonello Comunale

Kid Rock - Rebel Soul (Atlantic Records, Novembre 2012) Genere: redneck rock Il primo approccio con il termine “redneck” lo ebbi in adolescenza grazie al videogioco Redneck Rampage, ironicamente ambientato nel Sud degli Stati Uniti e pieno di tutti gli stereotipi che ruotano attorno ad un universo ben rappresentato da personaggi come Cletus dei Simpson o Ansel Smith del recente film Killer Joe. Nell’ambiente musicale probabilmente nessuno - provenienza geografica a parte - incorpora tutte le caratteristiche redneck meglio di Kid Rock: rozzo, ignorantone, conservatore e amante dei motori tanto da autodefinirsi un “redneck, rock and roll son of Detroit”. Nato come rapper di serie z e successivamente convertito con grande fortuna (Devil Without a Cause del 1998 raggiunse cifre di vendita clamorose) in MTV rap-zarrrocker, Robert James Ritchie/Kid Rock nell’ultimo decennio ha intrapreso un processo di countryzzazione che gli ha regalato parecchie soddisfazioni (prima dell’agghiacciante tormentone All Summer Long per l’italiano medio era solo “uno che è stato con Pamela Anderson”). A due anni di distanza da Born Free, Mr.Rock in compagnia della sua fedele - e piuttosto preparata - Twisted Brown Trucker Band, torna con quello che è il nono album in carriera: Rebel Soul. Dopo due lavori che hanno visto due guru del plastic-rock come Rob Cavallo e Rick Rubin in cabina di regia, Robert - in copertina ritratto in modalità pappone - questa volta ha preferito accantonare big producers e fare tutto, o quasi, da solo. Il concentrato di country-rock, blues e atmosfera southern affiora già nell’iniziale Chickens In The Pen seguita dal singolo di lancio Let’s Ride, che oltre ad essere un pasticcio assoluto tra riff AC/DC e chorus late-RHCP è contemporaneamente sia un tributo alle truppe militari statunitensi, sia uno dei brani manifesto della campagna elettorale di Mitt Romney. Esplicativo il commento su Youtube “This song made me PROUD to be an AMERICAN! Mitt would have won the election, hands down if this would have been his theme song!!!!!”: in una mano la Stars & Stripes, nell’altra il fucile. Kid Rock sa bene dove colpire e non c’è dubbio che il - suo - pubblico apprezzerà anche questa nuova scorpacciata di riferimenti ad Uncle Sam, a Detroit (Detroit, Michigan) e alla glorificazione del ruuuock (God Save Rock & Roll, Mr.Rock annd Roll). Musicalmente insegue


ancora Bob Seger e un certo swamp rock anni ‘70 prendendo in prestito (da C.C.R e dintorni) più o meno velatamente melodie e giri chitarristici. Fanno eccezione il comeback in territori rap-rock (comunque sporcati di fango southern-soul) di Cucci Galore e l’oscena ballad in autotune The Mirror. Il re dei redneck è lui e ci tiene a precisarlo in Redneck Paradise, anthem campagnolo per eccellenza (“And when you’re here you’re free and clear to drink beer and dance all night, that’s right. Cuz no one’s uptight in Redneck Paradise”). Il problema di Rebel Soul, e più in generale di qualsiasi cosa uscita a suo nome, non è tanto l’aspetto musicale (il disco è derivativo e obsoleto ma a tratti si fa anche ascoltare) quanto quel misto di patriottismo e di superficialità spicciola che caratterizza in lungo e in largo i suoi prevedibili quanto ripetitivi testi. (3.4/10) Riccardo Zagaglia

KK Null/Cris X - Proto Planet (CX Records, Dicembre 2012) Genere: noizu Da un po’ di tempo in qua il romano Cristiano Luciani aka Cris X sembra aver conosciuto una seconda giovinezza, nonostante la giovane età. Dopo la dipartita dell’esperienza Lendormin il nostro ha intrapreso una carriera in solo con la nuova sigla e a suggellare questa scelta sono uscite in rapida successione una serie di collaborazioni con nomi altisonanti del noise e dell’industrial mondiale, quasi a stabilire padri putativi, omaggi sentiti e totale mancanza di timore reverenziale. Dopo gli split con Maurizio Bianchi (Heczplaser/Black Pulse) e con sua santità Merzbow (Guya/Greed), ecco ora il turno di un altro peso massimo della sperimentazione noizu. A segnare un punto d’interesse nella geografia rumorosa di Cris Xè la volta di Kazuyuki Kishino Null noto come KK Null e già leader degli importantissimi Zeni Geva. Proto Planet (o Genshi Wakusei in lingua nippo) vede i due non dividersi i lati del limitato 12” quanto collaborare in nome di un noise-impro che spesso e volentieri oscilla tra deflagrazioni white noise (il gioco di distorsioni incrociate di 1, le folate al calor bianco di 4, le asperità “materiche” quasi Z’ev di 5) e momenti di stasi ambientale (il cuore di 2, il piano post-atomico della parte centrale di 1) non meno oscure e minacciose. Tra elettronica primitiva, loops assassini, cut-up estremo e cupezza (post)industrial a go-go emerge tutta la maestria con cui il duo plasma una materia incandescente, giocando di cesello e clava, tanto che non mancano i momenti più ipnotici ed ossessivi (3), costruiti sulla rielaborazione di

field recordings come si trattasse di una architettura di origami, prima di venire spazzata via da uno tsunami di cancrene sonore. Musica in tensione, mai doma, sempre alla ricerca della mutevolezza e dell’equilibrio, figlia di due artisti che preferiscono far parlare la propria arte piuttosto che altro. Chapeau. (7/10) Stefano Pifferi

Klippa Kloppa - Siren (Charity Press, Novembre 2012) Genere: Kraut / electro Una prolificità imbarazzante e una altrettanto straordinaria qualità media garantita. Il tutto in free download. Questi in due parole i Klippa Kloppa, il collettivo casertano guidato da Prete Criminale e Dino Draghen già ampiamente - ma mai abbastanza - magnificato su queste pagine, nel loro oramai più che decennale armeggiare pop/sperimentale a doppia mandata ‘ncòppa alla musica italiana indipendente, anzi proprio autarchica. Poche parole qui giusto per dare le coordinate di un nuovo bellissimo lavoro, uscito l’8 novembre per la loro Charity Press (come a dire: autoproduzione, do it yourself e zappiana cheepnis), uno dei loro più rigorosi ed eleganti, fin dalla evocativa copertina disegnata da Daniela (In) Stabile. Siren sono 9 tracce strumentali tutte nebulose di tastiere, oscillazioni e pulsazioni che uniscono cardiaco e siderale, tra Kraut, electro e ambient elettronica ma analogica. Un lavoro lineare, luminoso, aristocratico, ma immediatamente godibile, notevole nella sua interezza ma di cui dobbiamo lodare particolarmente la dance anni Novanta di Union, la terza traccia, il dub funk minimale di Loving God, la sette, e la solenne zampogna venusiana di Life, l’ultimo pezzo. La musica dei Klippa Kloppa è un diamante neanche poi tanto grezzo. La sfida è riuscire sul serio a stare appresso a tutte le cose che sfornano. Siren by klippa kloppa (7.3/10) Gabriele Marino

Lana Del Rey - Paradise EP (Interscope Records, Novembre 2012) Genere: bored pop Un successo di massa annunciato quello di Lana Del Rey, arrivata - dopo mesi di hip-blogosfera - nelle case di chiunque grazie anche (o soprattutto?) a vicende di extra-musicali come prime pagine, ospitate televisive e spot pubblicitari. A livello di classifiche, Lana Del Rey è stato il “nuovo” nome femminile del 2012 (nonostante la sua fama sia re75


taggio del 2011): il discreto Born To Die è infatti, ad oggi, il terzo album più venduto dell’anno a livello globale con due milioni e mezzo di copie ed è la perfetta fotografia di un universo mainstream pop - e ci mettiamo in mezzo anche Gotye - che ha nuovamente virato verso la melodia, dopo un periodo di estremizzazioni electro-trashy. La figura di Lana Del Rey (ovviamente sommersa da qualsiasi tipo di opinioni, speculazioni e rumors) oggi appare sicuramente più definita di un anno fa, ma è ancora difficile stabilire realmente quanto ci sia e quanto ci faccia. Com’è ancora difficile riconoscere le indubbie qualità sotto a uno strato così spesso di furbizia business-oriented: Lana è una bambola in mano ai produttori come le altre dive pop, ma è abilissima a fare il doppio gioco. Che sia ormai in balia del commercio è evidente anche dalla scelta di pubblicare la classica deluxe edition dell’album in prossimità del periodo pre-natalizio per sfruttare il boom del mercato. Come la Lady Gaga del primo disco, la deluxe di Born To Die consiste nell’inclusione di un vero e proprio EP aggiuntivo, intitolato Paradise (da cui il titolo complessivo The Paradise Edition). Otto tracce aperte dal singolo Ride (prodotto da Rick Rubin) che mostra la corda a livello d’ispirazione e, tra una strofa sicuramente evocativa e un chorus in cui avrebbe potuto duettare con Brandon Flowers, la naturalezza di una Video Games sembra lontana. Lana continua a portare alta la bandiera a stelle e strisce nelle successive American e Cola: la prima piuttosto anonima e con un chorus leggermente fuori dai suoi standard e la seconda, già famigerata (“my pussy tastes like Pepsi Cola”). Più interessante il taglio melodico di Body Electric (“I sing the body electric” è un tributo al poeta trascendentalista Walt Whitman), la ricerca di redenzione di Gods and Monsters (“In the land of gods and monsters, I was an angel, Lookin’ to get fucked hard. Like a groupie, incognito, posing as a real singer”), e soprattutto la conclusiva Bel Air, tra i soliti tappeti orchestrali e certe melodie dreamy di scuola Cocteau Twins. La cover di Blue Velvet non fa gridare al miracolo ma Lana Del Rey ha saputo adattarla abilmente alle proprie caratteristiche, rievocando alcune atmosfere - ovviamente e non a caso - lynchiane, ancora più forti nella jazz-Badalamentiana Yayo. Abbandonati (momentaneamente?) quasi del tutto i tentativi di avvicinarsi al mondo dell’hip hop, il Paradise EP non è altro che una breve raccolta di variazioni sul tema. (6.4/10) Riccardo Zagaglia

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Lebowski - Lebowski & Nico - Propaganda (Bloody Sound Fucktory, Novembre 2012) Genere: post punk-wave Quando in mezzo ci sono i Lebowski il citazionismo è d’obbligo, seppur mediato da una cazzonaggine di fondo quasi irresistibile. Prendete Propaganda: foto di copertina in puro stile Devo (versione Ken di Barbie e con qualche accento demenziale garantito dal David Gnomo e parentado ritratti di spalle); la partnership con Nicola Amici sancita da una ragione sociale opportunamente corretta in Lebowski & Nico (il nome Velvet Underground vi dice nulla?); brani come Giovanni citofonista che sembrano una versione ancor più da loser del Giovanni telegrafista di Jannacci (il che è tutto un programma). Poi c’è il suono, incasellato perfettamente tra i Devo di cui sopra, i Talking Heads e le stilettate dei Gang Of Four. Synth e chitarre elettriche formalmente riconoscibili ma abbastanza flessibili da evitare pericolosi vicoli ciechi, grazie anche al sax no wave del già citato Amici (Mattia Pascal, Mutatis Mutande, (A dicembre una tombola) rosso shocking). Chissà che non sia proprio l’immaginario surreale del gruppo, oltre alle ottime capacità tecniche, a rendere impeccabile e in qualche maniera necessaria una formula che comunque pesca a piene mani da un revival fin troppo inflazionato. Certo è che trovarsi di fronte a brani come Sei uno sprovveduto (una rapina finita male raccontata in un italiano strascicato), Kansas City (electro-funk-rock piantato sul mantra Oggi ho fatto veramente niente / però l’ho fatto veramente bene / oggi ho detto veramente niente / però l’ho detto molto chiaramente) o Avevo un sogno nel cassonetto (fusion-no wave robotica a suon di Chi voleva fare il dottore e invece resta a casa malato / chi l’esploratore spaziale ed ora si ritrova alienato) fa decisamente apprezzare l’approccio del gruppo. Fresco, sempre sul pezzo, blindato nelle geometrie, ma anche dissacrante, in un misto di leggerezza e ironico disincanto che non crederesti possibile. A produrre ci sono Giulio Ragno Favero e Andrea Cajelli, per un lavoro che suona più compatto rispetto al precedente e già ottimo The Best Love Songs Of The Love For The Songs And Best. Anzi detto tra noi, i Lebowski se ne escono proprio bene, fortunati - e forse involontari - continuatori di quella intelligente irriverenza che in passato ha caratterizzato (pur con le dovute differenze formali e di approccio) formazioni come gli Elio e le storie tese. (7.2/10) Fabrizio Zampighi


Lino Costa - Minianimali (4miqe, Settembre 2012) Genere: jazz-fusion Se brani come Insonnia o Chimera suggeriscono, per Lino Costa, parentele che vanno dal padre Wes Montgomery fino al figliol prodigo (e altolocato) Bill Frisell - lo avrete capito, parliamo di chitarra jazz e dintorni -, il resto della scaletta di Minianimali fa di tutto per confondere le idee. O quantomeno, procede senza troppe esitazioni in una fusion virtuosistica e pulita che conferma ancora una volta come il jazz possa essere un linguaggio totalizzante e aperto a mille contaminazioni. Tanto che in questo disco d’esordio, concepito tra il 1998 e il 2011, si azzardano commistioni singolari con il progressive (Orange Trip), ci si trova proiettati in medioriente sulle note del sax (Oud), si apprezza uno stile monkiano d’annata su base ritmica funk (The Elephant Jump), si finisce per frequentare persino un avant-rock elettrico sfilacciato ma credibile (Minianimali). Il tutto fatto col rigore tipico di un musicista con una buona esperienza alle spalle - tra i tanti progetti a cui Costa ha prestato lo strumento ci sono Ivan Segreto e i Tinturia - e grazie a collaboratori di primo piano (Domenico Cacciatore al basso e Roberto Pistoiesi alla batteria, con in più Gianni Gebbia, Stefano D’anna e Gianpiero Risico ai fiati e Mauro Schiavone al piano). Ne vien fuori un album soprattutto elegante, destinato a un ascolto generalizzato e a tutte le latitudini. Nulla di apparentemente rivoluzionario alla maniera di Improvvisatore Involontario, per intenderci, eppure materiale tutt’altro che banale. (6.7/10) Fabrizio Zampighi

Lorenzo Lambiase - Lupi e vergini (Modern Life, Novembre 2012) Genere: pop cantautorale Romano, classe 1981, Lorenzo Lambiase ha esordito nel 2009 con un La Cena in cui si immaginava una “cena ideale intesa come momento di condivisione, in cui le tematiche siano quelle del viaggio, del sogno, della città, dell’amore, del tempo, dello smarrimento”.Dopo tre anni il musicista torna per l’etichetta Modern Life con Lupi e vergini, un disco il cui filo conduttore è, già dal titolo, quello della sincerità e della fragilità poste all’interno di una prospettiva universale dell’amore. Il tentativo pare quello di volersi mettere completamente a nudo attraverso undici canzoni che, pur cercando di muoversi in più direzioni - soprattutto elettronica e post-rock, ma non mancano neppure suggestioni psichedeliche -, finiscono per costruire un pop-rock cantautorale ben

curato nella produzione, ma monocorde nella sostanza delle singole canzoni.Non bastano gli arpeggi à la Bon Iver (si ascolti l’attacco di Perth) dell’iniziale Le mani né l’attacco in ipnosi electro della title-track per esaltare un lirismo che, nonostante le buone intenzioni, sembra forse un troppo scontato: è il caso del pop elettrificato di Sulla riva o dell’intro acoustic di Gospel. Brani, quelli citati, in cui il polistrumentista pecca per la troppa voglia di raccontarsi, senza riuscire a immergere l’ascoltatore nel proprio abisso emotivo. Non mancano episodi di scrittura più convincenti come in Periferia - altro brano costruito su rimandi ambient/pop e giocato sui controcanti soul della voce - o un La stanza di Winston e Julia dai riferimenti letterari ed esempio di cantautorato - seppur declinato in toni electro beat - non troppo distante dal Moltheni più disincantato ed esistenziale. La conclusione è affidata agli inserti rock di La grande rivolta, brano di oltre sette minuti che chiude un disco certo interessato a sondare nuove direzioni ma pure troppo attento allo stile e meno al contenuto. Intuizioni e mestiere ci sono, ma manca ancora la maturità per consegnare un album che riesca ad esprimere appieno una personalità per il momento ancora troppo legata ai grandi nomi della tradizione cantautorale. (5.8/10) Giulia Antelli

Lucas Santtana - O Deus Que Devasta Mas Também Cura (Mais Um Discos, Ottobre 2012) Genere: post-tropicalista Fa un certo effetto recensire Lucas Santtana, dopo averlo incontrato e ascoltato in concerto prima della proiezione dell’abbagliante documentario Tropicália (andatelo a vedere). Non per questioni squisitamente personali, discorsi episodici aneddotici esperienze inenarrabili di condivisione, ma perché ora che l’associazione con quella linfa vitale è fatta, iacta est: è operazione chirurgica isolare la musica del Lucas dal tropicalismo, da quella gioia ed energia trascinante, e dalla leggerezza romantica che la persona comunica. Ci proviamo quanto meno - è nelle nostre corde - per posizionare O Deus Que Devasta Mas Também Cura rispetto agli episodi precedenti di Santtana, e specialmente al più significativo di essi, Sem Nostalgia, perfetto set di scritture post-tropicaliste, con melodie e arrangiamenti direttamente provenienti da quell’approccio sincretico che Caetano, Gil, Mutantes tra gli altri esercitavano con la nonchalance del talento di una comunità intera. Lucas sorprende per la stessa disinvoltura con cui ci colpivano i protagonisti dell’onda tropicale. Con O Deus 77


Que Devasta... tenta però meno la strada della bossa (tranne in casi quali Dia de Furar Onda no Mar, sciolti in produzione con elaborata stanza dei bottoni) e più la ricchezza dell’arrangiamento, dell’orchestrazione, e della canzone (e della figura del cantautore) in tutta la sua variabilità transoceanica che porta poi alla tradizione del rondò, pur con le inconfondibili note che escono solo a chi proferisce portoghese brasiliano (la title-track). Allo stesso Santtana, parole sue, un brano come É Sempre Bom Se Lembrar sembra musica italiana (dei nostri sessanta, aggiungeremmo noi, e mai più del cantautorato odierno). Mancano forse i momenti avvincenti di Sem Nostalgia (come quelli strumentali, da heavy rotation, vedi Super Violão Mashup o Recado Para Pio Lobato) ma la penna è in assoluta evidenza, pronta a essere agghindata senza perdere la propria natura. Altra chiave - per chiudere - di lettura. Lucas Santtana sa fare cose semplici che semplici poi non sono (scrivere canzoni) e attorno allo scheletro pulsante metterci carne e pelli colorate, senza però far perdere di vista le ossa che si dimenano. (7/10) Gaspare Caliri

Madness - Oui, Oui, Si, Si, Ja, Ja, Da, Da (Cooking Vinyl UK, Ottobre 2012) Genere: Pop A tre anni (abbondanti) dall’apprezzabile The Liberty of Norton Folgate, i Madness tornano a dimostrarci come la seconda giovinezza non sia solo un bolso luogo comune ma un’eventualità possibile, anche e soprattutto nel supergiovanilistico mondo del pop-rock. Certo, vale la regola che è difficile ascoltarli e scriverne senza voltarsi indietro, nella fattispecie a quegli 80s che li videro rappresentare una via di fuga tanto cazzona quanto intelligente all’oppressione tatcheriana. Un vero e proprio esercizio di dadaismo caricaturale dai risvolti umani il loro, che nella sinergia tra videoclip e canzone li proponeva come dei nipotini scellerati (e a tratti gratuiti) dei Monty Python, ad uso e consumo dei post-punk alla ricerca di un disimpegno che non disimpegnasse troppo i neuroni. Nevrotici, folli, allegri, ma con sotto un cuore che pulsava tra gli ska, i vaudeville e gli errebì. La loro eredità si è dispersa tra le tante band che hanno tentato di tenere vivo il mix senza mai azzeccare la sintonia col presente, a meno che non si voglia annoverare tra gli epigoni certi Blur (e in parte ci può stare). Quindi oggi McPherson e soci si ritrovano con un capitale mitologico pressoché intatto da proporre ai nostalgici di mezza età e di rimbalzo ai più giovani, bisognosi di nuove dosi di cazzoni78

smo come antalgico per nuove e sempre più pressanti oppressioni (e infatti vedi il successo che riscuotono i vari circhi radiofonici e il solitoidiotismo cinetelevisivo). Però i Madness non stanno al gioco, non cadono nell’errore di fare la trita rifrittura dei Madness rischiando il ridicolo. Ovvero, ci marciano eccome sulla loro fama e ci mancherebbe - ma sanno bene di non poter più interpretare quel ruolo, per cui chiamano a raccolta il mestiere e la maturità sfornando un songwriting - come dire? - post-Madness, ovvero pop gradevole, guizzante, a tratti denso, guarnito di espedienti ad hoc. Capace d’ingegnarsi agrodolce (il doo wop in salsa reggae di Misery) e cotonarsi disco (la vagamente inquieta Never Knew Your Name), d’imbronciarsi trip-hop (una Death Of A Rude Boy che sfoggia trovate futuristico/fumettistiche quasi Gorillaz - il che chiude uno strano, intrigante cerchio) ed incalzare power pop (Leon). E’ un disco che non aggiunge virgole significative alla loro vicenda e neppure paragrafi sul libro del pop rock contemporaneo, ma che si fa forte della sua inessenzialità rendendola l’alibi perfetto per sbrigliare estro disincantato (il reggaettino slavato di How Can I Tell You?), a costo di svariare tra improbabili siparietti mariachi (La Luna), piacionismo errebì (My Girl 2) o malinconie noir (la invero un po’ didascalica Powder Blue). Quanto allo ska, è ingrediente quasi omeopatico che quando viene a galla sembra una caramellina che si scioglie subito (So Alive, Black And Blue). Ed è meglio così. (6.7/10) Stefano Solventi

Mama Rosin - Bye Bye Bayou (Moi J Connais, Ottobre 2012) Genere: trash’n’roll, zydeco Quantomeno era difficile da pronosticare: tre svizzeri che direttamente dal lago di Ginevra si mettono a fare zydeco e cajun, musica tradizionale della minoranza creola francese in Louisiana. Poteri della globalizzazione? Chissà, certo è che non te lo aspetteresti e invece... Partiti con un paio di dischi rilasciati per il culto svizzero Voodoo Rhythm, si sono finalmente decisi a sbarcare in America per saggiare con mano luoghi e tradizioni della zona, e la traversata atlantica ha portato con sè anche un mentore d’eccezione, Jon Spencer, produttore di Bye bye Bayou. Diciamolo senza mezzi termini: il party - o la sagra? rock’n’roll dell’anno si consuma qui, con buona pace dei vari Blues Explosion e Jim Jones Revue. Bye bye Bayou è uno di quei dischi che ti esplode nelle orecchie. Parte rock’n’roll, si incurva nel trash punk rock, inverte la rotta verso lo zydeco salvo fare subito marcia


indietro in territori punk, e finisce per scratchare una commistione cajun trash’n’roll. Prime cinque tracce. Va bene non inventano la luna, ma il mix tra tradizione e innovazione trova l’equilibrio perfetto, supportato da un cantato diviso equamente tra francese e inglese. E poi le cose continuano a evolvere anche nella seconda parte con qualche filtro psichedelico in Black Samedi e nella polverosa Seco e Molhado, del vecchio country western, con la ballad malinconica di I don’t fell home e il surf rock svagato di Story of love and hate, un po’ Beach boys e un po’ Byrds. E’ un disco pieno di energia e buone vibrazioni ma non si commetta l’errore di rilegarlo con superficialità alla voce happy songs. I Mama Rosin offrono una narrazione che prevede incontro di culture, studio della storia e capacità interpretativa. Metteteci lo zampino di Spencer a tenere unite le parti ed ecco spiegato il piccolo miracolo. (7.3/10) Stefano Gaz

