Sentireascoltare 99

Page 1

digital magazine | gennaio 2013 | n. 99

Toy Speedy J Il 2012 di sa Father john misty ones to watch 2013 Flying saucer attack

non

amari etri

ilom

ok

sol


tune in – p. 4

Father john misty   Speedy J   Toy

drop out – p. 18

Amari   Ones to watch 2013   Il 2012 di Sentireascoltare

rearview mirror – p. 106   Flying Saucer Attack

recensioni – p. 56   gimme some inches – p. 104   campi magnetici – p. 110   classic album – p. 111


#99 gennaio Direttore Edoardo Bridda Direttore Responsabile Antonello Comunale Ufficio Stampa Alberto Lepri, Teresa Greco Coordinamento Gaspare Caliri Progetto Grafico Nicolas Campagnari Redazione Alberto Lepri, Antonello Comunale, Carlo Affatigato, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Marco Braggion, Massimo Rancati, Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia, Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco Staff Andrea Napoli, Antonio Laudazi, Antonio Pancamo Puglia, Costanza Salvi, Dario Moroldo, Diego Ballani, Eugenia Durante, Federico Pevere, Filippo Bordignon, Giancarlo Turra, Giulia Cavaliere, Giulia Antelli, Giulio Pasquali, Luca Barachetti, Marco Boscolo, Mario Ruggeri, Nino Ciglio, Stefano Gaz, Viola Barbieri Copertina amari (foto © Fabio Cussigh) Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)

SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Provider NGI S.p.A. Copyright © 2012 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


4


Metamorfosi in mistyc blues

Father John Misty

Il resoconto della chiacchierata con Josh Tillman/Father John Misty, cantautore versatile e abile showman, oltre che una delle personalità più affascinanti del nuovo alt. folk americano testo: Giulia Antelli Chiunque negli ultimi mesi abbia seguito le vicende di Josh Tillman dopo la dipartita dai Fleet Foxes sa che l’ex batterista si è dato da fare, cambiando nome in Father John Misty e consegnando un album, Fear Fun - uscito lo scorso giugno via SubPop, la stessa etichetta del gruppo di provenienza -, che un po’ ovunque ha fatto parlare di sé, raccogliendo unanimi consensi di pubblico e critica.Il concerto dello scorso 7 dicembre al Covo Club di Bologna è stato quindi un’occasione imperdibile per parlare delle dinamiche del nuovo percorso e per ascoltare in prima persona il risultato della metamorfosi umana e musicale del personaggio. Un taglio netto rispetto al passato, non solo per quel che riguarda il divorzio dalla band madre: da singer/songwriter folk ed intimista con ben sette album all’attivo, il nuovo Tillman incarna ora la figura dello showman navigato, sfrontato e sicuro di sé quel tanto che basta per distaccarsi definitivamente dall’immaginario hippy-folk che ce lo aveva fatto conoscere ai tempi dei Fleet Foxes.Abbandonate la chitarra acustica e le vesti di menestrello appalachiano, lo show che Father John Misty ha offerto al pubblico del Covo Club non delude le attese, anzi conferma quello che già l’ascolto di Fear Fun aveva fatto presagire: forti

delle innegabili qualità vocali e di una scrittura ormai largamente consolidata, Tillman e la sua band mettono insieme un live pienamente immerso nel folk acido del Laurel Canyon ma declinato in nuove soluzioni; debitore tanto all’energia del rock americano a marca Sixties quanto al cantautorato country/blues di metà secolo. Non solo canta, balla e si dimena sul palco, l’ex drummer è una star in continua evoluzione, attinge a piene mani al repertorio sciamanico della Hollywood a cavallo tra i ‘60 e i 70, quasi fosse un redivivo Jim Morrison ripulito dagli eccessi, irriconoscibile rispetto ai pacati toni acustici della produzione precedente. Oltre all’intrattenimento che contribuisce in maniera consistente al fascino di una trasformazione che avviene praticamente sotto gli occhi dello spettatore -, in primo piano rimane comunque la sostanza delle canzoni, testimonianza di una nuova volontà musicale in perfetto equilibrio tra cinquant’anni di tradizione cantautorale e sovradosaggi elettrico/psichedelici.Ecco cosa ci ha raccontato un paio d’ore prima del concerto. So che prima di cominciare a registrare Fear Fun ti sentivi nauseato dalla chitarra acustica, cioè lo strumento che ha caratterizzato grandissima parte del5


la tua produzione come J. Tillman. Nel nuovo album invece ci sono sound molto diversi tra loro, non solo country e folk, ma anche rhythm & blues, rock psichedelico, addirittura anche alcuni accenni soul e molto altro ancora. Come hai deciso di cambiare così radicalmente la tua musica rispetto ai dischi passati? Beh, scrivo ancora principalmente con la chitarra acustica e questo rappresenta un determinato tipo di musica e, di conseguenza, un certo tipo di canzoni. Come autore, però, ho capito che gli strumenti non sono nient’altro che la realizzazione delle tue idee, perciò adesso non mi importa più della chitarra, né di qualsiasi altro strumento. Non mi sento solo un musicista: canto, scrivo canzoni e credo che Fear Fun mi sia servito come mezzo per arrivare all’elaborazione di questo processo. Non devo più spiegare nulla riguardo a ciò che ho fatto in passato, adesso posso fare quello che voglio. Nel disco puoi trovare qualsiasi cosa, dall’honky-tonk alla disco-music, davvero ogni tipo di musica, e tutto ha senso perché ho voluto che la mia voce e la mia scrittura potessero esprimersi in tutti i modi possibili. È la mia personalità. Quando eri più giovane ti ispiravi ad autori come Nick Drake o Townes Van Zandt, ma i loro nomi sembrano molto lontani dall’immaginario racchiuso in questo disco, quasi che tu abbia voluto cambiare identità. Credo che più di un cambio di identità si sia trattato semplicemente di accettare alcune cose di me, i miei impulsi, il mio senso dell’umorismo. Quando ho cominciato a scrivere canzoni, più o meno a vent’anni, cercavo di trattenere questi aspetti perché volevo essere un artista serio: credevo che non potessero far parte del tipo di musica che volevo fare, perciò ho cercato di essere più cupo, di avere una sensibilità più oscura, sforzandomi di entrare in un ruolo che non era mio. Evitavo deliberatamente la parte promozionale del fare dischi, tutto quello che avevo da dire a riguardo era sul sito della mia etichetta: volevo essere uno di quegli artisti rispettati ma sconosciuti, far parte di quel club mi sembrava una cosa molto romantica (ride). Poi, con Fear Fun, ho avuto come una rivelazione: ho capito che questo modo di essere non mi veniva naturale. In realtà nulla lo era: il modo di pensare, di parlare, di scrivere, non facevano parte di me. Dovevo sentirmi a posto con me stesso, ed è così che è avvenuto il cambio di personalità, liberando alcuni eccessi del mio carattere. Non mi importa se qualcuno pensa che io sia un tipo strano, ho soltanto smesso di essere qualcosa che non sono. Infatti in Every Man Needs A Companion canti “I never liked the name Joshua, I got tired of J.”, una frase che in questo senso mi pare significativa.. 6

Assolutamente sì, quella canzone è davvero importante perché è il gran finale dell’album. Diciamo che tira le somme, è come se stessi dicendo “ se conoscete qualcosa dei miei dischi precedenti, probabilmente vi starete chiedendo cosa c’entra tutto questo con quello che ho fatto finora. Da dove viene questa roba?” (ride). È una canzone poetica, in qualche modo. Distrugge le barriere tra il prima e il dopo, tra la musica di adesso e le esperienze precedenti. Parlo di me, di quello che ero prima, di quello che sono adesso. Altri brani invece rappresentano bene questo tuo nuovo senso dell’umorismo, in particolare Writing A Novel o Well, You Can Do It Without Me. Well, You Can Do It Without Me è una canzone ironica, ma anche sarcastica: sono io che mi rivolgo in maniera fin troppo esplicita a una persona precisa, una persona di cui mi ero stancato e alla quale sto dicendo “sono stufo di essere quello che tu decidi che io sia”. Anche se è un brano molto divertente, non c’è ironia in quello che sto dicendo. Invece Writing A Novel è ironia allo stato puro. Parla di quelli che si sentono originali a tutti i costi, che pensano di aver avuto esperienze uniche rispetto agli altri, come appunto scrivere un romanzo. Il testo è volutamente serioso, mentre la musica è molto rock and roll, semplice e diretta, e l’intento era proprio quello di considerare in modo nuovo quello che io stesso ero stato prima. Per moltissimo tempo mi sono sentito come le attrici di cui parla il testo [“It’s filled with people pretending they don’t see the actress and the actress wishing that they could”], gente che per la maggior parte del tempo vive in uno stato mentale di rifiuto. Invece la parte in cui parlo di strangolare Neil Young non è molto ironica, perché è come se quel genere di musica non mi appartenesse più, quindi dovevo davvero liberarmene, in qualche modo (ride). Ho voluto uccidere il mio passato, in senso freudiano (ride ancora). Quello che ho sempre cercato di fare con le mie canzoni è essere onesto. Quando ero più giovane avevo un’idea molto più immatura di ciò a cui stavo provando ad assomigliare, e credevo che usare il dolore fosse l’unico modo in cui potessi scrivere in modo davvero sincero. Ora che ho dieci anni di più ho smesso di pensare che la mia musica debba riflettere quest’idea. Lo conferma anche il tuo modo di cantare. La tua voce è più forte, più rilassata, forse anche più spontanea. Sì, lo credo anch’io. Cantare è soprattutto una questione psicologica e se scegli un certo tipo di songwriting anche il tuo modo di cantare deve essere in un certo modo. I miei dischi precedenti richiedevano un tipo di voce che adesso suonerebbe ridicola, e viceversa. Ci è voluto un


bel po’ di tempo prima che mi sentissi a mio agio con il fatto di avere una bella voce e adesso sono dell’idea che qualsiasi cosa io voglia cantare, devo riuscire a comunicare il significato delle mie parole. Ora che scrivo in un modo diverso, canto nel modo in cui le parole mi suggeriscono di farlo. In effetti è stato un bel cambiamento. È buffo riascoltare i miei dischi passati e sentire come mi sforzassi per raggiungere quelle note così basse (ride). Anche le esibizioni sono cambiate, il modo di stare sul palco, il modo in cui intrattieni il pubblico. È sempre per la stessa questione di onestà di cui ti parlavo prima. Sono su un palco, con un microfono in mano di fronte a della gente, devo per forza fare qualcosa, devo mettere insieme una performance. Devo esibirmi, è questo il motivo per cui io e chi è venuto a vedermi ci troviamo lì. Cambiando argomento, qual è stata la canzone di Fear Fun che ti ha fatto capire che stavi per intraprendere un nuovo percorso? Ce ne sono due. Una è Fun Times In Babylon: è stata l’ultima canzone che ho scritto quando ero ancora a Seattle e non l’ho toccata per moltissimo tempo. Writing A Novel invece è stata la prima, l’ho scritta in dieci minuti, senza nemmeno rendermi conto di quello che stavo facendo. Mi sono semplicemente detto ok, ci siamo, ed è venuta fuori. Provare a scrivere un romanzo, invece, è stato quello che ho dovuto affrontare prima di riuscire a scrivere di nuovo canzoni. È stato un passaggio obbligato per voltare pagina, mi ha aiutato a trovare la consapevolezza per andare avanti. È anche il motivo per cui credo che Fear Fun sia la cosa più interessante tra quelle che ho fatto finora. Perché hai scelto Jonathan Wilson come produttore? Com’è stato lavorare con lui? Si è trattato di una serie di circostanze. Siamo diventati

amici quando mi sono trasferito a Los Angeles, perciò è stato naturale cominciare a lavorare con lui. Non so cos’altro dire a riguardo perché non avevo pensato che ci sarebbe stata una domanda su com’è lavorare con Jonathan Wilson (ride). Scherzi a parte, quando ho cominciato a lavorare su Fear Fun ero ancora con i Fleet Foxes, non avevo una label né un titolo per l’album, non avevo la minima idea di cosa sarebbe potuto succedere con la band e con la mia carriera solista. Negli ultimi dieci anni ho praticamente registrato un disco all’anno, perciò in quel periodo il mio stato d’animo era “oh, è arrivato il momento di registrare.. di nuovo”. In più c’erano anche gli album dei Fleet Foxes. Tutto questo mi ha come fatto sentire alieno da me stesso, da quello che stavo facendo sia con il gruppo che da solo. La musica dei Fleet Foxes contiene qualcosa di profondo e bellissimo, ammiro tantissimo la sensibilità melodica e il talento di Robin [Pecknold], ma non mi appartengono. Molti credono che essere stato il loro batterista - nient’altro che il batterista - abbia avuto una grande influenza su di me, ma non è affatto così, perché musicalmente i Fleet Foxes non hanno niente a che vedere con il concept e la creazione dell’album. A posteriori, posso dire che non hanno avuto un ruolo così ampio nella mia vita: quando ero in tour con i Fleet Foxes, ero semplicemente “in tour” con i Fleet Foxes. Ho sempre fatto anche altre cose, scrivevo le mie canzoni, ed è così che nato anche Fear Fun. Per concludere: quanto sei soddisfatto dell’album? Davvero molto. Alcune di queste canzoni me le porto dietro da molto tempo e adesso sono davvero contento del risultato. Penso che rispetto ai miei dischi del passato, nessuno mi sia mai piaciuto quanto Fear Fun, perciò se dovessi morire domani spero che ne seppelliscano quattro o cinque copie insieme a me (risate).

7


8


Abstract Ways Of Telling A Story

Speedy J

Intervista a uno dei sacerdoti della scena olandese, tra i primi propulsori della techno in Europa. I 90s USA e UK, la visione romantica, il rapporto uomo-macchina, i trend e le risposte alla critica. testo: Carlo Affatigato Questo è stato l’anno in cui vi abbiamo portato alle radici della techno tramite una serie di interviste approfondite con alcuni personaggi chiave: se con Photek siamo andati nel cuore dei rave UK (e nella fase del loro superamento) e con Kevin Saunderson abbiamo ripreso la Detroit che ha dato origine a tutto, oggi chiudiamo il cerchio con uno dei pionieri della diffusione della techno in centro Europa. Approfittando della data di questo venerdì alla Fortezza da Basso di Firenze, siamo entrati in contatto con Speedy J, il producer olandese che da giovane, agli inizi dei ‘90, fu tra i primi a diffondere nelle radio e nei club le nuove importazioni house e techno dagli USA. Con pezzi come Spectrum e Wicked Saw, datati 1990 e pubblicati per la Plus 8 di Richie Hawtin, Speedy J aveva iniziato prestissimo a esplorare la teoria techno

“La musica elettronica, in ogni sua forma, è di fatto un modo astratto di raccontare una storia.”

di Detroit, per poi evolverla l’anno dopo con Pullover e Something For Your Mind, verso quella direzione aggressivo-percussiva che presto caratterizzerà le produzioni belga e olandesi. Eppure il producer di Rotterdam è sempre stato in continuo movimento, passando da una parte all’altra dello spettro techno, agganciando fin da subito la Warp lungo il percorso IDM (con la serie Artificial Intelligence e l’album Ginger), poi sperimentando secondo gli orientamenti industriali culminati in Public Energy No. 1 e l’estremismo percussivo visto in Loudboxer, fino ai giorni nostri e alle collaborazioni situazioniste con Chris Liebing. Difficilmente, nella sua cronistoria di uscite, troverete due dischi consecutivi uguali uno all’altro. Il percorso di Speedy J (al secolo Jochem Paap) rappresenta una parabola multisfaccettata dal forte carattere filosofico, secondo la classica concezione detroitiana i cui dogmi erano già nei Cybotron: come vedrete nell’intervista a seguire, il rapporto uomo-macchina e la somatizzazione del progresso industriale resta sempre il midollo del pensiero techno, europeo o americano che sia, e dona ai protagonisti una benefica inclinazione a sperimentare, capace di mettere tutto in discussione 9


ogni volta che se ne sente il bisogno. Nella mezz’ora passata al telefono Speedy non ha provato a nascondere quell’aria da sacerdote che si porta dietro, con naturale sicurezza di sé ha parlato con noi di origini, sfumature, tipi di pubblico, modalità di produzione e di come tutto questo si sia configurato in vent’anni di storia. È stato il suo modo di farci sentire l’odore dei tempi che furono, fornendoci una preziosa contestualizzazione della scena nordeuropea e del suo rapporto con USA e UK. Non senza una punta di risentimento verso chi, in Italia, l’aveva accusato di essere prevalentemente un inseguitore di trend. Faccia a faccia con uno degli artefici dell’Europa notturna di oggi. Da leggere tutto d’un fiato. È un piacere avere con noi uno dei primi produttori che hanno portato avanti la techno nella scena olandese ed europea. Parlaci un po’ di quegli anni: che tipo di musica stava facendo presa in Europa? Quanto era lontata Detroit, quanto era vicina l’Inghilterra? Quando ho cominciato a far musica era il 1989-1990, lavoravo in una stazione radio e techno ed house non erano ancora esplose in Europa. È stato in quel periodo che sono entrato in contatto con le release delle prime Detroit e Chicago importate dagli Stati Uniti, e ne sono rimasto affascinato fin da subito. Era materiale completamente diverso da quello che andava in Europa fino a quel momento. Ho iniziato a mandarlo in radio e a fare acquisti dalle etichette d’oltreoceano, le cose sono nate così. Inizialmente la maggiore influenza era Chicago. E a quei tempi non c’era nemmeno una distinzione netta tra house e techno, erano entrambe un’unica cosa rispetto a tutti gli altri generi. Semplicemente, era la musica che identificava gli USA, ed ha iniziato ad aumentare la popolarità intorno al 1991, quando prese piede nei club. Chicago, Detroit e qualcosa da New York, era quello il materiale caldo del momento. Eppure anche il Regno Unito iniziava a farsi sentire in quel periodo. C’erano già gli Orbital, no? Quel fermento non arrivava in centro Europa? Non solo gli Orbital, nel ‘91 era già uscita anche la ble-

“La techno è sempre un rapporto tra l’uomo e la macchina, dove il primo cerca di esplodere l’intero range di possibilità espressive della seconda.” 10

ep’n’bass di LFO, Tricky Disco, ecc. Le mie primissime release però erano intorno al 1990. La scena UK era arrivata un po’ dopo, tieni conto che la roba USA è iniziata a circolare intorno all’88, ‘89. Quando la Warp ha iniziato a fare sul serio eravamo nei 90s e la cosa si andava diffondendo già in tutta Europa, in Germania, in Olanda, ecc. Con la Warp sono entrato in contatto piuttosto presto, è stata la prima a riconoscere ufficialmente chi stava producendo pezzi dance per il dancefloor, quindi techno/ house, ma anche le produzioni più d’ascolto, quindi la serie Artificial Intelligence più orientata all’home listening. All’inizio la chiamavano “arm chair techno” eheh, techno da poltrona, quindi Aphex Twin, il primo Richie Hawtin, Autechre, ecc. È stato il mezzo con cui la musica elettronica ha iniziato a raggiungere un pubblico più ampio di quello dei club. Anche chi ascoltava pop ha iniziato ad appassionarsi. Se ho iniziato a lavorare fin da subito sugli album, il merito è della Warp. E tu sei stato uno dei pochi che ha saputo interpretare entrambe le forme techno di allora, dall’IDM ai rave. Com’erano percepite a quei tempi, quale delle due faceva più presa sul pubblico? Sai, come artista devo dire che non vedo le due cose così differenti tra loro. In fondo ci vedo le stesse intenzioni. La musica elettronica, in ogni sua forma, è di fatto un modo astratto di raccontare una storia. Qualcosa di indefinito, che l’ascoltatore può interpretare in diversi modi. Possono esserci dietro schemi e orientamenti opposti, ma alla fine il processo è lo stesso: tu immagini qualcosa e cerchi di rappresentarlo nella maniera più lucida possibile. Però certo, sono consapevole che il tipo di pubblico è completamente differente. E anche il contesto, la techno da dancefloor va ascoltata nei club e non a casa, è una cosa fisica, devi sentire i bassi nello stomaco, lo sai no? [ride] E questo chi fa una traccia techno lo sa, e si comporta di conseguenza. D’altro canto, la ambient techno ha più a che fare con le atmosfere, puoi ascoltarla in contesti più numerosi, da solo, con gli amici. È difficile dire quale sia stata la musica di maggiore impatto sul pubblico, sono cose difficilmente paragonabili. Secondo te come mai le forme techno più dure di sempre sono venute fuori proprio nelle scene olandesi e belga? Penso anche a tracce tue come Pullover, Something For Your Mind e Ni Go Snix, che daranno un’idea ai nostri lettori. Come mai proprio in Nord Europa? Sai, il Belgio e l’Olanda sono due paesi molto freddi e piovosi. Aree industriali dove il clima ti forza a passare molto tempo al chiuso. La città da cui provengo, Rotterdam, è esattamente così, e non è un caso che tutta la musica prodotta lì è particolarmente aggressiva. Se in


“L’ispirazione è come un innesco, una scintilla.” contesti culturali e ambientali come questi passi, come capitava a me, intere giornate in studio, ti viene naturale quel tipo di musica. Non saprei spiegarlo altrimenti. Industralizzazione e clima. Un po’ come Detroit agli albori della techno. È vero. Sono elementi dal grosso impatto nella testa dei produttori. Tu negli anni ti sei mosso musicalmente in diverse direzioni, dalle sperimentazioni industriali di Public Energy No. 1 alla techno percussiva di Loudboxer. Cosa ti spingeva a cambiare costantemente? Sai com’è, dedico ogni ora del giorno alla musica, a suonarla, ascoltarla e produrla. Per me la variazione stilistica è una forma di sopravvivenza. Per altri, che magari ascoltano la musica in certi momenti del giorno o quando vanno ai club, è più facile concentrarsi su un solo tipo di suono, ma per me significherebbe scadere nella totale monotonia di vita. Ho bisogno di scorrere l’intero spettro disponibile, o morirei di noia. Se passassi 24 ore su 24 a comporre e ascoltare sempre la stessa techno, andrei di matto, garantito. È la varietà, e la costante scoperta di nuovi generi, che mi tiene musicalmente in vita. Qualcuno in Italia ha detto di te che per gran parte della tua carriera hai semplicemente provato a se-

guire i trend del momento, prima Aphex Twin, poi Jeff Mills, e così via. Cosa rispondi a questa affermazione? Rispondo dicendo che quasi sempre è stato l’opposto, sono andato contro il trend naturale. C’erano momenti in cui sarebbe stato molto più facile (e redditizio) proseguire nella stessa direzione intrapresa dalle mie ultime uscite, anche perché era quello che avrebbe voluto il mio pubblico, e invece ho voluto cambiare rotta. Nei primi ‘90, quando sono uscite Pullover e Something For Your Mind, tutti si aspettavano da me un album di quel tipo. E invece l’album Warp è stato completamente diverso. Non ho mai voluto essere riconosciuto solo per un certo tipo di musica. Quando la techno stava vivendo il suo momento di apice in Europa, io facevo roba industrial, broken beat, cose differenti. Io direi che la mia carriera è andata continuamente contro i trend, e non il contrario. Anzi, ero sempre in anticipo o in ritardo eheh, sempre disallineato con le mode del momento. Non dev’essere facile mantenersi sempre ad alti livelli per vent’anni. Come alimenti la tua ispirazione? L’ispirazione è una cosa che viene dalla vita in generale, dalle cose con cui entri in contatto. La gente, l’arte, i film, le idee degli altri. Ma non dalla musica degli altri, perché l’ispirazione deve venire da dentro. L’ispirazione è come un innesco, una scintilla. Può venire dalle idee di altri in discipline completamente diverse, ma non ti spinge a fare le stesse cose. È uno stimolo personale, e nel tempo è sempre stato così. Negli anni ho sempre fatto la musica che sentivo più mia. In certi casi

11


era anche quella che voleva il mio pubblico, in altri era qualcosa di cui ero più orgoglioso ma che magari non riceveva grosso successo. Fa parte del gioco. Recentemente con Untold abbiam parlato di una “new wave of techno”, un gruppo di giovani producers che, per esigenze di inventiva, si vanno spostando verso la bass music per club. Potevano scegliere il dubstep, i beats, ma hanno sposato la techno. Dopo 30 anni, è ancora la techno il vero leader delle produzioni intellettuali? La techno negli anni ha avuto diverse derive, ma il cuore è rimasto lo stesso. È sempre il modello base di musica elettronica dance. La cosa che è cambiata nel tempo è chi la seguiva, invece. Nei suoi momenti migliori c’era la fila di producer che volevano far techno, poi le cose si sono uniformate e son diventate più noiose, poi sono arrivate ancora nuove idee, e così via. E sarà ancora così per molto tempo, le nuove generazioni daranno nuove idee e ci sarà sempre uno spazio importante per la techno. C’è qualcuno tra i talenti emergenti che ti piace particolarmente? Difficile far nomi, perché ultimamente il modo di entrare in contatto con la musica è diventato estremamente caotico. Ascolto musica tramite Skype, Soundcloud, la compro, mi arrivano un sacco di promo.. va a finire che raccolgo vagonate di tracce, molte finiscono anche nei miei dj-set ma magari non so nemmeno da dove provengono eheh. Uno che apprezzo molto e con cui sto lavorando in questo periodo è Lucy, Luca Mortellaro. Un ragazzo di grande talento. Con la serie di Electric Deluxe Podcast poi, cerchiamo sempre di approfondire i nomi di punta della nuova generazione. Lunedì scorso ad esempio abbiam pubblicato il podcast degli AnD, un interessante duo UK hard techno. Di nomi interessanti ce ne son molti, siamo sempre in caccia. Che differenze noti nel far techno oggi, rispetto a una volta? Non molte in realtà. A cambiare sono soprattutto gli strumenti. Ora sono più economici e capaci di fare più cose, al giorno d’oggi con un laptop puoi fare pratica-

12

mente tutto. Il processo creativo però in fondo è rimasto lo stesso. La techno è sempre un rapporto tra l’uomo e la macchina, dove il primo cerca di esplodere l’intero range di possibilità espressive della seconda. Tutta la musica elettronica può essere intesa in questo modo: l’incontro tra quel che c’è nella testa dell’uomo e quel che la macchina è in grado di fare. Visione romantica e filosofica, molto interessante. Eheh grazie. Allora dicci, che dj-set dobbiamo aspettarci venerdì a Firenze? Mmm, non sono un tipo che programma in anticipo il djset, vado molto di improvvisazione. Prima di cominciare so al massimo le primissime tracce che metterò, ma poi le cose possono andare in mille modi. Il mio background è più quello del producer che del performer, quindi anche quando sono alla consolle tendo a far cambiare le cose, evitando di proseguire sempre nella stessa direzione. Dovrebbe essere un approccio che paga. L’improvvisazione è il modo migliore per rispondere a quel che può volere il pubblico in ogni momento, percepire i suoi bisogni pezzo dopo pezzo. Esatto. Ed è anche un modo per mettermi alla prova, per inserire qualcosa di inaspettato durante la serata. Mi creo man mano le situazioni di cui ho bisogno, quelle in cui si va fuori controllo e quelle in cui si passa a qualcosa di spiazzante. Questo rende la performance più interessante, sia per me che per il pubblico. Richiede molto impegno, ma è un approccio più soddisfacente. Hai qualcosa in mente per le tue prossime produzioni, qualcosa in particolare su cui sperimentare? Sì, sto lavorando a molto nuovo materiale. Ho coinvolto alcuni ragazzi esperti per usare degli strumenti personalizzati. Sto cercando un suono ben preciso e stavolta voglio ottenerlo alla radice, prima della fase di recording. Ci sto lavorando con entusiasmo, in modo da rilasciare le prime cose l’anno prossimo. Bene, rimarremo in attesa allora.Grazie Jochem, alla prossima! Ci vediamo venerdì, ciao!


sentireascoltare.com 13


14


TOY Fuori dal teatro degli Horrors La storia dietro ad uno dei gruppi rivelazione del 2012. Tutto è nato per gioco. Ce lo raccontano Maxim e Charlie terminato il concerto in quel del Teatro dell’Arte alla Triennale di Milano.

testo: Riccardo Zagaglia

Il pubblico in fila per prendere i bliglietti per la data milanese dei TOY è assolutamente eterogeneo e si ha l’impressione che in molti siano lì più che altro per far presenza alla Triennale di Milano tanto che non mancano commenti del tipo “ma tu li conosci gli Strokes?”, “uh guarda ci sono ragazzi vestiti un po’ anni ‘70”, “ma vanno ancora di moda i capelloni?”. Il contrasto è sicuramente forte: far suonare una band come i TOY all’interno di un teatro con il pubblico seduto (esclusi tre o quattro danzerecci e attempati figuri) è una scommessa, sia a livello di impatto sia a livello di resa. La band presenta in lungo e in largo l’omonimo album di debutto, rimanendo piuttosto fedeli al disco, uscendo dai binari solo in un paio di occasioni. Come si diceva in fase di recensione, il gruppo di Tom Dougall deve ancora crescere a livello compositivo e live questo aspetto è ancora più evidente: quando partono per lunghi viaggi sonici guidati dal Korg riescono a tenere il palco in modo egregio, un po’ meno quando la voce di Tom deve disegnare melodie con i pochi mezzi vocali di cui dispone. Poco male, nell’insieme l’esperimento si

può ritenere più che riuscito e la maschera ultra sessantente, che una volta terminato il concerto intona la coda della conclusiva Kopter ne è la dimostrazione. Nei camerini ci attendono, imitando dei canti gregoriani, il bassista Maxim “Panda” Barron e il batterista Charlie Salvidge. I due, privi dell’aura carismatica da palco, sembrano semplicemente dua ragazzi appena usciti dalle scuole superiori. Brevemente, come è nata la vostra band? Maxim: La band è nata circa 2 anni fa ma eravamo già amici da molto tempo. Abbiamo incontrato Charlie nella nostra città d’origine, Brighton, poi ci siamo trasferiti a Londra e sai, uscivamo insieme, ascoltavamo la stessa musica e a un certo punto abbiamo pensato che volevamo formare una band. Perchè avete scelto il nome TOY? - Charlie: Beh, una nostra amica aveva una vecchia scatola di giocattoli (victorian toy box) ed è da lì che abbiamo preso il logo. Era una scritta dipinta a mano in stile un pò vittoriano e circense, il nome ci piaceva, quindi...- Maxim: sì, la nostra musica è come un esperimento e ci divertia15


mo molto a suonarla, ci piace scherzare e giocare con la musica, quindi è come un gioco per noi. C’è stato un momento un cui vi siete resi conto di avere più riflettori addosso di quanto vi potevate immaginare? - Maxim: Mmh.. credo proprio questa sera! C’erano molti più riflettori, veri riflettori (mimando le luci sul palco) di quanto pensassimo, troppe! (ridono)- Charlie: Per noi questa sera è stata molto inusuale perchè la maggior parte dei concerti di questo tour erano in piccoli club, per noi questo posto era molto più grande di ciò a cui siamo abituati, e c’era davvero tanta gente!- Maxim: sì penso sia la prima volta che realizziamo di piacere davvero alla gente, non ce lo saremmo mai aspettato. A parte gli scherzi, abbiamo iniziato solo per divertimento: ll nostro primissimo concerto l’abbiamo fatto nel locale di un nostro amico, il Cave Club a Londra. Da quel concerto abbiamo suonato ogni settimana per 4 settimane e ogni volta era sold out, le persone non riuscivano ad entrare, probabilmente in quel periodo ci siamo resi conto che le persone apprezzavano. Avete suonato o avete in programma di suonare a qualche festival prossimamente (es. Primavera Sound)? - Maxim: Abbiamo suonato solo a qualche festival inglese la scorsa estate ma ancora nulla di enorme.- Charlie: forse tra poco parteciperemo al Primavera Club e perchè no, magari l’anno prossimo anche al Primavera Sound! Vi piacerebbe un giorno suonare anche nei grandi stadi o preferite comunque le piccole venue? - Maxim: no no, vogliamo suonare negli stadi! (ride)Charlie: beh forse .. (ci pensa) massì, ci piacerebbe suonare in posti molto grandi! In realtà non abbiamo preferenze, ci basta suonare. Andiamo ovunque il booking ci porti! (ride)Ovviamente nei piccoli club il contatto col pubblico è molto più vivo: ad esempio eri abbiamo suonato a Torino allo Spazio 211 e il palco non era praticamente neanche rialzato da terra, gli spettatori erano davvero a meno di un metro da noi e così per noi è il massimo. Anche spazi come quello di questa sera sono incredibili, ma non migliori o peggiori: semplicemente diversi. Se doveste scegliere tra Velvet Underground & Nico, Loveless dei My Bloody Valentine e Marquee Moon dei Television, quale salvereste? - Maxim: Velvet Underground.- Charlie: Velvet Underground, sicuramente.- Maxim: gli altri forse ti direbbero cose diverse (...ci ripensa). Anzi no, probabilmente diremmo tutti la stessa cosa. Amiamo tantissimo anche gli altri 2 album ma i Velvet Underground sono in assoluto il nostro preferiti. Senza discussione. 16

Immagino ve lo chiedano spesso ma se doveste scegliere un solo termine per etichettare la vostra musica, quale tra krautrock, psychedelic rock, postpunk e indie rock? Oppure, avete coniato una vostra parola per auto-definirvi? - Maxim: in realtà non ce l’hanno chiesto tanto spesso e sinceramente non ci abbiamo mai pensato. A volte ci chiedono qualcosa sul krautrock...- Charlie: vero, ma non potremmo mai essre krautrock, non siamo tedeschi (ride).- Maxim: sì, in realtà non ci piace etichettarci perchè penso che quando si parla di noi sia più importante parlare delle sensazioni che si provano ascoltandoci piuttosto che di un genere o di etichette. Ma se doveste coniare un nuovo termine per etichettarvi, quale sarebbe? - Maxim: dream-punk! (ride) L’aggregatore d’opinioni musicali Rate Your Music lo conoscete? - Maxim e Charlie: no Su questo sito alla voce “Popular In” nel vostro caso attualmente è presente solamente la bandiera italiana, sicuramente è solo un caso, ma avete riscontrato questa cosa anche di persona? Pensate di essere seguiti più in Italia che altrove? - Maxim: beh in realtà no, cioè sì in questo giorni ce ne siamo accorti dall’ottimo riscontro di pubblico, però non sappiamo se qui in Italia siamo davvero più popolari che in altri paesi... penso che lo scopriremo durante il tour e man mano che l’album circolerà un pò per tutti i paesi. Spesso a fianco a quello dei TOY si tira fuori il nome degli Horrors, vi dà fastidio? - Maxim: No, assolutamente. Loro sono praticamente i nostri migliori amici, li abbiamo conosciuti quando ci siamo trasferiti a Londra e da allora usciamo e ascoltiamo musica insieme da anni, a volte passiam anche 3 giorni di fila sempre insieme quindi ecco... se la nostra musica viene associata alla loro è solo perchè abbiamo le stesse più o meno le influenze. Io ho suonato anche con uno dei membri degli Horrors in un altro progetto (NdR nei Cat’s Eyes). Anzi, ora che ricordo abbiamo suonato anche qui a Milano!- Charlie: sì non è una cosa cercata, non vogliamo provare ad essere come loro, è così perchè passiamo molto tempo insieme e condividiamo tra di noi molte cose. Certo, capiamo che alla fine comunque possa essere utile associarci ad un’ altra band in modo tale che le persone capiscano più facilmente se sono interessate o meno ad ascoltarci. C’è un aspetto in particolare che pensiate possa differenziarvi da loro? - Charlie: loro sono più professionali! (ride)- Maxim: e noi beviamo molto di più!


Beh, se non vi ritenete ancora professionali, lo diventerete presto, no? - Maxim & Charlie: mmh no, non credo (ridono). Molte delle vostre influenze sembrano appartenenre al passato più remoto, tra gli artisti che ascoltate e a cui vi ispirate ce n’è anche qualcuno di recente? Dato che ci piace stilare le nostre album charts, quali sono i vostri top album del 2012? - Maxim: di artisti contemporanei mi piace, ma penso di parlare un po’ per tutti, tantissimo Ariel Pink, insomma quello che fa lui è qualcosa di assolutamente fuori dal mondo e ci fa impazzire. Di album che mi hanno appassionato ultimamente direi l’ultimo di Connan Mockasin e l’album (anche se non è di quest’anno forse) di questa ragazza che adesso sta in Germania, si chiama Emika. Poi consigliamo veramente tanto i Charlie Boyer & The Voyers, hanno suonato con noi e sono amici, auguriamo a loro una grande carriera perchè se lo meritano. Ascoltateli e non ve ne pentirete! Ah, dimenticavo, anche i Tame Impala ci piacciono molto, forse preferivo il primo album ma l’ultimo album ha tutte le caratteristiche dei grandi dischi.- Charlie: Sì i Tame Impala ci sono piaciuti da subito. Pensa che in Australia una volta ci regalarono il loro primissimo EP quando ancora non era ufficialmente in vendita, l’abbiamo messo su e abbiamo iniziato a ballare, ci prendeva proprio! Inutile negarlo, abbiamo un debole

per la psichedelia, poi Kevin Parker è veramente un genio. Per NME è il disco dell’anno... - Charlie: sì, ma quello è perchè sono cool, a noi piacciono per davvero!- Maxim: Giusto, e ci piace anche Melody’s Echo Chamber, che poi è la ragazza di Kevin. Anche il suo è tra gli album dell’anno, a volte mi viene in mente Trish Keenan dei Broadcast. Siete in tour da tempo, state già scrivendo materiale per il secondo album? Sapete dirci qualcosa di più? - Charlie: in effetti sì, abbiamo già praticamente tutto il materiale pronto.- Maxim: adesso siamo in tour da parecchi mesi ma appena torneremo a Londra, tipo a gennaio, ci metteremo a registrare con la stessa persona che ha seguito la registrazione del primo album. Probabilmente verso Agosto/Settembre del prossimo anno uscirà.- Maxim: Quando registriamo ci piace che il risultato sia immediato, non troppo costruito. Vogliamo tenere buono il primo o al massimo il secondo take. Per il primo album ci abbiamo messo solo 10 giorni!- Charlie: e per il prossimo ce ne metteremo 9! (ride) E quello dopo 8, poi 7...! In che modo si differenzierà dal debutto? Charlie: beh, non sarà proprio diverso, sarà più che altro un’ evoluzione di questo, ma è ancora presto per inquadrarlo. (Special thanks: Eugenia Angelini)

17


Amari Non solo kilometri Testo: Nino Ciglio 18


La storia di una delle più influenti band italiane alla luce di un disco che ne racchiude l’essenza girovaga con un tono di maturità.

P r ova a sp iegare l a provin cia a chi sta i n A f rica

© fabio cussigh

“La prima l’immagine che ho di quei tempi è sempre Dario che arriva in treno con uno zaino e una drum machine dentro, indossando un K-Way enorme per coprire entrambi, una versione nerd dello spot della Barilla col gattino che viene salvato dalla bambina. Difficile uscisse qualcosa di più allegro di canzoni come “Spleen” o “La cupezza” o che scegliessimo di chiamarci “Gioia Gioia” in quegli anni”. Tutto ha inizio ad Est, in quello che un tempo qualcuno definiva Nerd Est. Nella provincia friulana, Dario e Davide fanno strani graffiti sui muri e hanno piccole ambizioni hip hop, come chiunque in quegli anni (primi Novanta) cresca poco fuori dagli epicentri culturali d’Italia. Un mondo di brina e di giubottoni larghi, di condensa e di vin brulè, di hard rock mescolato in discoteca, dei figli della generazione di Mtv. Eppure da lì si muove già qualcosa che la scena hip hop (e non solo) sdoganerà. In questo sfondo di provincia, i nostri si accompagnano a malapena con un Atari perché il buon monotraccia non gratifica più di tanto. Schiacci play e ti senti qualcuno. Chiaro, vuoi evadere, chiaro sei stanco della provincia, ma “prova a spiegare la provincia a chi sta in Africa”! Non c’è molto che il mondo esterno fornisca cosicché spunta, fin dalla preistoria del gruppo, quel tratto di autocitazionismo e autoreferenzialità che lo ha portato dove è oggi. In stretto legame con l’indole sbagliata, sbarazzina, sghemba, che è la prima cosa che contraddistingue questi proto-Amari, ancora senza nome, ma già stufi di andare ai concerti “e sorbirsi la serietà delle band tutte chine sul loro strumento e apparentemente annoiate dalla loro stessa musica”. Non ci stupiamo quindi, se, prima ancora di passare da Arezzo Wave, Mtv e Bbc, il loro primo demo si intitola Autoprodotti come Dio (sic). Succede che arriviamo al 1999 e dall’altra parte della strada, a Gorizia, militano i 21, nei quali si farà conoscere il dj producer Giuann Shadai. Con loro i Nostri danno vita al progetto (ancora anonimo) di Contingente, “Hip Hop (pur sempre a modo nostro) e fieramente Nord Est, con le nostre prime gite fuori 19


porta, rigorosamente in treno, «col microfono nella cartella» come diceva Neffa, destinazione centri sociali sperduti nella campagna veneta”. La voce si sparge e le ambizioni si fanno più corpose. I viaggi in treno diventano frequenti e gli Amari si fanno in quattro per presenziare agli eventi più cool della scena (Matchmusic, il movimento riminese, Nightwave, ecc.), “quanto mai chiusa, certo, nei canoni di un genere prestabilito che a noi stava stretto”. Ne passerà di tempo per avere una definizione più precisa di questa spinta centrifuga dagli stilemi più claustrofobici dell’hip hop verso lidi di una fruibilità più massificata, ma è importante sottolineare fin da subito che il processo ha origine già in questo periodo. In un periodo in cui gli Amari diventano Amari sui treni, perché il Nord Est è un posto d’accoglienza musicale solo nella misura in cui ci si può muovere da una città all’altra, da un festival all’altro, creando una rete di rapporti che risulteranno utili, magari, in seguito. Tanto più se consideriamo che il rapporto fra i due motori pulsanti della creatività amara, Dario e Davide, è un rapporto a distanza. Dal 1997 Dario studia a Bologna e scopre “gli eroi della strada: fattoni, barboni, casa della dello studente”; scopre la città che pullula di vitalità e decadenza, di sbarbinismo allo stato brado e fattonaggio d’assalto. Un’esperienza che segna in modo indelebile la vena creativa di Dario, che negli ultimi anni della sua permanenza ha il tempo di diventare resident del Covo Club (ahi!) e di dar vita al progetto Peluche, quasi speculare all’esperienza del Pasta e Luka Carnifull che fin dal ‘99 portavano in giro il progetto Fare Soldi. Davide resta “a Udine a far un corso di grafica (siamo nel 1998). Io tengo i rapporti fra lui [Dario, ndr] (con me nei primi Amari a due teste) e i ragazzi di Gorizia (i 21) che con noi coabitano il progetto Contingente. Non esiste internet e non esistono i telefoni cellulari, Dio solo sa come abbiamo fatto a non mandarci a quel paese in un mese. Tanti treni, tante “macchinate” in modalità carro bestiame, tanti spostamenti, che alla fine anche quando non ne hai voglia entrano a far parte del tuo stesso essere”. I due, infatti, sono terribilmente divisi (sebbene i tentativi di

