Sa 107 settembre

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digital magazine | settembre 2013 | n. 107

Louder than the City


sommario turn on – p. 4   Sunns   His Electro Blue Voice

tune in – p. 8   Julia Holter   Efterklang   La frattura è (ancora) aperta   Roger Waters   Scuba   Steve Mason

drop out – p. 38   Pinch   Thurston Moore

recensioni – p. 62 rubriche – p. 140   gimme some inches   classic album


#107 settembre Direttore Edoardo Bridda Direttore Responsabile Antonello Comunale Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento Gaspare Caliri Progetto Grafico Nicolas Campagnari Redazione Alberto Lepri, Antonello Comunale, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Giulia Antelli, Massimo Rancati, Riccardo Zagaglia, Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco, Staff Tommaso Iannini, Alessandro Liccardo, Alessia Zinnari, Andrea Napoli, Andrea Forti, Antonio Pancamo Puglia, Antonio Laudazi, Davide Nespoli, Nino Ciglio, Lorenzo Cibrario, Federico Pevere, Giulia Antelli, Giulia Cavaliere, Giulio Pasquali, Luca Falzetti, Marco Braggion, Marco Masoli, Marco Boscolo, Mirko Carera, Nino Ciglio, Sarah Venturini, Stefano Galliazzo, Stefano Gaz, Enrica Selvini Copertina Julia Holter (foto: Rick Bahto) Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004) SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2013 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


Visti in occasione dell’Ypsigrock Festival, i canadesi si sono confermati nome interessante, con un set tiratissimo. Li abbiamo incontrati per un’intervista. Testo di Teresa Greco

sunns Immagini dal futuro

Art rock in senso lato, che ingloba tentazioni kraut e post punk, in odore di Wire, Can e Suicide; post wave, elettro dark, effettistica, posthop, che va dai Radiohead, ai These New

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Puritans, ai Clinic (il collegamento più scontato quest’ultimo, vista la similarità vocale del cantante e chitarrista Ben Shemie), nomi a cui vengono più spesso accostati. Questi i riferi-


menti immediati che vengono in mente per i canadesi Suuns, quartetto di Montreal immerso profondamente nel clima artistico creativo della città francofona. E non a caso i loro due album (l’esordio Zeroes QC è stato pubblicato a fine 2010) sono stati prodotti da Jace Lasek di The Besnard Lakes. L’ultimo uscito lo scorso marzo, Images du Futur (dal nome di un’esposizione tecnologica a Montreal) accentua la matrice post e elettronica, tra tentazioni anthemiche e art pop, risentendo certamente del suo concepimento in tour e del background delle rivolte studentesche dell’anno scorso a Montreal, in corso in città mentre la band registrava l’album. Abbiamo intervistato i Suuns poco prima dell’Ypsigrock Festival di Castelbuono (PA), dove si sono esibiti il 10 agosto scorso. Il nuovo album suona come una evoluzione profonda del primo disco, come avete cambiato il songwriting? Abbiamo scritto e arrangiato la maggior parte delle canzoni in pochi mesi, a inizio 2012. All’inizio di gennaio abbiamo iniziato a lavorare, i pezzi non erano mai stati suonati live prima di registrare, eccetto Edie’s Dream, così non avevamo una idea precisa di come suonassero dal vivo. Ecco perché è stato un nuovo processo. Quanto avete impiegato a scriverlo? Un anno circa, e abbiamo lavorato intensamente per cinque mesi nel 2012 sulla scrittura. Durante le registrazioni siete stati immersi in un clima sociale particolare, vale a dire le manifestazioni studentesche di Montreal del 2012. Come vi siete sentiti? E’ stato un periodo interessante per la storia del Quebec, molto importante; non eravamo studenti, ma abbiamo sentito il clima di protesta e rinnovamento, che ha influenzato il disco e ha reso la città viva. Avete lavorato ancora con Jace Lasek di The Besnard Lakes, ci sono state differenze ri-

spetto a prima? No, abbiamo lavorato nello stesso modo di Zeroes Qc, è facile lavorare con lui perché ci capiamo perfettamente. È sempre un piacere e ci si diverte anche. Come componete in genere? Ben scrive molto su demo, per la maggior parte, e poi noi espandiamo il tutto per renderlo idoneo al mondo dei Suuns. Vi sentite vicini alla comunità sperimentale di Montreal, The Besnard Lakes, Grimes, Doldrums per fare alcuni nomi? La città è molto musicale, dipende dalla sua cultura crediamo… Sì è estremamente musicale, tutti sono musicisti. Abbiamo grande rispetto per tutti gli artisti lì e per coloro i quali sono passati a un altro livello. Ci sentiamo vicini agli amici e alla famiglia come la maggior parte della gente. Pensate già a un nuovo album? Non ancora, ci sarà tempo! Per concludere con un vostro verso, “Your music won’t save you”. Or will it?... Esattamente! La musica dà sempre risposte. E poi il live siciliano, la sera del 10 agosto, mentre sull’Ypsig in quei giorni imperversa una perturbazione temporalesca, d’altronde mai vista da quelle parti. Set, il loro, che ha diviso il pubblico, a sentire quello che girava intorno, e che a noi è piaciuto molto, preso tra tensioni elettriche e noise, sparatissimo e compatto. Peccato davvero per l’interruzione a metà per la pioggia, che fa calare la tensione sonora accumulata fin lì e che, come una doccia fredda, ci risveglia dalla nostra immersione nei suoni della band. La stessa band che riprenderà a suonare di lì a poco, per poi concludere. È bastato per testarne la potenza e per farcela rimanere in testa.

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Fino ad ora il colpaccio era riuscito solo ai Jennifer Gentle. Pubblicare un disco con la storica label americana è fatto di per sè ragguardevole. Lo è ancora di più se l’artista in questione è pressoché sconosciuto in patria e in oltre dieci anni di attività non ha praticamente mai suonato dal vivo. Cerchiamo di fare luce su una delle realtà più oscure e affascinanti dell’underground italiano. Un attimo prima che sia la stampa di tutto il mondo a parlarne. Testo di Diego Ballani

His Electro Blue Voice Elogio della diversità

Se non sono il segreto meglio custodito dell’underground italiano, poco ci manca. Attivi da più di dieci anni, da circa otto pubblicano per etichette quali S-S e Sacred Bones, al cui immaginario criptico, almeno inizialmente, erano legati. Eppure degli His Electro Blue Voice si parla solo ora. A settembre esce il loro primo disco e a pubblicarlo sarà Sub Pop. Sì quella, Sub Pop. Non siamo più nei primi anni 90, ma l’etichetta americana resta fra le migliori scopritici di talenti a livello mondiale, con un roster che non è mai stato così variopinto.

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Ad introdurci agli HEBV è Andrea Napoli, che oltre ad essere uno dei fondatori del progetto e a dirigere l’etichetta Avant! Records, è da anni collaboratore di SA. Lui e Francesco Mariani si conosco sin dagli anni 90. Vengono dal giro dell’hip hop, anche se quando si formano gli HEBV, nei trardi 90s, sono già gruppo rock tout court. I contorni del progetto iniziano a definirsi con il nuovo secolo. Negli anni la formazione si stabilizza intorno a Francesco e Andrea. Il primo 7’’, Fog, esce nel 2007 ed è un’oscura miscela di wave bituminosa e lo-fi, lower punk


dai bordi metallici. Blank Dogs è il nome di riferimento, ma si scorgono personalissime divagazioni psichedeliche che estendono gli orizzonti del progetto. Il secondo lavoro è uno split realizzato insieme ai francesi Nuit Noire. Si tratta anche della prima uscita del catalogo Avant!. “Era un pò di tempo che avevo idea di dar vita ad una piccola label e quella mi è sembrata l’occasione più appropriata”. Da allora le uscite del catalogo si sono moltiplicate, mentre gli HEBV hanno continuato a produrre singoli ed EP per Sacred Bones, Holidays e Brave Mysteries. Nel frattempo, Andrea si è trasferito a Bologna, lasciando le redini del gruppo in mano a Francesco. Oggi è lui la mente del progetto (a cui si è unita in pianta stabile la bassista Claudia Manili) ed è lui che abbiamo contattato per farci raccontare qualcosa in più della band e delle sue aspirazioni. Arriviamo subito al nocciolo della questione: Sub Pop. Come è arrivato il contatto? Il contatto è arrivato la scorsa estate, casualmente proprio quando ci trovavamo in studio per registrare il primo LP. A differenza delle pubblicazioni precedenti, non sapevamo chi ci avrebbe aiutato a far uscire il disco. Abbiamo detto “registriamo, poi si vedrà”. Diciamo che è stata una bella botta di culo. Da lì in poi abbiamo continuato a sentirci con un ritmo di mail molto fitto per i nostri standard. Prima, per chiudere un qualsiasi singolo o EP, ci si scambiava una dozzina di mail e si arrivava al punto. Da quando siamo in contatto con loro, ogni due giorni ci sentiamo per organizzare il tutto nella maniera migliore. Questa professionalità mi ha sorpreso parecchio in maniera positiva. Per quanto mi riguarda, trovo che sia un’esperienza molto istruttiva capire come si muove una label affermata con un bel pò di anni di lavoro alle spalle. Vi siete chiesti quali sono gli elementi che hanno portato quelli dell’etichetta americana a scegliere voi? Voglio dire, benché oggi Sub

Pop non abbia un sound di riferimento, voi siete piuttosto diversi dagli altri artisti del roster. Non abbiamo praticamente mai suonato live; il brano più cliccato su You Tube ha 2000 ascolti dopo 3 anni da quando è stato caricato. Penso che la coerenza sia stata la carta vincente fino a quest’ultimo passo e che Sub Pop abbia avuto voglia di mettere in mostra un progetto del genere e farlo emergere. Di certo dobbiamo molto alle uscite in 7” e 12” per S-S, Avant!, Sacred Bones, Holidays e Brave Mysteries. Senza queste uscite non so quanto sarebbe stato facile emergere nelle galassie underground che ci circondano. Come sono cambiate per voi le cose dopo l’annuncio del passaggio all’etichetta americana? Più che altro, adesso esistiamo anche per chi prima non ci calcolava. Siamo presi un pò più sul serio. Potrei dire che ora siamo sulla mappa di un certo sottobosco del giro post punk, noise e via dicendo. Mi colpisce molto che non solo non ci siano band simili a voi all’interno di Sub Pop, ma anche il fatto che neppure in Italia, probabilmente, ci sia una scena (geografica o meno) a cui voi siate riconducibili. Si, più o meno. Ovviamente dovrei conoscere tutte le band esistenti per affermare ciò, ma comunque trovo il nostro progetto un bel miscuglio di influenze ed accostamenti non eccessivamente scontato. Spesso è bello che un brano parta in una maniera è poi, sullo stesso giro di tre accordi, sembri totalmente evolvere in un’altra canzone. Questo mi diverte parecchio. Trovo che sia la chiave per capire HEBV al meglio. So che, almeno inizialmente, il vostro era solo un progetto da studio. Com’è cambiato il vostro atteggiamento in proposito? La formazione è cambiata nel tempo. All’inizio

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c’era Mattia al basso, prima che subentrasse Claudia. Nei primi anni ci si vedeva sempre, ma non eravamo tanto capaci di suonare; ci frequentavamo per la passione in comune per i graffiti. Successivamente, quando abbiamo inciso il primo 7”, lo split e dopo il singolo per Sacred Bones, Andrea si è trasferito a Bologna, ma a parte questo, avevamo cinque canzoni e basta, nonostante i tre singoli alle spalle. Non avevamo altri brani da suonare; quello che abbiamo inciso era l’unico materiale presentabile ad un ipotetico pubblico. Direi anche che siamo stati fortunatamente viziati dal fatto che ogni canzone che incidevamo veniva stampata, dunque ci siamo sentiti sempre attivi sotto un certo aspetto, anche se magari non suonavamo per metà anno, neanche in sala prove. Ora finalmente ci siamo dati una scossa e siamo pronti. A settembre cominciamo. Anche qui, un passo alla volta. Da quello che ho letto, nascete con un’impronta nettamente DIY, avete giocato con l’oscurità e puntato a creare un network sotterraneo di fan fedeli, piuttosto che a campagne pubblicitarie indiscriminate. Come si evolve adesso il vostro progetto? Trovo che correre troppo veloci non aiuti. Almeno nel nostro caso è andata bene così. Io mi sono trovato in questa cosa, forse lo riesco a capire meglio ora. Aver evitato colpi di testa e mandare tutto a puttane per poi ritrovarsi a dover ripartire con qualcosa di nuovo, spesso con persone sbagliate. Il progetto è ancora in vita grazie a questa mentalità. HEBV è un pò come l’hip hop che ti tirava fuori dal ghetto. Ci sono troppo affezionato, ed è la mia ancora di salvataggio, nella quale mi rifugio se qualcosa va male. Dunque non può morire. Prima di parlare del disco in senso stretto mi piacerebbe per voi, come singole persone, fare un simile salto di qualità. Quali sono i sacrifici, visto che si presuppone che la musica sia l’occupazione principale nelle vostre vite?.

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Lo è per me, nonostante non ci sia chissà quale sbattimento che possa mandare in crisi una persona. Per ora di tempo libero ne ho ancora. Mi piacerebbe che riuscisse ad occupare ancora un pò del vuoto che mi rimane. Passiamo a Ruthless Sperm. Mi parli della sua genesi, di come è stato registrato e come si distingue dai vostri precedenti lavori? Per me Ruthlless Sperm è la naturale continuazione di quello che c’è stato prima. Non è né un nuovo inizio, né un passo indietro. L’ideale è prendere le canzoni di RS, mischiarle con quelle vecchie e mettere random. Sono setti pezzi, ognuno con la propria identità, senza cercare di ripetere la stessa formula del brano precedente. Se non avessimo fatto questo disco, ci saremmo ritrovati con quattro dei brani di Ruthless Sperm su di un 12” e altri quattro divisi in due 7”. Un pò quello che è successo tra il 2009 e il 2010 con Dead Mice, Zum, Wolf, Worm, Animal Verses e Black Veils: potevamo fare un LP, invece sono state tutte sparse in vinili di breve durata. Ultimamente abbiamo messo in free download il vecchio materiale, per cercare di far comprendere (a chi è interessato) il passato e lo stile di scrittura, così che Ruthless Sperm non sembri un disco senza capo ne coda. Il disco è stato registrato nella provincia di Como con le riprese di Freddy, dopo aver fatto un bel po’ di registrazione demo con l’otto piste, a casa. I pezzi meno ripetitivi sono stati messi in fila e riprodotti in studio, per cercare un bilanciamento di suoni. La classica cosa che si fa in studio: cercare di rendere il tutto omogeneo (anche se a volte è un errore). Tante tracce le ho poi importate dal mio registratorino, perchè mi piaceva come erano venute sul tavolo di casa. Ti affezioni così tanto che è inutile riprodurle. Vanno bene gli originali fatti in casa. Quando comincio a capire che l’energia del demo si sta perdendo, mi innervosisco e di conseguenza tutti si innervosiscono, si riparte da capo, cercando di ricreare una sereni-


tà da studio. Il vostro sound, spesso descritto come gotico, mi pare arrivi ad una singolare fusione di new wave angolare alla Killing Joke, certo alternative anni ‘90 che flirtava con l’industrial, ma anche un sano dinamismo punk. Vi ritrovate in questi riferimenti? C’è il punk, c’è il garage, c’è il dark, c’è il krautrock, c’è il noise, c’è la wave inglese, la roba americana (che è il taglio che preferisco, in termini di cattiveria e di genuinità) e un po di psych qua e là. A parte i gruppi classici inglesi come i primi Pink Floyd, Warsaw, Smiths, il giro Sarah Rec. e i tedeschi, il resto arriva tutto dall’America. Per le influenze esplicite: Wipers, Flipper, Doors, Stooges, Feelies, Big Black, Husker Du, Sonic Youth, Christian Death, Nirvana etc. sono le basi su cui puoi creare cento stili diversi. Chiaramente questi sono i super classici, apprezzo anche tante band contemporanee, ma se mi devo rifare a qualcosa, cerco sempre di andare a pescare le robe vecchie e reinterpretarle a modo mio, piuttosto che andare a prendere spunto dal gruppo nuovo che si rifà pure lui al passato. La presentazione di Ruthless Sperm che viene fatta sul sito di Sub Pop, mi sembra rifletta una visione piuttosto negativa della condizione umana. Anche i testi si soffermano su questi temi? So che sei tu, Francesco, l’autore dei testi. Che rilevanza rivestono all’interno del progetto e quali sono i tuoi punti di riferimento culturali? A parte la delirante e apprezzabilissima presen-

tazione di Sub Pop, nei testi non parlo mai di attualità esplicita né di politica, non ne ho mai parlato. L’unica persona a cui devo dare contro sono io, per la maniera in cui assimilo le cose. Automaticamente i testi parlano di come assimilo e rivivo le esperienze. Più o meno dico le stesse cose dal primo singolo. I testi sono lo zoccolo duro. Mi piace mettere il testo come se stesse nel silenzio, accompagnato spesso da un riff che non cambia mai, per poi dare spazio alle strumentali che vanno dove vogliono. Musicale o no che sia, il testo per me è importantissimo. Infatti da sempre mettiamo i testi stampati nelle uscite. Poi ovviamente sono il primo che quando ascolta canzoni di altri fantastica pensando che i testi, a braccetto con le musiche, dicano quello che voglio io, nonostante stiano dicendo tutt’altro. In pratica sento quello che mi fa più comodo, per mio piacere personale. Un classico. Più in generale, quali sono gli album, i libri, i film e le opere necessarie a comprendere fino in fondo l’universo degli HEBV? Di necessario non c’è nulla. Di dischi te ne saprei dire fin troppi (ma penso che ci siamo capiti, con la lista di band di prima), film qualcosa di meno, libri ancora di meno. Dato che parlo sempre di classici, di libri direi: La Luna e i falò di Pavese, Furore di Steinbeck. Per quanto riguarda i film La morte corre sul fiume di Laughton, la doppietta del ‘57 di Ingmar Bergman Il settimo sigillo e Il posto delle fragole, qualcosa di Hitchcock, Shining, L’allenatore nel pallone. Sono solo cose che mi piacciono personalmente, possono anche non avere a che fare con HEBV.

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Chiacchierata telefonica con l’artista losangelina a ridosso dell’uscita del suo terzo album. L’occasione per scavare nei solchi di un suono semplice e complesso allo stesso tempo, tra dream pop e avanguardia, field recordings e teatro. Testo di Marco Boscolo.

© Rick Bahto

Julia Holter Louder than the City

Il silenzio dura solo un attimo. Curiosità. Stupore. Immediatamente il brusio si diffonde tra gli avventori del locale. Vestito bianco lungo che lascia scoperte le spalle e guanti lunghi dello stesso colore, capelli raccolti sotto a una tiara dorata, fronte libera non fosse per un civet-

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tuolo tirabaci, la giovane avanza al braccio di Gaston Lachaille: “chi è quella ragazza che ha portato con sè stasera? Non è un sogno? Non è un’amore? Se solo la cara Liane fosse qui…” Gigi è bellissima e invidiata da tutti e Gaston Lachaille è un amico di famiglia che lei ha sem-


pre chiamato “zio” e che ora si sta trasformando sotto gli occhi stupiti di una Parigi fin de siècle in un fidanzato e promesso marito. Le domande sono quelle del coro degli avventori quando la coppia entra al Maxim’s, celebre café chantant e tempio del divertimento notturno della Parigi Belle Époque. Siamo in un musical capolavoro, per certi versi bizzarro e originale rispetto alla tradizione, girato nel 1958 da Vincente Minnelli e musicato da Frederick Loewe (lo stesso di un altro musical capolavoro, My Fair Lady) e siamo a una delle sorgenti d’ispirazione, forse la più importante, dell’ultimo disco di Julia Holter, Loud City Song. Parigi fin de siècle e la celebrity cu ltu re

La raggiungiamo al telefono mentre si trova in Europa durante il tour estivo che l’ha portata a suonare anche in Italia. “Stavo lavorando a Ekstasis e avevo pronta una canzone ispirata da una scena di Gigi che stavo per includere nel disco, ma quando ho terminato la lavorazione dei brani mi sono resa conto che non c’entrava molto con le atmosfere di Ekstasis e che aveva bisogno di un posto tutto per sè”. La scena, ça va sans dire, è quella dell’ingresso al Maxim’s con il brusio del coro a dar voce a tutte quelle domande che tanto allora (gli anni Novanta dell’Ottocento) quanto oggi costituiscono l’ossatura del gossip e del culto delle celebrity. “Si tratta di un fenomeno sociale che si ritrova in tutte le società, non importa quanto indietro nel tempo tu vada a guardare. E lo stesso accade anche oggi, con Internet e la televisione che si sono prese le nostre vite”. Su questo tema, ma non solo, Julia Holter ha voluto costruire un disco che, in altri tempi, avremmo definito concept album. Lei preferisce parlare di “un insieme coerente di canzoni, non una raccolta di brani”. Loud City Song è il terzo album firmato dalla musicista californiana, ma è il primo dopo la

firma del contratto con la Domino e il primo registrato in uno studio con veri turnisti a disposizione. L’esordio, Tragedy, risale solamente al 2011. Fu pubblicato originariamente per un’etichetta indipendente di Los Angeles, la Leaving Records, che ha come motto sul proprio sito “world music” e, visto il catalogo, lascia spazio a più di una interpretazione (e a qualche domanda). Tragedy è un disco oscuro e non sempre di semplice accesso. Ispirato alla tragedia classica Ippolito di Euripide, gli otto movimenti del disco hanno portato la stampa internazionale a paragoni importanti con Laurie Anderson. Ad accomunare la Anderson e la Holter, la capacità di mescolare materiale d’avanguardia intellettuale con istanze più pop, pur mantenendo le distanze da ritornelli e facili melodie. Nonostante la lontananza dal mondo pop - anche quello più hypster e intellettualoide - il vinile va soldout in una sola settimana e per la Holter sembra profilarsi un percorso di nicchia sulla scia di Grouper o Nite Jewel (con quest’ultima, anch’essa losangelina, la Nostra ha anche collaborato). Cosa che puntualmente non accade. Nel marzo del 2012, Ekstasis, secondo disco pubblicato dopo l’accasamento presso la RVNG, le apre le porte di un pubblico più vasto. Il riconoscimento della stampa è praticamente unanime. Ai tempi noi scrivevamo che si trattava di “un’indagine senza confini nell’atmosfera e nell’evocazione, in un gioco di specchi che fa sembrare tutto diverso ma uguale”. I riferimenti musicali che si potevano ancora una volta trovare nei dieci brani erano gli stessi dell’esordio: la Anderson, Robert Wyatt, Joni Mitchell. Eppure, nonostante fosse ispirato da oscuri manoscritti mistici medievali, il tutto risultava più vicino a una sensibilità pop. Ekstasis è un disco che appaga sia l’orecchio esigente degli ascoltatori più colti che amano cogliere le citazioni più raffinate, sia quello di coloro che sono semplicemente alla ri-

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cerca di un dream pop atmosferico ed evocativo. Se le chiedi oggi del paragone con Laurie Anderson - paragone che ritorna ancora per Loud City Song in analisi non troppo approfondite -, la Holter si schermisce dicendo di non averla mai ascoltata davvero fino a che non gliel’hanno nominata i giornalisti. Ovviamente sappiamo bene che il paragone la lusinga, pur quando s’affretta ad aggiungere, con il suo accento morbido della California, quanto la Anderson sia un persona con un’influenza davvero importante. “Se qualcuno trova una connessione tra la mia musica e la sua, è probabilmente qualcosa che possiamo discutere. Non voglio dire che non sia vero solo perché non è stato uno dei miei ascolti. Probabilmente c’è qualcosa di lei nell’aria che permea il mondo della musica e molti musicisti vi hanno attinto nel corso degli anni. Magari sono stata influenzata da lei senza nemmeno saperlo”. B ildungsroman

Anche se Laurie Anderson non rientra nei modelli diretti, è fuor di dubbio che la Holter condivide con la musicista newyorkese una facilità nel mescolare registri d’avanguardia con un’accessibilità pop che non è comune. Forse merito degli ascolti in famiglia che, accanto al musical di Minnelli (“i nonni di molte persone ce l’hanno in casa e lo guardano coi nipoti”), poggiano sui classici americani degli anni Sessanta e Settanta (Tom Petty, Bob Dylan, Steely Dan) accanto alla black music di Billie Holiday e Al Green. Su questo immaginario classico, però, il percorso della Holter passa per una laurea al California Institute for the Arts. “Non so quanto una formazione musicale formale abbia contato nella mia vita, perché senza le cose che ho fatto non saprei mai come sarei altrimenti”, ci spiega mentre la linea telefonica si fa più disturbata e la sua voce si nasconde tra le scariche statiche, proprio come faceva nel missaggio di Tragedy.