Mara - Dots (Brutture Moderne, Novembre 2012) Genere: pop Una mezz’ora spesa tra certi Velvet Underground puliti e fuori contesto (Way Out), frammenti pop di Fifties americani (Your Lies), i Doors più brechtiani (Not You), qualche parentesi folk à la Le-Li (Hitch), divertissement strumentali senza pretese (Afternoon Here, Close) e cover plausibili (i dEUS di Nine Threads). La scrittura di Mara Luzietti - ravennate all’esordio - per quanto minimale e, a suo modo, solitaria, regge il peso delle aspirazioni sciorinando un pop-folk da cameretta asciutto nella strumentazione, ma comunicativo come non crederesti possibile. Il tutto grazie anche a una voce ancora un po’ timida - o forse dovremmo dire algida - ma adattissima a far da battitrice libera in mezzo a bozzetti musicali da un paio di minuti o poco più. La formula scelta per Dots qualche naso lo farà storcere, anche solo per il fatto di rappresentare un modello estetico decisamente inflazionato. Eppure c’è una certa freschezza nelle nove tracce della tracklist che non sai bene a cosa ricondurre: se alle inquadrature effettivamente sghembe della Luzietti o al buon lavoro di arrangiamento e produzione di Francesco Giampaoli (Sacri Cuori, Classica Orchestra Afrobeat, Quartetto Klez, Sur). Probabilmente a entrambe le cose, fatto salvo che Dots rimane comunque un buon modo per iniziare un percorso discografico che, con la dovuta costanza e un po’ di coraggio in più, potrebbe rivelarsi decisamente intrigante. (6.5/10) Fabrizio Zampighi

MasCara - Tutti usciamo di casa (Eclectic Circus, Aprile 2012) Genere: indie Dopo l’EP del 2010 L’amore e la filosofia, i varesini MasCara approdano al primo album e lo fanno in grande. La produzione è sontuosa, così come una cura per i dettagli profonda e attenta. Il disco, un concept sul passaggio dalla giovinezza all’età adulta - quella in cui appunto si esce di casa -, è stato anticipato da un trailer a puntate atto a introdurci ai suoni e alle atmosfere di questa storia. Grande produzione, grande attenzione alla forma, per un sound che si divide tra una contemporaneità tutta riverbero di Editors e Bloc Party (con inserti in stile Muse e Coldplay) e un passato dal quale emergono richiami Cure (Le città da costruire) e Depeche Mode (I giorni di Urano contro). Nonostante gli antecedenti illustri e un abito che si allontana dall’universo indie rivolgendosi a un pubblico più vasto, sembra che a questo disco manchi però una decisiva spinta emotiva, soprattutto per un lavoro sui testi che non svetta mai. Se a livello compositivo il suono della band ha una connotazione comunque rilevante, soprattutto in termini di commerciabilità, i testi sfuggono, banalizzano e in qualche caso annoiano. Per un concept album, a ben vedere, non è cosa da poco. Monumenti sonori in esplosione tra l’elettronico e il baroccheggiante (Da uomo a uomo, La stanza) ma racconti le cui immagini non spiccano. (6/10) Giulia Cavaliere

Michele Maraglino - I mediocri (La Fame Dischi, Novembre 2012) Genere: cantautorato indie Cantautorato indie post-anni Zero, quindi un grado (quasi) zero di pancia e nervi che ti arrivano al cervello per dare la scossa alla matassa di neuroni generazionali anestetizzati. Non chiamatelo impegno, ma il bisogno impellente di dare voce allo sconcerto per una prassi sociale dalle molte, troppe sfaccettature tragicomiche. Sferzate che possono assumere la forma del lirismo sloganistico à la Vasco Brondi o del sarcasmo urticante tipo I Cani, con tutto ciò che ti ritrovi nel mezzo, dai laconici quadretti di Dimartino alla disamina umorale dei Numero 6 passando dal cinismo outsider de Lo Stato Sociale. Ecco, appunto, dal mazzo spunta anche Michele Maraglino, classe ‘84 da Perugia, fondatore de La Fame Dischi, un ep d’esordio targato 2011 (Vogliono solo che ti diverti) e finalmente questo debutto su lunga distanza che ne conferma l’attitudine per la calligrafia diretta, nessun volo pindarico ma congetture essenziali 79


che arrivano al punto senza tappe intermedie. Una triangolazione basale di testi, melodia e arrangiamenti (chitarre, basso, batteria) che non inventa nulla se non il senso di urgenza hic et nunc, quello che ti fa ascoltare canzoni come L’aperitivo, Taranto o Verranno a dirti che c’è un muro sopra come reportage dal cuore stesso del disagio. Canzoni che sembrano circostanze sul punto di accaderti, o appena accadute, comunque fatti che ti riguardano da vicino, empatia innescata più dall’approccio ad altezza marciapiede - un po’ busker e un po’ punk da cameretta - di Maraglino che non dall’efficacia delle pur apprezzabili intuizioni (c’è arguzia da vendere nel ritornello di Umida, mentre l’innodia di Vita mediocre e Vienimi a cercare è meno facilona di quel che può sembrare). Manca appunto la ricchezza delle tappe intermedie, la capacità di avventurarsi e svariare nei contesti, l’ispessimento e la problematicità del punto di vista, l’additivo di astrazioni e visioni, tutto ciò insomma che possa conferire alla cronaca emotiva dimensione “poetica”, come invece fa ad esempio benissimo un Paolo Zanardi. Tuttavia, come accennavamo in apertura, più che di mancanza dovremmo parlare di necessità storica, fors’anche di una ben ponderata scelta espressiva. Quanto fruttuosa oltre la contingenza, lo scopriremo ovviamente solo vivendo. (6.8/10) Stefano Solventi

Mika Vainio - Magnetite (Touch Music UK, Novembre 2012) Genere: Ambient-noise Mika Vainio ha sicuramente un approccio in qualche modo stoico. Non solo per il significato che questa parola assume nel senso comune, ma anche per l’originario senso filosofico e per le connotazioni a esso associato. Ossia, stoico è colui che desidera ciò che ha. Una questione di consapevolezza della propria volontà e dei propri mezzi, insomma. Fe3o4 - Magnetite è non solo l’ennesimo disco analogicissimo dell’ex metà pansonica ma ulteriore prova provata di questo atteggiamento. Non vale la pena cercare innovazione, piuttosto coinvolgimento, da un esperimento come questo. E forse per dare complessità alla faccenda si può ipotizzare qualche dettaglio in più sul concept, derivato dal minerale che in natura più di ogni altro (e prima di ogni altro, nella storia delle scoperte umane) ha proprietà magnetiche, e lì balla l’aprezzamento o meno dell’album: un gioco di polarità. Punto di partenza è la sospensione dello stato d’animo, che Vainio attira a sua discrezione verso toni più o meno luminosi - e quindi meno scontati dell’oscurescenza a cui 80

il nome di Mika è abbastanza drammaticamente ormai associato. Magnetotactic ne è perfetta espressione, anzi una successione il cui netto tra scuro e bianco è pari. Lo switch è anche tra materia analogica e materia sintetizzata da suoni radiofonici a basso fuoco di frequenza di hertz - e funziona finchè da padroni li fanno gli oscillatori, pur con continue soluzioni di continuità, all’opposto di come fa per esempio Keith Fullerton Whitman. Il bipolarismo scende anche nel giudizio. I suoni, il vero prodotto su cui dare un giudizio aldilà dell’epochè, convincono solo a metà, ossia quando se ne sente la materia viva. E purché non generino automatismi alla Pan Sonic come nella conclusiva Elvis’s TV Room (con frequenza acuta finale che sembra autoironica, ma sappiamo che non lo potrà mai essere). (6.5/10) Gaspare Caliri

Mock & Toof - Temporary Happiness (Tiny Sticks, Ottobre 2012) Genere: Deepest House Quando un paio d’anni fa vennero pubblicati una serie di articoli sui danni permanenti all’udito provocati dal clubbing, sembrò solo l’ultima riflessione, in ordine di tempo, da parte della dance sull’estemporaneità ed il costo dello stile di vita che propone. La house poi, proprio in quanto offshoot tecnologico, non-umano, della disco è sempre stata consapevole della disforia e dell’autodistruzione che stanno al cuore dei suoi incalzanti inviti a gioire e ballare. Una consapevolezza che, nell’essere presente sin dagli inizi, ne ha fatto un genere maturo, riflessivo, raramente naive. Per esempio Adonis, solo due anni dopo avere suonato coi Clockwork la melensa I’m Your Candy Girl, confesserà la sua disperazione con No Way Back. Ancora prima On and On di Jesse Saunders, lo stesso groove madre, includevea in sé tutti gli elementi che sarebbero andati a comporre la futura house music suonando allo stesso tempo come l’espressione di un profondo malessere. L’intera carriera dei Mock & Toof potrebbe essere considerata come un lungo commento a On and On: gli stessi ritmi che si sfaldano meccanici in uno spazio assolutamete vuoto, con percussioni dedicate a fissare l’attenzione dell’ascoltatore sulla cassa quarti, tesa a sostenere pad dissonanti e synth corpuscolari. Resta al basso e al vocalist il compito di ricordare la parentela, tramite studiati accenni, con il funk ed il dub. Confusion Time, traccia che apre l’LP, evoca addirittura la strofa di Saunders quando canta This things inside in my soul, they make me lose control. Per poi essere seguita a ruota da My Head che continua ad esplorare il tema della possessione e dell’ossessione


nella loro connessione con desideri di plastica e lattice. La produzione ha qulla cura che ci si aspetta, ormai, da ogni artista uscito dalla scuola DFA e si incanala nel solco di quella house adulta, anche nelle tematiche, insieme ai più recenti esempi di Chelonis e Wolf+Lamb. Temporary Happiness non è la proposta di un breve paradiso nel quale fuggire per la durata del disco. Così come Don’t Work, Don’t Care, che si avvia con un cut up vocale che ricorda gli Art of Noise, l’intera opera è un’inno all’apatia drogata e allo stesso tempo espressione dell’insoddisfazione per queste routine che si basano, schiettamente, sul perdere tempo. I Mock & Toof stressano quindi l’accento su quel Temporality per spingerci a ricordare, ancora una volta, la vanità e la fragilità dello stesso progetto house. (7.2/10) Antonio Cuccu

Mouse On Mars - WOW (Monkeytown Records, Novembre 2012) Genere: Wonky A pochi mesi da Parastrophics, album che segnava il ritorno sulle scene dopo svariati anni d’attività parallele e collaborazioni, i Mouse On Mars si riaffacciano sulla Monkeytown dei Modeselektor con una sorta di spinoff di quella prova, WOW. Se il predente lavoro cercava d’aggiornare il caratteristico massimalismo sonico del duo, quest’ultimo sforzo, prodotto seguendo un approccio il più possibile spontaneo e di petto, vede i tedeschi posizionarsi in area wonky con tutto il corollario di beat, bit e filtri derivati. I contribuiti dichiarati da parte di Eric D. Clarke, l’artista Dao Anh Khanh (gli sparuti urletti incisi all’Hanoi studio sono suoi) e la punk band argentina Las Kellies sono giusto delle note di folclore. La tracklist è al 100% figlia di un marchio che, ancora una volta, tenta lo svecchiamento anche con APP musicale (Wretchup) d’imminente commecializzazione su ITunes e, di fatto, usata per la composizione delle tracce. Con MYH a piazzarsi con successo tra Bibio e Hudson Mohawke sotto lente vintage-balearic, PUN a giocare stancamente con gli acquerelli post-glo, APE a trafficare con l’afosità meticcia delle produzioni Flying Lotus e altre tracce a pasturare il lato tech di Parastrophics (la micro acid da videogame di ACD con tanto di 303 filtrate), WOW non si divincolerà dai difetti dell’ultima fase dei Mouse On Mars (CAN) eppure un minimo di freschezza e genuinità lo dimostra. Per la serie, Jan e Andi in studio si divertono e divertono. (6.4/10) Edoardo Bridda

Naomi Punk - The Feeling (Captured Tracks, Novembre 2012) Genere: psy-garagrunge In ambito musicale ho sempre sostenuto l’importanza delle idee. Puoi aver studiato per trent’anni pianoforte, puoi sparare assoli hyper-speed di 10 minuti o cambiare tre tempi nel giro di 5 secondi, ma se mancano le idee ai miei occhi vali zero. In poche parole, se ci fossero piú Kevin Shields e meno John Petrucci sarebbe un mondo (discografico) migliore. Anche per questo motivo apprezzo il lavoro della Captured Tracks, protagonista di un 2012 di grande valore e capace di crearsi un roster di artisti che tendenzialmete mettono davanti l’urgenza espressiva o il tocco personale alla mera tecnica. Artisti forse ancora un po’ acerbi ma già in grado di portare avanti un discorso tanto di difficile collocazione quanto facilmente riconoscibile. Il primo approccio dell’ascoltatore medio con The Feeling dei Naomi Punk può variare dal “cosa è questa roba?” al “per piacere abbassa”. L’album, uscito originariamente in 300 copie su Couple Skate Records e caratterizzato da un artwork dalle tendenze cromatiche presenti in molte delle ultime uscite Captured Tracks, è infatti un tuffo in un mondo malato, dove però il rifiuto iniziale si tramuta ben presto in assuefazione. The Feeling, che è il secondo disco della band, non tradisce le origini - Seattle e dintorni - del trio capitanato da Travis Benjamin Coster: si respirano dosi di abrasioni proto-grunge lungo le dieci tracce del disco, soprattutto in brani garage oriented come l’ottima Burned Body o nell’estrema visceralità di The Buzz. Tra la sguaiatezza di chitarre maltrattate, riff sorretti da potenti crash e melodie capaci di entrare in testa in modo subdolo, il sinistro The Feeling è un lavoro che si concentra in primis sul suono e poi, con un po’ di fortuna, sulle canzoni: dietro alla loro proposta musicale è facile intuire infatti delle scelte stilistiche ben precise, come ad esempio il settaggio della distorsione della chitarra o l’effetto omnipresente sulla voce.Tra i momenti più alti troviamo l’iniziale Voodoo Trust con una strofa non troppo lontana dal chorus della sopracitata Burned Body ed un ritornello decisamente killer e la struttura ciclica di Trashworld. Niente male pure l’instrumental (uno dei tre presenti nell’album) vagamente gaze di Gentle Movement Toward Sensual Liberation, esplicativo della sensazione “inside the bell” che torna a più riprese lungo la durata del disco e il retrogusto art/no della conclusiva Linoleum Tryst. Si potrebbero trovare decine di aspetti negativi, debolezze compositive o di possibili migliorie, ma a conti fatti 81


- e non è poco - non esiste nessun disco che suoni come questo. Alienato e alienante. (7/10) Riccardo Zagaglia

Natural Assembly - Arms of Departure (Avant!, Ottobre 2012) Genere: synth-wave Torbido e oscuro. Eppure a suo modo attraversato da bagliori “glamour”. Elegante, insomma. Ma pur sempre apocalittico. Il primo (mini) Lp del duo londinese Natural Assembly raccoglie frammenti di electro, industrial ed ebm, per creare una scultura di ferro, plastica e velluto, creatura squisitamente “cold”, come tutta la wave più o meno sotterranea che ha saputo farsi apprezzare nelle ultime due o tre stagioni. Ritmiche aliene e riverberate, sintetizzatori a pervadere l’aria, voci lontane, filtrate e trasfigurate nel processo di de-umanizzazione che vuole la macchina a sostituire la coscienza di un’umanità alla deriva, fanno di Arms of Departure un album ricco di variazioni sul tema, nonostante la breve durata. Piace quindi l’incontro tra groove incalzante e oscurità soffocante in 19.03.12, così come la distensione synthpop di Sunrise e i fitti tappeti su battiti mid-tempo di Wretched Burden. Certamente perfettibili, ma già ampiamente a fuoco. (7/10)

dal Gilmore International Keyboard Festival, per il pianista Bruce Brubaker) è la parte migliore del lotto. La pianizzazione di un bipolarismo. Ci racconta una storia musicale di schizofrenia. Da un lato il pianoforte assume una personalità antitonale, dissonante e dinamica. Dall’altro una personalità docile, quasi pensierosa. Con soluzioni di continuità raramente prevedibili. A volte (Drones & Piano Part 3 - The 8th Tune) quel nervosismo è una composizione veloce, che sa che i minuti contati sono preziosi per mantenere un barlume di lucidità. La viola di sottofondo è l’ambiente ideale per questa dialogica tragedia quotidiana, allo stesso modo il piano in reverse dovrebbe essere tappeto perfetto per il protagonismo degli archi nelle due serie successive (Drones & Viola e Drones & Violin), ma perde efficacia. La viola dronica ricorda John Cale, se non Tony Conrad; il piano statico il Terry Riley di In C, come se fosse suonato nell’altra stanza, e quindi come se gli fosse negato il protagonismo solo per una questione di piani di fuoco. Per lo stesso motivo, gli switch / glitch di Drones & Violin - Drones in Large Cycles sono - seppur più “strutturanti” - meno adatti a dare luce alla metafora del disco: monologhi interiori su suoni dronici della quotidianità tradotti in strumento musicale. Funziona quando lavora sull’ossatura, Nico Muhly, in Drones. Per un compositore di fatto camerista, è una posizione di vantaggio. (7.1/10) Gaspare Caliri

Antonio Laudazi

Nico Muhly - Drones (Bedroom Community, Novembre 2012) Genere: contemporanea

Odd Future Wolf Gang Kill Them All - The OF Tape Vol. 2 (Odd Future Records, Marzo 2012) Genere: Hip Hop

Nico Muhly è uno fedele a quello che dice. E alle metafore con cui titola le proprie composizioni. Mothertongue era un calembour di vocalismi, l’allestimento di una scena di parole e timbri d’ugola pennellati da mamma lingua. Drones - che raccoglie tre EP del compositore (Drones & Piano, Drones & Viola, Drones & Violin) unendoli con la finale Drones & Violin - Drones in Large Cycles - non solo riflette i mezzi usati (gli strumenti), ma li impasta dando a uno o all’altro il protagonisto e al restante l’ambientazione dronica. Il gioco è non cadere nel tranello: non ci sono droni - come siamo abituati a pensarli - ma ipotesi strumentali di traduzione della sospensione del velivolo senza conducente, non un ronzio ma un veicolo - un mezzo, appunto. Il tutto resta molto legato a Philip Glass, con il quale Nico ha collaborato in diverse occasioni e che del resto forse è stato mentore indiretto. Si rimpallano pianoforte, viola e violino. Drones & Piano (commissionata in origine

Il collettivo hip hop Odd Future confeziona una compilation per fare bella mostra di tutti i piccoli e grandi talenti che si sono raggruppati attorno al leader Tyler the Creator, artisti quali Earl Sweatshirt, Frank Ocean, Hodgy Beat, Domo Genesis, The internet. L’impressione è che questo disco immortali una momento difficile per la crew: da normalissimi ragazzini malati di hip hop gli Odd Future si sono trovati in un baleno, grazie ai tempi iper-veloci di internet, al centro dell’attenzione della scena musicale grazie all’immediato successo riscosso da Earl e Tyler. Gran parte del merito dei due è stato quello di portare una ventata di aria fresca nella scena hip hop con una musica estrema e perversa (con basi che pescano tanto da Waka Flocka Flame che da Hudson Mohawke) ma al contempo adolescenziale e spensierata, sempre però concentrata sull’autocelebrazione di sé stessi come giovanissimi V.I.P. Purtroppo però non si rimane adolescenti a vita e le debolezze di

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questo disco ci mostrano come ciò è vero anche per la gang del lupo, che forse dovrebbe iniziare a ricalibrare la propria proposta. L’album è incentrato su una formula semplice: lo storico membro e produttore Left Brain (aiutato da Tyler) siede in consolle e sforna basi su cui andranno a lavorare più artisti. Purtroppo rispetto agli anni passati è proprio questo meccanismo che si è inceppato. Se l’adolescenza è il momento della vita comune, la maturazione impone la solitudine degli adulti e di conseguenza è divenuto difficile per i nostri lavorare insieme senza schiacciarsi l’uno con l’altro. Così da una parte ci sono un gruppetto di big che per lavorare assieme avrebbero bisogno almeno di un terreno neutro, laddove invece la produzione di Left Brain gioca quasi sempre a favore di Tyler. Un esempio tra tutti: in Snow White Frank Ocean sembra capitato per caso in un pezzo di Tyler the Creator. Dall’altra ci sono invece Hodgy Beat e Domo Genesis i quali sono ancora incerti tra adagiarsi sugli stereotipi Odd Future, ma rimanere sempre personaggi di secondo piano rispetto ai più carismatici, oppure azzardare un percorso di maturazione che li porti verso una propria proposta artistica, come cercano di fare nei loro buoni dischi solisti grazie a produzioni più classiche (l’Ep di Hodgy e No idols di Domo). Paradossalmente le tracce migliori sono quelle più inaspettate come White, con Ocean questa volta libero di fare Frank Ocean (accompagnato dal piano). Belle anche la funkeggiante Ya Know dei The Internet con The Internet stessi in consolle e Forest Green by Mike G, che ci presenta un flow assolutamente di livello. Fortunatamente a redimere tanti brutti momenti arriva, in chiusura, il singolo allstar Oldie, dalla produzione finalmente poco ingrombrante e 90s che ci lascia godere della varietà di stili e registri vocali. Da notare - e non senza amarezza - come Ocean si dimostri il più maturo del gruppo anche nel rappato e come il ritorno nel finale di Earl (che non aveva potuto presenziare alle session) ci faccia pentire di aver ascoltato finora quasi solo brani di Domo Genesis e Hodgy Beat. Un fatto curioso è che il più grande difetto del disco, quello di fare un pasticciaccio di artisti così diversi, va in realtà a vantaggio della crew: viene voglia di sentire i dischi solisti, dove ognuno avrà lo spazio per esprimersi al meglio. Forse una mossa di marketing geniale? (6.5/10)

in occasione dell’uscita del sophomore di Fritz, col quale tornava alta l’evidenza di una scienza del perfezionamento, l’elevazione di un sound in fondo proprietario e amatissimo per armonie e umori difficilmente replicabili. E se questo nel fratello minore raggiunge l’apice con Sick Travellin’, la discografia della star Paul aveva già raccolto tutto il possibile negli ultimi due (vendutissimi) album, Berlin Calling e Icke Wieder, ponendolo di fronte a un bivio per questo Guten Tag: insistere su quel che vogliono i fan col rischio di apparire narcisista, o liberare il movimento verso una nuova fase stilistica? La risposta la dà subito in apertura Der Stabsvörnern, parziale messa in discussione di quel caratteristico mix di atmosfera e ritmo che aveva fatto innamorare nelle opener dei due dischi precedenti, Aaron e Böxig Leise. Stavolta i bpm sono accelerati e il mood è più duro, più vicino alle ossessioni della Berlin techno (i loop autoritari di Trümmerung) e all’impatto per il club (Hinrich Zur See, siam dalle parti della minimal), interpretando una certa tendenza europea recente che punta verso territori più aggressivi e intransigenti e che stiamo osservando sotto fronti diversi, che siano lo Scuba berlinese lanciatissimo con Sigha o persino l’ultimo urlo hardcore di Vitalic (che - guarda caso, troviamo qui campionato in Kernspalte, il sample è della Polkamatic di OK Cowboy e adesso suona come la fase di respirazione preliminare all’agonismo). Nonostante il singolo Das Gezabel sia di quelli fedeli al ben noto Kalkbrenner style e l’album lasci comunque spazio a momenti melodici liberatori (ottima Der Buhold che ci mette anche la grinta), gran parte della tracklist si rivolge, in realtà, agli aficionados delle notti in pista. Il pezzo più rappresentativo è Spitz-Auge, che riesce a riversare la sapienza della star di Berlino sui meccanismi del club buio, farcendo con bassi electro industriali che accompagnano ogni battuta nel segno di un groove meccanizzato. Così Guten Tag diventa album meno propenso all’accettazione globale e più orientato a un pubblico di appassionati di nicchia (se così possiam vedere la techno nello scacchiere complessivo). Mossa più che lecita: dopo Icke Wieder d’altronde era controproducente tentare ancora repliche, e il ritorno alla dimensione DJ è un modo per ribadire l’identità di Paul Kalkbrenner. Da oggi un po’ meno divo, un po’ più umano e genuino. (6.7/10) Carlo Affatigato