20


seguire Dario siano frequenti per il Pasta) da quelle tre ore e trentotto minuti di treno, che servono a fargli maturare coscienze differenti: a partire dall’immaginario retroattivo di Bologna, tanto diverso eppure ancora incapace di perfezionare quello stacco post-adolescenziale per il quale si dovrà aspettare tanto tempo. Dariella e Pasta, divisi da esperienze disgiunte, l’uno radicato in città sempre nuove (è nato a Roma, poi Bologna, Milano), l’altro rimasto al buon paesello, faranno sentire questa duplice personalità nell’essere da un lato costantemente tesi ad una saggezza primaria, da “buone nonne” (“Ti ci voleva la guerra”, avrebbero detto poi) che si fa uso nella società massificata della metropoli; dall’altro costantemente indecisi, riottosi, come solo gli adolescenti sanno essere. Gli Amari saranno (almeno fino a Kilometri, ma ai posteri l’ardua sentenza..) i Peter Pan della musica italiana, la voce dell’adolescenza imperitura, vissuta fra videogames e fughe da scuola, senza risparmiarsi mai lo spazio giusto per la riflessione amara, appunto. Così, all’inizio, si gioca al crossover, in pieno stile anni Novanta. Dalle corde basse della band in cui Dario voleva fare il Jonathan Davis della situazione, spunta fuori il terzo elemento costituente: Cero. L’occasione è ghiotta per aggiustare il tiro. Le band di solito fanno così: concorsi su concorsi, rifiuti su rifiuti, alla fine - diceva quello - uno su mille ce la fa. Arezzo Wave chiama e gli Amari rispondono, passando con un balzo dalla precarietà di provincia ai grandi palchi. E, quello di Arezzo, al tempo (2000) è un grande palco. Lo sentiamo, allora, anche dalle loro parole: “È un peccato che questo festival sia stato assassinato in quella maniera. Oltre all’esposizione che il festival forniva alle band emergenti, era soprattutto l’unico evento musicale italiano che metteva artisti, giornalisti e promoter spalla a spalla. Era bello perché poi nella quotidianità imparavi veramente tante cose sul panorama musicale italiano e soprattutto come funzionano le cose sopra e sotto un palco importante”. Prospettiva che gli Amari si ricorderanno qualche anno dopo, ai tempi di Apotheke. La genesi della Riotmaker (l’etichetta da loro fondata e che li accompagna tutt’ora), dunque, è da collocarsi in quest’ottica: Davide (ormai ufficialmente diventato il Pasta) si scontra con l’estro di Luka Carnifull (Fare Soldi è il Frisco Disco della djtudine italiana) e, nel marasma dello spleen tardo adolescenziale, delle contaminazioni Hip Hop, progressive, post rock, italo disco - che saranno proprie di band che passeranno sotto queste effige come Ex - Otago e Scuola Furano - le idee costituenti prendono forma, contribuendo così a istituzionalizzare una delle indie label più influenti e longeve del nostro territorio. Non è un caso che la commistione dei generi (“wrong way to pop” era l’inno nazionale di allora come di oggi), il rifiuto netto degli intellettualismi indie (parola che già si avvicinava ad essere parolaccia) in prospettiva dissacrante, sarà la base da cui partiranno decine di band future, avendo alle spalle l’autorevole nulla osta della Riotmaker (che, non dimentichiamocelo, nel 2007 passerà a distribuzione Warner). Ne nasce Corporali (2000), in cui “lo strappo netto con la scena hip hop” si fa tangibile. Vuoi perché gli Amari “prendono dentro un bassista infottato con i Red Hot Chili Peppers”, vuoi perché gli ascolti cominciano ad ampliarsi ad altri generi (“impazziscono per Dj Shadow e i Radiohead”) o perché i due ex adolescenti intravvedono prospettive di contaminazioni estetiche nelle letture di Ballard e Burroughs, ma tant’è che la seconda prova della band girovaga suona come una miscela elettronica di post-rock, un sapore acidulo di sperimentazione. Chiaro, il fronte di ricerca sul suono, connesso all’autoreferenzialità delle parti rappate o cantate, resta di gran lunga dominante (e lo sarà 21


fino a Gamera), ma il gruppo friulano si accorge del potere indiscusso della creazione estetica, che smette di avere a che vedere solo ed esclusivamente con la musica stricto sensu e si allarga alle potenzialità dell’immagine: è l’inizio del mondo delle spillette, delle magliettine, dei video semi-demenziali, della sublimazione della prospettiva amara (appunto) della vita, vissuta sempre col sorriso sulle labbra. Come non aspettarsi una facile presa su un pubblico (magari principalmente di fascia giovanile) che in quegli anni vedeva ridisegnarsi i canoni musicali (e sociali) dalle verità-velleità dell’hip hop? Passa per di qui l’esperienza di Città di Castello in Umbria “lo studio dove abbiamo registrato la maggior parte dei dischi. Qualche tempo fa abbiamo calcolato che negli ultimi 10 anni ne abbiamo (sebbene a botte di due tre settimane) trascorsi quasi due in quell’amabile borgo medioevale pieno di energia”. I kilometri degli Amari si fanno pesanti, i luoghi della loro vita numerosi, “il tutto tentando di farsi contaminare dai posti che stai frequentando”. A questo punto la svolta di Apotheke (2002) ci lascia un po’ spiazzati, soprattutto nell’ottica postuma di noi ascoltatori che conosciamo lo sperimentalismo assoluto di Gamera e le strade che intraprenderanno i nostri. Perché Apotheke suona paradossalmente e parzialmente più pop del suo successore? La risposta è presto detta. Apotheke è il disco fortemente voluto dallo 22


staff di Arezzo Wave e che rimane fuori dalla discografia Riotmaker, perché Ondanomala ne prende la produzione, affidando ai giovani musicisti, vergini da esperienze di studio professionale, produttore, fonico e quant’altro. Non si può certo pensare che una prospettiva di audience più vasta non intrigasse i quattro Amari, allettati dalle possibilità di arrivare alle orecchie di un po’ tutti gli italiani. Naturalmente sarà il gusto stilistico a risentirne di più. Commenta il Pasta: “cos’è questo senso di colpa che sento sulla nuca? Ah è la musica pop? Vuoi vedere che mi ci prendo bene?”. La risposta, se volete scontata, è il rimpianto di aver ceduto un po’ troppo alla commercializzazione. La storia degli Amari, in fondo, è fatta di bivi, “due passi in avanti ed un piede indietro”: arrivano a un punto di ricerca totale, in cui l’empasse fra liriche visionarie e sub-reali e sonorità al limite dell’ascoltabile è supremo e poi rimescolano subito le carte in tavola, a rivalutare tutto: “E se avessimo fatto così?”. Ce ne accorgiamo noi a posteriori, ma lo sanno bene anche loro quando al “primo occhiolino pop di Apotheke”, ne nasce il rifiuto di Gamera (2004). “Mamma mamma il pop è cattivo, mi ha sedotto e abbandonato, io voglio solo fare casino, ascoltare i miei dischi incensati dalla stampa e fottermene”. Gamera, forse il disco più macchinoso degli Amari, trova concreta contestualizzazione se visto in questa prospettiva. Dal bivio verso il pop, la spunta ancora una volta e ancora per poco, l’hip. Le fascinazioni del pop. Nel 2005 manca solo una cosa agli Amari: l’acclamazione di popolo. Hanno tutto: una band rodata, centinaia di live, il benestare della critica, l’indole beffarda, una piccola schiera di band che comincia a imitarli, la faccia tosta di sentirsi a proprio agio in tutte le interviste, un’etichetta ben radicata. Ma il loro mood ha solo sfiorato le grandi masse. Pochi sono stati (nonostante video indimenticabili come quello di Megamedio) i passaggi radiofonici e televisivi, troppo acerbi e grovigliosi i loro testi per diventare inni generazionali. Nel 2005, dunque, il nuovo bivio li porta a sfiorare l’equilibrio perfetto. Equilibrio probabilmente dovuto al giusto dosaggio della vena creativa di Dario e Pasta: “non ne abbiamo mai fatto mistero: Pasta è l’uomo delle frasi a effetto, dalle quali io [Dariella, ndr] ricamo il tessuto compositivo”. Ecco come nasce una canzone degli Amari, destinata ad essere canticchiata da tutti, un inno generazionale. “Le rivoluzioni pensate sul divano”, “conoscere gente sul treno può essere meglio che stringere la mano a chi non si perde con facilità..”, “se solo sapessi camminare sulle punte” e moltissimi altri sono gli epigrammi trans-storici che faranno di Grand Master Mogol (2005) il disco degli Amari per eccellenza. Buttato meno di getto, più meditato, più mediato rispetto a Gamera, il masterpiece degli Amari aggiungerà il tassello definitivo alla loro carriera che nel frattempo sta per compiere il suo primo decennio. Fin dal titolo appare chiaro che le fascinazioni del pop hanno avuto la meglio: la band ha incontrato il grande maestro e paroliere Mogol sulla via di Damasco, ha fatto collidere i Casino Royale con Samuele Bersani, ha fatto pace con la nostra tradizione, riunendola sotto l’egida del revivalismo anni Ottanta, che da lì a pochi anni (eh sì, precursori anche in questo..) avrebbe spopolato. Due le cose che ci interessano nella linea che stiamo seguendo: uno, la band comincia a guardarsi indietro, sente che la maturità preme e inizia a rielaborare la propria storia in prospettiva universale; due, l’inevitabile processo di avvicinamento a un territorio più - per usare una brutta parola - mainstream. Per quanto riguarda il primo punto è abbastanza chiaro il fatto che una 23


band diventi adulta quando è capace di guardare le proprie esperienze in prospettiva universale: “quello che conosce gente sul treno è palesemente Dario sull’intercity Mestre / Bologna”, così come da lì a poco “Il bullo in stazione (di Gite fuori porta, ndr) sono io al cambio di Mestre”. Anche se tutto è apparentemente legato alle contingenze psico-geografiche e sociali dello sfondo in cui il disco è ambientato (la rivoluzione è quella della Bolognina, mica altro..), anche se gli Amari riescono per la prima (e forse ultima?) volta a rendere il proprio mondo di autoreferenzialità e auto citazionismo comprensibile e condivisibile per l’ascoltatore medio, come una sorta di messaggio unanime e fischiettabile in qualsiasi contesto, non ci si può certo mettere i paraocchi e non notare quanto lavoro su se stessi (sul suono, sull’immagine, sulle liriche) sia stato fatto. Il che ci lega inevitabilmente al secondo punto. Era nell’aria, ma con Grand Master Mogol e Scimmie d’amore si fa tangibile. Gli Amari hanno nel DNA quell’indole estrosa, quella noncuranza delle buone abitudini “indie”, che li ha portati lentamente ad allontanarsi dallo sfondo cupo e auto-commiserante dell’indie italiano, avvicinandoli piuttosto da una parte alle esperienze dei big rapper americani (Kanye West, Jay-Z et similia), dall’altra all’esperienza luccicante della televisione. Per farla brevissima: difficilmente un fan degli Afterhours potrebbe trovare interessanti gli Amari, mentre magari il pischello in fotta con Brand New o Radio Deejay ne è più 24


affascinato. Questo perché gli Amari (che nel loro atto costituente avevano rifiutato il grigiume dell’indie rock nostrano) si trovano a coincidere con il periodo in cui anche il mondo dei grandi media comincia a scavare nel sottosuolo per ricavarne qualcosa di nuovo. Nel periodo compreso fra Grand Master Mogol (2005) e Scimmie d’amore (2007) li troviamo a Scalo 76, Mtv, Mtv-Brand New, Mtv-Your Noise, All Music e, naturalmente, tutte le riviste a stampa specializzate. Ma non sono solo i media ad andare da loro, sono anche loro a muoversi nei territori mediatici. Nel 2006/2007 Dariella lascia Bologna per Milano, dove inizialmente lavora proprio ad Mtv. Dariella è l’uomo di Milano ora; è la sua città, quella che nel 2007 ospita un concerto dei Justice ai Magazzini, che, secondo qualcuno, scuote l’atmosfera cittadina. È a un passo tutto quel mondo fatto di nomi grossi, di gente che, coetanea degli Amari, è arrivata a farsi largo nelle maglie del piccolo schermo o dei teatri o degli auditorium. È dietro l’angolo la prima edizione di X-Factor, la collaborazione di Dario con Syria, la dimestichezza autoriale che viene scoprendosi pian piano con una decina di mestieri sulle spalle e soprattutto un mucchio di kilometri trascorsi. Non c’è nulla da nascondere. Molto prima delle esperienze di Garrincha con la musica commerciale anni Novanta, prima degli incensi piombati su Max Pezzali e soci, gli Amari hanno trovato nel mondo “cazzone”, un che di edificante. Non un mondo da nascondere, a cui guardare con il sorrisetto di chi la sa più lunga, quanto piuttosto qualcosa da sdoganare, per ridere sì, ma anche per riflettere. Non solo: il mondo pop preme più forte che mai allo studio di Città di Castello, perché Leo Fresco (il produttore di casa) si sta ritagliando un piccolo spazio sui grandi palcoscenici. Di lì a poco (2008), infatti, diventerà, produttore e amico di Jovanotti da Safari in su. Gli Amari, all’altezza di Apotheke avevano sfruttato solo il recording, ma con Grand Master Mogol e (soprattutto) Scimmie d’amore, la zampa equilibrata di Fresco agisce a limitare gli eccessi. A Milano Dariella scopre la magia della “posa”, magia che ci mette poco a contagiare anche gli altri. Milano non è New York - dicevano quelli - ma tutto di Scimmie d’amore (2007) sembra nascere da lì, a partire dalle atmosfere fumose, metropolitane, nere com’è nero lo smog della città e com’è nera la copertina del disco. Sono incazzati gli Amari e non sappiamo perché. Sono dei b-boys in posa che se gli chiedessi di fare un passo di breakdance, magari non sarebbero capaci. Ma non importa perché quello che conta è avere quella faccia lì, l’occhio ben puntato sulla telecamera e lo stile polleggiato per eccellenza. Hanno la sicurezza, questi nuovi Amari, di chi ne ha passate tante per arrivare dov’è, di chi vuole fare ancora di più. “La posta in gioco è alta. Che siamo gente che non si accontenta mai s’era capito, ma ora che si fa? Si prova a rifare Grand Master Mogol più duro, più meglio, più veloce, più forte”. Sembra di sentire i Daft Punk senza caschi ma con gli occhialetti da nerd. “Scimmie d’amore è il disco sentimentale degli amari, nato da cocenti delusioni d’amore, di lavoro, di cambiamenti”: vengono consolidati gli obiettivi raggiunti da Grand Master Mogol, la vena compositiva arieggia sempre più di un sapore essenziale, la frase a effetto torna a essere il nucleo del brano (“in fondo ti avevo avvertito..”, “è solo un raffreddore non è sangue di naso”, “nessuno di noi avrà più camicie stirate”), il tutto coi riflettori puntati, grazie anche a un video (quello di Gite fuori porta), destinato a diventare esegesi dell’esperienza creativa degli Amari. Tutine, posa da gangsta, lotte fra crew rivali sulla scia de I Guerriglieri della Notte, solo che non ci troviamo a Coney 25


Island, ma all’idroscalo di Milano, dove decine di comparse, di amici sposano la causa degli Amari, trovandosi in perfetta sintonia: Maccio Capatonda, Diego Perrone (Caparezza), Carlo Pastore, Frankie Hi-Nrg e chi più ne ha più ne metta. Come poteva questa ragnatela di rapporti intessuti da Milano a Udine, passando per Bologna e Città di Castello, non far assaporare agli Amari il dolce gusto della notorietà? La distanza, però, in cui si trovano a operare i tre (quattro, cinque) Amari, può giocare brutti scherzi. Giunti al culmine della loro esperienza, li troviamo presi da una bulimia compositiva. Sulle strade dello stivale, fra centinaia di live, con cui si conquistano la meritata popolarità, non si fanno scrupoli e continuano a comporre. Persino a distanza, prima del 2009, secondo il metodo consolidato, si inviano files e, ognuno, nelle quattro pareti della propria cameretta, ci si scervella. Sono diventati grandi: le canzoni le vogliono far nascere dalla jam, non dalle ore passate a farsi gli occhi gonfi sul laptop. Ne nasce un disco in corsa. Un disco che butta nel calderone decine di suoni diversi, un disco di getto, che riporta nuovamente gli Amari al bivio. Troppo avevano ceduto alle campane della musica popolare, troppo si erano sforzati di sembrare la classica band adatta ai club e clubbini di tutta Italia, alle voci in coro di un vasto pubblico. “Dopo cinque anni in tour che fareste? Noi ci siamo chiusi sei mesi in una cascina in mezzo alla neve a bere thè e mangiare pandoro, suonare pensando solo a suonare, quando non pensavamo anche a quanto piccolo è il nostro amato stivale”. Eppure, la fretta non è una buona consigliera. Perché Poweri (2009) non è un disco che fa subito presa. Sicu26


ramente non da parte della critica. “Poweri è nato con uno scopo, mostrare a tutti che alla fine, più che tre smanettoni eravamo diventati, nel corso degli anni e dei tour, una band vera: a posteriori credo che ci siamo riusciti, sebbene riascoltandolo abbia sempre in testa l’immagine di cinque bambini che in assenza della mamma, giocano a fare i cuochi in cucina pasticciando con gli ingredienti rubati dalla credenza”. E sono proprio i troppi ingredienti che non convincono l’ascoltatore erudito degli Amari, né l’appassionato delle atmosfere maudit di Grand Master Mogol, né il bimbominkia col cappellino di lato in fotta coi Club Dogo. Certo, gli Amari ritrovano la strada più congeniale alla loro vena hip-hop: l’electro funk, condito dalle partecipazioni di gente come Dargen D’Amico, che, nel frattempo, di strada in quell’ambiente ne ha fatta più di loro. Ma l’indole autoreferenziale, che tanto peso ha avuto nella loro storia perché coniugata con lo spirito del tempo, qui si plasma in modo un po’ troppo manieristico: “la frase “.. di aver fatto perdere il cielo a qualcuno”, nel ritornello di “Ho fatto un po’ di casino”, l’ho rubata ad una ragazza con cui parlavo occasionalmente in chat”, dice Dariella. A un passo dall’esperienza di autore per Sony (2011), nel 2009 Dariella è ancora indeciso se voler trascinare la propria creatività all’estero o affinare le armi che aveva sapientemente levigato fin lì. Poweri è il primo disco (se si esclude Part(y)-Time Jobs di Gamera, che, guarda caso, ricorda molto Poweri) che può enumerare diversi brani in lingua inglese. Così commentavano al tempo la cosa: “È vero che ci siamo resi conto che l’italiano nei nostri testi è sempre stato un muro, quindi ci siamo detti ‘ok, proviamo con qualche pezzo in inglese’. E pare che l’esordio sia stato positivo, perché siamo finiti su alcuni dei blog più letti nella blogosfera internazionale. Abbiamo ricevuto remix un po’ da tutto il mondo e uno di questi è anche passato alla BBC radio”. In realtà il muro è proprio la lingua inglese: rincontrandoli nel 2012, ci confesseranno: “l’inglese non è la nostra lingua; difficilmente avremmo potuto continuare a comunicare quello che volevamo comunicare”. Impossibile non vedere, in questo mutamento di prospettiva, da una parte la maturazione di Dario, che comincerà a guadagnare per scrivere canzoni, a vedere il tutto molto più professionalmente; dall’altra una sorta di pentimento per il disco del 2009, che avrebbe potuto essere in decine di modi differenti: “a volte, risentendolo, mi stupisco di come da un brano, tanti i suoni che c’erano, ne sarebbero potuti nascere almeno tre! E un po’ me ne rammarico”. Ci vuole, ancora una volta, la bacchetta magica di Leo Fresco a tenere a bada gli istinti animaleschi; ma soprattutto ci vuole una lunga pausa (la più lunga da Gamera) per rielaborare le urgenze. Chi può dire come mai siamo arrivati a questo punto? “Alla fine del tour di Poweri ci siamo presi la classica pausa da noi stessi, come molte band fanno. Ottanta kilometri al giorno per tutto il periodo di Grand Master Mogol e Scimmie d’Amore non sono bruscolini: ognuno aveva i suoi sogni personali da coltivare, chi il dj, chi l’autore, chi il produttore, chi il padre, chi il fidanzato”. Il periodo compreso tra il 2009 e il 2012 è un periodo denso di cambiamenti per gli Amari. Come già accennato, Dario inizia a lavorare per la Sony, catapultato nell’esperienza più importante della sua vita: quella di trovarsi “costretto” a fare quello che gli piace fare e che, forse, avrebbe sempre voluto fare: l’autore. Non solo brani per artisti del calibro di Syria, ma anche spot pubblicitari, colonne sonore e cose apparentemente distanti dal suo raggio d’azione. Inutile dire che porterà in Sony tutto il suo bagaglio di Amari (dalla vena ironico-malinconica alla cazzonaggine) e che, d’altra parte, una buona percentuale d’immaginario, ma soprattutto d’ispirazione 27


© monelle chiti

professionale derivata da Sony, entrerà nel nuovo materiale. Il Pasta in questi ultimi anni si è concentrato anima e cuore su Fare Soldi, facendo il dj a Los Angeles, a Parigi, a Seoul; ha prodotto in studio alcune valide band, fatto il grafico e l’illustratore. “Un bel giorno abbiamo sentito la sveglia che suonava, e ci siamo detti “proviamo a beccarci per suonare qualcosa assieme?” E siamo ripartiti da lì, Dario, Cero, Io, più che con lo scopo di scrivere canzoni, con il semplice intento di vedere se si stava ancora bene ed in sintonia come un tempo, e così, magicamente è stato. Sapevamo ancora scrivere qualcosa? Sapevamo scrivere qualcosa di rilevante? Sapevamo comunicarlo alla gente?”. Riassumendo: gli Amari hanno l’ansia di comunicare qualcosa e di arrivare (per dirla con Simona Ventura) alla gente, magari riscattando il mezzo passo falso di Poweri: “gli Amari per funzionare devono essere sul baratro, in una situazione limite. In Poweri avevamo il culo al caldo, musicalmente e sentimentalmente parlando, e questo forse influisce sulla voglia di mettersi in gioco, di mettere tutto (noi stessi in primis) in discussione che permea il nuovo materiale, il suo non avere niente da perdere. Insomma più che “mantenere la propria posizione” la regola è “spostarla sempre in avanti” 28


(che poi significa in salita)”. Cambia il metodo compositivo, infine, soprattutto per quanto riguarda le liriche, che assumeranno (vedi ancora una volta, l’esperienza con Sony) importanza assoluta nel nuovo disco. “Arriviamo dal rap, non è un segreto, ognuno scrive le proprie sedici barre, è geloso delle proprie punchlines ed amen. Negli Amari nei vari dischi, le abbiamo provate tutte: scrivere un testo e cantarlo, farlo cantare dall’altro, cantare una strofa a testa, una parola a testa, farsi i raddoppi come i Run Dmc, farsi i raddoppi come i Pooh, tutto insomma. Mancava scrivere i testi assieme, questo non l’avevamo mai fatto, o quantomeno mai con questa lucidità”. Non si tratta più di scrivere le liriche al servizio della sperimentazione musicale. Gli Amari, complici decine di revisioni e di versioni di ogni singolo brano di questo fantomatico nuovo materiale, capiscono che hanno bisogno di un impianto sonoro che sorregga, che esalti le nuove cose che hanno da dire nei loro testi: “ per la prima volta nella storia della band, la musica accompagna le parole, non è semplicemente qualcosa che succede sotto, ai tuoi piedi, mentre canti e tenti di rimanere in equilibrio su una sequoia che rotola su una cascata”. Ne scaturisce un progressivo prosciugarsi della sperimentazione e, ancora una volta un occhiolino al pop, più che all’hip. D’altronde solo nel 2011 erano venuti allo scoperto con la cover di Non ci spezziamo degli 883. Nessuno, ovviamente, aveva visto scandalo in questo, perché, lo sappiamo fin dalle origini, gli Amari non hanno mai fatto mistero di questa devozione per Pezzali e per il mondo provinciale, in versione teen-qualcosa che da sempre ha rappresentato. A questo contesto, manca solo lo sfondo, il significato pregnante e profondo di quello che sarà il nuovo disco degli Amari. Gli va incontro in questo l’abilità di guardarsi indietro, quella capacità (derivante da Grand Master Mogol) di far tesoro delle esperienze passate, anche intime, di sublimare il proprio Tempo e il tempo a venire, di renderlo alla portata di tutti. Quale miglior topos, a guardare tutto il percorso dal 1996 a oggi, se non quello del viaggio, dei kilometri, in senso fisico-spaziale-materiale, ma anche in senso figuratotemporale. Abbiamo cercato di accennarlo durante tutto il nostro intervento: gli Amari sono una band in movimento, fatta di “macchinate in modalità carro bestiame”, che è diventata centrale per la musica italiana grazie a centinaia di live e a centinaia di kilometri percorsi con grande generosità. Ne nasce un concept involontario sulle categorie di Tempo e Spazio: Kilometri (2012), che gli stessi Amari credevano “fosse un disco sociale, d’amore, di speranza” ha invece “come grosso interlocutore questo tempo che passava ed nel quale riponevamo sempre le nostre speranze per il futuro. Ma il tempo è legato allo spazio, è un tempo che gli Amari trascorrono viaggiando, amando, e spesso viaggiando per amore”. C’era da aspettarsi un ammorbidirsi e così è, seppure non si rinuncia alla cifra dominante della prosodia del cantato (non più parti rappate), alla centralità di alcune immagini (tra l’altro in pieno stile hip hop: “delle liriche lunghissime e incasinate, ti resta impressa un’immagine lampo”), alla riflessione dolceamara del passato, che qui si fa centrale. Con una novità: la totale sincerità e schiettezza. Dei testi, certo, ma anche delle sonorità. “Kilometri è nato anche dalla crisi di rigetto per i mille suoni, tutti peculiari, tutti importanti, tutti con qualcosa da dire/fare/baciare/lettera/ testamento di Poweri: un po’ di silenzio per favore! Se vogliamo capirci qualcosa, qualcos’altro dovrà fare un passo indietro, abbassare la voce, dire/fare meno cose, stare fermo, far sentire la propria presenza, semplicemente. Questo a parole per noi era già chiaro fin dalle prime session, purtroppo non avevamo idea di quanto sarebbe stato difficile realizzarlo nella pratica e senza Fresco non ce 29


,

30

© fabio cussigh

l’avremmo fatta: serviva una persona super partes a cui dar piena fiducia, che si prendesse l’onere di trascinare nel cestino tutti quei files pieni di inutili capriole”. Intendiamoci, gli Amari non hanno smesso di autocitarsi né di essere autosufficienti, ma l’appoggio esterno di un produttore del calibro di Fresco li ha aiutati in quello a cui tenevano di più per la nuova opera: essere onesti e - ci ripetiamo - arrivare alla gente. Non ci stupiamo, dunque, se Kilometri è il vero Mogol degli Amari, il disco più sincero, forse non il migliore, ma di certo senza trucco e fondotinta, sacrificato sull’altare del songwriting; il disco che è capace di dire “prendere per mano il logorio dei giorni”, “è una rivoluzione ad ogni malumore” o, con assoluta lucidità, “chi può dire come mai siamo arrivati a questo punto” aggiungendo subito dopo “abbiamo superato proprio tutto”. In Kilometri sta probabilmente racchiusa la maturità degli Amari che, se non abbandona del tutto l’ispirazione sbarazzina, la rende lirica e contemplata. Appoggiandosi sulla tradizione nazionale e coniugandola con le proprie rodate abilità, la band friulana non ha più paura di smarrirsi in afflati disordinati e disomogenei, raschiando la possibilità di “entrare nei teatri” o farsi canticchiare in spiaggia. Dal creare la storia di un pop sbagliato a farlo rientrare nei canoni, il passo è breve ed è stato compiuto: il Tempo e il senso dei kilometri percorsi si fa prolungamento ideale di quello che sarà nel futuro, seguendo la linea tratteggiata del sorpasso consentito e lasciando dietro di sé una pesante e importante eredità.


ones to watch

Venti nuovi nomi di cui sentirete presto parlare in anteprima

2013

La macchina dell’hype, si sa, è meccanismo spietato e, spesso, figlio della fortuna e della capacità di farsi trovare al posto giusto nel momento giusto. Che a SA piaccia tener d’occhio quello che succede nella blogosfera e guardare sempre avanti oltre - e più - che indietro è cosa risaputa. Da qui, dunque, la decisione di fare un’analisi il più prossima ai 360° di quello che bolle in pentola nel mondo, andando a scavare a fondo fra gli artisti più chiacchierati ed interessanti del momento con l’obiettivo di stilare una lista di 20 nomi - senza pregiudiziali limitazioni di genere - che potrebbero, a nostro giudizio, ricoprire un ruolo di primissimo piano nel panorama musicale del nuovo anno. D’altra parte, se è vero che durante l’annata che sta per volgere al termine è mancato il vero gamechanger in stile James Blake, lo stesso non è valso per gli esordienti di livello, in grado anche di fare risultato in termini di pubblico e critica: si pensi agli Alt-J trionfanti al Mercury Prize, al salto dall’indie alla Billboard dei Purity Ring, ancora allo stesso Frank Ocean. Qui di seguito i loro possibili - si legga probabili - alter-ego per il 2013, in ordine assolutamente casuale. Unica regola: non avere ancora un LP all’attivo.

Testo: Massimo Rancati Riccardo Zagaglia Marco Masoli

31


C hvrches Provenienza: Glasgow, Scozia // File under: electro-pop Sono bastati due singoli, uno per farci drizzare le orecchie (Lies), l’altro (The Mother We Share) per farci passare alle dichiariazioni importanti: questi Chvrches sono - leggi: saranno probabilmente - la next big thing in campo electro-pop. Se infatti evidenti - e affatto inusuali - sono le influenze di stampo Knife/80s pop acquisito nelle intelaiature soniche di Ian Cook (Aerogramme) e Martin Doherty (The Twilight Sad), e le vocalità di Lauren Mayberry (Blue Sky Archives) stanno a metà strada tra Robyn e Megan James dei Purity Ring, ciò che il trio ha in più degli altri sono estro e concisione melodica superiore persino a quelli del sopracitato duo canadese. Infinitamente infettivi.

Flum e Provenienza: Sydney, Australia // File under: now-pop Il ventenne Harley Streten aka Flume mostra ancora una volta e per tutte come oggi - se si hanno le carte: bravura e culo - si possa passare dall’anonimato DIY alle label giuste, alle charts, al successo in quattro e quattr’otto. C’è il wonky del post-J Dilla fino alle visioni spacey di Flying Lotus e al massimalismo marca Rustie; c’è la tradizione black nelle sue declinazioni nu-, con la fumosità soul di The Weeknd in prima fila e il pathos di Clams Casino in seconda; c’è il pop da classifica ancorato ai Sixties, alla Mark Ronson, e l’hip hop pop del dopo Jay-Z, del dopoKanye West, del dopo-swag.

32


Blue H awa i i Provenienza: Montreal, Canada // File under: art/synth-pop Raphaelle Standell-Preston e Alexander Cowan nascono come coppia nella vita e come duo in musica nel 2010, ovvero nel pieno del fermento da cui è poi generata tutta la scena del nuovo pop canadese che abbiamo visto esplodere in corso di 2012. Per semplicità diremmo: i Blue Hawaii vengono dalla stessa orbita della “gang di Grimes”. Hanno già all’attivo un EP, Blooming Summer (Arbutus Records, 2010), li si può taggar come side project dei Braids (di cui Raphaelle è voce) ma qui piuttosto che di neo-psichedelia si parla di pop esile, dilatato, suggestivo, ovviamente bass-heavy, con piglio new-age e attenzione arty. Il primo estratto In Two ne è emblema perfetto. Untogether, l’atteso LP di debutto, esce il 22 gennaio.

An ge l Ha z e Provenienza: Detroit/NYC, USA // File under: hip-hop Ventun anni, flow feroce ed iperlirico, confidenza disarmante per una MC “untrained”, Angel Haze è diamante grezzo e talento puro. Arriva al 2013 con all’attivo un EP (Reservation, 2012) e quattro mixtape, fresca di firma con la Universal e col supporto di producer del calibro di Lunice (TNGHT). Non solo: più di un appassionato del settore si aspetta da parte delle sue rime crude e personalissime - quindi lontane dai cliché della “rapper donna” - il sorpasso con sportellata ai danni dei divismi esasperati di Azealia Banks.

33


Savag es Provenienza: Londra, UK // File Under: post-punk Il revivalismo post-punk/wave di matrice late-70s non ha più nulla da dire? Non la pensano così le Savages e non lo pensiamo più nemmeno noi dopo aver scoperto le Savages, all-female band fattasi interamente dal basso e contro ogni regola imposta dal marketing 2.0: nessun singolo messo online alla ricerca della mossa “viral”, ma solo ed esclusivamente live show su live show, partendo dalle topaie, passando per piccoli club e festival minori, finendo infine ad aprire per i British Sea Power, al monopolio di ogni report dello scorso CMJ, allo slot illustre al Later with Jools Holland. Urgenza e credibilità fuori dall’ordinario, culto assicurato. La lead-singer Jehnny Beth - lo diciamo sottovoce - è la cosa più vicina ad una reincarnazione di Ian Curtis sia mai apparsa su un palco da quando lo stesso leader dei Joy Division ci ha lasciato.

Rainy M i lo Provenienza: Londra, UK // File under: R&B-tinged pop Rainy Milo, sospinta dal naturale desiderio di circondarsi di stimoli, ha sempre fatto musica - con musicisti locali e collettivi artistici della South-London - dall’età di 14 anni. Al momento di intraprendere la carriera da solista, la stessa sete di ispirazione la porta a scandagliare il web alla ricerca di beat - tra R&B ed hip-hop jazzato - su cui cantare. Finisce per incappare nel producer di Boston BLCK RSSN che getta le basi per ‘Bout You. Da lì è tutta un’escalation: il brano diventa singolone, Gilles Peterson lo include nella sua Brownswood Bubblers compilation series e arrivano in massa le offerte delle label. Lei furbescamente le declina, “too soon”, nessuna intenzione di saltare la fase “monta-hype” via mixtape/EP in free download. Ecco quindi le cinque tracce di Limey, Chet Faker e il producer di Ariel Pink Cole MGN che si aggiungono alla lista estimatori/collaboratori, crooning disarmante e potenziale virale enorme in full display. Chi ha amato Jessie Ware in corso di 2012 troverà qui di che rimpiazzarla.

34


F i d l ar Provenienza: Los Angeles, USA // File under: garage-punk Il loro moniker sta per “Fuck It Dog, Life’s A Risk”, catchphrase diffusa fra gli skater della West Coast. Fanno trashy garage-punk con evidenti influenze formative da parte di Black Flag, The Stooges e The Cramps. I titoli delle loro canzoni vanno da Stoked And Broke a Wake Bake and Skate passando per Whore. Di loro ci piace proprio questa attitudine da “slackers at heart”, la purezza punk ‘76 che se ne frega e che a guardar bene è prodotto ricorsivo dei 90s. Ed ecco quindi un allenatissimo orecchio per hook di chitarra e chiamate al singalong anthemico (“I. Drink. Cheap. Beer. So. What. Fuck. You.”) a cui non si può proprio resistere. Escono su Wichita il 4 Febbraio.

M ikk y E k ko Provenienza: Nashville, USA // File under: pop / R&B John Stephen Sudduth, nativo della Louisiana, spende l’infanzia “da nomade” nel profondo sud degli States e fa il pieno di gospel e sfumature di blues; si stabilisce poi a Nashville, Tennessee dove si forma suonando in varie band locali. Inizi di carriera che sarebbero probabilmente sfociati nel nulla, non fosse che, nel 2010, Clams Casino spotta in rete Who Are You, Really?, primo pezzo sotto moniker Mikky Ekko, si esalta e lo invita a NYC per collaborare con lui. Il risultato è Pull Me Down, i beat atmosferici del producer hip-hop (dietro anche ad A$ap Rocky e The Weeknd) totalmente al servizio di una delle performance vocali più calde del 2012. Va in fermento non soltanto la blogosfera ma pure il mainstream, e finisce che Mikky Ekko lo troviamo pure, per un feat., nell’Unapologetic di Rihanna. Il pubblico che attende al varco il debut del nostro è insomma già a 360 gradi. 35


Brol i n Provenienza: Londra, UK // File Under: electronic bedroom pop Con il solito alone di misteroaumenta-hype Brolin sul proprio Soundcloud si presenta così: “I am a bedroom producer, self-taught, self-analysing, into beats, space, and melody”. Un buon riassunto che tralascia però alcune delle peculiarità più interessanti del giovane inglese: una voce alla Mark Hollis, un istinto melodico fuori dal comune e l’intimità lo-fi che scorre all’interno del singolo NYC, già diventato un piccolo culto nel 2012. Recentemente è nuovamente uscito dalla cameretta pubblicando Another Year, brano che definisce ancora meglio il Brolin-sound, essenziale, dimesso ma anche avvolgente e pieno di quelle vibrazioni che portano l’ascoltatore ad essere in pace con il mondo.

Twigs Provenienza: Londra, UK // File Under: future-r&b C’è un motivo se abbiamo deciso di inserire gli AlunaGeorge soltanto all’interno della lista “altri nomi” (in fondo) e questo motivo si chiama Twigs. Le coordinate geografiche sono le stesse (scena di South London) e anche quelle musicali non sono troppo distanti (la modernizzazione dei ritmi r&b), ma se gli AlunaGeorge hanno già la strada bella spianata, Twigs è una vera e propria scommessa. Una scommessa che seguiamo da tempo, la sensualità che incontra la bass-music e la porta su livelli assoluti. Per il momento ci dobbiamo accontentare del viral hype generato dai video delle ottime Ache e Hide e degli altri due brani che compongono l’omonimo EP di debutto: Weak Spot e Breathe.

36


Rhye Provenienza: Canada+Danimarca, ora Los Angeles, USA // File Under: sophisti-pop Progetto inizialmente nato (come Brolin e Twigs) sotto il classico mistero anagrafico. Chi è o chi sono i Rhye? Oggi sappiamo che l’EP Open e il singolo The Fall sono il frutto della collaborazione tra Mike Milosh e Robin Hannibal, con il conseguente allontanamento dei paragoni female-oriented con Jessie Ware che hanno caratterizzato i primissimi mesi di tramtram mediatico. Il post-Sade ci sta tutto ma rispetto alla Ware siamo su territori meno pop e più sophisti, probabilmente confermati nel già annunciato album di debutto, attualmente intitolato Woman.

King Krule Provenienza: Londra, UK // File Under: cockney-rama Già Zoo Kid e sulla bocca di mezza Inghilterra da un paio d’anni - l’omonimo EP di debutto risale al 2011 - King Krule è il classico buzz target fuori dagli schemi, il personaggio che colpisce all’istante su più livelli. Fa parlare la sua figura di minuto redhair diciottenne, timido e con l’espressione - da periferia inglese - di chi ha già vissuto sulla propria pelle più di quanto la giovane età suggerirebbe e fa parlare la sua proposta musicale, strampalata e indefinibile: una voce quasi black dall’accento cockney ed una band alle spalle che per quanto giovane sembra già un rodato gruppo dal passato jazzy (live è il batterista che tiene la scena). Per Archy Marshall/King Krule potrebbe essere il 2013 l’anno della definitiva consacrazione.

37


Roses Ga b o r Provenienza: Londra,UK // File Under: pop Dopo collabore illustri (da Pharaohs di SBTRKT alla mega hit Dare dei Gorillaz) la strada verso il successo per Roses Gabor sembra spianata. Recentemente intervistata sulle nostre pagine, Roses ama Bjork quanto Mary J. Blige e in attesa di un album vero e proprio, dovrebbe pubblicare il seguito del mixtape The Wonderful World Of Roses Gabor Vol. 1 realizzato con il suo fido produttore DJ Martelo.Nell’universo della Gabor, cultura black e cultura club sembrano fondersi in un’ottica hip-back to ‘90s come testimoniano brani irresistibili come il supersingolo Stars e la sua b-side Night Sky. Garantsce la lungimirante Ninja Tune che l’ha inserita nel proprio roster, niente male per una che lavorava nell’incravattato ambiente bancario.

Woo d k i d Provenienza: Lione, FR // File Under: zimmer-pop Video director di grande successo (Lana Del Rey, Moby e Drake tra gli altri), Yoann Lemoine si è già fatto conoscere anche come compositore, musicista e cantante sotto il moniker Woodkid. All’attivo già EP e brani di successo (da Iron a Run Boy Run) caratterizzati da una proposta musicale già ben definita e vincente: voce calda ma fragile e un pop epico, cinematico che sembra una versione in forma canzone delle colonne sonore di Hans Zimmer. Già lanciatissimo ormai da più di un anno - per intenderci, live mette già in scena uno spettacolo di questo tipo- e pronto ad affermarsi tra il grande pubblico, il nome nuovo del mainstream 2013 potrebbe essere lui. Il 18 marzo uscirà l’album di debutto The Golden Age. 38


MØ Provenienza: Copenaghen, Danimarca // File Under: soulful electro-pop All’anagrafe Karen Marie Ørsted, è stata tra i maggiori tormentoni del 2012 in zona blogosfera: all’uscito del suo secondo singolo, Pilgrim, in tantissimi si sono gettati a venderla come “nuova Grimes”. Ed il paragone, pur non quadratissimo, può starci: si parla d’altronde di electropop fatto in proprio, che fa commistione di influenze plurime - in questo caso si va da Lykke Li a Santigold, dai Little Dragon a Twin Shadow - ricavandone qualcosa che abbia una sua unicità. Rispetto a Claire Boucher però la Ørsted è meno astratta ed art(s)y, più diretta nei groove ed innamorata del soul, mentre vocalmente rimanda ad una Lana Del Rey con spigliatezza street. Ha già firmato con la Sony scandinava e con Chess Club per la distribuzione inglese ed è attualmente al lavoro sul primo LP.

Pu re B at h in g Cu lt u r e Provenienza: Portland, USA // File under: dream-pop La Portland che conta torna a farsi sentire con Daniel Hindman e Sarah Versprille, duo uomo-donna già nei Vetiver, di cui mantengono qui l’impianto folk-pop soltanto nella qualità dell’approccio melodico. Un EP di 4 canzoni che non sbaglia un colpo ed un connubio impeccabile fra sonorità à la Beach House e revival patinato-luccicante del ‘chart-pop’ tipicamente eighties, con la voce eterea della Versprille che passeggia ipnotica sui riverberi. Silver Shore’s Lake è il manifesto, con atmosfere dilatate di scuola Talk Talk colmate da riff di Feltianamemoria, mentre la conferma che non siam qui a fare i conti con il solito revival è invece questa Ivory Coast di totale messa a nudo.

39


GEMS Provenienza: Washington, USA // File under: dream-pop Prendete Washington, un altro duo (Lindsay Pitts e Clifford John), tutto l’armamentario dream pop - o dark dream pop come si autodefiniscono - di cui non ci si stanca mai, due singoli registrati durante un mese di isolamento in una casa totalmente vuota sulla spiaggia e messi su Soundcloud con prezzo up to you (Void Moon e All I Ever) ed il gioco è fatto. Atmosfere cupe, incedere in slow-motion, reticolati dreamy e riverberi al posto giusto. Le label potrebbero fare a gara per accaparrarseli.

M a r i k a Hac k m an Provenienza: Londra, UK // File under: folk Con 20 anni sulle spalle ed un visino angelico da ragazza della porta accanto, Marika si è fatta luce con due singoli - You Come Down e Mountain Spines pubblicati su una branca della Transgressive (Paradyse Records), un tour di supporto a Benjamin Francis Leftwich, un mini tour in madrepatria come headliner e, soprattutto, un EP di cinque tracce circolato in rete, con cinque cover rispettivamente di Knife, Warpaint, Nirvana, Nico e Dusty Springfield, tutti sottoposti alla cura Hackman. Un timbro fragile ma pieno di trasporto, una maturità compositiva da artista navigata e quel tocco contemporaneo alla tradizione folk inglese. Zane Lowe di BBC 1 l’ha già lanciata, lo farà presto chiunque?

40


Indi a n s Provenienza: Copenhagen, DK // File under: alt-folk Il progetto di Søren Løkke Juul risponde alla definizione stessa di hype. Un pugno di demo nel web, un po’ di buzz, la firma con l’indie-label più major che ci sia, la 4AD, un singolo - Cakelakers - che strizza l’occhio al santone Bon Iver ed ecco che come per magia si comincia a girare per il mondo di spalla a gente come Other Lives, Perfume Genius, Dan Deacon, Beirut, Bear In Heaven e Lower Dens. La 4AD Session di tre tracce, registrata poco dopo la firma presso l’isola privata di Osea nell’Essex, diventa testimonianza diretta dell’atmosfera che pare respirarsi nei pezzi, fra impianti fok destrutturati, landscapes vaste e desolate, lamenti malinconici e un contatto diretto e costante con i cinque elementi.

HAIM Provenienza: Los Angeles, USA // File under: folky-r&b Tre sorelle, una mamma chitarrista, un papà batterista ed un’infanzia trascorsa nella band dei genitori - i Rockinhaim - con conseguente tradizione folk americana assimilata. La dieta di tre ragazzine californiane non si può però ridurre al solo patrimonio familiare, ma si fonda, per forza di cose, sulle influenze dei mass media e dell’ambiente circostante. Ecco quindi l’abbuffata di pop ed r&b con Britney Spears, Destiny’s Child e TLC in prima fila e la decisione di affrancarsi dai genitori togliendo “Rockin” e lasciando “Haim”, ma mantenendo comunque la tradizione annuale del family concert in una chiesa della Valley. Da qui due singoli di presa inequivocabile (Forever e Don’t Save Me) in cui si fondono synth e chitarre, lezioni folk e pesanti contaminazioni r&b ed il titolo di probabile Next Big Thing 2013. Mumford & Sons e Florence & The Machine le hanno già incoronate portandole in tour con sè, noi vi consigliamo di continuare a tenerle d’occhio: Este, Alana e Danielle Haim sembrano fare sul serio.

A ltr i n o m i Mr Lies (USA), Inc. (USA), AlunaGeorge (UK), Daughter (UK), Saint Lou Lou (SWE), Wintercoats (AUS), London Grammar (UK), Elliphant (SWE), Brothers In Law (ITA), Sky Ferreira (USA) 41


20

Il

Un consuntivo per aree tematiche e grandi eventi: lo spostamento di massa verso ritmi ed elettroniche, il ritorno dei 90s e dei dinosauri, l’eterno femmineo, le questioni su web e diritto d’autore... 42


012 di sentireascoltare

Testo: la redazione 43


Fare i consuntivi di fine stagione è come tirare le somme di un’esistenza: sempre difficile, se non impossibile. Specialmente quando ci si ritrova a trafficare con qualcosa di altamente umorale e soggettivo come le temutissime classifiche di fine anno. Meno difficile, e più costruttivo, cercare allora alcune traiettorie e percorsi sonici sopra e sotto la crisi del mercato della musica, un luogo dove ci si ostina a investire i (pochi) risparmi privati e dove si fanno sempre meno introiti (vecchie rendite e iTunes esclusi). Complessivamente, anche per ciò che riguarda dinamiche interne alla nostra testata, l’anno appena trascorso ha segnato un’inedita polarizzazione verso ritmi ed elettronica in generale. Il successo, anche commerciale, dei festival italiani e internazionali dedicati sta lì a dimostrarlo, il caso BLOC emblematico per il pubblico che avrebbe potuto avere; ma non è solo una mera questione addizionale, è proprio l’interesse e l’attenzione complessiva di chi scrive, di chi legge oltre che di chi ascolta a spostarsi progressivamente in questa macro direzione. Gli steccati tra gli ambiti prettamente dance e quelli più tradizionalmente d’ascolto sono ancora delineabili, ma è innegabile che tutte le drum machine, i sintetizzatori, la metabolizzazione decennale del vintagismo 8 bit e non ultimo la portata degli ultimi lavori di Radiohead e Thom Yorke (anche con gli Atoms For Peace, di cui è uscito il singolo a settembre) abbiano permesso una familiarizzazione inedita con l’estetica delle macchine a tutti i livelli, indie (gli show de Lo Stato Sociale, Grimes, Purity Ring, Passion Pit e compagnia Pitchfork addicted) e oltre. Un’ideale apertura verso un mondo elettronico dove la dance è ibridata con l’ascolto (e l’ascolto a casa non è più così strano, vedi Andy Stott e tutta la dubstep contaminata con la techno) e l’hip hop non è più tappezzeria stellestrisce, o corollario MTV, ma un sound fascinosamente hip. Tutto questo anche grazie a dischi potentissimi come quello di Frank Ocean, il Marvin Gaye della situazione - forse il disco del 2012 per antonomasia -, di talenti come Kendrick Lamar e di piccoli casi - a lato - come How To Dress Well. Del resto, sarebbe ingenuo dare per implicita l’ennesima manfrina su “il rock è morto” di ottantiana memoria e idem dicasi per il folk, che nella sua variante dark sta continuando a dare belle soddisfazioni. Le chitarre non demordono, in Italia specialmente - e il casus belli del Teatro degli Orrori è lì a dimostrarlo - e se il revival 90 è un segnale ad oggi ancora debole, il messaggio della decade contaminata per antonomasia è senz’altro arrivato (a proposito Prodigy ristampati, Chemical Brothers nominati, Orbital ritornati). Probabilmente sarà l’inizio di un’ondata simile a quella che si scaldò nel 2002 con il post-punk, con la grossa differenza che in questi mesi abbiamo avuto dozzine di emuli (alcuni molto buoni: Pop1280), ma nessun nome di peso a marcare il passo. Niente nuovi Interpol, per intenderci (di cui peraltro abbiamo recensito la recente ristampa per il decennale) anche se, senz’altro, il debutto degli Alt-J (intervistati lo scorso settembre) merita senz’altro il Mercury Prize. Fuor di nicchia jingle jangle, e l’onda lunga del revival 60s di Thee Oh Sees, saranno senz’altro ritorni come quello degli Swans (album sunto di carriera per Gira ad agosto) che sapranno dare la stura alle nuove leve, o perlomeno ce lo auguriamo. Leggiamo come segnali in tal senso l’inedito interesse trasversale nel metal - soprattutto estremo - con il successo dei Converge, l’appesantimento del sound della stessa band di Gira e la scelta del Primavera Sound di ospitare, per la prima volta, band di quest’area. 44


Come non dimentichiamo che l’underground più indefesso e le sue roccaforti (ad esempio, l’ottimo festival Transmissions) stanno continuando l’esplorazione di esoterismi e messianesimo tutt’altro che trascurabili (La Piramide di Sangue, Om, How Much Wood..., FulkAnelli), sull’onda lunga di un filone pre- o post-apocalisse fatto di timori, dubbi, oscurità. Una sorta di paura millenarista che si fa sunto di tendenze già tracciabili lungo tutto il decennio scorso, vedi la rinascita del kraut meno ortodosso, la psichedelia più scura e occultista, il tribalismo più selvaggio e primitivista.

M egau ploa d o s c ur ato e a ltr e stor ie Tutto iniziò da qui. Oppure finì. Staremo a vedere. Ma sono successe altre cose, oltre l’oscuramento di Megaupload. Magari non sarà l’anno zero della musica sul web, come sostiene il sempre lucido Luca Castelli sul Mucchio Selvaggio di dicembre, ma in questo 2012 non sono mancati molti segnali che messi in prospettiva prefigurano, se non una svolta, una rotta piuttosto chiara. Se il turning-point individuato da Castelli è l’accordo per la distribuzione del milionario repertorio targato AC/DC attraverso il già fornitissimo catalogo di iTunes (gli australiani erano l’ultima band top-seller rimasta fuori dalla corte della mela morsicata dopo lo storico ok dei Beatles a fine 2010) forse meno clamorosa ma altrettanto importante sembra la notizia dell’acquisizione di Audiogalaxy da parte di Dropbox. Le due circostanze, apparentemente scollegate, potrebbero essere in realtà altrettante tappe dello stesso percorso che ci condurrà all’imminente invasione dei servizi di streaming musicale on-demand, del resto già operativi ed apprezzati soprattutto fuori dal Belpaese. Vedi i vari Spotify, Rhapsody, Pandora, Grooveshark, Deezer... Anche Dropbox, quindi, si starebbe preparando ad ampliare la gamma dei servizi in tal senso, e visto il successo ottenuto come piattaforma di cloud storage (ha recentemente annunciato di aver raggiunto i 100 milioni di utenti, numero addirittura quadruplo rispetto a quelli dell’aprile 2011) potrebbe entrare sulla scena da protagonista. Si prefigura quindi un quadro nel quale giganti come iTunes appunto, la rivale per antonomasia Google (col servizio Google Music) e persino Sony con Xbox Music tenteranno di accaparrarsi

45


le fette più grosse della torta, mentre pesci relativamente più piccoli e agili (ma l’assioma piccolo=agile resta attendibile in ambito internet?) comporranno il fronte delle offerte alternative. Sarà una guerra dove l’ampiezza del catalogo e la versatilità delle interfaccia (con particolare riguardo per le app dei dispositivi portatili) rappresenteranno le armi decisive: non occorrono particolari capacità divinatorie per prevedere nei prossimi mesi bombardamenti incrociati a forza di nuove release. Al centro di tutto, sorta di convitato di pietra che al momento si preferisce ignorare, resta l’enigma del riscontro commerciale, la capacità di generare utili messa in dubbio da un recente rapporto riguardante Spotify. Sembra proprio, insomma, che il far west in cui ha prosperato la pratica del download selvaggio (illegale?) abbia i mesi contati, tutto questo in attesa che i cosiddetti “pirati” si riorganizzino in nuove forme, vedi appunto il progetto Mega - successore di Megaupload sotto altre, più potabili vesti? - di Kit Dotcom, ma l’impressione è che per la prima volta si siano messi a rincorrere. In attesa di capire se una nuvola salverà la musica (o almeno chi con la musica si guadagna da vivere), la vicenda relativa alla S.I.A.E. sembra davvero la cronaca da un passato che si ostina a vivacchiare sulle macerie di se stesso, caso emblematico di malagestione italiana inserito in uno scenario internazionale piuttosto fluido e abbastanza teso riguardo proprio l’adeguamento della legislazione vigente in merito al diritto d’autore e diritti connessi. Tenetevi aggrappati ai vostri cd, ai vinili, alle chiavette piene di mp3: ogni nuova notizia d’ora in avanti potrebbe farli diventare più vecchi d’un fossile di Sciurumimus albersdoerferi.