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“Quello che è stato utile è aver studiato la teoria musicale. Saper leggere la musica ti permette di trasmettere più facilmente le idee. La comunicazione è già abbastanza complicata e in alcuni casi è già difficile esprimere quello che voglio… Per una musicista come me che compone al pianoforte, studiare armonia per tastiera è stato utilissimo, così come studiare contrappunto”. E bisogna aggiungere che studiare le ha fatto conoscere le composizioni di John Cage, soprattutto i brani per pianoforte giocattolo che, più volte, ha dichiarato essere stati una svolta nella sua vita di musicista. Per avere un quadro più completo, però, bisogna anche aggiungere un’altra influenza fondamentale, che può sembrare marginale nell’esperienza musicale di Julia Holter, ma che a ben vedere è il suo legame più profondo con il folk. Una tradizione, questa, che, soprattutto nella sua declinazione più psichedelica, scorre carsica per tutta la sua produzione. Si tratta di Linda Perhacs, meteora psych-folk che, nel 1970, diede alle stampe il suo unico album. Intitolato Parallelograms, fu presto dimenticato fino a quando, a metà degli anni 2000, divenne un piccolo culto in qualche giro di musicisti e non solo. Dopo trentacinque anni passati a svolgere la professione di igienista dentale, Linda Perhacs ha sentito così forte il richiamo di una nuova generazione che ha deciso di mettere su una band e iniziare a esibirsi dal vivo. A uno dei concerti del 2009, tra le fan che le porgono una copia della ristampa in vinile di Parallelograms per un autografo c’è anche Julia Holter. Il suo è un amore totale per l’artista, un vero e proprio mito. Sul piano musicale il debito più evidente è nell’uso di loop ed effetti per stratificare la voce, marchio di fabbrica della Perhacs, che aveva un modo quasi aleatorio di combinare armonie vocali. Inutile dire che oggi la Holter collabora con la Perhacs sia come turnista nei concerti, sia in studio per l’atteso ritorno disco-


grafico (già annunciato da qualche tempo). Altro tassello importante tra le collaborazioni della Holter è sicuramente Michael Pisaro, compositore e docente al CalArts. Pisaro è membro del Wandelweiser Composers Ensemble, un gruppo internazionale di compositori che hanno in comune l’interesse per, nelle parole di uno dei membri Radu Malfatti, “la valutazione e l’integrazione del silenzio [nella musica] piuttosto che un tappeto infinito di suoni”. Il pensiero corre immediatamente a John Cage e ai suoi Silence e 4’33’’, ma qui, come ha spiegato in alcune interviste Pisaro, l’idea è più che altro di fare musica a partire dalla lezione di Cage. I membri originari del Wandelweiser, indirettamente,

criticavano e criticano il fatto che di Cage e delle sue idee si parli molto, ma che poi la sua eredità musicale in senso stretto sia spesso in secondo piano, se non assente. (Inciso: il Wandelweiser è stato fondato nel 1992, proprio l’anno della scomparsa del musicista americano). Bedroom m usic vs. st udio recording ( ? )

Un percorso variegato, quello della Holter, che sembra però non dare troppa importanza ai singoli passi, quanto piuttosto al cammino nel suo complesso: tutto conta, ma nulla è essenziale. Così se Tragedy è stato registrato in assoluta autonomia semplicemente usando un programma

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© Rick Bahto

free come Audacity, Loud City Song è un lavoro con musicisti in carne ed ossa che si è avvalso di uno studio professionale. Per la prima volta, la musica della Holter è stata messa di fronte a un lavoro più collettivo. Il risultato sono fiati pieni e caldi come in Maxim’s II o in Horns Surrounding Me e, in generale, un suono più profondo. Hello Stranger funziona perché gli archi sottolineano magistralmente i field recordings e la voce effettata. Il bozzetto vaudeville/jazz di In the Green Wild è pieno, dinamico come difficilmente sarebbe stato se suonato in cameretta con un laptop. Uno scarto importante, seppure non decisivo, rispetto al passato. E la stessa Julia Holter rifiuta una cesura netta tra le composizioni registrate in totale autonomia in casa e la musica realizzata in studio con dei professionisti: “Non credo che registrare da soli in casa

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sia un male, continuo a farlo. Solo credo che non sia sempre la cosa giusta per la musica: a volte c’è il bisogno di registrare meglio, come nel caso del mio ultimo album, che credo abbia enormemente beneficiato dal lavoro fatto con persone che sanno quello che stanno facendo quando suonano uno strumento”. Horns Surrounding Me è forse il brano in cui è più esplicito il tema che collega tra di loro tutte le canzoni di Loud City Song. Il rumore, “loud”, si potrebbe dire essere il buzz da gossip, da malelingue, da curiosità morbosa, talmente forte che “la protagonista della canzone non riesce nemmeno ad avere una relazione reale perché tutto è così forte e così intenso che non ha spazio per un po’ di pace e calma”. Ovviamente non si tratta della sua esperienza personale (“non sono


ancora rincorsa dai paparazzi!”), ma se ne accorge quando le capita di guardare la tv con la famiglia. “Tutta quell’assenza di silenzio e calma ti viene sbattuta in faccia, dai reality show a Entertainment Tonight [un programma di celebrity news, NdR]”. La infastidisce il troppo rumore generato da cose di poco conto, “le vite di persone che non hanno fatto nulla di particolare da giustificare la loro fama”. Davanti , dietro e dentro il sipario

Se l’ispirazione arriva dal famoso valzer al Maxim’s del film di Minnelli, Julia Holter ha scelto di sostituire la metafora del café utilizzata da Colette con la città, che è “lo sfondo, l’immaginario e il set dove tutto questo accade”. È nella Parigi della Belle Époque, come nella Los Angeles/Hollywood di oggi, che si consuma la “lotta degli individui con la società”. Perché come avveniva per Gigi, promessa sposa a un rampollo di buona famiglia, anche per gli individui la società ha “certi piani”, tenta di forzare la direzione dell’esistenza. E l’individuo che cosa decide di fare: “prova a venirci a patti oppure decide di fuggire andandosene nei boschi? Li accetta e li fa propri? È di questa esperienza che ho voluto scrivere e credo che sia il tema portante di tutte le canzoni”. L’idea dello sfondo, dello scenario in cui ambientare le canzoni rimanda a un’altra caratteristica della musica della Holter, cioè quel suo essere in qualche modo teatrale. Lei stessa parla delle voci narranti delle proprie canzoni come di “personaggi” che si muovono in uno spazio/ tempo creato dalla canzone stessa. È come se ci volesse dire che nonostante si parli in prima persona, nonostante la musica provochi emozioni e sentimenti veri, è pur sempre un artificio che, in questo caso, vuole fungere da metafora per la società. In alcuni casi, sono gli stessi field recording a fornire questo scenario teatrale,

all’interno del quale la Holter fa sviluppare la propria scena musicale. È un processo evidente, in particolare nei dischi precedenti e, soprattutto, nelle produzioni meno pop che sono state affidate nel corso degli anni a piccole etichette (da ricordare soprattutto la cassetta registrata per NNA Tapes). In Loud City Song i field recording sono meno evidenti ma, a un ascolto attento, si rivelano in più di un brano, magari trasfigurati dal trattamento elettronico. Alla fine della conversazione telefonica, le chiediamo se riesce a riassumere in tre aggettivi il suo ultimo album, un modo sciocco forse per cercare di capire che idea abbia lei della propria musica. Silenzio. “Non so, è difficile”. Un gioco di specchi continuo tra oggi, ieri (gli anni Cinquanta dell’amato musical diretto per il grande schermo da Vincent Minnelli) e l’altro ieri (la Belle Époque riflessa negli specchi dei caffè) che non si agglutina attorno a semplici parole e ogni volta che sembra di averlo in pugno, sfugge dalla mano perché solo un riflesso di qualcos’altro in lontananza. E a volte, come per la vicinanza con Laurie Anderson, si scopre che l’analisi si è spinta in direzioni del tutto (o quasi) fuorivianti. È il fascino di aver di fronte un’opera complessa, più ambiziosa di quello che gli artisti pop propongono solitamente e che potrebbe essere destinata a non uscire di scena tanto presto.

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La genesi dell’ultimo album Piramida e le suggestioni di una ghost town ai confini del Polo Nord in cui i danesi Efterklang sono stati immersi: un viaggio affascinante alla ricerca di se stessi e di suoni perduti. Testo di Teresa Greco

© Andreas Koefoed

Efterklang In viaggio

La genesi dell’ultimo album Piramida e le suggestioni di una ghost town ai confini del Polo Nord in cui i danesi Efterklang sono stati immersi: un viaggio affascinante alla ricerca di se stessi e di suoni perduti Come cambiare con stile, partendo da un’idea vincente, dopo un paio di album che li aveva visti prigionieri di un chamber elettro pop diventato abbastanza stantio. È quanto accaduto l’anno

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scorso ai danesi Efterklang, di stanza a Berlino, con il suggestivo quarto album Piramida, incanto in forma canzone, che ha segnato un rinnovamento tout court per la band dal punto di vista stilistico e musicale Trattasi di pop sinfonico di matrice elettronica, che parte dai numerosissimi field recording raccolti dal gruppo in un ex-insediamento russo situato in un’isola dell’arcipelago di Svalbard (tra


la Norvegia e il Polo Nord), una ghost town ricca di suggestioni. Un’idea affascinante attorno alla quale si è sviluppato uno stile nuovo, un quasi concept e tantissime curiosità, come ci ha ampiamente raccontato il cantante Casper Clausen nel corso di un’intervista raccolta lo scorso agosto prima del festival siciliano Ypsigrock. Gli Efterklang, originari di Copenhagen, partono a fine 2000 con quattro elementi, Mads Brauer, Rasmus Stolberg e Thomas Husmer oltre a Casper, avendo nel loro ensemble numerosi altri musicisti di supporto. Fanno il botto con l’esordio Tripper (Leaf, 2004), elettronico e intimista, emotivo e carico, con le voci in gran risalto: un’opera prima apprezzabile, in cui sono comunque già presenti gli sviluppi futuri che verranno, vale a dire un maggiore uso delle orchestrazioni e delle parti vocali. Inizia così a diventare eccessivo e di maniera quello che poteva essere una caratteristica positiva della band: il seguito Parades (Leaf, 2007) è meno elettronico e più chamber pop e orchestrale, con un massiccio uso di cori da opera e melodramma, che sa abbastanza di esagerazione. Si arriva così alla terza prova, Magic Chairs (2010) e all’esordio sulla prestigiosa 4AD. Una decisa virata verso il pop, elettropop modello Radiohead da Kid A in poi che nulla aggiunge di rilevante alla loro storia fino a lì. Punto delicato e apparentemente di non ritorno per la band, sempre comunque alla ricerca di nuovi stimoli. Proprio poco dopo la pubblicazione di quest’album vengono a contatto con alcune foto di un ex-insediamento russo nel Mar Artico, mentre stanno giusto pensando a comporre musica legata a un posto particolare, con uso di atmosfere e di suoni locali. Eccoli allora andare a Piramida in avanscoperta, per raccogliere file recording ed impressioni di viaggio, e rinascere artisticamente, come si diceva in incipit. Sono intanto rimasti in tre, dopo la

dipartita a inizi 2012 del batterista/trombettista Thomas Husmer. La genesi di Piramida (4AD, settembre 2012) offre l’occasione di confrontarsi con se stessi e la loro musica, permette di affrontare prove come The Piramida Concert con la Sydney Symphony Orchestra in Australia e tanto altro… Va da sé che un album compatto e strutturato come l’ultimo sia stato molto ben accolto a livello di pubblico e critica. Lasciamo che sia il vulcanico Casper Clausen a raccontare. Cosa ci puoi dire dei Piramida Concert che portate in giro ogni volta con musicisti differenti? E del live The Piramida Concert by Efterklang + Copenhagen Phil uscito da poco? Il primo The Piramida Concert ha avuto la sua premiere alla Sydney Opera House a maggio del 2012, quindi mesi prima che l’album Piramida uscisse, a settembre. Il live è diventato così una parte importante per la creazione del disco in studio, dato che avevamo ricevuto l’invito di esibirci con la Sydney Symphony Orchestra prima che la musica fosse in verità scritta. Quindi si può dire che l’immagine di noi che suoniamo la musica (che doveva essere ancora scritta) con una grossa orchestra si è impressa nella nostra memoria quando abbiamo iniziato a scrivere i pezzi. Sono abbastanza sicuro che questo ha dato alla musica una certa direzione. Dopo il concerto a Sydney, abbiamo portato The Piramida Concert in giro per il mondo in differenti posti, come il Metropolitan Museum di New York e il Barbican Hall a Londra per esempio, e l’abbiamo portato anche a Copenhagen con Copenhagen Phil a ottobre del 2012. Essendo quest’ultimo una sorta di “ritorno a casa”, abbiamo deciso di registrarlo ed ecco l’ultimo disco uscito, The Piramida Concert by Efterklang + Copenhagen Phil, come avevamo già fatto con il precedente progetto sinfonico, Performing Parades. Ne siamo molto orgogliosi, personalmente credo che sia una eccellente

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presentazione dell’album Piramida e del nostro suono live! Il vostro disco del 2012 ha ricevuto ottimo riscontro, come vi sentite riguardo a questo, ve l’aspettavate? Non ce lo aspettavamo per niente! Siamo contenti che sia piaciuto molto il nostro lavoro, ci ha entusiasmato tanto. Chi ha avuto l’idea di intraprendere un’avventura del genere, andare nell’ex-insediamento russo Piramida, tra la Norvegia e il Polo Nord? È stato difficile? Sì è parlato anche di orsi polari… È una storia lunga… andare a Piramida nel Mar Artico (Spitzbergen), farne il punto di partenza del nostro album, articolarlo con una serie di progetti anche precedenti che avevamo in corso, come per esempio il film An Island del regista francese Vincent Moon… Proprio dopo la pubblicazione del precedente Magic Chairs, abbiamo ricevuto alcune foto del luogo e siamo rimasti completamente rapiti da questo posto. Nello stesso periodo, stavamo giusto pensando a un nuovo album che fosse legato a un posto particolare, con l’uso di suoni e atmosfere locali. In pratica allora abbiamo unito tutto ciò, preso dei field recorders e siamo andati a Piramida per 10 giorni. Spitzbergen è anche una riserva naturale, avendo un’alta concentrazione di orsi polari, così ci siamo serviti di una guardia russa armata per proteggerci. Che ci dite del processo vero e proprio di raccolta suoni? Come si sono poi trasformati per entrare nel disco? Si è parlato di un pianoforte che avete trovato lì, il piano più a nord del mondo… Dopo i dieci giorni di spedizione lì, siamo ritornati a Berlino dove Mads Brauer e io viviamo e abbiamo iniziato a sentire il materiale. Abbiamo registrato tantissimo, e per dare un senso al tutto Mads vi ha messo mano usando i suoi ricordi e legando questo ai field recording che

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lui ricordava essere emozionanti. Così ha creato un piccolo movimento musicale da ognuno di loro, sequenziandoli e processandoli, e poi li ha mandati a me e Rasmus. Io ci ho cantato un po’ sopra, cercando di sviluppare la struttura del pezzo e li ho rimandati indietro. Da qui abbiamo lavorato collettivamente sugli shetches che ci attraevano di più. Alcuni sono andati persi e altri sono sopravvissuti fino alla stesura finale dell’album. E infatti Piramida crea un’atmosfera, considerando la musica come un tutto, connettendola ai luoghi. Riguarda una relazione finita, c’è una sorta di tristezza, decadenza, è drammatico, anche se non è esattamente un concept… E riguardo al film The Ghost Of Piramida? Il film tratta più o meno dello stesso tema, ma in modo differente; ha per protagonista Alexander, che abbiamo incontrato lì, lui viveva a Piramida, quando era ancora attivo, con moglie e figli. Filmava moltissimo in 8mm riguardo alla vita lì nell’insediamento. Alcuni anni fa la moglie morì e questo naturalmente ebbe un immenso impatto su di lui. Perché quando pensa a Piramida, pensa a lei. Una ghost town, un passato e una relazione interrotta possono creare uno specchio astratto. Questa storia è entrata in larga parte nel nostro album e anche il film che Andreas Koefoed ha realizzato. Ora Alexander vive a Mosca. Avete progetti per il futuro, un nuovo disco? Al momento stiamo lavorando su una installazione sonora sul suono di Copenhagen, più altri progetti che seguiranno durante l’autunno. A febbraio 2014 faremo uno speciale concerto sinfonico nella nostra piccola cittadina in Danimarca, un evento a cui teniamo, che probabilmente segnerà la fine di un periodo per il gruppo. Dopo di che vedremo dove andare, ci sono molte idee che fluttuano in questo periodo! E riguardo a questo tour, avrete ospiti con voi?


All’Ypsigrock, che hanno aperto il 9 agosto nel bel mezzo di una perturbazione temporalesca

che fortunatamente li ha lasciati suonare il loro set, i tre danesi e soci hanno affascinato per classe e grazia. Un concerto il loro scandito in massima parte dai brani dell’ultimo lavoro, con Casper a fare da collante e intrattenitore raffinato; elettronici e caldi, mai sopra le righe, hanno mescolato pieni e vuoti senza strafare. Echi di Talk Talk riecheggiano qua e là. Dove sono finiti gli eccessi del passato? C’è solo un mirabile equilibrio che ha affascinato la platea. Personalmente uno dei motivi principali per cui valeva la pena essere lì nei giorni del festival.

© Rasmus Weng Karlsen

A parte noi tre, ci saranno tre meravigliosi musicisti in Sicilia a Ypsigrock: Tatu Rönnkö alla batteria, Katinka Fogh Vindelev a voce e tastiere e poi Martyn Heyne a chitarra e tastiere. Credo che avremo il migliore suono di sempre in questi giorni e siamo molto euforici. Allora grazie Casper, ci vediamo a Castelbuono! Non vediamo l’ora!! Questo sarà il nostro primissimo concerto in Sicilia, a presto!

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Thom Yorke sconfessa Spotify accusandolo di non remunerare adeguatamente le band emergenti presenti nel suo catalogo. La compagnia svedese ribatte di aver fatto molto per il mercato discografico, combattendo con inaudita efficacia il P2P pirata. Sullo sfondo, la lunga, travagliata mutazione del mercato discografico. Testo di Stefano Solventi

La frattura è (ancora) aperta

Se il rock doveva prendere la parola per mettere in discussione uno dei fenomeni più apprezzati e potenzialmente rivoluzionari degli ultimi anni, probabilmente non poteva scegliere interprete più adatto di Thom Yorke. Il suo j’accuse rivolto a Spotify, che secondo il leader dei Radiohead – spalleggiato dal compagno d’avventure Nigel Godrich e seguito a ruota dal frontman dei Placebo Brian Molko – non distribuirebbe in maniera equa i proventi alle band

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meno celebri (tutto il vasto sottobosco di debuttanti, talentuosi senza appeal e sfigati semplici) presenti nel suo vastissimo catalogo, sembra chiudere un cerchio aperto proprio dalla band di Oxford quando gli interrogativi posti dall’impatto del P2P sull’industria musicale toccavano l’apice. Mi riferisco ovviamente al turning point di In Rainbows. Sono passati quasi sei anni, ma ricordo bene il formicolio sulla punta del polpastrello che esi-


tava a cliccare l’invio. Non c’era bisogno d’immaginarselo, non occorrevano particolari attitudini divinatorie: era chiaro che si trattava di un momento storico. Quel 10 ottobre 2007, i Radiohead decisero di chiarire al mondo che il mercato musicale non poteva esimersi dal cambiare, e che avrebbe dovuto farlo in profondità. Casomai, il titolo del docudrama avrebbe potuto essere: “Benvenuti nell’era dell’up-to-you”. Valutai che 5 euro fossero una cifra adeguata per partecipare a quel rituale collettivo, senza sapere bene se intendessi con questo accreditare la mia appartenenza ad un qualche tipo di comunità (quelli che amano i Radiohead, quelli che vogliono stare al passo coi tempi…) o semplicemente pagare sulla fiducia le buone sensazioni che le canzoni degli oxfordiani anche quella volta mi avrebbero senz’altro fatto provare. In Rainbows si rivelò in effetti un album molto bello, che non ebbi mai in mio possesso nel senso tradizionale del termine ma che ottenni con una transazione virtuale, grazie alla quale ebbi la facoltà d’immagazzinarlo nella memoria del notebook. Confesso che poi, da bravo reduce dalla lunga stagione dei supporti fonografici, non seppi rinunciare a farmene una copia in cd: oggi mi sembra un tic risibile, un riflesso condizionato senza appigli nel reale, ma all’epoca avevo ancora bisogno di aggrapparmi a qualcosa di concreto. Certo, razionalmente capivo che, anche qualora il notebook avesse crashato all’improvviso, non sarebbe stato un grosso problema recuperare quei file. Ma il punto, ovviamente, non era quello. Con gli mp3 il concetto di possesso non si estingueva, subiva solo una mutazione di senso, diventava una questione di immagazzinamento, di catalogazione. Con impatti devastanti certo sul fronte commerciale, stante la interscambiabilità di fatto incontrollabile dei file. Caratteristica che d’altro canto poteva postulare una nuova “agilità” distributiva, abbattendo i gradi di

separazione tra artista e “utente finale”. Quel 10 ottobre in sostanza i Radiohead – grazie soprattutto al loro status di band alternativa e di successo, artisticamente integra malgrado l’hype – ci raccontarono che la carriera del compact disk – quale ultimo anello di una catena commerciale fino ad allora molto remunerativa – piegava decisamente verso il tramonto. Quello che invece non capivamo all’epoca era quanto l’mp3 fosse destinato a tramontare ancora più rapidamente, frutto transitorio di una fase tecnologicamente intermedia, in attesa che le possibilità della rete potessero esprimersi con maggiore pienezza. Il povero mp3: già autentico spauracchio delle major, per altri volano di inediti scenari commerciali (Apple in primis), algoritmo capace di modificare come pochi altri usi e costumi delle società tecnologicamente avanzate (o in avanzamento), nel volgere di poche stagioni pensionato senza appello, vaporizzato nella nuvola azzurrina dello streaming. I recenti exploit di Pandora e – soprattutto – Spotify non hanno però sorpreso quanti adoperavano già in tempi non sospetti – almeno da metà anni Zero – le web radio customizzabili tipo Last.fm, per non dire di quanti colmavano lacune e nostalgie audiovisive setacciando il sempre più affollato repertorio presente su Youtube. In un certo senso, qualsiasi appassionato di musica non aspettava altro fin dagli albori del web. L’idea di un iper-catalogo musicale online precede il modello tecnologico e commerciale del music streaming, è connaturata alla stessa “grande promessa” costituita dall’ingresso di internet nelle nostre vite. In questo scenario, il turning point di In Rainbows appare oggi come il tentativo di codificare una fase transitoria, con lo scopo di trarre un qualche ritorno economico da una modalità di distribuzione troppo aleatoria per ambire allo status di merce. Non a caso, gli mp3 di In Rainbows vennero condivisi sulle piattaforme P2P pochi attimi dopo i pri-

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mi download. Del resto, sarebbe stato utopico aspettarsi che i Radiohead riuscissero al primo tentativo laddove l’industria del disco non aveva cavato un ragno dal buco in anni di battaglia dai toni spesso confusi e più spesso ancora ottusi. Detto che le major tendono fisiologicamente a difendere i sistemi collaudati di guadagno anziché provare ad immaginare nuovi modelli per nuovi scenari, prima di accusarle di conservatorismo ad oltranza bisogna registrare una scomoda verità: fare i soldi col web è dura. Durissima. Restando all’evento di In Rainbows, ancora oggi non è chiaro quanto i Radiohead ci abbiano effettivamente guadagnato. Si mormora che i fan non siano stati di manica poi così larga. Andò meglio con le edizioni deluxe in vinile più cd – vendute direttamente dal loro shop online – che furono as usual prese d’assalto. Il turning point dell’up-to-you si era consumato, certo, tuttavia apparve subito evidente che la modalità presentava vantaggi soprattutto per le band già famose,

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con una base di appassionati su cui poter contare. Per i meno noti, per gli esordienti, il ritorno in termini di promozione e denari si avvicinava pericolosamente allo zero. Forse anche sulla scorta di questa constatazione si crearono i presupposti per l’innesco e l’irrobustirsi del crowd funding, la raccolta dei fondi preventiva per finanziare un disco. Nella sua disarmante semplicità, quest’ultima pratica intende enfatizzare il ruolo del supporter nella fase produttiva, è un aggancio emotivo che chiama l’appassionato a partecipare alla creazione dell’oggetto stesso della sua passione, restituendo al denaro quel ruolo di metafora (valore = fiducia) che spesso si smarrisce quando la fruizione ha già consumato il possesso. A questo punto però è il caso di allargare l’obiettivo: gli anni dieci hanno decretato ad ogni livello (editoria, musica, cinema…) la difficoltà a far quadrare i conti. Il web, fedele alle promesse/ premesse che lo hanno visto diffondersi a mac-


chia d’olio, tende alla disponibilità totale, senza vincoli. Chiedere contributi sotto forma di una tantum o abbonamenti si è rivelata fin’ora una scelta poco remunerativa o, nei casi migliori, comunque lontana dall’eguagliare gli equilibri finanziari pre-internet. L’abbondanza di alternative premia la convenienza rispetto alla qualità (soprattutto se le cose migliori si possono trovare anche gratis). Recentemente però non sono mancati segnali incoraggianti: nel terzo trimestre 2013 il New York Times, uno dei più stimati quotidiani del mondo e tra i pionieri del paywall per la versione su web, ha visto i propri conti “salvati” proprio dallo straordinario aumento degli abbonamenti online (un lusinghiero + 40%), sufficiente a controbilanciare l’inarrestabile declino della raccolta pubblicitaria complessiva (-6,8% sulla carta stampata, -2,7% sul digitale). In pratica, facendo perno sulla qualità dei contenuti – con ciò contrapponendosi neanche troppo implicitamente alla deriva del giornalismo in chiave sempre più superficiale e peggio scandalistica – il NYT sta convincendo oltre 700000 lettori a pagare per avere libero accesso a tutti gli articoli pubblicati online. Nella sua specificità, è la dimostrazione che non è affatto impossibile stabilire connessioni emotive con la quanto quanto mai vasta e indistinta platea del web: riuscere a convolgere anche solo una piccola frazione di cotanto bacino d’utenza può bastare per mettere a bilancio numeri di tutto rispetto. Ma il mercato discografico non ha saputo cogliere questo aspetto della faccenda e ha continuato a fare mercato appunto senza liberarsi della zavorra del supporto, come se il cd fosse un anello irrinunciabile – certificato a norma di legge – della transazione tra musicista e ascoltatore. Auto-illudendosi quindi di possedere la chiave di un forziere che in realtà veniva svuotato di senso giorno dopo giorno. Una miopia imprenditoriale in cui rischia di inciampare anche Spotify: la reginetta svedese

dello streaming ha infatti adottato una tattica di adescamento incentrata sull’appeal del servizio scordando però di seminare agganci emotivi per coinvolgere l’utenza. A partire dal 12 agosto infatti anche gli entusiasti utenti italiani hanno appreso che, scaduti i sei mesi di accesso gratuito (solo da pc, con qualche limitazione e a patto di sorbirsi un bel po’ di sfarfallio pubblicitario), viene introdotto un tetto di dieci ore mensili oltre i quali occorre sottoscrivere una delle opzioni a pagamento. Come del resto avviene all over the world. Una strategia che non fa una piega: prima acquisisci un vantaggio sulla concorrenza poi stringi i cordoni della borsa giocando sull’effetto fidelizzazione. Prassi che ogni consiglio di amministrazione approverebbe senza riserve, sbattendosene bellamente della natura di ciò che smercia. In questo quadro, la levata di scudi di Yorke, Godrich e Molko è la faccia più visibile della stessa medaglia che misura la strisciante insoddisfazione per un meccanismo che trascura il cuore della faccenda. Molto probabilmente Spotify avrà la forza di fregarsene, tirerà dritto e vincerà la sua battaglia, perché rimane oggettivamente un dispensatore di musica senza precedenti, almeno in ambito legale. Però la leggerezza con cui il comunicato ufficiale dell’azienda ha liquidato la diatriba legata alla retribuzione delle band meno note (rivendicando meriti nella “lotta” alla pirateria probabilmente non privi di fondamento, ma che solo con disinvoltura al limite della sfrontatezza possono venire utilizzati per giustificare eventuali iniquità) sembra proprio la stessa che guida certi improbabili suggerimenti di ascolto (amenità del tipo: ti piacciono gli MC5? Prova anche Simon And Garfunkel). Una sfrontatezza che non è solo di Spotify: da par suo Pandora ha annunciato l’intenzione di esercitare pressione sul governo USA affinché vengano ristrutturate verso il basso le royalties da versare agli autori dei brani, la qual cosa ci