Gianluca Carletti

Paul Kalkbrenner - Guten Tag (Paul Kalkbrenner Musik, Novembre 2012) Genere: Berlin techno

Phillip Phillips - The World from the Side of the Moon (Interscope Records, Novembre 2012) Genere: Mumford&Matthews

Giusto questo mese riprendevamo il Kalkbrenner affair

Nel 2012 dove vai se il mandolino non ce l’hai? Il succes83


so - assolutamente clamoroso - dei Mumford & Sons e dei loro nipoti (dai The Lumineers agli Of Monsters and Men) recentemente è arrivato fino al melmoso e putrido mercato italiano. Semplice, le armonie dilatate e a volte articolate dei Fleet Foxes funzionano ma non sono abbastanza spensierate per il nostro pubblico e non potrebbero di certo finire nel trailer del cinepanettone con De Sica (come è successo a Little Talks). Negli Stati Uniti il ricambio è continuo e il fenomeno è probabilmente all’apice dell’esposizione mediatica, tanto che l’ultima edizione del talent show American Idol, in passato trampolino di lancio per teen-idols, divette mtv, country-boys o pseudorocker, ha visto trionfare un cantautore folk-pop armato di chitarra acustica: Phillip Phillips. Il brano che che lo accompagna da qualche mese si intitola Home e potrebbe trovare - rarità per i prodotti usciti da talent show statunitensi - consensi anche da noi, magari sotto ad un albero di Natale radicato in frasi come “because I’m gonna make this place your home”. Home, manco a dirlo, sembra un clone - anche ben riuscito - di un qualsiasi (tanto per sottolineare nuovamente la poca varietà presente in Babel) brano dei Mumford & Sons con la partecipazione degli Arcade Fire a fare la coda. L’album di debutto di Phillip Phillips, pubblicato via Interscope e 19 Entertainment, si intitola The World from the Side of the Moon e parte certamente dai risvolti trad di Marcus Mumford&co ma va a toccare corde - anche vocali - più vicine a certe cose (private dei tecnicismi free-jam del caso) della Dave Matthews Band come in Hold On, in Get Up Get Down e in una Drive Me a rischio plagio concettuale. Realizzato con la collaborazione di Gregg Wattenberg (non a caso già con roots pop-rockers quali Train, Five For Fighting e O.A.R.), The World from the Side of the Moon è il classico prodotto di chi punta dritto all’obiettivo - le classifiche - mettendo in secondo piano tutto il resto. I pro sono quindi quasi tutti da ricercare nella facilità con cui Phillip trova gli hook melodici mentre tra i - tanti - contro abbiamo cori quasi parrocchiali (Where We Came From, la probabile hit Gone, Gone, Gone), produzioni da blockbusters OST (Tell Me A Story), eccessi zuccherosi e alcuni ritornelli talmente stucchevoli (So Easy) da generare l’effetto contrario. The World from the Side of the Moon è un album bidirezionale: da una parte Mumford e dall’altra Matthews.M&M’s e tutto torna. (5.3/10) Riccardo Zagaglia

Pinch - Missing in Action (Tectonic, Novembre 2012) Genere: Dubstep Mentre oggi uno come Skream inizia a generare casi di malcontento tra i fan per abbandono del tetto coniugale, Pinch aveva iniziato un’inesorabile deriva verso la New Wave Of Techno già due anni fa con le varie Croydon House, Retribution e Paranormal Activity, tracce che ridefinivano certi contorni dance con equilibrio e autorità, senza crear troppo scompiglio. Un percorso di rinnovamento che ha trovato espressione definitva proprio quest’anno (l’ottimo FabricLive.61) ma che non ha mai completamente distolto il producer bristoliano dalle genuine profondità del dubstep. In questo senso vanno il valido album in collaborazione con Shackleton e questo Missing In Action, che segna il ritorno nei luoghi del delitto sotto forma di raccolta di rarità e inediti prodotti dal 2006 al 2010.Rob Ellis rinvia dunque a data da destinarsi il seguito in studio di Underwater Dancehall, e si ripresenta nelle vesti di label manager attento ai desideri del pubblico, mantenendo alto il profilo tecnico e preferendo evitare certe versioni/visioni personali che, Mala insegna, richiedono coraggio e sforzo mediatico. Meglio agire con cautela dunque, mettendo sì in gioco le risposte nu soul al giro post-Blake & SBTRKT (nel personale approccio esotico di Dil Da Rog Muka Ja Maha, ovvero dell’arab-soul) ma lasciando il centro del palco ai personali fondamenti, mai sconfessati, del producing elettronico 00s e all’arte del remixing. In 12 tracce, dal 2006 al 2010, M.I.A. presenta il biglietto da visita di una vecchia volpe che puntella ai fianchi il monolite dubstep: materia giocata per raffinazioni successive (la spendida 136 Trek tutto stepping in chiaroscuro + polveri di stelle old skool house), curata a livello tattile del campione ritmico come da tradizione trip-hop (Motion Sickness, E.Motive), chiara (reggae/dancehall) come scura. Con il wobble nelle vene (Cave Dream). Dal cuore tech che batte per Detroit (Mutate(d), ovvero il rework di 30Hz, ovvero il citato Ginzburg) senza che lo sguardo si neghi ai tagli ambient (ancora la citata E.Motive, Attack Of The Giant Robot Spiders!) oltre che ai tocchi soul (via 2 step), house (ancora Mutate(d)), fondamenti reggae (la versione di Rise Up di Henry & Luis con il feat. in ragammuffin di Steve Harper), dancehall (Chamber Dub) e pop (Qawwali VIP, il remix di Emika Double Edge). Ancora una volta, assieme alle compile Dubstep Allstars, i nostalgici del genere avranno un paladino da osannare, del resto questa è anche materia destinata ai cultori di ogni categoria elettronica. (7.2/10) Edoardo Bridda

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Prince Rama - Top Ten Hits Of The End Of The World (Paw tracks, Novembre 2012) Genere: now-age Tanto erano credibili i paralleli fra le assurde personalità - background in una comune Hare Krishna, letture e manifesti prodigati da pozze di sangue, esorcismi di gruppo su VHS - e le rotelle altrettanto fuori posto rinvenibili nel melt di psych, raga/free-folk e now-age, fino a Shadow Temple (2010) di dubbi ne avevamo pochi: il trio dietro al progetto Prince Rama c’era ben più di quanto ci facesse, nel senso che faceva quel che faceva perchè quella era la natura alla base. Soltanto un anno dopo, ecco la fuoriuscita di Michael Collins, con la band che diventa appannaggio esclusivo delle sorelle Larson e il deludente Trust Now a farci annusare una deriva terzo/quartomondista da freak sfattone che di colpo appariva un po’ forzata. Ora, infine, il terzo lavoro su Paw Tracks a consolidare tale deriva, con l’aggravante di un’apertura ad uso e consumo di un pubblico sempre più vasto (e modaiolo) che affossa ogni parvenza di attitudine del tutto non calcolata. Tops 10 Hits Of The End Of The World è concepito come un souvenir post-apocalittico, ovvero una pseudo-compilation di singoli firmati dalle dieci band (fittizie) che stavano ai vertici delle chart prima di perire allo scoccare del giorno del giudizio. Il concept non è nuovo (Sonny Smith aveva già gestito artisti immaginari nel suo 100 Records) ma risulta comunque interessante e di grande potenziale, specie se messo in prossimità del responso della profezia Maya e in balia di due menti malate come quelle di Taraka e Nimai. E infatti tutto il corredo del disco è un capolavoro demenziale: cover ultra-goofy a parte, per ogni band - tra cui spiccano nomi come Taohaus, Hyparxia e I.M.M.O.R.T.A.L.I.F.E che già di per sè meritano - ci sono anche le press photos, i tag di genere - motorcycle rock, new-wave grunge, ghost-modern glam, etc - e delle bios che, fra culti erotici infiltrati nelle disco underground ed act generati al computer, sono tra le cose più divertenti ci siano capitate per le mani di recente. Lo stesso non si può dire del contenuto musicale. La buona resa della mossa volta all’immediata appetibilità attraverso la diluizione dei tratti ricorrenti - droni arabeggianti e new-age, blend di cheesy-disco e goth-rock, percussioni tribalissime e riverbero cosmico - regge soltanto per quattro pezzi, scadendo poi in un pasticcio di generico, scarsamente ispirato retro synth-pop, tra imbarazzi bollywoodiani (Radhamadhava) e nostalgie lato Bananarama (Exercise Ecstacy). Non solo: col volgere al termine di So Destroyed - appunto la traccia #4 - va a perdersi anche un qualsiasi contatto con l’idea di fondo,

sia per la varietà di proposta - ben inferiore a quanto implicitamente richiesto -, sia per la assenza di ulteriori episodi che ne rinnovino il “panico concettuale”. Per intenderci, quanto egregiamente fatto dai canti meta-rituali dell’opener Blade Of Austerity e della contigua Those Who Live For Love Will Live Forever. Per le Prince Rama è un’altra occasione sprecata. (6/10) Massimo Rancati

Producers - Made In Basing Street (The LAST Label, Novembre 2012) Genere: AOR/AAA Sono in quattro, arrivano da Londra, si fanno chiamare Producers ma non sono l’ennesima nuova band destinata alle copertine di NME, tutt’altro. Suonano insieme da sei anni e all’anagrafe sono Lol Creme, Trevor Horn, Steve Lipson e Ash Soan. Un progetto guidato da due assi del pop inglese, musicisti di fama mondiale prima ancora di dedicarsi in primo luogo alla produzione: l’occhialuto Trevor Horn - nei Baggles di Video Killed the Radio Star, negli Yes di Owner of a Lonely Heart e negli Art Of Noise del superclassico Moments in Love - e il sessantacinquenne Lol Creme, già negli Art Of Noise della reunion di fine millennio e presenza storica dei 10cc di (compresa I’m Not in Love). Stephen Lipson è stato visto spesso a fianco di Horn (ad esempio per Slave to the Rhythm di Grace Jones), mentre l’ex Del Amitri Ash Soan - il più giovane del gruppo - ha recentemente lavorato come sessionman dietro alle pelli per molte star dell’UK pop. L’album di debutto Made In Basing Street esce per la The LAST Label, branchia della ZTT Records fondata trent’anni fa dallo stesso Horn, dopo mesi passati - guestate di Will Young e Jamie Cullum comprese - sui palchi di mezzo mondo. Nonostante siano producer, la dimensione ideale della band è infatti quella live, situazione perfetta per sfoggiare anni e anni di esperienza e una perizia tecnica sopraffina, davanti ad un pubblico nostalgico dell’AOR-era. Made in Basing Street - così intitolato in quanto registrato ai SARM/Basing Street Studios - inizia con quell’incrocio tra Live And Let Die e i TOTO più leziosi che è Freeway. Soft rock (Waiting For The Right Time) e cori che rimandano a quella che a cavallo tra ‘70 e ‘80 era probabilmente la scena meno interessante che l’industria musicale aveva da offrire: tappeti di tastiere, arrangiamenti e guizzi chitarristici che sembrano uscire a seconda dei casi da Sanremo 1980 (o anche 2012, cambia poco) o dai cd di Beppe Maniglia (Your Life). Qualche riffetto accennato (You And I) e una parte centrale del disco pseudo85


acustica (Stay Elaine, Barking Up The Right Tree) che alza ulteriormente un livello di glucosio già molto elevato. Dieci tracce costruite su struttre di layer, strumentali e vocali, impilati da una mano dolce e inoffensiva. Pacchiana. Anche dai titoli dei brani (l’onesta Every Single Night in Jamaica ad esempio) è chiaro che i quattro Producers puntino tutto sull’effetto nostalgia, ma non siamo né di fronte ad una nascita di un revival prog-soft-aor (fortunatamente), né di fronte ad un prodotto in grado di trovare nuovi adepti alla causa. Made in Basing Street sarebbe stato un arcaico disco da cestino automatico già trent’anni fa, figuriamoci oggi. (3.5/10) Riccardo Zagaglia

Rihanna - Unapologetic (Def Jam Recordings, Novembre 2012) Genere: Pop / R’n’b Per ben tre album, dal primo Music Of The Sun a Good Girl Gone Bad, Rihanna era riuscita a gestire con una certa dignità la propria figura di star pop/r’n’b dalle diverse influenze, e se pensiamo a quanto aggressiva e invadente sia l’industria musicale USA degli ultimi anni, non è poco. Ma col mainstream, si sa, la genuinità non dura mai e dal 2009 l’artista caraibica è diventata una specie di carrozzone carnevalesco sul quale tutti vogliono salire (il tasso di visibilità è troppo allettante), così che tutti i dischi da Rater R in avanti son finiti per essere dei puzzle eterogenei studiati a tavolino che non si son lasciati scappare nessuna delle mode intercorse nel frattempo: dal dubstep al Gaga style fino al danzereccio pop, e mai nessuno a chiedersi sul serio se fossero mosse perfettamente adatte alle qualità del soggetto manipolato. Per Unapologetic la situazione è ancora così (la svolta solitamente avviene causa colpo d’orgoglio dell’artista stesso, qui non pervenuto) e quel che qualcuno definisce “un gran bel mix di generi” in realtà è uno scontro in galleria di almeno 4-5 diverse traiettorie tra loro incompatibili. Peccato, perché i primi pezzi sembravano aver identificato un’immagine efficace da seguire e la stavano costruendo anche con stile. Fresh Off The Runaway pecca forse di leggerezza nel rivangare certe sonorità fidget da autoradio, ma almeno ridisegna un volto da bad girl, resosi necessario dopo il passaggio di Calvin Harris e spendibile bene in più di un’occasione. Come in Numb, ad esempio, per riempire con carattere gli spazi abstract e compensare l’impalpabilità dell’intervento di Eminem. E molto meglio sono Power It Up e Loveeeee Song, che finalmente tirano in ballo qualcosa di veramente underground come la trap music e le sue filettature ritmiche: 86

mentre sullo sfondo corrono proprio quelle che presumibilmente saranno le colonne sonore della dance d’avanguardia dei prossimi anni, il ruolo di Rihanna è di addolcirne l’effetto con un r’n’b essenziale e black, riportandole a una dimensione più ascoltabile e fruibile, sinuosa nella prima e malinconica nella seconda. Mossa coraggiosa al di là delle ragioni che ci stanno dietro, soprattutto perché si svincola dal solito schema caro a Mtv e anche da quello che i fan potevano aspettarsi. Il resto dell’album, ovviamente, non poteva correre dietro teoremi tanto rischiosi e va quindi a cercarsi le proprie ricette appetibili secondo i canali classici, ballate pop sul mieloso andante come Stay e Get Over With It (che su un disco r’n’b di un certo livello non dovrebbero starci), riciclo di suoni indie rock collaudati (Lost In Paradise, Love Without Tragedy) e onoroficenze devote verso il pop che conta (Nobody’s Business con Chris Brown, che trapela invidia stilistica verso chi certe cose le ha dimostrate negli ‘80, Madonna e Pet Shop Boys). I momenti peggiori però son due: Jump prova a inseguire il nuovo dubstep insieme a due esperti del caso come i Chase & Status, che vedono di non esagerare ma di fatto creano un conflitto di compatibilità con le movenze di Rihanna (Katy B già c’è e non è necessario imitarla), mentre in Right Now - manco a dirlo - David Guetta è sempre abilissimo a far sbiadire ogni eleganza estetica, coprendo con quantità industriali di dj tools disinibiti al limite dell’offensivo. Se togli la sostanza capace di distinguerti e lasci intatto il jet set, alla fine hai solo un contenitore luccicante riempito senza molto criterio. E con Rihanna sta diventando un’abitudine. (5/10) Carlo Affatigato

Rio Mezzanino - Love Is A Radio (A Buzz Supreme, Novembre 2012) Genere: blues, desert Quattro anni fa, al loro esordio, i Rio Mezzanino convinsero un po’ tutti e si ritagliarono apprezzamenti e paragoni con un certo desert blues-rock di taglia grossa. La combriccola toscana torna a bomba su quello che aveva sapientemente costruito, cercando di equilibrare gli orizzonti e aggiungere solidità al sound. Love Is A Radio è un disco cupo, granitico, sporcato dalla polvere di un country-blues deviato e sorretto dalla voce portante di Bacchiddu, suggestionato dalla ballad nera e mitologica dei Bad Seeds (Ghost Song, Get Me Down, Animal), influenzato dall’ombra degli Screaming Trees (Thorn, A Star), addolcito dagli smussamenti in stile Calexico (Mint And Holy Water, For Love). Fanno la loro dignitosa comparsata le ricostruzioni di sassofono e i rit-


mi sbarazzini quando tutto sembra perdersi nella calma piatta e strasognante di Silver, le rifiniture di archi e il controcanto femminile in pieno stile western (la sedia a dondolo cigolante sotto il porticato) di My Enemy JR, le cattedrali di innovazione sonora in eco Radiohead di Sleep Togheter. Tutte le carte sono giocate benissimo e i toni moderati da dieci episodi d’amore e non, paradigma affatto scontato per chi si avvicina al genere. Eppure il castello di sabbia viene via con un soffio, le canzoni non suggestionano, non smuovono gli animi (né di chi le esegue né di chi le fruisce), come se l’apparato esterno fosse troppo facilmente penetrabile da allagamenti e sconfitte. (6/10) Nino Ciglio

Robbie Williams - Take The Crown (Island, Novembre 2012) Genere: Pop A luglio 2006, al termine di una sudata esibizione in quel catino chiamato stadio San Siro, Robbie Williams deteneva e custodiva lo scettro di Re indiscusso del pop di tutta Europa. Gradasso e adorato sex simbol, negli anni precedenti aveva sfanculato i Take That per andarsene da solo e litigato con un Liam Gallagher che gli dava del ciccione; si era drogato e alcolizzato; aveva superato indenne la maledizione dei 27 anni pubblicando singoli capaci di fare la storia del pop inglese moderno (Angels); aveva sfornato pupazzate stilosissime (Millenium, che quasi ruba il posto a Daniel Craig per 007) e confezionato duetti swing (Something Stupid, cover di Mr. Frankie Sinatra - e figlia - in compagnia di Nicole Kidman fresca di oscar); aveva bisticciato furiosamente contro il bigottismo a stelle e strisce precludendosi definitivamente il mercato USA (i famosi 10 secondi tolti al videoclip di Rock DJ). Il concerto meneghino e il tour di quell’anno riuscirono abilmente a mascherare i primi passi falsi di un Williams che, staccatosi dal produttore Guy Chamber, pubblicava prima Rudebox (album dal taglio elettronico con, tra le altre, la collaborazione dei Pet Shop Boys) e poi, tre anni più tardi, l’imbarazzante Reality Killed The Video Stars, con un parterre di produttori quali Trevor Horn e Mark Ronson (oltre al rientrato Chambers). Tra i fatti recenti: una reunion con i Take That (Progress) che si commenta da sola, un fidanzamento con prole, l’ossessione per gli UFO che quasi gli costa un TSO, e un “buen” ritiro nei prima odiati e poi amati USA. E dunque Take The Crown, l’ultima wild card che lasciava presagire un’ammissione di colpa e, invece, non esaudisce né i desideri del pubblico generalista né quelli dei fan. Robbie, che tra le attitudini non ha mai avuto il rock,

decide d’affidarsi a Jacknife Lee, che in curriculum può vantare gente come U2 e R.E.M. (di cui ha cercato di ringiovanire il sound) ma anche The Drums e Two Door Cinema Club. Il risultato? The Killers che coverizzano gli U2 (All That I Want, Hunting For You, Not Like The Others). Un minestrone riscaldato e sciapo in cui, con l’aiuto (?) di due pischelli provienienti dagli Undercolours troviamo un bolso papà Williams a dispensare, tra gli uuh e gli ooh, consigli di saggezza per le giovani generazioni (Be A Boy). Into The Silence o il singolone Candy - bannato dalla BBC1 perché non in linea con il palinsesto e scritta a quattro mani con Gary Barlow - dimostrano ancora quanto il Take That ci sappia fare, ma nel resto della tracklist c’è troppa svogliatezza e stanchezza. Con un giro da X-Factor, Robbie i conti li farà ancora tornare, ma sono lontani i tempi degli stadi e delle ballad con l’accendino. Take The Crown non risparmia nulla, neppure le paternali. I sudditi stiano tranquilli, a Buckingam Palace non sono previsti smoking rosa e sneakers blu. (4/10) Mirko Carera

Roberto “Freak” Antoni & Alessandra Mostacci - Però quasi EP (CNI, Ottobre 2012) Genere: Rock demenziale Dopo il clamoroso abbandono degli Skiantos (il secondo, dopo quello dell’80) l’incontenibile Freak Antoni prosegue i progetti cui aveva già dato vita da un po’ di tempo insieme alla pianista Alessandra Mostacci: il duo di Ironikontemporaneo e il rock della Freak Antoni Band. Questo EP anticipa un album previsto in primavera e dà anche l’idea di come i pezzi dei vari repertori passino da un progetto all’altro (le serate voce e piano che includono anche brani Skiantos e altri suonati con la Band, e idem i concerti di questa). Non si tratta infatti un nuovo volume di Ironikontemporaneo ma il passaggio al “rock”, almeno su disco, anche del duo, che allo scopo recluta musicisti diversi da quelli della FAB. Però quasi, melodia che arguta e leggera segue i movimenti di un testo d’amore apparentemente classico, riesce dove il pop dei tentativi di mandare la Buconi a Sanremo realizzati con la FAB risultavano fuori contesto (troppo festivalieri e lontani dal resto), cioè riequilibrando l’elemento pop italiano con l’ironia che Freak ha già nel timbro vocale e con immagini notevoli quali “Baciami, fammi passeggiare sulla porcellana dei tuoi denti” - in Liguria poteva finirci davvero e fare un figurone. La natura composita dell’approccio recente si vede però anche nelle collaborazioni: la canzone del titolo ospita un Luca Carboni evidentemente stufo del pop, mentre 87