Pol e m i c h e da d u e d eca : tr a T e atr o degli Orr ori, we b 2.0, i n d i e e re v i va l 8 8 3 , v i en e f u ori l’ I talia miglio r e E se buona parte di quello che è accaduto quest’anno in ambito italiano fosse in qualche maniera parte integrante di un cambiamento globale negli equilibri tra ascoltatori, artisti e addetti ai lavori? Inizia tutto a febbraio con la nostra intervista a Il Teatro degli Orrori. Chi ci accusa di averla sfruttuata per capitalizzare seguito e contatti, non conosce tutta la vicenda né le conseguenze che la scelta di pubblicare l’articolo ha portato. In quell’intervista Capovilla e Favero rispondono indispettiti, forse dal tono dell’intervista (sempre nei limiti della buona educazione, comunque) o magari dalla critica non proprio positiva al loro Il nuovo mondo. Qualche giorno dopo Bugo replica sul suo profilo Twitter - con l’hashtag #esercitodibugo - a tutte le recensioni negative ricevute da Nuovi rimendi per la miopia, passando poi in rassegna quelle positive ed elogiandole per gli argomenti più convincenti. Di lì a poco il Piotta polemizza con quelli di Rockit, rei, a suo avviso, di aver diffuso senza autorizzazione una versione non definitiva della copertina e della tracklist del suo nuovo disco Odio gli indifferenti, oltre che di aver recensito la title-track dell’album senza essere in possesso delle informazioni corrette. Tre eventi che parlano sia di una comunicazione sui new media potenzialmente sempre a rischio inesattezze, sia di un’inedita (affabulatoria e dialettica) relazione tra musicista, giornalista e ascoltatore. La stessa spirale che porta Capovilla a mollare i social network (ad aprile) e i Lo stato sociale di Turisti della democrazia a passare da quattromila a quasi ventimila iscritti alla pagina ufficiale di Facebook in dieci mesi. Il “buzz” internettiano ha un peso non indifferente nel decretare il successo (o il fallimento) di un’iniziativa. Emblematico il caso della compilation Con 46


due deca promossa dal portale Rockit, casus belli già sulla carta visti i protagonisti di ieri e gli epigoni di oggi, oltre che specchio di un certo disimpegno agrodolce che anima il sottobosco indie italico diventando quasi uno stile di vita. Un universo autoreferenziale con i suoi codici e le sue abitudini che abbiamo cercato di tratteggiare nell’articolo dedicato a Lo stato sociale uscito a febbraio. In questo contesto si cala anche Colapesce, perfetto catalizzatore delle solitudini amorose dei ventenni o giù di lì e già solido songwriter adatto anche alle platee istituzionali, come dimostra la Targa Tenco per il miglior esordio dell’anno vinta dal suo Un meraviglioso declino. Un 2012 decisamente “hypato” ma anche di riconferme solide. Tra le tante, Afterhours (intervistati a maggio), Offlaga Disco Pax, Diaframma (intervista a gennaio), assieme a Edda, Alessandro Fiori, Santo Barbaro, Manzoni, Sacri Cuori, Mimes Of Wine, Xabier Iriondo.

L ana e Gri m es : r i b a lta m en to tr a s hock e i n teg rità , indi e e m a inst r e a m Due i volti femminili che si sono imposti durante l’anno, ognuno in modi e ambiti differenti: il fenomeno commerciale Lana Del Rey, capace di superare in visibilità vere macchine da guerra dell’hype come Madonna e Justin 47


Bieber, e la trendmaker Grimes, dalla rilevanza diversa eppur paragonabile in un ambito più strettamente indie, dove a contare sono gli impatti delle intuizioni espresse. Le abbiamo seguite in news (Claire Boucher l’abbiamo anche intervistata) e recensioni, ve ne abbiamo raccontato i successi, mentre ognuna di loro si guadagnava lo scettro di personaggio dell’anno nei rispettivi contesti. Due ambiti che, in qualche modo, sembrano essersi ribaltati: se fino a qualche tempo fa la maggioranza delle indie girls era fedele ad un look vintage/sobrio e le popstar facevano la gara a chi era più eccentrica (in ottica marketing), ora abbiamo invece un ritorno al classico sul versante iper-mainstream e ragazze con il passaporto indie stravaganti e fuori dagli schemi. Un mainstream che ha visto, tra le altre cose, Adele trionfare - nuovamente e in agilità - tra gli album più venduti dell’anno (il suo 21 negli ultimi dodici mesi ha registrato altre 9 milioni di copie), Taylor Swift ampliare ulteriormente la sua fanbase, Gotye dominare il reparto singoli, Emeli Sandé vincere su tutti nell’Inghilterra del nuovo cantastorie retrò Jake Bugg e soprattutto i Mumford & Sons diventare il gruppo pop-rock di maggior successo a livello mondiale, con buona pace per gli stadium-zarrocker Green Day, The Killers e Muse (a cui va comunque il credito dell’unica speculazione brostep “riuscita”) e per i residuati anni ‘90, ormai scarti dati in pasto al solo mercato italiano (Skunk Anansie, Cranberries, Alanis Morissette, No Doubt e Garbage). Un boom che guarda al passato testimoniato sia dai recenti successi di Kasabian e The Black Keys, sia dall’enorme airplay radiofonico di acts come Of Monsters And Men e The Lumineers, nonché dagli stessi Grammy Awards che hanno accolto timidamente il “cambio di pelle” di Rihanna e falciato i vari Justin Bieber, Madonna, Lady Gaga e Nicki Minaj, preferendo il quartetto Jack White, Bruce Springsteen, Dan Auerbach (The Black Keys) e Ted Dwane (appunto Mumford & Sons) che ben riassume questa rinnovata voglia di tradizione. Resiste e sembra non passare mai di moda - senza però competere a livelli di fama assoluti - l’incontro tra voci femminili, synth e gusto pop: dai Chromatics ai Beach House passando per Bat For Lashes e St. Etienne (da noi intervistati) il revivalismo ‘80-’90 continua a mietere vittime. Mentre Billy Corgan (con i suoi Smashing Pumpkins) sarà ricordato quest’anno più per la ristampa di Mellon Collie che per il suo ultimo album. Il lato più lo-fi del filone retrologico/hauntologico trova la sua sintesi più compiuta nei due lavori di Ariel Pink (sempre su 4AD) e di Dean Blunt & Inga Copeland (stranamente, ma non troppo, accasati su Hyperdub).

I tr i st i a d i i Il 2012 è stato uno degli anni più tristi per quanto riguarda i lutti musicali. La morte di Lucio Dalla resta forse quella che ha più colpito l’Italia musicale, mentre fuori confine hanno rintristito soprattutto le scomparse di Whitney Houston, MCA dei Beastie Boys e Donna Summer. La lista però è lunga e ha compreso, tra gli altri, Mike Kelley, Christopher Reimer dei Women, Jim Marshall, Bob Welch, Michael Davis degli MC5, Davy Jones dei Monkees, Lol Coxhill, Jason Noble, Terry Callier, Lilli Greco, un giovanissimo Austin Peralta, Dave Brubeck, Ed Cassidy. La nostra più sentita commemorazione è arrivata quest’estate. Quando a maggio scomparve Donna Summer, il pensiero di quel che rappresentava per la storia della dance ci ha spinto a ripercorrere il meglio dei contributi 48


femminili in quarant’anni di musica da club. Ne è venuto fuori uno degli approfondimenti più impegnativi di tutto l’anno: lo abbiamo intitolato Love To Hear You Baby.

L a te rr a t re m a “Anno bisesto, anno funesto” dice il proverbio. Superstizioni e scaramanzie a parte, il 2012 sarà ricordato purtroppo anche come l’anno del terremoto nella bassa padana e delle tante conseguenti iniziative di beneficenza per le popolazioni colpite. Accodandoci all’iniziativa live Abbassa - di cui trovate tutte le info qui e qui - abbiamo realizzato la compilation Heart Quake, che comprende ben 30 artisti provenienti dalle zone compite (e non) e i cui proventi sono stati direzionati verso l’associazione culturale MUMBLE: di Camposanto, già attiva sul territorio per raccogliere fondi con cui aiutare nella ricostruzione scuole e circoli culturali. Trovate qui tutti i dettagli della compilation, lo streaming e i link per l’acquisto. Per non dimenticare.

Elet t ro ni ca , b l ac k e d intorn i Inutile girarci attorno. L’elettronica è il nuovo rock. E dubstep (adulterato e non, d’ascolto e da (s)ballo) e hip hop (punta dell’iceberg black all’insegna di una ritrovata fortissima vena soul) sono i suoi profeti. Due fotografie d’autore: l’ispiratissimo veterano Photek - lo abbiamo intervistato a maggio - storicizza una volta e per tutte il dubstep tornando a proporre le proprie visioni, con un’intensissima estatica sintesi del continuum che dal pre- (leggi drum and bass, 2-step e radici tech-house) arriva dritto al post- (take spacey, scenari ambient, concretismi glitch, reminiscenze techno); Flying Lotus, che dall’hip hop (leggi Stones Throw e J Dilla) è partito e all’hip hop è tornato (come Captain Murphy), si allontana sempre più dal wonky e farcisce di soul una raffinata impeccabile downtempo, che ormai Wikipedia tagga direttamente come electronic jazz. Le frange avant tra i producer si dividono tra coming back techno (tra riscoperta della tradizione e ricerca di possibili nuove vie; ricordiamo particolarmente il tribalismo liquido e ipnotico dei Voices from the Lake, il minimalismo soft e ambientale di Deepchord, l’anabasi IDM come eravamo di Nathan Fake e la tensione purista dell’ultimo Uxo) e sperimentazioni di base dark ambient (esoterismi, field recordings, voci fantasmatiche, richiami industrial, atmosfere Blair Witch Project; vedere cose diversissime come Demdike Stare, il catalogo TriAngle, Andy Stott, Holly Herndon, Raime, a suo modo anche la club hauntology di Actress e Burial). La nowness è tutta coagulata attorno a footwork (e juke e bounce, vedere Traxman e Addison Groove) e massimalismo post-Rustie (trap incluso, ennesime correnti interne al wonky; vedere TNGHT e Eprom, ma anche un James Ferraro che ne conferma lo status di lingua di koiné). E’ letteralmente frenetico e felicemente produttivo lo scambio di risorse e atteggiamenti tra mondi e modi pop, indie, street e dance. Un nome importante in tal senso per il 2013 è già qui, quello del giovane produttore australiano Flume, disco di debutto lanciato in streaming a novembre e in pubblicazione fisica a febbraio 2013, da segnare alla voce bignami now pop. Intanto, Pitchfork piazza 9.5 - ma solo per rispetto al 10 tondo dato a Kanye West due anni fa - al nu-r’n’b di Frank Ocean (dalla cricca Odd Future); TheWeeknd, col suo soul ineffabile e morboso, sbarca e sbanca su Universal raccogliendo quanto seminato nel biennio 2011-2012; i Muse realizzano il 49


loro album - strombazzato come - dubstep (seguendo a ruota Britney Spears, Korn e Madonna, e seguiti a ruota dai Cypress Hill), e al dubstep - in chiave ubermelodica, videogame e post-Skrillex (vedere il suo exploit sbancatutto ai Grammy, coronamento di un percorso di sdoganamento e poppizzazione del genere in chiave drop/brostep cominciato almeno due anni fa) - si affida anche la Nokia per la sua suoneria ufficiale (peraltro firmata da un ragazzo italiano). In ambito squisitamente hip hop, emerge il talento cristallino di Kendrick Lamar: il suo è un disco generoso, tutto immerso nei fermenti now eppure capace di suonare già classico, giustamente accolto con consenso trasversale tanto dal pubblico indie che dai bboyz. Altri dischi importanti tra elettroniche e ritmi che ci piace ricordare: la deep di Amirali, l’easy listening di John Talabot, la minimal di Alex Under, la cosmic disco di Lindstrøm e il suono UK analizzato e ricomposto da Distal, Brackles e Phon.o. Da tenere d’occhio, sempre sul fronte evoluzioni now dell’hardcore continuum: la Deep Medi, la Hessle Audio, la Keysound (vedere il doppio esagerato degli LHF e il controverso Dusk + Blackdown). Due giovanissimi osservati speciali per il 2013: Evian Christ e il nostro Furtherset. Qui la nostra recensione di quello che, stando alle poll di tanti magazine internazionali, e non solo, è uno dei dischi chiave dell’anno: Channel Orange. Con dentro tutto quel che serve sapere su Frank Ocean musicista e personaggio. E qui la nostra monografia scanzonata del fenomeno mediatico Skrillex, tra gli articoli più amati dell’anno, imprescindibile in questa rassegna.

3 3 3 3 3 Un anno di concerti: le tournée, la questione festival e il proliferare dei club A guardare indietro il grande cartellone live di quest’anno, viene un po’ di mal di mare. Perché, forse complice la costante flessione di un mercato che ripone nei concerti la sua fonte di guadagno e sopravvivenza, il paesaggio dei palcoscenici italiani e non solo è sempre più ampio e variegato, sempre più difficoltoso diventa anche tracciarne le linee, le correnti, mettere in ordine le idee. Di sicuro è stata degna di nota la tendenza del 2012 a riportare in campo band più o meno defunte, cronologicamente (Blur, Refused, Spiritualized) o anche discograficamente (Beach Boys, The Cure, Black Sabbath). Una prassi - che analizzeremo anche in seguito - che possiamo già confermare tra i must anche del 2013, basti vedere il programma di Lucca Summer Festival. Ci sono stati però anche i grandi one band event legati ai nomi più attuali, uno su tutti il tour dei Radiohead che (nonostante una lunga agonia tra cambi di date e location) ha convogliato l’attenzione di gran parte dei nostri lettori. E poi ancora Flaming Lips, Bon Iver, il doppio passaggio dei Wilco (solo per citarne alcuni) e il live dei Sigur Rós. Appena un anno fa (o poco più) non si faceva altro che parlare dello stato di crisi dei festival, in Italia e all’estero. Forse, verrebbe da dire ora, lo stato di crisi era quello di un certo tipo di evento. Perché anche senza tirare in ballo i grandi contenitori come San Miguel Primavera Sound / Optimus Primavera Sound o Pitchfork Music Festival - ché fuori dallo stivale l’erba è sempre più verde - esperienze nostrane come Ypsigrock, A Perfect Day 50


(ecco tornare fuori gli islandesi), A Night Like This, Transmission e soprattutto roBOt 5 e Club To Club hanno insegnato che la formula del festival può ancora funzionare, se presta attenzione ai propri utenti e alle scelte artistiche che opera. Anche in apertura accennavamo alla crescita avuta dalla musica elettronica, testimoniata anche dalla fame di live di quel pubblico che ha fatto la fortuna di roBOt e Club To Club: due kermesse che hanno avuto un’aumento costante negli anni e hanno raggiunto l’apice proprio nella loro ultima edizione (come abbiamo testimoniato nel nostro esaustivo report). Una fortuna - per modo di dire - che non ha toccato invece il britannico Bloc, imploso su se stesso e divorato dal suo stesso hype. Però riguardare dodici mesi tutti assieme, semplificarli in una serie di grandi nomi e di festival è quasi troppo facile, perché si esclude la miriade di club, locali e localini, associazioni che fanno il “lavoro sporco”: portarci sotto casa ogni fine settimana la band del momento, a volte azzeccandoci anche. Pensiamo a Bronson, Circolo degli Artisti, Covo, Hana Bi, Hiroshima Mon Amour, Locomotiv, Magnolia. Tutto il meglio dei live presi in giro per la penisola in questo lungo 2012 lo trovate, parole ed immagini, in questo nostro Best Of Live.

L’ann o dei di nosau ri vive nti Il 2012 è stato, tra le altre cose, l’anno dei dinosauri viventi. Pur con tutto l’affetto e persino l’amore smodato che nutriamo per le Patti Smith, i Neil Young, Scott Walker e i più giovani - ma ormai anch’essi senatori - Bob Mould, Dexys e J Mascis, non ci saremmo realisticamente attesi album tanto ispirati. In alcuni casi “solo” ben oltre il livello minimo della dignità (Banga della Smith), altrove mossi dall’intensità delle ossessioni migliori (il pasticcone psichedelico di Young, la verve rinnovata dei Dinosaurs Jr), talora persino in grado di scuotere il ventaglio degli ascolti contemporanei come una ventata selvaggia e visionaria (il rigurgito hardcore adulto di Mould e il carosello lancinante di Walker, o lo spettacolare musical soul dei redivivi Dexys). Degne di rilievo anche le prove di due avanguardisti della prima ora come John Cale e Brian Eno, mentre tantissimi consensi ha ottenuto il redivivo Bill Fay. Tra i fossili che credevamo più fossilizzati, sono tornati tra noi anche i Beach Boys, che hanno celebrato il mezzo secolo di carriera con qualche barlume dell’antico genio wylsoniano. Ma non possiamo certo tacere del più dinosauro di tutti, quel Dylan che con Tempest ha proseguito nel solco old-style prediligendo l’esercizio seriale di (grande) mestiere all’inventiva, ricavandone una formula poetica che col tempo potrebbe meritare ulteriore approfondimento. Certo, come è ovvio si sono registrate anche prove che potremmo eufemisticamente definire controverse, vedi il ritorno nevrastenico e sgangherato dei P.I.L. oppure lo Springsteen che tenta blande ibridazioni moderniste. Ma nel complesso questi trapassati del rock ci hanno piacevolmente stupiti. Non hanno calcato l’effetto-evento, sedendosi sugli allori di una vendibilità garantita a prescindere: se ne sono usciti con album veri. Probabile che si tratti di un casuale incrocio di circostanze favorevoli. Ma il caso, si sa, conosce ragioni che la ragione stenta a riconoscere. Escludendo l’influenza di fantomatiche congiunzioni astrali, potremmo ipotizzare che le ondate cicloniche di revival e la polverizzazione/ibridazione dei riferimenti stilistici abbiano preparato il campo al ritorno in grande stile del 51


rockettaro stagionato come esponente di una forma espressiva ben caratterizzata, riconoscibile, portatrice di un messaggio forte e persistente, ben oltre l’ambito semantico di una voce nella playlist del nostro lettore mp3. Finché li sosterrà la voglia e l’energia, evitando di cadere in un malinconico macchiettismo senile, saranno sempre i benvenuti.

Le c h i ta rre e il ritorn o dei Nova nta Il vecchio che ritorna e prorompe nell’attualità, innanzitutto, con segnalazione d’obbligo per gruppi storici al rientro in pista dopo uno iato abbastanza lungo, limitrofo allo scioglimento - parliamo ovviamente di Swans e Godspeed You! Black Emperor - o gente che mai aveva abbandonato la scena ma vi ritorna prepotentemente con watt, sudore e ottimi album, come nel caso degli americani Unsane e Converge. Gente finita un po’ ovunque in classifica e segno del vecchio che non passa (quasi) mai di moda (vedi alla voce, la mezza delusione dell’ultimo Dead Can Dance). Suggellata dalle imprescindibili ristampe e dall’annuncio del ritorno discografico dei My Bloody Valentine, la seconda traiettoria individuabile in questo 2012 è l’onda di ritorno dei 90s, che non ha mancato di far notare i suoi frutti sotto varie ed eterogenee forme: shoegaze e dream pop essenzialmente quasi che le insicurezze dell’oggi e la fuga nel paradiso dello stato onirico siano tornati d’attualità, ma forme sonore melodiche twee o jangle-pop (pensiamo al compleanno della neozelandese Flying Nun e ai tanti gruppi che dalla sua estetica sono stati influenzati) o scazzatamente indie alla Pavement (DIIV, Teen and so on) che ci fanno pensare che un certo “revival” sottotraccia sia già in atto, pur senza esplosioni mediatiche. I 90s sono tornati però anche in forme più dure, se non estreme, riprendendo la lezione delle spie al rosso dei Dinosaur Jr così come quella delle depravate band che alimentavano incendiari cataloghi come quello della mitica AmRep: un paio di nomi targati Sacred Bones o per una rinata Sub Pop come Pop.1280, The Men e Metz, per non parlare di A Place To Bury Strangers, Buildings e Cloud Nothing o dei nostri Pharm e Three Second Kiss ci dicono che un certo rock violento, ibrido, incompromissorio, paranoico e chitarristico nato nei 90s è ancora di strettissima attualità. Nello stesso modo lo è il garage sixties oriented e soffusamente psych, come quello che ha in lungo e in largo maramaldeggiato nel 2012 grazie agli instancabili Thee Oh Sees e Ty Segall, così come per merito degli alfieri Sic Alps o The Intelligence. Roba già nota questa del revival garage 60s che ha un suo epicentro ben identificabile in San Francisco, ma che non accenna a placarsi. Buon per noi, viene da dire. In ambiti “altri” da segnalare la sorprendente infatuazione delle band italiane per il terzomondismo noisy made in “Sud del mondo”, pronte cioè a rielaborare secondo forme disturbanti e rumorose le influenze provenienti da Africa, sud America e medio Oriente: vedi alla voce La Piramide Di Sangue, Mombu e relativa versione heavy Spaccamombu, Ninos Du Brasil e gli ultimi - ma non per questo meno interessanti - In Zaire e Al Doum & The Faryds. Infine, sempre all’interno dei patrii confini, impossibile non citare il lotto dei più estremi: The Secret, Ufomammut, Lento, tanto per far dei nomi, non sono che alcuni dei campioni del “metal da esportazione” che un ritrovato sottobosco italiano - da tenere sott’occhio i triestini Grime e Ooze ma anche i torinesi Tons e la ormai certezza Bologna Violenta - ci sta fornendo con una certa regolarità. 52


Trai e t tor i e o s c ur e e d i m en s i on i d i rice r ca Una certezza, innanzitutto. Il 2012 ci ha regalato la crescita esponenziale di una via italiana all’ambient-e-qualcosa che si fa man mano scena coesa pur nelle oggettive caratteristiche: ai padrini Gianluca Becuzzi, Fabio Orsi e Simon Balestrazzi - tutti tornati in ottima forma durante l’anno appena trascorso con, spesso, più di un disco e più di un progetto - si affianca una torma di giovani discepoli con le idee ben chiare, tra cui da segnalare sono Attilio Novellino, Alberto Boccardi, Giovanni Lami col progetto Terrapin, un Luca Sigurtà ormai certezza e un Giulio Aldinucci che proprio “nuovo” non è, visti i trascorsi come Obsil, ma che si mostra per la prima volta con nome e cognome, o gli outsider Fauve! Gegen A Rhino e Walking Mountains. Il 2012 è però soprattutto stato l’anno del centenario della nascita di John Cage occorso per la precisione il 5 settembre alle 17 ore californiane. Occasione festeggiata ed omaggiata ovunque e in mille forme diverse, da mostre ed esposizioni, festival, pubblicazioni, performance e ovviamente esecuzioni delle sue composizioni. C’è stato anche un gruppo facebook che, all’interno di un progetto grafico e curatoriale, pubblicava una massima al giorno del massimo (?) intellettuale del ventesimo secolo. Cage e le sue composizioni per pianoforte erano inoltre al centro della performance Nowhere di Marino Formenti, che di tacche dell’asticella ne ha alzate parecchie, restando, almeno finora, l’esperienza musicale più convincente dell’anno appena trascorso. Cage ci porta a parlare dell’elettroacustica e dell’impro elettroacustica, nel 2012 sempre più in salute soprattutto in Italia, come dimostrato dalla splendida uscita di Maggiore e Brasini, o, fuori dai confini nazionali, da Imikuzushi, output della triade Keiji Haino, Jim O’Rourke, Oren Ambarchi, e da molti altri dischi. Curioso, per essere il primo anno del dopo-Netmage, festival-manifesto nostrano della scena. Accanto a questi filoni, interessante anche lo sviluppo della (non)scena, sempre italiana, di band accomunate da atmosfere nere, esoterismo e ricerca estrema, ma soprattutto ascrivibili a quel carsico gusto apocalittico che caratterizza le musiche estreme del nuovo millennio. Father Murphy su tutti. A ruota, progetti dai nomi sempre più complessi e meno intelligibili come How Much Wood..., Hermetic Brotherhood Of Lux-Or, Architeutis Rex, (etre). Per il dopo apocalisse troviamo invece il duo romano Heroin In Tahiti ma anche le ottime prove di Raime, Demdike Stare e Vatican Shadow. Il nero trionfa su tutto e le insicurezze, le paure, i timori (millenaristi e non, catastrofisti e non) sembrano segnare molto più di qualsiasi referente musicale l’anno in corso e il decennio da poco passato.

Folk : t r a ava n g uar d i e , dar k e t r a diz ion e, sem pr e più tinto d i ro sa A guardare le classifiche di fine anno verrebbe da dire che il 2012 è stato un anno in cui è mancato il versante folk, perché non ci sono i numeri e l’hype, per dire, di un Fleet Foxes. Eppure, sebbene sia mancato l’acuto, troviamo numerosi album che confermano i segnali di un folk ancora vivo a cominciare da un disco Costellation forse troppo sottovalutato, Devastates, in cui gli Elfin Saddle continuano un percorso tra occidente e oriente contaminato avant. Contaminazioni avant e intellettuali che caratterizzano anche Hanne Hukkelberg e la sua musica, che in Featherbrain si coagula attorno a due poli apparentemente contrapposti come il mondo arty e quello pre-war. Fiona Apple sforna la sua miglior prova, e forse la miglior prova in 53


quest’ambito, che la pone definitivamente tra coloro che da promessa sono diventati artisti maturi e profondi. Nell’ambito del traditional più ortodosso, Josephine Foster si conferma un’artista di qualità: sempre assieme al compagno Victor Herrero ha sfornato un disco in spagnolo (Perlas) e uno in inglese (Blood Rushing). Il 2012 ha poi visto concentrarsi, come raramente negli ultimi anni, lo sguardo sulla Scozia, fonte forse di tutte le tradizioni in questo filone. Alasdair Roberts ha messo lo scozzese di Mairi Morrison al centro di un progetto musicale fortemente voluto dal Centre for Contemporary Arts di Glasgow e sta per tornare con un nuovo disco che potrebbe essere quello della definitiva maturità. Dalla Scozia vengono anche i Trembling Bells che nel loro The Marble Downs hanno ospitato Bonnie Prince Billy, quasi che dal Kentuky non si possa che guardare alle Highlands. Sul fronte del folk più cinematico e da “cieli aperti” non si può dimenticare il ritorno dei Giant Sands e dei Calexico (quest’ultimi, a dire il vero, meglio dal vivo che su disco in questi dodici mesi) oltre che dei Ronin e dell’ottimo Rosario di Sacri Cuori. Per il filone dark ottimi segnali dai solisti neurosiani come Steve Von Till e Scott Kelly, senza dimenticare il più che valido Burning Daylight di King Dude. E se aggiungiamo anche Anais Mitchell e Holly Golightly con due dischi stilisticamente impeccatbili (folk classico e garage-country) l’area folk/ country del 2012 non si può certo dire insoddisfacente.

Po p d’au to re tr a cr o oni n g e v ec c hie vol pi Il crooning è la roccaforte più solida del pop. Lo confermano la fotosintesi scottwalkeriana ma anche prove più tradizionali come quelle del tedesco Get Well Soon, degli americani Mountain Goats e degli immarcescibili Tindersticks. Newman’s Open Choir di Catch Bees (al secolo Philip Waggoner) dona nuova linfa al chamber pop e, nondimeno, Rufus Wainwright che lontano dalle dolenti ballate e vicino al cantautorato classico (Elton John, Billy Joel) dà una bella conferma con Out Of The Game. Dal Belgio sono giunti alla seconda prova dei Balthazar (Rats) e il raffinato crossover pop-jazz dell’Erik Truffaz Quartet di El Tiempo de la Revolucion - con un’ospite d’eccezione, Anna Aaron, forte di un bel debut album (Dogs In Spirit) pubblicato l’anno scorso. Sul versante francese teniamo d’occhio naturalmente Rover che a raccolto consensi un po’ ovunque, mentre su quello scandinavo citiamo volentieri il sorprendente ritorno degli Efterklang, il cui sound rinnovato - figlio anche dei lussuosi arrangiamenti degli anni Settanta - tira in ballo i Divine Comedy, Mark Hollis, Peter Gabriel ma anche David Sylvian. Uk. Sul versante 90s hero, mentre attendiamo il ritorno dei Suede, l’anno che si chiude ci ha consegnato un’insolita prova di Damon Albarn (impegnato anche nel progetto Rocket Juice & The Moon), un solido album di Graham Coxon e un appassionato Tim Burgess con Oh No I Love You, scritto a quattro mani con Kurt Wagner dei Lambchop. Male sul versante reduci 00s, con Killers, Bloc Party e Kaiser Chiefs in evidente affanno. E molto meglio invece per tre gran bei ritorni dagli 80s come quello dei Deacon Blue con The Hipsters, un disco classico pur non risultando affatto fuori tempo, Can’t Go Back di Tanita Tikaram e soprattutto One Day I’m Going To Soar dei Dexys, a ventisette anni di distanza dal precedente Don’t Stand Me Down. Lasciamo perdere il supergruppo di Trevor Horn e Stephen Lipson, i Producers, ma una menzione per i Cult di Choice Of Weapon e i Marillion di Sounds That Can’t Be 54


Made non ce la facciamo mancare, anticipandovi anche che il 2013 ci porterà altri comeback direttamente dalla Scozia come quello di Horse McDonald e quello dell’ex Orange Juice Edwyn Collins, mentre i Love & Money di James Grant - tornati con The Devil’s Debt - riproporranno dal vivo il capolavoro Strange Kind Of Love (prodotto da Gary Katz, già in cabina di regia in molti dischi degli Steely Dan e del gioiello The Nightfly di Donald Fagen). Tra le nuove promesse del Regno stravincono gli Alt-J, premiati dal pubblico e da un Mercury Prize, gli Heartbreaks ci consegnano un album fresco e divertente, i TOY un promettente esordio tra Ride e My Bloody Valentine sull’onda degli Horrors e S.C.U.M, e i Clock Opera un’affascinante sintesi elettronica con Ways To Forget. Un altro debutto da non dimenticare, direttamente da Edinburgo, è quello degli Django Django, che studiano sui dischi della Beta Band (ma anche di Brian Wilson e dei Fleet Foxes). Bene è andata anche agli Egyptian Hip Hop, con un lavoro dalla lenta combustione, dalle qualità espansive e sorprendentemente coeso. Il mondo 80s sintetico resiste anche quest’anno non senza una certa sensazione di stanca. Si conferma Twin Shadow con Confess, mentre gli Ice Choir, side project di Kurt Feldman dei Pains Of Being Pure At Heart, si ritirano in una certosina riproposizione dei suoni caratteristici delle soft keyboards d’antan tra Scritti Politti e Tears For Fears. Chairlift e Violens giù per quel sentiero. Sul versante twee, buona l’ultima prova dello svedese Jens Lekman, I Know What Love Isn’t forte della consueta ricetta a base di Brian Wilson, Morrissey e Sarah Recs, mentre, tra le nuove sensazioni, abbiamo invece gli Alpaca Sports, duo di Göteborg formato da Andreas Jonsson e Amanda Åkerman, che hanno rappresentato la new sensation del caso con una proposta fatta d’incalzanti melodie pastello e liriche gentili. Attendiamo il debutto per il 2013.

55


Recensioni gennaio

— cd&lp

2 Chainz - Based On A T.R.U. Story (Def Jam Recordings, Agosto 2012) Genere: hip hop L’MC un tempo noto come Titty Boy torna a deliziare gli ascoltatori con un nuovo prodotto a nome 2 Chainz. Based on T.R.U. Story, questo il titolo del nuovo parto, è uno di quei lavori che costringono il recensore a un superlavoro di diplomazia, per evitare di essere troppo superficiale. Diciamo che questo disco rientra in quella categoria di album hip hop che poco o nulla hanno a che fare con quello che un ascoltatore del genere con un minimo di cultura si vorrebbe trovare tra le mani. E questo di per sé non è necessariamente un male, il mondo è bello perché è vario e ci sono tanti generi musicali per tante tipologie differenti di ascoltatore. Il problema è che questo disco, di una lunghezza spropositata per quello che riesce a dare (in 17 tracce il mal di testa e la voglia di spegnere tutto sono sempre in agguato), viaggia su degli standard bassi tanto nei suoni quanto nel rap. Dando ovviamente per scontato che un prodotto può benissimo essere destinato al mercato mainstream pur rimanendo su dei buoni livelli, bisogna dire che questo non è proprio il caso. Non c’è traccia di un Kid Cudi, o di un Eminem, o di un Jay-Z, in queste canzoni. La qualità dei suoni è impressionantemente vicina alle parodie dei Lonely Island o delle Epic Rap Battles of History (su Youtube è possibile visionare entrambe le cose), e ci si affida in larga parte a un suono standard che risulti il più sintetico possibile, a batterie minacciose, a hi-hat irritanti oltremodo. Il tenore dei testi ruota attorno ai luoghi comuni che l’ascoltatore di musica rap non abituale potrà ben comprendere (posizioni discutibili riguardo alla figura femminile, turpiloquio diffuso, esaltazione del lusso) e la qualità del rap è incatenata da uno schema quadrato ripetuto all’inverosimile. Non va meglio quando si tratta di passare il microfono a qualche ospite, essendo i feat affidati a Kanye West (raramente irresistibile come rapper; nella fastidiosissima Birthday Song), Drake e Nicki Minaj, oltre che a un abbondante numero di vocalist più o meno noti. E’ tutto al limite dell’umorismo involontario, ma è preoc56

cupante la serietà con cui la cosa viene in realtà affrontata. Un album per ascoltatori distratti e non educati, che nulla aggiunge e nulla toglie al lato più mainstream del genere, e ulteriore occasione, come già scritto da me in precedenza, di meravigliarsi di come questo tipo di produzioni riescano a essere di pubblico dominio e addirittura potenziale punto di arrivo per un aspirante MC di oggi. (3.5/10) Sebastian Procaccini

Andrea Van Cleef - Sundog (Great Machine Pistola, Ottobre 2012) Genere: folk-blues Dopo varie avventure in gruppo (Das, Bogartz) ed esperimenti quasi-solisti (Van Cleef Continental), Andrea Van Cleef approda all’esordio a suo nome con Sundog, buon esempio di cantautorato folk-blues immerso in nostalgie nineties. Gli indimenticabili anni 90 sono infatti il filo conduttore di tutto l’album, leit-motiv declinato in varie soluzioni ma comunque sempre debitore al miglior songwriting del periodo, con Mark Lanegan a far da nume tutelare ad una brumosità vocale che richiama soprattutto i primi due lavori solisti del suddetto. C’è da chiarire, però, che Andrea non si propone in veste di imitatore/erede dell’ex Screaming Trees: i parallelismi nascono soprattutto da un comune immaginario, quello che, partendo dai grigiori della più profonda periferia americana, arriva a congiungersi con i padri fondatori del genere, da Hank Williams a Johnny Cash, fino al black-blues del Mississippi.Il risultato è un folk oscuro in cui la struttura asciutta delle canzoni sottolinea l’ottima vocalità del polistrumentista bresciano, come in A Sea Song, costruita su voce e piano, o A House By The River e la sua ottima melodia acustica. Una voce, dicevamo, che pur vivendo di profondità baritonali e umbratili, evita il rischio di fossilizzarsi su se stessa, variando ora in sonorità country/gospel (l’organo di The Day You Tried To Kill Me), ora in languori rock-soul, (l’incedere latin di The Clinging Song, arricchito da una voce femminile in perfetto contrasto con quella del cantautore). Le successive If e The New Earth riconducono all’essenzialità acustica di


Alasdair Roberts - A Wonder Working Stone (Drag City, Gennaio 2013) Genere: folk Dopo la bella prova in compagnia di Mairi Morrison nel disco voluto dal Centre for Contemporary Arts di Glasgow, Alasdair Roberts riprende il suo prolifico percorso personale. In realtà questo nuovo album è intestato a un non meglio precisato nugolo di “& Friends” che prestano i propri talenti musicali al lead singer nella migliore tradizione del folk scozzese. Urstan era un disco che si basava molto sui traditional, sull’uso della lingua scozzese seppur trasfigurando il tutto in una moderna interpretazione del folk che prende a prestito jazz, latin e altri umori. A Wonder Working Stone, al contrario, è più ortodosso ed epico, basato sulla voce al centro del racconto, sui violini che sottolineano i cieli scuri del nord, atmosfere da mare in burrasca: è chiaro che Roberts vuole essere ricordato come uno, il più recente, degli anelli di una storia che vive oltre il presente, in un passato glorioso e un futuro che è a portata di mano. Musicalmente siamo sempre in un intrico di rimandi tra Fairport Convention, Pentangle e quel Will Oldham che non troppo tempo fa è andato anche lui in Scozia per registrare The Marble Downs con i Trembling Bells: come a dire che lì c’è una delle fonti eterne di qualsiasi folk music. Lasciatevi allora trasportare dai flauti e dal ritmo da taverna di The Wheels of the World / Conundrum, dai racconti in capitoli dei medley Song Composed in December / The Bluebell Polka / Rap Y Clychau Glâs, Scandal and Trance / We Shall Walk Through the Streets of the City: brani lunghi una notte di whiskey e birra, con il pathos del canto comunitario. O fatevi conquistare da ballads (The Laverock in Blackthrone, The Brother Seed sostenuta da un organo tombale) che frustano le guance come il vento delle Highlands in quello che tra i dischi a suo nome è sicuramente il più solido di Roberts. Alasdair riesce a scrivere oggi canzoni che sembrano scritte mille anni fa e canta canzoni di mille anni fa con l’urgenza di oggi. Il suo non sarà un programma originale, ma è tutt’altro che poco. (7.2/10) Marco Boscolo

inizio album, a cui segue il desert-rock di Seawater Girl e una conclusiva Andromeda che mastica un blues per un vecchio western alla Sergio Leone. (7.1/10) Giulia Antelli

Bachi Da Pietra - Quintale (La Tempesta Dischi, Gennaio 2013) Genere: stoner-blues Inizia tutto come da copione nel disco “hard rock” (Dorella dixit) dei Bachi da pietra: feedback di chitarra elettrica che cincischia nell’introduttiva Haiti fino a diventare un riff tiratissimo da far invidia ai Kyuss più ispirati. Il primo ascolto di Quintale è una botta terrificante. Paolo il Tarlo cita gli Unida di John Garcia virgolettati no wave (c’è il sax stritolato di Arrington de Dionyso degli Old Time Relijun a campeggiare tra i crediti del brano), in Brutti versi la voce di Succi azzanna uno stoner urticante manco fosse un Rottweiler, in Coleottero si arriva ai confini col metal. Un plettro e un charleston ampliano l’organico della band e d’improvviso l’universo dei Bachi è sottosopra,

salvo accorgerti che la rivoluzione passa soprattutto per certi testi: accantonato il verso scolpito e sibilante del passato, si opta per una parola che è parabola, frase canonica, narrazione, in alcuni frangenti figlia di un reiterare ritmico (una Enigma che cita addetti ai lavori più o meno nell’orbita della formazione, da Ceccarelli di Estragon Lab a Chris di Bronson Produzioni, da La Tempesta Dischi ai Massimo Volume, da Mirko Spino di Wallace Records a Rico Gamondi di Uochi Toki/La morte), in altri di una spoken word quasi hip hop che non disdegna il gioco di parole (Fessura), in altri ancora di uno scorrere lineare anomalo per i canoni del gruppo (Dio del suolo). Accanto alla voglia sacrosanta di sperimentare con gli amplificatori si assiste, paradossalmente, a una sorta di normalizzazione rispetto ai dischi precedenti. Come se la finzione “teatrale” o “letteraria” che ha retto tutta la discografia dei Bachi fino ad oggi, quell’immaginario sotterraneo e fangoso fondamento della credibilità di un suono inquietante e ridotto all’osso, cedesse il passo a un tentativo di rientrare nei canoni di “genere”. Sia stata o meno la produzione (riconoscibile) di Giulio Ragno Favero a far da catalizzatore in questo senso, è innegabile 57


come accanto ai solidi brani sopracitati, Sangue o Mari Lontani, convivano parentesi che, loro malgrado, “bromurizzano” la personalità particolarissima ed esclusiva dei Bachi. Ciò che accade, ad esempio, in Dio del suolo, in Ma anche no o con la slide guitar di Pensieri Parole Opere. Considerata l’esperienza dei musicisti coinvolti, le aspettative per la quinta fatica di studio dei Bachi da Pietra erano altissime. Succi e Dorella rispondono con un Quintale fisico e di buone idee che convince senza sconvolgere, come se tutto fosse, in definitiva, meno pericoloso del previsto. (7/10) Fabrizio Zampighi

Big Boi - Vicious Lies and Dangerous Rumors (Purple Ribbon, Dicembre 2012) Genere: Hip Hop E’ forse destino dei due André (André 3000 e Big Boi), meglio conosciuti come Outkast, quello di infrangere delle barriere. Con Stankonia portarono all’attenzione mondiale una scena, quella del sud, fino a quel momento rimasta ai margini dell’atlante dell’hip hop che conta. Ci riuscirono offrendone una versione molto rieducata, una musica funk e psichedelica affiancata da rime di altissimo livello, del tutto diverse da quelle semplicistiche e volgari che si pensava popolassero la scena southern. L’ultimo tabù venne infranto dal debutto solista di Big Boi, Sir Lucious Lef Foot, che a gran sorpresa divenne uno dei più apprezzati dal colosso Pitchfork. Big Boi, il membro ritenuto più vicino allo stereotipo del rapper tutto culi e Cadillac, riuscì a imporsi come uno dei re dell’hip hop senza liberarsi di questa fama ma, anzi, giocando con tali stereotipi per sovvertirli dall’interno grazie a Sir Lucious: un concentrato irresistibile di tutto quanto non avevamo mai voluto ascoltare dagli Outkast: brani da dancefloor, erotomania, un sound plasticosissimo e ammiccante erede più di Prince che dei Parliament. Il tutto magnificato dall’idea ormai chiarissima che Big Boi non avesse tecnicamente molti rivali nel flow. Dopo un disco del genere era chiaro che il seguito, questo Vicious Lies.., fosse atteso come un successo già conclamato. Ma purtroppo a questo giro la voracità musicale di Big Boi si è spinta troppo oltre, verso un connubio tra hip hop, indie e elettronica basato su una vasta gamma di collaborazioni di lusso che però rifiutano di unirsi in un qualcosa di coerente. Nei casi più gravi, come le ben tre tracce in collaborazione col due electro-pop Phantogram, i brani non riescono a essere coerenti neppure presi singolarmente: risultano un incidente stradale mostruoso tra l’elettronica spigolosa e futuristica di Josh Carter, i ritornelli malinconici e synth pop di Sarha Barthel e il rap di Big Boi di cui non si riesce 58

a venire a capo. Neppure la comparsa in uno dei tre, Lines, del giovane re mida Asap Rocky riesce a risollevare il livello, il pretty motherfucker regala probabilmente la peggior performance che abbia mai registrato. Altri punti dolenti sono Shoes for running (in collaborazione con Wavves e B.O.B.) e Apple of my eye che sembrano, rispettivamente, un b-side degli Animal Collective e uno di El Camino dei Black Keys. Sono invece più fortunate le tre tracce in collaborazione con i Little Dragon: Thom Pettie, in cui compare anche Killer Mike e ricorda molto i brani aggressivi e elettronici del suo ultimo disco; Descending, un brano finalmente morbido e sexy come ci aspettiamo da Big Boi, e il dub(step) futuristico e distopico di Higher Res. brani più tipici di Big Boi come The Thickets, In the A (con T.I. e Ludacris) e Raspberries sono più convincenti ma restano però molto lontani dall’eccellenza. Per quanto Big Boi si confermi secondo a nessuno come MC, con una performance sempre ottima, questo non basta a salvare il disco dall’impressione che sia una raccolta di idee raffazzonate o, forse, troppo ambiziose per i comuni mortali. (6.5/10) Gianluca Carletti

Broadcast - Berberian Sound Studio (Warp Records, Dicembre 2012) Genere: colonna sonora Sono passati due anni da quando è morta Trish Keenan, voce e fonte continua dell’immaginario gorgogliante dei Broadcast. Personalmente, l’episodio della sua dipartita è l’unico motivo per cui mi ricordo ancora oggi dell’esistenza del virus H1N1, e lo stramaledico con tutto me stesso. Partendo con questo mood, è logico pensare che pubblicare una colonna sonora oggi - a nome Broadcast, con la voce di lei che muove ancora il sangue in vena - sia operazione per raschiare il fondo della bara. In fondo, invece si tratta di un oggetto musicale nato Trish vivente - per accompagnare un film che a prima vista si direbbe in pieno stile con il progetto. Si chiama Berberian Sound Studio ed è un omaggio al cinema horror italiano anni Settanta, con tanto di campioni di voci dall’oltremondo in lingua nostrana che si alternano alle atmosfere broadcastiane - inevitabilmente sincretiche con le tastiere e il thrilling ipostatizzato delle OST di Dario Argento e alle atmosfere più cupe di Morricone o di Bruno Nicolai, come ci suggerisce la stessa Warp, responsabile della produzione. Il film racconta la vicenda di Gilderoy, ingegnere del suono che nel 1976 va in Italia - al Berberian Sound Studio - per seguire l’ultimo film di Giancarlo Santini, The Equinox Vortex. I Broadcast sembrano l’anello man-


Amari - Kilometri (Riot Maker, Gennaio 2013) Genere: pop / cantautori Lo dice anche wikitalia, gli Amari sono una band oramai storica della recente scena italiana, uno dei gruppi che per primi e meglio ha dato un senso al concetto di indie qui da noi, quando ancora li definivano e si definivano hip hop, prima che questa parola indie - diventasse quello che è diventato: una parolaccia. Un percorso in crescita il loro, che ha raccontato il freddo della provincia italiana fatta di piazzette camerette relazioni amori fantasie interdizioni avrei voluto e avrei potuto con leggerezza e intelligenza, fino alla prima quadratura di Gran Master Mogol (2005) e fino alla resa all’intimismo del bellissimo Scimmie d’amore, probabilmente il disco italiano più importante del 2008. Poi il divertissement defatigante e di pancia dell’electofunk di Poweri (2009) e tante occupazioni collaterali, con Pasta a inseguire come sempre i sogni italo-house dei Fare Soldi e Dariella impegnato a scrivere i testi per Syria, fino all’omaggio agli 883 di Con due deca. Era nell’aria che questo sarebbe stato il disco pop degli Amari e così è. Ed è anche il più italiano, nel senso di cantautorale, costruito su musiche asciutte, scarne, diremmo dimesse, quasi trasparenti, tutte al servizio della voce, basti sentire quelle vocali cantate e allungate (oooo) e quegli archi sanremiani e quei controcanti (in A questo punto, fin dal tema, un altro - implicito - omaggio alla poetica di Max Pezzali). La cifra amariana è fortissima per quanto trattenuta all’essenziale, tutta condensata nell’intonazione, nella cadenza, nella prosodia di Dariella e Pasta, che cantano ancora una volta la provincia (cercando di spiegarla a chi sta in Africa) e il nostro tempo, che è il tema chiave di Kilometri: soltanto numeri in fila tra di noi, spazio percorso sineddoche di quello ancora da percorrere, e quindi futuro (vedere anche la criptoclessidra della copertina). Lo cantano in maniera lieve, come sostituendo la carta da scrivere con la carta velina, rigirando tutto in una agrodolce giocosa vena (non) narrativa dal taglio in fondo esistenziale. Con sparsi haiku folgoranti: Stare svegli è più facile che andare a dormire, Ti sembra assurdo che io debba mangiare, E’ una rivoluzione ad ogni malumore, Ieri ho scoperto la domenica sera, Da stavolta non ti vengo più a prendere, Com’era facile innamorarsi negli anni Novanta, Sin da piccolo spingevo sui pedali sapevo gareggiare ma non arrivavo mai. Aspettare aspetterò è la loro English Man in New York; Ti ci voleva la guerra - come ha notato anche Rolling Stone - la loro Coffee & TV; il singolo Il tempo più importante ha il piano di certi Coldplay dei tempi d’oro - e quel prendere per mano il logorio dei giorni è così Battisti/Mogol - ed è semplicemente un instant classic; l’inciso di Il cuore oltre la siepe è un puro affondo nell’emo (come possono essere emo gli Amari); La ballata del bicchiere mezzo vuoto unisce filastrocche bambine e l’epica delle fanfare elettroniche di un Kanye West; Kilometri è un pezzo pop elegantissimo, con un cuore di felino r’n’b e una pulsazione alla Teardrop, come un ricordo fantasma di Antonella Ruggiero/ Samuel. Sono canzoni che sono gioielli. Con un disco come questo, tenero leggero ma anche ossessivo, come può esserlo guardare l’adolescenza dietro i vetri appannati di un tram (artisti del rimpianto), a metà strada tra gli XX e Samuele Bersani (amatissimi i primi da Dariella, il secondo presentissimo nel suo timbro e nelle sue inflessioni), il pop sbagliato di casa Riotmaker suona sempre meno sbagliato. (7.4/10) Gabriele Marino

cante, eppure, come un troppo che stroppia, inbevuto di Berberian Sound Studio, il duo riemerge un po’ caricaturale. Come ogni caricatura, il disco finisce per sottolineare alcune finezze a cui a volte non si presta attenzione. Penso alla differenza tra musica cinematica (lo è, quella dei Broadcast?) oppure estremamente visiva, volta cioè a generare immagini (bingo). E di questo già sapevamo, in realtà, dopo la collaborazione con Focus