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autorizza a sospettare che nella battaglia di Yorke siano presenti anche legittimi elementi di autodifesa. Questa disposizione delle piattaforme di streaming ricalca in versione 2.0 la vecchia, tradizionale indifferenza delle grandi case discografiche per la dimensione “artistica” della popular music, divenuta eclatante coi primi segnali di crisi degli anni Novanta: se due

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decadi fa sullo sfondo c’era la monetizzazione selvaggia carburata dall’effetto compact disk, oggi – mutatis mutandis – abbiamo il privilegio di assistere al fenomeno della ultra-accessibilità indotta dallo streaming. Ma siamo sempre lì. In effetti, cercando quanto possibile di storicizzare, stiamo ancora vivendo quello stesso conflitto, il travagliato distacco della musica pop-rock da ciò che ne ha reso possibile la commercializza-


zione. Vale a dire, il vinile. A ben vedere infatti fino agli anni Ottanta inoltrati non si è realmente venduto (e acquistato) musica, ma dischi, intendendo con questo un “oggetto” provvisto di dimensione tangibile (il vinile, la copertina) e intangibile (suoni, voci, testi). L’avvento del cd fece saltare il tavolo. La dimensione tangibile dell’oggetto subì una profonda svalutazione, divenne semanticamente ed emotivamente trascurabile, quasi puro e arido supporto, per sua stessa natura impossibilitato a stabilire empatia con la vita del possessore. Ad esempio: un cd se si logora smette di funzionare, va buttato, mentre all eimperfezioni – fruscii e scoppietti – del vinile finisci per affezionarti, fanno parte del tuo rapporto col disco. Col cd l’oggetto dell’acquisto diventava quindi sempre più e quasi esclusivamente il contenuto sonoro, il quale però si presentava a quel punto come puro dato, quindi in grado di migrare da un supporto all’altro grazie a mezzi tecnologici sempre più diffusi (in primis il masterizzatore). Nei fatti, il supporto come sede inalienabile della musica acquistata era già condannato all’estinzione. Di quel trauma stiamo ancora subendo l’onda d’urto. La situazione è in fieri, anche se forse siamo ai capitoli conclusivi. In effetti, possiamo vedere il cd come una digitalizzazione provvisoriamente parcheggiata su un supporto di plastica, destinata a smaterializzarsi prima come mp3 poi nella “nuvola” immanente. E’ questa benedetta nuvola la fine del percorso? Molto probabilmente sì. Ma le bocce sono tutt’altro che ferme, c’è ancora da attendere prima di tirare le somme. Dovendo azzardare una previsione, sulla scorta di segnali abbastanza frenetici ma in compenso confusi, ritengo che si possano escludere scenari catastrofici: con buona pace dello stesso Yorke, malgrado l’inaridimento dei tradizionali canali di finanziamento e produzione – quelli che secondo le sue parole hanno reso possibile album quali The Dark Side

Of The Moon: ma in contesti economici e culturali diversissimi, santiddio – continuano ad uscire molti album, fin troppi, alcuni dei quali impegnati a definire sonorità anche piuttosto coraggiose. E chissà che prima o poi non spunti anche il colpo di genio, un nuovo album epocale. Tornando a guardare il pianeta dell’informazione, così come il fenomeno del citizen journalism non ne sta uccidendo ma ridefinendo i codici, così probabilmente dobbiamo attenderci un riposizionamento dei meccanismi che sovrintendono la creazione, produzione e distribuzione di musica. Non c’è mai stata tanta informazione come oggi, e lo stesso vale per il nostro caro pop-rock. Quanto a Spotify, Pandora, iTunes Radio, Google Play Music e compagnia cantante, i soggetti che al momento sembrano essersi attrezzati con più lucidità e prontezza, può darsi che siano le concrezioni iniziali di un panorama destinato a diversificare esponenzialmente l’offerta, anche se c’è da scommettere che la guerra di posizione – così come già accaduto coi motori di ricerca ed i social network – spingerà per uno scenario di poche applicazioni egemoni. Con l’inevitabile corollario di neo-conflitti: cosa pensare del recente studio commissionato dalla stessa Spotify che evidenzia l’impennata di scambi pirata via Torrent di musica legata ad artisti freschi di partecipazione ad un festival? Più che la notizia, in sé per nulla sorprendente, fa riflettere che sia stata riportata con tanta enfasi, quasi ad indicare il fronte su cui concentrare un eventuale sforzo bellico. Per consegnare inappellabilmente al passato una modalità di scambio ancora molto attiva e vivace, in ragione di ciò forse il più ostico dei rivali. Comunque, in attesa degli eventi – e magari di una nuova startup che piombi sulla scena a sbaragliare le coordinate – restiamo fiduciosi circa il fatto che ci attendano periodi molto interessanti da vivere. E da ascoltare.

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Il grande concerto dell’ex bassista dei Pink Floyd a Padova è stata l’occasione per incontrare due stretti collaboratori della band, David Appleby e Gerald Scarfe. Testo di Alessandro Liccardo

Roger Waters Behind The Wall

The Wall è un doppio album, un tour, un film diretto da Alan Parker. Roger Waters, ormai ex membro dei Pink Floyd, rimise l’opera in scena nel 1990 a Berlino e ora è di nuovo sui principali palchi internazionali. Con il suo fascino immutato, con le sue scenografie spettacolari, e anche con l’immancabile scia di polemiche dovute a un artista senza peli sulla lingua, con idee controverse, con le sue ambizioni e ossessioni. Abbiamo incontrato a Padova il fotografo David Appleby e il vignettista Gerald Scarfe.

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Padova, 26 luglio 2013. Una delle giornate più calde della stagione estiva in una città del Santo che accoglie oltre 44mila fan entusiasti di ogni età e provenienza geografica per uno dei più grandi eventi live dell’anno: Roger Waters, ex bassista e membro fondatore dei Pink Floyd, ripropone per intero il suo ambizioso, claustrofobico e vendutissimo doppio concept-album The Wall (uscito il 30 novembre 1979). Più che un disco, un progetto assai più composito, che ha portato alla realizzazione non solo di una serie


di concerti tra il 1980 e il 1981, ma anche di un film (arrivato nelle sale cinematografiche nel 1982) diretto da Alan Parker, con l’allora astro nascente Bob Geldof nei panni del protagonista Pink. Non è la prima volta che Waters riporta in scena The Wall – il 21 luglio del 1990 infatti, a Berlino, l’intera opera venne rieseguita dopo la caduta del muro con un cast di artisti che comprendeva Van Morrison, Bryan Adams, Sinéad O’Connor (la cui popolarità conobbe lo zenit quell’anno, grazie ad I Do Not What What I Haven’t Got), gli Scorpions, Cyndi Lauper, Ute Lemper. Per molti l’album, il penultimo prima dell’uscita di Roger dalla band, fu in realtà l’ultimo sforzo “corale” di una formazione che già manifestava segnali preoccupanti: si dice che il bassista, autore di ogni concept a partire da The Dark Side Of The Moon, volesse prendere sempre più il controllo della band – il tastierista Richard Wright venne licenziato (in seguito reintegrato) e i contributi in sede di songwriting di Gilmour si ridussero considerevolmente. Eppure The Wall, assieme a The Final Cut che giunse nel 1983, racconta la storia di Roger Waters. Delle sue ossessioni, della sua infanzia, del suo rapporto con la scuola vista come istituzione repressiva (Another Brick In The Wall anticipò di diversi anni un’altra denuncia, quella degli Smiths di The Headmaster Ritual) ma anche del suo rapportarsi con il pubblico, con le donne (in primis una Mother iperprotettiva e castrante), con un padre morto in guerra ad Anzio (cui viene dedicata la toccante When The Tigers Broke Free, canzone che trova posto nel film e che viene in seguito inserita come bonus track nel disco successivo). Waters sarà per certi versi ancora più esplicito in The Final Cut, dedicato alla detestata Margaret Thatcher, con critiche dirette alla battaglia delle Isole Falkland e alla politica economica del suo esecutivo. Nel 2013, l’arte e le idee di Roger Waters fanno ancora discutere: sospetti di anti-

semitismo per aver messo la stella a sei punte su un maiale, mossa ritenuta grave e inaccettabile dalla comunità ebraica. Lui si difende: “metto in scena un’opera dal messaggio pacifista, e ho messo in scena tanti simboli, anche croci cristiane e la falce e il martello, così come loghi di multinazionali”. Chissà cosa sarebbe accaduto, se al posto di The Wall gli altri membri del gruppo e il produttore Bob Ezrin avessero selezionato i provini che, cinque anni dopo, sarebbero stati sviluppati nel primo album solista di Roger Waters The Pros And Cons Of Hitch-Hiking. Quella volta non c’era più il fratello-coltello Gilmour alla chitarra, ma Eric Clapton. Furono le femministe ad alzare la voce, a strappare i poster raffiguranti una donna nuda con il fondoschiena in vista. Anche in quel caso Waters parlava di sé, nella sequenza onirica del disco: della sua crisi di coppia, dei desideri di evasione dalla routine matrimoniale e da tutti i tentativi che si possono fare per recuperare un rapporto ormai logorato. Chissà in quali scenari oggi si sarebbero inseriti, i due concept successivi Radio KAOS e soprattutto un Amused To Death che sin dalla copertina ci allarma sul potere dei mass media che da una parte inchiodano i regimi alle loro responsabilità e dall’altro fanno apparire anche la guerra come uno spettacolo. Basterebbe sostituire radio e TV con i social network? E’ stata una grande serata, quella del 26 luglio. Una scenografia a dir poco imponente, con gli ormai storici disegni di Gerald Scarfe, ha fatto da sfondo allo show di un artista in gran forma e con un’ottima band. Chi nei primi anni Ottanta già c’era e guardava MTV e Videomusic, avrebbe potuto forse riconoscere nella line-up Jon Carin, da parecchi anni turnista di lusso per i Pink Floyd (co-firmò Learning To Fly), Pete Townshend, Richard Butler degli Psychedelic Furs e ai tempi leader di una band-meteora, gli Industry, che spopolava in hit parade grazie all’inno

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antimilitarista – guarda un po’, i casi della vita… – State Of The Nation. Il rapporto tra Roger Waters e Padova non si è esaurito, però, in una serata. Per più di due settimane, infatti, il centro culturale Altinate/San Gaetano ha ospitato la più completa mostra italiana dedicata ai Pink Floyd, organizzata dall’associazione Floydseum. Un sogno divenuto realtà per i collezionisti, ma anche l’occasione per incontrare alcuni addetti ai lavori, legati ai Pink Floyd per diverse ragioni. Oltre a Glenn Povey, autore di Echoes: Storia completa dei Pink Floyd, abbiamo incontrato il fotografo londinese David Appleby e il vignettista Gerald Scarfe. Il primo, che iniziò la propria carriera nel mondo della pubblicità, ha esposto alcuni suoi scatti realizzati sul set di The Wall: la sua strada si è intrecciata più volte con quella del regista Alan Parker, visto che lavorarono insieme anche per Evita e altre pellicole di successo (ma sono sue anche le

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foto promozionali di film come Victor Victoria di Blake Edwards e Robin Hood di Ridley Scott), ma ci confessa che inizialmente non conosceva bene i Pink Floyd. Non era un loro fan. La sua scelta di proporre foto in bianco e nero, rivela, è sia artistica, sia dovuta ad alcune limitazioni dell’epoca (non tutti i magazine pubblicavano fotografie a colori); sono molte le foto evocative che ha mostrato al pubblico e l’idea che traspare è quella di un gruppo di lavoro affiatato che ha cercato di dare il meglio di sé. Il secondo, Gerald Scarfe, ha parlato con il pubblico del centro culturale proprio la mattina del concerto. “Mi sento un artista privilegiato, perché con i cartoons e le mie vignette sui magazine ho disegnato la verità e mi sono sentito libero di esprimere le mie posizioni anche in giornali di diverso orientamento. Dagli anni Sessanta la mia satira espone la corruzione, mette a nudo l’inco-


erenza dei politici, l’abuso di potere”. L’incontro con i Pink Floyd avvenne dopo che Nick Mason e Roger Waters videro il suo lavoro a Los Angeles per un film d’animazione commissionato dalla BBC (“uno stream of consciousness, in cui trovavano posto icone come Mickey Mouse e la Statua della Libertà… erano entusiasti, vollero contattarmi perché pensavano che fossi completamente pazzo”). Scarfe già realizzò animazioni per Wish You Were Here, ma è indubbio che fu quella per The Wall la collaborazione più compiuta e stimolante. Nacque una vera e propria amicizia tra Gerald e Roger, che sbilanciava i rapporti con un Alan Parker che voleva un controllo completo dell’opera cinematografica: “Tutto dà un senso di oppressione, pensate ai martelli che marciano come nazisti… i disegni si sviluppano attorno a tre personaggi principali: la madre, la moglie e l’insegnante. Non era comune, nel mondo del rock’n’roll, sperimentare e dare significati ‘altri’ alla musica legandola ad immagini, e di sicuro non avremmo mai immaginato allora che l’opera avrebbe avuto un così grande impatto”. “Ho incontrato fan pazzi dei Pink Floyd per anni”, racconta Scarfe. “Ricordo ancora di quando un militare americano che combatté durante la Guerra del Golfo si fece tatuare i miei disegni per The Wall e mi mandò una videocassetta… sentiva che quanto avevo l’avesse aiutato e salvato in quel periodo difficile, volle persino spedirmi la sua medaglia ma, gentilmente, rifiutai”. Quanto c’è di Gerald Scarfe, oltre che di Roger Waters, nel personaggio del maestro? “Io stesso soffrii per il sarcasmo dei miei insegnanti”, dice. Lavorando a stretto contatto con tutti i membri dei Pink Floyd, Scarfe conferma molte impressioni: “Roger era quello con la personalità più forte, David era interessato alla musica più che al concept e alle immagini. Nick Mason era divertente, e più volte ha fatto da paciere in momenti di fibrillazione. Rick lo ricordo invece

molto introverso, era difficile parlare con lui”. The Wall è un disco, un film, sarà mai anche un’opera teatrale? “Se n’è parlato con Roger per diversi anni, ci sono molte idee in proposito”. Non passa anno in cui non si torni a parlare dei Pink Floyd. La mostra di Padova legata all’evento potrebbe essere solo l’antipasto di altri eventi legati alla band da studiare per il prossimo anno (sarà il venticinquesimo anniversario del celebre e discusso concerto a Venezia, in quel caso senza Waters). Una cosa intanto è certa: per quanto contrastanti possano essere i sentimenti nei confronti di una rockstar di 70 anni, Roger Waters è in grado ancora una volta di rubare la scena. E ogni volta, a distanza di anni e riascoltando la sua opera, ci si accorge di dettagli prima mai notati.

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Una bella chiacchierata con Scuba, incentrata sull’ultima serata sub:stance al Berghain e al Panorama Bar, diventa la perfetta scusa per parlare con il producer di molti dei cambiamenti che la scena elettronica ha vissuto nell’ultimo lustro. Testo di Edoardo Bridda

Scuba sub:stance talk

Una bella chiacchierata con Scuba incentrata sull’ultima serata sub:stance – che si svolgerà domani, 12 luglio 2013, al Berghain e al Panorama Bar a Berlino – diventa la perfetta scusa per parlare con il producer di molti dei cambiamenti che la scena elettronica ha vissuto nell’ultimo lustro, in particolare riguardo alla transizione che ha interessato la dubstep e la bass music verso lidi più tipicamente dancefloor, prima techno e poi house (infine entrambi, con prevalenza di quest’ultimo). Il concept Sub:stance è partito come una rischiosissima avventura che ha cercato di far conoscere le sonorità elettroniche di stampo britannico a un pubblico berlinese che fino ad

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allora non aveva dato grossi segnali d’apertura in tal senso. Dopo il successo del party iniziale con Mala e Shackleton in consolle, il team formato dal curatore Paul Rose (Scuba/ SCB), con l’aiuto organizzativo di Paul Fowler (boss di Massive Advance, Spymania Records e della Surefire agency) e la cura grafica e d’immagine di John Osborn (anche producer, dj e label manager di TANSTAAFL), ha progressivamente spostato l’interesse verso sonorità techno e house, tanto che, al voltar del decennio, pur non negandosi anche incursioni propriamente UK con jungle e d’n’b, il format finisce per attingere dall’intero spettro della scena europea (e non solo) portan-


do a Berlino variegati producer quali Martyn, Francois K, Skream, Gilles Peterson, The Bug, Joker, Pearson Sound, Mount Kimbie, D Bridge, Deadbeat e molti altri. Contestualmente, prima una mutazione techno della dubstep e poi un più ampio spostamento verso il dancefloor da parte di moltissimi producer (Paul Rose compreso), impongono scelte via via più distanti dagli obbiettivi iniziali, tanto da rendere necessaria una fine. Il party conclusivo chiuderà quindi il progetto in grande stile, attraverso una serata al Berghain e congiuntamente al Panorama Bar con Appleblim, George FitzGerald, Headhunter, John Osborn, Marcus Intalex, Martyn, ND Baumecker, Dillinja, Paul Spymania, Peverelist, Roska, Scuba, Shackleton, Trevino, Will Saul e Wookie. Seguirà quindi una compilation, in uscita il 22 luglio, in doppio vinile, SUB:STANCE / 072008 072013 con protagonisti, tra gli altri, Addison Groove, Appleblim, Trevino oltre allo stesso Rose presente con entrambi gli alias. Il lascito dell’esperienza rivivrà comunque, con rinnovato stile, nelle serate Hotflush previste nell’immediato futuro al Panorama Bar. Nell’intervista, il producer ci racconta, inoltre, della sua label, la Hotflush, di come si è evoluto il progetto SCB e del perché si è stancato della scena UK dandoci qualche anticipazione, infine, sul prossimo album targato Scuba e sulla possibilità sempre più concreta di un LP sotto il citato alias dancefloor. Iniziamo con una domanda di carattere conoscitivo. Hai curato la serata fin dall’inizio o sei arrivato in un secondo momento? Che approccio ha caratterizzato il tuo lavoro rispetto a quello di un Paul Fowler che figura come co-curatore degli eventi sub:stance? Il concept della serata è stato curato principalmente da me e ne sono stato il principale input creativo fin dall’inizio. Tutte le decisioni organizzative tuttavia, sono state prese assieme

a Fowler. Di fatto siamo sempre stati partner 50-50 del progetto. Entrambi, infine, ci siamo trasferiti a Berlino circa nello stesso periodo nel 2007 e per molti anni lui è stato il mio booking agent. In pratica, abbiamo lavorato assieme in molte differenti attività musicali. Le sub:stance night sono cambiate molto dall’inizio. E anche la tua musica è cambiata sostanzialmente dal tuo trasferimento a Berlino. Eppure la sub:stance compilation 072008 072013 mostra ancora una interessante fusione e interazione tra un preponderante Berghain sound e alcuni vitali guizzi UK bass (penso soprattutto al brano di Addison Groove). La mia domanda è: come hai vissuto questa transizione? Ci sono stati dei momenti di svolta o è stato semplicemente un processo naturale? Una delle ragioni che hanno portato alla chiusura del progetto è stata che la musica che conteneva è andata troppo oltre il concept iniziale. Ed è accaduto per un sacco di ragioni. La parte deep del dubstep che è stata pesantemente influenzata dalla techno è stata un’avventura piuttosto breve; molti dei produttori chiave al tempo pensarono che sarebbe stato più sensato fare house o techno e in questo contesto sostanzialmente mi sono mosso anch’io lungo questo periodo. D’altra parte il concept del sub:stance voleva rappresentare una certa parte dello UK sound e quest’ultimo si è spostato, già al tempo, verso una direzione house, a partire dallo UK Funk che stava già accadendo nel 2008. E’ stato dunque un processo naturale e, da quello che puoi vedere dalla programmazione delle serate durante gli anni, pian piano la scaletta ha compreso sempre più house e techno. Non dimentichiamo infine che abbiamo anche fatto altre cose: per esempio la jungle e la drum’n’bass sono sempre state parte di ciò che abbiamo portato avanti. Durante il sub:stance hai fatto un paio di

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back-to-back con John Osborn e suonato sotto l’alias SCB. Puoi raccontarmi di più a proposito della nascita e dello sviluppo di questo progetto? SCB è nato, originariamente, come un outlet per le mie cose techno e house, e questo prima che avessi realmente pensato di farla diventare una cosa full time. Andando al Panorama Bar per la prima volta, ecco quella è stata l’esperienza che ha catalizzato il tutto. L’ho trovato un posto molto emozionante e coinvolgente e quello che provo non è cambiato durante il tempo, tanto che è tuttora il mio posto preferito per suonare. Che sia notte o giorno l’atmosfera lì è incredibile. Tornando a SCB, ora è un progetto molto più techno che house e questa è la via in cui lo sento crescere. Inoltre sto pensando seriamente anche di pubblicare un LP sotto questo alias e la cosa si sta facendo sempre più concreta. Tuttavia, c’è

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un altro album a nome Scuba che arriverà sicuramente prima. Se dovessi fare una classifica delle migliori serate sub:stance quale sceglieresti e perché? Il primo dei party che abbiamo fatto è stato ovviamente speciale. Nessuno poteva immaginare se avrebbe funzionato o meno e pertanto è stato un enorme rischio per tutti gli organizzatori. Che sia stato un successo è stato strepitoso! A parte quello, le serate che ancora non mi levo dalla testa sono i compleanni, specialmente il secondo con Monolake e la sua sonorizzazione in surround e il terzo con Gilles Peterson e Mount Kimbie. Quelle sono state notti speciali, stavamo dando a Berlino qualcosa di differente. Ed era quello che volevamo fare con il sub:stance fin dall’inzio. Stiamo seguendo con attenzione qui a SA le vicende di label come Tectonic e Keysound.


C’è un sacco di movimento e vitalità proveniente da una new wave di dubstepper che non stanno stanno suonando dubstep, diciamo, in una maniera ovvia. Un amico mi ha introdotto un’interessante tag: post-garage. Per farla breve, ora come ora sei più interessato alla scena berlinese e germanica rispetto a quella UK o è ancora una cosa fifty-fifty? In tutta onestà ho perso completamente interesse sia per il dubstep che per la bass music in generale. So che ci sono ancora cose valide che stanno accadendo in questo periodo ma, per ciò che mi riguarda, le ho indagate alla morte e la mia carriera è sempre stata caratterizzata dall’esplorazione di nuove direzioni. Poi, chiaro, techno e house non sono cose nuove di per sé, ma il mio coinvolgimento in esse è fresco per come lo sento, come sento pure di voler averci a che fare ancora per molto. Una parte di ciò che mi interessa di queste sonorità è la distribuzione non geograficamente allineata. La scena bass è così chiusa. E’ una cosa eminentemente UK ed è per questo che a un certo punto mi sono chiamato fuori . C’è così tanto da scoprire nel mondo… Ci racconti qualcosa della tua label, la Hotflush? Hai pubblicato moltissime cose differenti da altrettanti producer, oguno con un proprio stile. Pensi che le cose continueranno in questa direzione oppure hai pensato d’intraprendere una qualche strada o concept? Ciò che ho cercato di fare con l’etichetta fin dall’inizio è stato pubblicare musica interessante e, dunque, la label è sempre stata un spettro di possibilità piuttosto aperto. Negli ultimi due anni mi sono focalizzato di più sull’house e meno sulla techno, ma non sono mancati i colpi di scena. Non penso che le cose cambieranno nei prossimi due anni, continuerò a pubblicare house e techno e per il momento è ciò che ti posso dire.

Cosa c’è nel futuro di Scuba? La tua nuova traccia, August, contenuta nel box set SUB:STANCE / 072008 072013, mi ha fatto venire in mente le sonorità dell’ultimo album di Ikonika che uscirà questo mese. In particolare, parlo di una interessante ricerca che incrocia i synth degli 80s, l’electro funk e le prime cose techno e house. Potrebbe rientrare, pure, in qualcosa catalogabile all’interno del purple sound continuum. Pensi sia un indizio? August è stata incisa grossomodo nello stesso periodo di Personality, per cui non la vedrei molto all’interno di una direzione futura. Sto lavorando a un nuovo album in questo momento che sarà diverso nelle modalità e nelle influenze tanto quanto i precedenti, anche se può darsi che mi concentrerò di più sulle canzoni, piuttosto che sui ritmi. C’è ancora molta strada da fare però. Non uscirà prima del prossimo anno. E naturalmente c’è SCB, con nuovo materiale e un sacco di show in tutto il mondo. E’ un periodo veramente pieno. Me lo sto godendo e spero che continui per molto tempo.