J-Ax, dopo averla ripresa in un suo live, aggiunge le sue rime a I gelati sono buoni (la classica Gelati), brano le cui varie versioni negli anni ne hanno dimostrato una duttilità inattesa. Dove sei è uno dei pezzi “sanremesi” di cui sopra (in origine Dove sei stato), arrangiamento diverso e bello come l’originale ma che non scaccia le perplessità, Sono un ribelle mamma le toglie gli anni ‘80 della versione originale animandola di samples nel finale mentre Lettera alla madre è la Filastrocca della mamma della FAB che musicava una lettera di Mozart (sboccata come Freak non è mai stato), qui resa con carillon e scalpitii campionati. Ottima la title track, buon souvenir per i divertenti concerti il resto, ma perché cambiare i titoli alle canzoni? (6.8/10) Giulio Pasquali

Rusko - Kapow EP (Rusko Recordings, Ottobre 2012) Genere: Mainstream dubstep Dopo la joint venture con i Cypress Hill nell’estivo eppì Cypressxrusko, Rusko torna sulla media distanza con un lavoro in free download di 4 tracce, Kapow. In un periodo d’oro per il brostep - e l’Owsla con i fari più che mai puntati addosso - era chiaro che il furbone di Songs non potesse mancare all’appello. Se condividi sulla tua bacheca il post facebook, in cambio scarichi quattro tracce tra il potente e il tamarro con meno attenzione verso i drop e più enfasi sulle power rhythm che strizzano l’occhio a Krewella (Yeah), alla trance cara a Van Bureen (numero uno di dj mag per il 2012, gran tempismo), a jingle degni di Deadmau5 e Guetta (Bring It Back), condendo con rigurgiti hardcore/techno europea come Booyakasha, il pezzo più valido del lotto, forte anche del tipico Rusko sound. Vale lo stesso discorso fatto ai tempi dell’album dei Nero: mainstream dubstep per il generalismo di MTV. (5.4/10) Mirko Carera

Scott & Charlene’s Wedding - Para Vista Social Club (Critical Heights, Ottobre 2012) Genere: low fi Basta con questa robetta suonata male e registrata peggio, forzatamente sdrucita come i jeans degli adolescenti, retrograda, con la carica eversiva di un mozzicone gettato per terra. Tanto i Velvet Underground erano i Velvet Underground, e comunque non ci sono più. Punto. Non ci sono più gli Stooges, né i Television. Non c’è più l’epoca che ne legittimava la poetica. Tutto il resto, o quasi, è revival, sovente fastidioso. 88

Craig Dermody, l’australiano trapiantato a New York sotto il moniker di Scott and Charlene’s Wedding, se ne esce appunto con un disco derivativo e fuori misura, sporco come un divano abbandonato accanto a un cassonetto dell’immondizia, molesto come un ubriaco che ti viene addosso sul marciapiede alle quattro di notte, ma scarico di poesia, tensione, tormento e ispirazione. Incentrato su chitarre slabbrate e voce a cazzo di cane, tra melodie stonate e chiacchiericcio proto punk, Paravista Social Club è un disco noioso e pretestuoso, il quale, più che rievocare i numi tutelari di cui sopra, ne azzarda una floscia ripresa stilistica. Unica nota positiva è il packaging, che al di là del risultato sonoro denota con tutta probabilità la buona fede del progetto. Il disco, infatti, fu originariamente stampato in sole 200 copie oggi sold out, ciascuna con una copertina diversa dipinta a mano dall’autore, e in questa reissue la londinese Critical Heights ne sceglie 38 che l’appassionato o (sventurato) ascoltatore potrà intercambiare a suo piacimento. (4.5/10) Antonio Laudazi

Sigha - Living With Ghosts (Hotflush Recordings, Novembre 2012) Genere: Techno Quel che ha spinto Scuba ad accaparrarsi il giovane Sigha e tirarselo in quel di Berlino non è dato saperlo, ma di certo il boss Hotflush negli ultimi tempi ha dimostrato lungimiranza, giocando, se non in anticipo, almeno alla pari con i desideri del club teutonico. Lui, con Triangulation prima e col DJ-Kicks poi, è stato il primo a smarcarsi dal pantano dubstep e ora il pupillo spinge a tavoletta sulla autobahn. La sua è techno sudata e cerebrale, paranoica e senza fronzoli, fatta di strati programmati, pause and reprise, dove le ossessioni per la pista hanno un posto più importante di stimoli intellettivi che comunque non vengono trascurati. Mirror e Ascention ricordano l’ultimo Andy Stott al netto di rassicurazioni soul, ed è qui che risiedono le angosce e i fantasmi con cui Sigha sembra convivere. Il disco, del resto, gioca su alienazioni mentali durissime e intermittenti come la luce di un neon rotto: Puritan suona come un avvertimento prima d’intraprendere il viaggio, è un rito sciamanico sotto cassa dritta che trasmette rigore al ballo e all’ascolto. Lo stesso basso killer che ritroviamo in Scenecouple tra ripetizione in levare e sapienti manipolazioni noise. A colpire, e in maniera lisergica, sono ancora le iniezioni di ambient asettica, vicine a quelle usate da Redshape nell’ultimo Square: i cali di tensione sono indotti e studiati (She Kills In Ecstasy), il cattedralismo dronico e


incensante (Aokigahara richiama persino Tim Hecker). Un peccato che questa vena venga sacrificata sull’altare dell’ortodossia techno. Living With Ghosts, infatti, resuscita la durezza e le simmetrie care alla minimal (Hatwin, M_nus o Bar 25 che sia) e disegna uno affresco dai contorni netti e paranoidi (leggi Shed, Ben Klock e Marcel Dettmann, quest’ultimo non a caso feticcio dichiarato dello stesso Scuba). E’ un album funzionale al club techno di nicchia. 8 euro all’ingresso e buio pesto in sala. Prendere o lasciare. (7/10) Mirko Carera

Sikitikis - Le belle cose (Autoprodotto, Novembre 2012) Genere: electro rock I Sikitikis tornano dopo due anni di assenza con un disco, Le belle cose, che riprende il discorso là dove il precedente Dischi fuori moda lo aveva lasciato. Una ricerca in continua evoluzione, che prosegue spedita intorno a quei territori rock/psych che caratterizzano il gruppo fin dall’esordio (Fuga dal deserto del Tiki) e che si ritrova, declinata in più soluzioni - elettronica in primis -, anche in questo terzo album. Come a dire: la sostanza, l’essenza vera della musica dei Sikitikis è soprattutto nel riuscire a far convivere - rigorosamente senza chitarre - gli aspetti più contorti e straripanti del rock con un mix di generi che varia dal jazz al funk, dal punk al prog, senza mai tener conto delle categorie precostuite. Il cocktail lo ritroviamo anche in Le belle cose, a cominciare dalla title-track, introduzione afrobeat trascinata dall’incedere funky dei synth, mentre La mia piccola rivoluzione continua su toni electro 80s uniti all’orecchiabilità del ritornello. La divertente marcetta di Soli, a cui partecipa la cantante reggae Sista Namely, è un surfpop in acido subito rovesciato dalle pulsazioni ambient di un Aria in cui riecheggia la lezione dei Radiohead di Kid A. Si procede poi con La casa sull’albero e Hey tu!, altri episodi in bilico tra spensieratezza anni ‘60 e tastiere, con la chiusa affidata all’anima latina di Amori stupidi, perfetto retro-pop italiano unito alla vocalità sempre incalzante di Alessandro “Diablo” Spedicati. Le belle cose è un album che vive di citazioni - dichiarate, esplicite, riconoscibili - e che passa con grande disinvoltura dal cantautorato blues di Bennato e Rino Gaetano, ai classici di Celentano, alla fisicità del punk unita all’eclettismo del jazz. Il tutto legato, rimasticato e buttato fuori da quella massiccia dose di ironia e sberleffo che da sempre contraddistingue la band. (7.1/10) Giulia Antelli

Snow Palms - Intervals (Village Green, Novembre 2012) Genere: modern classical Un carillon impazzito di marimbas, xilofoni, vibrafoni e glockenspiel che tratteggia mini-suite tra minimali orchestrazioni da camera, folk stranito e cantilene afone su cui si stratificano elettronica scarna, nebulose di suoni e corde pizzicate in punta di dita. Intervals è tutto questo, niente più, niente meno. Piccoli sketch di romanticismo algido e sognante (post)elettronica appannaggio della sigla dietro cui si nasconde David Sheppard - titolare del progetto - e il collaboratore, non si sa quanto occasionale a questo punto, Chris Leary aka Ochre. Musica minima che gioca di stratificazione e accumulo senza mai risultare eccessiva, che prende da mondi diversi - Yann Tiersen e Reich, Moondog e Riley, poliritmie esotiche e le musiche filmiche di Philipp Glass - per amalgamare il tutto in un concentrato umorale e ondivago, a tratti melanconico, spesso giocoso, che si sviluppa quasi sempre con tonalità soffuse e tinte tenui. Un album che passerà inosservato per la sua inclassificabile stravaganza, ma che non mancherà di lasciare un segno nei coraggiosi che ci si cimenteranno. In the night time, ovviamente. (6.8/10) Stefano Pifferi

Soundgarden - King Animal (Universal, Novembre 2012) Genere: grunge Quando Chris Cornell e compagni si sono sciolti negli anni ‘90, in fondo non avevano lasciato nulla d’intentato. La loro parabola creativa era giunta al termine per naturale esaurimento. A un ascolto attento, e non influenzato dall’entusiasmo per quello che era stato Superunknown, in Down On The Upside risultava evidente una certa usura del loro armamentario musicale, che poi era quello di tutto il genere che avevano contribuito a ispirare. Piuttosto che fare altri dischi di routine scelsero di sciogliersi, una decisione saggia e di una certa onestà intellettuale. Come si fa a riaprire, quindici anni dopo, un discorso chiuso in questo modo? Se escludiamo ragioni essenzialmente economiche che ci possono stare, l’operazione comeback più ancora che di revival sa di commemorazione, se non altro perché il ritorno dei Soundgarden si è sovrapposto al ventennale di Nevermind dei Nirvana e ai vent’anni di carriera dei Pearl Jam. Un modo per dire che c’erano anche loro, oppure la dimostrazione che il grunge è ormai un genere storicizzato; al di là di una breve stagione e dei suoi 89


interpreti originari non ha saputo produrre una degna continuazione. Tranne in casi di nadir estremo, e questo non lo è, spesso i “ritorni” discografici non aggiungono e non tolgono nulla alla carriera dei titolari. Di fatto, sono dischi superflui. King Animal è un album troppo lungo, alcuni brani si potevano tranquillamente sforbiciare. Per il resto, i Soundgarden ci provano. Bisogna riconoscerlo. Provano a fare cosa? Ad aggiornarsi, o meglio a riproporsi in modo credibile. Il loro sound era già di per sé il frutto di un’operazione di aggiornamento dell’hard rock degli anni ‘70 rispetto a ciò che era venuto dopo: il punk, la new wave e l’indie rock americano degli anni ‘80. In Screaming Life i riff cavernosi dei Black Sabbath e il dinamismo ritmico/chitarristico dei Led Zeppelin andavano a braccetto con un art rock abrasivo, derivato dal dark punk britannico e dalle tossiche rivisitazioni post-punk di scuola SST (Black Flag) e Touch And Go (Die Kreuzen, Killdozer, Butthole Surfers). Ultramega OK metteva curiosamente in evidenza le radici blues dello stesso sound, Louder Than Love era una sorta di disco a doppio taglio, che giocava in modo ambiguo con gli stereotipi del metal, quanto Badmotorfinger plasmava in una direzione più psichedelica e progressiva il loro stile ormai maturo: un power rock alternativo di cui Superunknown incarna invece il classico, apogeo di un tardo suono di Seattle prossimo alla fine. Da dove si riparte quindici anni dopo? Le premesse non sono granché. La copertina è un funesto presagio, anche se le scelte di grafica e videoclip del gruppo sono state spesso brutte e kitsch: è un elemento di continuità con il passato di cui avremmo fatto a meno, ma per altri versi è un tratto familiare da cui riconosciamo in filigrana la vecchia e cara band. Il singolo pomposetto e autoindulgente, Been Away Too Long, concessione al riff troppo facile e al boogie metal più dozzinale, è una parentesi fortunatamente chiusa già al secondo pezzo. Non-state Actor e By Crooked Steps sono due brani molto più dinamici e interessanti, specialmente sotto il profilo strumentale, intendendo anche la voce tenorile di Cornell come uno strumento insieme alla chitarra di Thayil e alla fondamentale sezione ritmica di Cameron e Shepherd. Sono anche i pezzi in cui i Soundgarden sembrano rendere meglio come band e reinventarsi partendo dal loro versante più progressivo e psichedelico. Su questa falsariga, A Thousand Days Before è la canzone più piacevole e sorprendente: il suo raga-rock suona come un omaggio alle indimenticate origine indiane di Thayil ma anche al lato più curioso e lisergico dei Soundgarden. Il dinosauro si è scrollato un po’ d’anni dal groppone? Sarebbe bello. 90

In realtà, nel blocco centrale del disco le cose vanno meno bene, anche se si naviga a vista senza veri scivoloni. Il quartetto specula sul proprio stile classico e maturo in Blood on the Valley Floor, Bones of Birds e Taree. È un episodio estemporaneo ma gradevole Attrition, un ibrido indie rock che ricorda i Dinosaur Jr. La parte conclusiva è quella che, francamente, ci convince di meno. Nel grunge semiacustico di Black Saturday e nel folk pop di Halfway There sembra di ascoltare un disco solista di Cornell con gli altri ridotti a backing band. Worse Dreams si salva in corner con il rovente finale psichedelico. Gli ultimi due pezzi, no: parliamo dei Black Sabbath virati soul (in verità, un mezzo pasticcio) di Eyelids Mouth e di Rowing, una specie di mantra-blues tirato troppo per le lunghe. Nel complesso, basta per sfiorare una sufficienza risicata, peccato per i buoni spunti che la prima parte lasciava intravedere. (5.9/10) Tommaso Iannini

Starred - Prison To Prison EP (Pendu Sound, Novembre 2012) Genere: narcotic-dreamfolk Ennesima coppia uomo-donna a rischio hype? Ennesimo progetto con base a Brooklyn? Sì, ma non solo. Il progetto Starred ruota attorno alla figura di Liza Thorn e alle intuizioni di Matthew Koshak. Liza, californiana, cresciuta a San Francisco ed emblema di eccessi autodistruttivi, per un periodo è stata la Courtney Love dell’ex-Girls Christopher Owens (quando i due si facevano chiamare Curls). L’EP Prison To Prison arriva dopo il singolo (escluso dalla tracklist) No Good, accompagnato da un video che rende bene l’idea delle suggestioni che il duo è in grado di creare. Sei tracce per circa venticinque minuti di musica, Prison To Prison EP si apre con l’ottimo biglietto da visita Call From Paris: chitarra acustica ed echi dream... un incrocio tra desolazione country-folkish e statiche atmosfere narcoticho/funeree. Pensate alla EMA di California che gioca con i Mazzy Star. La successiva e spiazzante Sure Bet muove le carte in tavola portando drum beats incalzanti e riff elettrici che forse stonano all’interno di un set che torna sulle lande desertico-oniriche già con la successiva La Drugs: tappeto di organi, lullaby-piano e una chitarra che a metà del brano sfocia in un lancinante e spettrale mini assolo. Aperture vicine al fuzz-pop (hanno aperto per le Dum Dum Girls di recente) in Commitee, e lento e lugubre crescendo dream-folk - con intro Badalamentiana - in direzione spazio in Cemetery. Chiude Light, ipnotica meditazione strimpellata.


Evocativa e senza tempo, la musica contenuta in Prison To Prison EP non lascia indifferenti: uno di quegli esordi in grado di attirare l’attenzione all’istante. (7/10)

però è spesso dietro l’angolo ed è un peccato, soprattutto considerate le qualità dei singoli e la produzione di Ruckspin, che speriamo essere più presente in futuro. (6.5/10)

Riccardo Zagaglia

Riccardo Zagaglia

Submotion Orchestra - Fragments (Exceptional, Dicembre 2012) Genere: downstep / nu jazz

Taylor Deupree - Faint (12k, Novembre 2012) Genere: ambient / field recs

Finest Hour - l’album di debutto della Submotion Orchestra - lo scorso anno non è stato incluso nelle yearend charts più quotate, ma più o meno tutti quelli che lo hanno ascoltato ne hanno tessuto le lodi. Nata nel 2009 a Leeds su commissione della Arts Council, la band è formata dal batterista jazz Tommy Evans, dal percussionista dal tocco latino Danny Templeman, dal bassista Chris Hargreaves, dal tastierista Taz Modi, dai fiati di Simon Beddoe e dalla voce di Ruby Wood, laureata al Leeds College of Music’s con formazione jazz. Dirige l’orchestra mister Dom Howard aka Ruckspin, ovvero metà del progetto chillstep Author. Detta così è facile pensare alla cocktail music da Buddah Bar. In un certo senso è così: la Submotion Orchestra parte dalle diramazioni cool-chic anni ‘90 e le modernizza con sonorità contemporanee. Nel secondo album Fragments abbiamo infatti un concentrato di frammenti vellutati figli dell’acid e del nu jazz, battute lente tra downtempo (Zero 7) e certe cose trip hop (Morcheeba) e la profondita dei bassi dubstep. E’ chillstep che non disdegna il drop: provate ad togliere mentalmente tutta la componente beat e wub-centrica da brani come Fallen, rimane un pop da locale jazz, con tutti i pro e i contro del caso. It’s Not Me, It’s You è un misto tra trance-voices, SBTRKT e impianto jazzy di chitarra e tromba, Thousand Yard Stare è puro dubstep, privo dell’aurea dui Ruby Wood ma arricchito da fiati sbilenchi, impro pianisitici ed archi, mentre ad ampliare ulteriormente la contaminazione temporale ci pensa lo spokern-rap di Rider Shafique che sul finale di Times Strange riporta la mente ad alcune cose di Roni Size & Reprazent senza ritmiche d&b. Nella conclusiva Coming Up For Air troviamo infine anche sonorità orchestrali con crescendo quasi post-rock (vagamente The Cinematic Orchestra se vogliamo). Il brano simbolo del set è probabilmente Blind Spot con Roby protagonista (ma sempre in bilico tra sublime diva soul e vocalist da X Factor), basso che cresce sottopelle, giri che aumentano ed esplosione droppata con l’arrivo della batteria. Quando tutto torna ed è calibrato nel modo giusto la Submotion Orchestra riesce a creare un gioco di atmosfere piuttosto intrigante, il rischio stucchevolezza

Deupree ha dimostrato con Northern di saper trattare le sostanze musicali sottilissime e delicate. E di avere la competenza per far abitare il “minimalismo digitale” con la musica concreta. Sono passati sei anni e la pasta della musica dell’elettroacustico di New York non ricerca molte differenze: i suoni sono trovati, il retroscena riecheggia Brian Eno e il ciclo di passaggio da musica da ambienti / musica da pensiero / generativa. Faint è “ontologicamente”, per usare un termine speso dallo stesso autore, fatto di quella consistenza dell’incapacità di capire se si è nella veglia o nel sonno. Quello stato ha una peculiare sostanza e l’ultimo album di Taylor ne va in cerca. Sarebbe molto comodo fare scorrere le metafore, cosiccome Taylor fa scorrere i field recording sul tappeto pseudo-generativo dell’ambiente musicale. E dato che il musicista non ne risparmia nella descrizione testuale del disco, né usando altri supporti: la versione Deluxe di Faint è un box che comprende anche un bonus CD contenente la versione estesa (38 minuti) di Thaw - uno dei brani originariamente sviluppantesi in 11 minuti e mezzo di classica ambientale - ma soprattutto un set di riproduzioni di 12 foto che Deupree in persona ha scattato con una macchina fotografica di plastica. Anziché cedere alle metafore e agli aggettivismi, citiamo una similitudine: chi ha mai fatto un esercizio di campionamento, magari di quelli scientifici, da archeologo, strappi da parete o cogliere da terra un pezzo di arbusto o una ceramica da catalogare e categorizzare, sa benissimo che la sostanza che ci si trova in mano appare, un istante dopo averla “rubata”, fragilissima. Come se si rompesse al solo sguardo. Così l’ambientazione elettronica che Deupree allestisce per i suoi suoni: è come se cercassero di contenerne l’indole a scomparire. Come in una campana di vetro. (7/10) Gaspare Caliri

The 1975 - Sex EP (Vagrant, Novembre 2012) Genere: post r&b o pop-rock L’attuale scena mancuniana ha bisogno di almeno due o tre nomi in grado di portare nuovamente Manchester 91


tra le grandi capitali della musica. Secondo alcuni uno di questi potrebbe essere quello dei The 1975, quartetto guidato da Matt Healy che sembra destinato a generare un discreto buzz nei prossimi mesi. Il progetto di realizzare tre EP prima del debutto lungo atteso per il 2013, ha già dato alla luce gli extended play Facedown (uscito questo agosto) e il recente Sex. Due EP sicuramente non ancora abbastanza esplicativi e non ancora in grado di definire la loro direzione musicale: in poche parole, in tutta onestà, non ci ho capito nulla. Sex EP propone ad inizio tracklist Intro/Set 3, un liquido e sospeso battito elettronico sulle quali si armonizzano diverse voci e loops a creare qualcosa di non troppo lontano dal concetto di post-r&b. Undo, la seconda traccia, sembra confermare una proposta sonora che propende verso un pop piuttosto slow, filtrato da un comparto di beats che ruota attorno all’universo nu r&b. Il risultato, nel complesso, convince. Proprio quando sembra di essere di fronte ad una versione radiofonica di How To Dress Well, arriva l’uptempo power-pop Sex e pensi di aver inserito per sbaglio un cd dei Bloc Party (nell’attacco), un cd dei Jimmy Eat World (nella strofa) o di qualche pagliaccio “emo”-pop (nel ritornello): Sex è praticamente l’opposto musicale di Undo, sotto tutti i punti di vista (approccio, influenze, strumenti e vocalità). La conclusiva You invece va a parare su coordinate pop rock in zona Snow Patrol/Coldplay. Attualmente in studio con Mike Crossey (Arctic Monkeys, Foals, Razorlight), a questo punto per i giovanissimi The 1975 le strade percorribili sono due: tentare di seguire la scia della scena alt-r&b o buttarsi completamente sul pop-rock da classifica. Scopriremo presto quale sceglieranno, ora come ora siamo al cospetto di una grande incognita. (6/10) Riccardo Zagaglia

The Ex/Getatchew Mekuria - Y’Anbessaw Tezeta (Terp, Novembre 2012) Genere: world Non ti guadagni il titolo di “negus del sax” a caso. Te lo guadagni perché hai più di 75 anni e un sacro fuoco che arde dentro. Che ti porta a scrivere musica nonostante l’età, nonostante un passato burrascoso, nonostante il (metaforico) bastone che porti per sostenerti. E per fare la tua musica, che è un messaggio universale senza tempo né spazio, riesci perfino ad unirti ad un gruppo di punk anarchici olandesi, per un clash of the titans, per non dire di culture, storie, mondi, che ha dell’incredibile. Così come dell’incredibile ha la musica che fuoriesce da questa ennesima perla di un mondo trasversale, globale 92

nel senso più puro e genuino del termine, figlio di quel melting pot culturale che tanto apprezziamo e che invece spesso se non sempre viene sacrificato sull’altare del mercimonio. Jazz etiope, malinconico e corale, furioso a tratti e delicato sempre più spesso, etnico senza essere popular e avanguardistico senza perdere in immediatezza, world nel senso più sano, come se il neologismo glocal prendesse finalmente un senso in forma musicale. È un mondo in apparenza a noi alieno, distante nello spaziotempo ma vicino antropologicamente. Un mondo in cui convivono tracce di “blues etiope”, tezeta e jazz spirituale della prima ora in forme rielaborate e personali, ma che siamo in grado di apprezzare e decodificare, poiché ci dimostra come la musica sia un linguaggio universale che solo le sovrastrutture ci hanno insegnato a suddividere e recintare. Noi e loro, occidente e oriente, di là e di qua diventano ad un tratto, mentre si ascolta e si sfoglia il corposissimo booklet con foto e interviste, mere speculazioni prive di senso, specie quando in un folgorante b/n di Matìas Corral ti ritrovi sul palco quattro anarcopunk olandesi in posa a gambe aperte e chitarre altezza ginocchio e il negus lì con loro, fasciato nei vestiti della sua tradizione e inforcato il sax come fosse una chitarra, nella più totale normalità. Gente che non comunica a parole (Getatchew speaks Amharic and a tiny bit of English and we speak english and dutch and a tiny bit Amharic. This made work in the rehearsal space a interesting challenge, Andy dixit) ma col linguaggio atavico della musica. Ed è lì che il miracolo avviene di nuovo, come sempre. Che assuma le forme della wedding song, del tradizionale folk, del canto guerresco, della marcia funebre arricchita di tantissimi fiati, dell’incontro tra bianchi e neri poco cambia. La musica è un messaggio universale, specie se proviene dalla sapiente saggezza di un vecchio figlio della grande madre Africa da dove tutto parte. (7.8/10) Stefano Pifferi

The Herbaliser - There Were Seven (Department H, Ottobre 2012) Genere: hip hop / jazz funk Torna dopo quattro anni l’hip hop suonato dei londinesi Herbaliser, Jake Wherry e Ollie Teeba. Storicamente accasati Ninja Tune, dopo il passaggio su !K7 di Same As It Never Was, pubblicano questo There Were Seven in odore di celebrazioni sulla personale Department H, settimo album in studio in diciassette anni di attività e settima release, la prima maggiore, della label (attiva dal 2000 ma con uscite centellinate).