Group. La cosa è apprezzabile anche nei due tre temi che dominano la colonna sonora del film, che però sono meno obliqui, meno “weird” e meno capaci di allestire e abitare un mondo intero rispetto a quelli (in numero e in ampiezza di soluzioni molto maggiori) del capolavoro Investigate..., che non a caso rimane il loro testamento. (6.5/10) Gaspare Caliri

59


Burial - Truant | Rough Sleeper (Hyperdub Records, Dicembre 2012) Genere: hypnagogica Burial ci è e ci fa. Gioca con la non-immagine che si è costruito ma che a prescindere lo rispecchia, questa figura se non proprio di santo laico sicuramente di eremita ed eretico tipo Bansky del dubstep. In mezzo a tutta questa agiografia - in bianco e in nero - qualcosa forse c’abbiamo anche capito. I suoi pezzi sono tutti uguali. Perché lui è uno che ha inventato qualcosa che è solo suo - una musica che prima di tutto è un suono e quindi un’idea - e come molti artisti che diventano aggettivi - burialiano - tende a firmare sempre lo stesso gesto, lo stesso pezzo. I pezzi di Burial sono stereotipi disegnati addosso a se stesso solo, copie figlie dello stesso stampo, tutte uguali e tutte diverse perché gli scarti che si annidano nei solchi della matrice sono il segno della differenza, l’ossessiva - autistica? solipsistica? ruffiana nel suo trincerarsi così outsider? esplorazione delle variazioni della stessa formula, a partire sempre dagli stessi ingredienti. Di tutte le cose che spiegano e fanno di un suono il suono-Burial (le cadenze jungle/2-step impolverate ma soprattutto il timbro legnoso del rullante, la ambience sporca eppure vaporosa, uno spazio riempito solo dai vuoti del dub), in mezzo a tutti questi microscarti (la scoperta della house e della techno, almeno fin da Unite, 2007; del rumore stile field recording, fin da Distant Lights, 2006; dell’uso (anti)strutturale della voce, fin dagli strappi di South London Boroughs, 2005), restano massimamente - massivamente burialiane soprattutto quelle voci fantasmatiche, pilastri fragili al centro di soundscape che raccontano un’idea di soul trovato, ritrovato tra detriti, da dopobomba. Generi e stilemi questi citati che Burial rilegge come smaterializzati, come quello che resta quando di essi non resta che l’idea. E allora più che scoperte: ricordo. Più che legnoso: fossile. Più che dub: suggestione dub. Più che soul: emo. Con il dittico Truant / Rough Sleeper - ancora e sempre titoli autodescrittivi come bozzetti o cortometraggi Burial continua le sue microesplorazioni. Qui lo scarto al centro del gioco è lo sviluppo del collagismo diciamo elettroacustico di Kindred, tanto che quando Kode9 aveva messo i pezzi - per intero, solo con una lunga intro di 10 minuti - al Club to Club pensavamo stesse smanettando assai, anche troppo. E’ invece no, è solo lui che gioca di strappi, salti di puntina e silenzi in uno slacked radio switch che disattende di continuo l’ascolto, smette di farti muovere a tempo ma senza il gioco degli stop&go, facendo diventare questa musica elettronica musica folk raccolta per strada: entografia di un ricordo. E’ il dubstep del ritorno a casa dopo la notte, del sonno, 60

del sogno. In linea con il lavoro sulla memoria che Hyperdub sta facendo particolarmente suo negli ultimi tempi, legando assieme utopismo afrofuturista e retrologia. Una voce dice I fell in love with you per raccontare un abbandono che è più una rassegnazione, tra tante piccole tracce sparse, anzi sparigliate in sezioni anche molto nette, che confermano il Burial sfocato perché sempre in leggero movimento che conosciamo (pathos ascensionale, accenni techno-house, scheletri trip hop, slavati ricordi come tinnit dopo un rave, pulviscoli dark ambient, bolle dub, addirittura un sax come fusion in un vicolo). Un abbandono che è rassegnazione ma non (più) disperazione (forse accettazione), con un sorriso che alla fine si apre timido sul volto, una pulsazione housey e uno scampanellio baciati da una semplicità e da una grazia speciali, che riportano in scena la luce pallida e tiepida di Moth. Burial sta portando avanti un percorso personale (forse anche troppo, rappresentativo di se stesso soltanto), ma con questa storia degli EP centellinati adesso ha stancato. Per capire a che punto di cottura siamo serve l’album. (7.2/10) Gabriele Marino

Cabeki - Una macchina celibe (Tannen , Ottobre 2012) Genere: avant-cinematic Il passo numero due per Cabeki a.k.a. Andrea Faccioli accentua ancora di più la sua natura colta e ibrida tra avanguardia, canzone d’autore priva di parole e gusto per le composizioni in bilico tra orizzonti cameristici e lande da imaginary soundtrack. Una Macchina Celibe prende spunto dall’armamentario linguistico del padre della patafisica Alfred Jarry per donare un surplus di visionario spaesamento a composizioni piccole solo per il minutaggio, in cui l’afflato umorale, malinconico a tratti, giocoso in altri, spesso dotato di una sensiblerie tutta particolare dell’autore, si va costruendo e sedimentando man mano, a piccole dosi sonore. Capita così di chiudere gli occhi, lasciarsi andare al flusso “cinematico” di Cabeki e ondeggiare tra evanescenti influssi del miglior Nino Rota (Il Necessario Ritorno) e yanntierseneschi contrappunti classicheggianti (Verso Il Ronzio Remoto), tintinnii folk arcaici in punta di corda come un Fahey in fissa con strumenti giocattolo (Fra Elettrodi Di Seta Blu) o sogni western deturpati e sconfitti alla Dead Man jarmushiano suonato con la sagace giustezza di Morricone (L’Ultimo Degli Uomini) e addirittura semi-orchestrazioni da GY!BE mesti condensati in un solo uomo come in La Diapositiva Si Ricorda. Folk, psichedelia dell’animo, classica, musica da film,


Ela Orleans - Tumult In Clouds (Clan Destine, Dicembre 2012) Genere: surrealistic pop E’ da qualche anno che Ela Orleans lavora ad una sua visione del patchwork audio-sonoro. Musicista di origini polacche, trapiantata prima a New York, poi a Glasgow, ora affiliata al giro Clandestine e soprattutto abitante solitaria di mondi surreali costruiti in completa autarchia,. Da un lato, può essere considerata come l’erede legittima di signore europee con l’estetica del cut-paste come Solex e Niobe. Dall’altro, la gradazione onirica dei brani, un gusto neppure tanto velato per un’exotica privata di ogni virtù kitch e una conoscenza enciclopedica delle musiche per film e della library music fanno di Ela, una necessaria variante della Ghost Box, in special modo della sua filiazione stregonesca via Broadcast meets The Focus Group. Quindi per andare in contro agli intellettuali.. ebbene si! C’è qualcosa di hypnagogico qui, ma il tutto è così calato in una dimensione manipolata, fuori dal tempo, che l’unica definizione calzante non può essere altro che quella di un cantautorato anni 2000, dove al posto di chitarra e versi cantanti, ci sono loop, campionamenti, frammenti scomposti di musiche provenienti da ogni dove. Ora, dopo due dischi su La Station Radar, Lost e Mars is Heaven e il celebrato split con Dirty Beaches dell’anno scorso, la musicista polacca è pronta per il passo fondamentale del doppio album in questione. Sorta di rassemblement generale di tutti gli umori della sua musica e disco di un certo peso, non solo in termini di minutaggio. Ela Orleans fa le musiche che danzano i fantasmi nella Gold Room dell’Overlook Hotel. Si potrebbe andare avanti per ore, cercando di elencare tutte le visioni distorte che vengono generate da queste marcette deviate, tanto vale quindi sottolineare solo gli highlights. Ela attacca il lato A del primo disco con la nenia agro-dolce di A Jealous Lover: voce campionata, ritmo dance, coro di voci etereo. E’ solo il lasciapassare per una caduta a peso morto nella tana del bianconiglio. Ogni brano, una veste diversa, un ambiente mutato. Dark Wood è un giochino metronomico che fa scontrare i Piano Magic degli ep di inizio carriera con Belbury Poly; This is, azzarda su una base hip-hop, un’arietta anni ‘50 che sembra fare il verso alla Julee Cruise di Lynch, mentre Nocturne, è una sinfonia dall’umore ultraterreno che trova un ponte tra l’onirismo etereo di This Mortal Coil e il neoclassicismo gotico della Miasmah. E ci sono ancora le fenomenali Leopard e Longing, che prendono Martin Denny e lo derubano di qualunque appeal esotico, lasciandolo isolato in quella che qualcuno ha giustamente definitivo “haunted dancehall”. Risky Trip To The Underworld è una marcetta kraut che svirgola rapidamente nella delirante title track, patchwork di refrain cigolanti para-industrial, cantato gospel, cori doo wop e una spessa patina lo-fi che corrode gran parte dei brani del secondo disco. All Men sarebbe una potenziale hit se non fosse che Ela taglia tutte le frequenze e mette in piedi uno spericolato equilibrio tra ritmi e voci, così come il sinfonismo ambient di Rolling Waters che vive lo stessa idea di corrosione sistemica di The Careteker. La chiusura sbarazzina con il rock’n roll di In The Night da una pacca sulle spalle all’ascoltatore, riportando sulla terra, tra i comuni mortali, dopo un’ora di viaggio tra le nuvole tumultuose. Disco densissimo, ispirato e ricolmo di idee, che fa fare alla sua autrice un balzo impressionante in avanti, collocandola tra i grandi surrealisti sonori di questi anni. (8/10) Antonello Comunale

molto altro ancora si rintraccerà in Una Macchina Celibe. Album eterogeneo e toccante in cui a tessere veramente le fila - e forse a chiudere il cerchio col visionario citato in apertura - è la capacità di Faccioli di togliere senza per questo rinunciare. Tessiture minime ma dall’alto tasso evocativo. (7.2/10) Stefano Pifferi

Christopher Owens - Lysandre (Pias, Gennaio 2013) Genere: Pop-folk Pochi dubbi sul fatto che lo split dei Girls annunciato da Christopher Owens lo scorso luglio abbia chiuso una piccola epopea. Con appena due lavori - Album e Father, Son, Holy Ghost la band si è imposta nell’immaginario collettivo per fatti di costume e soprattutto per capacità di scrittura, arrangiamento e non ultima una cifra 61


stilistica in grado di ritornare ai sempiterni formati 60s e 70s lisergici con gusto contemporaneo (leggi: fuori dalle facili hipsterie). Dietro ai Girls c’erano due persone: Owens che scriveva, cantava e in definitiva rappresentava il cuore melodico e mediatico della band, e Chet White, montatore, coreografo quando non sceneggiature, l’uomo dei microfoni e delle gear, quello in fissa con gli amplificatori e le notti in stanze e stanzoni a rifinire i brani. Lo split ha rotto un incantesimo e dal ragazzo solitario tutto ci saremmo sapettati - dall’album in cameretta alla Barrett alla raccolta di ballad bucoliche in semiacustico tranne che un concept album vecchio stampo. Lysandre soprende: il folk psych è la base di ieri e di oggi, ma chi se lo aspettava un lavoro con un main theme in diverse salse e una storia autobiografica e romanzata su un preciso arco temporale (2008-2012) e geografico (San Francisco, New York City e la Costa Azzurra) con in più tanto di field recording e adattamento degli ambienti sonici alle location? Il debutto solista - con una band di sette elementi al seguito - toglie ogni riferimento propriamente rock a un sound marcatamente primi Settanta e caricato di sapori proggy (comunque già presenti nei Girls, ricordate i riferimenti floydiani?). Doug Boehm, già al lavoro con il duo, cura qui una produzione che ricorda il Kevin Ayers di Joy Of A Toy, i Procol Harum più stereotipici ma anche i King Crimson romatici di Island (Here We Go), per una tracklist che non manca di flirtare con gli 80s prendendo spunto dai Dominant Legs (dagli assoli jazz ai fiati tipicamente NY) e, naturalmente, con i fondamenti dell’estetica owensiana, ovvero i 50s. Il road trip album è stato registrato in uno studio professionale (Hobby Shop Studios) e, contrariamente a ciò che ci si potrebbe aspettare da un talento scostante come Owens, è un lavoro fin troppo rotondo, senza picchi e quell’urgenza espressiva che ha reso alcune canzoni dei Girls davvero indimenticabili. Comprensibile che il trentenne si sia preso una vacanza, musicalmente e umanamente, dalle abitudini più tossiche del duo; coraggioso nel pensare a un album in grande, partendo dalla semplicità e l’immediatezza che s’era incrinata nel rapporto con White. Purtroppo, però, la polpa vera spesso latita, le canzoni rimangono volutamente innocue e, specie a fine scaletta, si scivola nell’anonimato. La produzione colma molte lacune, non riuscendo tuttavia a mascherare la vera natura del disco: un’ampollosa avventura hippie da cartolina. (6.5/10) Edoardo Bridda

62

Comaneci - Uh! (Madcap Collective, Dicembre 2012) Genere: folk-blues «Il gruppo deve tendere a una crescita, mirare a un’evoluzione, cercare un senso in quello che è (Francesca Amati, 2010)». E qual è il senso dei Comaneci, oggi? Difficile dirlo, anche se probabilmente tutto si potrebbe ricondurre a una sola parola: blues. Forse è sempre stato così, per la band di Francesca Amati (e da un paio di dischi anche di Glauco Salvo). Persino ai tempi del pop da camera di Volcano, quando la formazione contava in organico anche Andrea Carella e Jenny Burnazzi e sembrava uscita dal ridotto di un qualche teatro, il senso di tutto era il blues. Un mood sottotraccia, nascosto, ma anche palpitante e presente. Di sicuro, lo è stato per l’ultimo You A Lie, di cui Uh! è degno seguito e una riconferma con tutti i crismi nello stile. Il blues dei Comaneci non è ortodosso, pur recuperando l’immaginario basale dei musicisti del Delta del Mississipi o magari del primo folk di Devendra Banhart: strutture da due-tre accordi sulla chitarra acustica, brani talvolta sotto i due minuti di durata, il bending nella voce, il mood malinconico, la ripetizione del primo verso nel secondo, la semplicità di testi immediati, quasi bambineschi, nella loro linearità. E’ blues-folk anche questo e questo sono i Comaneci. Un approccio alla musica, il loro, che qualcuno potrebbe definire ripetitivo, non comprendendo, tuttavia, i presupposti alla base dello stesso. Ideologici, prima che musicali: la semplicità come linguaggio, oltre che impalcatura su cui costruire di volta in volta qualcosa di identico ma anche di diverso, di facilmente identificabile ma anche di deviante rispetto al passato. Magari per qualche dettaglio piccolo e fondamentale (nel nostro caso, l’attento lavoro di missaggio in brani come We Came When The Frog Started Talking, il pianoforte in The Easiest Way, gli ottoni mascherati nello sfondo di I Saw, la batteria disturbante di Vittoria Burattini in Democracy) o per veri e propri stravolgimenti inaspettati (una Amati che in Green Lizard ricorda Björk accompagnata dai Father Murphy, la conclusiva As A Spider, più vicina allo stile dell’ultimo Sufjan Stevens che a quello dei Comaneci). In Uh! il risultato è pregevole anche quando si gioca con i toni più onirici (Grasshopper), malinconici (Let Them Burn) e noise-psichedelici (The Fall) del gruppo, oltre che con quelle poesie di Harold Pinter a cui una parte dei testi è ispirata. Il tutto con un senso della “meraviglia” palpabile che evita il cinismo da consumata band, scegliendo invece di coinvolgere in maniera epidermica e senza grossi filtri. Una peculiarità che non si costruisce in laboratorio, ma può dipendere soltanto dallo spessore


Flume - Flume (Future Classic, Novembre 2012) Genere: now pop Il pauroso traghettamento di un fenomeno indie da cameretta & web - dove indie come lo usi usi ormai sbagli - verso il pop e le classifiche tout court, verso il red carpet, verso la massa, i tormentoni, le pubblicità, tutti quanti. Come Gotye, per capirci. Questo sembra essere il copione scritto per il ventenne di Sydney Harley Streten aka Flume (60.000 like su facebook). Per inciso: Australia - Gotye, nato a Bruges, è cresciuto a Melbourne - nuova Tin Pan Alley? Un percorso che è lo stesso circolo vizioso-virtuoso già battuto da Mike Volpe/Clams Casino (59.000 like) e - clamorosamente - Abel Tesfaye/The Weeknd (che-te-lo-dico-a-fare 581.000 like): tracce caricate sul tubo e in free download come singoli (qui sono Sleepless e Holdin On, senza video peraltro, musica e immagine fissa) e subito un buzz pazzesco che tira su numeri e attira l’attenzione dei magazine specializzati (qui XLR8R), dei giornali generalisti, delle label, dei colleghi (lui ha già le mani in pasta - leggi remixa e si fa remixare - con Onra e Shlomo) finendo col tirare ancora più su i numeri. I riferimenti di Flume, come quelli di Clams del resto, scavalcano generazioni e tradizioni e puntano tutto sugli anni Zero anzi proprio sugli anni Dieci, se il ragazzo cita come massime influenze gente come Hudson Mohawke e Jamie xx e dice che in un club vuole sentire i pezzi di TNGHT, Julio Bashmore, Rustie, Disclosure e Baauer. L’omonimo disco di debutto, uscito il 9 novembre, 13 tracce in streaming su soundcloud e youtube, con il patrocinio della australiana Future Classic (label ma soprattutto booking agency, e questo la dice lunga; 18.000 fan su facebook), è arrivato primo nella classifica iTunes e secondo nella classifica album generale australiane, tra One Direction e Taylor Swift, prima di best seller killer come P!nk, Soundgarden, Rolling Stones, Mumford & Sons, Green Day, Calvin Harris e Lana Del Rey. Questo successo enorme e imprevedibile ha attirato la label londinese Transgressive (solo 2.000 like su facebook, per ora), che pubblicherà il disco fisico il 18 febbraio 2013. Bene, ecco il contesto. Ma questo successo enorme e imprevedibile è giustificato? Per una volta, sì. Flume shakera col suo laptop sicuramente piacione ma calibratissimo tutti i riferimenti giusti, smussa gli angoli e rende il tutto goloso, appetibile, godibile su più livelli. La sua è una piccola grande sintesi del fare musica diciamo pop a cavallo tra anni Zero e Dieci, con lo sdoganamento fashion e chart dell’indie, come ethos - e quindi in fondo come modo di produzione, come tecnica - ma anche come modo di rappresentazione, estetica, e la presa in carico dei trick commerciali e dei modi street e/o dance da parte della musica e del pubblico arty. Quella di Flume è una vera macedonia, un bignami del pop e delle produzioni elettroniche e sampledeliche ad esso legate degli ultimi anni. C’è l’assimilazione dell’estetica wonky che rilegge l’electrofunk Ottanta con le acciaccature dell’hip hop strumentale del post-Dilla (lo stomp reggae arrancantissimo dell’iniziale Sintra: una figata, per usare un tecnicismo); c’è l’assimilazione della tradizione black (il gospel/blues di Holdin On - titolo possibile ammicco a SBTRKT - con sotto le tastiere videogame/lazer di Rustie; quello rarefatto e fantasmatico - come se il Moby di Natural Blues stesse in realtà dentro Wait for Me - di Star Eyes) e c’è ovviamente il nu-soul fumoso di The Weeknd (artista ormai influentissimo, già classico, esplicitamente tirato in ballo dai sample vocali di tutto il disco - o dal Michael Bublé slacker messo in scena da Chet Faker in Left Alone - e in particolare da un pezzo narcotico intitolato guardacaso What You Need; c’è The Weeknd, ma come forma vuota, a cui manca del tutto quella allure morbosa e torbida, in un disco invece tutto votato alla solarità e alla cantabilità leggera del pop); c’è l’hip hop del dopo Jay-Z e del dopo Kanye che unisce randagio e bambagia (On Top, Change, Ezra); c’è la leggerezza scampanellante di certo Mark Ronson artigiano dentro e industriale fuori (il piano di Warm Thoughts). E ancora: c’è la tradizione dei cantati femminili nel chorus superemotivo di Bring You Down; il trip hop più dreamy, ma al tempo del footwork, di Sleepless (con Jezzabell Doran); Stay Close liofilizza in chiave easy listening la lezione di The Weeknd, di Clams Casino e della swag crew versante pruriti chart (The Internet); Insane (con la voce di Moon Holiday), con la sua epica electro, ha tentazioni addirittura wave; More Than You Thought chiarisce definitivamente l’accostabilità di - ancora lui - Clams, via Enya, al terzomondismo ballad della Disney; Space Cadet, manco a dirlo, è la take spacey con le orecchie rivolte a FlyLo, guidata da sfarfallii di lontane tastiere siderali (vedere anche la grafica della copertina, che unisce le geometrie di label come Tokyo Dawn e Finest Ego alla kitscheria glamour di Lapalux). Eccolo Flume: now pop da mordere al volo, forte vocazione soul che palpita sotto, tutto inzuppato di wonky e degli ultimi must tra i producer, ma il tutto addomesticato, fatto cantabile, ballabile anche, pop e basta appunto in una parola. Il mix è già inflazionatissimo, ma qui suona ancora sorprendentemente fresco, in una delle sue più compiute sintesi possibili, e prima che si smaterializzi per sempre in una cosmesi pop industriale da classifica che scivola via altro che acqua nel canale (Flume appunto), proprio come saponata da risciacquo. Facciamo attenzione eccetera, ma qui e ora, con una serie impressionante di tormentoni potenziali o effettivi cucinati ad arte, qui e ora, con una plastica di questa qualità non è proprio il caso di fare gli snobboni. Uno dei dischi del 2013 è già qui.[Special thanks: Riccardo Zagaglia]

(7.5/10) Gabriele Marino

63


Fuzz Orchestra - Morire Per La Patria (Wallace Records, Dicembre 2012) Genere: rock pe(n)sante Ci si è lamentati spesso ultimamente dell’assenza delle ideologie in musica. Della mancanza di impegno sociopolitico, del tirarsi indietro, del rinchiudersi nel proprio orticello. Poche e vane le ultime sacche di resistenza, affidate a qualche residuo di aree estreme old school, l’hardcore e il grind più politicizzato, qualche rapper particolarmente illuminato e poco più. Per il resto, disimpegno cantautorale, fuga dall’assunzione delle responsabilità e leggerezza “pop” hanno preso il sopravvento su quella che una volta si sarebbe detta musica impegnata. Ora, da qualche mese in qua, ci è capitato sempre più spesso di utilizzare quel termine, “politico” (da intendersi in senso più ampio e primigenio possibile), per una serie di dischi, guarda caso tutti provenienti da una stessa area ideologica prima ancora che geografica. Lo abbiamo fatto per Irrintzi di Xabier Iriondo, per Silo Thinking di Makhno (a.k.a. Paolo Cantù) e ora torniamo a farlo per il terzo album della Fuzz Orchestra. Morire Per La Patria (in uscita per una cordata di 15 label tra cui Blinde Proteus, Bloody Sound Fucktory, Boring Machines, Brigadisco, Cheap Satanism, Escape from Today, fromSCRATCH, HysM?, Il Verso del Cinghiale, Offset, Tandori, To Lose La Track, Trasponsonic, Villa Inferno e la citata Wallace) è il più estremo degli album appena citati. Non musicalmente, quanto per la predominanza dell’aspetto ideologico finanche sulla musica stessa e paradossalmente - o forse proprio in virtù di ciò - generato da un disco strumentale, privo di parole ma estremamente “comunicativo”, come nella miglior tradizione del trio milanese. Tutto nell’epopea Fuzz Orchestra rimanda all’impegno ideologico: l’immaginario evocato, i titoli degli album e delle canzoni, la stretta osservanza di una radicalità sonora in cui ogni singolo momento o dettaglio è funzionale al tutto. Il lavorio di Ferrario in sede di campionamento di voci è eccellente in questo senso. Codifica un messaggio affidandolo ad una serie di indizi (sotto forma di voci cinematografiche tratte da Montaldo, Petri, Pasolini) che ricompongono una sorta di geografia della ribellione, riannodando i fili del rifiuto della norma e del potere e ribadendo fieramente una rivendicazione libertaria che al terzo passo assume i connotati della completezza teorica e pratica. Costituendo, cioè, una sorta di flusso di coscienza stentoreo e “declamato” - la memorabile voce di Volontè nel “Giordano Bruno” o il Flavio Bucci del Petriano “La proprietà non è più un furto”, rispettivamente in Sangue e La Proprietà - che ci fa tornare in mente certo “spoken word” di altre realtà del panorama italiano. Stessa tensione creata senza cantante in carne e ossa. Ripiegando sul passato, come già nei due dischi precedenti, ma facendolo funzionalmente all’analisi, spietata e lucida, della contemporaneità con una (ennesima e folgorante) chiamata alle armi che, dato che si parla di musica, mena bastonate devastanti in ogni singolo pezzo. Grazie alla chitarra sempre meno 70s di Ciffo - meno hard in senso stretto ma dal suono perfetto, calibrato e irruento in tutti i singoli pezzi - e a un batterista, il neo entrato Paolo Mongardi (Zeus!, Ronin, Fulkanelli), pesante e vario, invasato e metallurgico, da intendersi come crasi di metallico e chirurgico. La tempesta free-noise al collasso di Viene Il Vento (ospiti Iriondo alla chitarra e Edoardo Ricci ai fiati), il pachidermico avant-metal melvinsiano che accompagna in totale dissonanza il “belcanto” in Svegliati E Uccidi, l’hard a rotta di collo di Sangue e la cavalcata da lega dei furiosi della conclusiva Morire Per La Patria non sono che piccole gemme di un rosario di dolorosa consapevolezza. Un disco e un progetto contro il potere in ogni sua forma e attraverso un potere che è forza eruttiva mai doma. Di diritto nella classifica di fine anno. (7.6/10) Stefano Pifferi

umano di chi suona. E’ tutto qui il terzo disco lungo (e forse l’intera carriera) dei Comaneci. In quella necessaria trasparenza che non solo conferma quanto di buono si era già ascoltato in passato, ma alza ulteriormente la posta collezionando dieci ottimi brani che parlano co-

64

munque di un’evoluzione in atto. Verso cosa, lo stabilirà soltanto il tempo. (7.2/10) Fabrizio Zampighi


Craxi - Dentro I Battimenti Delle Rondini (Tannen , Dicembre 2012) Genere: post-punk italiano Nella ingestibile elefantiasi della produzione musicale contemporanea può succedere che dischi postumi, di progetti ormai belli e sepolti, attirino l’attenzione di label attente a non depauperare certi patrimoni. È il caso dei Craxi, nati intorno alla fine del decennio scorso pertanto già abbastanza fuori fuoco rispetto alle disavventure del manigoldo a cui si rifanno nel nome - e solo ora arrivati alla pubblicazione di un lavoro concepito e registrato un paio di anni fa, quando del progetto non esistono che le ceneri sotto forma di debutto. Certo, l’essere in pratica una all-star band del sottobosco (neanche troppo sotto) italiano di certo ha aiutato, ma Dentro I Battimenti Delle Rondini vive del suo dato che i quattro membri della disciolta band - Luca Cavina, Enrico Gabrielli, Alessandro Fiori e Andrea Belfi - hanno già avuto modo di mostrare in solo o in progetti più articolati e/o accessibili (Zeus!, Calibro 35, Rosolina Mar, Mariposa, Tumble), le proprie caratteristiche e la propria, ampia tavolozza di colori. Che in questo caso, pur mantenendo limitrofe affinità con certo rock “italiano” al limite tra declamato e cantato - la voce di Fiori, anche alle tastiere, è spesso spiazzante e volutamente sopra le righe, ma certe volte troppo enfatizzata - tendono decisamente verso le tonalità grigie del post-punk anglosassone. Tensione strumentale, dunque, in cui i quattro sembrano sfidarsi per mantenere sempre altissimo il livello di guardia, attingendo da tutto il repertorio (personale e di genere) pur mantenendosi quasi sempre all’interno del recinto della forma-canzone. Irta di spigoli, bianca come il luccichio di una lama, repressa tranne che in poche, liberatorie esplosioni, funk e jazz come la potevano intendere dei reietti punk ma sofisticati. Che, come surplus, si gioca la carta del cantato in italiano, sghembo, atonale, teatrale, e di testi criptici e visionari che sono il vero architrave di un disco fortunatamente riesumato da un oblio immeritato. (7.2/10) Stefano Pifferi

Delphic - Collections (Chimeric, Gennaio 2013) Genere: elettronica, alt-pop “E ora qualcosa di completamente diverso”. Sembra che sia proprio questo il messaggio dei Delphic, il trio (divenuto nel frattempo quartetto, con l’aggiunta di Dan Hadley) che da Manchester è giunto alla ribalta internazionale nel 2010 grazie all’album Acolyte. Non è mica

facile, di questi tempi, reinventarsi e sperimentare: ne parlava proprio Rick Boardman, il leader della band, durante un’intervista rilasciata a NME - “nell’industria musicale non ci sono più soldi”, diceva, “e molte band cercano di sopravvivere. Non avremo più un gruppo come gli Smiths o i Blur”. Collections, l’atteso secondo album dei ragazzi, cerca a suo modo di invertire la tendenza. Il feticcio neworderiano del debutto (particolarmente evidente in episodi come l’electro-rock Doubt) lascia spazio a inaspettate contaminazioni con l’hip hop - James Cook ha ammesso di aver ascoltato molto Jay-Z, J Dilla e molto R&B degli anni Ottanta durante la lunga gestazione (ben diciotto mesi) del nuovo, eclettico lavoro - e a soundscape più elaborati e moderni. Non che questo si traduca automaticamente in un punto di forza (“non ci siamo mai posti troppi paletti.. per questo l’album si chiama Collections, è una riflessione su come abbiamo cercato influenze e ispirazione da più fonti possibili”): se il tutto è stato affidato a mani sapienti - in Acolyte c’era Ewan Pearson, stavolta in cabina di regia troviamo Ben Allen (Animal Collective, Bombay Bicycle Club) e Tim Goldsworthy (Massive Attack, LCD Soundsystem) - il materiale alterna episodi molto ben riusciti ad altri un po’ pasticciati, che fanno inarcare il sopracciglio specie laddove il mix è sovraffollato e segue troppe traiettorie parallele. Il primo singolo Baiya mette in bella mostra una certa abilità nel rimescolare le carte, con un beat non proprio ballabile ma audace, sexy, con gli archi che si intrufolano con intelligenza in un affascinante incontro/scontro tra la black music e il mondo dell’Hacienda (ancora più riuscito, se possibile, in Exotic). I riferimenti alla band di Blue Monday non sono scomparsi (impossibile non notarli in Of The Young, il brano apripista), ma sono meno sfacciati; Changes è il tipo di canzone che sarebbe potuta venir fuori dalla collaborazione tra Andrew Dawson e i Pet Shop Boys se si fossero davvero capiti e se ci fosse stato meno timore reverenziale da parte del primo, e Freedom Found si costruisce da sola, tassello per tassello, per poi spiccare il volo in un ritornello da stadio. Tutto bene, insomma, fino a quando non si tenta di costruire in laboratorio la hit che deve far breccia in classifica: non stupisce la sensazione di dejavu all’ascolto di The Sun Also Rises (queste cose le facevano già i Carpark North in Danimarca), né che la pur piacevole Memeo si stacchi dalla nostra memoria con la stessa facilità con cui vi si appiccica. I Delphic confezionano un album simpatico, che non è più un tributo didascalico ai propri modelli ma una rielaborazione più personale e priva delle leggerezze dell’esordio. Gli hook sono al posto giusto e c’è più di 65


How Much Wood Would A Woodchuck Chuck If A Woodchuck Could Chuck Wood? - How Much Wood Would A Woodchuck Chuck If A Woodchuck Could Chuck Wood? (Boring Machines, Dicembre 2012) Genere: folk apocalittico Dopo il debutto dei torinesi La Piramide Di Sangue, arrivano ora dalla stessa città i più lugubri e tormentati HMWWAWCIAWCCW, segnando in qualche modo l’imprimatur che il capoluogo piemontese sembra avere sull’ultima generazione di indipendenti italiani. Sono in tre, Gher, Coccolo e Iside, e propongono un suono in linea con la verve occultista di questi ultimi anni, sezionando metodicamente il cadavere di un folk così scarnificato da essere ormai diventato irriconoscibile. Un suono così estremo, se proposto qualche anno fa, non avrebbe potuto varcare una ristretta cerchia di iniziati, ma il fatto che da un lato, in sede di promozione-distribuzione, ci si metta la joint-venture Avant! Records / Boring Machines, e dall’altro un’accresciuta autostima a tutti i livelli dell’underground italico con i segni evidenti che la sfiga dominante su decenni di produzioni nazionali sembra essere definitivamente alle spalle, disegna i contorni di un quadro dove How Much Wood.. si colloca come il principe pazzo e deforme di un regno in fermento. Humpty Dumpty, il brano diffuso l’anno scorso in split con Father Murphy diceva di gente abituata a trafficare con il folk apocalittico, sul classico asse Death In June / Current 93, con la professionalità sufficiente a non sfigurare con i concittadini, ma senza particolari scosse e intuizioni. Ora il disco di debutto propone un suono completamente autografo e articolato. La forma è sempre quella di un minimalismo ossessivo, inviolabile, dove i riverberi diventano echi stordenti e la voce un rantolo grottesco, spastico, oltremodo surreale che contribuisce con le sue sottili venature comiche a dare l’idea di una Disneyland trasformata in un ossario. Gli arpeggi di For Nobody nascono al crocevia tra Spiderland e Six & Six di Jandek, mimando lo stesso flirt con il disastro immanente. Una sorta di blues estremo, in bianco e nero, un Loren Connors brutalizzato in un vicolo buio. Il resto del disco propone lo stesso rosario, ma a gradazioni variabili. “Filthy breeze in place of caresses / our loneliness like self-destructive end / drowning itself sleeping” canta un Frankestein timido in Save Us, l’incubo di un Andrew Eldritch virato in una dark ambient ad alto tasso di effettistica horror. In Aria che è l’apice del disco, eleva tutto, o per meglio dire, degrada tutto ad una forma nebulosa dove gli echi d’oltretomba di Iside lavorano alla costante ricerca di una carnalità che non esiste più e le sparute note di chitarra altro non sono che il tremolio delle ossa, per esplicita confessione di qualcosa che ha ormai perso la sua umanità: “Assertion of nothing and lack of everything/ deprivation and removal/ from pure love gathering, organic mining / archeology of the human matter”. Il fantasma dei vecchi Swans apparso a più riprese prende definitivamente vita in Oh Dark, la loro variante della celebre Failure e il disco chiude in piena messa nera con la bellissima The Rock, il cui testo cita il T.S. Eliot più escatologico: “O Father we welcome your words / And we will take heart for the future/ Remembering the past.”. How Much Wood.. di fatto si occupa di disfacimento, decadenza, rovina e della necessaria tensione verso l’opposto, in un modo che va letto sul piano esistenziale e da qui elevato su un piano più generale e politico, consegnando un lavoro destinato a diventare un classico noir, non solo nell’ambito dei confini nazionali. (7.8/10) Antonello Comunale

una potenziale radio hit. Resta solo un dubbio: se l’anno che si è appena concluso è stato proprio quello che ha visto trionfare l’elettronica e la black music, Collections è davvero sperimentale come annunciato o c’è, oltre al mestiere, una buona dose di furbizia? (6.6/10) Alessandro Liccardo

66

Diamond Terrifier - Kill The Self That Wants To Kill Yourself (Northern Spy Records, Ottobre 2012) Genere: sax E’ un lavoro sul sax questa seconda prova di Diamond Terrifier aka Sam Hillmer, uno che bazzica da parecchio il mondo avant in seno agli Zs, anche loro freschi di compila per Northern Spy.


Col suo progetto solista Hillmer si concentra sullo strumento e ne fa da subito una questione di suono. Lo spreme e lo accartoccia, lo soffoca e lo fa stridere, qualcosa di simile a ciò che Colin Stetson aveva fatto l’anno scorso in un contesto nettamente più rock, anche se poi passaggi come Three Things paiono proprio sulla stessa linea del sassofonista americano. Il risultato è comunque ammaliante. Hillmer se la gioca in territori ambient-noise lasciando spazio ad alcune sorprese, vedi la cavalcata ambient-space zuccherosa di Kill The Self That Wants To Kill Yourself o la psichedelia dal sapore Animal Collective di Transference Trance, più qualche velatura industrial (Adamantine). Ma come detto è il sax al centro, ed il suo fluire scandisce gli umori di queste otto tracce, che funzionano come dovrebbero sempre funzionare i lavori di stampo avant: nessun fermo immagine e lo scorrere di una ricerca tanto estetica quanto interiore, che non prefigura obiettivi a priori e non ha pretese di perfezione. È nel vagare tra questi lidi che Diamond Terrifier uccide il suo self e si redime a sé stesso, lasciandoci apprezzare tutta la bontà del suo tumulto interiore. (7.3/10) Stefano Gaz

Ed - One Hand Clapping (Or The LP With One Sound) (Vulcanophono Collective, Novembre 2012) Genere: pop rock Dopo l’appetizer di due ep (Lights On, Lights Out del dicembre 2011- prodotto da Beatrice Antolini - e Desert Beyond dello scorso aprile) che ne hanno messo in mostra una gustosa predilezione per le palpitazioni dreamy in bell’equilibrio tra persistenza ed effimero (come è giusto che sia), è tempo d’esordio lungo per Ed, al secolo Marco Rossi. Uno che diresti il nipotino indie-pop di Elliott Smith, oppure il cugino tenerello di Badly Drawn Boy, o ancora il fratello emotional degli A Classic Education, però nel migliore dei sensi possibili. Vale a dire, tra le caligini Sarah Records e le diversamente trepide declinazioni folk ne esce con una certa personalità, devoto sì - ad un catalogo di forme e segni piuttosto convenzionali - ma non sottomesso, semmai appassionato totale e comunque capace di tenersi in piedi su un sostrato tematico ben meditato (fioccano a partire dal titolo One Hand Clapping - i riferimenti a J.D. Salinger, sorta di concept-ombra dell’album). Recupera, e fa bene, pezzi già apprezzati nei lavori suddetti (su tutte Missing The Point cogli echi Sixties che si sfaldano tra miraggi 80s e quella Down The Shades che il buon Smith avrebbe potuto scrivere dopo essersi fatto

commuovere dalla radioheadiana Creep) scozzandoli in una scaletta che svaria di poco ma con acume, dalla foga indolenzita di #8 alla ballad col fiato sul collo di Sybill And Muriell, dalla quasi giocosa Changes And Stuff al valzer a precipizio di Banana Song, passando da una See More Glass che sembra i Clientele vitaminizzati La’s. Un discorso più ambizioso e intenso di quanto non facciano pensare i primissimi ascolti, anche se per il momento siamo alle presentazioni. Servirà un salto di qualità per ritagliarsi uno spazio nelle posizioni che contano, magari calare sul piatto l’estro beckiano dimostrato a suo tempo con quella Zombie My Dear che non ha trovato posto, ahilei, nel qui presente disco. Ma altrimenti non sarebbe stato - come recita il sottotitolo - un “LP with one sound”, no? (6.7/10) Stefano Solventi

Eels - Wonderful Glorious (E Works, Gennaio 2013) Genere: rock pop I due anni spesi a fare concerti in giro per il mondo dopo il buon Tomorrow Morning spiegano parecchio di questo Wonderful, Glorious, decimo titolo in casa Eels. Pare infatti che il buon Mr. E sia rimasto particolarmente soddisfatto dall’esperienza, godendosi come non mai l’estro live della band. Il risultato è la scaletta dal groove più ruvido e intrigante della sua discografia, una parata di riff che ti si appiccicano caramellosi e acidi, vedi l’errebì garage slackeristico di Peach Blossom - tipo i Black Keys ipnotizzati da Beck - o quella Open My Present che chiama in causa persino la fumetteria blues Jon Spencer, e ancora il mambo rugginoso Tom Waits di Bombs Away. Non è certo una novità per la calligrafia eelsiana, basti pensare all’impeto sciorinato a suo tempo in Souljacker, ma oggi sembra meno urlo liberatorio e più ghigno libero, uno spasmo energico, combattivo e abbastanza disinvolto, che quando è il caso non esita a metterci il marchio, così, tanto per rendersi inconfondibile, vedi le parentesi oniriche - tipicamente lennoniane - che punteggiano le svalvolate turgide di Kinda Fuzzy e New Alphabet. Potremmo dirlo il frutto inevitabile della maturità, che porta in dono momenti interlocutori dal fascino indefinibile come Accident Prone e I Am Building A Shrine (narcosi soul in gelatina psych folk la prima, tremori grunge e patina sciropposa Sixties la seconda), così come il gioiellino arty - sghembo e marionettistico, androide e lo-fi - di You’re My Friend. Non può che farci piacere insomma che Mark Everett abbia finalmente metabolizzato i mostri di un’esisten67


za troppo tragica per essere vera (ma vera, purtroppo per lui). D’altro canto tuttavia la scorza della pacificazione smorza sul nascere la possibilità di quegli slanci lancinanti, di quelle ferite a cuore aperto che fecero la grandezza dei primi lavori. Alla fine su tutto incombe la patina del mestiere, il sedativo dell’emozione preconfezionata, al punto che neppure all’apice dello struggimento - A True Original più che la laconica On The Ropes - ti commuovi davvero. Mr. E incede con padronanza laconica e arguta, non sbaglia una mossa sullo schema permettendosi di variare sul tema divertendoti. Però (perciò) ti lascia sostanzialmente indenne, giusto un buffetto d’inquietudine. Magari è giusto così. Magari è giusto quel finale con la title track che sfocia in una visione melodica un po’ George Harrison e un po’ Beach Boys, quasi fosse il respiro lungo e pieno di chi si rimette in gioco. Con più speranza di prima. (6.8/10) Stefano Solventi

Equ - Un altro me (Fabarecord, Novembre 2012) Genere: canzone d’autore La musica di Un altro me dei romagnoli Equ potrebbe essere accostata a quella di Vinicio Capossela, per lo meno nelle finalità: creare suggestioni che oltrepassino il semplice confine tracciato da parole e musica, per sfociare in una “tridimensionalità” quasi cinematografica. Personaggi che si animano su una formula che opta per la coda strumentale e la costruzione di storie articolate, a cui dare maggiore spessore in sede di concerto grazie anche al contributo di artisti come l’attriceregista Selene Gandini. A grandi linee si parla di canzone d’autore, anche se la definizione sta un po’ stretta a brani che lavorano moltissimo sulle suggestioni pur partendo da un parco strumenti istituzionale che prevede pianoforte, percussioni, basso, chitarra, lap steel, fiati, violoncello. In realtà, si potrebbe parlare di una via di mezzo tra musica contemporanea (vedi certi arrangiamenti “frammentari” e cerebrali come quelli di Goccia o il pianoforte preparato che suona Vanni Crociani), jazz e cantautorato, quest’ultimo rinfrancato anche dalla presenza di Francesco Gazzé fratello di Max e co-autore di molte delle sue canzoni - e di Alessandro Bergonzoni tra i crediti di Eccetera Eccetera. Il tutto spremuto in un concept che vorrebbe guardare oltre lo specchio, per esplorare i confini tra immaginazione e realtà, verità e finzione. Tre dischi dopo quel Sanremo 2005 in cui la band giocò le sue carte con il singolo - discreto, considerato il palcoscenico su cui lo si presentava - L’idea, l’universo 68

di riferimento è piuttosto cambiato. Siano lo Yann Tiersen mescolato agli arrangiamenti surreali in stile John De Leo dell’introduttiva Il solito o il mood bandistico dell’ironica Vita da bar, le solitudini caposseliane al piano di Verso casa o il fiato corto degli ottoni arrangiati ne Il difetto, l’immaginario del gruppo rimane comunque sospeso in una dimensione formale alta nella concezione e flessibile nell’estetica. Ottime melodie e appunti di musica colta che fanno il paio con la produzione dell’esperto Marco Canepa (già in consolle, tra gli altri, per Paolo Conte e Branduardi), dando vita a un disco per certi versi classico ma anche teatrale, affascinante e ricco di sorprese. (7/10) Fabrizio Zampighi

Esben & The Witch - Wash The Sins Not Only The Face (Matador, Gennaio 2013) Genere: dark-pop Dissipato dal riuscito Violet Cries ogni possibile sospetto di progetto costruito ad arte per sfondare nel boom neo-gotico post-The xx/witch house, in corso di 2011 ci trovavamo in autentica balia degli Esben And The Witch. Tanto è vero che, appurate anche live resa, creatività e sostanza della proposta - permeata di tradizione 4AD, Björk più austera e Siouxsieane memorie - gli avevano volentieri perdonato - bollandolo come smaniosa release minore tutta forma e pseudo-concettualità - l’Hexagons EP dello stesso anno. Ora però, sophomore alla mano, non c’è più spazio per gli sconti: le somme vanno necessariamente (ri)tirate. Nella nota stampa reperibile sul sito della Matador, il chitarrista Daniel Copeman presenta i “nuovi” Esben And The Witch come band dall’acquisita fiducia nelle proprie doti. Di per sé, non mente: il trio di Brighton che ritroviamo in questo Wash The Sins Not Only The Face è anzi addirittura tronfio di ciò che di buono ha raccolto, tanto da aver evidentemente pensato il proprio stepforward come compromesso tra identitario fare dismesso e accessibilità. Nulla di male, certo, non fosse che la via prescelta è la più facile e controproducente: riproporre una formula funzionale dal vivo tutta dilatazioni anestetizzate, drammaticità e tensione statica ma, in quanto a soluzioni, eccessivamente semplificata su disco. Ne viene fuori una tracklist che nulla porta sotto al vestito del “mood is everything”, senza trame e quindi frustrante, che recapita una serie di pezzi inconcludenti (When That Head Splits, Slow Wave, Yellow Wood, Despair) quando non apparentemente inconclusi (Iceland Spar, Shimmering). Qualcosa di buono lo intravediamo nel trittico finale,