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Lo scozzese, ex Beta Band, ci racconta il suo secondo album solista. Testo di Antonio Laudazi

Steve Mason The Monkey and the Devil talk

Abbiamo trovato uno Steve Mason molto concentrato sulla componente ideologica della propria musica, polemico (in senso buono), pronto ad accendersi in invettive contro il capitalismo, la disuguaglianza sociale e i centri di potere rappresentati da banche, industria bellica e petrolifera. Nel 2004, data dello scioglimento dei Beta Band, la vita del quartetto di Fife non si è fermata, deflagrando anzi in molteplici progetti: tentativi più o meno riusciti di portare in qualche modo avanti la riflessione sulla contaminazione dell’indie pop con elementi eterogenei, dal kraut all’hip-pop, dal folk alla psichedelia e via dicendo. Tra tutti è stato proprio Steve Mason il più proli-

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fico, con ben due progetti diversi a nome King Biscuit Time e Black Affair, prima di intraprendere la propria strada solista lunga due album in una chiave più prettamente autoriale. Nel frattempo, parliamo del 2007, John Maclean e Robin Jones, rispettivamente tastierista e batterista dei Beta, recuperavano il primissimo frontman del gruppo, Gordon Anderson, (pare, affetto da problemi mentali) dalla cui penna, nacque nientemeno che Dry The Rain, probabilmente il loro singolo più celebre, contenuto nei Three Ep’s, considerati capolavoro insuperato del combo. Il progetto, The Aliens, diede alla luce un buon primo disco di retro-pop dal titolo


Astronomy For Dogs, cui fece seguito, un anno dopo, il più psichedelico Luna. Oggi, il secondo album di Mason, a tre anni dal precedente Boys Outside, si presenta chiaramente e senza mezzi termini come un’album politico, talvolta in modo incendiario, nonostante le forme musicali utilizzate siano prevalentemente distese, tutt’al più eclettiche e pungenti, ma comunque appartenenti a territori pop autoriali dal retrogusto folk. Abbiamo quindi colto l’occasione per uno scambio di battute con l’autore, il quale, come traspare in maniera evidente dal testo che segue, pare avere ben poco interesse nel parlarci della componente più strettamente musicale della sua opera ultima, spendendosi invece con veemenza in una contestazione sociale e politica, promuovendo la presa di coscienza delle masse su un mondo malato e controllato dai poteri forti. Interessante anche il rapporto con il passato, tutt’altro che nostalgico, ma anzi predisposto a smitizzare i fasti dei primi Beta in favore del presente da solista: “Monkey Minds è un capolavoro, The Three Eps è un buon disco. Non ho idea del perché la gente pensi che sia un disco speciale”. Per cominciare, puoi dirci qualcosa del titolo e della copertina del tuo ultimo album? Il primo ha origini buddiste, la seconda è una rappresentazione dell’inferno. “The Monkey Mind” è un termine buddista che indica una mente inquieta, incapace di concentrarsi e continuamente distratta. “In The Devils Time”, invece, allude al fatto che mentre ci lasciamo distrarre dalla celebrità, dall’accumulo di ricchezze materiali, da guerre perpetue e illegittime e fratture sociali, i poteri forti vendono qualunque cosa ci circonda al migliore offerente, inclusi noi stessi. L’establishment è il diavolo, e per me l’establishment sono le banche, l’industria militare e le compagnie energetiche. I quali sono tutti aiutati e sostenuti dai governi, mentre

la polizia mantiene lo status quo, con la forza. Sono passati 3 anni dal tuo esordio solista, Boys Outside; ci sono degli accadimenti particolari che hanno portato a Monkey Minds? Tutto ciò che è accaduto nel mondo da quando Tony Blair è salito al potere in UK. Nel disco ci sono alcuni interludi bizzarri, come la cronaca di una gara automobilistica in portoghese, integrata con la musica. Che significato hanno e qual’è il loro ruolo? Per me non sono bizzarri. Hanno lo scopo di contribuire a raccontare una narrazione complessiva che l’album nel suo insieme sta cercando di trasmettere. Ma a questo punto suona come se avessi fallito! Rispetto al passato sembri aver cercato sonorità più calde, con molto pianoforte e arrangiamenti pop e rock dal respiro classico. É così? Beh, anche il mio album precedente, Boys Outside, aveva molto piano e delle sonorità calde. La differenza con questo è che le canzoni principali sono state registrate in presa diretta con una piccola band di tre elementi. Questo ha aiutato molto ad ottenere il suono coeso di persone che suonano insieme, sul quale abbiamo costruito il resto della musica. È stato davvero divertente suonare ancora una volta con una band. Le atmosfere del disco suggeriscono una scrittura notturna, non oltre il primo mattino. Ho indovinato? In quali momenti della giornata sono nate le idee del disco e quanto influisce nel processo creativo? Sì, principalmente di notte. Tutte le cose migliori accadono dopo mezzanotte. È più tranquillo e puoi pensare. Il tuo cervello è più lucido e meno distratto. Monkey Minds sembra percorrere un doppio binario: il primo, più notturno e malinconico, probabilmente dentro te stesso, concentrato prevalentemente nella prima metà del disco; il secondo, più sperimentale, eclettico e

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politico. Ce ne parli? Dov’è che si incontrano i due binari? L’album è un racconto della mia vita, una presa di coscienza politica così come la storia di chiunque sia cresciuto a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo. È un’epoca strana e pericolosa che influenzerà i prossimi cinquecento anni. Molte persone non se ne rendono conto. Il disco passa dall’innocenza alla presa di coscienza che siamo nell’occhio di un ciclone e dobbiamo agire in fretta o potremmo perdere tutto ciò che ci rende umani. Le nostre libertà, amore, empatia, compassione, fiducia e rapporto con gli altri. Come ti è venuto in mente di inserire in scaletta un pezzo come More Money, More Fire? È come se tutto ciò che lo precede acquistasse un significato illusorio, come svegliare l’ascoltatore di soprassalto, con

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l’hip hop a rappresentare uno squarcio sulla realtà. Volevo fare un pezzo sui disordini di Londra accaduti un paio di anni fa. Ero lì e ho visto come sono andate le cose e la copertura mediatica. Non avrebbero potuto essere più ostili. Niente di nuovo ovviamente, i media sono i servi del potere, ma ho realizzato che un’intera generazione di giovani era stata condannata. E questi giovani sono il futuro. Dobbiamo prenderci cura di loro, ascoltarli e aiutarli. Comunque hai ragione, questo pezzo doveva essere una linea di demarcazione per l’album. L’inizio e la fine di un disco, come in un racconto, spesso racchiudono il senso del percorso che si è voluto tracciare. Escludendo l’intro The Old Problem, Lie Awake e Come To Me hanno molti tratti in comune, come se tu non avessi voluto concedere la speranza


del cambiamento. No, è esattamente il contrario. Se non avessi una speranza di cambiamento non avrei scritto questo album. Avrei provato a scrivere un album pop e a vendere quante più copie possibile per fare più soldi possibile e fottere chiunque tranne me stesso. Per me ciò che conta è rendere le persone consapevoli della storia di ciò che sta accadendo oggi nel mondo e di come li riguarda direttamente e indirettamente. Il capitalismo è un sistema cattivo che promuove una mancanza di empatia nel perseguimento del profitto. Forse tra 1000 anni gli esseri umani troveranno inimmaginabile che abbiamo vissuto nel modo in cui viviamo oggi. È malato. Ma ci viene insegnato dalla nascita che è il migliore dei modi. L’uguaglianza sociale è la chiave. Le società più felici sono le più equilibrate. Sto promuovendo il cambiamento! Voglio che la gente faccia domande! E agisca! Tra i tuoi progetti, questo è probabilmente il capitolo più vicino all’esperienza Beta Band. Quanto ti senti ancora legato artisticamente ed emotivamente a quella parte del tuo passato? Sei d’accordo con la critica che identifica Three Ep’s come il vostro capolavoro insuperato? Cosa lo ha reso tale? Non guardo mai indietro. Lo farò un giorno. Quando sarò vecchio. Ma ora bisogna continuare a muoversi. Monkey Minds è un capolavoro, The 3 Eps è un buon disco. Non ho idea del perché la gente pensi che sia un disco speciale. Cosa credi dovrebbe essere fatto dalla gente per cambiare questo stato di cose? Credi che gli artisti abbiano ancora il potere di toccare le coscienza politica e sociale delle masse come negli sessanta e settanta? Un uomo più saggio di me ha detto che siamo ancora al punto di porre domande. Il tempo dell’azione vera deve ancora arrivare. Sono d’accordo. Il mio consiglio a tutti coloro che vogliono fare qualcoa è, come dico nel mio album,

little victories and open conversation. Parlare alla gente. Amici, vicini, colleghi. Scoprire le loro vite e i loro problemi. Mostrare loro cosa accade nel mondo. Non lasciare che il potere riempa la tua mente con bugie e discriminazioni meschine. La violenza è lo strumento dello stato per sopprimere la protesta e la libertà di parola. Usa il metodo opposto. Rimmarrai sorpreso di quanto può essere efficace. Non perdere la speranza, non mollare mai e non dimenticare: hanno paura di noi perché abbiamo tutto il potere. Ci è stato insegnato che siamo impotenti. Non è vero! Qual’è invece il ruolo dei media? Cosa guardi in tv? Guardo solo Formula1 e MotoGP. Vale46 forever! Dimentica i canali meinstream. Sono lo strumento dell’establishment. Intrattenimento. Nient’altro. Trova fonti alternative di nostizie, ma metti TUTTO in discussione. Ascolti molta musica? Cosa consiglieresti a un amico? G.O.A.T Passerai in tour dall’Italia? Spero di farlo presto: ti amo Italia. Spero di essere invitato quanto prima!

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Lungo l’ardkcore continuum

In una lunga chiacchierata Rob Ellis ci racconta del passato, del presente e del futuro della dubstep. Di come i ragazzi della DMX hanno cambiato il corso della storia, dell’amicizia con Skream, di quella serata cruciale al FWD con Kode9 e del perché lo spirito che dovrebbe animare la scena di oggi come di ieri è quello della jungle, giusto a un passo dagli inizi dell’ardkore continuum Testo di Edoardo Bridda

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© Giovanni Galardini

Incontriamo Rob Ellis, in arte Pinch, a Foligno, all’Hotel Villa dei Platani, nel giorno del suo dj set al Dancity Festival 2013 giovedì 27 giugno. Ellis sta aspettando un caffé americano seduto sul divanetto di una piccola lounge room nell’atrio dell’albergo. E’ volato dagli UK il giorno precedente ed ha avuto tutto il tempo di rilassarsi ed incontrare Sam Shackleton, arrivato qualche giorno prima e anche lui coinvolto nelle performance della prima serata della manifestazione. I due condividono da svariati anni sia una bella amicizia, sia un album omonimo del 2011 che porta la firma di entrambi, e questo è soltanto uno dei progetti di cui parlare con lo storico dubstep producer. In più c’è un nuovo volume della serie Tectonic Plates, una curiosa collabo-

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© Andrea Luccioli

razione con Adrian Sherwood che ha già prodotto un 12” e dato il La a un paio di live al Sonar, e persino una sonorizzazione del classico 80s Robocop assieme Bass Clef previsto per settembre al Old Vic di Bristol, oltre a nuova label, la Cold Recordings della quale si scorda – volutamente? – di parlarci. Soprattutto c’è il desiderio di analizzare assieme al bristoliano i segnali di una scena che non smette di eccitare, che ha già vissuto la sua fase aurea e il suo momento di commercializzazione e che ora lavora fuori dai riflettori con abnegazione e profitto. T he su b:stance circle

If you settle into something it becomes predictable and boring La chiacchierata con Ellis arriva, curiosamente, e in parallelo alle risposte dell’intervista via mail con Paul Rose, ovvero Scuba, noto all’inizio di carriera come dubstep producer e promotore, dal 2008, proprio di queste sonorità a Berlino con il Sub:stance, una serata la cui chiusura, dopo un lustro, rappresenta senz’altro un segnale interessante nell’economia del nostro discorso. Senza negare l’amore per la jungle che li accomuna da sempre, Scuba e Pinch hanno intrapreso percorsi di convergenza all’interno

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dei più ampi movimenti di avvicinamento al club da parte della dubstep tra i 00s e 10s. Nel 2010 Pinch se ne usciva con Croydon House e Scuba pubblicava Triangulation, entrambe produzioni in allineamento creativo al 4/4, entrambe sfaccettature di un suono eminentemente UK che ha, dalla sua genesi, i suoi corsi e ricorsi e soprattutto i suoi famosi, e condivisi anche dagli stessi protagonisti, continuum. Oggi i due non potrebbero essere ideologicamente più distanti. Chiedendo di Rose a Ellis, il bristoliano risponde come se stesse parlando di un lontano conoscente. “Suona prog house adesso vero?”. Rose, dal canto suo, è ancora più radicale. Per lui l’allontanamento è dall’intera scena UK che da qualche (troppo?) tempo vede come un circuito limitante e limitato. Chiudere il Sub:stance è dunque una scelta che acquista, nelle parole del producer, i tratti di una linea di demarcazione tra un prima e un poi. Tra ciò che era (un promoter della cultura UK in terra straniera) e ciò che vuole essere (un produttore senza più suffissi o prefissi geografici). Al dubstep e alla sua community, Ellis, invece, sente tutt’ora d’appartenere. E’ un classe 1980, quando Skream e Benga sono due ‘86, ed è cresciuto condividendo la passione per techno e jungle, frequentando entrambe le serate, chimiche ed estenuanti dj set compresi. Un imprinting fondamentale per un ragazzo che ha un’apertura mentale insolita e senz’altro non molto diffusa, conoscendo i credo e le ideologie sottoculturali dominanti dell’epoca. Va da sé che a uno come lui non piacciono i festival, ma serate in cui è possibile esprimere un linguaggio sopra alle grammatiche delle tracce suonate, delle loro suggestioni (un riassunto di questo lo si può ascoltare nel suo fabric.live 61). Di fatto, Pinch e le sue label non hanno mai ragionato in termini di formato, bensì in quelli di processo, un atteggiamento che rifiuta intimamente i prodotti preconfezionati e quindi la precotta formula commerciale che tanta fama e denaro ha dato a molti suoi colleghi. Nonostante questo, dalla nu dubstep l’uomo prende le distanze senza assumere posizioni critiche, ma anzi, facendo una distinzione di campo. “Attualmente dubstep significa qualcosa di molto diverso da quando la scena prese il via a inizio duemila”, specifica. “Allora era completamente diverso, voleva dire una piattaforma sulla quale sperimentare nuovi spazi, scoprire new beats and new sounds. Non era un format che consiste in un 32 bar intro, a big drop, huge snare roll and the as many wobbles as you can fit into 8 bars and so on. Molta gente oggi s’aspetta questo dalla dubstep, mentre a me da sempre interessano le zone

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di indeterminatezza, dove non sai che nome dare a ciò che stai sentendo”. T he hey days of du bstep

© Andrea Luccioli

Our dubstep is like jungle Rob Ellis è un signore, parla un inglese pulito del Sud a zero grado di posh londinese e proprio per questo rappresenta il tratto distintivo di una certa, invidiabile, inglesità. I suoi ragionamenti, puliti, logici, sinceri, vanno di conseguenza “Se all’inizio la dubstep era come la jungle nel 1993, oggi la scena [la nu dubstep] è dominata da formati non dissimili da quelli della drum’n’bass nella sua fase di massima popolarità. Stessa autocelebrazione e ostentazione. E da qui le ragioni per le quali il genere è diventato, tra gli addetti ai lavori e non solo, una dirty word”. “Avrei voluto che a un certo punto qualcuno avesse inventato un termine nuovo per tutta quella wobbly stuff” ammette, e detto da uno che agli inizi dell’avventura rimase folgorato nella celebre e molto celebrata serata londinese FWR al Plastic People, non c’è proprio da biasimarlo. Quella sera verso fine 2003, in consolle c’era Kode9 e in sala un set di suoni e suggestioni garagiste che avevano tec-

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nicamente e teoricamente un nome, ma non una vera e propria scena e un linguaggio codificato. “Vado a memoria. La parola dubstep era stata coniata nel 2001 da un giornalista di Accelerator Magazine per etichettare un’uscita degli Horsepower Production. Da allora al 2004 esisteva dunque come definizione senza che vi fosse un’idea chiara dei contorni che doveva avere. Ricordo chiaramente quella compilation su Rephlex intitolata Grime (2004) che conteneva di fatto produzioni dubstep e quanto fosse ignorante il dialogo ritmato che recitava una cosa del tipo ‘yo non ci interessa come si chiama, noi la chiamiamo così’. Quei tizi si erano calati le braghe. Ed erano così ingoranti. Il Grime è una focal based music ma è anche vero che all’epoca c’era una discussione aperta e molto animata tra gli addetti ai lavori riguardo alla bontà della definizione, se la label fosse la più adatta a definire quello che stava accadendo. Nessuno trovò un termine migliore e quando il dibattito sfumò, ciò che emerse erano le direttrici garage più scure, stripped down, e senza parti vocali – an obvisous reference is dark garage – e la componente dub intesa non in senso di tradizione reggae, ma in quello delle tecniche di produzione dei bassi, il dubbing process”. Va da sé che uno come lui ami suonare freschi vinili autostampati per via della resa delle dinamiche dei bassi e sia un grande fan delle produzioni di Basic Channel o di Shed anche soltanto da un punto di vista di incisione e supporto (o che dica apertamente che “la minimal di oggi è stata fatta dieci volte meglio dieci anni prima”) ma ciò che più ci interessa a questo punto è circoscrivere il periodo delle magie a cui Pinch fa riferimento, ovvero, quando la dubstep nasce come genere e non è più un sottoprodotto di garage / 2 step. Per Ellis – e la storia gli dà ragione – i ragazzi della DMZ sono la grossa e determinante influenza per tutti. In quei mesi e negli anni a venire, sia nei termini dell’omonima etichetta, sia attraverso la famosa e bimestrale club night al Mass club di Brixton, il loro lascito è enorme. Mala and Coki well, they had a twist on it, they took that crossover period and turned it into their own space. For me that was the real starting point of the new thing. Per Pinch il periodo tra il 2004 e il 2005 è speciale e indelebile nella memoria, non solo perché è quell’anno che inizia a produrre, ma anche perché tutto attorno a lui c’è un’effervescenza paragonabile a quella junglista del biennio 92 / 93, ovvero una di quelle classiche fasi storiche dove, in un artigianato di mezzi e capitali, dominano elementi quali l’esplorazione, l’eccitamento, la

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sperimentazione. “C’era gente che spendeva di propria tasca per stamparsi i vinili” e c’erano Coki e Mala che cambiavano il corso degli eventi, ma c’era anche Pinch che iniziava a portare nella sua città dj e producer della capitale legati alla DMZ (ma non solo) come Loefah, Vex’d, Distance e Cyrus e gettava di fatto le basi per una scena autoctona orbitante attorno a una serata, il Context, da lui gestita, e label personali sempre da lui condotte come Subtext (dal 2004 con Vex’d – Pop Pop / Canyon), Tectonic (dal 2005 con DJ Pinch And P Dutty– War Dub / Alien Tongue), Earwax (dal 2006 con S.N.O – Disturbance / Back Yard Dub) e non ultma la recente Cold Recodings. E choing process

“L’energy flash legata a una scena underground con potenti riflettori puntati addosso non sarebbe potuta rimanere in eterno”, ammette Ellis, né da un punto di vista di mercato né come freschezza del sound. “Alle grandi masse serve un suono a cui è facile accedere”, afferma con la sua oramai iconica franchezza. “Non basta la riconoscibilità o la firma, a loro serve una certa semplicità. Al contrario, occorre una certa dose di concentrazione per seguire le complicazioni ritmiche e i layer percussivi di Shackleton, per esempio. Serve impegno per comprendere la narrazione che c’è dietro al drumming. E’ probabile che sia per questo che le cose hanno preso una certa piega da un certo punto in avanti e, d’altro canto, è stato anche un processo inevitabile, come il fatto di associare le parole dubstep o trance a qualcosa di brutto”. Pinch porta la responsabilità di una scelta importante: rimanere legato alle idee che da sempre lo animano nel far musica. E’ sereno quando gli chiediamo del successo di Skream o Benga, sorride nel raccontarci quando quest’ultimo, lo scorso anno, è venuto a trovarlo a casa sua a Bristol per la prima volta in un paio d’anni con una cafonissima Maserati da 120 mila pound. Aveva una piccola botta, ci ricorda, che da sola costava 15.000 pound di riparazione, come dire “ne è passata di acqua sotto i ponti da quando dormivamo sui divani di casa”. Chissà se il look del londinese era già assimilabile a quello sfoggiato nella copertina del suo ultimo disco ma, scherzi a parte, è poi vero che l’amicizia l’ha costruita negli anni con il solo Oliver Jones con il quale, ci confida, si sente al telefono ogni tanto e che ha anche visto allo scorso Sonar. Gli ricorda sempre che un giorno potrebbero entrare in studio per produrre qualcosa, which is never happening, puntualizza ironicamente. Ma ciò che più conta è la rispettosa comprensione delle loro scelte

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© Giovanni Galardini

“Questi ragazzi hanno iniziato a produrre tracce quando erano quattordicenni, o quindicenni settando un sound che poi si è diffuso a livello mondiale. Erano lì con i primi dubstepper and really they have a right to the legacy”. Skream e Benga hanno sempre avuto stili differenti e riconoscibili ma, contrariamente al secondo, è in particolare con Jones che Ellis sente di avere un’affinità elettiva. “Skream ha sempre avuto quest’inclinazione per la dark side delle cose. Il suono a cui è arrivato adesso non è poi troppo dissimile dal mio. Parliamo di 128 130 bpm, ovvero di muoverci in uno spazio differente”. C ollateral I nfluences. Bristol so u nd, Adrian Sherwood e Underwater Dancehall

Pinch, rispetta le scelte degli amici producer mentre per sé sceglie altri modi per farsi conoscere da un pubblico più ampio come, ad esempio, suonare e produrre assieme a uno dei suoi miti d’infanzia, Adrian Sherwood. Prima di parlare di quell’incontro, non possiamo mancare di chiedere a un bristoliano cosa ne pensa del Bristoliano post-punk che più abbiamo amato, quel Mark Stewart di cui Pinch ha fatto un rework (e una dub version, il brano era Autonomia) lo scorso anno. “Ha influenzato gente dalla quale poi io sono stato influenzato ed è stato un uomo il cui ascendente sulla città è stato enorme, eppure posso dire d’aver avuto un’influenza soltanto indiretta del suo misto di punk attitude, controcultura socialista e soundsystem. Gonfierei un po’ le cose se mettessi come influenza diretta un disco come As the Veneer of Democracy Starts to Fade” ammette sardonico e così le parole scivolano verso l’argomento Sherwoord, uno che nelle avventure di Ste-

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wart è sempre stato perno focale e imprescindibile. “La musica di Adrian è un amore di sempre. Lo conosco da quando avevo nove o dieci anni, quando mio fratello mi passava alcune sue cassette, e da allora ha caratterizzato la mia gioventù fino ai primi Novanta, oltre a rimanere un mito indiscusso. La prima volta ci siamo incontrati nella Tectonic room 1 al Fabric, dove curavo la lineup, e avevo deciso di ingaggiarlo per la serata. Non parlammo molto riguardo a una collaborazione, ma l’occasione si ripresentò quando mi restituì il favore invitandomi a Parigi ad una serata per il 30° anniversario della On-U Sound. L’idea iniziale era quella di entrare in studio per qualche giorno, stampare e scambiarci qualche dubplate esclusivo che solo noi potevamo suonare. Poi le cose si sono fatte interessanti e gli ho detto ‘ehi quello che facciamo qui non è più dubplate, dovremmo fare un album!’ e lui ‘ok’ [e scoppia a ridere]. Ci stiamo sopra da allora, abbiamo sviluppato un live show, suonato al Sónar di Tokyo e di Barcellona. Devo dire che siamo molto diversi, ma abbiamo anche molti lati compatibili che s’incastrano spontaneamente nel processo compositivo. L’album non sarà tutto dubstep, ci saranno molti tempos e ritmi differenti. Mi piace l’idea del nuovo e del vecchio che entrano in contatto, lo sai il giovane e il vecchio, poi certo non sono più tanto giovane neanch’io, ma sai, di fianco a lui… [un po’ di humor inglese]. La cosa bella di Adrian è questo enorme catalogo di voci che ha archiviato grandi vocalist come Prince Far I, Jimmy Delgado, Bim Sherman. Avere accesso a queste risorse è già di per sé eccitante”. Un punto di contatto tra Pinch e Sherwood lo facciamo risalire al suo primo album lungo, Underwater Dancehall, disco che esce doppio, con una parte cantata da un lato e i relativi strumentali dall’altro. E, ricordiamolo, disco fondamentale per la dubstep con il solo difetto di essere uscito praticamente in contemporanea con l’Untrue di Burial. Con la proverbiale sincerità, il producer parla della conoscenza del mondo dei soundsystem e della dancehall nei termini di “comprensione”. Non è un esperto del genere ma ciò che più gli preme specificare è che la gestazione dell’album, che inizia con gli inizi della sua attività come produttore dubstep, è poi diventata una questione molto personale per via della malattia del padre, stroncato da un cancro nel 2007 proprio a ridosso della pubblicazione del lavoro. “All’inizio mi sono fatto dare dure dritte dagli amici, usavo fruityloops, poi le cose si sono evolute e l’album è diventato una cosa sempre più intima e ho pensato fosse una cosa molto bella poter suonargli delle tracce. L’ultima traccia inizialmente si chiamava Rise Up, poi ho deciso di chia-

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© Andrea Luccioli

marla Lazarus, colui che è tornato dal regno dei morti. C’è molta emozione nell’album e sono molto contento che abbia potuto aver uno sfogo in quelle tracce. Paradossale che nessuno in tanti anni di interviste mi abbia mai chiesto nulla a proposito di quel disco, anche con una dedica a mio padre scritta in calce” Altro aspetto ovvio che non possiamo non affrontare in tema di influenze, è quello cinematico. La dubstep ha da sempre bazzicato con la dark side, come ci ha ricordato spesso, ma quanto la filmografia horror ha avuto parte nella sua vita? “I’d be shooting myself in the foot if I told you which films I sampled”, ironizza quando gli chiediamo direttamente cosa ha campionato con esattezza ed è buffo poi, a registratore spento, ascoltarlo a ruota libera raccontare di quando da piccolo e ossessionato dagli zombie movie, era finito poi per ritrovarseli in incubi ricorsivi per nulla divertenti. In generale, comunque, l’interesse per i film riguarda in particolar modo le soundtrack, frammenti di colonne sonore dai quali estrapolare particolari spezzoni ad alto contenuto emotivo che però non vengono mai utilizzati così come sono, ma sempre alterati.