La miscela è la solita: calchi di colonne sonore black/ Blaxploitation (e tutto il disco è intriso di omaggi e ammicchi cinematografici, vedere anche solo la penultima traccia Danny Glover), cremosità downtempo, densi fiati e robuste sezioni ritmiche jazzfunk. Titoli di testa e di coda epici che piacerebbero tanto a Tarantino e RZA, l’ottimo esperimento reggae/dub di Welcome to Extravagance, le atmosfere da trip hop felino di The Lost Boy, il basso pulsante e gli scratch di Crimes & Misdemeanours, l’afrofunk/noir di Deep in the Woods, il tutto elegantemente e orgogliosamente - le note stampa parlano di un time-out from the tinny, uninspiring, auto-tune-infected world of today - fuori dal tempo, diciamo anche datato, ma in senso buono. Ottimi tutti i feat (Hannah Clive, George the Poet, Teenburger, il duo canadese Twin Peaks), per un disco di genere classico, condotto con equilibrio e mestiere, ma sorprendentemente fresco e succoso. (7/10)

in un assolo psy-blues di derivazione sixties. Le aperture al pop sono maggiormente evidenti nella patinatissima Sweater Weather (nella strofa il rischio è quello di avvicinarsi pericolosamente The Script), graziata da suggestioni acustiche affogate in un mare di “ouh-ouh-ooohh”. Chiude l’orecchiabile Wires: voce filtrata, ritmica hip hop da movimento cranico e chorus appicicoso (“If he said help me kill the president, I’d say he needs medicine”). I’m Sorry... è un biglietto da visita dal contenuto anche interessante - probabile che finiscano in qualche lista “new acts 2013” - ma tipografato su del materiale da centro commerciale. (5.8/10) Riccardo Zagaglia

The Rust And The Fury - May The Sun Hit Your Eyes (La Fame Dischi, Settembre 2012) Genere: garage/roots rock

Eccoli i The Rust And The Fury, formazione umbra con alle spalle quasi dieci anni di attività ma con un esordio, appunto May The Sun Hit Your Eyes, uscito solo a settemThe Neighbourhood - I’m Sorry... EP bre scorso per La Fame Dischi/Cura Domestica. Un per(Columbia Records, Novembre 2012) corso inconsueto quello dei cinque ragazzi di Perugia, Genere: pop rock / hip&b Continuiamo il focus sulla scena indie->mainstream caratterizzato da diversi cambi di formazione e dalla della costa ovest degli USA. Dopo Imagine Dragons, volontà di staccarsi dal repertorio originario, virando Youngblood Hawk e The New Electric Sound è il mo- decisamente verso i territori più schietti del rock. Siamo infatti dalle parti di un disco che si rifà tanto al mento di parlare dei The Neighbourhood. Guidati dal pseudo-attore Jesse James Rutherford, i blues elettrico di Neil Young (e al suo nutrito esercito cinque giovani californiani hanno saputo in breve tem- di eredi/epigoni) quanto al revivalismo garage-wave po catalizzare l’attenzione di un certo tipo di pubblico di inizio secolo. Gli otto brani della tracklist si reggono ed i favori delle emittenti radio sia al di qua che al di là su una volontà cantautorale consapevolmente tenuta sottopelle e immersa nell’adrenalinica tensione delle dell’oceano. Rutherford non nasconde la propria passione per l’hip chitarre: quello che succede nell’iniziale Roundabouts, hop (prima dei The Neigbourhood faceva parte di un buona melodia ben amalgamata all’incedere noir del gruppo rap) all’interno dell’EP di debutto I’m Sorry... nel pezzo, o nella successiva Francis With God, con il suo requale cercano di presentarsi al mondo attraverso cinque frain catchy (Arcade Fire?) intrecciato alle voci di Daniele tracce piuttosto esplicative delle peculiarità e delle vel- Rotella e Francesca Lisetto. Voce femminile protagonista anche in Laughing For Nothing, con il suo synth-wave in leità della band. La linea dei The Neigbourhood insegue quelle band in aria psych in cui il controcanto fra le due chitarre tesse il grado contemporaneamente di proporsi con sonorità crescendo finale del pezzo. C’è anche spazio per accentanto personali quanto astute a livello di music business. ti maggiormente southern come in Keep On e She Was Un po’ come degli Alt-J deturpati della credibilità artisti- Too Late, con un intimismo (espressamente debitore al ca, la band ci consegna cinque tracce sospese tra “indie” sopracitato Young) che rimanda al classic rock dei Band Of Horses. pop-rock, calore r&b-soul e cadenze hip hop. Female Robbery, accompagnata da un video Hitchco- May The Sun Hit Your Eyes è un album che vive di stratifickiano, evidenzia la produzione di Emile Haynie, tanto cazioni sonore, variazioni dark e riverberi accuratamenche risulta facile ritrovare suoni (le bells per esempio) te elettrificati che si rivelano ascolto dopo ascolto. Un e scelte stilistiche già cucite addosso a Lana Del Rey. esordio nel complesso piuttosto maturo che, pur non Batteria a scandire il ritmo del chill-rock vagamente late presentando niente che non sia stato già visto e sentito, ‘90s di Leaving Tonight e delle battute downtempo della risulta comunque godibile. (6.7/10) strofa di una Baby Come Home che finisce per riversarsi Giulia Antelli Gabriele Marino

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Three Second Kiss - Tastyville (Africantape, Novembre 2012) Genere: mathrock

Throbbing Gristle/X-TG - Desertshore - The Final Report (INDUSTRIAL RECORDS Ltd., Novembre 2012) Si potrebbe riaprire l’infinito casus belli della “morte del Genere: Industrial (math)rock” parlando dell’album numero cinque (e mezzo) del trio italiano. Riproposizione di uno standard ormai storicizzato o necessità di sorprendenti svolte a gomito? Nessuna delle due ed entrambe, perché nel caso dei bolognesi Three Second Kiss la classe non è mai stata acqua e i tempi geologici che Sergio Carlini, Massimo Mosca e Sasha Tilotta mettono tra una uscita e l’altra ne sono già passati quattro di anni da Long Distance, per dire - stanno a significare riflessione e approfondimento, lavoro incessante sulla propria materia musicale e continuità. E così se per incensare l’album precedente ne parlavamo come dei nuovi Shellac, non per paragonare i tre al trio americano, quanto per dimostrarne coerenza e spessore, ora ci ritroviamo nel mezzo del guado. I TSK sono quelli che conoscevamo: nervosi, mathematici, accesi dal sacro fuoco dell’irrequietezza e della spigolosità, ma questa volta sono anche altro. Più ragionati, a volte melodici, si direbbe, di sicuro meno irruenti e affilati, specie nelle timbriche delle chitarre di Carlini (che c’entri l’esordio in solo con Jowjo?). Sempre alla ricerca di una quadratura ormai nota tra pancia e cervello, tensione e rilascio, ma che stavolta tende verso lande più evocative e meno dirette. Arzigogoli e melodie che si rifrangono e ricompongono appoggiati su una sezione ritmica mai come ora all’unisono, con connaturate tracce di un qualcosa di sognante e romantico. L’opener Caterpillar Tracks Haircut con quell’organo che più datato e fuori fase non si può, mette già sull’avviso: gli intarsi chitarristici e l’indolenza vocale di The Sky Is Mine a far da presagio al crescendo tempestoso della parte centrale o le tessiture a incastro dei migliori June Of 44 rese sotto la lente dell’indolenza, prima, e della cavalcata tempestosa, poi (A Catastrophe Outside), la sad-mathy-song In Winter, The Sun Shines Over The Bridge, sono alcuni esempi di un lavoro prezioso e elaboratissimo. Che sceglie la via della ricerca e mai si adagia sul già fatto ma allunga lo sguardo verso nuove modalità. La “convocazione” per l’ATP festival di fine mese non è che l’ennesima dimostrazione di una stima guadagnata senza sbandierare nulla, a parte la propria classe. (7.3/10) Stefano Pifferi

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È doloroso tornare sulla vicenda Throbbing Gristle, innanzitutto perché è la storia della band ad essere caratterizzata da profonde lacerazioni sia umane che musicali. Nei TG, vita, morte e musica sono sempre stati un tutt’uno, così come le scelte dei componenti della band, sempre urgenti, estreme, massacranti. L’intera vicenda della formazione britannica si può così riassumere in un grande taglio sulla tela. Una storia di final report, missioni di anime morte, scelte radicali dalle quali non si può tornare indietro. E nondimeno la vicenda di quattro persone umanamente e artisticamente mosse da altrettanto vitalistiche scelte di resistenza e desistenza.L’abbandono di Genesis P. Orridge durante la final leg del tour del 2010 - distrutto da tre anni di lutto per morte di Lady Jaye - che chiuse definitivamente il capitolo reunion della band, è stata una mossa in tal senso. È servita per salvaguardare il progetto dal peggio, tanto quanto quella di Chris Carter, Peter “Sleazy” Christopherson e Cosey Fanni Tutti di tenere in vita il cadavere. Dopo l’annullamento della gig di Praga e la conferma al Festival Gender Bender di Bologna, la nuova formazione si battezzava quell’anno X-TG, lo stesso nome sotto il quale esce questo doppio album inizialmente - ed erroneamente - accreditato alla sigla Throbbing Gristle. Quella sera, all’Arena del Sole, c’eravamo, e abbiamo assistito a un concerto con Carter e Fanni Tutti ai 4/4 e droni, e con un Christopherson attrezzato di theremin, voci filtrate e altri strumenti a fiato autocostruiti. Uno show musicalmente vario e d’esperienza, con rigurgiti di D.O.A., già a suo tempo “bollettino finale”, eppur privo degli strappi e delle lacerazioni psycho-horror-thrilling che le gig a quattro erano in grado di garantire con lancinante - e quasi masochistica - precisione (zenit puntualmente raggiunto durante la trasmissione dei vecchi filmati del COUM Transmission).L’affresco della data bolognese era stata una sintesi delle recenti evoluzioni dell’industrial originaria con le varie correnti art-techno, isolazioniste, elettroacustiche, noise, drone ottimamente metabolizzate, ma anche un bel film senza reali presupposti. Lo stesso lungometraggio a cui assistiamo oggi nel commiato The Final Report, inciso tra il 2009 e il 2010 negli studi di Norfolk, e nell’omaggio al Desertshore di Nico, diverso per formato (canzone), approccio (industrialtechno-pop-rock) e ospiti al canto (Antony di Antony and the Johnsons, Marc Almond, Blixa Bargeld degli Einstürzende Neubauten, l’attrice Sasha Grey e il regista Gaspar Noé) ma pressoché identico nei risultati


artistici.Come i Battles di Gloss Drop, ovvero la band al netto del solista ad apparecchiare le scenografie e i cantanti/guest star ad interpetare se stessi, gli X-Tg del cover album allestiscono un all star set industriale per il pubblico industriale di ieri e di oggi. L’idea del lavoro era nata dal solo Christopherson nel 2006 a Berlino e doveva trovare attuazione nel dicembre di quel fatidico anno con le musiche che Chris & Cosey preparono alla fine del tour. Morto Sleazy, la coppia ha concluso il lavoro chiamando gli amici di una vita a omaggiarlo. A conti fatti, il lavoro non sfugge ai limiti delle operazioni di questo tipo. La performance di Bargeld risulta la più intensa e carismatica (Abschied, Mutterlein), Marc Almond è bolso (The Falconer), Antony, al solito, bravo, ma nessuno di loro ha cantato Nico come se non ci fosse un domani. Gen lo avrebbe fatto. (6.8/10) Edoardo Bridda

Tre Allegri Ragazzi Morti - Nel giardino dei fantasmi (La Tempesta Dischi, Dicembre 2012) Genere: dub-etnico Ci era piaciuto e non poco, I primitivi del futuro, soprattutto perché sanciva la svolta reggae-dub del gruppo di Pordenone - a suo modo storica, se pensiamo alla produzione precedente - pur mantenendo integro il DNA originale della band. Diversi eppure sempre riconoscibili, i TARM, come ben sottolineava anche un Enrico Molteni intervistato in quei giorni: «È come cambiare abbigliamento a una persona. La persona è sempre la stessa, anche se con colori e taglie nuove. I Tre allegri ragazzi morti rimangono (anti)eroi nemici delle convenzioni anche quando suonano in levare». Quel disco sparigliava le carte in maniera consapevole, affiancando ritmiche giamaicane e bassi corposi a uno stile essenziale ma sufficientemente elastico da poter accogliere senza crisi di rigetto i nuovi input. Nel giardino dei fantasmi, nonostante quanto si dice in giro, non è l’ennesima inversione di marcia della formazione. L’etnico di cui si parla nei comunicati stampa o nelle anticipazioni web è meno di una rivoluzione, al massimo un aggiustare il tiro che arricchisce di nuove sfumature un suono già fatto e finito (nel disco precedente). Quel che accade, ad esempio, in una Come mi guardi tu fondamentalmente dub nelle atmosfere - seppur con una ritmica peculiare - ma attorcigliata a un riff ripetuto di mandolino. Se di etnico si deve parlare, allora, lo si deve fare chiamando in causa più un’attitudine generalizzata, che uno stravolgimento estetico palpabile: quella, si, presente e rintracciabile nella scansione dei

tempi legata al sound africano, in strutture musicali circolari e soprattutto in testi basati su un call and response di stampo quasi blues-tribale (la già citata Come mi guardi tu, Alle anime perse, Bene che sia, E poi si canta, Il nuovo ordine). Semplicità concettuale da un lato, produzione efficacissima - quella del Paolo Baldini già in regia per I primitivi del futuro - dall’altro: queste le due direttive principali lungo cui ci si muove. Per un lavoro che, oltretutto, mette in mostra più TARM “tradizionali” rispetto al disco precedente, seppur aggiornandoli al nuovo corso: l’adolescenza dissotterrata a suon di chitarre elettriche ne I cacciatori, una Bugiardo che monta un punk sui generis su basi ritmiche dispari, il rock un po’ Violent Femmes/ Zen Circus de La via di casa, il sound vagamente beatlesiano di Di che cosa parla veramente una canzone?. Innegabilmente pop, al cento per cento TARM, apparentemente meno ideologico e schierato rispetto al precedente, Nel giardino dei fantasmi è un disco solido, ben suonato e che cresce con gli ascolti, pur non rappresentando, nell’ottica della storia del gruppo, un passaggio epocale. (6.9/10) Fabrizio Zampighi

Two Fingers - Stunt Rhythms (Big Dada Recordings, Ottobre 2012) Genere: bass-hop Amon Tobin si rimette a fare le cose da solo nel secondo disco Two Fingers, abbandonando il compagno di ventura Joe Chapman aka Doubleclick, che collaborava al progetto nelle sue prime fasi, risalenti al 2006 e sfociate nell’omonimo e interessante esordio del 2009. L’act dovrebbe mostrare il Tobin che punta alle sonorità declinate nel più ampio spettro UK Bass, il “lato continuum” della proposta più seria e di ricerca che il musicista professa con il vero nome. Se fosse per la prima metà del disco (per lo meno fino a Razorback) si potrebbe anche pensare di avere per le mani un disco importante: Stripe Rhythm è slow motion fidget per i Chemical, Snap una teoria decostruzionista del vocoderismo hip-hop, Defender Rhythm viaggia in eccellenza sulle acidità di Kid 606 e Bok Bok, Fools Rhythm è puro anthem post-hop (il pezzo era già stato inserito nella compila celebrativa del ventennale della Ninja Tune), Lock86 e Sweden sono Amon in smascellamento ‘90, 101 South mesh-hop con anima e stile. Poi purtroppo Tobin cede al rimpianto e si mette a risuonare le cose di vent’anni fa - quando ancora girava con il moniker di Cujo. Un trip-hop sì curato, ma che richiama un’epoca ormai storicizzata (vedi alla voce Mantronix e J 95


Dilla). L’hip-hop strumentale va anche bene ma quando si vuole strafare e scimmiottare i Beastie Boys (Problem) od il Mochipet più massiccio e meno breakcore si cade quasi nel ridicolo. (6.2/10) Marco Braggion

Tyvek - On Triple Beams (In The Red Records, Ottobre 2012) Genere: garage punk Si è già detto in queste pagine come i Tyvek, nel giro di pochi anni, abbiano mostrato due anime distinte: una weird e abrasiva risalente agli esordi (Tyvek e Fast Metabolism), con singoli fluttuanti tra punk post punk shitgaze e garage, un’altra più noiosa come punkers precisini, tutti anthem e zero fuochi d’artificio (Nothing fits). A questo punto On triple Beam, terzo disco, ancora su In The Red, ne è la prova del nove. Non essendo cuori impavidi, i quattro se ne escono con la mossa del pot-pourri: prendono un po’ di questo un po’ di quello speziando con qualcosa di nuovo, ovvero un’ambientazione ossessiva e reiterante. Le chitarre spigolano sempre gli stessi giri e per una volta sferragliano senza esagerare con brutture shit/lo-fi, mentre le ritmiche marciano asfissianti a conferma di una tensione sempre presente e temperata. Pezzo chiave: l’ingranaggio a ciclo continuo Efficency con echi no wave. E poi guardare indietro è sinonimo di varietà. A momenti torna una scrittura originale (Little Richard e il suo riuscito gioco pieno/vuoto), nervosa, sgangherata, con un paio di immancabili standard punk (al grido di don’t say/don’t say/don’t say no/just say yeah/yeah yeah yeah) e garage ricamati a dovere. Nuovo punto di partenza, On triple Beams non fa gridare al miracolo. Si riorganizzano le idee prima di decidere cosa fare da grandi. Per fortuna, le fondamenta reggono. (6.9/10) Stefano Gaz

Underdog - Keep Calm (Altipiani, Novembre 2012) Genere: art jazz Ci hanno messo tre anni a dare un seguito all’esordio Keine Psichotherapie, segno che questo settetto basato a Roma è di quelli che preferiscono fare le cose per bene, malgrado l’estro tracotante e l’attitudine impro che sprizza dai pori del loro sound. Nel quale in effetti non manchi mai d’avvertire la competizione tra il cerebrale e l’animalesco, tra sfuriata e sfumatura. Anche in questo Keep Calm - pubblicato in joint venture da Altipiani e MArte Label - si parte da un’impostazione jazz, di 96

quello più selvatico ed aperto a qualsivoglia digressione (come insegna la loro guida spirituale Charles Mingus, alla cui biografia si sono ispirati per la ragione sociale), in particolare blues ispido da crogiolo Bad Seeds, l’impudenza crossover dei Primus e il vaudeville desolato d’un Tom Waits. Non finisce qui però la lista degli ingredienti e delle suggestioni, talvolta così stranianti che un po’ hai timore di citarli, tipo certo lirismo astruso Jefferson Airplane tra le scorie psych e i fremiti noir di Lundi Massacre o il rapimento Nico che mette in standby la nevrastenia post-bop di Revolution Is Subject To Delay. Aspettatevi quindi un po’ di tutto, in primo luogo una bravura quasi irritante sugli strumenti (di certo una spanna sopra la media del tipico indie rocker) tra le patafisiche circensi di Empty Stomach, i velluti mitteleuropei di Soul Coffee, l’incubo rumba di Macaronar. Gli strumenti, a proposito, sono: trombone, piano, chitarre, violino, basso, batteria, più le voci opposte e complementari di Diego e Barbara. Da segnalare inoltre una cover schizoide (tra understatement e isteria) di Cuore Matto, curiosa ma non imprescindibile, mentre invece è notevole la rilettura di Berlin, come un balocco atavico smontato nei suoi elementi basali senza perdere il polso di una tenera, decadente malinconia (stupendo il crescendo bandistico conclusivo). Bel sophomore quindi, al quale possiamo rimproverare solo un pizzico di spirito goliardico di troppo, frutto forse dell’attitudine alla performance, sensatissima sul palco, un po’ meno su disco. (7/10) Stefano Solventi