Killer Mike - R.A.P. Music (Williams Street, Maggio 2012) Genere: R.A.P. La sorpresa dell’incontro tra Killer Mike e El-P è la classicità del loro prodotto a dispetto dell’eccentricità che li ha sempre distinti. El-P era il reietto di Brooklyn, più famoso come produttore che come MC, capace di sfornare big beat enormi, profondi, con un piede nelle produzioni Bomb Squad e l’altro in Wipeout 2097. Killer Mike era invece il rapper del Sud, cresciuto con quei weirdos degli Outkast, che si è fatto strada principalmente grazie alla sua possenza fisica e verbale. Invece di accentuare le loro specificità, Mike e Jaime nel loro incontro dimostrano una straordinaria generosità, ed amicizia, probabilmente dovuta alla condivisione di una profonda visione di insieme. Mike ha infatti approcciato l’album consapevole di essere un artista oramai maturo dal quale tutti si aspettavano il capolavoro, e Jaime si è adeguato piegando la sua produzione alle necessità espressive dell’altro, senza cercare di sopraffarlo. Il risultato è un album al contempo equilibrato, violento, misurato, colto e poderoso. You are witnessing elegance in the form of a black elephant. L’eleganza del suo flow è indubitabile quanto il suo essere un uomo del Sud. Big Beast (il suo video è in pari misura Point Break, From Dusk Till Dawn e Drive) introduce immediatamente l’ascoltatore all’Atlanta di Mike ed è un bevenuto ben più sinistro quello di Jermaine Dupri, oltre che l’occasione per mettere in mostra il talento di Bun B. Southern Fried stessa è a sua volta un nod a Ludacris e riprende la tematica del sud americano citando direttamente gli Outkast di So Clean, So Fresh. Entrambe le tracce sono l’occasione per dimostrare come El-P abbia padroneggiato gli stilemi del southern rap con il suo accento sugli hi-hats, gli snare 808 e i synth ronzanti, permettendosi di aggiungere come firma venature acid di TB-303. Mentre in Don’t Die i riferimenti si fanno quelli dell’hardcore rap, si guarda verso agli N.W.A. di Fuck Da Police, con un focus sull’azione. Eccezionale Go!: una sparata appena sotto i due minuti, senza ritornello, senza guest, dedicata a mettere in mostra le ginnastiche verbali di Mike. Se queste tracce, orientate verso la strada, sono il suo modo di dimostrare sia la sua autenticità, il suo knowing how to play the game e la sua padronanza del genere, il suo essere un maestro non è mai fine a se stesso. La padronanza dello stile è piegata ad un più profondo significato. Untitled, che è la traccia più personale dell’album, insieme a R.A.P. Music mostra come la sua musica sia invasa da una dimensione verticale. Untitled è una profonda riflessione iniziata dalla comprensione della sua mortalità e dalla preoccupazione per sua moglie. Nella strofa The World might take that child, turn that child into a monster, The Lord’ll take a monster and fashion him saint, vi è tutta la tensione morale della sua musica, la sua consapevolezza di essere un peccatore e la possibilità di una selvezza. Il suo essere peccatore viene anche messo in luce nell’autocritica al centro di Reagan, che è altrimenti una delle tracce meno interessanti e più chiacchierate solo per il digiuno di musica politica di questo decennio. La salvezza infatti avviene, non tramite la politica, ma nella conclusiva R.A.P. Music dove Mike identifica la sua idea di religiosità con la musica stessa, ed il riscatto come il suo inserirsi in una lunga tradizione: da James Brown a Mayfield ai Funkadelic, Nina Simone, Coltrane, Sade, Miles Davis. Un elenco che non può lasciare indifferente nessuno, in cui riconosciamo la storia che ci accomuna nel nostro essere ascoltatori con l’ascoltatore Mike. Per chi si chiedesse delle ragioni che hanno riportato quest’anno l’hip hop al centro dei riflettori, o cosa sia questa R.A.P. Music, Killer Mike ha una risposta: This is jazz, this is funk, this is soul, this is gospel,This is sanctified sex, this is player pentecostal, This is church; front, pew, amen, pulpit, What my people need and the opposite of bullshit. (7.7/10) Antonio Cuccu

non fosse altro per una Rachel Davies che, riscoprendosi maîtresse, si porta sulle spalle l’intera Putting Down The Prey; o per le rifrazioni di certe teatralità da war song che riemergono in Smashed To Pieces In The Still Of The Night. È comunque troppo poco per non parlare di band in riserva di ispirazione, in specie alla luce del singolo Death-

waltz, tanto “upbeat” e d’immediata appetibilità quanto fuor di paniere (e repertorio), presumibilmente tardiva stella polare o episodio che mai si è riusciti a replicare in fase di scrittura. A fronte quindi delle palesi difficoltà di crescita verso il formato canzone e - nuovamente - nel rivangare i fulcri d’interesse del debut, l’evidenza è una 69


soltanto: gli Esben And The Witch erano un fuoco ora fatuo. (5.8/10) Massimo Rancati

Falty DL - Hardcourage (Ninja Tune, Gennaio 2013) Genere: Progressive Dub Drew Lustman è un camaleonte che ha fatto della mancanza di certezze una cifra stilistica. Ogni release appare sempre all’orizzonte con ben poche informazioni e l’annuncio dell’ennisima evoluzione sonora. A questo si aggiunge una studiata produzione di EP che sicuramente hanno tra I loro fini quello di confondere ulteriormente le acque. È il caso Hardcourage EP che, nonostante l’identico titolo dell’album, presenta due tracce assenti nell’LP. Ascoltando, poi, sia Our House Stab e Straight & Arrow, unica traccia rilasciata prima dell’uscita dell’album vero e proprio, la tentazione sarebbe di pensare le nuove produzioni di Falty DL sulla falsa riga del ritorno della garage house, tra Inner City e Fax Yourself, che da due anni ormai domina la club scene e si è incarnate per ultima in artisti come Waifs & Strays e Bicep. Niente di più errato: Hardcourage rompe anche con queste aspettative. Sin dalla traccia introduttiva, Drew decide di annunciare profeticamente Stay I’m Changed, aprendo l’album con un crescendo cinematico. La batteria, rispetto al precedente You Stand Uncertain si presenta più piena, rotonda, ispirata più dal dancefloor in quarti che dalla jungle. I ritmi sono semplici e sparsi, non vi è traccia della sua magistrale Hip Love, il mood è quello della destrutturata house da salotto, fatta di spazi e di vuoti, di artisti come Wolf + Lamb e Mock & Toof. È con Uncea e poi Bells che questi segnali rivelano pienamente la vera innovazione di questo album. Le due tracce si presentano come gemme eteree guidate da bassi pulsanti, circondati da pad, xilofoni e sassofoni che lentamente si diffondono nello spazio sonoro. In questo album il riferimento per Drew non è più né l’UK Garage né la prospettata Deep House ma la Progressive House di figure come il Sasha di Airdrawndagger e Digweed. È una ripresa dell’altro lato, quello dimenticato, della musica UK di fine anni ‘90 che, come molti progetti revival, mostra come molti dei difetti del genere fossero dovuti al loro eccesso di codificazione piuttosto che ad una qualche tara interna. Il resto dell’album sfortunamente non riesce ad essere altrettanto sostanzioso. Tracce come For Karme e Korben Dallas suonano come un passo indietro verso territori più sicuri, riproponendo forme già ampiamente visitate 70

in questi anni. Rispettivamente i riferimenti sono da una parte l’esplorazioni tra dubstep, hip hop e IDM di Starkey e dall’altra la bassmusic, ormai diventata marchio di fabbrica della Ninja Tune, sulle orme di Slugabed. Questo passo indietro è il prezzo che Drew deve pagare per il suo trasformismo. Non riuscendo mai a costruire su se stesso, incapace di proporre una tendenza perché lui stesso privo di convinzione, l’album finisce per essere svuotato di un vero messaggio. Le esplorazioni, per quanto ardite e ricercate, risultano solo un gimmick, giocato per fare scalpore, piuttosto che per proporre un progetto significativo. (7.1/10) Antonio Cuccu

Father Sculptor - VI (, Dicembre 2012) Genere: indie pop/rock L’ombra lunga degli Smiths continua a influenzare, a distanza di quasi tre decenni, decine di band. Le intuizioni della coppia Morrissey-Marr dopotutto sono talmente eterne che non deve sorprendere se in tutto il mondo (si pensi ai Gene mid-90s, ai più recenti The Drums, Chapel Club e l’ultimo dei The Fresh & Onlys) da anni c’è chi in qualche modo si rifà a certe sonorità. Formati a Glasgow ma decisamente wannabe-mancuniani, i cinque Father Sculptor durante il 2012 hanno adottato una tecnica non troppo distante da quella messa in atto un paio di anni fa dai Chapel Club (e speriamo non abbiano destino simile, considerate le recenti release di Lewis Bowman e soci): una serie di brani/singoli pubblicati uno dietro l’altro con un album di debutto ancora da pianificare. Per il momento infatti bisogna accontentarsi di VI, una sorta di EP/Compilation che raccoglie le sei tracce (da qui il titolo) pubblicate negli ultimi dodici mesi più la breve strumentale Interlude. L’universo dei Father Sculptor senza dubbio affascina, sia che siate cultori di Smiths & co, sia che siate ormai stufi del british indierock: il leader Thomas David Hall e compagni riescono a creare un contesto sicuramente derivativo, ma pieno di peculiarità decisamente personali. C’è, ad esempio, una sorta di spettrale tensione di fondo messa in atto tra contrasti soft-hard e guitar-sounds imprevedibili ed interessanti. Priva della struttura classica delle popsongs, Frances è probabilmente il passaggio cardine del lotto: distorsioni lontane, perenne effetto campana di vetro, strofe che si inseguono e un crescendo emotivo che sfocia in un mare di synth di scuola wave. I Father Sculptor hanno un talento unico nel mantenere tutto sospeso, rassicurando con melodie a tratti - solamente a tratti - armoniose e, contempo-


Luciano Maggiore/Francesco fuzz Brasini - How To Increase Light In The Ear (Boring Machines, Settembre 2012) Genere: elettroacustica Il trick - uno dei trick - dell’elettroacustica è far cortocircuitare esecuzione e meditazione, ascolto e fonte della musica. Produzione e fruizione. Sembra a volte che quelle oscillazioni, quel materiale sonoro non abbiano autore, ma arrivino da chissà dove per darci la chiave di un “modo” di ascoltare diverso, e l’accesso a stati di coscienza dell’ascolto slegati dalla riconoscibilità di note e melodie. Esagero: non è una questione di presenza o meno (percepita) dell’autore, ma della necessità di pensare all’autore. È qualcosa che lavora dentro l’ascoltatore. È, come un cracker, fruibile in sé ma anche un supporto di significazione, di modalità di ascolto, di sospensione del pensiero musicale standard. L’impressionante e duro lavoro sui timbri acuti (o medio-alti nella seconda traccia) di How To Increase Light In The Ear - secondo capitolo, sempre per Boring Machines, della collaborazione tra Luciano Maggiore e Francesco Brasini - ricorda, per alcuni motivi, l’ur-statement musicale della dream house di La Monte Young. Non solo per l’approccio minimalista (ma alla La Monte Young, appunto, molto di più che alla Steve Reich, per esempio). Ma anzitutto per il gioco delle frequenze nelle nostre orecchie e nel loro rapporto con lo spazio. Il monolite della stanza minimalista della casa dei sogni era uno spazio dove camminare, o anche solo dondolare la testa come fanno gli indiani quando annuiscono, e percepire la differente combinazione di frequenze che la nostra posizione determina rispetto ai quattro punti cardinali che emettono le oscillazioni. In una stanza media (forse la scala di ascolto migliore, a metà tra cuffia - o automobile - e grande sala) le due tracce di How To Increase.. riproducono un rapporto simile di movimento reciproco tra persona e suono. Del resto, conoscendo i due, sembra di leggere nel disco lo sdoppiamento tra emissione e controllo di quell’emissione sull’ambiente. La finzione che ci creiamo in testa nella scomposizione analitica vuole i due personaggi, quello che produce i timbri, e quello che ne deduce l’effetto e ne controlla la risonanza, e ci fa capire quanto un set di frequenze possano far germogliare una complessità immobile eppure avvincente. Poi c’è quell’interruttore del Revox (sempre che lo sia, ma l’importante è l’effetto di realtà, non la verità) che racconta una delle invenzioni più ricche, mossa semplicissima ma determinante perchè manifestata. Tecnicamente si chiama embrayage, è come quando in un romanzo la non-voce del narratore onnisciente all’improvviso si rivolge al lettore, “e tu che ne pensi, tu che leggi?”. Un altro piccolo cortocircuito che sospende il discorso narrativo e gli ingranaggi della sua proiezione in un mondo a sé, e lo riporta alla penna che scrive, e alla possibilità di rapporto io-tu con il lettore. Sentire lo switch comporta continui andirivieni tra chi produce e chi ascolta, ecco perché si iniziava la recensione stressando il concetto. La cosa straordinaria è che quel gesto evidenziato non svia la concentrazione, ma le dà un ritmo. Come con il rasoio di Ockham, abbattendo il numero degli elementi, si capisce quante cose si possono fare con quello che si decide di avere per le mani. E difficilmente Maggiore e Brasini potevano gestirsi meglio questa consapevolezza. (7.6/10) Gaspare Caliri

raneamente, lasciando sottopelle sensazioni sinistre (e non solo per le liriche): si prenda l’intro dell’iniziale Ember come esempio, o il malinconico fraseggio voce+chitarra di Rhein. Degno di nota anche il tiro maggiormente pop di Blue. Non tutto l’operato riesce a convincere (Aristide non decolla mai) e la sensazione è quella di essere di fronte alla classica band che deve solamente aggiustare leggermente il tiro, stando attenti però a preservare quello che

oggi è uno dei loro punti di forza, ovvero la produzione, tanto di basso profilo quanto genuina. VI by Father Sculptor (6.9/10) Riccardo Zagaglia

71


FIDLAR - FIDLAR (Mom And Pop, Gennaio 2013) Genere: garage-punk

Flying Lotus - Captain Murphy - Duality (Sel Released, Novembre 2012) Genere: hip hop / psych

Personalmente non ho mai né sopportato né supportato gli allarmismi sulla - presunta - morte del rock, quasi sempre lanciati da addetti ai lavori probabilmente fermi a tre decenni fa. Questo indipendentemente da quanto fatto registrare da un 2012 che dovrebbe aver zittito anche i più retrogradi: tra Japandroids, Cloud Nothings, The Men, Ty Segall, Metz e Tame Impala - solo per fare qualche nome - lamentarsi sarebbe davvero fuori luogo. Il 2013 si apre con l’album di debutto di uno dei nomi nuovi più chiacchierati degli ultimi mesi, i FIDLAR acronimo di Fuck It Dog, Life’s A Risk. Già autori degli EP DIYDUI (2011) e Don’t Try (2012), i losangelini FIDLAR sono quattro ragazzi (tra cui i fratelli Kuehn, figli di Greg degli storici T.S.O.L.) guidati dal Zac Carper, attitudinalmente legati a contesti skater, cresciuti a pane e pop-punk e concettualmente profondamente YOLO (you-only-live-once). FIDLAR esce per la Mom and Pop (in UK via Wichita Recordings) e lungo la sua durata non smuove di una virgola le coordinate slacker che hanno caratterizzato i precedenti EP, tanto che basterebbero i soli titoli delle canzoni (Cheap Beer, Whore, Max Can’t Surf, Cocaine...) per riassumere gli intenti, musicali e non, dell’intero lavoro. Con una mano impegnata a sorreggere la birra e l’altra alzata al cielo con middle-finger incorporato, i californiani lanciano slogan (“I.DRINK.CHEAP.BEER.SO.WHAT. FUCK.YOU” da Cheap Beer o “I stay at home drinking. You’re such a whore” da Whore) in un sodalizio tra riff serrati (White on White) e marciume lo-fi punk. Melodie scanzonate (l’anthemica No Waves entra immediatamente in testa) di chi ha lasciato il cervello a casa per dirigersi al primo festino post-high school che gli capita a tiro. L’esaltazione dei kidz è ovvia, ma di uscite di questo tipo ne abbiamo viste tante e poche riescono a sopravvivere all’anno di appartenenza: Wavves - tra l’altro appena entrati in Mom and Pop - sono diventati presto bersagli facili, i Paws non sono mai esplosi ed altre band continuano a raccogliere consensi più per i live da sbronza che per il contenuto dei loro dischi. Poco male, nessuno chiede risvolti aulici ad un gruppo essenzialmente punk rock: i FIDLAR ridendo e scherzando infilano uno dietro l’altro una serie di inni da pogo in grado di sintetizzare come pochi altri la wasted-youthpower degli anni dieci. Chi scrive però ha attese maggiori per gli inglesi Splashh. (6.8/10)

Anton LaVey, b-movie anni Sessanta, bumps da Adult Swim, frullato ipercinetico di film e TV anni Ottanta (Fuga dal mondo dei sogni, Van Damme, Jena Plissken, Brazil, Gremlins, Hulk Hogan, Robocop ecc.), coriandoli psichedelici, buco di culo, burattino da ventriloquo, robottoni giapponesi, Gli Schizzacervelli di Peter Jackson, scene di porno, rito di levitazione su una spiaggia, altri riti, satanismo, Batman/Adam West che digrigna i denti, Alfred/Michael Caine dai film di Nolan, immagini caleidoscopiche con dietro corpi che si accoppiano, ancora corpi che si accoppiano, piante su piante di marijuana e in sottoimpressione gente che fuma, crocifissioni, varano di Komodo, Sindone, caprone multiocchi crocifisso, Toro Seduto, neuroni. Oasi nel deserto. Il tutto introdotto, chiuso e puntellato da un guru pelato tipo Dott. Xavier e da dei tizi con una maglietta azzurrina con scritto cult member che dicono che farebbero di tutto per la causa. Grande buzz attorno a Captain Murphy e a questo audiovideomixtape plunderphonico di 35 minuti caricato online a metà novembre, visual di tale Xaviermagot/ Revenge e musica prodotta per lo più da Flying Lotus, ma con dentro anche Jeremiah Jae, Teebs, Samiyam, Just Blaze, TNGHT e - attenzione - Alejandro Jodorowsky e Madlib. E grande gioco di guess: si è pensato ci fosse lo zampino di Tyler the Creator o di qualche altro Odd Future, e invece era semplicemente FlyLo - gli indizi c’erano tutti, a partire dal nome (personaggio di uno show della Adult Swim) - nel suo primo progetto orientato al rapping. Si attacca con un pezzo dalla OST di El Topo di Jodorowsky e si chiude con una versione lilwayneana di Bugg’n dei TNGHT. In mezzo, a doppiare il carattere eccessivo e in fondo pornografico (vedere che il sito ufficiale ha come dominio .xxx) delle immagini, un rave collagistico di hip hop psichedelico e drogato, guidato dal rapping col pitch tirato giù di Steven, che ricorda l’icona dell’HH sballato e d’autore dei 2000: Quasimoto (e dentro c’è infatti anche Madlib, in un pezzo pare co-prodotto per l’occasione). Duality è una specie di manifesto/frullato dell’immaginario di FlyLo, nell’unica forma possibile: quella del divertissement esagerato, all’insegna del grottesco. Tra cazzeggio e toni sinistri (soprattutto verso la fine), mettendo assieme sotto il grande ombrello dell’HH le fisse wonky e post-madlibiane, vedi alla voce jazz e terzomondismo (la fantasia psychfolk tribale prima e il puro beguine poi di Gone Fishing, con Jeremiah Jae; The

Riccardo Zagaglia

72


Pangaea - Release (Hessle Audio, Gennaio 2012) Genere: U.K. Bass Quando un paio di mesi fa parlammo con Untold di new wave of techno ed esodo dal dubstep, lui ci disse: “Techno is a natural home for underground producers concerned with bass frequencies”. È esattamente in questa terra di mezzo che fiorisce oggi la UK bass, una corte dei miracoli che raccoglie un po’ tutti i producers ambiziosi, con la voglia di sentirsi liberi dai soliti paletti religiosi. Qualcosa per cui il dubstep non non va più bene perché legato a uno schema troppo riconoscibile, che sia il bro o l’halfstep statico. E allora ci si ingegna con ritmi e basse frequenze, e quel che ne esce fuori è techno ma anche no, ha una ricerca diversa nella costruzione del pezzo, sebbene l’unione cellulare alla nascita è la medesima. E dentro questo mondo variegato e ricco di possibilità inventive capita che becchi quello che si addentra nel lato più paranoico e ansioso della corte. Visto in questo modo, l’album di Pangaea da Hessle Audio (di cui è anche boss, in cui militano anche tra gli altri Pearson Sound, Objekt e su cui ha inciso James Blake), perfect lover dei 140 bpm con sub bass modulato e compresso (tra il cultore e i il culturismo), stupisce e a tratti appassiona. Vengono subito messe in castigo eventuali dance star coi loro vocalizzi, in un album che gioca volutamente sulla loro assenza (Majestic 12 piange un vocal mix per diventare bomba) sostituendoli con brevi sample (Game) o giri di tastiera su scala psichedelica. Qui la divagazione mentale è programmata su un armamentario di pattern amici della paranoia (Release), creatori di tensione (Trouble), drum line che fischiettano arrabbiate TNGHT o Distal (Time Bomb) e strategie escapiste (nell’apice Aware, Silent Hill in percuotere equatoriale), prima che la High ambientata nel terrore (quasi Stott) precluda ogni lieto fine. Un suono giá scuro di suo, che si evolve in qualcosa di cupo e malato, deviato e irritante per quanto riesce a smuovere cattivi pensieri e ansie controllate. Forse un pò sui generis e volutamente troppo underground, ma si sa, in un puzzle come quello U.K. bass ogni tassello risulta imprescindibile. (7.3/10) Mirko Carera

Killing Joke campiona Ave Lucifer dei mitici Os Mutantes; Between Friends campiona forse il piano elettrico di Chick Corea), con la trap music di oggi e di domani. Il tutto ha una sua portata visionaria e soprattutto funziona alla grande. (7.3/10) Gabriele Marino

Frei - 2013: odissea nello spiazzo (Autoprodotto, Gennaio 2013) Genere: pop Non fatevi ingannare dal titolo nerdy o dalla foto di copertina fin troppo zen: il secondo disco del cantautore romagnolo Frei è pop all’ennesima potenza, come non se ne sentiva da un po’. Sguardo rivolto al cielo (Ho visto gli alieni) ma piedi ben piantati in una tradizione cantautorale riletta con una leggerezza semiseria che evita le banalità, mantenendo una certa freschezza di fondo. Impressionante la facilità con cui i dieci brani della tracklist ti si appiccicano addosso, ancor più se si considera un tessuto strumentale essenziale, privo di grossi abbellimenti, quasi rock se ci passate la banalità: chitarra,

basso, batteria, tastiere e la partecipazione sporadica di qualche altro strumento. Tutto qui, per una scrittura capace di confezionare almeno sei o sette potenziali singoli senza scadere mai nel revival più bieco e con in più il valore aggiunto di testi sempre all’altezza. Se con la title track ci si ritrova ad osservare Marte dallo spiazzo del quartiere, in Angela ci senti certi Strokes mescolati a un approccio melodico che ricorda Lucio Battisti e Ivan Graziani, Le mie manie è ironia da sopravvissuti alla quotidianità, L’universo da qui ha l’odore dei migliori Beatles. La seconda parte di 2013: Odissea nello spiazzo rallenta un po’ i ritmi, cerca consapevolmente una dimensione più raccolta, recuperando il Frei che avevamo conosciuto nel precedente Sulle tracce della volpe. Per chiudere poi con la ninna nanna à la De André di Ovunque mi porti, degna chiosa di un disco godibile, divertente e perfettamente riuscito. (7/10) Fabrizio Zampighi

73


FulkAnelli - Fulknelli (Lemming Records, Novembre 2012) Genere: noise Mefitico ed esoterico sono gli aggettivi che vengono in mente appena si lancia nel lettore l’esordio lungo dei FulkAnelli. Ce ne sarebbe anche un terzo, materico, legato strettamente alla hard-cover del disco in puro metallo punzonato, ma complimentandoci con la label per il coraggio della scleta (immaginiamo il costo delle spedizioni, notoriamente a peso) concentriamoci sul contenuto. Tre lunghe suite che molto hanno a che vedere con l’esoterismo, dato che nome scelto - il misterioso alchimista e saggista Fulcanelli - e il continuo rimando a simbolismi oscuri - piramidi, croci e quant’altro disseminato tra titoli, grafica tutta e soprannomi degli autori - non passa inosservato, creando un alone di mistero presto svelato, quando si scopre che dietro la misteriosa sigla si nascondono Paolo VulKan Mongardi (già con Zeus! e Fuzz Orchestra) e Cristian Helio Naldi. Proprio i nomignoli scelti dai due per rifarsi al citato Fulcanelli, rievocano i due elementi alla base dei fuochi alchemici dalla cui fusione si sviluppano i mefitici miasmi di cui in apertura. Lente elucubrazioni di una chitarra che sa di zolfo e mistero e drumming in midtempo satanico aprono le danze occulte nei venti minuti scarsi di Alambikko: una lunga improvvisazione tra clangori di calderoni metallici e ritualismo ritmico che esplode in un sabbath infernale di ferocia black-noise. Aperte le acque, il resto non può essere da meno e così prima Kompasso (su territori impro-jazzy prima di deragliare verso il free-noise alla Dead C) e poi Inkiostro (catacombale ambient luciferina) sono dilatate prove di improrock tellurico, instabile, malsano e privo di qualsivoglia tipo di speranza che continuano a far riferimento alla strumentazione esoterico-alchemica. Uno sprofondare nel buio pesto, una indagine nell’occulto, una ricerca di astrazione attraverso la violenza strumentale che spiazza per il tour de force a cui i due, e di conseguenza l’ascoltatore, vengono sottoposti. Ma si sa, poca voce in capitolo avranno avuto Mongardi e Naldi, manipolati dal basso degli inferi dal misterioso alchimista. Posseduti. (6.9/10) Stefano Pifferi

Full Vacuum - Full Vacuum (, Dicembre 2012) Genere: folk / rap Se mancava un potenziale esponente di un ancor più potenziale filone Gonjasufi, il progetto Full Vacuum 74

colma la lacuna, mettendoci un grandissima dose di personalità, nello specifico quella di Davide Irakeno Barca. Membro del collettivo anconetano Banana Spliff, formazione hip hop composta di autentici veterani del microfono e figure storiche di questa cultura in Italia (si parla di gente che c’è da almeno 16 anni, affiancata a esponenti della generazione addirittura precedente), si allontana temporaneamente dalla formula rap e si approccia alla musica in senso lato con un progetto che si presenta come un felice ibrido tra molte cose, grazie all’aiuto di diversi musicisti che hanno partecipato al progetto in sede di arrangiamento e all’apporto, fondamentale, di Claudio Tagliabracci (membro di un’altra formazione marchigiana, i Neurogarage, e tra le menti dello Hell’z Eye Studio, realtà di riferimento per la città di Ancona) per quello che riguarda la produzione. hiarendo innanzitutto che il nome di Gonjasufi è stato fatto unicamente pensando a quel cocktail di misticismo e intorpidimento da psicotropi (insomma, non cercate una Cowboys and Indians italiana in questo disco) che caratterizza il santone più famoso della musica indipendente, va detto che Full Vacuum ha una base sostanzialmente reggae e dub, nonostante tanto la vocalità di Davide Barca quanto le sonorità di ogni brano si concedano spesso di andare oltre queste due coordinate principali. Prendete Lao Tzu ad esempio, parte da dei giri tipicamente reggae e si evolve fino a diventare puro calexico style, sfruttando una vocalità non molto estesa ma comunque piuttosto espressiva. L’impressione che Full Vacuum sia fortemente apolide dal punto di vista musicale viene confermata da quasi ogni traccia, dagli inserti mediorientali di Pachamama alla bassa fedeltà elettronica di un pezzo altrimenti classico come Magic Buttefly, passando per il rap tradizionale de L’uomo da un milione di lire (che nasconde anche una bella citazione di Com’è profondo il mare) e l’elettricità latente di Ovunque. La voglia di provare diversi tipi di ibridazione e inserirli tutti in un sistema ritmicamente ciclico e regolare è sicuramente il tratto distintivo di questo lavoro (che può essere lontanamente affiancato al progetto Sinfonaito di Dj Gruff), a fianco di una volontà di spiritualità che sembra chiamare in causa artisti come il primo Battiato, Claudio Rocchi o Juri Camisasca (o, se vogliamo tirare fuori un nome scomodissimo, George Harrison nella fase arancione). Gli apici del lavoro vengono raggiunti dai brani meno legati a una dimensione urbana e terrena (Sparami e L’uomo da un milione di lire sono leggermente fuori contesto, nonostante si tratti di brani gradevoli), lasciando trasparire una profondità che è anche universalità. Menzione d’onore per la bellissima (se è concesso utilizzare un superlativo) e cantautoriale &in-


fin;, che cita Conte e tradisce regionalismi così sinceri da risultare quasi poetici nella loro naiveté. In definitiva si tratta di un lavoro molto genuino e tuttavia per nulla semplicissimo, soprattutto nelle sue derive più spirituali, mentre risulta un po’ meno ispirato e leggermente troppo tradizionale nei brani più classici dal punto di vista tematico (anche se, come già detto, si tratta pur sempre di buone canzoni). Ogni tanto riaffiora lo spirito di un Manu Chao ma sorge il dubbio che si tratti, più che di una ispirazione diretta, di alcune comuni fonti alla base di entrambi i progetti (che in effetti hanno in comune la volontà di essere musicalmente apolidi). Da tenere d’occhio e personalmente la mia rivelazione di quest’anno, nonostante manchi un po’ di quella omogeneità strutturale che avrebbe potuto identificare maggiormente il progetto, ma si tratta pur sempre di un esordio, partendo oltretutto da un mondo, quello dell’hip hop, che non sempre fa della musicalità la propria bandiera. (7.2/10) Sebastian Procaccini

Furtherset - Veilles | Two Lovers In A Room | Calabi Yau EPs (Technowagon Recordings, Dicembre 2012) Genere: Technodronica Per essere ancora un liceale alle prese con compiti di matematica e bagordi del weekend, il perugino Furtherset produce con invidiabile assiduità. Tra un live e l’altro, quest’anno c’è stato spazio per un album mai uscito (che eppure non suonava per niente male), un altro in lavorazione con Gianluca Petrella (che rischia di essere il vero salto di qualità) e i tre EP Veilles, Two Lovers In A Room e Calabi Yau, a chiudere un’annata che lo ha visto proiettarsi sempre più verso le potenzialità delle performance da club. Un processo evolutivo che va concretizzando con efficacia l’indagine sulle atmosfere propria del ragazzo, da sempre ben piantata nella pratica drone eppure via via più disinvolta a incorporare la passione dance multiforme che vien fuori dai suoi ascolti assidui. Già a luglio Veilles trovava il giusto equilibrio tra ingegnosità, melodia e ritmo, facendo di pezzi come U e I Know perfetti intrattenimenti su cui far oscillare la testa mentre si apprezzano le impalcature, mentre la guida delle atmosfere resiste nella ambient-dronica di Veilles e No Need To Run. Studio dei mood che si affina nel Two Lovers In A Room EP, dove per due pezzi (There’s Magic Underwater e How To Tie Your Shoes) senti aprire il potenziale ambient e ti ritrovi ad aspettare il guizzo di sostanza, per poi restare a bocca aperta quando in A

Proper Running Technique trova spazio la cassa cavernosa di Andy Stott, dimensione perfetta per la consistenza eterea delle ambientazioni. E la via della solidità continua anche in Calabi Yau, dove in Supergravity e Supersimmetry Furtherset sembra inseguire quella new wave of techno libera da schemi che ama ragionare su introspezioni, bassi e ritmiche. Tutte armi già ben affilate, per un talento già pronto a superare lo stato di promessa dell’elettronica e passare a quello di realtà consolidata. La strada è quella dell’album in arrivo, e lì non si scherza più. (7.1/10) Carlo Affatigato

Glass Animals - Leaflings EP (, Novembre 2012) Genere: bass art-soulpop In casa XL, la nascita della Kaya Kaya Records è talmente recente che il minimale sito ufficiale al momento non contiene altro che tre link ai social network e due link ai siti ufficiali di Stubborn Heart e Glass Animals. Navigando un po’ ci si accorge che non solo la Kaya Kaya Records, ma anche gli stessi Glass Animals sono poco inclini all’utilizzo del web, almeno a giudicare dalla quantità praticamente inconsistente di informazioni a loro riguardo disponibile. Un moniker che sembra uscire dal generatore automatico di nomi per gruppi indie e quattro ragazzi stanziati ad Oxford, questo sappiamo. Pare anche che la loro prima esibizione live sia avvenuta nello stesso locale in cui i debuttarono i Radiohead quando si chiamavano On a Friday (la Jericho Tavern) e che nonostante sonorità da progetto post-elettronico da uno/due componenti, i Glass Animals salagano sul palco con chitarre e batteria al posto dei Macintosh. In più abbiamo un EP di debutto, Leaflings, ascoltabile nella sua interezza (quindici minuti) su Spotify e Soundcloud. Influenzato dai mesi trascorsi nei club bass-oriented di South London e da passati boschivi del leader Dave Bayley, l’EP si compone di quattro tracce: Golden Antlers, Cocoa Hooves, Dust In Your Pocket e Cocoa Hooves Part II. Golden Antlers si autointroduce in modo astratto per più di un minuto prima di prendere forma nel suo strano incrocio tra popstep, echi dei Portishead ed un timbro vocale che spazia tra Woodkid a Hayden Thorpe dei Wild Beasts. La cadenza affascina e la melodia del ritornello entra in testa all’istante. Cocoa Hooves tocca corde ancora più raffinate al limite del sophisti, riprese poi in Cocoa Hooves Part II, il suo riuscitissimo continuum soulstep. Battute più regolari in Dust In Your Pocket 75


Petra Haden - Petra Goes To The Movies (ANTI-, Gennaio 2013) Genere: art pop Ilare e struggente: due facce d’una moneta particolare, raffinata e popular, entusiasta e ironica. Petra Haden possiede talento a sufficienza per stemperarlo in operazioni del genere, sul filo di un divertissement a perdere che però è capace di stregarti, come se stuzzicasse il sistema nervoso di meccanismi emotivi profondi. Violinista e cantante, figlia del grande bassista Charlie, sorella di Rachel (bassista dei That Dog), Tanya (violoncellista) e Josh Haden (bassista e cantante degli Spain), già membro di Tito & Tarantula e Decemberists nonché al lavoro per Beck, Weezer e Twilight Singers (tra i molti altri), questa quarantunenne newyorkese dislocata a Los Angeles torna sul luogo del delitto a quasi otto anni da quel Sings: The Who Sell Out che la vide reinterpretare a cappella il celebre album di Townsend e compagni. Oggi tocca al cinema, ovvero all’irresistibile fascino delle soundtrack: temi celeberrimi come quelli di Psycho, 8 e 1/2, Superman e Per un pugno di dollari finiscono immersi in una pozione di virtuosismi guizzanti, fragrante goliardia e stralunato lirismo, ribadendo piena cittadinanza nell’immaginario contemporaneo pure nello sclerotizzante sovraffollamento/frammentazione della web culture. Poche ma pregnanti le parti suonate (ospiti jazzisti di rango come il padre, il chitarrista Bill Frisell ed il pianista Brad Mehldau) a confezionare episodi abbastanza convenzionali che pure esaltano le capacità d’interprete (una pura, essenziale intensità) di Petra, vedi la vellutata Calling You (da Bagdad Café) o una It Might Be You (da Tootsie) col cuore in mano. Se con Goldfinger azzecca uno dei passaggi più accattivanti - riuscendo però a non sbracare nel trito: più un motivo è celebre e quindi logoro, più l’approccio è semplice, entusiasta, di una naturalezza irresistibile - con le suggestioni rumoristiche di Hand Covers Bruise (scritta da Trent Reznor per The Social Network) coglie l’acme avant della scaletta, pari forse all’impressionismo rappreso di God’s Lonely Man (da Taxi Driver). Si chiude con una This Is Not America nel segno della cover di classe, ma che classe. E che brava. (7.3/10) Stefano Solventi

che nel bridge fa sfoggio di un contrabbasso che sembra essere preso in prestito da qualche dance hit anni ‘90. i Glass Animals non sono i primi ad assimilare armonie art-pop, tonalità soul/r&b e basi elettroniche guidate da bassi wobble, ma da quel che si può intuire dai quattro passaggi presenti in Leaflings, a questi ragazzi di Oxford non si può rimproverare nulla. (7/10) Riccardo Zagaglia

Green Day - ¡Tré! (Reprise, Dicembre 2012) Genere: Pop punk Doveva uscire a gennaio l’ultimo capito della trilogia di album in stile Kiss e Melvins con le copertine dedicate ognuna a un componente della band e invece i Green Day, in seguito alla cancellazione del tour, preferiscono farsi regalare per Natale anticipandone la pubblicazione. Dopo ¡DOS! pubblicato lo scorso 13 novembre con Mike Dirnt e ¡UNO! uscito il 25 settembre con la testa di Billie, l’11 dicembre arriva nei negozi anche il faccione del batterista Tré, con un album annunciato e pronosticato 76

come un ritorno alla rock opera sulla scia di American Idiot.Registrato presso gli studi della città natale Oakland con l’aiuto di Rob Cavallo, il conclusivo episodio della saga sceglie però un’altra strada per rimediare all’autoreferenzialità pop-punk di ¡UNO!, e all’innocua linea garagista di ¡DOS!. Più bonariamente, i tre tentano il confronto con l’ondata 50s e 60s che ha caratterizzato questi mesi di riscoperta jingle jangle, tagli di capelli alla Clash e revival early Nineties (Dando e Hatfield, Sugar, House Of Love, e, chissà, pure The Shins). Troviamo così una scaletta in perenne sponda ballad (Brutal Love, Drama Queen, The Forgotten), con un mazzetto di radiofonico indie-rock dal retrogusto vintagista che se potesse scrivere sms sarebbe pieno di emoticon e cartoline dal New Jersey. Sono i Green Day del resto, e questa volta fanno pop-rock all’ingrosso dal camouflage “artigianale” e da gustare, come sempre, senza troppe pretese. Di album così, qualsiasi pub band cresciuta a pane e Bon Jovi sulla terra ne potrebbe sfornare almeno uno al giorno. I tre ex boys lo fanno mettendoci il marchio di fabbrica e suonando con la proverbiale freschezza e lo scafato appeal.


Scopiazzando (echi di Flaming Lips, sempre primi 90s via soliti Beatles, in Drama Queen, il Bon Jovi nazionale richiamato in Walk Away e 99 Revolutions), citando e autocidandosi (X-Kid) e senza la smania dello smash hit a tutti i costi, a fine scaletta s’arriva senza troppi intoppi e riempitivi (il cow-punk di A little Boy Named Train). Con il taglio classic si atterra sul morbido e il disco è interamente roba da fan. E a loro piacerà sicuramente. (6.4/10)

Consigliati e non solo a chi ancora si dispera per l’addio dei WU LYF (e simbologia annessa) o a chi è rimasto deluso dall’ultimo dei Titus Andronicus. (6.8/10)

Edoardo Bridda

Quando arriva la 4AD a bussare alla porta di casa dopo che hai pubblicato sul web solo una manciata di demo significa che, probabilmente, la tua vita sta per cambiare. E’ quello che è successo qualche mese fa a Søren Løkke Juulda Copenhagen, Danimarca: un vortice di circostanze l’ha portato in un attimo a ritrovarsi sulla bocca di tutti, a ricevere la telefonata dell’etichetta di Londra, a registrare un singolo - Cakelakers - moltiplicando il buzz e a girare il mondo di spalla a personaggi del calibro di Other Lives, Perfume Genius, Dan Deacon, Beirut, Bear In Heaven, Lower Dens e Savages. L’attenzione dell’intera blogosfera viene catalizzata definitivamente con la pubblicazione di una 4AD Session, ripresa presso l’isola privata di Osea nell’Essex, in cui Juul e compagni si esibiscono dal vivo avvolti dagli elementi naturali. E sono proprio gli elementi naturali la chiave di lettura del disco, realizzato intorno a frammenti alt-folk, landscapes selvagge e desolate, lamenti malinconici e tanta, tanta oscurità. Indians è l’incarnazione del suono 4AD, immagine riflessa dei concittadini e compagni d’egida Efterklang e frutto della figliata di un Justin Vernon ormai vate generazionale. Un timido ragazzone danese lanciato di colpo sotto i riflettori, con al seguito la montagna di pressioni ed aspettative del caso. Juul ha le spalle grosse, ma fino ad un certo punto e questo Somewhere Else è lo specchio fedele della fragilità che ancora lo caratterizza. Sarà il passo un po’ più lungo della gamba, sarà la voglia di convincere tutto e tutti al primo colpo, ma la luce vera all’interno di questo esordio sulla lunga distanza si vede solo ad intermittenza. C’è poca voglia di rischiare in questo disco, con il risultato che parecchi episodi finiscono per avvilupparsi su sé stessi, sfocando il fine per eccedere in verbosità, fra synth scintillanti (Lips Lips Lips), cavalcate di grimesiana memoria (Reality Sublime) e un generale incedere che - tranne che nella riuscitissima Melt e, solo in parte, nella title track - trasfigura spesso, da etereo-ipnotico che vorrebbe essere, in eccessivamente trascinato a discapito dell’efficacia della canzone. C’è da dire che ci sono altresì sprazzi di vera bellezza: Bird, costruita intorno ad un tappeto di pianoforte cristallino, sembra un’alba fra le fronde di una foresta inesplorata del Nord Europa,

Holy Esque - Holy Esque EP (Beyond The Frequency Records, Dicembre 2012) Genere: indie rock A volte è bello credere che il fuoco sacro del rock, mosso dal vento, possa spostarsi lungo il globo e incendiare di volta in volta paesi, città e scene diverse. Archiviate le paratiche - nel senso che per quanto più che dignitosi non sembrano essere in grado di fare la differenza - The Twilight Sad, Frightened Rabbit e We Were Promised Jetpacks, la Scozia - ed in particolare Glasgow - nel 2012 ha vissuto una sorta di rinascita guitar-oriented: lo slacker-galore dei Paws, gli interessanti Father Sculptor e gli anthemici Holy Esque. La band guidata da Pat Hynes debutta ufficialmente con l’omonimo EP Holy Esque pubblicato a metà 2012, prodotto dall’amico Kevin Burleigh nonché primissima release della sconosciuta/locale Beyond The Frequency Records. Quattro tracce che definiscono il suono della band, un concentrato di intensità emotiva e passione viscerale. L’impatto iniziale rimanda principalmente a due band: WU LYF e Titus Andronicus. In particolare la voce di Pat si muove esattamente a metà strada tra il timbro cagnesco di Evans Kati e quello di Patrick Stickles, caricaturizzandosi in modulazioni - vagamente alla Billy McCarthy dei We Are Augustines - che ricordano il belare delle pecore (“I’ve always sung this way, it’s my natural way of expressing myself”, dice lui). Particolare, questo, ben evidente sul finale di quello che è probabilmente il brano di spicco dell’EP: Rose, con il suo bel riff made in Gretsch&Rickenbacker. Ladybird Love, strumentalmente si snoda su territori vicini alle cose meno recenti di casa National, con un ottimo lavoro dietro alle pelli e il classico entusiasmo generazionale messo in campo da mr.Hynes. Ricordi alt90s nei solchi distorti e dimessi di Loneliest Loneliness, mentre la conclusiva Prophet of Privilege ha il compito di riassumere quanto proposto nelle tre tracce precedenti: chitarre protagoniste, drumming sostenuto e un grande impeto vocale.