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Breaking the expectations

Alla fine della chiacchierata emergono chiaramente i punti salienti del Pinch pensiero riguardo alle produzioni che gli piacciono maggiormente in questo momento: tracce sui 130 o poco meno bpm, nelle quali sperimentare differenti spazialità di suono e dunque diverse soluzioni ritmiche. Così viene naturale che in un momento in cui la nu dubstep is fizzling (trad. sta morendo) e “i giornalisti sono alla disperata ricerca del next big thing senza che vi siano reali scene dietro”, una compilation come il volume 4 della serie Tectonic Plates raccolga ampi e insospettati consensi anche tra le frange adoranti di compilation come This Is Dubstep. Ci trovi i percorsi della tech-step, dell’half step, del purple sound, ovvero gli stili più duraturi dalla fine dei 00s, ma anche cose nuove, che definire avant non è peccato. I producer poi sono sia UK che USA, la compila copre volti noti e meno noti come ad esempio i produttori americani affini, per sensibilità e gusto, al bristoliano come Sinistarr, Pursuit Grooves e anche quel Distal di cui Ellis aveva prodotto il bel Civilization lo scorso anno e di cui, ci confessa, sta valutanto del nuovo materiale (“di primo acchito gli sembra un po’ troppo vario” ma staremo a vedere). “Gli album devono avere un taglio, un qualcosa che ne giustifichi l’esistenza lungo la tracklist” afferma Rob che, tornando alla serie Plates, aggiunge: “è sia una vetrina di ampio spettro di differenti producer dai più affermati alle nuove leve, sia uno sguardo di ciò che la label può offrire oltre allo specchio del tipo di musica al quale sono interessato in un determinato periodo”. Il quarto volume, in particolare, è stato consapevolmente realizzato “per metà a 130 bpm e per la restante parte nel più tipico dubstep tempo attorno 140 bpm” e questo proprio per valorizzare nuovi tagli innovativi e catalizzare una serie d’ascoltatori che “negli ultimi mesi sono sempre meno interessati alla parte commerciale del dubstep e contemporaneamente sono tornati a orientarsi verso nuovi ritmi e texture”. Muoversi su bpm differenti è la base per provare nuove cose e rompere certe dinamiche, afferma Pinch e questo tipo di percorso era già stato inaugurato in un terzo volume uscito soltanto un anno fa e accolto con un certo distacco dalla critica specializzata britannica. “Non so di cosa stessero parlando, in quella tracklist c’erano tracce anche 120 bpm”, rilancia, sardonico, riferendosi alle critiche ricevute dalla compilation. E questo può ampiamente essere ricondotto al discorso che Rob faceva in partenza. Il nuovo interesse per le produzioni più vive del giro di label legate

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alla dubstep (vedi anche Keysound) sta facendo vedere l’operato della Tectonic sotto un’ottica differente e senz’altro anche la non menzionata e recente apertura della Cold Recordings rientra in quest’ottica. Non stiamo parlando più dei primi due volumi della serie targati rispettivamente 2006 e 2009, ma di movimenti che solitamente nel passato portarono a nuove isole di senso, a nuovi generi. Riflettiamo assieme a Pinch, su quest’ultima affermazione pensando a quanto internet possa aver rotto un certo meccanismo di produzione e fruizione della musica. E’ possibile afferma, “il dubstep potrebbe essere stata l’ultima vera scena dato che oggi internet azzera continuamente il tempo promuovendo un continua rincorsa a nuove, spesso futili, tendenze alle quali moltissimi producer finiscono inevitabilmente per aderire per un tempo sempre troppo breve. Nei 90s, se volevi ascoltare questa o quella musica, c’erano soltanto pochissime scelte da fare: o ascoltavi le Pirate Radio o andavi a Londra nei rave o nei club dove si suonavano quei generi. (“Attraverso quei canali obbligati però potevi ascoltare propriamente quei suoni”). Oggi, con il laptop, senza un’esperienza forte legata alle cose, nella velocità e nel consumo vorticoso, è molto più difficile che qualcosa germogli con le giuste fondamenta, quindi, what’s next?, s’interroga retorico Ellis per poi continuare con un ultimo statement “Ciò che c’è di buono in molti dj set attuali è lo spostamento dal tempo set al mood set, suonare a differenti bpm mantenendo un’idea di umore è un campo interessante che sarebbe stato molto meno accettabile in passato”. E la footwork potrebbe entrarci? Pinch fa spallucce, “well, mi piace l’aspetto ritmico del genere ma è anche vero che mi piacciono pochissime tracce footwork. Mi ricordo quando nel 91-92 la corrente ardkore si separò in proto-jungle e una scheggia di quelle sonorità prese la piega di happy hardcore. La odiavo veramente quella scena, quanto poi amavo la jungle. Oggi la footwork è interessante, ma molte delle produzioni di quest’area mi ricordano i vibe della happy hardcore”.

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Vita sonica pt. 2 Al punto in cui sono arrivati dopo il successo di critica di Daydream Nation, i Sonic Youth iniziano a interessare anche alle major. Ed è da lÏ che ripartiamo con la seconda parte della nostra storia Testo di Tommaso Iannini

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Dall’undergro und al mainstream

Al punto in cui sono arrivati dopo il successo di critica di Daydream Nation, i Sonic Youth iniziano a interessare anche alle major. Alla fine la spunta la Geffen, che garantisce al gruppo la libertà creativa e l’ultima parola sulla musica e la grafica dei dischi. La decisione di accasarsi presso una grossa etichetta porta come conseguenza la fine della collaborazione con Paul Smith, la persona che più si era dannata l’anima per promuovere la band. Siamo alla fine degli anni ‘80, e questo periodo rap-

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presenta un crocevia importante tanto per i Sonic Youth quanto per tutta la scena rock indipendente americana. Il passaggio del quartetto di New York su una major anticipa di un paio d’anni l’esplosione del rock alternativo e di fatto è uno degli eventi che preparano il terreno al controverso fenomeno. Intanto Moore è impegnato in numerosi progetti e collaborazioni, che vanno da Lydia Lunch ai Velvet Monkeys in cui suona insieme a Richard Hell, agli olandesi Ex e ai terroristi avant-jazz Borbetomagus. L’intera band lavora invece con Maureen Tucker, indimenticata batterista dei Velvet Underground, per il suo album Life in Exile After Abdication. Il primo frutto dell’accordo con la Geffen è Goo (1990), definito dallo stesso gruppo un album di transizione. Brani come Mote, Disappearer e Cinderella’s Big Score non avrebbero sfigurato in Daydream Nation; sono pezzi che risentono chiaramente dell’ispirazione del doppio LP di due anni prima, così come dell’influenza di Television e Dinosaur Jr. Queste canzoni riescono a dare al noise rock una forma elegante e armonicamente raffinata. Altrove il gruppo sembra interessarsi a un revival del più semplice punk rock, senza per questo suonare meno dissonante e strano; Cool Thing, cantata da Kim Gordon, contiene un duetto rap tra Kim e Chuck D dei Public Enemy, questi ultimi impegnati a registrare negli stessi studi della band di Moore. I Sonic Youth impiegano il budget messo a disposizione dalla casa discografica per girare videoclip di tutte le canzoni, chiamando a lavorare amici come Richard Kern e registi emergenti, tra cui gli ancora sconosciuti Todd Haynes e Sofia Coppola (a cui Moore avrebbe prestato il libro di Jeffrey Eugenides The Virgin Suicides, consigliandole di leggerlo; il resto è storia). I risultati si possono vedere nella raccolta di video Corporate Ghost. Nei mesi successivi i “sonici” cercano di arrivare a nuove platee e di portare nel mainstream anche la cultura da cui provengono. Ma aprendo un tour di Neil Young, loro grande ammiratore, e pur avendo a che fare con l’entourage – e il pubblico – di un musicista a tratti scomodo e di sensibilità nettamente superiore alla media, i quattro vedono l’abisso che separa il loro mondo dallo showbiz rock. Parliamo, tra l’altro, dello stesso Young che sarebbe diventato una sorta di padre putativo dei rocker della generazione X, quella di cui i Sonic Youth erano i fratelli maggiori. Non per questo, il suo manager e la sua crew vedono di buon occhio i Nostri e anche il pubblico è decisamente prevenuto nei loro confronti.

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T he Y ear Pu nk Broke

Il 1991 è l’anno del famoso tour europeo immortalato da Dave Markey nel documentario The Year Punk Broke. Tra le band che accompagnano i Sonic Youth ci sono anche i Nirvana, sorta di protegés dei quattro di New York, che li hanno seguiti alla stessa agenzia di management, la Gold Mountain, e alla Geffen. I Sonic Youth hanno sempre dimostrato grande rispetto e – caso raro – una vera attenzione per chi apre i loro concerti. Nei primi anni hanno approfittato spesso dei tour per girare insieme alle loro band preferite e creare una rete di amicizie da una parte all’altra degli States, con tanto di appartamento di Thurston e Kim a disposizione degli amici musicisti che passano da New York. Man mano che il gruppo cresce, porta spesso con sé band come Dinosaur Jr., Pavement, Butthole Surfers, Boredoms e, appunto, Nirvana, quando ancora sono una formazione underground e non certo delle star. Durante il set del gruppo spalla Moore o i suoi

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compagni sono spesso intenti a seguire da dietro le quinte. Siamo nei mesi che precedono la pubblicazione di Nevermind, e il film di Markey da questo punto di vista è un documento storico. Il titolo stesso, The Year Punk Broke, che nasceva da tutt’altre premesse, cioè dalla disillusione per aver visto i parrucconi rock Motley Crue suonare Anarchy in the Uk in un loro concerto – la fine del punk, nell’ottica del regista –, diventa senza volerlo il manifesto di un’epoca, che vede le sonorità un tempo underground arrivare in cima alle classifiche (ironia della sorte, in Italia il filmato, in cui compaiono anche Dinosaur Jr., Babes in Toyland e Gumball, circolerà in maniera semiufficiale all’interno di una VHS sui Nirvana). Il post-punk americano passato dai circoli underground ai mass media diventa il “rock alternativo” su cui le major si buttano dopo che il boom di Nevermind le coglie completamente di sorpresa. Lo stesso team che ha curato i suoni del secondo disco dei Nirvana, Butch Vig in cabina di regia e Andy Wallace al mixaggio, è all’opera anche su Dirty (1992) dei Sonic Youth. È curioso, ma non per chi conosce Moore, leggere che il suono che il Nostro voleva da Vig fosse quello di un 45 giri degli sconosciuti Mecht

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Mensch, stampato in pochissime copie. Il genere di dischi a cui Vig aveva lavorato negli anni ‘80 quando era uno dei produttori indipendenti più apprezzati per il punk del Midwest e i primi dischi della Touch and Go. Dirty è un doppio LP con meno inventiva di Daydream Nation, che completa semmai la transizione di Goo verso forme più dirette, immediate e orecchiabili. Il noise ora aderisce come un guanto su una canzone rock dalle strutture canoniche, anche se abbastanza fantasiosa. Non è un azzardo definirlo il disco pop dei Sonic Youth. Lo è senz’altro più di Goo. Se Daydream Nation è stato il culmine di un percorso che dal punk d’avanguardia li ha portati a rivoltare come un guanto la musica rock appropriandosi delle sue forme ma con i propri suoni, Dirty è la risposta dei Sonic Youth all’esplosione del grunge. Certo l’interludio di Sugar Kane ricorda Daydream Nation anche se non dura più di venti secondi, ma alcune canzoni sono le più lineari partorite dai quattro sonici, le più vicine al rock classico, siano brevi e dissonanti come 100% o melodiche e rifinite come Sugar Kane, Wish Fulfillment e Chapel Hill. Non si tratta solo di una questione di scrittura ma di suono, grazie al lavoro di Butch Vig e di Andy Wallace, intervenuti anche in postproduzione sulla batteria e in particolare sulla voce di Kim Gordon, filtrata con un harmonizer per renderla più intonata. J et- set sperimentale

Se l’orizzonte di Dirty era quello del rock alternativo delle major, di cui Thurston Moore e compagni rimanevano la band più originale per la loro cultura del suono e non soltanto per quella, Experimental Jet Set (1994), pur essendo un album targato Geffen, è molto sensibile agli umori del coevo indie rock e sembra abbracciare il modello in bassa fedeltà di cui sono portatrici band come Sebadoh, Royal Trux, Pavement e Guided By Voices. È album lo-fi dei Sonic Youth nella maniera in cui Ghost and Stories sarà il loro album post-rock. Non deve sorprendere che molti brani assomiglino a dei bozzetti, sia per le fonti di ispirazione, sia perché gli stessi titolari parlano, ai tempi, di “composizione istantanea” e di pezzi nati intorno a un unico riff. La canzone più memorabile è la conclusiva Sweet Shine, perché la più melodica. Le altre sono dei numeri surreali, acustici come Winner’s Blues, insidiosi come Bull in the Heather, stravaganti come Screaming Skull, scritta di getto dopo una visita al superstore della SST a Los Angeles. L’album non viene promosso con un tour perché, nel frattempo, Kim è rimasta incinta. La prima e unica figlia della coppia, Coco Hayley

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Moore, nasce nel 1995. Thurston e Kim lasciano New York per trasferirsi nella più tranquilla Northampton, nel Massachusetts. Al contrario di Experimental Jet Set, Washing Machine, uscito nell’autunno del 1995, nasce da lunghe jam session e da spunti improvvisati. La title-track contiene una lunghissima jam, come non si sentivano da qualche album a questa parte e The Diamond Sea arriva a sfiorare i venti minuti. Capolavoro dell’album, quest’ultima inizia come una ballata indolente post velvettiana, ma gran parte del suo svolgimento è occupato da divagazioni strumentali che riportano le lancette del tempo per i Sonic Youth ai primi anni ‘80, poi addirittura a una psichedelia quasi pinkfloydiana, al krautrock e all’acid rock degli anni ‘60. Washing Machine anche un disco più melodico, un aspetto che qualcuno ai tempi vide come una sorta di principio di senilità, trovandosi costretto, per la prima volta, ad alzare il volume dello stereo ascoltando i Sonic Youth…. A rrivederci XX secolo

Nel 1996 Thurston Moore può approfittare di un momento di pausa dei Sonic Youth per dedicarsi ad alcuni progetti in proprio. Tra la primavera e l’estate suona con altri due musicisti – Tom Surgal e William Winant – in un festival d’avanguardia in Canada, producendosi in un set di un’ora di musica improvvisata per chitarra e percussioni. Quindi pubblica il suo primo album da solista. Registrato con Steve Shelley e Tim Foljahn, Psychic Hearts è un disco di canzoni minimaliste, primitive e naïf. Tranne Elegy for All the Dead Rock Stars, che a tratti sembra un demo della band, gli altri brani – Ono Soul, la title-track e Patti Smith Math Scratch - non rimandano tanto ai Sonic Youth, bensì a ritagli di garage rock dimenticati in una soffitta della gioventù, citazioni dei suoi primi amori musicali. Accordi e riff elementari suonati in maniera volutamente goffa (Blues from Beyond the Grave) non fanno pensare alla lo-fi ma a un inedito gonzo rock. Il biennio ‘96-’97 è invero ricco di progetti collaterali, dalla Piece for Jetsun Dolma, un lungo brano improvvisato dal vivo, fino alle due collaborazioni con Nels Cline, futuro chitarrista dei Wilco ancora in pieno fulgore jazz (Pillow Wand e In-Store). Nel 1996 i Sonic Youth affittano uno spazio in un palazzo a Manhattan, esattamente al n. 47 di Murray Street, a pochi passi dal World Trade Center. Qui allestiscono il proprio studio di registrazione, l’Echo Canyon. Liberi di registrare il loro materiale, i quattro decidono quindi di fondare l’etichetta Sonic Youth Recor-

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dings (SYR), allo scopo di pubblicare i progetti più sperimentali, a partire dai tre brani strumentali di Anagrama, la prima uscita targata SYR, pubblicato nel 1997 come il successivo Slaapkamers Met Slagroom. Con un’etichetta tutta loro, i Sonic Youth possono sbizzarrirsi nel creare musica che la Geffen non avrebbe mai avuto interesse a licenziare. Per questo non c’è nessun ostruzionismo da parte della casa discografica, fintanto che i nuovi dischi di canzoni arrivano puntuali. Ogni progetto ha una lingua diversa, così nascono anche Invito al cielo (in Esperanto), in combutta con Jim O’Rourke, e poi il più imponente dei progetti SYR, il doppio CD Goodbye Twentieth Century (1999), con le sue collaborazioni e riletture in tema di musica d’avanguardia contemporanea. Le uscite SYR contemplano registrazioni dal vivo di musica strumentale insieme a ospiti come il Koncertas Stan Brakhage prisiminimui (2005), in cui i Sonic Youth accompagnati dal percussionista Tim Barnes, musicano dal vivo le pellicole mute del più grande regista

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americano di film sperimentali, il J’Accuse Ted Hughes (2008) per metà registrato dal vivo all’All Tomorrow’s Parties, o l’Andre Sider Af Sonic Youth, tratto dall’esibizione di Roskilde nel 2005 con Mats Gustafsson e Merzbow. Una svolta non proprio volu ta

Per quanto riguarda i dischi rock, nel 1998 è il turno di A Thousand Leaves, il primo disco Geffen registrato all’Echo Canyon. L’album vive anche di momenti di tensione (Female Mechanic Now On Duty) ma per la maggior parte è virato verso un’idea di moderna psichedelia di cui si registravano le avvisaglie in Washing Machine. I tempi si dilatano mentre i ritmi rallentano e le strutture si liberano. Nello stesso anno Thurston pubblica Root, un curioso progetto di 25 brani da un minuto affidati ai remix di artisti come Mogwai, Luke Vibert, Stereolab, Merzbow e Blur. Il 4 luglio del 1999 i Sonic Youth sono attesi per un festival ad Orange County. È atteso anche il furgone con la loro strumentazione. L’autista l’ha lasciato la sera prima fuori dall’albergo dove si è fermato a dormire; al mattino nel parcheggio, il mezzo non c’è più. Più tardi verrà ritrovato, ma vuoto. Sono state rubate ventisette chitarre, e con loro venti tra amplificatori e casse acustiche, dodici microfoni, ventinove pedali per gli effetti, la batteria di Steve Shelley, corde di ricambio e quasi mille magliette. Il valore del materiale sottratto è stimato in circa 70 mila dollari. Non si tratta tanto del valore, quanto del fatto che le chitarre, modificate e preparate per suonare determinate canzoni, sono difficilmente sostituibili per i loro titolari e inservibili per qualunque altra band. «È buffo, ma potevamo usarle solo noi». Tra questi strumenti c’era anche la famosa chitarra che Thurston aveva suonato la prima sera a casa di Kim. Per il gruppo eseguire i vecchi pezzi ora diventa difficilissimo, senza gli strumenti con cui sono stati scritti e registrati. I fantasmi di N ew York

Il quartetto aveva già registrato due brani del nuovo album per la Geffen prima del furto della strumentazione. Quando riprende a lavorare sul disco, per dirla con le parole di David Browne «non ha scelta se non quella di ripensare da capo il proprio approccio alla musica». Il risultato, NYC Ghost and Flowers, è in parte un ripensamento della propria esperienza. Una sorta di anno zero per i Sonic Youth, che senza le loro abituali chitarre si trovano a tentare sonorità rumoristiche inedite (la conclusiva Lightnin’)

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e ad allontanarsi dalla forma canzone; anche la batteria di Steve Shelley, abitualmente il più solido elemento rock del sound Sonic Youth, scandisce metri più imprevedibili. È come se dalla disillusione di Dirty, l’album che non aveva aperto le porte del grande successo, fosse partito un percorso inverso rispetto a quello che li aveva portati fino alle major. L’uso del recitativo al posto del canto si può spiegare in diversi modi: NYC Ghost and Flowers è una sorta di elegia di New York, un album ispirato ai poeti della Grande Mela e allo spirito di una città che la modernità ha cancellato; si tratta di un meditato ritorno alle origini, ai tempi del primo EP; infine, i Sonic Youth si sono lasciati permeare dalle forme di quel post-rock di cui loro stessi sono stati precursori – e sotto questo aspetto la presenza di Jim O’Rourke al basso e alla consolle è assolutamente emblematica. Una spiegazione non esclude l’altra, se è vero che Renegade Princess riecheggia il Patti Smith Group quanto in Small Flowers Crack Concrete gli Slint e la genia di Louisville. «Per i gruppi post-rock» scriveva Simon Reynolds «l’idea concepita dai Sonic Youth di “reinventare la chitarra” significa “derockizzarla”»; orientati a timbri e textures sin dall’inizio della loro carriera, dopo averli impiantati nella canzone rock, gli stessi Sonic Youth sono ritornati a svilupparli in forma più libera. Bollato come pretenzioso e spesso sottovalutato, NYC Ghosts and Flowers ha almeno un pezzo, Free City Rhymes, che vale tutto il prezzo del biglietto, ed è il lavoro più coraggioso dell’ultima parte della loro carriera, almeno in termini di sfida sonora. Ma la svolta “post” si esaurisce qui. F ine di du e storie

Con l’ingresso in pianta stabile di Jim O’Rourke, il polistrumentista si occupa del basso, lasciando quindi che Kim Gordon passi in via praticamente definitiva alla chitarra. Cerca di sorprendere anche Murray Street (2002); solo, prova a farlo con le canzoni, recuperando, al contrario, i riff di classic rock, il jingle-jangle di The Empty Page, gli arpeggi folk-rock di Rain on Tin – il cui micro assolo di chitarra sembra il più tradizionalmente rock di tutto il catalogo dei sonici -, gli accordi aperti e le distorsioni psichedeliche di Karen Revisited – che traccia pure qualche vaga assonanza con i R.E.M –, il boogie rollingstoniano di Radical Adults Lick Godhead Style. Il tutto ha un sapore vagamente inquietante, se pensiamo che il rovesciamento di prospettiva è anche il frutto di quello che ha vissuto la band dopo l’11 settembre. Il successivo Sonic Nurse (2004) è un altro album di canzoni prevalentemente

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melodiche. I suoni sono meno connotati “alla Sonic Youth” rispetto al passato, e le chitarre un po’ più convenzionali, pure se meno apertamente classic che in Murray Street. Anche se non rinverdisce i fasti di Daydream Nation, la scrittura fluida e articolata di Dripping Dream e Stones - pezzi che superano i sette minuti – sembra ispirarsi proprio al periodo della maturità. Come modello compositivo, i sonici guardano a se stessi e richiamano il rock urbano dei loro ispiratori Velvet Underground e Television (a dire il vero, New Hampshire ricorda il krautrock dei primi Neu!). Rather Ripped (2006), registrato di nuovo dal quartetto storico, è uno scintillante disco pop, che condensa le ricerche dei tardi anni ‘90 in canzoni lineari. È la stessa cosa che aveva fatto Dirty rispetto alle intuizioni dei tardi anni ‘80. Alcune song – Reena, Incinerate – sono tra le più immediate dei Sonic Youth. Lo stesso anno esce la raccolta di B-Sides The Destroyed Room, che chiude il contratto con la Geffen. L’anno dopo, oltre al nuovo album, il gruppo, con l’aggiunta di Mark Ibold al basso, porta in concerto l’intero Daydream Nation. Lasciata la Geffen la band si accasa presso la Matador e pubblica The Eternal (2009), in cui riscopre il noise rock melodico in una versione leggermente più lo-fi e stralunata di quella dei tempi d’oro (Sacred Trickster, Anti-Orgasm, Antenna, Poison Arrow). È una sorta di gemello sporco di Rather Ripped, che mostra il genuino sforzo di eludere la trappola del manierismo. All’uscita nessuno si aspetta ancora che sarà l’ultimo LP in studio dei Sonic Youth. Lo diventa nell’ottobre del 2011 quando la notizia del divorzio di Thurston Moore e Kim Gordon è ormai di dominio pubblico. Qualche mese più tardi è Kim a spiegare in un’intervista i motivi della separazione, dovuta a una relazione che Thurston aveva da tempo con un’altra donna. La colonna sonora di Simon Werner a Disparu (2010) e il live Smart Bar Chicago (2011), registrazione di un concerto del 1985, diventano i capitoli conclusivi di una delle più appassionanti storie discografiche degli ultimi trent’anni di musica. Nessuna frase riassume meglio il signficato e l’importanza dei Sonic Youth nella storia della musica rock delle parole del loro ex discografico Gerard Cosloy: «I Sonic Youth hanno contribuito a creare il contesto in cui ci muoviamo oggi […] Se hanno influenzato qualcuno, lo hanno fatto insegnando a essere se stessi, e non uguali a loro. E hanno creato un ambiente in cui persone che suonano musica più strana della loro può avere occasione di suonare di fronte a più di dieci persone. È una cosa fantastica. Di questo possono essere orgogliosi».

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T h urston goes solo… anzi no

Al di là di una serie infinita di collaborazioni, gli album solisti a firma Thurston Moore si contano per ora sulle dita di una mano. Dopo Psychic Hearts del 1995, bisogna arrivare al 2010 per vedere pubblicato Trees Outside the Academy. Registrato nello studio casalingo di J Mascis, l’album vede il nostro affiancato da Steve Shelley – come per Psychic Hearts – e dalla violinista Samara Lubelsky, e contiene molta più chitarra acustica che distorsione, svelando per la prima volta il Nostro nelle vesti inedite di cantautore. Demolished Thoughts (2011), prodotto da Beck, è ancora più brillante e convincente, con le sue atmosfere stratificate e, allo stesso tempo, rarefatte. Le armonie folk rock Benediction, Circulation, Blood Never Lies lo innalzano subito in vetta alla produzione solistica dell’ex Sonic Youth. Se qualcuno si aspetta che dal vivo Moore suoni la chitarra acustica in modo classco e ovattato, i suoi concerti lo smentiscono senza appello. L’intensità è la stessa. Nel 2012 Moore esce allo scoperto e mescola le carte con un nuovo progetto, un quartetto che ricorda molto più da vicino i Sonic Youth. L’album omonimo del 2013 è un mix di punk, spoken word, rumorismo, rock and roll dissonante e hard rock. In Burroughs Moore sembra rifare inconsciamente la vecchia Hey Joni dei Sonic Youth, altrove riscopre i riff heavy blues e ritorna per un attimo il giovane musicista arty con un debole per l’hardcore punk. Un ritorno alle origini che non nasconde una certa nostalgia? Di sicuro le ultime evoluzioni lasciano tutte le strade aperte. Vedremo quali, il Nostro, deciderà di percorrere.