Unsolved Problems of Noise - L ‘ombra delle formiche (Snowdonia, Novembre 2012) Genere: jazzcore / metal Quando eravamo giovani ci siamo letteralmente ammazzati di tutto quello che veniva dal post-hardcore, e quindi tutto l’albero di band di Louisville figlio degli Squirrel Bait (Slint, Bastro, Bitch Magnet, For Carnation) e non (Rodan, June Of 44), Don Caballero (e Storm & Stress), Blind Idiot God, Dazzling Killmen e Laddio Bolocko, i Rapeman/Big Black/Shellac di Steve Albini, Fugazi, NoMeansNo, Jesus Lizard, il jazzcore (Saccharine Trust, Sabot, la scena italiana con Zu, Demodè/Squartet, gli Splatterpink/Testadeporcu di Diego D’Agata), ma anche gli Uzeda, i Primus, e su indietro fino a The Process Of Weeding Out dei Black Flag o a quello che insieme a poco altro con pari efficacia profetica ci sembrava il big bang della disintegrazione della forma rock/blues classica in senso appunto post-rock (almeno di tutto quel post-rock


non elettronicofilo), ovvero il Beefheart strumentale (per esempio quello semplicemente sorprendente delle outtake di Safe As Milk). Bene. Tutto questo per dire che abbiamo le orecchie vaccinate ed è proprio cosa rara ormai che noise, jazzcore, math, post o tantomeno metal tecnico, matematico e progressivo - abbiamo in testa gli Atheist, ma anche Dillinger Escape Plan, Commit Suicide e via dicendo tra mathcore e brutal - riescano a sorprenderci o almeno avvincerci davvero. E qui arrivano i tre genovesi David Avanzini, Matteo Orlandi e Mattia Prando, gli Unsolved Problems of Noise (dal nome di un congresso di matematica applicata ai problemi del rumore), chitarra-batteria-basso ma anche saxtenore-batteria-basso. Sono nati nel 2005 ma debuttano adesso su Snowdonia in coproduzione con TeslaDischi. Loro dicono di fare post-atomic instrumental noise e in effetti dietro l’artwork entomologico e geologico come in un mix tra Il Silenzio degli Innocenti e i Ruins di Tatsuya Yoshida (aggiungere prego alla lista) troviamo qualcosa del genere, ovvero una miscela di molto di quanto sopra elencato. Le filiazioni, i riferimenti o almeno i parallelismi sono tutti in bella mostra (Formicazione Parte 1 sembra un pezzo degli Shellac; la Parte 2, dopo una intro death/prog/freejazz-metal, coi suoi stomp secchi ricorda gli Zu di Tom Araya Is Our Elvis; riferimento questo obbligato anche per la successiva Le Pecore Elettriche Sognano gli Androidi?; e così via), chiaro, ma i ragazzi li conducono e mescolano ottimamente, con un deciso tocco psichedelico e una dose di emotività epica che deriva sicuramente da certi ascolti metal. Non solo assalti hardcore quindi, tra intro arpeggiate, controtempi, tempi dispari, riff meccanici, rullatissime a doppiare eccetera che dominano la prima metà del disco, ma anche la ambience cinematografica, quasi cameristica, di Una Formica Da Marciapiede; il fumoso jazzblues, quasi morphineano, di L’ultimo Grido in fatto di Silenzio; l’epico/tragico arpeggio di Dromofobia Parte 1, che ci ha ricordato tanto - ma proprio tanto - la Tragic del supertrio Bozzio Levin Stevens; le sognanti svisate di chitarra di Il Diavolo A4; la bellissima avvincente jam di fusion psichedelica All Jazz Hera, con sfoghi di jazzcore circense alla Bromio sul finale. Bravi: 7+. L ‘ombra delle Formiche by Unsolved Problems of Noise (7.3/10) Gabriele Marino

Vladislav Delay - Kuopio (Raster Noton DE, Novembre 2012) Genere: Ambient-tech Il discorso in solitaria di pure electronic iniziato con Vantaa continua con Kuopio via Espoo, eppì di transizione tra

la prima e la seconda prova sull’etichetta di Alva Noto. E Sasu Ripatti su Raster Noton non l’abbiamo mai sentito così avvincente, sia perché questo lavoro rappresenta un autorevole punto di continuità all’interno delle fila concrete-conceptual-techno della label, sia per la capacità del finnico di rinnovare il proprio repertorio partendo dall’assorbimento/superamento dei canoni architettonici dell’etichetta stessa. Attraverso le lenti della natia Finlandia e dal solito avamposto fuori dal mondo di Hailuoto, Sasu si sposta su un’analisi urbanistico sonica osservando Kuopio - una paradigmatica città finlandese - da un punto di vista organizzativo e di interazione con l’ambiente circostante. Abbiamo così un lavoro che, pur tenendoli ovattati, aumenta l’intensità nei ritmi e, in continuità con l’approccio organico del recente corso, presta ancor più attenzione all’addensamento/dipanamento dei layer sonici. Sulla spinta subliminare degli stepping della New Wave Of Techno e della pulsante battuta Footwork troviamo gli episodi migliori, tutti caratterizzati da serrati loop ritmici: Marsila porta Alva Noto a Ibiza, Hitto serializza gli anthem-tamburello di Plastikman, Osottava, traccia manifesto del disco, svecchia efficacemente alcuni standard del Dalay sound. Le trasfigurazioni tech-house in salsa artica di Avanne rappresentano senz’altro la parte più prevedibile. Del resto, già le rienterpretazioni dinamiche dell’esperienza del trio di Von Oswald (Kellute) godono degli scarti necessari per tenere ben alta l’attenzione come, in generale, le potenzialità e la libertà data dall’utilizzo dei microfoni a contatto conferisce all’opera un bilanciamento ottimale tra la severa visione sonica e l’impro sul 4/4 e oltre. Rispetto alle possibilità e alle problematiche dei lavori collettivi del finnico (Vainio personalità troppo forte per il Quartet?), la nuova fase di Vladislav Delay restituisce un musicista fieramente finnico, coerente e perciò libero, preparato. Un adulto che ha trovato una propria ecologia elettronica. Un habitat noto dove non accade mai quello che veramente ti aspetti che accada. (7.2/10) Edoardo Bridda

Wolf + Lamb - Versus (Wolf + Lamb Music, Ottobre 2012) Genere: Electro funk Wolf + Lamb, il duo di Brooklyn mecenate assoluto del rinascimento house anni 2006/2007 e forte dell’esperienza del Marcy Hotel (come for the music stay for the life), torna a distanza di due anni dal debut album Love Someone - accolto con favore da pubblico e critica - e ad uno da un’ ottima prova su Dj Kicks. In mezzo, live 97


di alta scuola che hanno toccato un paio di volte anche l’Italia (la Wolf+Lamb night in chiusura al roBOt festival 5 di Bologna) e last but not least pregiate produzioni al banco mixer per la label che porta lo stesso nome di cui Soul Clap, sorpresa del 2012, Deniz Kurtel di cui ha prodotto l’ultimo album e, più indietro negli anni, Nicolas Jaar (Mi mujer l’hanno prodotta loro) Riunendo in otto tracce amici e componenti della label newyorchese (Pillow talk, Soul Clap e Voices of Black) Versus Lp diventa vero un statuto del love movement promulgato dal duo, una corrente di pensiero nata al tempo della produzione del sopraccitato lavoro della Kurtel e di cui dicono “is the evolution of our family, not only affiliated by name, but constantly working with each other to grow, produce new sounds and evolve together” . L’album riprende e costruisce uno sguardo su pop, soul e jazz in continuità con le basi house del primo disco. E quel che ne esce è un suono corposo e conviviale, di un’eleganza scintillante (ma non fatta di lustrini) che si tiene ben lontana dal glamour rosa e patinato della 5th avenue. I ritmi compassati e spezzettati consentono d’inserire più divertissement arricchendo il sound di calde provocazioni, un humus che attraversa l’album partendo dalla traccia d’apertura con l’auto-tune (Kanye West dia un’ascoltatina) e una bassline sospesa tra Prince e Kruder & Dorfmeister (Real Life), ai profumi del Bronx e allo spoken so eighties di Weekend Affair. Molte idee sono figlie dell’hip hop pre 2k che ricordano il funk di George Clinton smussato d’angoli e ovvietà. Le stesse che fecero da testimone alla nascita del g-funk di Dr. Dre e di tutto il suono rap West Coast. Inoltre, le suggestioni depechemodiane di World Turning, sempre in continuità con il primo album, raccolgono quanto Gahan e soci hanno elaborando fino ad oggi ed, infine, il tocco deep dai sapori Little Luie Vega e Master At Work, tra il latino e il balearico, lo ritroviamo in In The Morning. Il club riposa mentre il Marcy Hotel, l’Hotel vero e proprio gestito dalla coppia, è protagonista, avvolto, magari, dal jazz della closing track Close To You che l’ultimo Miles Davis, avrebbe adorato. Wolf+lamb decantano ogni forma di eleganza in musica, guardando a un pubblico sempre più maturo. Lo stesso target che ritroviamo nell’ultimo Temporary Happiness di Mock & Toof, coppia con la quale Zev e Gadi avevano collaborato in Love Someone. It’s A Famly Thing. (7.2/10) Mirko Carera

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Young Wonder - Young Wonder EP (Feel Good Lost, Novembre 2012) Genere: future pop Giochiamo ad indovina chi. Primo indizio: “duo ragazzaragazzo in zona future-pop con un Ring di mezzo”. Ok, so già a chi state pensando, ma il secondo indizio vi spiazzerà: “non sono canadesi”. La risposta infatti non è Purity Ring ma Young Wonder, progetto con base a Cork in Irlanda, risultato dell’unione tra il beat maker Ian Ring e la vocalist Rachel Koeman. L’omonimo EP di debutto, uscito ormai da qualche mese per la Feel Good Lost Records (che cura anche i numerosi videoclip), ha l’obiettivo primario di presentare al mondo il microcosmo sonoro dei due irlandesi e contemporaneamente di farli emergere tra una folta selva di artisti sotto alcuni aspetti abbastanza simili. L’apertura è affidata completamente a Ian Ring che confeziona un crescendo di due minuti e quaranta (A Live Mystery) prima di lasciare spazio alla voce di Rachel (come timbro siamo su coordinate nordiche via Fever Rey/Niki & The Dove/ Karin Park), protagonista in Orange. In Flesh riescono nell’impresa di utilizzare a loro volta un sample dei masters of samples The Avalanches (il classicone Since I Left You) costruendoci attorno un contesto piuttosto interessante. Sono invece beats e bassi più corposi a sorreggere la strofa, decisamente melodica, di Tumbling Backwards e le atmosfere piuttosto spettrali di Pulse che portano a pensare che la vera mente degli Young Wonder sia Ian, abile nell’impastare pitch-shifted vocals, tratti glo-fi e intuizioni glitch-hop sotto il segno delle quattro S (Slow Magic, Sun Glitters, Stumbleine e Shlohmo). Chiudono l’EP tre remix di Orange, Flesh e Tumbling Backwards a cura rispettivamente del sopracitato Sun Glitters, Sertone e Daìthi. Recentemente in Italia per il Club To Club, i poco più che ventenni Young Wonder hanno già pubblicato in rete due nuovi brani che dovrebbero anticipare l’uscita di nuovo materiale: Lucky One (qui aleggia lo spettro di James Blake) e To You, caratterizzato da aperture pop non indifferenti. (6.7/10) Riccardo Zagaglia


sentireascoltare.com

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Gimme Some Inches #32

Mp3, cassette, vinili a 10 e 12 pollici, split, cd-r...anche questo mese non ci facciamo mancare nessuno dei formati “minori”. Con Morose, HTRK, Holy Hole, Sonic Jesus, Dispo and so on Partiamo dall’impalpabile, questo mese, per passare via via in rassegna una serie di uscite in formati come cassette e 12” considerati “minori” ma non per questo meno intriganti. Affidano alla volatilità dell’mp3 il loro esordio gli Holy Hole, duo italico di cervelli in fuga verso Berlino. Chitarre e loop montanti per una drone music virata al nero che ha i suoi buoni momenti ritualistici (Excerpt #3) ed evocativi, senza perdere di vista la materialità del suono alla maniera di un BJ Nielsen. Dote mai abbastanza apprezzata. Salendo sul versante delle cassette, incontriamo una vecchia conoscenza. Nicola Giunta, prima con summerTales, poi in solo, è ormai presenza fissa qui da noi. Ora è il turno di The Lay Llamas, ennesima incarnazione in cui il siciliano mette la crescente dimestichezza sonora al servizio di una sensibilità psichedelica che si mostra sempre più ipnotica (African Spacecraft 2092 AD) e “altra” (il tribalismo droning di Rite 100

Of Passage). Il tasso di weirdismo è assicurato anche dal concept alla base del tutto, ossia le avventure della tribù nigeriana dei Lay Llamas che nel 2092 si avventura a bordo di una astronave su un pianeta lontano e in cui raggiungono la purificazione e l’innalzamento dello stato di coscienza una volta incontrato un totem chiamato Grande Serpente. Una narrazione in 4 momenti cruciali per altrettante tracce di un trip sonico da psych sci-fi. Sempre per la Jozik, in una manciata di ottime tapes appena sfornate, ritroviamo Olli Aarni, il finlandese che aveva condiviso una split-tape proprio coi summerTales. Non differisce di molto il contenuto di Pohjoisen Kesä: due lunghe estatiche tracce di ambient rilassante tra suoni trovati, rielaborazione di nastri e frequenze radio che non può non far tornare in mente le lande innevate e silenziose della terra d’origine. Salendo ancora di gerarchia dei

mezzi di riproduzione,tocca ora ai vinili. Partiamo dal 10” d’esordio dei Sonic Jesus, quartetto laziale totalmente devoto alla psichedelia citaristica della perfida Albione. Se prendi ispirazione da Sonic Boom e dalla Jesus dei Velvet hai segnato bene i paletti entro cui ti muovi. Se poi lo fai col giusto grado di reiteratezza ipnotica (It’s Time To Hear), weirdness (Monkey On My Back) e malattia mentale (Underground) e ci metti pure la firma di Nonni Dead dei Dead Skeletons (responsabile dell’ottimo artwork) allora dimostri di avere le idee ben chiare. E, cosa non altrettanto scontata, di saperle mettere perfettamente su pentagramma. Decisamente ottimi. Saliamo poi ai 12” del vinile con l’ultima uscita targata Brigadisco con protagonisti i romani Dispo e gli (italo)inglesi Barberos. Split nato da circostanze da live condiviso, ossia quando affiatamento e lunghezza d’onda sono simili ecco che i frutti finiscono su preziosi dischetti. Da un lato, i romani con la loro ormai ben nota follia math&noise tra cambi di tempi, elaborazioni ritmiche, strappi muscolari e ritmi spezzati, sempre


conditi da autoironia e sprezzo del pericolo. Della serie, un frullatore di cui non ci si annoia.Rispondono a tono i Barberos, forti di doppia batteria e synth creano grovigli avantelectro-noise (Buffalo Biffle) spesso dilatati oltremisura (In The Mouth Of The Madness) in ipnotici deliri space-ipno-horror. Scendendo verso atmosfere scure, segnaliamo un altro split a 12” uscito per Ghostly con protagonisti HTRK e Tropic Of Cancer. Il 12” racchiude 6 tracce figlie delle Part Time Punks Radio Sessions, una specie di Peel Sessions losangeline virate dark. Luogo della mente dove le due formazioni si ritrovano a pieno agio, condividendo immaginario e sonorità: più sognanti ed elettronici i primi, completamente ripresisi dalla tragedia di un paio di anni fa che sembrava interromperne la carriera. Più inchiodati ad una forma postpunkish dreamy e quasi shoegaze i secondi, in realtà progetto ormai solitario di Camella Lobo. Tutte o quasi trace già pubblicate sui rispettivi album, ma la menzione d’onore va all’inedito More Alone dei TOC: beat sintetici e nuvole di sognanti

riverberi, come un arcobaleno neropece dentro a una caverna. Cambiando decisamente atmosfera, giusta segnalazione se la merita anche Backslash, nuovo progetto in the vein of M16 per Alessandro Bocci già Starfuckers/Sinistri. Due lunghe tracce distanti dall’incompromissoria formula di M16 e più dj friendly grazie ad una impostazione classicamente detroitiana. Musica che induce alla trance grazie alla reiterazione delle frasi sonore (Cold Fusion Technology), al ricorso a stilemi techno dub e all’introduzione di ritmiche esotiche di matrice afrotech (The End Of The Weekenders). Non esattamente la mia cup of tea, ma gli amanti avranno di che essere felici. Concludiamo arrivando al cd e inabissandoci su dimensioni più intimiste, tiriamo in ballo il volume 4 della serie Cinque Pezzi Facili edita dalla Under My Bed. Dell’Amore E Dei Suoi Fallimenti è il titolo indicativo delle atmosfere che i Morose rilasciano sul “lato A” di questo cd-r, rievocando quelle dell’ottimo La Vedova D’Un Uomo Vivo: struggenti, malinconiche, notturne, di una bellezza

conturbante e insieme disturbante. Roba che prende al cuore e lo stringe forte fino a farlo sanguinare. Non ce n’è di simili in Italia, almeno oggigiorno. E purtroppo, non si sa nemmeno troppo in giro. Dall’altro, il quartetto parmigiano Campofame dispiega un armamentario meno diretto in Deleted Scenes, ma pur sempre evocativo. Composizioni in punta di plettro ed elettronica non invasiva, senza necessità di parole per disegnare paesaggi astratti e sinestetici, e ipotizzare geografie dell’animo. Promossi, ovviamente. Stefano Pifferi

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Bob Mould Life & Times

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Mentre la sua autobiografia ci restituisce l’immagine di un personaggio complesso, l’album Silver Age lo riporta agli anni ‘90. Il nuovo (e il vecchio) Bob Mould.

Testo: Tommaso Iannini

L a rabb i a , la m e lo d ia «Da bambino la musica era la mia via di fuga, il mio mondo di fantasia. Appena ho capito il suo valore e il suo significato, ho cominciato a comporre». Parole - e musica, naturalmente - sono di Bob Mould, dalla prefazione alla sua autobiografia See A Little Light - The Trail of Rage and Melody, scritta con la collaborazione di Michael Azerrad. È sicuramente “la versione di Bob”, nel senso che restituisce il suo punto di vista anche su fatti controversi come la fine della sua storica prima band, ma aiuta a capire meglio il musicista insieme all’uomo, tra i suoi slanci e le sue contraddizioni. Preparatevi a una lettura torrenziale (non è ancora uscito in versione italiana): prima ancora che di trentacinque anni di carriera, il libro traccia un bilancio di cinquant’anni di vita. Spesso, però, proprio i ricordi personali e il racconto privato suggeriscono nuove prospettive da cui inquadrare le sue vicende artistiche. Bob racconta di avere scritto i testi di Zen Arcade nel furgone regalatogli dal padre, la persona che più lo ha influenzato in negativo e che pure ha assecondato più di altre la sua passione per la musica. La presenza di questo padre autoritario e frustrato sembra rivelare molto della parabola creativa e umana di uno dei più intensi songwriter degli ultimi trent’anni di rock. This Is Not Your Parents World è la frase che compare al termine del video di If I Can’t Change Your Mind degli Sugar. Il clip, più della canzone in sé, aveva il valore di un metaforico coming out, un paio d’anni prima che Mould

rivelasse dettagli della sua vita privata in un’intervista a Dennis Cooper. La stessa frase può riassumere lo spirito del movimento hardcore, di cui gli Hüsker Dü hanno fatto parte, ma anche il senso sempiterno della contestazione giovanile. Il trio di Minneapolis ha gettato un ponte tra lo spirito degli anni ‘60 per chiudere con il post hardcore il cerchio aperto del ‘77 e preparare il terreno per il rock alternativo degli anni ‘90. Bob Mould ha creato un nuovo modello di punk rock, proponendo una rivoluzione che iniziava da casa, di fronte allo specchio del bagno. Punto di partenza, le emozioni. E la musica: un rapido flusso dai toni lirici, epici e lisergici, dagli accenti aspri e toccanti, capace di raffiche rabbiose come di estatici deliri. Alla base, il concetto di catarsi, su cui si sofferma a un certo punto del libro. Con quel muro di rumore chitarristico era la valvola di sfogo della rabbia e dell’angoscia di chi viveva dentro di sé una lacerazione profonda e con il wall of sound non cercava solo un metodo per scrivere grande musica pop. Cercava il suo nirvana acustico. Lo ha trovato, più ancora che per se, per i tanti che in quei solchi ci hanno lasciato le vibrazioni della loro anima.

Broken Home, Broken He art Robert Mould nasce a Malone, nello stato di New York, il 16 ottobre 1960, ultimo di quattro fratelli, il più grande dei quali muore di cancro pochi giorni dopo che lui è venuto al mondo. La Broken Home della quale parlerà 103


in una canzone era probabilmente casa sua. Nel suo libro Bob non è tenero con il padre, ne ricorda gli eccessi quando beveva ma soprattutto il clima di terrore psicologico che aveva creato in famiglia. Le cose non vanno molto meglio neppure dopo che i suoi genitori rilevano un piccolo negozio. Nonostante tutto, i familiari assecondano il suo interesse per la musica fin da quando è un bambino. La nonna cura a domicilio una persona disabile e lo porta spesso con sé, lasciandogli suonare il pianoforte a casa della persona che assiste. Il padre compra per pochi centesimi da un distributore i 45 giri usati di un juke-box, facendogli scoprire Who, Beatles e Beach Boys. Il risultato è che il piccolo Bob a nove anni compone le sue prime canzoni su una tastiera giocattolo e le incide con tanto di overdubs, usando due registratori a bobine. Negli anni della prima adolescenza, che per lui significano la scoperta della sessualità e della sua “diversità”, Bob è più preso dallo sport che dalla musica. In seguito si lascia conquistare dall’hard rock di Kiss, Aerosmith e Ted Nugent. Forma anche una band e torna a scrivere canzoni, poco più che fotocopie di successi heavy metal. Niente di paragonabile alla “folgorazione” per i 45 giri degli anni ‘60 che hanno segnato la sua infanzia. Nella vita succede, tuttavia, che cercando qualcosa, si raggiunga qualcos’altro. Attirato dalle cover story dei propri idoli, sulle pagine di una rivista il nostro scopre i fermenti sotterranei del rock americano degli anni ‘70: la scena punk di New York, l’underground di Cleveland e i Suicide Commandos, un gruppo di Saint Paul, la città gemella di Minneapolis («un altro posto in cui si gelava a 200 miglia da Malone»), che avrà una forte influenza non solo sul suo modo di scrivere, ma anche sulla decisione di trasferirsi nel Minnesota. E poi la vera “epifania”, i Ramones, «la prima gang di cui volevo fare parte». Nel giorno del sedicesimo compleanno, Bob si fa accompagnare dal padre nel negozio di dischi di una città vicina e torna con il loro primo album. Appena sistema il vinile sul piatto e appoggia la puntina, si accorge di avere in mano qualcosa di diverso, di controcorrente, di unico. Primitivo, nel bianco e nero della copertina, Ramones è mixato con la chitarra su un canale, il basso sull’altro e la batteria e la voce nel mezzo, come gli adorati singoli degli anni ‘60. Le canzoni sono brevi, veloci, intense. Lo conquistano le figure semplici ma suonate con veemenza della chitarra di Johnny Ramone, il suo stile elementare, aggressivo e pieno di energia, le sequenze di accordi scandite con le pennate in giù invece che con le classiche alternate, un altro tassello del salutare shock di questa seconda iniziazione musicale. Poi sarà il turno del punk inglese e dei New York Dolls, sorta 104

di anello mancante tra i Kiss e i Ramones. Bob sceglie la Flying V della Ibanez come prima chitarra in omaggio a Sylvain Sylvain. Altrettanto decisive in prospettiva, saranno due formazioni del Midwest, i Cheap Trick e i già citati Suicide Commandos, con la loro combinazione di punk, hard rock e guitar pop anni ‘60. «Ero cresciuto ascoltando tutte quelle cose e mi riconoscevo nel loro sound». Per un ragazzo punk e gay una città di provincia come Malone è soltanto un luogo da cui fuggire al più presto. Bob va a studiare al Macalester di Saint Paul, un college progressista che ha una retta sostenibile dalla famiglia. Nel 1978, in un negozio di dischi di Minneapolis fa amicizia con il commesso, di un anno più giovane di lui. Iniziano a parlare di musica, poi il discorso cade sulla marijuana, e Grant Hart - così si chiama il ragazzo - chiude il negozio per andare a fumare insieme al suo nuovo amico. La seconda volta che tirerà giù le serrande sarà per sentirlo suonare la chitarra. Grant conosce un bassista appassionato di jazz, anche lui commesso in un negozio di dischi. Con Greg Norton prende forma il nucleo degli Hüsker Dü che rimarrà immutato fino allo scioglimento, quasi dieci anni dopo.