Riccardo Zagaglia

Indians - Somewhere Else (4AD, Gennaio 2013) Genere: alt-folk

77


Sacri Cuori - Rosario (Decor, Ottobre 2012) Genere: folk Stili atipici e percorsi tortuosi che si intrecciano, nella seconda fatica dei Sacri Cuori. Quelli che Antonio Gramentieri, Francesco Gianpaoli, Christian Ravaioli, Diego Sapignoli, Denis Valentini e Enrico Mao Bocchini hanno seguito per concepire un lavoro così personale come Rosario. Nello specifico, la Romagna terra natia della band da un lato, e l’amore sconfinato per la frontiera americana già messo in mostra nell’esordio Douglas And Dawn dall’altro, in un fluire evocativo e mai sopra le righe. Tutto si riduce al folk, ma di un tipo che esiste solo nella testa dei musicisti, in cui Nino Rota va a braccetto coi Calexico, Lee Hazlewood e Ry Cooder ballano il liscio di Secondo Casadei. Sembra follia pura, e invece il gioco regge e intriga, grazie anche all’eloquenza raffinatissima del tessuto strumentale. Se il primo disco dei Sacri Cuori era la riscoperta degli Stati Uniti più polverosi e cinematici, questo è il ritorno a casa con la consapevolezza di averla dentro, l’America. Assieme alla nostalgia per un’Italia ormai perduta e cristallizzata negli anni sessanta del binomio Fellini-Rota e di un “bitt” tutto nostrano (il surf di Lee-Show). Input che si mescolano tra loro, mentre il mappamondo segna Los Angeles, Richmond e Russi (Ra) come tappe per le registrazioni e il Messico (Fortuna), la riviera adriatica (le balere di Lido) e il deserto negli stimoli musicali. Tutta la tracklist, in realtà, è una scoperta affascinante di rimandi tra i più disparati: lo Sciascia cinematografico vagheggiato in Quattro passi, i Coral circensi di Sipario!, la psichedelia tarantiniana e in sbornia free di Sei e El Gone, il valzer “espanso” di El Conte, la Silver Dollar in stile Nancy Sinatra valorizzata dalla voce di Isobel Campbell. Rosario è una dimostrazione eclatante delle potenzialità della glocalizzazione in musica, tenuto conto anche del fatto che la riscoperta delle proprie radici spedisce paradossalmente la band in un contesto ancor più internazionale. Testimonianza ne è il contratto con l’etichetta londinese Decor (in roster anche Mark Eitzel e Richard Buckner), ma soprattutto la consapevolezza di aver trasformato il progetto Sacri Cuori in un collettivo allargato e senza radici. Tanto che al disco partecipano ospiti diversissimi per estrazione come David Hidalgo (Los Lobos) e la già citata Campbell, Jim Keltner e John Convertino (Calexico), Stephen McCarthy (Long Ryders) e JD Foster. Un parterre d’eccezione che nobilita un lavoro già ottimo di suo, per una band con un curriculum non troppo dissimile da quello degli altrettanto capaci Ronin. (7.3/10) Fabrizio Zampighi

con gli svedesi Fredrik - ingiustamente sempre troppo poco considerati - a far capolino nei modi di contaminare cupe strutture alt-folk con elettronica ed inserti ambient; allo stesso modo, la successiva I Am Haunted convince pienamente fra chiaroscuri ed armonizzazioni in salsa Grizzly Bear, mentre Cakelakers - primo singolo - e Magic Kids strizzano l’occhio al già sopracitato Bon Iver languendo, il primo, i territori più spogli e prettamente acustici di For Emma Forever Ago e il secondo le contaminazioni più sintetiche e le atmosfere dilatate dell’omonimo sophomore. I tentativi sono apprezzabili e si percepisce che l’interesse creatosi intorno alla figura di Juul non è cosa totalmente casuale, fatto sta che, sarà anche per le aspettative molto elevate generate dal bollino 4AD appiccicato sul retro e dall’hype che ne consegue, questo Somewhere Else lascia un retrogusto amaro, come qual78

cosa di incompiuto, e le luci a intermittenza disseminate sulla via non sono sufficienti, almeno per il momento, per non farci caso. (6.3/10) Marco Masoli

Katy B - Danger EP (Autoprodotto, Dicembre 2012) Genere: Crack house Il bello di On A Mission e del fenomeno Katy B esploso nel 2011 era stato nel tempismo con cui si era inserito al momento clou del post-dubstep, nel modo in cui aveva partecipato alla svolta di stile con stile, rappresentando la nuova dialettica col pop sulla forma più immediata: una fashion girl capace di reggere il palcoscenico senza l’ambizione di invaderlo, che dava alle nuove luminosità UK step un volto facilmente riconoscibile e ben


integrato, una visione attenta alla semplicità dance pop e un certo, indispensabile spessore soulful. Per quanto non le si possano riconoscere i meriti di producing, il suo tratto caratteriale restava comunque l’elemento decisivo, il centro indispensabile intorno al quale orbitavano gli interventi delle altre tessere del puzzle. Due annate di silenzio, interrotte giusto dall’espressione di solidarietà per Madonna e dall’interpretazione vocale sulla hit di Mosca What You Came For, già non erano un buon segnale. Ma i quattro pezzi del Danger EP, rilasciato in free download questo mese, fanno un’impressione ancora peggiore: tutto si riduce ad anonima partecipazione vocale, una prestazione occasionale per il sollazzo dei producers che si divertono alle sue spalle, con pratiche utili a tutto tranne che a valorizzare il potenziale di Katy. E dire che ci sono le due menti dietro l’album, Geeneus e Zinc, che stavolta peccano di egoismo, con due pezzi house buoni per le nuove indagini Rinse (l’intrattenimento chic di Aaliyah e la spacconeria crack di Got Paid) ma dall’imprinting maschilista. Serviva solo una voce civettuola qualsiasi, e senza l’iniziativa è proprio quello che sembrano Katy B e Jessie Ware. Diplo con Light As A Feather fa anche peggio, aggredendo le possibilità pop-soul della coppia Katy B/Iggy Azalea con un giro acido fidgettoso di cattivo gusto che farebbe eccitare Steve Aoki. La cosa migliore alla fine la fa Jacques Greene nella titletrack, manipolando con devozione spazi e armonie in modo da ritagliarle sulla parte vocale, che infatti sboccia in un sussulto di emozione della migliore tradizione r’n’b al femminile (Faith Evans resta uno dei modelli a cui Katy si ispira). È tutto qui quel che un buon producer dovrebbe fare in questi casi, riscoprire l’umiltà e generare le condizioni ambientali favorevoli per quella che, sulla carta, è l’unica vera protagonista. Restare nell’ombra evidentemente non piace a nessuno, e il risultato è un contraddittorio gioco di forza dove la tecnica calpesta la seduttività. Voleva essere una vetrina di star e talenti, e invece è una smargiassata. (5.3/10)

personaggi come Brooke Candy. Nonostante il grande successo dell’album di debutto Animal, era già chiaro all’epoca che delle quattro (escludiamo la Spears e l’Aguilera in quanto appartenenti ad una generazione precedente e Jessie J, arrivata dopo), l’anello debole a lungo andare sarebbe stata proprio la ragazza di Los Angeles che a tredici anni cantava Karma Police dei Radiohead alla festa della scuola. Dietro alle sembianze da bambola-pop (anche se piuttosto trascurata) sembra infatti battere da sempre un cuore alternative, come dimostrano la collaborazione con i Flaming Lips nell’album The Flaming Lips and Heady Fwends e i guest presenti in questo secondo disco: Iggy Pop, gli Strokes e Patrick Carney dei Black Keys. Registrato in una decina di studios e prodotto principalmente dal guru dell’electrash-pop Dr.Luke, Warrior si compone di sedici brani (dodici + quattro della deluxe) bloccati all’interno del main$tream pop meno impegnato. La title-track è un concentrato delle sonorità presenti sulle produzioni di Ke$ha: electropop, stacchetti pseudo-rap da bad girl di plastica e dance music da locale zarro (dalla fidget dozzinale al dropstep). Mani nei capelli per il teen-hop su battute electro di C’Mon e per gli abusi - caricaturali - clubcentrici di Wherever You Are e All That Matters (The Beautiful Life). Party-anthems come Die Young (la Perry sempre nell’ombra) e Supernatural possono anche funzionare nei loro contesti di riferimento, ma rimangono la soundtrack ufficiale del vuoto intelettivo. Nella parte centrale del disco i ritmi, finalmente, rallentano. Finalmente inteso più che altro come respiro di sollievo dopo mezzora di musica da autoscontri, perchè la ballad Wonderland ha il sapore del disney-pop più insulso. Ke$ha afferma che la sua missione all’interno di Warrior è quella di far resuscitare il rock sotto forma di musica pop e ci prova in due occasioni: Dirty Love, l’imbarazzante brano con Iggy Pop - che evidentemente sta iniziando ad accusare gli anni - e Only Wanna Dance With C(i)8(»6]TJMf-1.3096)5(u)-dY3unucgCag

Carlo Affatigato

Kesha - Warrior (RCA, Dicembre 2012) Genere: electra$h pop Quando uscì Tik Tok, Rihanna infilava già da tempo un singolo dietro l’altro, Katy Perry spopolava con il suo pop infantile e la nuova diva assoluta Lady Gaga rappresentava l’emblema del marketing dell’eccesso. Ke$ha riuscì ad entrare in questa “elite”, facendosi largo con il motto “la più tra$h sono io”. Un gioco in cui vinceva chi più si avvicinava al nulla e che ultimamente è sfociato in 79


prodotto creato utilizzando lo stampino di Dr.Luke, già co-responsabile dell’ultimo flop artistico di Marina & The Diamonds. (4/10) Riccardo Zagaglia

Kodaline - Kodaline EP (RCA, Dicembre 2012) Genere: pop-rock L’industria musicale è in costante mutazione su tutti i fronti, ma sembra che non possa ancora fare a meno dell’ospitale casa dolce casa chiamata pop-rock. Insomma, basta guardarsi intorno, alla fine quasi tutte le band che riempono gli stadi raggiungono il livello di popolarità necessario per farlo, nel momento in cui scendono ad un compromesso tra idee artistiche e fruibilità di massa. Un compromesso che per alcuni è istantaneo , per altri arriva album dopo album. Gli irlandesi Kodaline partono con le idee ben chiare e con quel compromesso già intrinseco nel DNA. E’ ovvio che il clamoroso successo che ha baciato le sonorità happy-folk di Mumford & Sons, Of Monsters And Men e The Lumineers non potrà durare per sempre, così come è ovvio che il pop-rock più generico abbia continuamente bisogno di nuova linfa. Prodotto da Steve Harris (già al lavoro con nomi quali Dave Matthews Band e U2) che gli dona già una cura di primo livello, Kodaline EP non nasconde gli intenti “grandiosi” dei quattro di Dublino guidati da Steve Garrigan. Le quattro tacce spaziano tra il pop malinconico, il folk melodrammatico e un certo rock-pop dai risvolti epici. L’iniziale All I Want è il classico pezzo che può lanciare una carriera: suoni dolci, melodie struggenti quanto azzeccate, ed un testo da hug con accendino incorporato (“But if you loved me, why you’d leave me, take my body, take my body. All i want is, and all I need is to find somebody, i’ll find somebody”). Un crescendo folk-rock che tocca corde emozionali in zona Dry The River e corde vocali in zona Coldplay. I Kodaline dimostrano di non essere solamente una band da telefilm in Lose Your Mind, brano che li proietta con credibilità verso una psichedelia brit post-60s ripassata durante gli anni ‘90. Pray ha il compito di conquistare i fan dei primi (Coldplay|Muse|Radiohead) ed anche in questa occasione il risultato è tutt’altro che disprezzabile, mentre la conclusiva Perfect World parte da una strofa che ricorda Mr.Jones dei Counting Crows e si fa ricamare addosso un chorus che sembra uscire dai Coldplay - voce di Chris Martin compresa del periodo Viva La Vida. 80

La musica evolve, tutto si contamina, le influenze si fanno sempre più complesse ed articolate, nascono nuovi sottogeneri ogni giorno ma c’è chi, come i Kodaline, preferisce ancora scrivere le più classiche delle pop songs senza dar peso a quello che accade intorno. Presi sia singolarmente, sia a livello complessivo, i quattro brani del Kodaline EP sono ineccepibili in ottica radiofonica e proprio quando inizi a pensare che sia tutta una furbata commerciale (nonostante l’onestà sia il loro scopo primario stando a quel che dichiarano...), la mente vola alle ultime cose di Muse o Coldplay. E allora ben vengano i Kodaline. (6.1/10) Riccardo Zagaglia

Legowelt - The Paranormal Soul (Clone, Novembre 2012) Genere: Electro Techno Il riaffaccio sui mitici/odiati 90’s è ormai sport olimpico quanto il curling o il tiro con l’arco e ci si stanno dedicando un po tutti, da Photek a Scuba fino ad Hercules And Love Affair. Ultimo in ordine di apparizione è Legowelt, uno che i nineties se li è fatti tutti in pieno, vivendoli e marcandoli in maniera indelebile: basti pensare a un album come Reports From The Backseat Pimps, che nel ‘98 aveva già segnato tutta la produzione electro dei 5-6 anni a venire e per cui Miss Kittin e Vitalic ancora ringraziano. Danny Wolfers è puntuale come il festival di sanremo o il giro d’Italia, da due decenni è uno che tira fuori più o meno un album all’anno riuscendo a non ripetersi quasi mai. E se in fase di pre-produzione l’idea era quella di un album vagamente 90’s, si potevano aprire solo due scelte ben precise: andare in cantina, rispolverare un paio di Korg e un software d’antan e limitarsi a un pallido revival, oppure fare (ed è ciò che ha fatto) un’opera di piccola ingegneria, usando comunque quegli stessi macchinari e software ma creando quei ponti/punti di contatto tra Europa e America, UK e Detroit, techno teutonica e deephouse Chicago che son sempre stati il suo marchio di fabbrica, gemellando LFO e Inner City, Tronikhouse o il Reese Project di I Believe con ortodossie techno teutoniche a cassa dritta. Sono dodici tracce sapienti e aperte a qualsiasi ricezione e ricordo. La melodia e la bassline di Danger In The Air smuovono con piacere Derrick May e gli altri due soci della priam Detroit, di rimbalzo Clap Yo Handz gioca allo specchio con la technofunk e LFO, Elements Of Houz Music scomoderá addirittura gli Enigma e Voice Of Triumph si incendia come traccia orgogliosamente europea (il


Viv Albertine - Vermillion Border (Cadiz Music, Dicembre 2012) Genere: art wave Ok, l’età di una signora non dovrebbe far parte di una qualsivoglia argomentazione, tuttavia Viv porta così bene i suoi 57 anni che non possiamo esimerci dal citarli come mezzo di contasto per la freschezza di questo disco, col quale la ex chitarrista delle Slits esordisce in solitaria. Accompagnata da ospiti lussuosi come Jack Bruce, Glen Matlock e Tina Weymouth, affidata la produzione a Dennis Bovell (che già diresse i lavori per Cut), la Albertine sfodera ispirazione e grinta che diresti rriot, anche se bastano pochi secondi per capire quanta distanza passi dal ghigno civettuolo d’una Liz Phair. La cadenza wave e le costanti declinazioni psych tratteggiano un approccio arty tra lo sferzante ed il lirico, capace assieme di cimentarsi laconico, evocativo e avant. Le canzoni svariano disimpegnandosi tra retaggi Velvet e Brian Eno, Wire e Stereolab, con la cocciutaggine senziente di chi ne ha passate e udite abbastanza da potersi permettere di fare più o meno quel che meglio crede. Il risultato è godibile e arguto, a tratti persino affascinante. Ma il vero miracolo è che riesce a non suonare né nostalgica né tanto meno postuma. Anzi potrebbe rappresentare un credibile prototipo per tante aspiranti rocketare con l’ambizione di lasciare il segno. Tra la filastrocca androide di Confessions Of A Milf, il caracollare rapito di The Madness Of Clouds e il teatrino beffardello di Hookup Girl si consumano forse i momenti migliori di una scaletta che non accusa cedimenti. Dove ti sei nascosta tutto questo tempo, Viv? (7.3/10) Stefano Solventi

sample vocale sospeso tra T99, Phenomenia e Mortal Kombat Musik) ma che suonerà puramente detroitiana, rappresentando il picco di un album maturo e originale. Dopo vent’anni di onorata carriera Legowelt riesce ancora a dire la sua, districandosi tra lampi di melodia e schizzi acid (Renegade Of A New Age), cedendo nella traccia finale a quella horrorwave di cui ha fatto largo uso in passato, ma che nonostante il titolo qui viene assolutamente centellinata. Legowelt produce un album techno - perchè techno è dal sapore vanigliato ma deciso, sussidiario di esperienze vissute e ascoltate. Senza far la voce grossa ma nemmeno sussurrando, facendo esame di originalitá, mettendo il naso fuori dal guscio/gabbia della techno europea e respirando ariositá tutta americana. Senza puntare al capolavoro che non sempre è necessario, laddove a volte un sorriso è più che sufficiente . (6.8/10) Mirko Carera

Leitmotiv - A Tremulaterra (Pelagonia Dischi, Ottobre 2012) Genere: psych-folk-rock Sono arrivati al terzo album, hanno snellito la formazione (rimanendo in quattro) ed il sound, riuscendo comunque a non disperdere l’ampiezza e la versatilità del toc-

co. In un certo senso, A tremulaterra potrebbe essere considerato l’album della maturità per i Leitmotiv. Che, come avevamo capito già ai tempi dell’esordio L’audace bianco sporca il resto, hanno estro da vendere e capacità di svariare con disinvoltura, dribblando la retorica di certo folk-rock “impegnato” con un’attitudine art-psych capace di sottigliezze non comuni. Si veda la gravità funky di Fiori d’iloti, l’acidità etnica di Lamaravilla e l’immediatezza arguta di Romeo disoccupato (da qualche parte tra i Perturbazione più intensi e i Pearl Jam più melodiosi). Volendo sottolineare un difettuccio, sembrano subire oltre misura il richiamo della canzone autoral/popolare, spendendo troppa energia sul versante dei testi - giochi e giochini di parole, sia pure ingegnosi, allusivi, intensi - al punto da penalizzare il ruolo dell’interpretazione e delle tessiture sonore. Quest’ultime spesso buone e talora brillanti, però quasi sempre subordinate al teatrino narrativo, al punto che anche quando tentano la carta dell’atmosfera (la densità noir di Silent Night, gli esotismi caraibici di Les jeux sont faits) capita di avvertire il retrogusto cartonato della scenografia. E’ un peccato veniale ma è comunque un peccato, perché al netto di qualche sortita banale (la marcetta balcanica delle altrimenti gustose Controluce e Cattive compagnie) i quattro pugliesi dimostrano di avere in repertorio numeri (la 81


Yo La Tengo - Fade (Matador, Gennaio 2013) Genere: indie rock La classicità dei Yo La Tengo è un assioma. Quando lo sono diventati, classici? Nel 2000, con And Then Nothing .. ? O nel ‘97, con I Can Hear The Hearts .. ? Ma non era forse già un classico May I Sing With Me (1992)? Pensateci bene: in realtà sono sempre stati talmente rispettosi dei canoni indie rock (estetici, musicali, esistenziali) da incarnare, non vi sembri un’esagerazione, un paradigma eterno. Benché mutevole; e questa è anzi la loro maggiore fortuna, il loro miracolo più riuscito. Sonic Youth, Pixies, Dinosaur Jr hanno da sempre i nomi scolpiti nella pietra - a diritto, per carità -, ma nessuno mai come Ira, Georgia e James, neanche tra venti, trenta o cinquant’anni. E loro lo sanno benissimo, e a ogni album fanno in modo - con estrema nonchalance, peraltro -che questo paradigma ne esca rinnovato, se possibile ancora più forte. Non è quindi un caso se Fade, a partire dal titolo, ha il peso del bilancio consuntivo. La soglia della mezza età è stata superata da tempo e i Yo La Tengo stavolta, anziché continuare ad esorcizzare con adorabile nerdismo gli spettri della maturità (vedi alla voce Condo Fucks) preferiscono prendere la questione di petto. È un disco - il classico disco - che affronta temi come morte, perdita, il passare del tempo; ma non può farlo che alla maniera dei Nostri, ovvero con la naturalezza e la spontaneità con cui hanno attraversato ogni fase della loro carriera (e vita). In sordina, sì, ma con una profondità inaudita che arriva dritta al cuore. Basta la conclusione di Before We Run, tenue ballata affidata a Georgia che cresce e cresce maritando solennemente umori post e carezzevoli pennellate orchestrali, per spiegarvi cosa c’è dentro questo album. Il meglio dei Yo La Tengo, rivisto sotto la luce di John McEntire (un’unione annunciata: d’altronde si frequenta coi nostri dai tempi dei Seam) e da essa reindirizzato e rinvigorito: dei precedenti Popular Songs e I’m Not Afraid Of You.. vanno via le lungaggini, lasciando spazio alle canzoni con quel consueto enciclopedismo che ben conosciamo (kraut in Stupid Things e Ohm, pop in It’s Not Enough, per citarne giusto tre); il sig. Tortoise di suo ha il merito di aprire spazi inusitati a un suono noto ma, per sua natura, straordinariamente fecondo di potenzialità. Se i tre di Hoboken volevano lasciarci il loro ideale canto del cigno, ci sono riusciti. Ma qualcosa ci dice che la storia non finisce qui.. (7.3/10) Antonio PancamoPuglia

chanson assorta di Specchi, il sarcasmo etno/wave di Pecore) di livello più che buono. (6.2/10) Stefano Solventi

Lento - Anxiety Despair Languish (Denovali, Dicembre 2012) Genere: post-metal Perdono una chitarra per strada, accorciano la durata media, incupiscono e aumentano se possibile la densità specifica del proprio sound i romani Lento per giungere, al traguardo del quarto disco, ad una via estremamente personale al post-metal. Che non viva cioè di semplicistiche reminiscenze Isis/Neurosis o Ufomammut per rimanere a casa nostra, che eviti le secche di un vuoto/pieno ormai largamente risaputo, che scontorni le composizioni creando di continuo curve a gomito e sbilanciamenti stilistici che arricchiscono il tutto con inserti “altri”. 82

Questo in buona sostanza il ritorno sulle scene dei Lento ad un anno di distanza da Icon. Il suggello al rapporto con la Denovali riparte proprio dal disco precedente e ne acuisce i momenti più duri (A Necessary Leap che svisa su territori quasi black) ma nello stesso tempo ne screzia il portato mostrando una band capace di maneggiare la materia come poche quando si tratta di spingere sull’acceleratore, ma anche di avventurarsi in composizioni più strutturate, varie ed elaborate. Da un lato, l’armamentario di genere viene fuso in continuazione tra catarsi chitarristiche Isisiane (The Roof), svarioni -core (la title track, Blind Idiot God), sfasature ritmiche a dissolvere ascensioni math e celestiali aperture metal (Underbelly) e post-core progressivo (Death Must Be The Place); dall’altro il continuo rifrangersi della materia heavy approda di volta in volta su lidi da collasso ambient-pulviscolare (Inwards Disclosure), oscura quiete aliena (Blackness), black-metal “angelico” alla Wolves In


The Throne Room (Questions And Answers) o alla conclusiva mini-suite My Utmost For His Highest, esempio e summa della capacità del quartetto romano di elaborare trame screziate e varie senza perdere un grammo in pesantezza noisy. Dimostrando, per l’ennesima volta, di essere uno dei gruppi di punta dell’odierna trimurti “pesante” italiana in compagnia di The Secret e Ufomammut. Roba da esportazione che ci invidiano un po’ ovunque. (7.2/10) Stefano Pifferi

Local Natives - Hummingbird (Infectious, Gennaio 2013) Genere: art pop La formula sembra azzeccata, sbilanciata con acume sulla facile presa: di base è pop emozionale Coldplay (Heavy Feet, Mt. Washington), all’occorrenza strattonato tribal weird (Breakers) e spesso orientato verso certo postmodernismo a scartamento soul Radiohead con sprazzi di lirismo panico Sigur Ros (Three Monts) o agnizioni jeffbuckleiane (You & I). Molti gli ingredienti british nella calligrafia di questa band losangelina (ma non erano di Silver Lake?) che col qui presente sophomore - sono passati quasi quattro anni dal precedente Gorilla Manor - tenta l’assalto decisivo alle chart para-alternative. Bravi son bravi, intensi nel condurre ogni pezzo fuori dalle secche della banalità, capaci di svariare tra arrangiamenti che sanno di mischia sperimentata live. Tuttavia, ahiloro, paiono privi del tocco che porrebbe la loro proposta su un piano davvero inedito e irrinunciabile. Si fermano sulla soglia tra eleganza e inconsuetudine (i nipotini po-mo dei Sea And Cake di Bowery), suonano insomma come un’impasto di cosucce arcinote rimesse a nuovo, facitori di un alternativo da cameretta formattato mtv (Black Balloons) un po’ come a suo tempo i Friendly Fires. Sono ragazzi con buone attitudini e un certo talento nel metterle in pratica, destinati ad incontrare un certo successo nella terra di mezzo tra gli stanchi del mainstream e i profughi del fottuto underground (che dio l’abbia in gloria). Né più né meno. (6.2/10) Stefano Solventi

Macklemore & Ryan Lewis - The Heist (Macklemore LLC, Ottobre 2012) Genere: Hip Hop Tra le novità più interessanti di quest’anno bisogna senz’altro considerare Macklemore, un ragazzone biondo di Seattle con tutte le carte in regola per essere considerato uno dei primi rapper “buoni” ad essere

credibile, quel classico tipo di ragazzo che saresti contento di presentare ai tuoi o alla fidanzata. Debutta a metà duemila con The Language of My World ma il salto diqualità arriva qualche anno più tardi, nel 2009, grazie al sodalizio artistico con il giovane produttore Ryan Lewis. Ne vengono fuori ottimi brani come Otherside (la cui base è proprio il brano omonimo dei Red Hot Chilli Peppers) e My Oh My e oggi arriva The Heist, debutto al numero 2 della classifica Billboard 200 con tanto di feat. di lusso come Schoolboy Q e Ab-Soul, due big del giro HH underground americano. Macklemore ha molte qualità: il flow svelto, la scrittura e un look cool-ma-non-troppo, ma a renderlo veramente interessante sono personalità e piazzamento. La scena hip hop contemporanea è satura di bad boys e grandiosi edonisti e figuriamoci se le paternali dei Public Enemy possono fornire un’alternativa convincente. Macklemore è il tipo giusto. E’ istruito e divertente e sa parlare di temi seri senza risultare moralista o noioso, descrivere i cattivi senza tirarsi fuori da essi. In Wings gioca sul feticcio Air Jordan (le idolatra e le ridimensiona), in Same Love parla d’omosessualità dal punto di vista di un adolescente confuso di fronte al mondo adulto pieno di stereotipi. Nel fortunatissimo singolo Thirft Shop è irresistibile con quel taglio naif e spensierato che è poi il suo forte. Eppure è sui temi di droga cari alla scena - vedi anche Kendrick Lamar - che le cose si fanno serie sul serio. Mack risulta credibile proprio grazie a una storia personale fatta di abusi di droghe e un periodo di lavoro in programmi di recupero per giovani detenuti basato proprio sul rap. Il cattivo-ragazzo-ripulito-sa-cosa-dice, ama fare shopping in posti economici e tenere pizza party. Quel tipo di ragazzo che presenteresti ai genitori e alla ragazza che però non è poi così clean in fondo. Il lavoro sulle rime trova una sponda sicura nella produzione di Ryan Lewis, bravissimo nel tagliare un hip hop dalle venature pop per nulla hardcore, basato su strutture articolate e stratificazioni di sonorità, senza grossi campionamenti (coerentemente al budget e al target tipicamente indie) ma centrato sulle parti di pianoforte e violino. E poi c’è la versatilità negli stili: dai brani più strutturati e autoriali come Ten Thousand Hours e Wings, al divertente e swingante Thirft Shop, passando per l’elettronica quasi wonky di Jimmi Lovine (in featuring con Ab Soul) e a quella southern di Gold. I momenti più audaci li troviamo in Bombon, strumentale a base di pianoforte, violino e percussioni quasi tribali e la conclusiva Cowboy Boots, con inserti country. Gran bel disco The Heist e probabilmente il meglio 83


deve ancora arrivare. Molto più di altri, Macklemore ha il bisogno di rimanere un modello positivo in cui i giovani possano riconoscersi, questa la sua più grande sfida. Riuscirà a farlo dall’alto delle classifiche (leggi anche alla voce melodie troppo leccate)? (7.1/10) Gianluca Carletti

Mark Stewart - Exorcism Of Envy (Future Noise, Dicembre 2012) Genere: Dub “Immerso nella bass culture di Bristol da quando ero piccolo ho sempre cercato le sirene e gli effetti speciali che i dj mettevano nei set, ora che li ho trovati non riesco a smettere di giocarci” (Mark Stewart intervistato da The Quietus) Della passione per il dub di Mark Stewart vanno scovate le tracce fin dalla scelta di Dennis ‘Blackbeard’ Bovell come producer del mitologico Y del Pop Group. Una collaborazione di lunga data con Adrian Sherwood e la cricca On-U hanno poi cementato, negli anni, un autentico credo soundsystem nel musicista left-wing britannico per eccellenza. Nasce così Exorcism Of Envy, album dub che eredita i feat. - Bobby Gillespie, Lee Scratch Perry, Richard Hell, Daddy G dei Massive Attack, Keith Levene (PiL), i Factory Floor - e le suggetioni basali dell’acclamato ma non del tutto riuscito The Politics Of Envy, rappresentandone nel contempo un creativo auto-sabotaggio. Sappiamo quanto, trafficando con lo studio di registrazione, Stewart sia in grado di tirar fuori capolavori d’attivistica avanguardia come As The Veneer Of Democracy Stars To Fade e autentici pasticci come magari saranno state le session del 1995 con Tricky. Eppure, nel bene e nel male, il bello di questi collage è sempre stato l’assoluto caos anarchico di filtri, echi e lavatrici ritmiche che il bristoliano ha garantito. Un senso del gioco infuso a partire dall’inossidabile metafora del broadcast pirata “This is Radio Freedom”. Così, attraverso l’”esorcismo dell’invidia”, il “funkenstein” (parole sue) che ritroviamo nelle orecchie è un soundsystem cubista d’analogiche ridotte all’osso, basse frequenze, scampoli rockstep (Codex Dub), dark synth (Sexorcist), elettrock da autoscontro (Gustav Says Dub), disco tamarra, reggae dub (Method To The Madness Dub), roborock (Mirror Wars) e tanto altro, senza soluzione di continuità. Con la voce in echo che va e viene, che c’è e non c’è, come poi tutto il missato. Se da The Politics Of Envy emergeva uno Stewart gongolante con l’agenda telefonica in una mano e il pugno alzato nell’altra, qui si libera l’autentica ludica bestia cre84

ativa che di lui abbiamo sempre amato (e anche un po’ odiato) ed è proprio in forza di questo che l’esperimento può dirsi pienamente riuscito. (7/10) Edoardo Bridda

Matteo Toni - Santa Pace (Still Fizzy, Ottobre 2012) Genere: rock-blues Dopo l’EP di quasi due anni fa Qualcosa nel mio piccolo, Matteo Toni torna con l’album Santa Pace, dieci tracce che senza allontanarsi dalle influenze pop e blues del lavoro precedente, virano verso territori maggiormente elettrificati. Anche se lo strumento prevalente rimane la chitarra acustica hawaiana Weissenborn, stavolta il musicista modenese sceglie le distorsioni del rock and roll, forse anche per il suo passato in band metal e crossover. Santa Pace è infatti un disco che, pur caratterizzandosi soprattutto per atmosfere soul-blues e momenti acustici, è sostenuto a più riprese da una rombante struttura percussiva, che colora le canzoni di una certa ruvidità garage. Lo si vede nell’iniziale Bruce Lee vs. Karem Abdul Jabbar, titolo e testo tra l’ironico e il surreale che danno il via al calderone di stili e sonorità che si incrociano nell’album: dal rock meticcio di Isola Nera alle pulsazioni reggae di una title-track in cui ritornano gli echi caraibici dell’acoustic slide guitar dell’esordio, come anche in Alle quattro del pomeriggio. La successiva Alle quattro del mattino è un’intensa ballata che si colloca nei territori più tradizionali del rock-blues americano, Fidati e Acqua di fiume sono episodi acustici ispirati al folk più essenziale. Brani che mettono in luce una scrittura coraggiosa, anche originale, debitrice tanto all’approccio atipico di un autore come Moltheni quanto al songwriting genuino del primo Springsteen. L’arpeggio de Il canto di Valentina, ultima traccia del disco e tra i pezzi più riusciti del lotto, conferma la scrittura cupa e immaginifica di Toni, essenza di un cantautorato atipico, ibridato tra elettrico e acustico, dove le idee da mettere insieme sono tante e complessivamente convincenti. (6.7/10) Giulia Antelli

Maya Jane Coles - Easier To Hide EP (I Am Me, Dicembre 2012) Genere: UK House Ora che è acclamata da tutti come una delle migliori femmine dietro la consolle, per Maya Jane Coles arriva il momento di affilare le armi. La sfilza di EP passata in rassegna nell’In Da Club l’ha condotta tra le sfumature


femminili della house, il DJ-Kicks l’ha incoronata reginetta dell’eleganza e ora, prima di pensare a un possibile album (se mai arriverà), è il caso di azzardare certi movimenti dal sapore poppy: Easier To Hide e Over fan bene ad esaltare la dolcezza vocale della produttrice londinese, con un fondo morbido party house e quei piccoli refrain cantati che già amavamo in pezzi come You o Nobody Else, Run With The Wild ci aggiunge il groove e Back To Square One rallenta con sagacia fino all’emozione soul. Dopo le mille facce dance, è questo l’eppì che ufficializza l’avvenuta maturità, con conseguente coscienza dei propri mezzi. Comunicare sensazioni ha tutto un altro fascino ed è una sfida che tipicamente al dj piace (lo abbiam visto quest’anno su Leon e Yousef). La pista, ora, quasi le sta stretta. (7.1/10) Carlo Affatigato

Mecna - Disco Inverno (, Settembre 2012) Genere: hip hop Qual è il problema di una formula di sicura efficacia? Bisogna porsi questa domanda e darsi una risposta per capire che tipo di giudizio dare a un disco come questo Disco Inverno di Mecna. Se scoprite solo ora il giovane rapper foggiano e, più in generale, la poetica del collettivo Blue Nox, sarete probabilmente colpiti positivamente dall’approccio molto conscious nei confronti della stesura dei testi. Se siete invece tutt’altro che neofiti di queste produzioni, c’è la possibilità che possiate avere una fastidiosa sensazione di deja vu ascoltando le 16 tracce di questo album. Il cui unico problema è in fondo questo: la formula perfetta. Fatta di gente semplice (ovviamente si parla del personaggio che viene fuori dai brani), che dice cose semplici e condivisibili (la passione per l’hip hop, la ragazza, i problemi quotidiani ecc.), una formula che ha ormai relativamente poco di nuovo da offrire, se non il porsi come antitesi al rap gangsta o a quello tipicamente hardcore (filoni ancor più sterili). Ovviamente questa personalissima considerazione non invalida la buona fattura di molte delle tracce di Disco Inverno. Mecna è un rapper con skills ben superiori alla sufficienza, ha un buon gusto nella scelta dei vari produttori e i brani sono tutti gradevoli, specialmente quelli che prediligono un approccio più morbido: la jazzata Fatto così, ad esempio, ma anche e soprattutto l’ottima opening track che si avvale di un An.Na. (all’anagrafe Andrea Nardinocchi), in splendida forma nel ritornello e nella produzione, sono brani estremamente curati e in grado di creare un mood molto intimista che non capita spesso di sentire in giro, soprattutto in Italia. La scelta

dei beat è quasi sempre adatta al tipo di brano, vengono calcate diverse strade, dalla dimensione intima di cui sopra alla ricerca dell’atmosfera soulful (é il caso di brani come Senza paracadute e Due passi), passando per suggestioni che vanno dall’onnipresente J Dilla (si riesce a stento a credere che costui sia deceduto) fino ai Sa-Ra Creative Partners. Si sente un po’ l’influenza della figura di Ghemon, di parecchio avvantaggiato su Mecna per quello che riguarda il rap (mentre nel cantato sono ugualmente discutibili entrambi), e questo non è necessariamente un difetto, anche se ovviamente toglie un po’ di entusiasmo all’ascoltatore più scafato. Un elemento fin troppo presente è invece l’eccessiva autoreferenzialità, il compulsivo ritorno alla prima persona, l’IO ripetuto fino a diventare un noi / voi che livella il genere umano fino a renderlo un cliché, lasciando l’ascoltatore a chiedersi che cosa di così particolare differenzi un Mecna da un qualsiasi altro rapper (a parte le innegabili capacità, ovviamente). Quello che rimane, alla fine dell’ascolto, è la voglia di scoprire i lati meno condivisibili e da ragazzotto di buoni sentimenti della personalità di Mecna, sopratutto dopo vari dischi simili dal punto di vista tematico. Si tratta comunque, ribadiamolo, di un buon prodotto hip hop, a patto che si accettino determinate coordinate. (6/10) Sebastian Procaccini

Memory Tapes - Grace/Confusion (Carpark, Dicembre 2012) Genere: synth-pop Che il cosiddetto chillwave o del glo-fi che dir si voglia avesse il fiato corto lo sapevamo fin da quando la stampa di mezzo mondo ha iniziato a usare l’etichetta. Si è detto a proposito dell’ultima fatica di Neon Indian, mentre chi ha qualche talento in più ha mostrato che per riuscire a rimanere a galla bisognava uscire dal recinto dell’etichetta. Vedi Toro Y Moi e Ariel’s Pink Haunted Graffiti. Ce lo auguravamo anche per Davye Hawk all’altezza del precedente Player Piano, quando le doti melodiche e la capacità di mescolare 60 e 80 del bedroom songwriter americano si sono mostrate tanto mature da far pensare che il salto sarebbe stato imminente. Passa un anno e mezzo, invece, e ci ritroviamo a un empasse simile, seppur con alcuni distingo che è meglio esplicitare subito. Non si tratta di definire Grace/Confusion un passo falso, che non è. Ma non è nemmeno quel passo avanti che ci si aspettava e che altri amichetti da cameretta hanno saputo fare nell’ultimo periodo. Davey dimostra che del talento, nelle sue composizioni, ce n’è 85


eccome. Come nell’iniziale Neighborhood Watch: una piccola meraviglia di delicato pop californiano adagiata su uno dei pattern ritmici degli ultimi anni, oppure nelle atmosfere notturne di Sheila e le gentili citazioni hawaiane di Follow Me. Il problema è che accanto vi troviamo le tastierone del peggior synth pop new romantic (Safety) o un’alone di tamarraggine che butta via una Thru the Fields che altrimenti avrebbe fatto volare.In altre parole, a voler leggere per bene tra le righe, il titolo diceva già tutto: scampoli di grazia melodica, di hauntologia e gusto sopra la media, ma appannati da una confusione che rischia di andare a detrimento anche del buono che c’è. E se fosse semplicemente necessario cercare un buon produttore? (6/10) Marco Boscolo

MFC Chicken - Music For Chicken (Dirty Water, Agosto 2012) Genere: Rock ’n’Roll Parafrasando Groucho Marx, questo gruppo londinese (ma guidato dal cantante/sassofonista canadese Spencer Evoy) si veste anni ‘50, la copertina del disco è anni ‘50, ma non fatevi ingannare: sono davvero anni ‘50. In realtà per l’anagrafe no - difficile dirlo - ascoltandoli ciò che esce dalle casse è puro r’n’r tirato a rotta di collo, sporco e impastato come certi singoli dei primi Stones o come i Cramps ma senza le loro varianti armoniche (fedeltà assoluta al classico giro mutuato dal blues), compatto e maleducato insieme (come lo spesso impertinente sax-guida del cantante) e che non molla un secondo dall’inizio alla fine. Già l’apertura di Chicken, Baby, Chicken dà l’impressione di essere arrivati a riscaldamento già completato, e il resto prosegue senza requie - anzi, in Wild Safari riescono perfino ad accelerare - tra cori, hammod, assoli bollenti di chitarra, omaggi al riff di What I’d Say (Laundromatic), a quello di Peter Gunn e al surf (God Surf The Queen) e varianti quasi country (Chicken On The Bone). Niente di nuovo nemmeno per sbaglio, com’è evidente (da una parte c’è giusto una melodia quasi-Devo e nulla più), ma grinta, divertimento (nella musica e nel gioco sul tormentone chicken nei titoli) e potenza quanto si vuole da un gruppo i cui live devono essere uno spettacolo. E probabilmente sarà lì che venderanno principalmente le copie del disco: non sappiamo infatti quanto mercato possa avere un album che, pur divertente, è perfetto per gli antichisti del rock’n’roll ma tanto immune da qualsiasi cosa pubblicata dopo Love Me Do (ma anche da prima) che potrebbe essere uscito in un anno qualunque. (6.6/10) Giulio Pasquali

86

Miguel - Kaleidoscope Dream (RCA, Ottobre 2012) Genere: r ’n’b Dopo quasi una decade passata dietro le quinte a far gavetta, sembra davvero che sia arrivato il grande momento per Miguel. Iniziata la carriera come ballerino, il ragazzo è poi passato a comporre, cantare, produrre e suonare la chitarra. Dopo i non fortunatissimi esordi nel 2010 con All I Want Is You, arriva il cambio di label e un secondo disco che amplia lo spettro di riferimenti e presenta un progetto più personale e ricercato, nel quale il californiano modella il suono a propria immagine e somiglianza, in una ricerca di stile che lo porta ad esplorare il lato più soulful dell’r’n’b e del pop. Kaleidoscope Dream cerca infatti di infilarsi nel filone neo-soul inaugurato da The Weeknd l’anno scorso e portato al successo da Frank Ocean nel 2012, offrendone una versione più eccentrica, glam e funky. Se, nel gioco delle personificazioni, Abel Tesfaye reincarna Michael Jackson e Ocean indossa le vesti di Marvin Gaye, Miguel potrebbe di diritto rappresentare il nuovo Prince. Seduttivo, come il singolo Adorn, eppure dettagliato e ricco nella produzione, Miguel si muove negli spazi colorandoli con tinte jazz, artsy electro, pennellate di classic rock e svaghi hip hop. Vocals pieni zeppi di riverbero ed echi psichedelici, come quelli di Do You.., synth glossy e sfuggenti, virate anni ‘80 sempre in zona Prince (la title track) o addirittura Police (Candles in The Sun). Il pregio di Miguel è quello di saper amalgamare tutte queste influenze in modo credibile, mantenendo un tocco personale e tenendosi a distanza dall’r’n’b più ordinario e trito, anche quando ad accompagnare i backing vocal ci sono personalità ingombranti quali Alicia Keys (Where’s The Fun In Forever): la strada seguita è sempre quella di un pop sofisticato e attento ai particolari. Con Kaleidoscope Dream, Miguel riesce a convincere in più occasioni e su più livelli, oltre che a rappresentare l’immagine di un artista eclettico, la cui missione alla ricerca dello stile può dirsi compiuta. (7.1/10) Luca Falzetti

Mirto Baliani - T.E.L. (Offset, Gennaio 2013) Genere: colonna sonora L’acronimo che da il titolo all’album di Mirto Baliani sta ad indicare Thomas Edward Lawrence, ai più noto come Lawrence d’Arabia, convitato di pietra allo spettacolo teatrale di Fanny & Alexander e Tempo Reale di cui il presente vinile, rimasterizzato per l’occasione, è la controparte sonora. Tante volte ci siamo esaltati per colonne sonore imma-


ginarie, per soundtrack music priva di immagini, in cui cioè erano le composizioni a sollevare l’immaginazione dell’ascoltatore. Ora ci sembra giusto esaltarci per una quarantina di minuti suddivisi in quattro movimenti (Rivolta, Dubbio, Utopia e Attesa) in cui Baliani rende al meglio le, ipotizziamo evocative e fortemente significative, performances attoriali incentrate sulle vicende di un personaggio chiave del secolo scorso: archeologo, agente segreto, ufficiale britannico, scrittore, oltre che iniziatore della rivolta araba d’inizio 900 mai come in questo periodo di stringente attualità. Si veda, tanto per capirsi, anche il bel libro “Stella del mattino” che Wu Ming 4 dedicò alla ambigua figura dell’inglese qualche anno addietro. Baliani ci mette molto del suo nell’intrecciare suoni e voci lontane di battaglia e preghiera, restituendo appieno le atmosfere della performance, piuttosto coinvolgente e straniante stando alle ottime critiche ricevute praticamente ovunque. E lo fa con una tavolozza di colori ben definita ma sapientemente fondando gli input in forme entusiasmanti. Che siano poliritmie afro, voci di tribù che si inseguono o suggestioni desertiche per immagini in movimento (Rivolta) o la voce lontana di un muezzin che cresce su tappeti onirici dal percussivismo ipnotico, montando fino a trasformarsi in una sorta di techno-trance al ralenti (Utopia), poco cambia. T.E.L. è un disco di notevole bellezza e ricercatezza, che non solo fa aumentare in noi la voglia di assistere allo spettacolo, ma ci consegna un autore visionario il giusto, in equilibrio tra tradizione e avanguardia e dal gusto mai scontato. Tante lodi. (7.5/10) Stefano Pifferi

Mondo Marcio - Cose dell’altro Mondo (Mondo Records, Ottobre 2012) Genere: hip hop Quinto album ufficiale per Mondo Marcio e ulteriore grande occasione per chi scrive di dare un’occhiata allo stato di salute del pubblico italiano. Dando per scontato il discorso sull’insindacabilità dei gusti, il mio personale stupore è per l’obsolescenza della formula musicale del nostro, anche se sembra essere stato quasi del tutto abbandonato il dirty south (ma piccoli capolavori come Bang! generano dubbi al proposito), e questa è forse l’unica vera novità. Per il resto, il disco ha grossi problemi sotto il profilo meramente produttivo: tenendo d’occhio il Kid Cudi più immediato, le dancehall più modaiole (si vedano le influenze reggae, piuttosto scontate, della title track), la dance italiana anni Novanta (sì, proprio quella che tutto

il mondo ci invidia!), il listino delle quotazioni della scena rap italiana mainstream (come ospiti ci sono praticamente tutti quelli che non verrebbero mai invitati a una jam hip hop: Dan T, Emis Killa, J-Ax, Vacca, Caparezza), un insano amore per i clap più imbarazzanti e il classico sample italiano familiare e accattivante (la sventurata vittima di questa operazione è la povera Nada di Amore disperato), questo album non si sforza di rinnovare nulla dell’usuale formula di Marcio. Dal punto di vista tematico e contenutistico - veniamo al rap vero e proprio - le cose non vanno molto meglio: luoghi comuni (ci sono anche dei tentativi, molto banali, di descrivere la degradazione della condizione femminile in un brano come Quando tutto cade, appesantita da un ritornello raccapricciante), resoconto personale (lo sapevate che Marcio spacciava e non ha avuto un padre abbastanza presente? Sono solo 5 dischi che ce lo vuole far sapere) e il solito riferimento a scazzi veri o presunti (Fight Rap, musicalmente debolissima nonostante il tentativo di proporre un suono electrock, ma di cui si apprezza l’estremizzazione dell’attitudine al dissin, lasciando intravedere, si spera, quel barlume di ironia che sarebbe stato utile a tutto il disco). Le cose migliori arrivano nei momenti in cui si abbandona l’esterofilia e si cerca di proporre qualcosa di strettamente italiano (come in Spalle al muro, coadiuvata da un cantato di Strano, molto genuina e molto più efficace dei brani più States oriented). Il problema di fondo è che siamo al quinto album con elementi del genere e, a parte una maggior comprensibilità (su cui lo stesso Marcio scherza esplicitamente), il rischio noia è fisiologico. Restano le doti da mc un pelino al di sopra della sufficienza, anche se è palese come le possibilità liriche di Marcio vadano ben oltre quello che viene dimostrato in questo disco (nei primi due album era tecnicamente migliore, questo non lo si può negare), non trovandoci mai di fronte a costrutti troppo elementari. Ed è forse proprio questa potenza in divenire la cosa più irritante di tutto il lavoro. Cose dell’altro Mondo non è un disco per l’ascoltatore hip hop purista, scontato dirlo, e non è nemmeno un disco per chi è aggiornato sulle nuove tendenze, nei confronti delle quali il ritardo di Marcio è imbarazzante. Il target ideale è da ricercarsi nel fan più devoto o nell’ascoltatore neofita di rap senza particolari nozioni legate al genere. (4.8/10) Sebastian Procaccini

87


My Jerusalem - Preachers (One Little Indian, Ottobre 2012) Genere: indie folk-rock Smessi i panni del supergruppo costruito da Jeff Klein nei dintorni di Twilight Singers e Gutter Twins e diventati, a detta degli stessi musicisti, una vera band, i My Jerusalem licenziano per la One Little Indian un secondo album che mostra progressi rispetto al precedente, pur non risultando omogeneo quanto le dichiarazioni suddette farebbero supporre. La tensione drammatica resta alta sulle tracce di un Nick Cave dalla malata limpidezza Black Heart Procession, vedi la tesa marcia funebre dell’iniziale title track ma anche la Shatter Together che arpeggia su una sezione ritmica Cure altezza Disintegration (o altezza The Hanging Garden nel raga Crime & The City Solution di Death Valley), come anche la sospesa Devoe; o vedi il blues gridato di Born In The Belly. Altrove però Klein si sposta in zone in cui ricorda Mark Lanegan (quindi i Thin White Rope) sia nell’inattesa allegria country di This Time sia in una lugubre e suggestiva ballata come Between Space, abbandonandosi anche al rock di Oh Little Sister o a lenti sereni e ariosi come Mono e Chameleon, prima di chiudere con il notturno vagamente Stones di I Left My Conscience In You. Il lavoro come band si sente semmai nella coesione efficace con cui il nuovo gruppo asseconda le variazioni di una scaletta che sfoggia una buona scrittura, pur continuando a riecheggiare altro. (7/10) Giulio Pasquali

Nas - Life Is Good (Def Jam Recordings, Luglio 2012) Genere: hip hop

mostrando come Nas non abbia per nulla perso lo smalto in fatto di wordplay, tecnica e storytelling. I testi scorrono ancora solidi ed imperterriti come treni, numeri che ricordano da vicino i fortunati esordi. Il beat celebratorio dell’opener No Introduction setta i toni del disco, caldi e avvolgenti, mentre pezzi come Loco-Motive e Back When toccano il tasto nostalgico e mostrano l’abilità intatta di Nas di dipingere landscape urbani sofisticati e ricchi. Quello che affigge il disco, d’altro canto, ma anche la carriera di Nas in generale, è la scelta degli strumentali. Questi infatti non sempre si rivelano all’altezza della situazione e spesso finiscono per soffocare il filo narrativo. Ok la produzione filo-conservatrice (No I.D. su tutti), ma in alcuni episodi sembra davvero di rivivere i nefasti anni a cavallo dei duemila, quando l’hip hop aveva virato completamente verso il mainstream più becero. Ovvio, certi livelli non si raggiungono mai, ma la collaborazione con Mary J. Blige, ad esempio, oppure il dimenticabile episodio in compagnia di Rick Ross, Accident Murderers, fanno decisamente fatica a suonare freschi nel 2012. Eppure lo sguardo in avanti in manca, quella The Don fragorosa che confonde ma soprattutto accende gli animi, il tipico singolo che difficilmente viene dimenticato nelle playlist dei dj. “Life Is Good” è il mantra celebratorio ripetuto continuamente da Nas, anche e soprattutto quando il brano si chiama Cherry Wine ed è cantato insieme ad Amy Winehouse, pezzo che mostra il lato inedito di un disco sicuramente ricco e generoso. Per i puristi di Nas, questa è sicuramente un’uscita molto convincente, che forse poteva ambire a qualcosa di più se ci si fosse presi qualche rischio in fase di produzione. (6.5/10) Luca Falzetti

NO - Don’t Worry, You’ll Be Here Forever In pochi sono riusciti nell’impresa di raggiungere, con un EP (, Novembre 2012) solo disco, lo stato di icona hip hop ed averlo mantenuto Genere: National Anthem intatto per venti anni. Nas c’è riuscito istantaneamente nel 1994 con Illmatic e, parlole sue, nei novanta c’è letteralmente rimasto intrappolato. La produzione parla chiaro: seppur con qualche passo falso, la carriera discografica di Nasir Jones è un monolite di riferimento ‘90s per tutto l’hip hop moderno, ed è arrivata ad un punto tale che va celebrata. Il rapper newyorkese decide quindi di farlo proprio con questo Life Is Good, che rappresenta un convincente ritorno di forma rispetto all’ultimo paio di release non troppo esaltanti, mantenendo il tiro old school ma lasciandosi occasionalmente la libertà di rimescolare le carte in tavola. Life Is Good è, a conti fatti, il disco più solido dai tempi della firma con la Def Jam e di Hip Hop Is Dead (2006), di88

In sede di recensione capita spesso di fare discorsi come “suona come...”, “ricorda vagamente...” o “influenzato da...” quasi a sproposito, cioè quando la somiglianza con altri artisti non è immediata e va cercata con la lente d’ingrandimento. A volte invece la somiglianza è talmente sfacciata che è veramente impossibile esprimere qualsiasi concetto senza tirare in ballo altri artisti.Quest’ultimo caso è quello dei NO (che anche capslockato rimane totalmente anti-SEO), band di Echo Park formatasi nel 2010 e in poco tempo diventata uno dei nomi di punta della scena losangelina. Su Facebook (l’unico modo per trovare la loro pagina è passare dal sito ufficiale) alla voce “Artists We Also Like” elencano Bill Callahan, Jesus And Mary Chain, Delta Spirit, Leonard Cohen, Stone Roses e


The Smiths, ma a giudicare dalla loro musica, la band a cui devono di più è sicuramente un’altra: The National. Il contesto “Post-Hymnal Anthematic” - così definiscono il loro suono - è riassunto all’interno di un EP di debutto dal titolo emozionale Don’t Worry, You’ll Be Here Forever, autoprodotto e pubblicato in 500 copie l’11/11/11. Si fa partire il sei tracce e la mente vola immediatamente alla band di Matt Berninger: escludento una leggerissima inflessione alla Brandon Flowers presente nella strofa e alcuni cori alla Arcade Fire, Another Life sembra un pezzo dei The National sotto un altro moniker, tanto che anche l’approccio ritmico piuttosto personale di Bryan Devendorf viene fedelmente replicato. Big Waves ha un intro in mood indie rock chitarristico, poi entra in scena Matt (scusate, Bradley Hanan Carter) a dipingere una strofa molto meno sbarazzina di un ritornello fin troppo pieno di “uoh uoh”. In questo senso più riuscito il contesto maggiormente intimista di The Long Haul. Minore l’effetto clone in due brani: There a Glow - che guarda a caso è anche la più anonima del lotto - e Coming Down dove la voce effettata e filtrata aiuta a scacciare i fantasmi della band di Cincinnati, nonostante le classiche melodie sillabate.Per chi ha i The National ai vertici del proprio gradimento, Don’t Worry, You’ll Be Here Forever può essere un buon passatempo in attesa del nuovo disco previsto per il prossimo anno. Consigliato anche agli altri? NO. (6.2/10) Riccardo Zagaglia