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Genere: trap, rap, hiphop Tra i vari A$AP Mob portati al successo dal boom di A$AP Rocky, ecco comparire A$AP Ferg, designer di vestiti improvvisatosi rapper nel tentativo di capitalizzare l’attenzione ossessiva dei media sulla fortuanta crew di Harlem. Pur essendo noto più per i suoi outfit che per le sue skills al microfono, questo Trap Lord ha ricevuto una impressionante dose di hype, catalizzata da un singolo trascinante come Work e da una tracklist strategicamente messa in circolo per far bella mostra di collaborazioni con nomi leggendari come Bone Thugs-n-Harmony, Onyx e B-real. Le attese dei più fiduciosi vengono però largamente tradite e Trap Lord si rivela per il prodotto commerciale che è: un disco senz’altro ben confezionato ma di nessuna rilevanza artistica. Per di più alle rime poco efficaci di A$AP Ferg non sopperiscono, come avviene di solito in dischi questo tipo, neppure delle produzioni top quality, non contenendo neppure un beat capace di distinguersi dalla media del trap post-lexluger più formulaico. Dal canto suo A$AP Ferg sembra poco capace di dire qualcosa nel contesto del rap più stradaiolo, non avendo neppure la street cred di un personaggio come Waka Flocka Flame. Il suo estro appare più nei brani pop e spensierati come Shabba, dedicato al recupero ironico dell’artista dancehall Shabba Ranks, noto per il suo look originale e appariscente. Chissà che il prossimo disco non riesca a sbancare come colonna sonora delle spiagge 2014, ma questo,

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a parte una manciata di singoli, non riesce a regalare neppure un pò di sano divertimento. 5/10 Gianluca Carletti

Alessandro Romeo - Tesi di redenzione (New Model Label,2013) Genere: cantautori La canzone popolare italiana e gli chansonnier francesi incontrano lo scazzo naif di Bugo in Tesi di redenzione, primo full-length di Alessandro Romeo. Uno scarto dalla logica e dal senso comune, parabole dalla metrica imprevedibile dove l’osservazione delle piccole tragedie quotidiane si mescola a un immaginario bohémien, delicatamente ironico e genuino. L’atmosfera da bar parigino di Amantide, overture vicina allo Yann Tiersen più “cinematografico” e a un certo Paolo Conte, viene momentaneamente abbandonata in un La Casona – secondo brano del disco – che corre caracollante tra stacchi da cabaret e un’aura tragicomica che emoziona e diverte senza alcuna forzatura. Notevole la ballata Zoo, toccante nelle aperture, metafora di vita e reminiscenze di mattanza in un delirio onirico che ci riporta allo status di animali metropolitani, e la fischiettante Quando sono giù, dove rieccheggia il Bugo della prima ora. Si fa strada l’eclettismo alla Beck nella mescolanza di generi che intercorrono tra Karrina, allegro swing da sala da tè, e Siamo tutti stanchi, sorta di canto Inti-Illimano che sogna (e sognando, dimentica) una rivolta esausta e terribilmente attuale, ma la cui coda potrebbe fare da sottofondo musicale

recensi o ni

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A$AP Ferg - Trap Lord (RCA,2013)


a una qualsiasi balera emiliana. Non si perde di vista la tradizione d’oltralpe, che torna a farsi sentire in Puzza di pesce, canzone che risponde alla domanda: può davvero un ritornello recitare, funzionando, “è dalla testa che puzza il pesce”? Rallegra la risposta, positiva nel caso di Romeo. Disco accattivante questo Tesi di redenzione, dove un cantato figlio del De Gregori più dylaniano cede il passo, nei suoni, a trovate costantemente in bilico tra cantautorato lowfi e tradizione, contribuendo a fare di questo esordio sulla lunga distanza un lavoro piacevole e fresco, per un autore dotato di un naturale anticorpo verso la banalità e la retorica. 7/10

Alexandr Vatagin - Serza (Valeot,2013) Genere: contemporanea Sei anni di registrazioni tra un progetto parallelo e l’altro – principalmente Port Royal e Tupolev – confluiscono, per l’austriaco di origini ucraine Alexandr Vatagin, in un disco come Serza. Ovvero in un equilibrio ragionato tra contemporanea e ambient, sperimentazione ed elementi strumentali classici, trasposizione in musica di un titolo allusivo (“serzo” in russo, significa “cuore”, la “a” finale è una licenza voluta) e di un packaging elegantissimo e minimalista già di suo. Sembra di guardare attraverso il cristallo, negli otto brani di questo terzo disco solista di Vatagin (Valeot è l’esordio del 2006, Shards il secondo disco del 2009), tra trasparenze e suoni fragilissimi, bordi arrotondati e atmosfere impalpabili, sempre avvolti da una consistenza e una coerenza estetica che non sfociano mai in dispersione, nonostante i ricchi input strumentali. Un labirinto di strade strette ma senza vicoli ciechi, in cui i volumi e il silenzio hanno la stessa importanza (una Bows And Airplanes

Fabrizio Zampighi

Alice In Chains - The Devil Put Dinosaurs Here (Capitol,2013)

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Enrica Selvini

che tra arpeggi acustici di chitarra, disturbi elettronici sullo sfondo e cesure, costruisce un minimalismo soffuso e intrigante), certi crescendo free di batteria nascono da un pulsare spacey con aspirazioni industriali (Elbe), il post-rock diventa una faccenda privata e senza interlocutori chiassosi (Mantova). C’è una coesistenza armonica tra strumenti “canonici” (violoncello, pianoforte, chitarra, ecc..) quasi per nulla trattati e inserti elettronici che giocano a rimpiattino, un sostenersi a vicenda che esalta le tessiture e genera un ritmo cerebrale, inconscio, supposto, anche nei brani più ambientali (March Of The Dancing Barriers). Oltre a questo, in tutto il disco si respira grande pacatezza e una consapevolezza nel dosare i suoni che lascia piacevolmente stupiti. Ed è forse questo l’elemento centrale del lavoro. 7/10

Genere: rock, hardrock, grunge, alt Se agli Alice in Chains togli Layne Staley, che cosa rimane? La scrittura di Jerry Cantrell e le armonie vocali. Per questo Black Gives Way To Blue fu nel suo piccolo una sorpresa, poiché suonava in linea con le prove elettriche del quartetto di Seattle ma soprattutto conteneva canzoni più fresche di quanto gli scettici si potessero aspettare. Anche un brano non straordinario – ma con il gancio giusto – come Check My Brain era sufficiente a perpetrare per un attimo una sorta di piccolo inganno: nei duetti vocali il timbro di William DuVall, naturale o impostato che fosse, era abbastanza simile a quello di Layne da riportare la mente ai tempi di Dirt. In pratica un ottimo falso d’autore, in questo caso di un autore che falsifica se stesso. Altra

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Genere: rock Che soddisfazione cogliere un frutto dall’albero ed accorgersi che è bello maturo. Il quinto disco degli ormai ex-enfants prodiges inglesi, che dopo l’esordio folgorante hanno in qualche modo faticato a riproporsi con un album all’altezza delle loro vere potenzialità, centra finalmente il pallino rosso del bersaglio. Favourite Worst Nightmare, uscito sull’onda dell’entusiasmo del primo album e nel mezzo dello sciagurato periodo nu-rave, suonava rattoppato ed affrettato, mentre Humbug era più attento alla ricerca spasmodica di quel sound indie-heavy che a sfornare canzoni veramente memorabili. Per non parlare dell’ultimo, Suck It And See, che conteneva si piccole gemme indiscusse (Reckless Serenade, That’s Where You’re Wrong), ma nel complesso suonava sfilacciato, spaccato a metà tra ambizioni stoner – mai realizzate – e tentativi pop nella tradizione puramente Brit. Tutti i passi di una band che sapeva dove voleva andare, ma stava cercando i giusti mezzi per arrivarci. Ed arriviamo ad oggi, AM. Che sia l’acronimo della band, un’indicazione temporale oppure un’affermazione esistenziale, poco importa. Quel che conta è che questo nuovo lavoro suona diverso dai precedenti ma in qualche modo ha il sapore di un ritorno a casa, a quei testi impregnati di poesia urbana e romanticismo agrodolce ormai trademark di Alex Turner, a quelle percussioni ossessive e avvolgenti che hanno valso una reputazione a Matt Helders, alle melodie appiccicose e sature di chitarre galoppanti. Ma questa volta c’è qualcosa di più che un ritorno alle origini: l’aggressività di Whatever… è qualcosa che appartiene ai teenage years – nostri e loro – e quindi il focus è tutto sui groove, la sensualità cocky e il sound perfetto. Josh Homme dei QOTSA, qui nelle vesti di guest vocalist in One For The Road e Knee Socks nonché di padre spirituale, l’ha definito – propriamente – un ‘sexy after-midnight record’. La progressiva americanizzazione della band, vuoi per l’intesa con Homme, passando anche per l’estensivo tour americano al fianco dei Black Keys nel corso degli ultimi due anni, ha portato una boccata d’aria fresca nella vena dei quattro di Sheffield, che ritornano con un disco essenzialmente Brit nel sangue, ma abbastanza dosato per non sfigurare in entrambe le sponde dell’oceano. R U Mine?, primo pezzo a circolare già a partire dallo scorso anno, ne è probabilmente la testimonianza, con quell’incedere bluesy e quel chorus strappato ad un Marvin Gaye col giacchetto di pelle. Difficile resistere. Non solo testi sex-oriented, anche il crooning di Alex è diventato più rotondo, maturo, più vicino al suo role-model Scott Walker di quanto lo sia mai stato con i Last Shadow Puppets, pur mantenendo quell’incedere quasi rappato che lo contraddistingue. Ci aveva avvisato Alex, dicendo che AM suona come un beat di Dr.Dre, e sentendo i drum beats di Helders e il basso tenebroso di O’Malley, il paragone sembra tutto sommato calzante. Non che l’hip hop sia una novità nelle influenze del gruppo, basta riascoltare uno qualsiasi dei pezzi dell’esordio per accorgersi quanto la struttura hip hop abbia da sempre influenzato il modo di scrivere di Turner. Una svolta precisa e, possiamo dirlo, azzeccata, nell’economia di un disco del genere.

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Arctic Monkeys - AM (Domino,2013)


Do I Wanna Know?, dal groove quasi furtivo, suona come se volesse intrufolarsi di soppiatto nelle nostre gambe e farci battere il piedino, salendo poi all’altezza del bacino giusto in tempo per Arabella, col ritornello a-la Jack White sbarazzino, e le chitarre acide quanto basta per ricordare anche certi passaggi dei Foo Fighters. Occhi chiusi per la ballata morbidona che gli Arctic non si fanno mai mancare: No.1 Party Anthem, tra fantasmi Lennoniani e sing-along alla Albarn, è un vezzo che stavolta gli si perdona facilmente. C’è anche spazio per l’omaggio ai Velvet Underground di Sunday Morning con Mad Sounds (e Pete Thomas alla batteria), mentre il singolo Why’d You Only Call Me When You’re High? riprende bene le atmosfere notturne ed alcoliche che permeano tutto il disco. E che dire di I Wanna Be Yours, il cui testo è tratto da una poesia dell’inconfondibile poeta punk e leggenda John Cooper Clarke? Chiusura perfetta. Un gran bel ritorno, questo AM. L’istantanea di una band che, a spallate, si sta facendo largo tra i grandi classici dei nostri tempi, intelligente e furba quanto basta per saper piacere senza svendersi. Archiviati i brufoli e le sfuriate giovanili, questa è probabilmente la più bella sbronza mai presa in loro compagnia. 7.5/10

cosa è quando DuVall canta da solo; soltanto nelle armonie può reggere il gioco. The Devil Put Dinosaurs Here continua sulla stessa linea dell’album precedente. Hollow, Stone, Voices e la title-track, dove il quartetto di Seattle mescola acustico ed elettrico, la ballata acustica Scalpe, Low Ceiling, sono tutti buoni pezzi, ma venuto meno l’effetto “sorpresa” o comeback di sentire i nuovi Alice In Chains, convincono meno. Tutti continuano a ricalcare schemi di vecchie canzoni imparate a memoria vent’anni fa. Basta appena per raggiungere la sufficienza, non per uno scatto che a questo punto sarebbe stato anche difficile aspettarsi. 6/10 Tommaso Iannini

AlunaGeorge - Body Music (Island,2013) Genere: pop, electro, house, ukgarage_futuregarage, rnb Niente, dev’essere colpa di una specie di complesso di inferiorità, eppure ci sarà sempre l’ar-

tista inglese che ciclicamente proverà a scimmiottare uno dei generi più “yankee-made” in circolazione, ovvero l’r’n’b; inutile sottolineare che i risultati, solitamente, sono quasi sempre rovinosi. Ci hanno provato pure Aluna Francis e George Reid, in arte AlunaGeorge, che con il loro Body Music sembravano promettere una nuova fiammata all’insegna dell’”orgoglio garage” che tanto anima la scena pop-elettronica inglese degli ultimi anni; e invece no, nonostante la notevole prova data su uno dei migliori singoli dei colleghi Disclosure (White Noise, che aveva infatti alzato l’asticella dell’aspettativa), i nostri hanno voluto seguire una tradizione pop n’b storicamente fallimentare che ci ricorda progetti più o meno recenti come Lisa Maffia (So Solid Crew) o meteore teen-oriented come le Cleopatra. Nonostante in questi ultimi anni ci siano stati ottimi esempi di soul made in U.K. come Jessie Ware o Jamie Woon, in Body Music pesa mol-

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Luca Falzetti

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Dario Moroldo

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Annie - The AandR EP (Black Melody,2013) Genere: pop, mainstream, dance-pop, wave, 80s, synthpop

Torna la reginetta del pop nordico Annie. Il nuovo EP segue la moda delle indie-pop-girls Elliphant e Icona Pop, solo che la bionda che avevamo conosciuto con i featuring vocali sui dischi dei Röyksopp non può fare la cattiva ragazza e quindi si adatta ad ammiccare un pop debordante, ovviamente ascoltabile, una brutta copia intermittente degli ultimi e indecisi pezzi di Miss Kittin (Invisible). La personalità che ci aveva intrigato nello scorso full Don’t Stop (e che con l’esordio Anniemal era stata accolta con la ola dai più influenti critici on line), oggi sembra essere scomparsa. Sarà l’età, saranno le collaborazioni mainstream (la più recente nel disco di Ralph Myerz), ma la vocina fru fru glaciale non sorprende più e non accende nemmeno una sparuta miccia di interesse. Per la cronaca il disco è stato prodotto – bene – da Richard X (Sugababes, Kelis), ma l’unico singolo da segnalare (solo per il titolo) è Ralph Macchio. Per il resto prescindibilissimo. La possibilità di far incontrare indie e dance è per ora in stand by. 5/10 Marco Braggion

Au Revoir Simone - Move In Spectrums (Moshi Moshi,2013) Genere: synthpop Se quella della tronica intellettualoide, possibilmente ballabile, adagiata su una cupa riflessività endogena, sia la strada giusta da percorrere in quel di New York City e in quel tempio hipster che è Williamsburg, sarà il tempo a dircelo. Per ora, le tre ninfe della Grande Mela, chiamate Au Revoir Simone (dal Pee Wee di un inglesissimo Tim Burton) arrivano al quarto album senza troppi scossoni, ma confermando

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to il tentativo di replicare stilemi e mood vocali ormai superati e non dissimili da un certo r’n’b a stelle e strisce ‘so 90s’; il fatto non trascurabile che però rende vincenti le suddette proposte è soprattutto la produzione musicale su cui vengono appoggiate le voci, e tocca ammettere che in Body Music la musica è spesso un riempitivo di scarsa inventiva fatto di scopiazzamenti da Julio Bashmore (Kaleidoscope, Diner, Just A Touch) e vaneggiamenti garage all’insegna del vocal pitch che richiamano alla mente il sound di artisti come SBTRKT o Four Tet (Body Music, Bad Idea, Attracting Flies). In generale, il feeling è spesso statico, melenso e non si muove dalla formula della ballata prettamente mid-tempo. La vocina infantile e monocorde di Aluna non aiuta; il suo è il classico timbro che alla lunga stanca, così sospeso tra l’imitazione di Janet Jackson fuori tempo massimo e l’iperleggerezza pop degli Aqua. Esemplificative, in questo senso, tracce come Outlines, Superstar o Friends To Lovers, che da un lato rimandano a vecchie glorie come le TLC e dall’altro alla vacua vocalità di girl-band come le All Saints. Gli episodi più riusciti sono invece quelli che emanano maggior “inglesità”, ed è così che anche in Body Music c’è spazio per il revival garage U.K. di Lost And Found o la frivolezza vocale alla Lily Allen questa volta ben contestualizzata in Best Be Believing. Se dovessimo coniare un “nuovo” genere musicale pensando alla musica degli AlunaGeorge potremmo azzardare con lo “step n’b”, ma ce ne sarebbe davvero bisogno? 5/10


Genere: psych, stoner Arrivano al secondo disco i Blaak Heat Shujaa, trio dedito a uno psychstoner capace di sintetizzare le tendenze etno-mistiche in voga oggigiorno con un ‘hard-stoner che spazia dai riffoni ‘70s dei Black Sabbath ai peyote del deserto 90s. E’ stata un’ascesa rapida quella dei tre parigini, iniziata con debutto omonimo firmato nel 2010 che si avvaleva già della presenza dell’ex Kyuss Scott Reeder in cabina di regia, e continuata con il trasferimento in California ancora sotto l’ala protettiva di Reeder, che ha gentilmente concesso il suo ranch nel deserto per le registrazioni di questo nuovo lavoro. In più l’influsso di nuove conoscenze maturate per strada e qui rappresentate dall’ospitata di uno dei fratellini Fatso Jetson, Mario Lalli, e da quella dello scrittore/poeta Ron Whitehead. Sono litanie quelle contenute in The Edge of an era, la chiusa di un cerchio su una spiritualità heavy che sta esattamente in mezzo al lavoro di Al Cisnerus, tra la potenza degli Sleep e le liturgie a marchio Om. Pronti via troviamo The obscurantist Field e Shadows a marcare subito il territorio con le chitarre che svolazzano in arpeggi mediorientali e riffoni psichedelici mentre sotto basso e batteria costruiscono impalcature desertiche al solito acide e velenose. Poi spazio all’hard minaccioso e rivoluzionario di Society of Barricades e alla più eterea Pelham Blue, momento di calma prima di ripiombare nel misticismo di Lands of freaks, home of the brave, con un basso cupo a dettare i tempi laddove le chitarre tornano a fuzzare con trascendenza, in un continuo scambio oriente/ occidente mai così naturale. Insomma pur restando aggrappato a mondi difformi c’è equilibrio e compattezza, rendendo scontato il lieto fine: The Edge Of An Era lancia i Blaak Heat Shujaa tra le figure di spicco del genere e si pone come uno dei dischi stoner più interessanti del 2013. 7.4/10

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Blaak Heat Shujaa - The Edge of an Era (Tee Pee,2013)

Stefano Gaz

una certa abilità indie-dream-pop, capace di generare le giuste atmosfere scintillanti che il genere richiede. L’acclamato Still Night, Still Light risale ormai al 2009 e il silenzio di quattro anni ha portato poche, ma significative novità nella band: innanzitutto una signora laurea in biologia della D’Angelo, che ha significato in dilatarsi delle tempistiche e un pizzico di maturità in più; un’esperienza solista di Erika Foster che per l’occasione si è ribattezzata Erika Spring (come se ci fosse bisogno di calcare la mano sulla stagione pre-raffaelita per eccellenza); la

produzione di un disco, Move In Spectrums affidata a Jorge Elbrecht di quei Violins, che tengono alta una certa tradizione psichedelica in NYC. E in effetti, quello che fa drizzare d’impatto le orecchie di Move In Spectrums è la gestione del tempo e del ritmo, allungato spesso fino alla disperazione, con le voci delle tre reginette che si sovrappongono, s’incrociano e si ribattono soavemente. Sembra di dare ascolto, in alcuni tratti (More Than, We Both Know e soprattutto Boiling Point) ad alcune uscite storiche di 4AD, in particolare Cocteau Twins e Dead

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Genere: ukgarage_futuregarage Ne abbiamo parlato con Pinch, lo abbiamo sentito nei ritornelli della freschissima triade Visionist, Beneath e Wen (“The new wave coming through”) e nei dj set di LV, ne abbiamo tenuto traccia nelle due compile chiave del 2013, This Is How We Roll e Tectonic Plates Volume 4 (e indietro l’altrettanto imprescindibile volume 2), e pare che Kode9, più che ricalcare l’abusata tag New Wave, già usata per declinare house, garage e techno nell’ultimo triennio, abbia già trovato l’etichetta che farà, forse, il giro delle riviste specializzate, post-garage. Blow Up già la sua, noi la facciamo nostra da ora. Il cuore della faccenda pulsa a 130bpm, i contorni sono quelli di un ritorno-superamento del momento in cui la dark-garage si trasformò in Dubstep grazie alla DMZ, di ritrovate freschezze 2 step attraverso il purple sound di Joker e più recentemente del bristoliano Guido, il tutto mosso da certa uk funk (Ikonika e LV) e un ancora forte interesse per la palette d’uggiose umoralità tastieristiche dell’IDM (magari in risposta a una sbornia di 70s cosmici). Tra i movimenti della crosta non manca di certo il grime, magari ripensato sui dischi Uk garage primi 2000, e il tutto ruota attorno a uno scenario di rinnovato interesse per una scena che ferma non è mai stata (vedi anche uno come Kahn sulle connotazioni più legate alla dubstep). In questo quadro, prendiamo dal mazzo 2 uscite lunge a sintetizzare il fermento tra la Keysound di Dusk and Blackdown e la Hyperdub del solito Kode9: la producer del Merseyside ma di stanza a Londra E.M.M.A.con Blue Gardens sulla prima e Walton da Manchester con Beyond sulla seconda. In entrambi i casi parliamo d’artigianato UK fresco e dinamico, stepping curato, angolazioni che in E.M.M.A. già mostrano una certa personalità compositiva e senso dell’insieme. Giochi di synth debitori di Uk Funky e purple sound ma senz’altro virati su tinte nostalgiche, melanconiche e anche barocche in un continuo oscillare tra sole e piggia, grigiore e sentimento. In pratica, E.M.M.A.potrebbe essere la risposta post-garage a Ikonika, mentre per quanto riguarda il ventiduenne Walton azzardiamo un superamento della future garage. Quel che conta è che i due si specchiano nelle rispettive sessualità, lo ying e lo yang dello stepping 2013. Energetica lei, duttile, felpato e maschio lui. Nei solchi del mancuniano ritroviamo il purple sound, della legnosa 2 step e trasversali tinture housey r’n’b che vanno da Jamie Woon, Cooly G a Jessy Lanza, stoccate grime, e ancora 4/4 house come garage o piano-house, remembranze 90s, acid, bass. Di tutto e grazie a una produzione tattile, afosa, molto rotonda. Lui dice che è Just vibe e parla di un disco di contrasti tra luce e oscurità. E’ proprio quello che notavamo nel disco di E.M.M.A. 7.2/10 Edoardo Bridda

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E.M.M.A. - Blue Gardens (Keysound,2013) Walton Beyond – (Hyperdub Records)


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Nino Ciglio

Babyshambles - Sequel To The Prequel (Parlophone,2013) Genere: rock, indie Riprendono da dove avevano lasciato sei anni fa i Babyshambles, lontani dalla vibrante baraonda – dove però si respirava vitalità – di Down In Albion, di nuovo in studio con Stephen Street e con l’ex-Libertines Peter Doherty stavolta a dividersi i compiti di scrittura con i fedelissimi Drew McConnell e Mick Whitnall. Se Shotter’s Nation aveva spostato l’attenzione dal punk degli esordi ad un pop’n’roll pulito e strutturato, Sequel To The Prequel continua il discorso, mantenendo il taglio formale e tingendosi di volta in volta di sfumature pastorali, figlie dell’esperienza solista di Grace/ Wasteland (Fall From Grace, appunto), i soliti appunti ska a-la Specials di Dr.No, atmosfere da literary cafe’ parigino e chitarrismi alla Gra-

ham Coxon (Maybelline). Musicalmente poco o niente quindi è cambiato, se non che la penna di Doherty ha preso una svolta più ottimista e solare, ma anche progressivamente più pigra. E pensare che c’è stato un tempo in cui Peter scriveva canzoni a raffica, ed alcune davvero molto belle. Lontani, lontanissimi anni passati fra turbolenze mediatiche ed esistenziali, nei quali entrava ed usciva continuamente dagli studi di registrazione, oltre che di galera, che veniva scaricato dalla sua band ed in un batter d’occhio si ripresentava con un gruppo tutto nuovo, che pareva un poeta maledetto un giorno ed un tossico miserabile quello seguente, tra mille guerrilla-gig, sempre all’insegna della più totale confusione. Ora che le luci si sono da tempo spente, che la calma è quasi piatta, nel susseguirsi dei giorni nei bistro parigini ritroviamo un Doherty decisamente lontano dal suo picco creativo, privo degli slanci euforici che lo hanno reso celebre – salvati i primi cento secondi di Fireman – ma sopratutto privo di nuovi numeri da mettere accanto alle glorie passate, senza che il confronto sia impietoso. E allora via di pilota automatico, con il singolo Nothing Comes To Nothing, la bella prova vocale di Farmer’s Daughter e poco altro di memorabile. I versi iniziali “It’s breakfast time/have a pot of wine/sucking on a bone/chewing on a microphone” sono ottimi, ma è tutto qui, perché il resto del materiale non affonda mai il tiro, suona addomesticato e a tratti stanco. Gli archi di Picture Me In A Hospital risultano un addobbo grazioso quanto inutile ai fini degli arrangiamenti, che nella loro linearità finiscono troppo spesso per annoiare. La pulizia eccessiva portata da Street in fase di produzione non fa poi che ovattare ulteriormente l’entusiasmo, uno dei tratti forse più distintivi ed interessanti dei Babyshambles, che ad oggi risulta assente. Un ritorno timido, come detto, ma ordinato e

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Can Dance; ma sugli stessi titoli si può aggiungere o mandare in dissolvenza il film teutonico dei ricordi Morr Music di Lali Puna (Crazy, Gravitron) e Notwist (Love You Don’t Know Me, Hand Over Hand). Il clima di cupezza quasi vittoriana (che pure si continua a far preferire, se non altro perché rappresenta la novità del disco) si stempera sui propulsori scintillanti di alcune perle pop che se da una parte sono più legate al repertorio tradizionale della band, dall’altra disegnano le boccate d’ossigeno e la risalita in superficie di questo viaggio: The Lead Is Galopping, Just Like a Tree e Somebody Who. Se alla vigilia del disco e subito dopo Still Night… persistevano ancora dubbi sulla sostanza e sulla forgia del trio, Move In Spectrums ha l’oneroso compito di sgomberare il campo e i fantasmi della superficialità dalla testa degli ascoltatori. Ci riesce, pur senza andare troppo oltre. 6.8/10