Ultracore Se la prima sala prove è lo scantinato del Northern Lights (sempre un negozio di dischi), la prima ispirazione è ovviamente il punk rock americano: dai Ramones all’avantgarage dei Pere Ubu fino ai Germs (fondamentali nel passaggio dal punk all’hardcore), ma emerge anche un lato più dark e sinistro, ispirato dai Joy Division e dal post-punk inglese. Gli Hüsker Dü dovevano tra l’altro aprire uno dei concerti americani del gruppo di Manchester - show che non ci sono mai stati perché Ian Curtis si uccise alla vigilia della partenza per gli Stati Uniti. Dopo aver cercato invano di essere ingaggiati dalla Twin/Tone, la più importante etichetta di Minneapolis - e, incidentalmente, dove si sono accasati gli amici/rivali Replacements - pubblicano il singolo per la loro etichetta Reflex, che non avrà vita molto lunga ma contribuirà non poco ai fasti della scena locale (sotto la sua ala protettrice usciranno i primi dischi dei Soul Asylum). La lunga Statues, lato A del 45 giri (il retro è Amusement, un altro brano lungo e dissolto), deve tutto ai Public Image Ltd.; la voce salmodia delirando come quella di John Lydon e la chitarra clona lo stile di Keith Levene. Da questo primo bozzolo post-punk il gruppo (a proposito il nome Hüsker Dü in danese significa “Ti ricordi” ed era il nome di un popolare gioco da tavolo) si trasforma nella crisalide hardcore. Nel 1981 il terzetto suona due concerti a Chicago e qui conosce Greg Ginn, che rimane conquistato dalla loro performance, nonostante Mould


fosse completamente fatto di speed e a un certo punto del concerto avessero imbrattato il palco di vernice blu. Per molti aspetti gli Hüsker Dü sono sulla stessa lunghezza d’onda dei Black Flag e dei Minutemen: li accomunano l’etica del lavoro, l’attitudine do it yourself e lo stakanovismo da palco. Un po’ per la necessità di concentrare più canzoni possibili nei brevi set a disposizione, un po’ per inclinazione naturale, il trio esaspera l’approccio hardcore accentuandolo fino al parossismo. Una canzone dell’epoca ha un titolo eloquente, quasi una dichiarazione di intenti: Ultracore. Il brano fa parte dell’album di debutto Land Speed Record, un grezzo live pubblicato agli inizi del 1982 dalla New Alliance, etichetta di proprietà dei Minutemen. Diciassette brani in ventisei minuti, per un punk frenetico al limite del rumore bianco. Per certi versi, una sorta di rockblues tiratissimo, talmente esasperato da diventare una sorta di astrazione psichedelica, favorita da un’incisione economica e decisamente lo-fi. Registrato in presa diretta, è la fedele riproposizione del loro set dal vivo; senza un attimo di tregua - non c’è praticamente soluzione di continuità da un brano all’altro - la band cerca i nervi scoperti degli spettatori spingendo al limite fisico la propria veemenza sonora, ammantata di un’eco lisergica. Inarrestabili nel loro hardcore veloce, gli Hüsker Dü iniziano a infonderlo di una struttura decisamente più melodica nel singolo In A Free Land. Non è un caso se Everything Falls Apart, prodotto dalla Reflex nel 1982, ha un respiro più ampio del predecessore, non soltanto perché è registrato in studio e ha una resa sonora migliore (per quanto si tratta pur sempre di brani autoprodotti, incisi in una sola take o comunque in maniera diretta e veloce). Parte del repertorio è un intreccio di anfetamine, nichilismo e ambizione, ma in questo sound claustrofobico si fanno spazio una piccola “eresia” come la cover di Sunshine Superman di Donovan e la title-track, che tra una melodia in stile bubblegum-punk e i rintocchi psichedelici del ritornello preannuncia sostanziali novità in arrivo. Registrato alla fine del 1982, il mini album Metal Circus (1983) contiene sette brani in diciannove minuti scarsi ma fissa una tappa fondamentale nell’evoluzione della band. La durata media di fatto raddoppia rispetto a Land Speed Record, e i brani hanno il tempo di svilupparsi in trame di più ampio respiro, senza stemperare però l’energia e i volumi da tregenda a cui suona la band. Si tratta a tutti gli effetti di un avvicinamento, certo non solo temporale, a quello che i più considerano il loro capolavoro. Deadly Skies e On A Limb mostrano tutte le rispettive assonanze con Black Flag e Flipper e Out On A Line è una tirata hardcore. Tuttavia gli altri quattro bra105


ni, due di Bob Mould e due di Grant Hart, dispiegano il ventaglio di possibilità che può offrire la loro scrittura una volta maturata. Real World di Mould inaugura un turning point nella poetica del terzetto e di una fetta non indifferente del post-punk americano. Se emo non fosse diventata una parolaccia di questi tempi, cercheremo qui le radici di un’attitudine lirica nuova; Bob esprime con chiarezza il rifiuto della retorica hardcore e la volontà di toccare temi più profondi, intimi e personali. C’è voglia di sporcarsi le mani con il mondo reale dei sentimenti. La musica segue di pari passo; al di là del canto a squarciagola, la chitarra cerca nuove armonie in un’esecuzione dal timing serrato. Ai power chords, tipici del rock duro, che costruivano l’ossatura dei brani del primo periodo, Mould affianca ora volentieri accordi aperti, di cui sfrutta le corde vuote per creare bordoni, secondo una tecnica cara al folk e alla psichedelia. «Il suono di chitarra degli Hüskers nasceva per buona parte dal fatto che cercassi di suonare due parti di chitarra in un colpo solo - tenendo una nota, usando i bordoni e sviluppando sequenze di accordi su quella singola nota - il tutto combinato con la “scatoletta gialla” il pedale MXR Distortion» e un harmonizer collegato al banco del mixer per creare un

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suono saturo con la densità di un gas più che del metallo pesante, un wall of sound quasi spectoriano ottenuto con una sola chitarra. Da parte sua, Grant Hart è molto più versatile rispetto ai batteristi hardcore che si limitavano a tenere il solito tempo in stile polka. Ascoltando bene si può notare, per esempio, il lavoro sui piatti, dai rintocchi a un lungo sciabordio, parallelo ai drones della chitarra di Mould. Con il basso di Norton a fungere da essenziale collante, e a ritagliarsi qualche momento da protagonista, gli Hüsker Dü rappresentano un power trio essenziale quanto dinamico. First Of The Last Calls annuncia con enfasi che la direzione musicale del gruppo sarà più orientata alla melodia. È comunque di Hart la firma sul numero più melodico, It’s Not Funny Anymore, memore del pop dissonante dei Mission Of Burma (quegli armonici..), e sul vero pezzo forte del mini LP: Diane, una murder ballad ispirata da un episodio di cronaca nera e cadenzata da un giro di basso che ricorda i Joy Division. Splendida la progressione del pezzo, tra il controcanto sul ritornello e un arrangiamento di chitarra da pelle d’oca: sembra di sentire un anticipo di Big Black via PIL e Throbbing Gristle (una grande passione di Mould), negli accordi acuti simili a lamine di metallo che scivo-


lano uno sull’altro, soprattutto nel ritornello e nell’assolo. Metal Circus esce per i tipi della SST, affidato alle cure del produttore di casa, Spot.

Cha r t e r e d T r i p s La collaborazione con l’etichetta californiana segna uno dei momenti più alti di tutto l’indie rock. A cavallo della metà degli anni ‘80, infatti, il terzetto del Minnesota vive una fase di notevole ispirazione, segnata da rapidi cambiamenti e da una produttività ai limiti dell’inaudito. Il centro della loro attività rimangono i concerti, dove la band si lancia in show nervosi ed esaltanti, senza soluzione di continuità tra un pezzo e l’altro, come nei loro primi live. Le scalette comprendono abitualmente brani inediti su disco: mentre sono in tour per promuovere un album, gli Hüskers suonano già le canzoni del 33 giri successivo, mesi prima di inciderlo. In questo modo, i pezzi sono già rodati per la registrazione in tempi rapidi e con poca spesa che è la norma delle produzioni SST. La prima dimostrazione di questo stato di grazia sono i ventiquattro brani di Zen Arcade (1984) registrati in una settimana e mixati in 48 ore. L’uscita del doppio album sarà poi posticipata di qualche mese per permettere la pubblicazione in contemporanea con Double Nickels On The Dime dei Minutemen. Tenendo conto che nello stesso periodo usciva Meat Puppets II, il 1984 è un anno cruciale per la SST e per tutto il rock indipendente americano. Questi tre lavori costituiscono uno spartiacque storico e stilistico decisivo, alla luce di quello che succederà tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90. La mossa di un doppio LP non è solo coraggiosa dal punto di vista estetico, ma anche economico, considerando i mezzi limitati con cui operavano le etichette indipendenti. L’antipasto di Zen Arcade è un singolo che sul lato B presenta una versione di Masochism World mentre sul lato A c’è una vera chicca: uno dei nomi di punta dell’hardcore a stelle e strisce interpreta a modo suo il brano simbolo dell’era psichedelica, Eight Miles High dei Byrds. Quello che poteva sembrare un controsenso appena pochi mesi prima è una sorta di passaggio di consegne generazionale che apre l’hardcore e il rock del dopo punk a nuove contaminazioni. Non si può parlare di revival o di neopsichedelia ma di un cambio di passo sotto il profilo musicale. Gli Hüsker Dü non imitano i Byrds; interpretano lo spirito di quel brano alla luce del loro stile. I 45 giri degli anni ‘60 sono stati il primo amore di Bob e sono anche la guida della sua rivoluzione musicale. Se Zen Arcade ha rappresentato per l’hardcore quello che London Calling è stato per il punk, il suo riferimento ideale è piuttosto un White Album meets Tommy (o Quadrophenia). L’idea del concept è nata probabilmente in

un secondo tempo, fatto sta che gli Hüsker Dü allargano il quadro abbastanza da farci entrare una storia. I contorni non sono molto chiari, l’idea è forse quella di «un ragazzo lascia la sua famiglia devastata e va a cercar fortuna nella Silicon Valley dove crea un videogioco intitolato Search», oppure semplicemente il racconto di un’iniziazione alla vita indipendente. L’hardcore esistenziale del gruppo ha acquistato una propria identità e una coesione formale che gli permette di essere riconoscibile al primo ascolto. L’iniziale Something I Learned Today parte con il ritmo incalzante di basso e batteria e prende quota con il vespaio sollevato dalla chitarra di Mould. In Broken Home, Broken Heart e Chartered Trips il tempo veloce ma più sincopato di Hart e gli interventi melodici di Norton disegnano una trama di più ampio respiro che la chitarra satura completa con bordoni distorti e fills armonici aprendo nuove dimensioni alla musicalità del gruppo, restando sempre nel campo di un punk rock veloce. Il parossismo hardcore tocca vertici di frenesia unici in Beyond The Treshold, Pride, I’ll Never Forget You con sciabolate ai limiti dell’heavy metal. The Biggest Lie, Somewhere, Pink Turns To Blue (Hart) e Newest Industry con un suono più soft anticipano il pop core sviluppato nei dischi successivi. Lo spettro si allarga in maniera quasi vertiginosa se si considerano i nastri al contrario e il maelstrom psichedelico di Hare Krishna, Dreams Reoccurring e Reoccurring Dreams, il folk acustico di Never Talking To You Again (Hart), il boogie di What’s Going On (Hart), la ballata elettrica Standing By The Sea (Hart) e interludi pianistici creati apposta come passaggi tra diverse tonalità. Stilisticamente è una delle opere più mature e complesse del punk, cui infonde un lirismo di rara intensità oltre ad allargarne l’orizzonte compositivo. L’hardcore esistenzialista degli Hüsker Dü è arrivato a una dimensione quasi trascendentale, che ha forzato nettamente i confini del genere. New Day Rising (1985) è un disco abbastanza diverso da Zen Arcade. I testi affrontano temi più adulti: «Prima prendevo le frasi dai quaderni, le radunavo insieme, le compattavo, ci sputavo sopra e le tiravo in faccia agli ascoltatori come se fossero palle di neve. Erano esplosioni di confusione, parlavano soltanto di problemi e non offrivano mai delle risposte. Le nuove canzoni avevano tutto un altro immaginario, parlavano del tempo, della natura transitoria delle emozioni e del trascorrere delle stagioni». Bob lo definisce il suo drinking album, mentre per Zen Arcade aveva carburato a caffè e metedrina. Anche dal punto di vista musicale, l’evoluzione è costante. Se la produzione di questo disco (di Spot) è stata spesso criticata, non c’è dubbio che New Day Rising contenga alcuni dei migliori brani 107


degli Hüsker Dü. Perle assolute di Mould sono Celebrated Summer e I Apologize. La prima unisce il folk rock cristallino in stile Sixties con la disperazione ultrasonica dell’hardcore (stessa cosa fa anche Folklore): Mould ha iniziato a scrivere canzoni sulla dodici corde acustica, a usare di più gli arpeggi e le variazioni di intensità sonora, e mette a frutto quello che imparato in uno dei suoi classici. A cavallo tra garage rock e neomod settantasettino in stile Jam, I Apologize è una delle sue melodie più ricche di pathos e dimostra come il nostro sappia caricare di ipertoni psichedelici anche il più semplice di giro di accordi. Questo genere di canzoni melodiche e veloci, suonate con un muro di distorsioni e sterzate dinamiche, è una conquista fondamentale alla luce del successivo alternative rock: un tipo di scrittura analoga, per fare un nome, a quella di J Mascis, che quell’anno debutta con i Dinosaur Jr. L’accoppiata rumorismo/melodia stabilisce una delle grandi linee guida dell’indie rock. Il power pop punk acido degli Hüsker Dü è l’altra faccia della medaglia che oltreoceano propone Psychocandy dei Jesus And Mary Chain. Il discorso su New Day Rising non si esaurisce qui. Dei brani scritti da Grant Hart, è d’obbligo citare The Girl Who Leaves On Heaven Hill e il 108

divertissement di Books About UFOs. La tavolozza di stili si allarga anche al jazz e all’honky tonk, dimostrando una libertà creativa quasi sorprendente.

T hese Importa nt Yea rs Nessuno parla ancora di alternative, un termine che diventerà d’uso comune soltanto negli anni ‘90, per indicare il new rock nel periodo post Nevermind, ma l’ascendente esercitato dal complesso di Minneapolis sulla miscela di stili rock del passato, riletti alla luce di quanto è successo dopo il punk, è innegabile. Saranno poi le major a sdoganare un suono nato nell’ambito delle etichette indipendenti e portarlo alle masse. Appunto, le major. Anche da questo punto di vista, gli Hüsker Dü sono stati un po’ pionieri e un po’ profeti. Flip Your Wig (1985) sarà l’ultimo disco pubblicato per la SST. Karen Berg, una discografica della Warner Brothers che in passato aveva lavorato anche per Joni Mitchell e i Television, vola a Minneapolis per convincere la band a firmare. Nonostante i problemi con l’etichetta di Greg Ginn, gli Hüsker Dü in segno di lealtà le concedono di pubblicare l’album che hanno già registrato. In compenso, sono il primo gruppo della scena indie rock a firmare per una


multinazionale (addirittura prima dei REM, che però già pubblicavano per una semi-indipendente, la Enigma). «Speravamo di avere successo senza compromettere la nostra integrità, e che questo avrebbe potuto aprire la porta per altre band. Non eravamo il primo gruppo alternativo a firmare per una major, ma tenevamo più degli altri alla libertà e all’autonomia artistica. Volevamo raggiungere un pubblico più numeroso, sapevamo che la Warner ci avrebbe garantito una struttura con cui poterlo fare, e avevamo fiducia nel fatto che non avrebbe cercato di cambiare la nostra immagine, la nostra musica o il nostro messaggio». In effetti la Warner accetta la loro decisione di prodursi da soli e non interferisce nel loro processo creativo. Non possiamo sapere come sarebbero andate le cose se Flip Your Wig fosse uscito già per la Warner. Di sicuro era l’album più accessibile pubblicato fino a quel momento con almeno due potenziali hit: Makes No Sense At All, firmata da Bob, e l’irresistibile Green Eyes di Grant Hart. «Con Metal Circus ci eravamo distanziati dai suoni e dai dogmi dell’hardcore, Zen Arcade era un concept album che si proiettava ben oltre i confini e le convenzioni del punk, con New Day Rising avevamo cominciato a privile-

giare la melodia rispetto al rumore. Ora volevamo creare un disco pop a tutti gli effetti e quello abbiamo fatto». Il noise pop non è l’unica freccia dell’arco di questo LP, in cui l’immediatezza delle canzoni va di pari passo con una produzione che porta più in primo piano la voce rispetto ai dischi precedenti. Fino a questo momento, la presenza di due menti creative in seno alla band è stata la sua carta vincente. Bob è il principale songwriter, ma Grant ha dato un contributo fondamentale sia per il suono e le armonie vocali, sia come compositore e cantante. In Candy Apple Grey (1986) le canzoni più rappresentative, scelte come singoli, sono entrambe di Hart: Don’t Want To Know If You Are Lonely e Sorry Somehow. Mould da parte sua conquista una dimensione più riflessiva, nella delicata veste cantautoriale dei brani acustici, Too Far Down e la struggente Hardly Getting Over It. Le sue ballate più magistrali. Tra i brani elettrici che portano la sua firma, si fa preferire la sfuriata finale di All This I’ve Done For You, mentre I Don’t Know For Sure è una replica in tono minore di Makes No Sense At All. Il debutto per la Warner non ottiene il successo sperato, tuttavia, il problema di fondo è un altro. Le tensioni all’interno del gruppo crescono di giorno in giorno. Too Far Down e No Promise I’ve Made di

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Hart sono due brani solisti a tutti gli effetti, a cui soltanto i titolari hanno messo mano. Per cercare di bilanciare di più gli apporti di entrambi, Warehouse: Songs And Stories (1987) diventa il secondo doppio LP della storia degli Hüsker Dü. Mentre Zen Arcade mette d’accordo quasi tutti, l’ultimo album suscita reazioni contrastanti: c’è chi lo considera l’apoteosi e uno dei migliori dischi non solo del complesso, ma dell’intero decennio, e chi addirittura lo considera il peggior capitolo di tutta la loro carriera discografica. Per quanto mi riguarda, sono più vicino alla prima ipotesi. Per motivi anagrafici sono arrivato a Warehouse andando a ritroso da Nevermind e Doolittle e la linea di discendenza si sente, eccome. Il doppio del 1987 fa da contraltare a Zen Arcade e rappresenta il perfezionamento di quel sound. Meglio ancora, l’album del 1984 rappresentava l’uscita dai confini, questo è la chiusura del cerchio. Un loop che riavvolge tutto il percorso del gruppo e lo sintetizza nella sua formula canzone “definitiva”, replicandola all’infinito con una sorta di virtuosismo solipsistico. Sublime o stucchevole? In realtà, se si esclude un calo naturale nell’ultima parte, la tensione creativa almeno della prima metà è altissima. Dal punto di vista compositivo, l’album funziona come i poli di una batteria: a un brano di Mould ne segue uno di Hart, 110

come se fosse uno schema voluto. Bob firma gli anthem più appassionati, These Important Years, Standing In The Rain, Ice Cold Ice, Could You Be The One, melodie mozzafiato e squarci visionari, rifinendo un nuovo genere di ballata elettrica che piacerà a tanto college rock (ricambiando perché Visionary è una versione punk dei REM). Di Grant sono le melodie più insidiose e uno degli standouts del disco, She Floated Away. Warehouse contiene tutti gli elementi del sound degli Hüsker Dü - la progressione hardcore con il ritornello beat, il feedback e il fuzz del garage rock con la grinta bubblegum dei Ramones, la mistica hippie con l’irrequietezza sovreccitata del punk, le distorsioni timbriche del rock hendrixiano con gli assoli parossistici dell’heavy metal e la delicatezza del folk rock con il rumorismo esasperato - a un livello di raffinatezza superiore e definitivo. Quando è finito il gruppo non è ancora sciolto ma di fatto non esiste più. Greg Norton diserta parte delle sessioni e Mould e Hart non lavorano quasi mai insieme. Vivranno da separati in casa i mesi successivi fino allo scioglimento della band. È interessante notare come Bob nel suo libro attribuisca velatamente la scelta di registrare Warehouse come un doppio album al fatto che Hart avesse voluto avere più pezzi suoi sul disco, mentre Grant, dal canto suo, sostiene che Mould non gli avrebbe mai concesso di firmare lo stesso numero di brani rispetto a lui. La fine degli Hüsker Dü è tuttora fonte di polemiche e rancori mai sopiti. La verità è che la situazione prima o poi era destinata a precipitare per lo scontro tra ego, e i problemi di droga di Grant Hart non hanno fatto che accelerare la conclusione. Attore non protagonista in buona parte di questa vicenda, Greg Norton, come noto, si è creato una seconda vita come chef, poi ha dovuto chiudere il locale e ora fa il rappresentante di vini. Le altre sue avventure musicali non hanno lasciato il segno. Dopo la fine della band, Bob Mould si trasferisce con il suo partner di allora, Michael, in una grande casa fuori città per staccare da tutto. A Pine City vive come in isolamento e inizia a comporre di nuovo, ma da una prospettiva diversa. Anche gli strumenti sono nuovi: una Strato blu e una Yamaha a dodici corde con un suono che paragona a un “sacco di dadi fruscianti”. Scrive spesso improvvisando, in maniera più spirituale e libera. Ha un modo curioso di raccontarlo nel suo libro: «Facevo sempre più attenzione al suono delle sibilanti e alle consonanze tra musica e parole, a come le sibilanti somigliavano a percussioni, e a come la ‘s’ si accordava al suono dei piatti o la ‘t’ e le consonanti occlusive o percussive formavano gruppi di suoni che cadevano perfettamente sulle note di chitarra. Adesso capivo meglio i piccoli dettagli, gli spazi tra i suoni e le parole. Questo nuovo


approccio non c’entrava nulla con quello che facevo prima, e sembrava arrivare dal nulla. Di certo non mi sono seduto con l’idea di lavorare su bordoni, accordature alternative, parole in libertà e di pensare al suono delle consonanti come a un elemento ritmico».