Obelyskkh - White lightnin (Exile On Mainstream Records, Ottobre 2012) Genere: doom metal Se il metal ha trovato una nuova coolness è proprio grazie a band come gli Obelyskkh. Un’occhio alla copertina riassume già quel che c’è da dire: fulmini e teschi capelloni per le frange metal, obelischi a croce in giù in segno di esoteria, occhio “uno e trino” e funghetti allucinogeni a simboleggiare derive psych. E’ quello che va ora, e il trio tedesco ci si butta a capofitto, coadiuvato nell’impresa da Billy Anderson, uno che è stato già assoldato da Neurosis e Melvins giusto per dire due nomi. Il punto della questione ora è capire quanto i tre cavalchino l’onda, o quanto invece ci sanno fare. La risposta si ferma a metà del crocevia, ovvero: gli Obelykksh la buttano giù pesante, con il loro doom mortuario e ultracadenzato, con brani che si aggirano sui dieci minuti a testa sempre in clima catatonico, però manca ancora un po’ di personalità per reggere i quasi 70 minuti di un disco come questo. Il canovaccio si ripete, le variazioni dal tema non sono poi così frequenti e quindi la playlist

alla lunga gira un po’ a vuoto. La conseguenza è che dovremo aspettare ancora un po’ per i fuochi d’artificio. Per adesso accontentiamoci di una mazzata tra capo e collo. (6.7/10) Stefano Gaz

Oneida - A List Of The Burning Mountains (Jagjaguwar, Novembre 2012) Genere: impro-noise Difficile fermarli così come altrettanto difficile è tentare di capire cosa giri per la testa del trio (ora, in realtà quintetto) newyorchese. Della serie, dopo aver toccato in lungo e in largo praticamente tutte le forme musicali “estreme” senza mai perdere la propria cifra stilistica, la propria riconoscibilità e sentire musicale e, soprattutto, dopo aver completato quel mostro in “tre passi” che era Thank Your Parents, gli Oneida possono fare tutto. Anche uscirsene con un nuovo album vinyl-only composto da due lunghissime tracce omonime - la Part 1 su un lato, la Part 2 sull’altro, ovvio - in cui dilatano se possibile ancor di più l’aspetto visionario e malato del proprio sound. Zero kraut, se non come forma di reminiscenza; zero rock in senso stretto; zero kosmische. Solo una massa informe di dilatazione avant- e impro-rock che prende sia dal rock, sia dal kraut ma rielabora il tutto mostrando che in definitiva quello che conta è più il senso del tutto che il peso delle specifiche componenti. A dirla tutta, siamo dalle parti di Absolute II, il terzo e più ostico passo della citata trilogia, ma se possibile portato ancora più agli estremi di un sound che si fa carne viva post-industriale. Che abbraccia la free-form noise, che smembra ogni ipotesi di parentela col retaggio “rock” per mostrarsi affine all’istallazione sonora o alla performance radicale. Cosa che, visti i precedenti dei cinque (una su tutte, gli ormai mitici live di ore ed ore in cui a farla da padrone è la totale libertà esecutiva), fa intendere che il magma sonoro delle due tracce sia informe, umorale, oscillante tra asincronia ritmica, uso e abuso di synth, drones, feedback e lavoro di (post)produzione, pur mantenendo ben evidente la matrice improvvisativa e da first take ben nota ai newyorchesi. Un lavoro ostico e incompromissorio, ma non per questo meno affascinante nel mostrare l’ennesima faccia di una formazione che travalica la definizione di genere e ogni tipo di classificazione che non sia quella di reale avanguardia. (7/10) Stefano Pifferi

89


Pantha Du Prince - Pantha Du Prince & The Bell Laboratory - Elements Of Light (Rough Trade, Gennaio 2013) Genere: chamber deep Per un marchio come Pantha Du Prince oramai accreditato tra i nomi hype della sperimentazione elettronica - vedi il coinvolgimento in vari remix tra i quali quello per Phillip Glass - ci voleva un’idea semplice quanto potente, pensata in grande ma nata da un semplice spunto della quotidianità. E’ quello che è successo durante l’estate del 2010, quando Hendrik Weber in visita nella capitale norvegese rimane stregato dall’imprevedibilità tonale e di frequenza delle campane della City Hall della città. Assieme ai curatori locali Mattis With e Håkon Vinnogg, e di seguito con il compositore elettroacustico Lars Petter Hagen, nasce così un’esplorazione nel mondo dei bell carillion che lo porta alla realizzazione di Elements Of Light, un lavoro dedicato agli elementi costitutivi della luce. Già nel precedente Black Noise, il producer aveva manipolato digitalmente, tra gli altri, il suono delle campane. Qui il tedesco le libera dalla mimetica sampledelica predisponendo un loro utilizzo sia in grande come orchestra, sia indagandone il misterioso comportamento basale. Elements Of Light presenta una sinfonia per sessantaquattro campane di bronzo azionate tramite tastiera a cui s’aggiungono non solo il caratteristico climax deep di Weber - cassa in quattro house - ma anche un lavoro al cesello di percussioni live, marimba, xilofono e cimbali. Tutti elementi aerei che vanno ricondotti al concept dell’album. I richiami dell’opera e le sue modalità sono confinati tra minimalismo, jazz, gamelan e la musica sacra, con tutto un corollario di John Cage, Iannis Xenakis, Steve Reich, LaMonte Young e Moondog taggabile e citabile. Nondimeno, l’operazione si colloca anche sia nell’oramai consolidata formula da live set a teatro di derivazione deep (Brandt Brauer Frick ma anche l’intorno dei live di Moritz Von Oswald e Carl Craig) con una band (Vegar Sandholt, il percussionista Martin Horntveth dei Jaga Jazzist, Erland Dahlen dei Nils Petter Molvaer Trio, Håkon Stene dell’accademia di musica norvegese e Heming Valebjørg della Oslo Philharmonic Orchestra) già coinvolta nelle session (e in una data live zero al Øyafestival 2011 di Oslo), sia in certi rivoli del neo-folk mid 00s - Colleen - che appunto sconfinavano nel magico da una base di minimalismo. Non parliamo di un lavoro innovativo o avant, quanto di una fusione tra classica e modern electronics. Quarantacinque minuti di un percorso già consolidato dentro e fuori la ragione sociale Pantha Du Prince, oltre che una 90

nuova tappa tra scrittura (su spartito) e layering (digitale) che fa della suggestione carillon un perno, ma non il feticcio. Viaggio affascinante, con alcuni momenti sublimi. (7.3/10) Edoardo Bridda

Paolo Mei & il Circo d’Ombre - Inventario (Rocketta, Novembre 2012) Genere: pop-folk d’autore Paolo Mei e il suo Circo d’Ombre li avevamo lasciati lo scorso anno con un EP omonimo che aveva messo in luce una vena cantautorale pop rivestita di echi folk a marca sixties. Oggi li ritroviamo con un altro EP, questa volta intitolato programmaticamente Inventario, che conferma e arricchisce le premesse del lavoro precedente.L’afflato pop-folk rimane presenza costante in tutti i brani, anche se variato in soluzioni ora maggiormente bluesy, ora più orientate a sonorità rock. Con l’iniziale Miele si viene introdotti ad un tenue songwriting che cala l’ascoltatore in quel mood confidenziale, discreto, che caratterizza tutto il disco, come mostra anche la vena soul di Con le parole e Un giorno qualunque. C’è spazio anche per inserti electro, con l’ode disincantata di A Milano e i beat di Marocco, mentre la conclusione è affidata a Salta giù, un folk-blues in chiaroscuro in perfetto contrasto con la solare nostalgia degli altri brani.Quello che colpisce in Inventario è la capacità di coniugare tutte le qualità della scrittura tradizionale con la volontà di sperimentare nuove soluzioni sonore: il canone lirico è certamente quello dei grandi maestri - Tenco e Ciampi in primis, ma non manca il gusto per una certa ironia alla De Andrè - ma riadattato all’oggi, mescolato sia alla darkness della canzone d’autore anglofona sia al folk mediterraneo di un Cesare Basile. Nel complesso, una prova convincente per il musicista siciliano, in attesa di vedere quel che accadrà in futuro. (7/10) Giulia Antelli

Pere Ubu - Lady From Shanghai (Fire Records, Gennaio 2013) Genere: wave “Dance Music Fixed” che risolve la questione del corpo che balla senza permesso. Oppure, che si fionda nella contraddizione tra musica da ballare e musica di cervello. La nuova frontiera avant che i Pere Ubu sembra vogliano esplorare si riassume con queste dichiarazioni, dette a gran voce sui canali di diffusione della band. Dichiarazioni del tutto allettanti, ma che ci ricordano quanto dicevamo per Long Live Père Ubu!, cioè che non basta dirsele, le cose - Pere Ubu è così non perché


dichiara di esserlo, ma piuttosto perché lo ha sempre fatto. I Pere Ubu erano l’incarnazione della Modern Dance da un lato, e il Pere Ubu (ovvero David Thomas) era l’incarnazione del gradasso tracotante tragicomico pari all’Ubu Roi di Jarry. Parlavamo dell’uscir di metafora, ora citiamo anche l’equilibrio tra parola esplicita e quella implicita - chiave di lettura per Lady From Shanghai, che uscirà parallelamente a Chinese Whispers, libro di cento pagine a firma David Thomas che i diretti interessati ci presentano come il “missing manual” di Lady From Shanghai. Tutto questo vociare in qualche modo funziona come il programma per l’architettura, da un lato un “wanna be” statement, dall’altro un’attenzione alla ricezione e all’uso che ne farà il fruitore, di quel testo come di uno spazio. Un modo anche per avvicinare l’ascoltatore al musicista, tenendo presente che la musica è soprattutto dell’ascoltatore, è lui che deve farsela propria. Al di là delle aspettative e delle pulci nelle orecchie, Lady From Shanghai è un lavoro sul rapporto tra forme aperte - sfilacciate, fuori dal formato canzone - e forme più chiuse. Si parte con Thanks (pseudo-cover del pezzone disco Ring My Bell di Anita Ward) e Free White, che parlano un codice (soprattutto di basso) che ricorda tanto quel dub infiltrato nel post-punk dei PiL. Una strada interessante e abbastanza inedita per Thomas, per quanto però siano più convincenti le strutture meno definite - o riconoscibili (Mandy, And Then Nothing Happened) - che sono appunto degli statement molto perentori - anche se liquefatti rispetto alle canzoni che non sempre riescono (escono con il buco) a questi Pere Ubu: accade che ne mostrino il nervo, forse anche le ossa della penna di Thomas, che non è certo mai stato dentro il piccolo mondo pop e che però prova a percorrerne le strutture, quanto meno la forma, l’espressione rispetto al contenuto, da decenni. Detto questo, diciamo anche che dai Pere Ubu non ci aspettiamo delle conferme ma qualcosa di più. Nel crescendo di fragore di Lampshade Man ci dimostrano di saperci stupire, di poter toccare con estrema facilità - anche - i punti più alti che da sempre hanno esplorato. La chiave, adesso, aldilà delle scelte armoniche / disarmoniche, è forse l’ipnotismo della ripetizione e della continua ricorrenza di quelle opzioni di disarmonia. In sostanza sembra un po’ irrisolta la scelta tra il rock’n’roll patafisico di Why I Hate Women e la cacofonia obliqua. La via di mezzo non necessariamente sarebbe un problema, loro possono anche restare sospesi tra i due mondi, l’hanno sempre fatto egregiamente, ma per adesso non sembra ancora una questione del tutto intenzionale. (7/10) Gaspare Caliri

Piano Magic - Life Has Not Finished With Me Yet (Second Language, Dicembre 2012) Genere: post dark I Piano Magic sono tornati dopo l’abbuffata new wave di Ovations. E si rivoluzionano con Life Has Not Finished With Me Yet. Lo fanno guardandosi allo specchio, quasi a voler rendere suono una frase di Samuel Beckett, in sintesi, “se si vuole resistere, bisogna alimentarsi ed eliminare”. Eliminiamo, riduciamoci all’essenziale. Via gli orpelli squisitamente post (punk?) rock dell’ultimo decennio, spazio al minimalismo più insistito. E l’atmosfera ricreata travolge, si e ti svuota addosso lasciando (l’amore?) no, l’amaro in bocca per la mancanza di enfasi, di soluzioni, di profondità, di qualità dei pezzi in scaletta. L’iniziale Judas, così isolata dai suoi leggeri intarsi orientaleggianti, abusa, come d’altronde tutto l’album, di una lezione trita e ritrita già vent’anni fa (il dark più chiaroscurale e declamatorio che possiate immaginare) fatta esclusivamente di riflessi immobilizzati e riverberi atmosferici, svanendo tra i fumi di una creatività incapace di fuoriuscire dagli schemi di genere. Tutto troppo - perfettamente - confezionato, ragionato, senza slanci, senza cambi di ritmo, né attacchi frontali, emotivi o musicali è indifferente. Una stasi musicale incapace di raccontare la stasi dei nostri cuori, o di qualsiasi anima. Dai contorni affabulatori il mantra delicatamente ossessivo di Life Has Not Finished With Me Yet riempie di fumo lasciandosi sospeso, o ancora, per fare due esempi analoghi, The Way We Treat The Animals (dei Bark Psychosis fieramente indecisi su che direzione intraprendere per concludere il pezzo). E di questo passo tutto si risolve, se va bene, tra i solchi di una qualsiasi cover band dei Dead Can Dance (Sing Something), tra l’impalpabilità di sonorità eighties fuori tempo punto (Chemical20MGS, perfetta sintesi tra ovvietà e confusione, un riempitivo tra i riempitivi) e l’immancabile capitolo acustico (Lost Antiphony) di cui si sentiva la mancanza, sì, ma nei dischi precedenti, quelli riusciti. Unica eccezione The Slightest Of Threads dove la flebile impalcatura sonora trabocca in uno sciame metafisico e promiscuo, naturale, quasi istintivo nella sua quasi ritrovata voracità sonica, il tutto arrichito da una vocalità finalmente bucolica. Un lavoro che non rapisce risultando ostinatamente manieristico e insensibile nella sua seppur apprezzabile - e alla lunga ridondante - perfezione stilistica. Per una volta, i Piano Magic hanno costruito la scaletta perfetta - sempre assente nei precedenti, troppo eterogenei se si vuole trovare un difetto, senza una direzione che sia una - dimenticandosi di scrivere le canzoni. La formalità new (neo, post, chissà cosa) wave raramente è stata così insensibile, nonostante la contraddistingua da decenni, 91


Terzo disco per il trio berlinese Planks, band fortemente ancorata ai fine ‘90, non solo perché il raggio d’azione è quello del post metal ma proprio il tipo d’approccio. Ricordate la modalità: strofa pesante / ritornello heavymelodico (e viceversa), bridge strumentali / atmosfera claustrofobica / slanci emo? Siamo agli albori dunque, con dilatazione ritmiche, chitarra basso e batteria che macinano le usuali geometrie post-rock dure, senso di disagio e rabbia tipico dei primi Isis/Cult of luna, uno scream che torna disperato. Si direbbe una scrittura quasi pop nel genere, che evita cliché prog-ambient e arrangiamenti arzigogolati scegliendo di portare nuovamente in primo piano l’impatto sensoriale del post metal che fu: spettrale, emotivo, in totale assenza di luce. E quando c’è bisogno di dare una scossa per non navigare proprio le stesse acque, ecco subentrare qualche riffone sludge-core o un drumming di stampo black, messo lì sempre al momento giusto, sempre in perfetta armonia tra le parti. Per certi versi è un lavoro in controtendenza rispetto al post-metal degli ultimi anni, che procede più per esasperazione e annacquamento delle componenti - specie quella prog-ambient - che altro. I Planks invece, a ritroso, si tirano fuori dalla mischia e acquisiscono una certa freschezza d’idee facendo la cosa più semplice che si possa fare: evitare di arrampicarsi sugli specchi. (7.2/10)

è infatti quello di non riuscire a sorprendere il proprio target di riferimento, ormai fin troppo istruito da anni di crescendo con detonazione feedbackata finale (Wall Gazing). Se manca l’effetto sorpresa spesso manca il brivido e se manca il brivido manca l’emozione, l’aspetto probabilmente più importante in un certo tipo di post-rock. Da canto loro i tre Platonick Dive arricchiscono la proposta con inserti elettronici spesso protagonisti, fatto che di suo non rappresente una novità ma che qui viene impostato su binari - quasi glitchati - per certi versi inediti. Non solo, Gabriele Centelli, Marco Figliè e Jonathan Nelli sfoggiano una innata capacità nel ricreare suggestioni algide, nordiche, quasi polari, astrattamente platoniche, nell’opposto di tutto ciò che è passionale e che di conseguenza produce calore. Tecnicamente si sente chiaramente l’esperienza accumulata nei cinque anni trascorsi dall’EP - in zona in zona primi Verdena - Noia Astratta ad oggi. I riferimenti sono i soliti e vanno a pescare da un arcobaleno che include Explosions in The Sky, Mogwai e tutta ciò che dai Mono finisce ai 65DaysOfStatic. Funzionano bene il singolo Youth, la progressione melodica di Træ (ad un certo punto mi è venuta in mente Electronic Performers degli Air) e le dolci atmosfere sospese di Lovely Violated Innocence, mentre sul finale viene lasciato maggior spazio alla componente elettronica (la prima parte di The Time To Turn Off Your Mind e la conclusiva Outro // Moscova Jazzcore). Come molti colleghi italiani dal taglio internazionale (Eimog, Parsec fino alle contaminazioni pesanti dei Three Steps To The Ocean) anche i Platonick Dive dimostrano grande preparazione e dedizione alla materia, risultando però ancora un po’ troppo prevedibili lungo le composizioni. (6.5/10)

Stefano Gaz

Riccardo Zagaglia

immobile. Come diceva sempre Beckett, “fallire ancora una volta, fallire meglio”. Speriamo. (5.8/10) Federico Pevere

Planks - Funeral Mouth (Golden Antenna, Ottobre 2012) Genere: post black metal

Platonick Dive - Therapeutic Portrait (Black Candy, Gennaio 2013) Genere: postrock/elettronica

Rachel Zeffira - The Deserters (, Dicembre 2012) Genere: winter pop

Therapeutic Portrait, l’album di debutto dei livornesi Platonick Dive si apre con Meet Me At The Forest ed un beat cadenzato quanto potente, tanto da spingere l’ascoltatore ad aspettarsi un imminente attaco in zona brostep o simili. Poi però quando entra in scena la chitarra settata in modalità post-rock, capisci di esserti sbagliato e di trovarti inaspettatamente di fronte a qualcosa di diverso. Purtroppo questo è uno dei pochi momenti in cui il cervello non riesce mentalmente ad anticipare ciò che segue: per un disco come Therapeutic Portrait il rischio

La prima volta l’abbiamo vista in vaticano a fianco di Faris Badwan nel video di I Knew It Was Over dei Cat’s Eyes. Lei è la canadese Rachel Zeffira, soprano e polistrumentista, ora stabile a Londra dopo aver trascorso mesi in Italia (a Verona per la precisione) nel periodo in cui studiava al conservatorio. L’esordio dei Cat’s Eyes è stato generalmente ben accolto e gli stessi protagonisti (Faris, Rachel e Panda dei TOY) hanno affermato più volte che non farà la fine delle centinaia di progetti paralleli dal destino effimero. Rachel, da canto suo, pare abbia trovato la propria

92


sistemazione all’interno della scena psichedelica londinese - nonostante una formazione ed una educazione decisamente più classica - tanto da fondare, assieme al leader degli Horrors, una propria etichetta discografica: la RAF Records. Proprio per la RAF Records, Rachel Zeffira pubblica il suo primo LP solista intitolato The Deserters. L’idea di realizzare un disco a suo nome è partita quando ha deciso di coverizzare To Here Knows When dei My Bloody Valentine - presente sul disco - durante il periodo Cat’s Eyes. Scale cromatiche meno scure e rimandi agli anni ‘60 un po’ meno presenti rispetto all’esperienza precedente: in The Deserters è il pop etereo a dominare. Piano spesso in evidenza (la titletrack o la stessa To Here Knows When), senza abbandonare certe atmosfere da “chiesa mentre fuori nevica” (la spettrale Silver City Days) costruite attorno a tappeti orchestral-cinematici (Letters From Tokyo) e ad una voce capace di abbassare la temperatura ambientale come poche altre. Non si lascia sfuggire un paio di passaggi influenzati dalle metriche psy-kraut - ma svuotate delle chitarre - dei suoi amici (Here On In, Break The Spell), senza rinunciare a melodie modellate sulle note giuste (Front Door, Star) e al suo grande amore chiamato organo (Goodbye Divine). The Deserters è un disco che esce nel periodo dell’anno più indicato, rievocando tanto i geli invernali quanto la sicurezza del camino di casa: un’armonia che potrebbe mettere d’accordo sia gli amanti dei contesti dream sia i fan di Enya. (6.7/10) Riccardo Zagaglia

RNDM - Acts (Monkeywrench Records, Novembre 2012) Genere: alt-rock L’unione fa la forza e, aggiungiamo, porta spesso a risultati interessanti. Così è successo a Tim Burgess con Kurt Wagner dei Lambchop e alla riuscita accoppiata David Byrne/St. Vincent, e così in genere accade quando un artista riesce perfettamente a sintonizzarsi con il mondo di un collega che stima, in studio c’è l’alchimia giusta e la musica nasce da sé. Sono bastati quattro giorni e una notte in Montana, al nuovo supergruppo formato da Joseph Arthur (cantautore che catturò l’attenzione di Lou Reed e di Peter Gabriel, che non esitò a metterlo sotto contratto con la Real World), il bassista dei Pearl Jam Jeff Ament e il batterista Richard Stuverud (gli ultimi due già erano insieme nei Three Fish) per creare Acts. Sembrano quasi schernirsi, sotto il nome che hanno scelto per la loro avventura: sarà stato pur casuale il

loro incontro (RNDM si legge “random”) nel 1999, ma non c’è niente, nei dodici brani della tracklist, che faccia intravedere confusione, casualità e stridenti contese da primedonne. Uno dei motivi della riuscita di Acts, che contiene canzoni spesso leggere solo all’apparenza ma che conservano la qualità della poetica cui Joseph Arthur ci ha abituati da anni (da In The Sun in poi), è la versatilità di Ament, abituato alle collaborazioni e ai side-project. Il suo basso è libero, bello presente, e per l’occasione suona come se Jeff avesse voluto tornare per un attimo ragazzino, ai tempi in cui divorava gli album dei Clash e dei Police. Ce ne accorgiamo perché, oltre ad episodi tipicamente alt-rock come il singolo Modern Times, troviamo splendide reminiscenze new wave in What You Can’t Control, il brano che Ian McCulloch non riesce a scrivere da diversi anni a questa parte. Arthur rispolvera, con la complicità dei sodali, il suo passato in band funk-rock e si lascia andare in un falsetto soul nell’evocativa Walking Through New York. Chi teme una parata di stanchi cliché del rock alternativo degli anni Novanta ne troverà ben pochi. Il trio, assistito da Brett Eliason alla produzione, sa quando è il momento di premere il piede sull’acceleratore (Throw You To The Pack, Look Out!) ma si concede anche gli opportuni momenti riflessivi - profuma di R.E.M. il folk-rock di New Tracks, mentre Arthur filtra l’antico amore per Bob Dylan in Cherries In The Snow, canzone asciutta e sentita, scritta per una zia ed eseguita con chitarra acustica in primo piano e un’armonica a bocca. Ci sono richiami a Grant Lee Phillips così come allo “zio” Neil Young, e fanno capolino persino gli U2 di Angel Of Harlem, (ma anche i Rolling Stones mutuati da Michael Hutchence) in Williamsburg, altra perla scintillante del lotto. Chi cerca un disco rivoluzionario non lo troverà ascoltando Acts, in definitiva un insieme di passi a lato più che in avanti, ma si troverà davanti al frutto del lavoro di tre musicisti di talento che non sembrano avere alcun timore nel mettersi in gioco ancora una volta; nel confronto con i nuovi partner, Arthur riesce anche a schivare l’autoindulgenza che ha reso meno appetibili alcune sue prove passate (compreso l’ultimo Redemption City). Suona bene, con un missaggio pulito, è sufficientemente vario. Acts è il ritorno all’adolescenza, alla riscoperta dell’emozione dell’ascolto dei provini registrati durante i primi rehearsal ma con l’esperienza di chi, oggi, può sentirsi più che soddisfatto del lungo cammino percorso. (6.8/10) Alessandro Liccardo

93


Scala & Kolacny Brothers - December (Pias, Dicembre 2012) Genere: seasonal Ha perfettamente senso che il coro belga di voci femminili diretto da Stijn Kolacny e accompagnato al pianoforte dal fratello di quest’ultimo, Steven, si sia affidato ai fan iscritti alla sua pagina ufficiale di Facebook per studiare l’operazione “seasonal” che porta al presente December. D’altronde, è stato grazie alla presenza della loro rilettura di Creep dei Radiohead (apprezzata dallo stesso Thom Yorke) nella colonna sonora di The Social Network che il grande pubblico si è accorto del loro insolito approccio, che destruttura e rimodella in prevalenza brani indie e alternative di repertori importanti - anche se c’è spazio, di tanto in tanto, per composizioni autografe dei Brothers. La risposta dei seguaci? Strepitosa: delle centoquaranta canzoni segnalate ne sono state prese in considerazione dodici, che spaziano da My December dei Linkin Park a Eskimo di Damien Rice. Si pensa al Natale e vengono in mente Bing Crosby (lo ricordava anche Kate Bush in December Will Be Magic Again), le Christmas carols di Johnny Mathis e A Christmas Gift For You di Phil Spector, ma da un po’ le proposte degli artisti si sono fatte sempre meno scontate (si pensi ai Pink Martini, a Tracey Thorn e a Sufjan Stevens). December non fa eccezione: per una Christmas Lights dei Coldplay forte di un buon airplay radiofonico si fa strada una Let Me Sleep (It’s Christmas Time) nota giusto ai fedelissimi dei Pearl Jam (era in Lost Dogs); River di Joni Mitchell (una delle canzoni più coverizzate di tutti i tempi) ben si adatta al contesto, così come una poco conosciuta Christmastime degli Smashing Pumpkins. Gli arrangiamenti sono sovente eterei, al limite della new age, speziati dove opportuno da una leggera spruzzata di suoni sintetizzati. Un flusso che si interrompe al momento giusto grazie alla scelta dei fratelli di conquistare la ribalta, con chitarre e percussioni, in Christmas Must Be Tonight della Band, It’s Christmas, Let’s Be Glad e la già citata Eskimo. Risulta tuttavia difficile capire cosa ci faccia When Doves Cry di Prince - oltre ad essere totalmente fuori posto, qui è rivisto in una chiave che non convince per nulla - nella tracklist, a scapito di altre selezioni più consone (Are You Burning, Little Candle? di Jane Siberry, ad esempio, sarebbe stata perfetta). A parte 2000 Miles, dal songbook dei Pretenders, solo la bonus track Last Christmas (sì, proprio quella degli Wham!) è una vera concessione al “classico” ascoltato mille volte (su cui hanno già messo le mani i Manic Street Preachers e, quest’anno, gli XX). L’intenzione di (ri)portare in auge brani raramente rispolverati è nobile, e da Creep fino alla collaborazione con 94

Francesco Renga a Sanremo (mettiamoci pure le cover di Tiziano Ferro e Vasco Rossi..) il pubblico italiano ha avuto un buon numero di occasioni per conoscere il coro e non mancherà di rispondere all’appello a Natale. La sartoria è quasi sempre elegante e il rischio che ci si ritrovi tra le mani un “James Last for the indie crowd” è scongiurato, eppure l’operazione non convince appieno: questa “collezione invernale” ci invoglia ad andare a recuperare le versioni originali (che spesso avevano un cuore, in molti casi qui rivestito stranamente da una lastra di ghiaccio), tra i nostri dischi, su SoundCloud o su YouTube più di quanto dovrebbe. (5.8/10) Alessandro Liccardo

Shuteye - Hush Hush (, Novembre 2012) Genere: pop/electro Il gioco è bello finchè dura poco. Mediamente ho (quasi) sempre trovato interessanti i progetti composti da una coppia beatmaker+vocalist, ma ultimamente questa sembra essere davvero diventata la via più facile per farsi notare all’interno di un certo tipo di target. Se ti chiami Niki & The Dove o Purity Ring (giusto per citare due nomi usciti con un LP quest’anno) hai dalla tua parte, a seconda dei casi, intuizioni melodico-ritmiche fuori dal comune o una forte attitudine innovativa, ma generalmente non basta una base d’effetto e qualche vocalizzo glacialmente sensuale a far tornare il conto. E’ la legge ciclica della musica: ci sono i pionieri, ci sono quelli che portano evoluzione e infine quelli che semplicemente sfruttano la scia andando a saturare il movimento di riferimento. In quest’ultima categoria possiamo probabilmente inserire le Shuteye anche se, contrariamente alla solita formazione uomo-donna, siamo di fronte ad una variante: sono due ragazze, la dj Alena Ratner e la cantante di probabile origine asiatica Elysia Hang-fu. Il trucco però è ancora una volta quello degli opposti, Alena porta all’estremo il lato maschile, Elysia quello femminile. Stanziate a Chicago, entrambe componevano e scrivevano musica ancora prima di incontrarsi e dare vita al progetto Shuteye, inaugurato ufficialemente con l’EP del 2011 Sun Night Sky. Tutti i quattro brani presenti nell’EP trovano posto in Hush Hush, l’album di debutto - autoprodotto e momentaneamente senza label - di Alena e Elysia. Si parte con Dreams, battute elettroniche, strofa melodicamente astratta, chorus in modalità slow-Ladytron e qualche beat più corposo ad alzare il tiro. Tracce mediamente lunghe con controllo della situazione spesso affidato alla sola Alena, risvolti electro-r&b a


sostenere intrecci dreamy (Died), microgemiti echizzati (Sun Night Sky) alternati a voci fanciullesche (Between The Lines) ed una eterna lotta tra forma e sostanza (interessanti le battute anticipate di How You Are I Never). Il singolo Hearts and Stones è ironicamente una delle tracce meno “da singolo” presenti sul disco con la strofa vera e propria che entra in campo solamente dopo un minuto e mezzo di ritmi electro, come spesso accade in Hush Hush, mai troppo trascinanti nè troppo atmosferici, mentre in ottica canzone funziona meglio la conclusiva Going Away. Hanno già aperto per Crystal Castles e Peaches, ma se vogliono arrivare ad essere loro le headliner dovranno dimostrare molta più consistenza o almeno riuscire ad inanellare tre o quattro brani degni di nota. (6/10) Riccardo Zagaglia

Sintomi di Gioia - Sintomi di gioia (Venus, Dicembre 2012) Genere: cantautorato indie Come prima cosa occorre sottolineare il percorso che ha portato a scegliere tre produttori così diversamente interessanti per i loro tre lavori: Cristiano Lo Mele dei Perturbazione per l’esordio Segnalibro, Fabio Magistrali per L’animale EP e Umberto Giardini (noto ai più per aver smesso i panni di Moltheni) nel caso del qui presente omonimo sophomore. Se volete è un modo per interpretare il cammino che ha portato i Sintomi di gioia a definire una calligrafia ibrida, complicata da molti retaggi eppure leggera, come un tempo si usava chiamare certa musica. Leggera come la leggerezza dell’indolenza ingenua e tenace, della sensibilità generosa e balzana, dei fili logici spiegazzati per circoscrivere meglio certi inspiegabili moti del cuore (ad esempio quando capita di udire versi del tipo “mi fido del senso dell’orientamento che ti fa ballare”, oppure “il cioccolato che ho spezzato è più dolce di me e di te”, o ancora “le faccine gialle non le usi bene temi l’infelicità.”). Tu chiamalo cantautorato (indie)pop, innestato su basi folk con sfumature psych/prog più o meno invasive, tanto da determinarne una palpabile inflessione arty, in bilico tra espressività naif (Mi dimentico di me), pensosità jazzata (Ordine) e vampe power-pop (Balcone). Il timing sbilenco vagamente Carmen Consoli di Luca Grossi è il suggello canoro della faccenda, discutibile forse ma in qualche strano modo adeguato, efficace per mantenere nel guado tra dimensione alternativa e radiofonica (perché no?) la proposta di questo duo alessandrino. Che da premesse piuttosto incongrue ha saputo costruirsi una cifra espressiva coerente, forse non ancora matura ma

dalle prospettive apertissime. (6.9/10) Stefano Solventi

Skream - Skreamizm vol. 7 (Tempa, Dicembre 2012) Genere: Dubstep È uno Skream preoccupatissimo quello che si presenta al settimo volume della sua serie personale. Colmo d’ansie da prestazione come mai lo abbiamo visto, combattuto da una voglia matta di provare cose diverse eppure amaramente consapevole che il suo pubblico non gli perdonerebbe mai una rivoluzione sonora. Da diversi mesi è in corso una manovra di (ri)avvicinamento a metà tra la guerra e la strategia, fatta di uscite a effetto come quella al Brancaleone e tweet avviliti come quello di Novembre, con mr. Jones che prova in tutti i modi ad “aprire la mente” dei suoi fan e preparare la strada per le sue nuove ambizioni, nella speranza che un giorno non troppo lontano possa finalmente esser libero non tanto di gettarsi nel brostep, ma ancor più di partorire un pezzo house, o electrorock, senza che tutti gli volgano le spalle. E invece Skreamizm Vol. 7 fa la figura del disco insicuro e intimorito, col freno a mano tirato sulla vena inventiva e mortificato da un’autoreferenzialità senza passione che pare essere l’unica risposta che Skream è stato in grado di dare alle pressioni della gente. Pezzi come Vacillate e Scrooge’s Revenge, oltre a essere uguali l’un l’altro, sono copie fatte col mestiere dei singoli periodo 2010-2011 come Exothermic Reaction, solo ridotti a una struttura tanto semplice da sembrare caricaturale, mattoncini già pronti per le prossime compilation Pure Dubstep massimaliste ma deludenti per chi conosce le potenzialità dell’autore. Ne vien fuori un artista svogliato e senza passione e anche la Copy Cat con Kelis è un brano frigido, che gira intorno alla sezione vocale senza entrare troppo in merito, intriso di una paura di shockare che diventa paura persino di pronunciarsi. Alla fine tutte le ambizioni si riducono in Inhumane, che rende esplicita la discendenza metal del brostep rubandone la classica schitarrata, e nella Sticky già vista live, che resta ancora l’unico colpo di coda dell’artista che vive dentro Skream, una sferragliata di stomp dall’anima tech-house ma divorata da acidi abrasivi come l’inferno. È il pezzo che consegna il produttore al giro del clubbing più autoritario e mascolino, nonché l’unica vera novità stilistica del nuovo corso, eppure sembra ritrarsi all’ombra degli altri pezzi per paura di rovinare tutto. Questa è fifa, caro Skream, comprensibile data la situazione ma comunque eticamente inaccettabile, oltre che poco effi95


cace anche per gli stessi fan nostalgici. Di buono c’è che adesso la svolta è obbligata. (5.5/10) Carlo Affatigato

Slightly Stoopid - Top of the World (Stoopid Records, Agosto 2012) Genere: Reggae, soul Erano cinque anni che il gruppo di San Diego non pubblicava materiale nuovo (Slightly Not Stoned Enough To Eat Breakfast Yet Stoopid, del 2008, era infatti una raccolta di pezzi sparsi tra EP e altro). Nel frattempo hanno messo su famiglie, studio personale, ma hanno anche continuato a comporre. Per accontentare i fan, dunque, svuotano i cassetti pubblicando un disco di 23 brani (ma non è una novità), che invece di uscire composito e stratificato come ci si poteva aspettare, risulta invece piuttosto omogeneo: abbandonate da tempo le incursioni nello ska (restano appunto Ska Diddy e una Underneath The Pressure che nel titolo rievoca i Selecter) e nel punk (e quindi le affinità con i Sublime di Bradley Nowell, che diede inizio alla loro carriera mettendoli sotto contratto per la sua Skunk Records), il gruppo mostra un transito ormai compiuto dai lidi Banda Bassotti di un tempo a quelli più rilassati degli UB40, attestandosi su un reggae né troppo pulito né troppo roots che fila liscio ed elegante tra le classiche guest (G Love, Angelo Moore dei Fishbone, Barrington Levy e Don Carlos dei Black Uhuru), qualche variazione sul tema in direzione di certo dub 90s (Devil’s Door) o ragamuffin (Drink Professionally, Just Thinking) e gli omaggi al canone di Marijuana. Le poche variazioni in scaletta riguardano l’hip hop dell’iniziale title track (specie nella versione del video) e Mona June, che spostandosi di due passi di lato dal reggae trova il soul (o il funk nel caso di Way You Move) ma ciò che spicca davvero, in una scaletta ben realizzata e qua e là efficace ma alla lunga vagamente monotona, è la bella cover di I’m on Fire del Boss, che per mantenere l’inquietudine sotto la suggestione sostituisce la batteria dell’originale con gli echi di un arpeggio di chitarra, prima che il disco si chiuda con Intro To Organics, anch’essa dalle parti del soul. Anzi no: all’ultimo tuffo, 50 secondi finali di hardcore posti in coda al brano pagano un piccolo tributo al passato. (6.6/10) Giulio Pasquali

96

Solange - True (Terrible Records, Dicembre 2012) Genere: r ’n’b Essere artisti e fratelli di artisti-celebrità è sempre stato un lavoraccio. Prendi Flavio Giurato, fratello di Luca. O Eugenio Bennato, fratello di Edoardo. Prendi Solange. No, non quel tizio che si occupa di oroscopi, come si capisce subito guardando quel cognome che pesa molto più di lei e di sua sorella messe insieme: Knowles. Parente stretta dei più bei glutei della black music e zia della neonata Blue Ivy Carter, Solange ha deciso di intraprendere una carriera che la distanziasse in maniera netta da Beyoncé (anche se a mio parere non ha molto senso farne una questione di schieramenti: la Knowles più famosa è una signora interprete, per quanto standard e tradizionale sia il suo modo di cantare e prevedibile e scontata la musica che fa), andandosi a impelagare con loschi individui dell’indie internazionale come gli Of montreal, Dev Hynes (meglio noto come Lightspeed Champion e Blood Orange), Chris Taylor dei Grizzly Bear (che della Terrible Records, etichetta sotto la quale esce questo quasi-album, è il capoccia) e i supercool Chromeo. Costruito in compagnia del già citato Hynes, questo lavoro rientra nel filone di quei prodotti di stampo black prestati a un mercato più ampio e meno specifico, e farà probabilmente storcere il naso a quei puristi che vedono il concetto di ricerca in questo ambito da collegarsi esclusivamente a esperimenti nu soul o a un approccio à la Georgia Anne Muldrow. Tuttavia è proprio nei brani meno tradizionali, quelli più orientati a funzionare a patto che il dancefloor sia quello giusto, che il disco riesce a colpire e affondare l’orecchio dell’ascoltatore, come ad esempio nella opener Losing you (bello anche il video). Cromosomi sparsi della famiglia Jackson (ricordiamoci che, per quanto mainstream, The Velvet Rope di Janet aveva una direzione non così distante da questo album, per quanto ai tempi non avesse senso parlare di mercato indie) riecheggiano invece in un brano come Some Things Never Seem to Fucking Work, che vede anche l’inserimento di un’improbabile rappata di Dev Hynes (fa quasi sorridere). Nei pezzi successivi, emerge più volte la chiara volontà di dare vita a un’operazione nostalgia per quello che riguarda la produzione, andando a prendere elementi tipicamente Eighties come il breakbeat electro di Locked in Closets o la palette di suoni di molti dei pezzi rimanenti (e in special modo la traccia di chiusura, Bad Girls). Questo ammiccamento al passato è forse l’aspetto meno interessante di tutto il lavoro, trattandosi di una ricerca filologicamente corretta ma un po’ scontata, nonostante la buona fattura. Quando l’acceleratore viene invece


premuto sul più bieco fine danzereccio il risultato è apprezzabile, facendo emergere la bella Solange come una grande vocalist in ambito non propriamente soul/r’n’b, arrivando a ricordare addirittura le escursioni 2step di Craig David. É un buon lavoro questo, e il signor Hynes ci ha messo molto del proprio (la sua propensione al funk principesco e all’r’n’b d’annata sono assolutamente un marchio di qualità), mentre da parte sua Solange fa egregiamente il suo lavoro (da notare come anche il modo di cantare sia distante anni luce dalla celebre timbrica della celebre consanguinea). Eppure, manca un po’ la vera e propria offerta a cui non si può dir di no: bellissimo il vestito, a suo modo vintage, ma si sente la mancanza di un po’ più di materiale inedito. Ottima, in ogni caso, la tripletta di brani iniziali. (6.5/10) Sebastian Procaccini

Soothsayers - Human Nature (Red Earth, Novembre 2012) Genere: reggae, dub, jazz Forse, più che nel significato di “vero, reale”, il “sooth” del nome di questo collettivo londinese dovrebbe essere inteso nel senso di “morbido, liscio”: arrivati al quinto album e convertitisi al reggae fin dai tempi del terzo (One More Reason, 2009) dopo gli inizi in cui la ricetta accoglieva il dub in un contesto in cui erano più rilevanti l’afrobeat e il jazz, il gruppo guidato da Robin Hopcraft (tromba e voce) e Idris Rahman (sax e voce) ha, infatti, raggiunto una padronanza tranquilla e delicata del proprio stile, sia nel modo in cui articola la lezione roots con raffinatezze di dettaglio jazz, sia nell’armonia delle tre voci (i due leader più la nuova Julia Biel) ormai distintiva della loro poetica. Melodie e impostazione vocale ben si sposano in uno stile che, rispetto, per esempio, alle maestre I-Threes, indulge a un lirismo venato di malinconia leggera e sorridente nei brani più rilassati (One Day, Hard Times, Judgement Day, The Streets Of London). Altrove il piglio si fa più energico, vedi i ritorni afrobeat di una frenetica ma aperta title-track e di One More Reason, oppure One Day (Dub Reprise) ma l’impegno dei testi, che condividono con gli amici Antibalas, non assume mai toni sopra le righe, neanche quando aumenta l’accoratezza, dicono delicatamente, appunto, più che fare i “veggenti” o i “profeti” (i “soothsayers”), come il finale affidato a una versione acustica e a un frammento di dub mix di We’re Not Leaving, con maturità ormai conclamata. (7.1/10) Giulio Pasquali

Spiderbags - Shake My Head (Odessa, Dicembre 2012) Genere: Garage Rock Il trio del North Carolina Spiderbags si è fatto notare con un paio di album pubblicati per l’etichetta Birdman: canzoni da tre minuti o meno che fanno subito pensare ai Black Lips, se non fosse per l’influenza country rock che appare in molti brani e per una propensione all’improvvisazione psichedelica (à la Crazy Horse, per intenderci) che li porta ad allungare il minutaggio quando necessario. Il terzo album Shake My Head, registrato a Memphis con il produttore Andrew McCalla, trova il frontman Dan McGee e compagni sotto l’influenza di un’altra band fondamentale per il rock americano: a partire dall’irruente apertura punk di Keys To The City sono i Replacements di Paul Westerberg a venire subito in mente. Lo stesso si può dire per il party-rock ad alto tasso alcolico di Friday Night e Shape I Was In, che per fortuna si apre a metà in una jam in grado di dare un po’ di respiro al disco. Al di là del piacevole/prevedibile garage rock del lato A, è la seconda parte dell’album a brillare: tastiere quasi new wave vanno ad abbellire la frizzante Quatzalcoatl Love Song, mentre lo strumentale Shawn Cripps Boogie è sorretto da una piacevole melodia suonata allo xilofono. Sul finale, ci pensa The Moon Is A Schoolgirl a calare l’asso vincente dove, tra echi di Cortez The Killer, coretti e distorsioni, la band evoca con successo il fantasma di un Neil Young suonato con la viscerale convinzione del punk rock. Una promettente conferma per una band sull’orlo della consacrazione. (6.8/10) Giorgio Bonomi

Starkey - Orbits (Civil Music, Dicembre 2012) Genere: spacey / trap beats Starkey, produttore americano con orecchie e cuore puntati alla UK bass, riprova la carta della sintesi macrostilistica now e dopo il wonky-step di Ear Drums And Black Holes (2010) si immerge senza pudore nelle correnti massimaliste post-Rustie (ma anche Mochipet post-breakcore). Alcune cose funziano e anche molto bene (ma incombe l’impressione dell’eterno ritorno nei loop supergrippanti cardine di Command o G V Star o Dystopia), perché comunque gli elementi il ragazzo sa come accrocchiarli assieme, ma dall’inizio alla fine prevale l’impressione del catalogo di trick e must-put, fino quasi all’indigestione, in una stereotipicità presente già nei titoli, tripudio di descrittività spaziale di base (navette, stelle, raggi, divinità, utopismi vari). 97


Cronologicamente, si parte dai trapani catramosi del fidget crookersiano e da certa electro tutta stacchi Major Lazer (ragga e quindi bro ante litteram), per arrivare a tutti i colori possibili della palette del continuum wonkyano drop/bro e thug/trap: epica e crescendo emozionali, sfarfallii spacey che recuperano stilemi ambient-trance, affondi ghetto dancefloor, vocine tunate e pitchate, tastiere fuzzate, sirene da stadi. Non manca niente a questa gutter music, a questo crossover furbissimo e altrettanto issimamente a rimorchio: se non una qualche anche timida parvenza di incisività. E però Distant Star, con quel cuore metà dance 90 metà Sakamoto, è proprio divertente e anche un po’ lacrimuccia.Qui di seguito lo streaming integrale del disco via canale ufficiale Youtube della label (5.6/10) Gabriele Marino

Studnitzky - Ky Do Mar (Sonar Kollektiv, Ottobre 2012) Genere: jazz-ambient Il trombettista/pianista tedesco Sebastian Studnitzky in passato collaborazioni con Moritz Von Oswald e già nei Jazzanova - recupera Chet Baker e il Miles Davis prima maniera, fondendoli con scenari quasi ambient (auto)costruiti su pianoforte, contrabbasso (Paul Kleber), chitarra (Andreas Hourdakis ), batteria (Tommy Baldu). Nella sua musica si ascolta qualcosa dei fiati spaesati del primo Jay Jay Johanson, ma anche una raffinatezza in bilico tra avanguardia, cosmopolitismo dalle linee pulite e blues di design (O Pescador). Tre CD pubblicati, prima di arrivare a un Ky Do Mar dedicato evidentemente al mare e registrato in un piccolo villaggio marittimo del Portogallo. La ricetta prevede easy listening leggermente fuori sincrono nelle armonie (First Steps) e atmosfere jazzate elegantissime (Mertola), malinconie folk (Sul) e una certa sensibilità cool “aggiornata” (Evora). Per un disco di jazz contemporaneo rilassato, godibile, ma a suo modo anche etereo e zen. (6.8/10) Fabrizio Zampighi

Sula Ventrebianco - Via la faccia (Ikebana, Gennaio 2013) Genere: post grunge-rock I Sula Ventrebianco nascono a Napoli nel 2007. Dopo un primo posto all’Italia Wave Campania e vari premi guadagnati sul campo, la formazione arriva al disco d’esordio autoprodotto Cosa? nel 2009, ottenendo buoni riscontri da parte dalla critica. La ricetta del disco prevede un rock graffiante ma a tratti melodico e testi in 98

italiano, su una strumentazione vintage valvolare che diventa uno dei tratti distintivi del gruppo. Il qui presente Via la faccia esce invece per Ikebana. Registrato in presa diretta presso il Massive Arts Studio di Milano e accompagnato da un videoclip a cura di Jacopo Rondinelli (Teatro degli Orrori, Marlene Kunz, Perturbazione), il disco mostra una evidente crescita estetica della band, grazie anche all’inserimento in organico di archi, synth e tastiere. Undici tracce eterogenee che toccano lo stoner più esplosivo come le ballate a sfondo hard rock. Si va da brani efficaci come Strappi alla carne e Scheletro - più duri e incalzanti con basi à la Teatro degli Orrori degli esordi e che a tratti sfiorano il doom - a momenti più riflessivi e morbidi come Run Up, Erosa e Via la faccia. Gli unici dubbi del caso nascono, nello specifico, da un paio di fattori: da un lato una voce - sorta di mix tra Pierpaolo Capovilla e Francesco Sarcina delle Vibrazioni - a tratti non abbastanza sostenuta (Ragazza Muta), dall’altro una carenza di organicità in brani che sembrano smarrire, talvolta, il punto di arrivo. Ottimo invece il binomio basso-batteria (la nirvaniana altezza Bleach La Peste) rubato al grunge più viscerale. Con qualche limatura in più, i Sula Ventrebianco potrebbe comunque rappresentare un buon investimento. (6.5/10) Alessia Zinnari