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sopratutto onesto. Onesto negli intenti e saltuariamente nei risultati, questo almeno va concesso a Peter. Eppure questo disco non basta al Nostro per tornare sul trono d’Albione, lasciandolo invece, ancora una volta, costretto a inseguire, a ripartire da zero. E pensare che basterebbe una telefonata a Carlos. 5.1/10 Luca Falzetti

Genere: pop, alt, indie, shoegaze, dream Superata agevolmente la prima prova con Lights Out, la ex-studentessa Alice Costelloe e il fu maestro Kacey Underwood ritornano con il secondo album, June Gloom, dimostrando di aver fatto netti passi avanti nel lavoro compositivo. Di certo gli innesti di batteria e basso hanno dato più colore al suono (e la scelta cromatica della copertina può essere un segnale), il quale rispetto al disco precedente vanta di una maggiore acidità visiva, a tratti in grado di ricreare suggestioni piuttosto inquietanti. La bontà eterea che in Lights Out nasceva dall’incrocio tra la sensualità vocale di Alice ed i riverberi delle sole chitarre, in June Gloom è assottigliata e sporcata da distorsioni gaze e da una sezione ritmica dozzinale ma comunque funzionale. Le dilatazioni della prima traccia Golden Light sono una sorta di bandiera delle nuove inclinazioni shoegaze: i Big Deal infatti sembrano apprezzare sempre di più la distorsione – anche se le melodie indie pop-rock sono ancora protagoniste – e non mancano neanche spunti più aggressivi come le ottime le prove iniettate di noise (Teradactol) alla Sleigh Bells e le infatuazioni grunge (In Your Car) alla Pixies. Si possono inoltre cogliere sezioni chitarristiche che rimandano agli Yuck, quel sapore rock alla Veronica Falls e lontane magie melodiche alla The Pains Of Being Pure At Heart. I Big

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Alessandro Rabitti

Bill Callahan - Dream River (Drag City,2013) Genere: pop, rock Alla valanga di album che hanno caratterizzato la carriera dell’ex-Smog Bill Callahan mancava certo la svolta dub. È quello che avranno pensato i fan alle prese con le prime indiscrezioni relative all’uscita di Dream River, quinto album a nome Callahan, ma diciottesimo se si contano quelli licenziati con il moniker Smog. In realtà la svolta dub è solo una trovata pubblicitaria e l’album si riposiziona fra le odi al solipsismo a cui il cantautore del Maryland ci ha abituato. Diventato ormai simbolo del cantautorato lo fi e del malinconico picchettato sulla sei corde, Callahan sembra riuscire ancora a smuovere animi e testa. La formula rimane invariata: distese sterminate di paesaggio interiorizzato

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settembre

Big Deal - June Gloom (EMI,2013)

Deal si sono concentrati maggiormente su un certo edonismo del loro sound, e infatti se da un lato June Gloom è tecnicamente superiore nel montaggio dei suoni, dall’altro, rispetto a Lights Out, perde leggermente quella potenza emotiva che la voce di Alice – qui spesso in primo piano – riusciva ad emanare in passato (Cool Like Hurt, Pi). Ci sono momenti sinceramente edulcorati: la lentezza struggente di Close Your Eyes o la dolcezza di Pristine sono piccoli scossoni per il cuore, mentre Pillow – soporifera, titolo azzeccato – risulta essere forse l’anello debole del lotto. In sostanza il disco numero due dei Big Deal piace non solo perchè Alice ha una voce calda, diretta, intensa e che fa innamorare, ma anche perchè la band non si è seduta su quello che aveva già realizzato in precedenza, trovando una propria strada evolutiva distintiva e a conti fatti riconoscibile. 7.2/10


Genere: folk, jazz, latin Gerardo Balestrieri è un pesce di molti mari che ha imparato a camminare sulle terre più sperse, cogliendo i frutti dolci dei crocicchi scuri, guardando il mondo dagli oblò di canzoni popolari che raccontano il trottolare eterno degli incantesimi collettivi. Diversamente dal teatral/circense Capossela, la sua dimensione è la balera, la piazza, la festa danzereccia insomma, dove tutto accade all’ombra di una luminosa rappresentazione. Il suo quarto album Quizàs – col quale tenta di nuovo l’assalto al Tenco dopo due piazzamenti d’onore – è un crogiolo di affetti sonori, un delirio lucido di impasti stilistici, linguistici e compositivi, una sarabanda di cover allestita estraendo dal sacchetto della tombola autori come Conte, De André, Waits, Carosone e Gardel, le cui composizioni si spalmano e si azzuffano in un parco giochi da guitto facinoroso. La dimensione della balera più archetipa che arcaica (archi, piano e fisarmonica, vedi soprattutto nella vibrante A media luz) si lascia marezzare di acidità desertica (come la graffiante Fimmene fimmene in coda a Bocca di rosa), a tratti persino surf (la title track), zompettando con estro swing tirato (la Via con me saldata a Tu vuò fa l’americano) o addirittura svalvolando con frenesia punk (il ritornello di una peraltro affettuosa Rosamunda). C’è poi la festa mariachi di Magnana, l’oriente più o meno balcanico di Mousourlou, i balcani western della travolgente Tutti i frutti, il french touch malandrino di Les oubliettes, i Calexico spaesati di Piranta e una Perduto amore che districa agra fragranza beat, per non dire del Waits primi anni Ottanta masticato con devota disinvoltura in Jockey Full Of Bourbon e In The Neighborood. Parafrasando l’amatissimo Conte – di cui ci offre una eccellente rilettura di Alle prese con una verde milonga – questo disco sembra lo spettacolo d’arte varia d’uno innamorato della musica fatta per dinoccolare anche, narrare pance, irretire ricci, circumnavigare amori e dissapori. Quel mistero sotto gli occhi di tutti. Quella saggia dolce imprendibile puttana. 7.4/10 Stefano Solventi

si fondono col suono dell’anima nella prima parte del disco. Che siano gli archi della ballata country The Sing o i fiati western di Javelin Unlanding, Callahan riesce sempre a tessere atmosfere non banali, servendosi di un ricco bagaglio che parte dagli standard della tradizione e si schianta con il cantautorato avantgarde. Da Summer Painter in giù, poi, fanno capolino una manciata di trucchetti rumoristici, movimenti metronimici, liriche più movi-

mentate, declamate, al solito, col fare baritonale e monocorde che l’ha sempre caratterizzato. Comparendo di frequente in un ambiente che l’ha paragonato a Daniel Johnston, Nick Drake e altri cantautori trasversali, Callahan ha probabilmente interiorizzato un’esperienza di songwriting meno hype, ma tremendamente coinvolgente, volgendo lo sguardo ad artisti come Kath Bloom o Chris Knox. Smorzati gli eccessi, Dream River rimane un

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Gerardo Balestrieri - Quizàs (Egea,2013)


Genere: techno Il viaggio alla riscoperta della purezza, dell’essenzialità, della linearità, della compostezza apollinea dell’elettronica senza aggettivi della primissima techno (intesa più come paradigma estetico che come fenomeno storico e corpus di musiche) continua per Marco/UXO con questo terzo lavoro a nome HDADD, che dei precedenti è il figlio-gigante e il compimento utopico (e che proprio per questo non ne possiede la stessa ispida acerba incisività). Un lavoro che richiede un respriro disteso (sono 23 brani e 71 minuti), che dribbla la dispersività invitando all’ascolto immersivo, come si trattasse di un unico trip kosmische, e che ripaga questa dedizione qualificandosi come un’opera neoclassica e di sintesi, in un momento di grandi marmellate contaminative che cercano nuove vie per smarcarsi dalle direttrici delle musiche ritmiche degli ultimi anni: wonky, dubstep, footwork, trap, massimalismo, fusion elettronica, vintageologia 80s, smaterializzazioni varie, ritorno alla techno e all’electro. Marco si piazza al centro di quest’ultimo discorso ma – come dire – one of a kind, se è vero come è vero che questo Mondo Mzk riesce a suonare liscio e compatto come un corpo unico – esaltato da un missaggio pulito e brillante, perfettamente introdotto dai visual impiegati nei promo – pur mettendo assieme tanti riferimenti diversi, e anzi proprio spiegando come questi siano le diverse facce dello stesso solido. “Bozzetti pastorali venusiani” come avrebbe potuto farli Aphex Twin (Surface), oscillazioni Vangelisiane-Troniane (Broken Window), melmoso reggae solarizzato che annaspa nelle stesse fonti post-punk dell’urban industriale di Kevin Martin (Trapped, feat. Colossius), titoli sé-descrittivi che sono i punti in cui stingono gli uni negli altri i Burial Mix della Basic Channel e il già post-dubstep dei mix di Burial (BlackAndBlue, ma anche Cruel World). Una pulsazione, ora scandita da beat quadrati, ora retinata in rarefazioni spaziali, tutta attraversata da un afflato a suo modo mistico, sicuramente ascensionale, come un’anabasi domestica e artigiana. Un percorso visionario nella misura in cui sono questi gli esiti di una ricerca vera, forse anche un po’ autistica, in ogni caso lontana dalla cosmesi “del momento” – che non è “l’adesso”, ma una forma mentis – in cui pure si trova immersa (come la perla nel goloso untume dell’ostrica) e che pure sappiamo essere all’occorrenza assolutamente nelle corde del nostro (lo avevamo identificato come uno dei produttori migliori della scena “wonky” italiana, no?). Marco dice che è il suo lavoro migliore e probabilmente ha ragione; anche se, ripetiamo – giusto perché non si dica che non spacchiamo il capello in quattro e che ci perdiamo in pindariche e sperticate lodi – non il suo più incisivo. Immaginiamo pure quali parole userebbe lui per descrivere questo lavoro, solo apparentemente una boutade: soul e punk. Questa è roba per intenditori, palati fini, per chi non si ferma al primo anello della catena ma andando a ritroso riesce a procedere oltre, roba che all’ombra di una bandiera diversa o pompata dal magazine giusto (rigorosamente esterofilo, ma nel nostro caso au contraire), potrebbe fare sfracelli. E allora la mettiamo questa, per quanto diversissima, accanto alla perla di fiume – anzi, di lago – Voices from the Lake di Donato Dozzy e Neel. 7.5/10 Gabriele Marino

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HDADD - Mondo Mzk (Queenspectra,2013)


disco piacevole, senza pretese, in cui la natura diventa teatro di sfogo delle pressioni della vita e l’uomo torna, in otto episodi, a far parte della terra che l’ha generato. 7/10 Nino Ciglio

Genere: pop, art C’era da aspettarselo. Impegnatissimo nel rimissaggio di alcuni album storici di altri artisti (i primi lavori dei King Crimson, Aqualung e Thick As A Brick dei Jethro Tull, le imminenti ripubblicazioni di Close To The Edge degli Yes e di Nonsuch degli XTC) nonché con la propria carriera solista (The Raven That Refused To Sing è uscito qualche mese fa), Steven Wilson ha deciso di rimanere sullo sfondo, ancor più che nel precedente Welcome To My DNA. Pertanto è del suo amico e collaboratore Aviv Geffen – polistrumentista e cantautore israeliano che per l’ultimo suo EP, Mr Down And Mrs High, ha lavorato con due illustri produttori come Tony Visconti e Trevor Horn) – l’indubbia parte del leone in IV. E infatti è lui il produttore e il principale vocalist del nuovo episodio della carriera dei Blackfield, side-project che sta velocemente virando da un art-rock con leggere venature prog verso un pop d’atmosfera di facile presa, non terribilmente originale ma arrangiato con gusto, giocando sull’incontro-scontro tra melodie da carillon e soundscape avvolgenti (gli archi sono della London Session Orchestra), raffinati ma autunnali, nuvolosi, colonna sonora di ricordi sfarinati dal rimpianto. Sono sempre alti, i riferimenti di Aviv che vanno ancora una volta dai Pink Floyd allo spettro di John Lennon che aleggia delicato su Springtime e beffardo nel raro momento di grinta Kissed By The Devil, eppure c’è qualcosa che non va. Troppo spesso IV scivola via sen-

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Blackfield - IV (Kscope,2013)

za lasciarsi afferrare, in poco più di mezz’ora, gettando nella mischia gemme che omaggiano più o meno indirettamente il pop adulto di Jeff Lynne (il bel singolo Jupiter è una perla Adult Contemporary che farebbe bella figura in radio), il David Bowie più elegante e meno audace e gli Alan Parsons Project più composti insieme a materiale più blando, inoffensivo e prevedibile (Faking sa di b-side di Robbie Williams da lontano un chilometro). Meno male che, oltre ai pochi interventi vocali di Steven Wilson (che canta in Pills, la già citata Jupiter e Lost Souls), possiamo contare su tre ospiti d’onore: se Vincent Cavanagh degli Anathema non graffia, complice anche il testo banalotto e dolciastro di X-Ray, Brett Anderson dei Suede sfoggia una performance vocale che procede nervosa, intensa, lungo gli intricati chiaroscuri melodici di Firefly tra percussioni, tastiere, uno xilofono e un soffice letto d’archi. Jonathan Donahue dei Mercury Rev lascia il segno dialogando con l’arpa di Tali Glaser nella carezzevole The Only Fool Is Me, semplice e sentita, quasi di matrice McCartney. Non ci sono veri e propri tonfi, in questo IV (forse solo il dustep della conclusiva, brevissima After The Rain, sembra fuori posto), ma sono anche pochi i brani che davvero sembrano in grado di svettare. Certo, una Sense Of Insanity è piaciona al punto tale da poter conquistare il pubblico dei Coldplay e degli ultimi Take That senza troppa fatica, ma il guaio è che non è forse questo che si aspettavano i fan di Wilson e dei Blackfield. Leggero, piacevole quanto prescindibile, ben registrato (anche in 5.1) ma con poco carattere e una personalità appannata, IV si conferma un disco non brillante, più formulaico di quanto ci si sarebbe attesi, stanco, quasi da sottofondo. Poteva essere un temporale, e invece ha lasciato solo poche gocce sull’asfalto. Un compitino senza errori, cui però manca qualcosa: forse l’entusiasmo, forse


l’alchimia tra Wilson e Geffen che non funziona più, o più verosimilmente un songwriting che sia davvero identificabile. 6.2/10 Alessandro Liccardo

Genere: techno, idm Hanno sempre dichiarato il loro amore per Manuel Gottsching e naturalmente si riferivano soprattutto a E2-E4, all’album considerato dagli stessi originator dell’house come un illustre precursore (sentire per credere) nonché IL disco idolatrato trasversalmente da tutta la scena e, tra gli altri, dall’accoppiata Carl Craig (uno che sotto l’alias Psyche, con un brano come Elements, la miccia tutta brit dell’IDM l’ha praticamente accesa) e i mai troppo osannati (e ascoltati vien da pensare) Basic Channel (che remissarono Remake, che era a sua volta proprio una rilettura del famoso album del tedesco). Fin dall’EP Touched il campo esplorativo dei Nostri ha avuto molto a che fare sia con la cosmica psych tedesca e il suo lato più trance/ dance/etereo e romantico (e di lì tutto un corollario di cascami analogici e fraseggi, riverberi e circuiti che friggono, retrogusti esotici di percussioni), sia con tutta un’epopea d’utopie di primissima house e techno tra USA e un poco di UK. Così come un angolato gioco di sponda – ed era una conseguenza – regalava il lasciapassare del caso: quella post-glo che altro non era se non una balearica di ritorno (che dai fine Duemila porterà a Talabot e oltre) e, dunque, la più facile delle chiavi di lettura del debutto ufficiale Blondes, un disco imbalsamato nel corpo di una ambient deep “idmmata” che non rendeva pienamente giustizia all’omaggio craig-gottschinghiano né al bel trasporto che questo tipo di synthdelia è sempre stato in grado di trasmettere (se suonato con la dovuta

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Edoardo Bridda

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Blondes - Swisher (RVNG Intl.,2013)

ossessione). Il disco, poi, non solo di house e stili connessi era fatto (leggi italo, deep, garage, acid): alcuni laminati sintetici potevano tirare in ballo il solito loopismo à la The Field e quindi discorsi tech- e, dietro a quelli, studiati echi Ernestus e Oswaldi (il Basic Channel in b side), anche se il successo del progetto risiedeva nel matrimonio della sintetica con l’anima. Una psichedelia vissuta come estatico e albeggiante rilascio di MDMA. E non stupisce certo che quest’anno esca una risposta garage firmata da James Holden con The Inheritors. E che Sam Haar e Zach Steinman, in perfetta aderenza ai tempi (vedi anche il disco della label mate Stellar OM Source o il più hypato John Hopkins ma anche se vogliamo il nuovo Fuck Buttons) declinino il viaggio su un sentire techno nel nuovo Swisher. Il disco, già disponibile in streaming da giugno ma soltanto acquistabile in vinile da agosto, presenta richiami dub techno (e anche electro, kraut) molto più espliciti ma sa anche telegrafare messaggi tra Berlino e Detroit, innescare rush anthemici à la Richie Hawtin / Plastikman (quello Motor City resident chiramente) o slanci tech-acid o di genuina passione tra Juan Atkins e Craig in sognante autobahn prog house per Düsseldorf. Eppure niente facile trance qui, questo è un viaggio di coerenza psych. Swisher è lo specchio dark del debutto. In coppia con The Inheritors e Immunity (di sicuro una doppietta più autoriale e d’impatto), l’album, cerca una convergenza tra iniziati e praticanti di una techno soul fatta di devozione e trasporto. Il vinile è la chiave ma, anche in digitale, freschezza e gusto elettronico sono garantiti. 7.2/10


Genere: noise Ci sono sempre piaciuti quei dischi per cui ci vuole più tempo a scrivere la recensione che ad ascoltarli. Mahalo è uno di quelli e, in quanto tale, ci fa già simpatia a prescindere. Se poi aggiungiamo che i tre pugliesi Bogong In Action sommano una discografia che, giunta al quarto pezzo tra cd-r e vinili, non arriva alla mezz’ora di musica, allora i paragoni (concettuali) con gente del calibro di Locust o Arab On Radar vengono spontanei. E se in realtà i tre – insieme a Gaspare Sammartano dei Cannibal Movie ci sono le due chitarre di Aldo Orlando e Valerio Gamba – bazzicano altri lidi rispetto a quelli di filiazione hc dei citati Locust, l’ambientazione generale è limitrofa a quella degli Arab On Radar, con l’asse strutturale degli otto pezzi spostato verso una dimensione no-wave schizoide e furibonda, spigolosa e urticante, che fu di label come Skin Graft e Gravity e, per rimanere geograficamente in tema, dei mitici Bz Bz Eu o degli ormai disciolti But God Created Woman. Due chitarre chirurgiche e sfondate, una batteria pestona e dai ritmi sghembi, un cantato che è malattia e ossessione e che rimanda immediatamente alla New York del famoso No New York o a quella sboccata e sanguinante dei primi anni ‘90 il cui senso del tutto si otteneva solo con le spie al rosso e col disagio dell’ascoltatore. L’ultra-noise (de)generato dalla wave dei tre è nulla più, nulla meno di un calcio in bocca al buonsenso e al buongusto, registrato in consapevole “cessofonia” – un solo microfono panoramico per tutto l’ambaradan – con l’unica necessità estetica di vomitare fuori un suono che sia disgusto e disagio, ferocia e slabbratura. Obiettivo peraltro perfettamente centrato. Stesura della recensione: venti minuti; durata del

disco: sedici minuti. Hanno vinto loro, ma non avevamo dubbi. 7/10 Stefano Pifferi

Cavern Of Anti-Matter - Blood Drums (Grautag,2013) Genere: kraut Atmosfere grigie, ambientazioni post-urbane, ucronie (im)possibili, futuri distopici e retrofuturismo a go-go stanno alla base di questo Blood Drums, esordio targato Cavern Of AntiMatter. Nome che non dirà molto nemmeno agli addetti ai lavori data la sua natura estemporanea per questo specifico lavoro, ma a scavare nella line-up più di un orecchio dovrebbe drizzarsi. Il trio vede infatti ai synth (electronically treated, ci tengono a specificare) Holger Zapf mentre alla batteria (homogenised, come sopra) e alla chitarra Joe Dilworth e Tim Gane, rispettivamente primo batterista e chitarrista degli indimenticati Stereolab. Un lavoro lontano da quel mondo dato che si immerge totalmente nell’immaginario che la tedesca Grautag richiede per ogni sua pubblicazione: quello cioè di un mondo fatto di grigio anonimo e di civiltà spettrali o, per dirla con parole loro, “music celebrating the distopia landscapes of our globalised world”. In soldoni, Blood Drums è un ottimo lavoro in cui confluiscono lande kosmische alla ultimi Emeralds, quelli di Does It Look Like I’m Here? (che poi è come dire i tedeschi tutti di quel periodo lì) e, ancora, il kraut teutonico più motorik oriented (e i nomi sono di nuovo quelli lì della precedente parentesi) reso con estremo dinamismo delle forme – tratto caratterizzante tutta le esperienze targate Grautag –, mutevolezza continua e notevole varietà nell’alternare suoni “suonati” ad alterazioni elettroniche. Un lavoro tedesco, si sarà capito. Tedesco

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Bogong In Action - Mahalo (Lemming Records,2013)


Genere: pop I locali della Belle Époque erano un trionfo di specchi. Creavano illusioni di spazi(o), determinavano giochi di luci e riflessi, ed erano un elemento caratteristico dell’architettura Liberty del tempo. Il più celebre tra essi forse è il Maxim’s di Parigi, dove nel musical omonimo del 1958 una Gigi poco più che ragazza fa il suo debutto in società al fianco dello “zio” Gaston, sotto lo sguardo indagatore di tutti i presenti. Che cosa sentisse il cuore di quella giovanetta della Belle Époque mentre il brusio si fermava per meglio osservare, per non perdere il dettaglio rivelatore, è uno dei varchi d’ingresso che Julia Holter ha scelto per indagare la città, metafora della società e delle relazioni umane, in un gioco di specchi continuo tra oggi, ieri (gli anni Cinquanta dell’amato musical diretto per il grande schermo da Vincent Minnelli) e l’altro ieri (la Belle Époque riflessa negli specchi dei caffè). Solo qualche anno fa il tessuto social, contrapposto a quello sociale, non lo avremmo definito “rumoroso”, come invece si sente spinta a fare la giovane autrice californiana oggi. Gigi/Julia è il personaggio che fin dal 2011, epoca di transizione tra l’esordio Tragedy e il sophomore Ekstasis, ha preteso lo spazio. Una canzone sarebbe stata una limitazione alle possibili esplorazioni dell’immaginario estetico che ne scaturiva. Così eccoci a un’intero album pensato attorno alla Gigi/Julia che attraversa la città, che nel caso specifico è una Los Angeles tempio del cinema hollywoodiano, mai così adatta a riflettere la Parigi di fin de siècle. Fossimo negli anni Settanta avremmo già parlato di concept-album, ma siano oltre la frammentazione del post moderno (moltiplicata dagli specchi), per cui ci limitiamo a usare le parole della stessa Julia, che ha definito Loud City Songs “un insieme coerente di canzoni e non già una raccolta di brani”. World, in apertura, proietta tutto il materiale sonoro successivo esattamente in quella dimensione di sospensione che determina la scena del musical al Maxim’s, quella tumultuosa indagine dei sentimenti interiori così diversi dalla calma esteriore che la giovane Gigi contrappone allo sguardo dei galletti parigini. L’avessero girata oggi, quella scena, sarebbe un ralenti muto commentato musicalmente da una canzone fatta di pochi vocalizzi e qualche synth in un vuoto assordante. Rispetto allo scorso anno, Julia Holter ha potuto contare su di un vero studio di registrazione, con musicisti in carne ed ossa pronti a concretizzare i suoi desideri. Una situazione che ha reso possibile il bozzetto vaudeville/jazz sghembo che piacerà ai fratelli Friedberger e che è stato scelto anche come singolo (In The Green Wild) o la forza materica degli echi bristoliani (sponda Portishead) di Horns Surrunding Me e Hello Stranger. Tutto il disco è caratterizzato da una componente teatrale/cinematogafica non secondaria, così forte da far venire in mente altre giovanette dai sentimenti caotici che hanno calcato i palchi e sono apparse sullo schermo: dalla Audrey Hepburn protagonista di My Fair Lady (guarda caso musicata per Broadway e Hollywood dagli stessi autori di Gigi) all’ambigua oca giuliva Marilyn Monroe, che potrebbe addirittura sembrare un prototipo delle conseguenze della conversazione pubblica sulla sfera privata. Spesso paragonata a Laurie Anderson per la sua capacità di tenere insieme sonorità colte e decli-

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Julia Holter - Loud City Song (Domino,2013)


nazioni pop, in realtà Julia Holter si rivela con questo disco più un’animale istintuale puramente estetico. Un’estetica, ben inteso, tanto a fuoco che nei suoi giochi di specchi e nelle sue stratificazioni infinite è più pregnante di quanto a un primo ascolto non si potrebbe pensare. Loud City Song è un disco modellato sapientemente, coerente, dai contenuti mai banali, che ha il pregio di mostrare ancora una volta gli immensi spazi che il pop può ancora esplorare. Ma per farlo, il musicista – narciso – deve prendere le distanze dallo specchio in cui si ammira e far entrare nell’immagine anche il contesto, l’ambiente e la vita. 7.4/10

fino al midollo. Che ritrae perfettamente quel futuro distopico di cui la label tanto parla, giocandosela sul piano dell’architettura – lievemente più DDr che RTF –, tra pianali di grigio cementizio dal retrogusto marziale e ghirigori di alienante geometria post-industriale che racchiudono, di nuovo, tutto l’immaginario Grautag legato alla “musica in divenire” degli acoustic monuments. Che poi a ben vedere è proprio l’esatto passato per questa età di mezzo, post-industriale e iper-tecnologizzata – de-personalizzata e isolazionista – quanto il “kraut” – da intendersi come categoria sociomusicale totalizzante per indicare “quei tedeschi lì di quel periodo lì” – lo è per moltissime delle musiche più eccitanti, varie, di rottura, ecc. ecc. che siamo soliti incensare. E di cui i Cavern Of Anti-Matter, per estemporanei che siano, sono ottimi ed illuminati testimoni e, insieme, rappresentanti. 7.5/10 Stefano Pifferi