Wish i n g W ell Il risultato di questo anno sabbatico, passato a ricaricare le batterie e scrivere canzoni, è il suo primo album solista, Workbook, pubblicato dalla Virgin nel 1989. Lo strumentale Sunspots apre l’album con il suo arpeggio fingerstyle (in questo caso, più vicino al folk rock britannico che a quello americano). La cesura rispetto agli Hüsker Dü è marcata con decisione. È evidente la volontà di emanciparsi dal passato e di assumere una dimensione espressiva diversa, da cantautore, anche se non si tratta di un semplice disco voce/chitarra e non si tratta di un disco semplice in generale. Anzi, è molto arrangiato ed enfatico. Per quanto la chitarra acustica a sei o dodici corde o al massimo l’elettrica pulita siano le vere protagoniste delle canzoni, il sound d’insieme è ovviamente meno saturo ma più spazioso, “arioso” nel senso che i suoni sembrano sviluppare più volume e le stesse com-

posizioni tendono a gonfiarsi, a crescere a lievitare come accade a Wishing Well. Nel parco strumentale, Mould può contare su una sezione ritmica importante, formata da Anton Fier e Tony Maimone, e sul violoncello di Jane Scarpantoni, un elemento fondamentale per l’atmosfera di Workbook. «Per anni avevo vissuto circondato da un muro di suono distorto, ora pensavo agli arrangiamenti d’archi su questi sonanti accordi aperti che producevano bordoni (huge open droning chords)». Huge è proprio la parola adatta: con la sua scioltezza See A Little Light, uno dei brani più amati tanto da intitolare la biografia del nostro, rappresenta quasi una parentesi rispetto all’epica drammaticità di una Poison Years o alla pomposa classicità tra il melò e il pastorale di Sinners and Repeantances, per non parlare del ruggito hard blues di Whichever the Wind Blows (a sua volta uno stacco piuttosto marcato dal tono generale). Disco di un’intensità stordente e che risente di una messa a punto quasi maniacale, Workbook è inserito dall’autore nel trittico dei suoi preferiti, insieme a Flip Your Wig degli Hüsker Dü e a Copper Blue degli Sugar. Anton Fier alla batteria e Tony Maimone al basso sono un duo di musicisti esperti, che Mould sfrutterà anche

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in tour. La musica degli Hüsker Dü era un unico flusso di energia in cui i contorni spesso si perdevano; invece il batterista (un passato con i Golden Palominos ma anche Lounge Lizards e Feelies) e l’ex bassista dei Pere Ubu formano una sezione ritmica più tecnica e sincronizzata. Mould stesso riconosce quanto la loro professionalità abbia aiutato il suo orecchio di musicista. Il seguito della prima avventura da solo è il rovente e cupissimo Black Sheets Of Rain (1990). Le ballate di Workbook diventano una marziale sinfonia elettrica, da cui emergono composizioni cadenzate e potenti. Stop Your Crying, Hanging Tree e It’s Too Late, tra Neil Young e quello che tutti di lì a poco chiameranno grunge, la byrdsiana Hear Me Calling o Out Of Your Life sono la sintesi che ci si sarebbe aspettati tra l’eredità degli Hüsker Dü , la nuova cifra di cantautore, l’amore per il melodismo anni ‘60 e una riscoperta del rock dopo il folk-core da camera di Workbook. Anche se l’unica canzone nello stile della vecchia band, il pop-punk di Disappointed, non è un omaggio ma una frecciata agli ex compagni. Lo shouter dell’hardcore ritorna in Sacrifice, in una sorta di blues trasformato in un tour de force vocale con tanto di sdoppiamento tra call and response. La title track è uno dei migliori brani di Bob Mould solista e anche il disco, di una compattezza invidiabile, si colloca ai vertici della sua produzione, nonostante la sua avversione a posteriori per le atmosfere 112

claustrofobiche di questa seconda prova en solitaire.

T hat ’s A Good Ide a Tuttavia, le cose non si mettono bene per il nostro: la successiva tournée è un flop, non tanto per i concerti in sé quanto per il fatto che, per la prima volta nella sua carriera, si trova a chiudere un tour in perdita, per i costi di due turnisti di lusso e di tutto l’apparato. La Virgin e il suo management avevano oltretutto ceduto i suoi diritti di edizione. «All’inizio del 1991 stavo facendo i conti. Perché anche se avevo un ricco contratto con la Virgin ero sempre al verde?». Su consiglio di un legale, Bob risolve il contratto e si lancia in un tour acustico senza band. Un’esperienza che sotto certi aspetti lo riavvicina alle origini, al punto da ricondurlo anche a formare un vero gruppo e a riabbracciare il mondo delle indie. Dopo aver fatto ascoltare i suoi demo a diverse case discografiche, trova infatti un accordo con la Creation in Gran Bretagna e la Rykodisc in America. I prescelti per il nuovo trio sono il bassista David Barbe, un vecchio amico del suo compagno Kevin O’Neill, e Malcolm Travis, l’ex batterista degli Zulus, di cui Mould aveva prodotto nel 1988 l’album Down On The Floor. Copper Blue (1992) è uno dei suoi migliori dischi. Esce nel momento giusto per farlo conoscere al nuovo pubblico “alternativo”, appena sedotto dai Nirvana (di cui Mould


ha potuto vedere da vicino l’ascesa partecipando allo stesso tour insieme a Sonic Youth e Dinosaur Jr. documentato nel video The Year Punk Broke). Non a caso, sarà il suo bestseller. Privo di un contraltare quale Grant Hart negli Hüsker Dü , Bob dirige la band come se fosse una sua creatura. Mentre il muro chitarristico degli Hüskers aveva un valore assoluto, una trascendenza che andava oltre l’armonia stessa, quello degli Sugar è più corposo ma più quadrato e funzionale. Composizione e arrangiamento mostrano una grande attenzione alla dinamica, sull’esempio di Workbook ma in maniera più diretta e rumorosa. Come nell’iniziale The Act We Act, tra i momenti clou del disco, un aspro rock mid-tempo quasi grunge, che parte da un riff compresso coronato da un breve ricamo di chitarra per decollare verso una luminosa armonia sostenuta da un melodioso assolo sottotraccia. Come in Good Idea, con un ritornello che si pianta in testa al primo ascolto, ma che assorbe tutta l’influenza di ritorno dei Pixies: la struttura è proprio quella di un brano dei folletti (file under: Debaser), dal giro di basso iniziale alla progressione di accordi che supportano il ritornello e il finale. Tracce di Huskers in Fortune Teller, ma anche molta melodia, lo psych pop frizzante di Helpless e Hoover Dam e la perla di una canzone folk-rock super orecchiabile, If I Can’t Change Your Mind. Pochi mesi dopo Copper Blue, è la volta di Beaster (1993), un mini album composto da canzoni registrate nello stesso periodo, ma dal mood molto più cupo. Esce la settimana di Pasqua e rappresenta una sorta di passione tutta personale di Bob Mould. Le sonorità - come in JC Auto - sono a volte più vicine al grunge che al pop-core o a certe frange dell’indie inglese. Feeling Better ha addirittura uno strano sapore baggy. Walking Away ricorda invece i My Bloody Valentine, compagni di etichetta alla Creation, anche se sono le tastiere a prendere il posto della chitarra. Il titolo dell’ultimo disco degli Sugar, File Under: Easy Listening (1994), non è poi così ironico come sembra. Brani come Your Favorite Thing (che echeggia un titolo dei Replacements), Gee Angel, Can’t Help You Anymore rielaborano il consolidato stile di Mould e del suo gruppo in maniera più facile e scanzonata. È il disco più pop del nostro so far, e se Gift potrebbe ricordare i Dinosaur Jr., Believe What You’re Saying la sua nenia più dolce, è ancora un velato omaggio agli amati Byrds. È l’ultimo album del trio, di cui due anni dopo uscirà una raccolta di rarità. Il 1994 è anche l’anno in cui esce il live degli Hüsker Dü, The Living End, che il nostro si rifiuta perentoriamente di ascoltare. Sempre nel 1994, un’intervista con Dennis Cooper per Spin rende di pubblico dominio alcuni aspetti della sua vita privata, a cominciare dal suo

orientamento sessuale. Se di coming out si tratta, è un po’ forzato e detto fra i denti, con il timore di finire ingabbiato in uno stereotipo. Alcune radio si rifiutano di trasmettere la musica degli Sugar, ma a mettere disagio il musicista e l’uomo sono probabilmente le critiche ricevute in seno alla stessa comunità gay.

Bob Moul d Is Bob Mou ld Gli Sugar si sciolgono all’inizio del 1995, e Bob ritorna alla carriera solista nel 1996 con uno spartano senza titolo (Bob Mould) in cui canta e suona tutti gli strumenti. È l’ennesimo segnale di un’indole creativa irrequieta e mai accomodante. Accomodante non lo è neppure con se stesso, il buon Bob: I’m sick of myself, ripete nel primo pezzo, Anymore Time Between. Con lo stesso sarcasmo con cui parlava di easy listening per il disco degli Sugar, intitola il brano chiave del suo ritorno solista IHate Alternative Rock. È una specie di parodia (un po’ come in Disappointed il nostro parodiava gli Hüsker Dü) per un atto d’accusa nei confronti delle case discografiche, colpevoli ai suoi occhi di avere trasformato in una moda il genere di musica che lui aveva contribuito a creare. In questo caso è difficile dargli torto; per il resto, uno dei punti deboli conclamati dell’album è la rigidità dovuta all’utilizzo, non molto fantasioso, della batteria elettronica, insieme a una produzione dallo spiacevole retrogusto meccanico. Il modello che Mould sembra avere in mente è quello di Lou Barlow e dei suoi Sebadoh; per accorgersene è sufficiente ascoltare l’incipit (sempre Anymore Time Between). Qualche zampata non manca (il turbinio elettrico di Egøverride), ma è penalizzata dalle scelte sonore, in una prova al di sotto degli standard a cui ci aveva abituati. The Last Dog and Pony Show (1998) è quello che spesso si definisce un disco di transizione. Non è ispirato quanto i migliori dischi del suo autore, ma trova un suo equilibrio, tra il ritorno alle atmosfere di Workbook, sonorità rock aggressive o il panning elettroacustico (Who Was Around) che sono ormai un marchio di fabbrica. Si sentono anche le avvisaglie di qualcosa di diverso, nel primo flirt con i sintetizzatori di Megamanic, una specie di sgorbio rap che parte con una base drum and bass e non si capisce bene dove vada a parare. Bob avrebbe provato molte altre soluzioni ma alcuni nastri di esperimenti sono rimasti cancellati per sbaglio perché dimenticati in studio. Se i risultati erano simili a Megamanic, forse è meglio che sia andata così. LiveDog98 (2004), venduto ai concerti e su internet, è una testimonianza del tour che lo vede, per la prima e ultima volta, affiancato da un secondo chitarrista. Nel giro di un paio di dischi i riferimenti passano dai 113


Sebadoh e dalla scena lo-fi a Believe di Cher e a Xpander di Sasha. Modulate (2002) è il progetto a nome Loudbomb (l’album Long Playing Grooves,2004) sono per molti critici la pietra dello scandalo. Nessuno dei fans storici si sarebbe probabilmente aspettato che da qualche esperimento estemporaneo sarebbe nata la svolta più clamorosa della carriera. Mould diventato dj di musica dance poteva sorprendere quanto, per chi non lo monitorava da un po’, scoprire che per un anno aveva fatto lo sceneggiatore per gli incontri di wrestling (e prima ancora aveva fornito la colonna sonora per una campagna pubblicitaria della American Express). Tutte e due le cose, anzi tutte e tre, sono vere. L’abiura del rock e l’improvvisa metamorfosi si spiegano anche con la new gay life di cui racconta esplicitamente nella sua autobiografia. Bob si appassiona alla musica da ballo elettronica da club nel momento in cui si trasferisce a New York e insieme al suo compagno conosce per la prima volta da vicino la cultura gay della Grande Mela. Anche considerando che questa folgorazione sulla via del dancefloor può avere una sua contestualizzazione esistenziale e la necessità di liberarsi dallo stereotipo del rocker depresso e arrabbiato abbia ragioni al di là di quelle strettamente artistiche, a un ascolto senza pregiudizi Modulate rimane un disco goffo. Il buon Mould soffre del difetto di molti neofiti, che si lasciano incautamente prendere la mano senza filtro e, soprattutto, senza la necessaria padronanza del linguaggio in cui si avventurano per la prima volta. Il risultato sono pacchianate a ripetizione, che finiscono per sabotare anche quelle poche idee fluttuanti in una serie di inutili orpelli. Body Of Song (2005) contiene in parte l’hangover dalla sbornia electro-danzereccia, con rimasugli di suoni sintetici e qualche fastidioso effetto vocale, ma la REMiana Circles sembra tornare ai tempi di Black Sheets Of Rain, e il pop punk tinto di psichedelia di Missin’ You anche qualche anno più indietro. La malinconica Days Of Rain è il viatico per i dischi successivi. Per il tour, Mould può contare su una band di tutto rispetto in cui oltre al sodale elettronico Richard Morel (l’altra metà di Loudbomb), milita Brendan Canty dei Fugazi. Con il quartetto di cui fa parte anche il bassista Jason Narducy, l’ex Hüsker Dü ritorna ad esibirsi dal vivo con un gruppo elettrico dopo più di un lustro. Per l’occasione rispolvera i classici di tutta la sua carriera che finiranno anche sul suo primo DVD, Circle Of Friends.

The D es c e n t In District Line (2007) l’anima del cantautore torna in primo piano. L’influenza che salta per prima all’orecchio sono curiosamente i REM (in parte, si tratta anche qui di 114

un’ispirazione di ritorno). Il modo di cantare di Bob nei primi pezzi ricalca da vicino quello di Michael Stipe; Old Highs New Lows rivela piuttosto un’affinità con Mark Eitzel. Il trascorrere dei pezzi segna un ritorno del rock (Return To Dust, The Silence Between Us) e dell’elettronica (Shelter Me), che fa capolino con qualche moderata intromissione anche nei brani di impianto chitarristico. Di apprezzabile c’è che il nostro non ricalchi i soliti schemi di un tempo anche nel momento in cui la sua produzione è più di routine e meno ispirata. Più o meno sulla stessa linea si colloca Life and Times (2009). Anche il power pop di Argos e Spiraling Down e il ritorno (uno dei tanti) alle architetture di Workbook in Bad Blood Better stavolta sanno di routine. Nel 2009 esce Live At ATP, registrato all’All Tomorrow’s Parties: la seconda metà del set è quasi tutta occupata da classici degli Hüsker Dü (I Apologize, Chartered Trips, Celebrated Summer, Makes No Sense At All, New Day Rising). Se si è riconciliato con il suo passato, Mould, non lo è affatto con i suoi ex compagni, trattati ancora con un certo astio nelle pagine del libro. Il più recente LP, Silver Age (2012), sembra un disco più “leggero” di molte sue opere del passato, non nel sound ma nello stato d’animo. È l’album più fragorosamente rock dai tempi degli Sugar e il migliore degli ultimi dieci anni (in cui non ha certamente brillato). Dove il nostro, almeno a giudicare dalle sue dichiarazioni, si abbandona al piacere di suonare musica elettrica e liberatoria. Un disco compatto e che dà certezze: solidità in fase di scrittura, un sound grintoso e le melodie con i giri giusti. Oltre che con il passato, Mould sembra più a suo agio con se stesso e con il suo ruolo di icona, un ruolo che lui stesso ha intenzione di rivendicare e promuovere, senza la conflittualità del passato. Non è un caso l’intenzione di pubblicare See A Little Light, stesso titolo del libro per un concerto che dovrebbe diventare un film e in cui l’ex Hüsker Dü duetta con suoi discepoli dichiarati come Dave Grohl e i No Age. «Finalmente inizio a godermi la vita come viene» è una delle ultime frasi della biografia. Contenti per lui oggi, e meglio per noi che in passato sia appartenuto alla schiera dei non riconciliati e abbia scritto alcune delle migliori pagine di indie rock di sempre.


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classic album

Dire Straits Dire Straits (Vertigo, Ottobre 1978)

Credo di aver conosciuto i Dire Straits assieme ai principali rimproveri che da sempre vengono mossi nei loro confronti: derivativi, e quel che è peggio out-of-time. Quanto alla prima accusa, penso sia abbastanza incontestabile, per quanto non mi sembra che debbano scontare più debiti di quanto il rock non abbia contratto prima e dopo la loro venuta. Senza scordare poi come siano comunque riusciti a sviluppare un sound estremamente riconoscibile, soprattutto grazie alla chitarra (e alla voce) di Mark Knopfler. Quanto al secondo “peccato”, credo sia il caso di soffermarsi un attimo. Di ripartire dall’inizio. La band prese forma a metà dei 70s proponendo una mistura di rock’n’roll venato country e blues nel circuito dei pub londinesi. A muovere i fratelli Knopfler, il bassista John Illsley ed il batterista Pick Withers (quest’ultimo con un passato abbastanza importante nei The Primitives di Mal) pareva essere innanzitutto la voglia di allestire un sottofondo tanto suggestivo quanto divertente, nel quale la componente folk-blues - seppur mutuata in una sorta di fantasia western ad alto tasso cinematico - predominava tenendo ancorato il messaggio ad altezza d’uomo. In un certo senso, possiamo interpretare la proposta dei Dire Straits come un controcanto escapista tanto all’iconoclastia punk dominante quanto alla sua alternativa arty rappresentata dalla parimenti pervasiva new wave. Ne risultò un crescente successo di pubblico (a partire dal terzo album addirittura clamoroso) e la disistima imperitura proprio da parte di chi vedeva nel verbo di Pistols, Clash, Suicide e Television il codice che avrebbe salvato le sorti del rock. Un’avversione che ancora oggi dura. Penso tuttavia sia il caso di tenere presente quanto le schematizzazioni storiografiche siano solo necessarie approssimazioni. Nella realtà in ogni momento convivono, si sfiorano e sovrappongono situazioni diverse, ognuna diretta volente o nolente verso lo stesso domani. I Dire Straits insomma, che ci piaccia o meno, sono figli perfetti del loro tempo. Prendete ad esempio il nome della band, che tradotto vuol dire più o meno “gravi ristrettezze”: non sarà una delle ragioni sociali più punk che si possano immaginare, ma ci va abbastanza 116

vicino. Detto questo, non si può negare che la loro comparsa sulla scena fu vissuta con sollievo e persino con entusiasmo proprio dai reduci del folk-rock e persino di certo prog (ne ho conosciuti in tempo reale). Alla fine di tutti questi discorsi, e passiamo a quello che conta, c’è un album d’esordio omonimo uscito nell’ottobre del ‘78: periodo tragico che il quartetto britannico (con sede a Londra, anche se i Knopfler erano originari di Glasgow) volle sublimare inventandosi una dimensione epica. Fu un po’ come fondere il piombo di quegli anni per farne proiettili simbolici, vaganti in una specie di scenario post-western, tutto un gioco di astrazioni al sapor di celluloide condotte con un gradevole mix di entusiasmo e gravità. Lo stile del chitarrista-cantante-compositore si esalta tra le insidie bluesy di Six Blade Knife e quelle funky di Southbound Again, nella blandizie errebì di Lions (tipo gli Steely Dan in fregola Tom Petty), nelle latinerie languide di Water Of Love e in quelle smerigliate di Down To The Waterline, nel deserto carezzevole di Wild West End. Soprattutto, è ovvio, nella trascinante celebrazione di un mondo sul punto d’estinguersi (“...And an old guitar is all he can afford/When he gets up under the lights to play his thing”) di Sultans Of Swing, nella quale c’è tutta intera la loro poetica, né più né meno. Col suo lirismo liquido e denso, dalla visionarietà prepsichedelica, la chitarra di Knopfler sembra un archetipo rurale di Tom Verlaine, lo stilo di un sognatore che allestisce sogni senza additivi, trasformando cupezze & amarezze in un melò crepuscolare. Troppo caratterizzato per lasciare epigoni, il discorso dei Dire Straits è evaporato in una nuvola mainstream prima che sembrasse in grado di scrivere pagine davvero profonde. Un percorso così simile seppur così diverso nella sostanza a quello dei coevi Police. In questo senso, il sodalizio stretto da Sting e Knopfler per la scrittura e l’interpretazione della celeberrima Money For Nothing - anno 1985 - assume l’aspetto di un paradigma. O di un punto di non ritorno, fate voi. Stefano Solventi


classic album

Nine Inch Nails The Downward Spiral (TVT Records, Marzo 1994)

“I ragazzi sono curiosi di noi, ci chiedono di Rebirth, ma non sanno cosa c’è di sporco in quel programma, di BASTARDO DENTRO”, diceva Cristina dei Krisma tempo fa dopo un concerto. Reznor invece lo sapeva sicuramente, cresciuto com’era in un contesto nel quale i losers anni ‘90 avevano preso da un decennio di metal il gusto per apocalisse, atrocità e violenza, nonché attento allievo di Ministry e Skinny Puppy sui lati oscuri dell’elettronica e conscio della svolta industrial presa da una buona corrente del suo amato gothic rock (amore che lo porterà alla cover di Dead Souls per la colonna sonora de Il Corvo e alle collaborazioni con Peter Murphy). D’altronde nel ‘91 Nirvana e Red Hot Chili Peppers avevano ribadito in classifica, per chi non lo sapesse, che il rock esisteva ed era rumoroso, violento e meticcio (e dunque punk e metal potevano abbandonare parecchie diffidenze reciproche), aprendo la strada per MTV a Vitalogy, agli Alice In Chains o ai Ministry di Psalm 69. Così Trent, che aveva esordito con due lavori ottimi ma ancora non del tutto autonomi dai maestri suddetti (Pretty Hate Machine, deviatamente pop, e l’EP Broken) e che partecipava al Lollapalooza fin dall’inizio, va a raccogliere numerose suggestioni sia da una fase musicale eclettica capace di sdoganare il rumore, sia da tendenze sotterranee che risalivano ai Suicide e dintorni, sintetizzandole in una nuova musica davvero 90s e in grado di dare indicazioni per il futuro: creare il capolavoro / colonna sonora per la nuova generazione. Attentissimo manipolatore del suono, chiuso nel suo studio (costruito nella villa in cui Sharon Tate fu uccisa da Manson e accoliti, tanto per ribadire la moda dell’atrocità) insieme a Flood a combattere contro tecniche pionieristiche di hard disk recording, Reznor costruisce un edificio di violenza sonora strutturato come un film, dove l’introspezione disperata e l’immaginario tra splatter, apocalisse e cyberpunk dei testi sanno raccontare le ansie di una modernità sempre meno umana. Tanto quanto le narra un suono che toglie alla chitarra elettrica l’aura di unica purezza possibile della rabbia

rock e al computer il frac algido che gli avevano messo addosso i Kraftwerk e il synth pop anni ‘80. C’è tutto questo in un disco che mostra un uso da maestro delle dinamiche forte/piano: dalla furia con aperture ambient dell’iniziale autoritratto di Mr. Self Destruct al dub inquietante di Piggy, dal techno-pop che struttura inizialmente Heresy al technopunk di Big Man With A Gun, dall’apparente tranquillità venata di inquietudine sempre meno trattenuta di Closer e Eraser alle frenesie quasi Pixies del breve singolo March Of The Pigs col suo sorprendente stacco melodico di piano, dalla house frammentata con interludio folk di The Becoming agli intermezzi strumentali da colonna sonora della title track e di A Warm Place, fino alla sorprendente ballatacapolavoro Hurt, che chiude il disco allo stesso tempo in modo coerente e inatteso. Il disco venderà parecchio, rafforzando l’influenza che Reznor esercitava già dagli esordi e confermando che il pubblico era pronto da tempo per un suono che il disco stesso contribuisce a diffondere: vedi i Prodigy in classifica di lì a poco, l’uso di certe batterie scorticate da parte di Bjork in Homogenic, l’influenza su Outside di un Bowie che con Low era stato una delle muse dichiarate di Reznor (ne seguirà anche un tour insieme) e soprattutto l’apocalittico concerto a Woodstock 94 coi nostri coperti di fango nel bel mezzo di una consacrazione ufficiale. Alcuni preferiranno poi lo sviluppo realizzato nell’altro capolavoro The Fragile: accademia, visto il livello delle due opere. Giulio Pasquali

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