Sun Airway - Soft Fall (Dead Oceans, Ottobre 2012) Genere: space pop L’abbiamo conosciuto nel 2010, quando con l’esordio Nocturne of Exploded Crystal Chandelier aveva fatto drizzare le orecchie a buona parte degli addetti ai lavori per l’agilità nel combinare riferimenti psych-pop à la Merriweather Post Pavillion con dilatazioni più marcatamente dreamy. Parliamo di Sun Airway, al secolo Jon Barthmus, songwriter e producer di stanza a Philadelphia che ritroviamo oggi alle prese con il sophomore Soft Fall. Le coordinate di base son le stesse, ma si percepisce subito la volontà di alzare di netto l’asticella e di far le cose in grande. Ne esce un disco colmo di strati e sovra incisioni, con arrangiamenti ricchissimi e pomposi che travalicano la densità per arrivare quasi all’iper-saturazione. E’ un taglia e cuci continuo quello con cui Barthmus crea e distrugge samples di orchestrazioni classiche, li dà in pasto ad un quartetto d’archi in carne ed ossa, ritaglia, assembla e sovraincide. Una volta completate le fondamenta, eccolo passare di slancio sui dettagli, raccontando per immagini e mutuando clichés tipici di qualsivoglia altra forma di espressione artistica. Barthmus dipinge con i suoni, ri-


trae mondi possibili con un approccio incredibilmente cinematografico, mentre il mix di David Wrench - già al lavoro con i compagni di etichetta Bear In Heaven ed altri come Bat For Lashes e Caribou - mette in risalto le vagonate di synth caldissimi grazie ad una pulizia quasi cristallina. Soft Fall prosegue sulla strada intrapresa dal predecessore, ma al suo interno vengono moltiplicati gli elementi coinvolti. C’è spazio per le pop-song come Close e Black Noise, la prima costruita lungo un beat booty-movin’ di casa M83 ed un sample di chitarra preso a prestito dai New Order, la seconda con una linea vocale volutamente loud rispetto alla media degli altri pezzi. Ci sono tre interludi strumentali (Activity 1, Activity 2, Activity 3) che fanno spezzare il fiato somministrando, a cadenze regolari, dosi ambient e chillwave. C’è Wild Palms, pubblicata un anno fa come singolo anticipatore del nuovo disco e manifesto sonoro in cui il wall of sound costituito dai synth viene flebilmente perforato dalla voce di Barthmus qui, ancor più che in altri pezzi, spaventosamente assimilabile a quella di Chris Martin. Affiorano, infine, anche i meccanismi visionari del producer - nonché graphicdesigner e non è un caso - di Philadelphia, nella forma di tre gemme space-pop capitanate da New Movements, il cui processo creativo deriva, nelle stesse parole dell’artista, dall’immagine della reggia di Versailles trasformata in canzone - con tutti gli ori e gli ornamenti del caso - e proiettata in un universo altro. Laketop Swimmers porta avanti le visioni con stratificazioni ai limiti della saturazione e teorizzazioni “fantasy in reality” che sfociano nella conclusiva Over My Head, scena trionfale in cui le orchestrazioni classiche conducono per mano verso l’euforia finale. Di carne al fuoco insomma ce n’è tanta, forse troppa in alcuni casi (Symphony In White No. 2) e ci piacerebbe che Barthmus, ogni tanto, provasse anche ad agire per sottrazione, ritornando a quella forma canzone, sfocata nelle sovrapposizioni fra i livelli, su cui non sempre riesce a mantenere il pieno controllo. Finchè comunque il livello delle canzoni rimane mediamente alto come in questo caso, ci si può anche passar sopra. (6.9/10) Marco Masoli

The Barbacans - No Hits For The Kids (Boss Hoss Records, Novembre 2012) Genere: garage Vi siete mai chiesti quale colonna sonora avrebbe voluto Beetlejuice per il suo funerale? Io sì, e dopo anni la risposta è sopraggiunta appena ho ascoltato l’ultimo disco dei Barbacans, No Hits For the Kids, uscito a novem-

bre per la Boss Hoss Records. Il quartetto marchigiano dal nome quantomai azzeccato (“barbacan”, nel gergo locale, indica una persona pigra e dall’atteggiamento aggressivo) è già leggenda nei circuiti alternativi per essersi beccato le pallottole di un ex poliziotto stufo dei loro volumi durante un live. La carriera musicale di questi bad-boys vede la registrazione nel gennaio 2009 di un primo LP dal titolo evocativo God Save the Fuzz presso il Circo Perrotti Studio di Gijon. Il secondo album, a tre anni di distanza e dopo una serie di tour che li ha visti esibirsi in giro per Europa, Messico e Cina a fianco di band come The Morlocks e The Seeds, si presenta come una nuova conferma della loro viscerale attitudine garage 60s. Nonostante una serie di problemi, tra cui un cambio chitarrista a pochi giorni dall’incisione, la band è riuscita a dar vita a tredici tracce rapide e aggressive che hanno il potere di trasportarci sul set di un qualsiasi horror b-movie anni sessanta. Ascoltando l’attacco di Wasted Friends non può non venire in mente il Titty Twister di Dal tramonto all’alba, mentre in Fatiscenza Violenza e Istato Itagliano emerge il garage fuzz&farfisa più puro. Un marcio connubio tra le influenze di pionieri del genere quali Morlocks, Fuzztones, Sonics, Painted Sheeps (Little White Lies è una loro cover), The Monks e un’orgogliosa quanto rude impronta italiana alla base. No Hits For The Kids è disponibile sul sito della Boss Hoss Records, mentre per i cultori del genere è d’obbligo segnalare l’imperdibile 7” Vinyl uscito lo scorso gennaio sempre per Boss Hoss, registrato insieme ai Los Infierno e con all’interno due cover dei Kinks e dei Brogues (7.1/10) Alessia Zinnari

The Evens - The Odds (Dischord, Dicembre 2012) Genere: post post-hardcore Dopo un silenzio durato sei anni, tornano Ian MacKaye e Amy Farina, nel frattempo diventati genitori. Nulla o quasi è cambiato nella loro formula minimalista a base di batteria, chitarra baritona e due voci. Ci muoviamo sulla falsariga dei due dischi precedenti - The Evens e Get Evens - usciti nel biennio 2005/2006, per cui valgono sia le note di merito sia gli appunti su una certa ripetitività, che però, fortunatamente, non si trasforma mai in monotonia. Lavoro convincente, The Odds non registra cadute di tono e rispetta gli standard elevati che ci si aspetterebbe da un progetto di MacKaye. I riff incalzanti, anche se lenti, di King of Kings provano che la tensione in un brano rock si può creare anche dosando un arrangiamento 99


minimo, senza ricorrere alla potenza di fuoco di chissà quale sbarramento di ampli e chitarre. Mentre in Wanted Criminals la frenesia dissonante di un attacco di matrice fugaziana si infrange di colpo su una declamazione lenta e sincopata, che non toglie un’oncia all’intensità del pezzo. Warble Factor e Sooner or Later dimostrano la stessa capacità dei Fugazi di costruire brani su variazioni di dinamica, intrecci vocali e cambi di tempo, solo con un armamentario strumentale più ridotto e toni decisamente più smorzati. Il risultato non è lo stesso ma mantiene comunque inchiodati all’ascolto. Con Wonder Why il duo si concede anche un lungo break strumentale, prima di prendersi una rilassante pausa lounge in Competing With The Till. Poi gli Evens mantengono alta la guardia e badano alla compattezza dell’album, che non ha sbavature. Un gradito ritorno. (7/10) Tommaso Iannini

The Scantharies - The Scantharies (Memphis Industries, Dicembre 2012) Genere: retro greek garage Entrare in una sordida amichevole balera odorante di alcol e polvere, dove si può ancora fumare, in una qualche parte del Sud Est europa più cosmopolita, terra di confine afflitta e vitale. Entrare e lasciarsi rapire da un pezzo come The Start. Chiedersi “dove sono finito? Ma soprattutto: quando?”. Boogie-garage strumentale, Joe Meek sotto anfetamine, psichedelia sommessa, che del decennio ‘60-’70 rievoca tutto il para-immaginario che più ci è rimasto addosso, anche in virtù di una certa retorica visuale e cinematografica. Adorabile robaccia, appiccicosa, a volte malinconica, balorda e trascinante. Se un non-tempo musicale esiste, è lì che risiede l’omonimo debutto di questa stramba creatura nata dalla mente dell’anglo-greco Andy Dragazis. Ce lo conferma la marcetta western di The Bear. E infatti. Tra concept e sdoppiamento della personalità, Dragazis ha immaginato gli Scantharies come un gruppo di giovani garage rockers che, dalla fine degli anni ‘60 e per tutti i ‘70, seguendo le orme dei Beatles, dominano la scena musicale Greca, fino a confezionare il disco in questione, sorta di best-of. I fantasmi del passato (musicale ellenico) sogghignano beffardi: The Persons, The Forminx, Aphrodite’s Child; mentre elementi di musica popolare tradizionale (Feat of Flames) si insinuano tra le maglie eclettiche e cangianti di un lavoro molto piacevole, ma che non ha la capacità, né probabilmente la pretesa, di andare oltre il puro divertissement. 100

Proseguendo nell’ascolto, tuttavia, l’impronta tra storiografia e ironia, acquista i contorni imprecisi di un’atmosfera drogata; una parabola discendente che con la doppietta finale di Hip Messiah e The Cross (titoli non casuali) raggiunge il suo punto più oscuro e introspettivo, virando inaspettatamente verso certo psych-folk, con le timbriche degli strumenti ancora ricoperte da una patina vintage, ma con l’umore rivolto a declinazioni sonore decisamente più contemporanee. (7/10) Antonio Laudazi

Tiny Tide - Around The World in 80 Dates (Kingem, Gennaio 2013) Genere: dream pop Dopo la pioggia di titoli del 2011 (3 album, due EP e uno split) di loro non si erano registrate nuove uscite. Certo, Mark Zonda non è uno che possa stare con le mani in mano, difatti c’è stato il cimento in italiano con Re-visioni del tempo (firmate Zondini) giusto tre mesi orsono, ma questa sorta di anno sabbatico per la ragione sociale Tiny Tide sembra frutto di una scelta ben precisa, come dire teniamo a bada questa febbre prima che mi travolga. Scaduti dodici mesi esatti d’astinenza - e a quindici dall’ultima prova lunga There’s A Girl That Never Goes Out - col primo giorno del nuovo anno arriva Around The World In 80 Dates, scaletta aperta nel segno di quella Recording Sarah che è omaggio devoto alla label indie pop per eccellenza - cantata in coppia con la vellutatissima Maddalena Zavatta - ed è come se il treno (dei desideri) non si fosse mai fermato. L’idioma è quello che conoscevamo, con un sensibile incremento di padronanza cui corrisponde una maggiore cura iconografica (bella la copertina, opera di Sara Paster dei Fitness Forever): dreamy e diversamente cantautorale, da qualche parte tra Orchids e Pastels con particelle Stephin Merritt. Si presenta quindi luccicoso e irrequieto (Final Fashion), pervaso di palpitazioni Sixties (Lucy & Schroeder) e glasse oniriche 80s (Now Love), disposto agli esotismi sintetici (Ikanai De Ne, cantata assieme alla Paster), pur sempre votato ad una tenerezza carezzevole (Sleepwalking) che sa tuttavia pennellare fragranze cosmiche di rilievo (Wishing On 10.000 Stars, stavolta la partner è Valeria Caponnetto Delleani). Il solito carosello di siparietti che impastano cliché struggenti, citazioni sparse e attitudine arguta, dove la messinscena è il calco esatto di una splendida ossessione, che viene da far nostra con pochissima fatica. (7/10) Stefano Solventi


Tomahawk - Oddfellows (Ipecac Recordings, Gennaio 2013) Genere: rock Mentre Anonymous, di sei anni fa, era un progetto unico nel suo genere, il quarto lavoro dei Tomahawk segna il loro ritorno al rock, oltre che ritorno tout court. I nomi, sappiamo, sono pesanti, e nonostante questo i quattro (Mike Patton, Duane Denison, Trevor Dunn e John Stanier) si dimostrano più della semplice somma delle loro pur nobili parti. Anche in caso contrario ci si potrebbe quasi accontentare lo stesso. La cosa più curiosa di Oddfellows è che ad aprire il disco siano i due brani più “derivativi”, e si tratta nonostante tutto di due pezzi tutt’altro che trascurabili: mentre il singolo Stone Letter riprende i tardi Faith No More (una nuova Digging The Grave?), le figure chitarristiche della title-track sono un distillato di puro suono Jesus Lizard. Per imprevedibilità, l’indice di gradimento all’ascolto propende invece verso White Hats/Black Hats, A Thousand Eyes (quasi dei Bad Seeds virati post-rock) e Rise Up Dirty Waters, dove il quartetto passa disinvoltamente dal jazz al coretto in stile Alice In Chains (sic!!!) a una sgroppata alla No Means No. Pollice su anche per l’anfetaminico rock/metal dal retrogusto blues di The Quiet Few (la slide di Duane Denison è inconfondibile) e South Paw, e per il bluesaccio vero e proprio di Choke Neck. Non sono molte le band che sanno suonare rock d’assalto con questa tecnica, unendo la passione per le atmosfere morbose e il gusto per la virata spiazzante. Anche se si tratta forse del progetto più “quadrato” di Patton, su imprevedibilità e stranezze i Tomahawk calcano - come ci si aspetterebbe - la mano, senza per questo rendere il gioco fine a se stesso. Una fortuna (e un merito). Il 2013 inizia nel verso giusto. (7.1/10) Tommaso Iannini

Toro Y Moi - Anything In Return (Carpark, Gennaio 2013) Genere: Funkydisco Ma quale nerd e nerd. Chaz è un fico. Ai nostri occhi la cosa è chiara non certo per i recenti agganci con il mondo della moda (incidentali e comunque rigorosamente hipster), ma proprio per come il ragazzo sta portando avanti la musica di Toro Y Moi, incarnando un’idea di evoluzione in continuità e di svolta pop, dopo avere fissato a suo modo uno standard importante, molto Zeitgeist, con Causers of This. Introdotto da una copertina che schiaccia l’occhio a Stevie Wonder, e con un focus sulla fine degli anni Settanta (come già per la fusion easy listening di Underneath the

Pine) e sulla prima metà degli Ottanta (con in mezzo l’emblematico spin off - off glo & chill - Les Sins, alla voce funkydance nostalgica, vedere una Youth Gone che è chiaramente un apocrifo dei Fare Soldi), il nostro prosegue sulla strada indicata dal singolo manifesto New Beat. Il risultato è un college rock come intuibile in trasparenza tutto immerso in una ambience dancey, prevalentemente pre-house, sempre più orientato alla cantabilità, con tinte seppiate e romantiche che si sovrappongono perfettamente, non a caso, a quelle dell’amico Caribou. A dominare, ancora e sempre, tastiere elettriche e synthini, rullanti legnosi e grumi di bassline paciosamente funk. La funkydisco di Say That e Never Matter e quella chillwavizzata di Harm in Changes, i richiami Prince sparsi (che arrivano a lambire propaggini Dam-Funk o addirittura primo Jamiroquai; la sexyssima tattile Touch, So Many Details, il supersoul languido di Grow Up Calls), l’artigianato giocoso di Cake (in odore Todd Rundgren, unsung hero di culto per i produttori più legati alla tradizione black presa in carico dal pop bianco e alla lezione dei trick da studio anni Settanta), il reggae AOR di High Living, il melodismo ballad di Cola e l’asciuttezza pop metropolitana (alla Steely Dan) di Studies sono gli episodi migliori di un disco che spiega come la leggerezza pop sia uno dei tag da curare di più e meglio per tutti quelli che bazzicano produzioni e retrologie in odor di savoirfaire indie. (7.2/10) Gabriele Marino

Trees Of Mint - Trees Of Mint (Trovarobato, Novembre 2012) Genere: chitarra Sceglie la via più difficile Trees Of Mint per dare un seguito all’esordio Micro Meadow: quella del solo chitarristico. Nulla di nuovo, in apparenza, visto il proliferare di esperienze solitarie cui molti autori oggigiorno fanno riferimento tra droning, fingerpicking e visioni cinematiche. Il sardo trapiantato a Bologna Francesco Serra, ormai responsabile unico della sigla, invece sceglie, sì, la terza delle modalità su esposte, ma lo fa con una sensibilità e uno scarto di notevole interesse. Proponendo cioè quattro lunghe suite per sola chitarra, loop-station e riverberi d’ambiente che si inerpicano sul versante più intimista e visionario dell’isolazionismo avant-rock. Facile, come detto, pensare alle orientazioni cinematografiche di una musica che fa della rievocazione di mondi e della forza dell’immaginazione il suo pregio principale, ma Serra si dirige verso lidi poco usuali pure all’interno di un ambito abbastanza trafficato. Giocando cioè su canovacci insoliti per l’uso della sola 101


chitarra (la parte centrale di Part 2 con lo strumento usato come elemento percussivo e produttore di un cavernoso riverbero ritmico), addolcendo l’ultimo Bill Orcutt su carsiche melodie classicheggianti costruite su strofinii e battiti di cassa armonica e crescendo romantici e impetuosi, utilizzando il vuoto piuttosto che il pieno per delineare soffuse armonie che possiedono la dolcezza della melodia e la asprezza della dissonanza. L’uso dell’ambiente circostante come elemento sonoro ha caratterizzato le registrazioni di Trees Of Mint, con Serra pronto ad accogliere nell’alveo delle quattro composizioni untitled le interazioni tra suono e spazio. Lasciando cioè che la presenza di quest’ultimo impreziosisse le prime, in un connubio che produce un perfetto equilibrio tra materiche visioni post-rock e ricerca timbrica. Un lavoro ricercato, dalle molteplici suggestioni e che richiede, com’è giusto che sia, un ascolto attento e concentrato se non si vogliono perdere le infinite sfumature create da Trees Of Mint e dal suo compagno, lo spazio. (7.2/10) Stefano Pifferi

Valentina Gravili - Arriviamo tardi ovunque (Carbon Cook Records, Gennaio 2013) Genere: rock La saggezza è roba per giovani, recita ironicamente Valentina Gravili in uno dei brani del terzo disco lungo pubblicato a suo nome. E così, la trentenne musicista di Brindisi pensa bene di mollare il pop d’autore che ai tempi del precedente La balena nel Tamigi (2011) le aveva fatto vincere il premio MEI per la migliore autoproduzione dell’anno e di buttarsi a capofitto in un immaginario decisamente rock. La buona notizia è che quel senso di indipendenza formale da generi e stili facilmente classificabili che aveva caratterizzato le produzioni precedenti della Gravili, si ritrova anche qui: la Nada subodorata nell’iniziale Il finimondo - ma anche un po’ in tutto il disco - fa il paio con le slide guitar sudiste della title track e di Cruda, la PJ Harvey Nineties di Pare che fuori pioverà convive con il folk onirico di Domenica mattina. Il tutto su una scrittura fortemente riconoscibile che talvolta sembra sbandare consapevolmente verso territori velatamente prog. Quel che accade, per dire, a una Guerriglia d’Oriente (mentre fuori il sole insorge) che tra ottoni, chitarre, drumming possente e backing vocals tocca la psichedelia, la ballad, ma anche certe cadenze à la Cristina Donà. Fondamentale in questo senso il Max Baldassarre in regia, assai bravo a valorizzare la scrittura costruendo arrangiamenti ricchissimi, mai banali e pieni di colori. Una 102

sovrastruttura corposa che ha un peso specifico non da poco nella riuscita di un disco di prezioso artigianato e inferiore al precedente forse solo per una teatralità nei toni talvolta un tantino eccessiva. (6.9/10) Fabrizio Zampighi

Villagers - {Awayland} (Domino, Gennaio 2013) Genere: indie-chamber Parecchia attesa ha circondato l’uscita del secondo album del progetto Villagers, moniker di cui è titolare l’irlandese Conor J. O’Brien, all’attivo un fulminante e fortunato esordio un paio di anni fa con Becoming A Jackal, pop chamber molto espressivo, il classico ‘primo’ disco di formazione. Autore di un songwriting di formazione classica che si innesta su tradizioni indie, da Conor Oberst a Micah P. Hinson, Eugene Mc Guinness nonché il nume tutelare Eliott Smith, il dublinese non mostra con {Awayland} di essere stato ‘travolto’ dal consenso riscosso dall’esordio, proseguendo da un lato il discorso stilistico già intrapreso, e dall’altro andando oltre, inglobando nella sua musica elementi elettronici, un vecchio amore, che contribuiscono a colorare alcuni pezzi, rendendo l’atmosfera piuttosto dilatata e sospesa. Ecco allora frammenti di kraut e funk, nelle ripetizioni di ritmo di Passing a Message e in altri passaggi. Attenzione, sempre di chamber pop sinfonico trattasi, dove la precedente cifra malinconica è ora trascolorata a favore di un maggiore dinamismo reso in parte dal cambio musicale. Non manca comunque il riconoscimento delle ballad intensissime, di cui il singolo Nothing Arrived è testimone. Il tessuto musicale procede nel caso di Villagers sempre di pari passo con la parte testuale, qui un altro disco ‘tematico’, un ideale seguito, in una visione dell’esistenza con la curiosità e meraviglia dell’innocenza infantile da un lato, e dall’altro il prendere coscienza delle assurdità insite nella stessa. Un altro album intimo e personale quindi, meno intenso ed espressivo del precedente e con meno impatto all’ascolto. Chiaro segno comunque di un’evoluzione in atto. (7.1/10) Teresa Greco

Widowspeak - Almanac (Captured Tracks, Gennaio 2013) Genere: psych-pop La Captured Tracks è ormai riuscita, a suon di numeri macinati ed uscite veramente interessanti, a costruirsi


una credibilità che va oltre il banale apprezzamento da parte dell’ambiente e potrebbe, in brevissimo tempo, diventare vero e proprio culto. Il 2012 appena trascorso ha infatti permesso di assistere alla nascita o alla consacrazione di realtà - leggasi alle voci DIIV, Wild Nothing, The Soft Moon, Mac DeMarco e Chris Cohen solo per citarne alcuni - che sono ormai sulla bocca di tutti gli addetti ai lavori. Così come i sopracitati, ma andando indietro nel tempo ancora di un altro anno, ad essere chiacchierato era l’esordio omonimo dei Widowspeak, trio - da poco diventato quartetto con l’aggiunta della bassista Pamela Garabano-Coolbaugh a completare la sezione ritmica - di Brooklyn, casa madre anche della stessa etichetta di Mike Sniper, che li firma immediatamente dopo aver ascoltato una cassetta di sei tracce registrate con Garageband e il microfono integrato di un laptop. La band capitanata da Molly Hamilton torna oggi con questo Almanac, con la stessa manciata di ingredienti dell’esordio e parecchie aspettative sulle spalle. La cifra stilistica, malgrado l’appartenenza al roster Captured Tracks potrebbe far presagire, non è tuttavia discendente diretta delle nostalgie wave - eghties o nineties che siano - da cui l’etichetta di Broolkyn è solita pescare a piene mani, ma si attesta altresì intorno ad un insieme di contaminazioni assai più complesso. L’ingrediente principale è dato dalla voce della Hamilton, così delicata e trasognata da rendere obbligatorio ed immediato l’accostamento sandovaliano, il quale fa capolino, con l’aggiunta dei Mazzy Star tutti, quasi ovunque all’interno di Almanac. E’ così che l’ascendente psichedelico viene filtrato da un incedere perennemente onirico ed un impianto melodico smaccatamente folk-pop che, se nei momenti più coral-pastorali (Minnewaska) ricorda la delicatezza delle trame di una band come gli Innocence Mission ed in quelli leggermente più acid (Dyed In The Wool) trasfigura dei 16 Horsepower al femminile, non rinuncia ad avventurarsi anche nelle brughiere inglesi per il valzer, per la verità non troppo riuscito, di Thick As Thieves. L’ombra di Hope Sandoval aleggia diafana sui due poli contrapposti - l’iniziale Perennials e la conclusiva Storm King - avvolgendo di foschia l’incedere quasi slowcore dei pezzi, ma la vera mossa che prova a far saltare il banco è la scelta di affiancare, alle chitarre acustiche, i contrappunti scintillanti e precisi - che ci sia lo zampino del co-produttore Kevin McMahon, già al lavoro su Days dei Real Estate? - di chitarre elettriche che affondano le mani nell’indie-rock americano tipicamente nineties di stampo Built To Spill (Ballad Of The Golden Hour, primo singolo nonché vertice assoluto del disco, ma anche The Dark Age e Sore Eyes) o spostano ancora

un po’ più avanti le lancette verso i primi ‘00 e i primi The Shins (Spirit Is Willing). Non ci fossero alcuni passaggi un po’ attorcigliati su sé stessi (Devil Knows, Locusts) e se l’ispirazione non vivesse di alti e bassi, saremmo qui a parlare di un disco di livello eccellente. Va da sé però che con i “se”, purtroppo, non si va da nessuna parte, e questo Almanac è quindi solo un disco buono, che si pone però come candidato certo per procedere sulle orme di uno psych-pop in slow motion, le cui viscere sono finora state esplorate ancora da pochi. (6.8/10) Marco Masoli

Zombie Zombie - Rituels D’Un Nouveau Monde (Versatile Records, Novembre 2012) Genere: electronic Mettendo fine al piatto labirinto nella quale rischiava di rimanere intrappolata, l’alta rappresentanza del french touch e della nu-disco sembra finalmente aver trovato il bandolo della matassa. Basta piangere un genio assoluto come DJ Medhi, il filo d’Arianna segue le orme di certo revisionismo 70s che, dall’approccio “prog” dei Justice di Audio Video Disco alla disco di Breakbot di By Your Side, porta all’ultima prova del duo Zombie Zombie prodotta dal sopraffino Joakim. Rituels D’Un Nouveau Monde tenta il rewind di quegli anni andando a fondo su quella stessa cosmica che la nu disco ha affrontato negli ultimi anni dalla Norvegia in giù. Ritroviamo il 4/4, i bassi rallentati, la psichedelia sintetica, i giri semi-funk (The Wisdom of Stone), le percussioni ondivage il tutto calato in un’atmosfera da rito d’iniziazione a vecchie krauterie con Cluster, Kraftwerk (Foret Vierge) e Amon Duul a sbucare come fantasmi dai muri. E’ un rituale e come tale ha un apice, Racket 9, cover del sommo Sun Ra qui rivisitata con richiami di John Carpenter e Goblin a regalare visioni acide e pungenti. Black Paradise chiude l’album. Dall’alba si passa al risveglio, dallo stato di trance a un caldo assopirsi dove, lentamente, gli occhi possono finalmente riaprirsi. Assieme a Breakbot, altro progetto indispensabile sulla via maestra del revisionismo. (7.2/10) Mirko Carera

103


Gimme Some Inches #33

Inizio d’anno coi pezzi “minori”: questo 2013 si dimostra già interessante tra folk, occultismo, harsh-noise, elettro-pop 80s ecc. con Rotorvator, Plankton Wat, Compoundead, Nodolby and so on... L’anno ricomincia dov’era finito. Su un piatto o dentro una piastra riesumata da chissà dove per ascoltare la prima tape dell’anno. Quella dei Rotorvator, ad esempio. The Blues, cassetta per Sangue Disken e apripista all’album lungo su Crucial Blast, è un concentrato di negatività pre-apocalisse che prende in egual misura dai Coil, dall’esoterismo, dall’ambient mefitica, dal black metal meno aggressivo e più cupo per sviluppare un suono personale e imbarbarito da una visione occultista piuttosto minacciosa e ovviamente senza un briciolo di speranza. La voce di mrs. Comaneci in Who Is Earl stranisce ancor di più, se possibile, le già disturbanti atmosfere create dai misteriosi Rotorvator. Ottimo antipasto in attesa del disco lungo, a questo punto mai così atteso. Su lande meno oscure si muove il 12” single-side edito dalla Sound Of Cobra che vede protagonista Dewey Manhood, chitarrista della 104

formazione psych Eternal Tapestry, col progetto in solo Plankton Wat. Mirror Lake vive delle dilatazioni della band madre, ma trascina quella psichedelia chitarristica verso lande più intimistiche, prive di motorik, attente a creare paesaggi sonori minuti e rilassanti, specie se si guarda ad essi col filtro delle musiche desertiche e, perché no?, cinematografiche: gli arpeggi insistiti e drammatici di The Dark And Silent Hills, la stasi sporcata di rumorii alieni e soffusi beat minimali di Moonlight o le aperture polverose di Pastoral Rejoice. Paradossalmente, poi, è nei bozzetti minimi come i due minuti di Valley Of Dust And Silent Hill che la miscela riesce al meglio e la fantasia galoppa lontana. A giri piccoli ruota il 7” di Camilla Sparksss, nome che non dirà molto sulle prime ma dietro cui si cela Barbara Lehnoff, cantante degli svizzeri Peter Kernel. Primo di una serie di 7” il prezioso pezzetto di vinile inanella pop elettronico voluta-

mente sopra le righe, 80s oriented e vintage fino al midollo sul lato A, appannaggio della title track I’ll Teach You To Hunt (video in uscita in questi giorni) e velleità sperimentali con flirt verso il noise e l’electro più bastarda in For You The Wild. Vecchie conoscenze sul versate più ostico del noise-sound italiano. La Sincope records se ne esce con un bel gruppetto di produzioni tra cui segnaliamo il progetto di casa Compoundead, già passato da queste parti. Un cd-r con tre tracce con l’apertura affidata a Cutting Your Certainty, un quarto d’ora di sfrigolii di attrezzature elettroniche in collasso e stasi elettrostatica cattiva come non mai. A seguire Absence si muove sulla falsariga dell’opener tra inquietanti borbotti di synth andati a male e reminiscenze alla Nate Young. Infine la chiosa affidata ad una Aftermath che addensa tutta l’elettricità trattenuta in precedenza per rilasciarla sotto forma di noise a testa in giù, alla maniera dei Dead C. Sempre per Sincope, ma in cassetta, la nuova uscita targata Nodolby, progetto in solo di mr. Dokuro Michele Scariot. Una C20 come ai bei


vecchi tempi, mai andati del tutto, del sottobosco industrial noise, in cui Nodolby ci da una bella lezione di rumore incompromissorio. Lato A affidato a Deranged, dieci minuti di solipsistico andirivieni di suoni lofi manipolati tramite delay e nastri, per una esperienza a volte sconcertante per livelli di saturazione. L’altra faccia delle medaglia, e l’altro lato della cassetta, appartiene a Unlaced, undici minuti di sfrigolii e strofinamenti di materiali acustici rielaborati tra echi e riverberi che si fanno ipnotici senza bisogno di affogare nel rumore come nel lato opposto. Roba astratta e paradossalmente più intellegibile del whie noise made in Nodolby. Citazione d’obbligo anche per le tapes di Bruital Orgasme e Crystal Plumage, edizioni limitate e numerate a mano anch’esse a una cinquantina di copie ma meno originali rispetto alla prova di Scariot. Droning nero pece e minimalismo malefico per il duo franco-tedesco Crystal Plumage in Night Conference e micro-composizioni tra harsh ed elettronica sfatta per l’altro duo, stavolta belga, Bruital Orgasme, coi primi che si fanno

preferire in virtù di un gusto notturno e atmosferico più a fuoco. Ritornando ai cd-r, meritata segnalazione per Umanzuki formazione toscana all’esordio con un ep già bello maturo. Sonic Birds esce per FromScratch e HYSM? e replica la prova dello scorso anno in nome di un jazz-core mutante. Se Pipes & Sugar era più ancorato a standard di genere, Sonic Birds amplia lo spettro sonoro del trio, dilatando e diversificando in chiave psych le pur buone intuizioni dell’esordio. I Liars degli esordi alle prese con la psichedelia meno ortodossa riecheggiano nell’opener Rainbow, mentre jazz contorto che si sfalda in mille rivoli (Amazing Sun), tempeste aritmiche (Light Crystal Bounce) e deliqui alla Lighting Bolt sotto metadone (Captain Orso) dicono di una band con le sue ottime carte da giocarsi sul lungo minutaggio. Infine concludiamo l’anno con il volume conclusivo della serie Cinque Pezzi Facili della Under My Bed, ormai presenza fissa su queste pagine. A sfidarsi e dividersi lo spazio del cd e della nostra attenzione sono stavolta la girl from Portland

Jennifer Jo Oakley a.k.a. Empty Vessel Music e l’inglese da Oxford James Davies con la sigla Konstanzegraff. The Slavery Diaries, il “lato” a disposizione di EVM è al solito quello più umbratile e devastatamente drammatico, col “folk” sofferto in punta di plettro e distillato a suon di gocce di sangue. Musica intimista e struggente cui fa da contraltare la massa elettronica in movimento di Konstanzegraff. Algida e distante, fredda come un orizzonte nordico in pieno inverno, Viertrax ben si sposa con le malinconiche visioni del lato opposto, specie nei momenti più distesi (Big Windows e Frader su tutte) ma spezza troppo l’atmosfera sognante creata nella prima parte dalla sognante musica per vascelli vuoti. Stefano Pifferi,

105


Flying Saucer Attack 106


Non chiamatelo post rock Nei primi ‘90 i Flying Saucer Attack si distinsero per la capacità di coniugare ricerca formale ed eclettismo sonoro, tracciando ponti e collegamenti che andavano ben al di là della sigla post rock. Testo: Stefano Gaz I Flying Saucer Attack sono una di quelle storie parallele alla grande storia del rock. Quei percorsi che solo saltuariamente hanno incrociato la via maestra, piantando i propri semi, ma lasciando puntualmente ad altri il compito di raccoglierne i frutti. Nascono dalla Bristol dei primi anni novanta, ma non c’entra il trip hop. Il duo formato da David Pearce e Rachel Brook (coppia anche nella vita) si muove nell’altro grande orizzonte di quegli anni: il post rock. Più precisamente quella scena che ha come interpreti i Crescent, i Movietone, gli Amp e il Matt Elliott della Third Eye Foundation che proprio con i FSA ha mosso i primi passi. E’ una cricca a cui l’etichetta post rock sta stretta, perché si muove in territori di confine e ha delle specificità dichiarate: passione per la kosmische music e per le psichedelie eteree, fautori del ritorno di un suono ambientale in ambito rock, sulla scia di quello che in America stanno facendo i Labradford e in Inghilterra i Main di Robert Hampson. Certo i due hanno delle peculiarità tutte loro, che emergono subito nel debutto omonimo Flying Saucer Attack, datato 1993. A differenze di Matt Elliott ma anche di band come i Disco Inferno, David Pearce - almeno in un primo momento - non è particolarmente affascinato dalle possibilità offerte dall’elettronica. La sua è devozione per la chitarra, necessariamente distorta, diluviante di

feedback, da vero e proprio shoegazer. E di shoegaze c’è n’è parecchio in questa prima fase e in questo primo disco. Il discorso di Pearce e della Brooke parte dall’amore per il noise, per la stratificazione del suono come la potevano intendere i My Bloody Valentine (A silent tide), unito ad un gusto space rock che chiama direttamente in causa i Popol Vuh (a loro sono intitolati due brani Popol vuh I e Popol vuh II). Questi ultimi, guarda caso, i meno legati alla struttura ritmica basso/batteria del comparto kraut, e quindi i più vicini alle velleità ambientali dei FSA. E’ un lavoro già maturo a cui manca però un momento sopra le righe che lo faccia davvero notare. O meglio, un tocco di originalità nella rilettura dei generi. Il problema viene risolto l’anno successivo. Prima esce Distance, raccolta di materiale antecedente a Flying Saucer Attack, che mostra con più dovizia di particolari il vasto territorio sotto i piedi del duo Pearce/Brook. E’ forse l’ascolto più eclettico dei FSA: c’è il pop gaze di Standing Stone, continuano le bordate soniche sulla scia dei My Bloody Valentine con Crystal shade, ma c’è anche l’ambient rock di Oceans, l’incedere industrial di Distance e la presenza di una vena folk eterea e rarefatta (November mist) che sarà la base di partenza per il futuro Further. E’ proprio Further a segnare un giro di boa. Se l’estetica del noise e della stratificazione sonora rima107


ne un punto fermo, cambiano decisamente i contenuti: sparisce del tutto la componente pop-gaze in favore di un suono più isolazionista, che lascia ampio spazio alle chitarre acustiche e alle soffuse melodie vocali di Pearce. Soprattutto prende il sopravvento la componente ambient: l’immaginario è quello di una foresta crepuscolare, una natura pronta al risveglio dopo la tempesta. Così all’inquietudine dell’iniziale Rainstorm Blues fa da contraltare un sottobosco silenzioso che dischiude poco alla volta la propria animosità, fino al giungere dell’alba. Tra i migliori episodi vanno annoverati For Silence, la il folk-noise ancestrale di Still Point, ma anche la brulicante e percussiva To the Shore, l’ultimo ricordo kraut giunto dall’esordio. Un disco capace di indicare un via onirica al folk, aprendo la strada a gente come i Six Organs Of Admittance che non a caso riprenderanno la stessa ambientazione di Further per il loro Louminous Night. Poi l’imprevisto. Il legame tra Dave Pearce e Rachel Brook si spezza. Finisce la collaborazione tra i due, e Pearce si prende carico della sigla FSA in solitaria. Esce un po’ di discografia di ripiego, tirata fuori dai cassetti dei primissimi ‘90: un live, In Search For Spaces che vede ancora la partecipazione di Matt Elliott in qualche brano, e una raccolta di materiale sparso, Chorus, composta da qualche vecchio singolo, brani inseriti in varie compilation, più l’immancabile session con John Peel. E’ la fine della prima fase secondo David Pearce. Gli serviranno un paio d’anni per riprendere a fare musica e per riprendersi da una forma di crisi depressiva. L’antipasto del nuovo corso viene servito con uno split EP insieme a Roy Montgomery, Goodbye del 1996, che propone un Pearce in buona forma e soprattutto segna la direzione per il futuro. Proprio grazie alla collaborazione con il chitarrista neozelandese emerge una certa circolarità nella composizione, in definitiva la passione per il loop. The Whole day, ultima traccia dell’EP è già un assaggio successivo New Lands. E’ la fase due di Pearce, che in maniera didascalica marchia il cambiamento intitolando le prime due tracce

108

dell’album Past e Present, come a voler sottolineare lo scarto con il passato. Past è il ricordo del post rock sonico - tre minuti giusto per ricordare da dove si è partiti -, mentre Present è il nuovo che avanza, un continuo vorticare di distorsioni reiterate all’infinito. Già perché queste sono le nuove terre di Pearce: brani ripetitivi, al limite dell’ossessività, un taglio quasi industrial (The sea), reso con pochi spigoli e molta gentilezza (Up in Her Eyes e Night Falls). Un totale di otto pezzi e un’unica lunga suite finale (i dodici minuti di Forever) che lanciano un ideale ponte tra l’ambient dei Main, la psichedelia drogato degli Spacemen 3 e le distorsioni di un Metal Machine Music certo in versione più logica e aggraziata. Insomma al pari di Furhter New Lands è un’altra piccola gemma, un altro seme che non farà guadagnare la grande ribalta a Pearce ma continuerà a fermentare al fuori della luce dei riflettori. Arriviamo così all’ultimo capitolo. Dopo tre anni di assenza dalle scene Pearce rimonta in sella nel 2000 con Mirror, un disco il cui limite è insito nella poca coesione delle parti. Se prima tutto era splendidamente aggrovigliato (lo abbiamo visto: ambient, folk, shoegaze, post rock), ora tutto viene scomposto. Tolti un paio di episodi classici per i FSA (Islands e Starcity) da una parte si sviluppano le fascinazioni psichedeliche che sfociano in brani completamente acustici (Suncatcher, Tides), dall’altra vengono introdotti una serie di pattern elettronici non sempre convincenti, sia quando si parla di drum’n’bass (Winter song) sia nel trip-rock di brani come Rivers e Dust. E’ un lavoro che tutto sommato mostra una vena compositiva ancora viva, sempre alla ricerca di nuove direzioni, ma con poca messa a fuoco. Questa è l’ultima tappa, poi la storia dei FSA finisce un po’ nel dimenticatoio, anche per colpa di Pearce. Nessun contatto, nessun sito ufficiale, tanto meno pagine myspace o facebook. Totale silenzio. Rimane dunque solo la storia, che è poi una delle più interessanti dell’alternative inglese targato ‘90s.


sentireascoltare.com

109


CAMPI MAGNETICI #19

Antonello Venditti Sotto il segno dei pesci (Philips, Marzo 1978)

Vende 700.000 copie questo settimo album di Antonello Venditti che, neorealisticamente, nasce/esce sotto il segno dei pesci l’8 marzo del 1978, proprio come il suo autore. Probabilmente il disco più noto tra quelli del cantautore romano, quello che riesce timidamente a stabilire una prima e importante cesura all’interno della sua storia discografica: prima di lui l’intimo impegno di dischi eccellenti come Lilly, Ullallà, l’eltonjohnesco L’orso bruno e Theorius campus, inizio folgorante a due voci e quattro mani con il compagno Francesco De Gregori. Si passa da una produzione volutamente scarna, quasi austera, capace di mettere al centro l’ossatura dei brani e affidata in almeno tre episodi nodali (Theorius campus, Lilly e Ullallà) a Lilli Greco, a una maggiore apertura pop che andrà via via cementandosi aiutando Venditti a diventare una sorta di popstar sempre più nazionalpopolare all’interno della rosa dei nostri cantautori. Senza perdersi in eccessive elucubrazioni su corsi e ricorsi della vicenda De Gregori-Venditti, sappiamo però che Sotto il segno del pesci è l’album dell’eterna separazione. Il primo, in qualche modo, a definire la chiusura con il passato al Folkstudio e con la sua collaborazione più importante, quella appunto tra Venditti e il Principe. Un De Gregori che a differenza del Nostro, ben si guarderà dal dare il pasto il suo percorso artistico alle masse. Francesco, il pezzo meno arrangiato e forse più poetico e dilatato del disco è dedicata a lui: è una dichiarazione essenziale di eterno affetto, un dolce, prolungato e commovente scusarsi per la distanza che le circostanze della vita hanno evidentemente creato tra le loro storie umane nonché un invito a non smettere di “suonare insieme, come due amici”. Tutto Sotto il segno dei pesci è la dichiarazione neorealista di chi è, perfettamente, “l’uomo del suo tempo”: l’album si trova infatti, suo malgrado, a fare da colonna sonora al momento maggiormente emblematico e solenne di tutti gli anni di piombo, l’uccisione di Aldo Moro da parte delle BR avvenuta a pochi giorni 110

di distanza dall’uscita dell’LP. E’ sullo sfondo di questo infelice momento della Storia d’Italia che scorrono le vicende dei protagonisti della title track. Storie vere di chi non smette, nonostante i tempi duri, di perseguire il sogno così come accande nell’incredibile Bomba o non bomba, con quel tipico procedimento narrativo a episodi che da sempre accompagna i racconti di Venditti. Protagonisti della canzone sono, ancora una volta, De Gregori e l’autore, che narra le difficoltà dei cantautori ad essere accettati da una nazione divisa tra l’eccessivo imperare dell’ideologia e la natura di chi scrive canzoni e, scrivendo, non può sottrarsi alle pulsioni intime che trascendono l’impegno politico. Un disco che fa la storia del cantautorato italiano entrando nelle case di un’intera generazione, imponendo la grazia del sentimento sulla violenza della politica e della tv (Il telegiornale) senza rinunciare all’afflato politico più profondamente inteso e presente nei grandi temi affrontati: il lavoro, l’amore, le scelte di vita, il femminismo. La menzione speciale va a Giulia, forse il pezzo che vale tutta la carriera di Venditti, con una coda eterna e destabilizzante, tappeto di una storia dove un amore tra donne va a minare la serenità sentimentale di una coppia etero. Un album eccezionale, stratificato, musicalmente eterogeneo e vivace, certamente legato agli anni di cui è figlio ma ancora di grandissimo impatto e forza, ritratto calzante di un tempo non dimenticato. Giulia Cavaliere


classic album

Fugazi Repeater (Dischord, Gennaio 1990)

Il primo vero LP dei Fugazi (dopo tre EP) non poteva che uscire in una data spartiacque, anche solo a livello simbolico, come il 1990. Siamo al passaggio di consegne tra due decenni di indie americano e a uno snodo cruciale della scena di Washington. Di quest’ultima, Repeater rappresenta una sorta di pivot dal punto di vista artistico e critico, ma anche un momento di svolta e di collegamento tra diverse fasi creative e storiche. Più che a un ricambio tra generazioni, nella capitale si assiste a un fenomeno diverso, un rimpasto generale in cui gli stessi musicisti creano nuovi gruppi, come in questo caso. Se in principio c’erano i Minor Threat e i primi complessi del giro Dischord (i Bad Brains hanno sempre giocato a parte), l’estate del 1985 vede molti creatori del DCcore originale orientarsi verso un nuovo stile, stufi della deriva machista e della stagnazione in cui è caduto l’hardcore di Washington. Invece di salvare la vecchia scena, i protagonisti della prima stagione puntano a costruirne una nuova con presupposti totalmente differenti. Nascono gli Embrace di Ian MacKaye e salgono alla ribalta i Rites of Spring di Brendan Canty e Guy Picciotto, che sublimano l’approccio più aperto e melodico all’hardcore nella forma “confessionale” definita emocore. L’intreccio tra personale e politico e l’apertura mentale e stilistica gettano i semi della nuova formazione che MacKaye, Picciotto e Canty creano nel 1987 insieme a Joe Lally. Se infatti i Fugazi sono una band politica in senso non comune ma coerente, alla loro tanto (giustamente) decantata integrità corrisponde uno stile tutt’altro che monolitico. Le aperture dell’emocore si trasformano in un tentativo di decostruzione paragonabile a quello dei Gang Of Four o di altre formazioni new wave. Oltre a incorporare ritmi reggae e dub e soluzioni (vocali - canto “cantilenante” o declamato - e strumentali) nemmeno troppo lontane dall’hip-hop, i Fugazi scompongono l’hardcore secondo i principi di una funk band: il senso del groove, l’interscambio ritmico, l’alternanza dei ruoli ritmico/percussivi e melodici tra chitarre e basso diventano altrettanti marchi di stile del quartetto. Nello stesso modo i nostri usano l’hc

come filtro per le suggestioni armonico/melodiche che arrivano dal rock underground americano: le timbriche dissonanti e gli accordi atonali dei Sonic Youth, il rumorismo graffiante dei Big Black, e, perché no, l’intreccio tra riff potenti o dal picking forsennato e arpeggi melodici dei Dinosaur Jr, senza però i muri di distorsione e gli assoli. Le accelerazioni compatte del vecchio hardcore si evolvono in costruzioni più lunghe e complesse. Più dei riff di chitarra è il groove - per quanto spezzato e imprevedibile - il filo conduttore di una trama avvincente fatta di break strumentali, stop& go, pieni e vuoti dinamici, botta e risposta tra voci e strumenti. Le parti delle canzoni s’incastrano in modo inusuale, ma con la tendenza a risolversi in frasi di grande presa e ritornelli da cantare a squarciagola con tanto di coro. D’altra parte, pure il brano più semplice, il reggae rock a passo svelto di Merchandise, mantiene un taglio obliquo. Alla dinamica double face di tanto rock alternativo (vedi i Pixies) i Fugazi arrivano sempre con il loro stile, cioè un po’ di traverso. Anche se non lo si considera un punto di partenza per gli sviluppi immediati dell’indie rock, Repeater fotografa bene le convergenze più o meno parallele insite in tanto post-hardcore. L’obliquità ritmica, armonica e melodica si ritroverà in band della stessa scena come Girls Against Boys, Jawbox e Shudder To Think. Ma non solo. Per rendere l’idea dello spettro musicale, si possono mettere a confronto due pezzi. Da una parte Two Beats Off offre un riff quasi alla Led Zeppelin e passaggi che non sarebbero dispiaciuti neppure ai Jane’s Addiction o a un gruppo crossover. Dall’altra, il metodo compositivo dei Fugazi verrà ripreso in maniera più astratta e formale da complessi di area post-rock, June of 44 su tutti. Shut the Door adotta uno schema piano/forte che l’anno dopo sarebbe entrato nel mainstream con i Nirvana, ma la doppia dinamica, nell’uso degli armonici e nelle esplosioni quasi statiche, rimanda piuttosto a quello che avrebbero fatto, ibernandone il pathos in schemi più cerebrali, gli Slint. Da un estremo all’altro, insomma, del cosiddetto alternative. Tommaso Iannini

111


sentireascoltare.com


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.