Chris Watson - In St. Cuthbert’s Time. The Sounds Of Lindisfarne And The Gospels (Touch Music UK,2013) Genere: fieldrecordings Introdotto da un artwork di una bellezza

abbacinante nella sua eleganza e semplicità – dopotutto un riconosciuto tratto caratteristico della Touch – In St. Cuthbert’s Time è la resa sonora di un ambizioso progetto attuato dall’ex Cabaret Voltaire e Hafler Trio Chris Watson. Ricostruire il suono del luogo in oggetto, l’isola sacra di Lindisfarne, o più esattamente, della abbazia dell’isola tidale, al tempo di San Cutberto di Northcumbria. Parliamo della fine del settimo secolo dopo Cristo perciò sarà evidente lo sforzo, sia dell’autore che dell’ascoltatore, per contestualizzare i field–recordings in una dimensione spazio-temporale a noi contemporanei totalmente ignota. Il lavorio di Watson è al solito “puro”, senza particolare ricorso alla astrazione o alla ricombinazione “forzata” dei suoni originari registrati sul campo, ma elaborati con un fine lavoro di cesello che crea un flusso sonoro ben amalgamato e visionario in cui i flutti del mare del Nord che collassano sulle rocce dell’isola, le folate di vento gelido e lo stormire di fronde, gli uccelli che gracchiano, se ascoltati con attenzione e zero distrazioni, riescono a rendere appieno l’idea di traslazione cui si viene sottoposti. Questo attento lavoro, quasi di field recording “filologico”, è finalizzato a rievocare, o me-

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Marco Boscolo


Genere: pop, art, indie Archy Marshall, classe 1994, è il ragazzino londinese che con i suoi bad friendsdi quartiere passeggia all’imbrunire tra le case di mattoni dello stesso colore dei suoi capelli e con il cappuccio in testa prima di chiudersi in qualche fumoso locale di fiducia, o un ragazzino frustrato, fragile e indifeso, forse oggetto di scherno per via della sua denutrita apparenza? Una faccia da schiaffi che allo stesso tempo fa tenerezza, un doppio ruolo in cui scorre – da ormai più di tre anni – la dialettica 100% british della sua musica, prima sotto il moniker Zoo Kid e poi a nome King Krule. C’è qualcosa di incredibilmente misterioso nelle linee vocali dall’accento cockney che, attraverso un percorso accidentato e decisamente impulsivo, si tramutano in un “crooneraggio” sbronzo: come può un teenager bianco riuscire a ricamare suggestioni che si potrebbero attribuire a qualche vecchio soul-man di colore che passa le giornate ai banconi dei bar? Poi ti concentri sul suo sguardo e capisci che tutto ciò scaturisce dalla sofferenza di chi – nonostante l’età – ha già vissuto parecchio. L’impressione – soprattutto dopo averlo visto dal vivo – è quella di essere di fronte a un ragazzo solitario – lo potete immaginare nella sua stanza ad ascoltare dischi dub, di Fela Kuti e Tom Waits, mentre allo specchio imita Gene Vincent - che ha trovato la propria strada solamente grazie alla musica e ai coetanei (altrettanto preparati, specialmente il batterista) compagni di avventura che formano quella che potremmo chiamare la King Krule Band. Messi da parte singoli brani d’impatto come Out Getting Ribs (Zoo Kid, 2010), The Noose of Jah City (dal King Krule EP del 2011), Rock Bottom (2012) eOctopus (2013), Archy si è concentrato sulla realizzazione di quello che è a tutti gli effetti il suo album di debutto, 6 Feet Beneath the Moon, dimostrandosi sicuramente coraggioso nell’escludere tre quarti dei brani sopracitati dalla tracklist. Un approccio quasi punk (tra Joe Strummer e Billy Bragg) placato dalla congiunzione di partiture vicine al jazz – sia a livello ritmico, sia nell’impostazione e nelle scale della chitarra – e narcotizzato da oscure atmosfere noir e da melodie che sembrano uscire dal contesto ritmico, per poi rientrarci in un secondo momento (in questo senso, una sorta di Mike Skinnerdel nuovo decennio). Contaminazione black+white (condivisa con i concittadini di Benin City) che tocca i suoi apici nelle tessiture delle “narco-chillerie” downtempo di Neptune Estate e Bathed In Grey, nell’indomabile funk-hop di A Lizard State, in alcuni passaggi lo-fi hypna/druggy da Hype Williams e nelle sue frequentazioni hip hop (Rejje Snow). Racconti di vita e violenza urbana in pseudo-spoken e stream of consciousness a ruota libera che sfuggono dal formato canzone (Ocean Bed), se non in Easy Easy, non per nulla scelta come brano di lancio del disco. O ancora lunghi monologhi chitarra+voce (Out Getting Rips) e situazioni sospese tra veglia e sonno. Qualcuno dirà che con una Octopus o una Rock Bottom, 6 Feet Beneath the Moon avrebbe potuto puntare ancora più in alto o fare di più, ma anche chi è in cerca di un ascolto disimpegnato – e di conseguenza girerà alla larga da questi lidi – non può rimanere indifferente al personaggio e all’universo testuale-sonoro che manipola e nel quale ci costringe ad immergerci. 7.3/10 Riccardo Zagaglia

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King Krule - 6 Feet Beneath the Moon (XL,2013)


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Classixx - Hanging Gardens (Innovative Leisure,2013) Genere: disco, nu Il disco d’esordio dei Classixx sembra fatto apposta per chi se l’è presa con Random Access Memories per il suo non essere tutto una Get Lucky. È, inoltre, un ottimo palliativo all’ascolto disimpegnato (ma, per quel che ci riguarda, compulsivo) dell’House Of Woo di Maxmillion Dunbar e una prima scelta quanto a serbatoio di potenziali singoli da compilation estiva (nel caso il prossimo Washed Out dovesse effettivamente abdicare al ruolo di fornitore di fiducia). La proposta di Michael David e Tyler Blake – resi celebri nel 2009 dal qui ripreso tormentone I’ll Get You e da tutta una serie di internet

remix per gente come Phoenix, Gossip e Major Lazer - parte infatti dai più bei Daft Punk di Discovery (Holding On), ne sovraccarica la mutuale ossessione per elettronica funky e disco ‘80 con la frivolezza ideologica dello “star bene” hipster-house e va, infine, a spiaggiarli assieme a tropical-pop (A Fax From The Beach), balearic (Dominoes) e chillwave nuda e cruda (Long Lost). Non ci sarebbe, dunque, nemmeno da stare a specificare quanto Hanging Gardens sia un album “da consumarsi preferibilmente entro”: è nella sua natura. Così come è nella sua natura il vivere di hook sfacciati (e quindi irresistibili, All You’re Waiting For) ma anche di cadute di coerenza (vediRhythm Santa Clara e Jozy’s Fire, fin troppo “deep” e quindi stonate rispetto al luminoso ed energico positivismo del resto della tracklist). Ma ci si metta pure che fra i tanti featuring (Nancy Whang degli LCD Soundsystem, Jesse Kivel dei Kisses, ecc.) spicca soltanto quello di Sarah Chernoff dei Superhumanoids (che se facesse trio coi nostri si chiamerebbero Saint Etienne): al beach party dei Classixx devi comunque 6.7/10

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glio, a ipotizzare una rievocazione del “sonic environment” in cui il vescovo di Lindisfarne Eadfrith scrisse e decorò i Vangeli di Lindisfarne, al tempo in cui il suo predecessore, il St Cuthbert che da titolo al tutto, era eremita sull’isola. Pensato proprio nel contesto della celebrazione dei suddetti Gospels del XII d.C., inaugurata nel luglio scorso a Durham – la città che sostituì Lindisfarne come sede vescovile dopo il devastante attacco dei vichinghi del 793 d.C. –, il lavoro di Watson si avvale di un sostegno teorico esposto nello splendido booklet da 24 pagine grazie anche all’intervento dei cattedratici David Petts e Fiona Gameson. Materiale preziosissimo per calarsi in un progetto tanto ambizioso quanto ottimamente riuscito e in grado di trasportare in un viaggio nello spazio e nel tempo, verso una dimensione “altra” ma atavicamente riconoscibile, chiunque decida di prestare del tempo – e molta attenzione – al risultato finale. Una esperienza che non deluderà. 7/10

Massimo Rancati

Colleen - The Weighing of the Heart (Second Language,2013) Genere: avant Cecile Schott scopre la voce. Come ogni scoperta di Colleen, anche questa avviene in grande stile. Il percorso di “asciugatura” e la totale dedizione per “lo” strumento, sia esso rinascimentale o co-presente alla natura umana dalle sue origini, vale anche per il nuovo lavoro. In The Weighing Of The Heart (così come in Les Ondes Silencieuses con la spinetta), è una questione di “pesatura” (weighing) del cuore, oggi tramite le corde vocali (tranne alcuni epi-

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Genere: dark, avant, folk Ne parlavamo pochi mesi fa dei Kinit Her, con l’ottimo 12” The Cavern Stanzas che segnava un bel passo in avanti nella carriera del duo americano. Ma se quel 12” rappresentava punto di passaggio verso una scrittura neofolk sempre più calibrata e spoglia di inutili virtuosismi il nuovo The poet And the blue flower, in uscita per l’italiana Avant! Records, segna un punto di arrivo. E’ il momento in cui intenzioni e risultato combaciano perfettamente, in cui la ricerca post romantica trova forma definitiva sia dal punto di vista concettuale che musicale. Gli ingredienti base non cambiano: spirito ancestrale, folk esoterico macinato nella ruota del post industrial, ispirazione letteraria che guarda ancora una volta al mondo tedesco, precisamente al poeta/filosofo Rudolf Pannwitz, e di nuovo troviamo il sodalizio con Giancarlo Martinucci per la cura dell’artwork dai chiari riferimenti metafisici. A migliorare è semplicemente l’equilibrio, la capacità di coniugare con grande padronanza fraseggi free avant come As old as day and night together e strutture più tradizionali che trovano il loro estremo in A dome Sorround, allargando l’orizzonte del suono con arrangiamenti sempre più orchestrali e ricchi di elementi, confermando quindi una ulteriore crescita per il duo, una maggiore sensibilità ora che la materia folk-ritualistica è assimilata alla perfezione. Se vogliamo dirla in altri termini The poet And the blue flower è la dimostrazione dell’anno di grazia dei Kinit Her, e si pone come uno dei dischi dark folk targati 2013. 7.6/10 Stefano Gaz

sodi, come Geometría del Universo). La principale differenza sta nel rapporto tra il dire la propria e interfacciarsi con casi celebri del passato. Già dopo un paio di frasi dell’iniziale Push The Boat Onto The Sand Cecile ci accompagna nell’universo di Nico, sospeso nel tempo, con un metodo di levitazione prettamente mittel-europeo, fatta esclusione per l’assenza di goticismi e di afflato pagano. Ursa Major Find sembra portare Laurie Anderson dentro Desertshore, come un disegno repentinamente minimalista che poi viene sovrascritto da un canovaccio madrigalesco. Valga poi per tutto il disco il tocco in punta di pennello, la passione per il bozzetto, il witz

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senza spirito. La voce serve a richiamare messaggi ancestrali, specie quando vengono insistentemente ripetuti (Break Away), ma mai tanto a lungo da farli diventare mantrici. La forma breve appartiene da sempre a Colleen (tranne nella chiusura di The Golden Morning Breaks, Everything Lay Still), così come il culto del timbro, fatto circolare nella sovrapposizione di layer (all’inizio della carriera di Cecile) oppure posizionato sul piedistallo, nella pulizia produttiva – è questo il caso di The Weighing Of The Heart. Breve non vuol dire semplice: Going Forth By Day è una suite compressa, una piccola composizione da camera per clarino, chitarra, nonché viola da

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Kinit Her - The Poet And the Blue Flower (Avant!,2013)


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Gaspare Caliri

Crash Of Rhinos - Knots (Topshelf Records,2013) Genere: emo, post-hc, math-rock Più che una imperiosa rinascita del movimento, nei recenti risvolti positivi in ambito emo e dintorni si può scorgere una ritrovata voglia di realizzare must-have di culto destinati agli appassionati del genere e non solo. Parlare di contemporaneità stilistica sarebbe inopportuno: è più probabile che certe sonorità riescano ancora ad essere attuali perchè continuano ad accendere sentimenti passati, con quel valore aggiunto che chiamiamo nostalgia. Gli inglesi Crash of Rhinos sono stati tra i primi a rinvigorire il credo conDistal (2011), un riuscito tuffo negli anni ‘90 che strizzava l’occhio al midwest-emo e alle derive math/post. Due

anni più tardi la band del Derbyshire torna con un disco per certi versi ancora più completo e attento al dettaglio: Knots. Pubblicato da una Topshelf Records in grande spolvero (vedi il recente debutto dei The World Is a Beautiful Place And I Am No Longer Afraid to Die e lo split Pianos Become the Teeth / Touche Amore), Knots vede le “Five voices, two guitars, two basses ang one drum kit “ interagire tra di loro seguendo sia le coordinate d’assalto post-hardcore sia le cervellotiche sequenze math. Sono intrecci strumentali e melodici che si annodano e snodano (knots) in un flusso sonoro reso possibile da una affinata proprietà tecnica e da una sincera passione. In tre parole: sudore, cuore e cervello. Escludendo il minuto di fingerpicking acustico intitolato Everything Is, la prima parte del disco si concentra principalmente su botte full-of-energy dirette ma mai banali (si ascolti il clamoroso drumming di Luck Has A Name o l’abrasiva sguaiatezza di Opener) che trovano in Interiors uno dei momenti più intensi della raccolta. Nella seconda metà – ovvero dalla strumentale The Reason I Took So Long in poi – troviamo i Crash Of Rhinos esplorare situazioni più riflessive: il lento crescendo (prima sospeso e poi esplosivo) di Impasses, l’affascinante emo variegato di Mannheim e i passaggi math-indie (Standards And Practice) che ricordano i migliori – e quindi non gli ultimi - Minus The Bear. Meno violento di An Autobiography degli Old Gray e meno sorprendente di Whenever, If Ever dei The World Is a Beautiful Place And I Am No Longer Afraid to Die, Knots è il tassello – forse il più coeso – che completa la grande triade “emo 2013”. 7.1/10 Riccardo Zagaglia

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gamba, evidentemente. Sembra un interludio, tutti i brani di The Weighing Of The Heart in definitiva appaiono come tali, lasciandoci con un senso di incompiuto. La domanda che si fa strada riguarda proprio lo stato in progress della compositrice e musicista. è come se Colleen ci accompagnasse con pudore nella propria intimità di continua scoperta (e nelle proprie svolte e incertezze, come si può leggere qui e qui, da una dichiarazione di un paio di anni fa, quattro dall’ultimo disco). La novità, oltre alla vocalità, riguarda la direzione della composizione. Quello che prima era svolto in verticale, “in sezione”, cioè nei layer del suono, ora è orizzontale, ma con la stessa capacità di comprimere mondi alieni, sospesi eppure accessibili per l’immediatezza emozionale. Il trasporto musicale (Breaking Up the Earth è un piccolo capolavoro narrativo) è un talento, Colleen ce l’ha e non lo perde negli anni. 7.3/10


Genere: indie Sicuramente è un mio problema, ma non riesco fare a meno di tracciare questo parallelo fra la carriera dei Crocodiles a quella dei Jesus And Mary Chain. Album dopo album la parabola che segna il passaggio di Welchez e Rowell da sadici noisemakers a raffinati psycho poppers, assomiglia sempre di più a quella dei fratelli Reid. Ecco allora che, secondo questo bislacco algoritmo, Crimes of Passion dovrebbe rappresentare l’Honey’s Dead della formazione newyorchese. Il bello e che, a conti fatti, una simile affermazione non è neanche così peregrina. Mi spiego meglio. Crimes… è un album certamente più riuscito di quanto non fosse il precedente Endless Flowers. Un disco che traghetta brillantemente i Crocodiles dalle parti di un guitar pop floreale, cangiante e ottimamente arrangiato. Naturalmente il muro chitarristico degli esordi si sgretola ancora un po’, ma in cambio abbiamo prelibatezze barrettiane come Cockroach, jingle jangle lisergici rassicuranti come She Splits Me Up e, più in generale, un rimando a quegli 80’s che, fra occhiali scuri e camice paisley, cercavano raccogliere quel che restava dell’ingenuitá dei 60s. Se Honey’s Dead era l’album con cui i JAndMC si aggrappavano con forza al carrozzone baggy, Crimes Of Passion sfoggia brani che non avrebbero sfigurato nel repertorio di Primal Scream (I Like It In The Dark) e Stone Roses (Marquis De Sade). Certo, si può obbiettare che le premesse erano altre. Che il cinismo di I Wanna Kill, si è perso troppo presto, e che smarrito quello, i Crocodiles si sono rivelati solo dei revivalisti di classe. Ottime argomentazioni che però si infrangono di fronte alla purezza pop e alle suggestioni romantiche di Me And My Machine Gun, e di un sound che, quando gira a pieno regime come in

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questo caso, non può che mietere vittime come il sottoscritto. Poco male, non sempre gli album più longevi sono i migliori o più originali. Detto questo, non resta che darci appuntamento per il prossimo lavoro, quasi sicuramente elettroacustico, visto che si tratterà del loro Stoned And Dethroned. Vediamo se almeno su questo punto i Crocodiles sapranno stupirci. 6.9/10 Diego Ballani

Danny And The Champions Of The World - Stay True (Loose Music,2013) Genere: rock, soul, rnb, country, folk Ogni volta che mi capita tra le mani un disco così provo sensazioni contrastanti: dopo due note capisci la pantomima, sai dove andrà a parare, riesci a prevedere ogni mossa, eppure l’ascolto alla fine sa rivelarsi piacevole, vivo. E’ un po’ come girare la chiave di una vecchia Cadillac lasciata a prendere polvere nel granaio e meravigliarsi che tra sbuffi e cigolii possa ancora portarti a fare un giro. Più retrogrado che retromaniaco, il quarto lavoro firmato Danny And The Champions Of The World si regge sulla magnifica ossessione del sestetto londinese per il soul-errebì della Stax ed il country rock più ruspante. Giocano quindi a fare i nipotini più arguti che impetuosi di Springsteen (del quale peraltro hanno rifatto Tougher Than The Rest in occasione di un tribute album), ammiccando pure il Dylan che gigioneggia con la Band, calcando la negritudine della voce come un cappello sul groviglio luccicoso di slide e fiati. La formula funziona perché sembra destinata prima a far spumeggiare di gioia il leader, il buon Danny George Wilson, che non a blandire l’auditorio. Ovvero, il sano godimento di chi suona trova riflesso contagioso in chi ascolta, e questo è quanto.

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Crocodiles - Crimes Of Passion (Frenchkiss Records,2013)


Genere: pop, cantautori, folk, jazz Quattordici anni fa il quarto album I’ll Take Care Of You rappresentò per Mark Lanegan un turning point. Con quella selezione di cover volle avvisarci che iniziava una nuova fase della sua carriera, un viaggio nel cuore (nel ventre) della canzone (d’autore, popolare, folk, blues, rock…) per cercare di portarne alla luce i palpiti più profondi. Missione poi compiuta in quel quasi capolavoro che fu due anni più tardi Field Songs, raccolta splendidamente in bilico tra songwriting e allucinazioni psychblues in mezzo al quale non a caso brillava un’altra straordinaria cover, Chemical Dream House di Jeffrey Lee Pierce. Da allora , quasi avesse già adempiuto il compito d’una vita, l’ex-Screaming Trees si è speso più in partecipazioni e collaborazioni che non in cose proprie, prestandosi con generosità e risultati alterni (mediamente buoni, comunque), col rischio però d’inflazionarsi e creare una sorta di “canone Lanegan” che a gioco lungo – per quanto svariasse tra situazioni e generi – ha reso un po’ prevedibili le sue interpretazioni. Tuttavia, anche nei casi in cui è la monotonia è dietro l’angolo, c’è sempre da fare i conti con l’imponderabile laneganiano, e nel qui presente Imitations – ottavo album da solista – te ne accorgi già leggendo la scaletta: di nuovo tutte cover, riconducibili sì a “spiriti affini” come Nick Cave, Greg Dulli e John Cale, ma anche a meastri del croonerismo più indulgente e abboccato come Andy Williams e sua maestà Frank Sinatra, concedendo poi una importante investitura alla californiana Chelsea Wolfe (sua la bella opening track Flatlands) e un sorprendente sdoganamento ai reucci del blue-eyed soul Hall And Oates (una She’s Gone virata roots). Se con la Deepest Shade griffata Twilight Singers sembra sguazzare nella sua tazza di tè (con risultati apprezzabili ma appunto abbastanza prevedibili), in Pretty Colors e Lonely Street il buon Mark è invece abile a sfrondare l’affettazione degli originali lasciando che ne affiorari la polpa inquieta, con una specie di garbo spietato e acidulo, lo stesso che sparge soffice malanimo su Brompton Oratory (quasi in opposizione alla bruma algida concepita dal Re Inchiostro). Più il pezzo è celebre e – consentitemi – sputtanato, più è evidente la strategia: andare al cuore della questione, al centro misterioso della faccenda, quello che poi rende la canzone davvero efficace malgrado la grana nazionalpopolare. Senza ripudiarla in toto, ma abbassando le luci, evitando le slinguazzate a gratis degli archi, i piacionismi doo wop, un po’ tutta l’effettistica lubrificante da classifica insomma. E’ un po’ come rivelare, se volete, la metà oscura del successo. Vedi il borbottio basale di Mack The Knife, una Autumn Leaves languida e spettrale, o quella You Only Live Twice che baratta l’intrigo jamesbondiano con una suadente irrequietezza folk. Probabile che Mark Lanegan abbia irrimediabilmente perduto il centro della scena, ok. Ma è solo perché non smette di scavare gallerie. 7.3/10

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Mark Lanegan - Imitations (Vagrant,2013)

Stefano Solventi

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Genere: pop, cantautori, rock Genere: songwriting I quaranta passati da un po’ e un periodo molto travagliato alle spalle hanno influenzato non poco il nuovo lavoro di Miss Case, che arriva a distanza di ben quattro anni dal precedente fortunato Middle Cyclone. Prodotto dalla stessa artista, vede la presenza del “solito” M Ward, nonché di Howe Gelb e membri di The New Pornographers, My Morning Jacket, Calexico, Los Lobos e Visqueen. The Worse Things Get, The Harder I Fight, The Harder I Fight, The More I Love You è lavoro assai introspettivo, rivestito della consueta forma musicale a cui la Nostra ci ha abituato, con in più una maturità conclamata, i cui segni evidenti già si erano intravisti dagli ultimi lavori. Qui troviamo una capacità espressiva affinatasi ancor di più, una verve e una varietà stilistica che lambisce rock, pop e folk per diventare forza, malinconia, grido di denuncia di un’anima sofferente ma non doma (sono occorsi alcuni lutti in famiglia e si è venuti a patti con un proprio tormentato passato), finalmente capace di aprire un capitolo nuovo della sua vita, stando a quanto dichiarato in occasione dell’uscita del disco. Il primo singolo Man mette da subito le carte in tavola: la forza e il coraggio di un uomo, quale si proclama, racchiusi nel cuore di una donna, che tutto misura; altrove è la drammaticità nell’a capella Nearly Midnight, Honolulu su un tormentato rapporto madre-figlia che diventa dichiarazione d’intenti e di forza dedicata alle ragazze, che fa il paio poco dopo con la limpida cover di Afraid di Nico, e qui la voce si fa più dolente e profonda: si intuiscono desolazione e profonda bellezza espressiva. Seguono ballad struggenti (Calling Card, Where Did I Leave That Fire) con quella voce declinata e roca, brumosa e fosca, che culminano beatlesianamente nel finale orchestrale di Ragtime. Concepito, secondo quanto dichiarato, come un lungo flusso di coscienza di 40 minuti, piuttosto che come un insieme di canzoni, The Worse Things Get, The Harder I Fight, The Harder I Fight, The More I Love You è un’autoterapia che centra il suo obiettivo, rendendoci un’Artista molto più sincera e vera del solito. “You are beautiful and you are alone…”. 7.3/10 Teresa Greco

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Neko Case - The Worse Things Get, The Harder I Fight, The Harder I Fight, The More I Love You (ANTI-,2013)


Tutto molto semplice, forse un po’ troppo, ma è una transazione tutto sommato onesta. 6/10 Stefano Solventi

Genere: cantautori, lo-fi, hypnagogic Dean Blunt è un po’ un Giuseppi Logan dell’underground declinazione chill/glo/hypn lo-fi. Stessa impaginatura strapazzata e stessa capacità di affascinare usando sempre gli stessi pochi sbilenchi elementi. In questo The Redeemer prevale un mood agrodolce perfettamente espresso da ballad come la conclusiva Brutal (piano And voce) e, soprattutto, l’incipitaria bellissima The Pedigree, basata – come buona parte del disco – su archi sintetizzati fatti tipo con una pianola Bontempi. Tra rumori di mare, filastrocche gambizzate e rintocchi di campane e cori lontani, emergono scampoli folk (Imperial Gold), ricordi Half Japanese (All Dogs go to Heaven) e suggestioni Velvet Undeground (la title track) particolarmente efficaci. Ovvero: quando il cazzeggio fattone può anche essere scambiato per sperimentazione, e magari è per buona parte fuffa, ma sicuramente non riesce a occultare una certe dose di ispirazione e di talento. 6.6/10 Gabriele Marino

Delorean - Apar (True Panther,2013) Genere: art, indie, 80s, synthpop, dance Come la celeberrima omonima auto di Back To The Future (Ritorno al futuro), anche la band spagnola Delorean - a modo suo – viaggia nel tempo: dagli esordi – risalenti ormai ad oltre dieci anni fa – ad oggi il loro percorso artistico può essere comparato al passare delle stagioni all’interno dell’anno solare e metaforicamente

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Dean Blunt - The Redeemer (Hippos In Tanks,2013)

ad una progressiva maturazione. L’inverno dei primi giorni a cavallo tra postpunk e wave (Cure su tutti, si ascolti Los Muertos e The Terrorist! The Terrorist!) anticipava una primavera frizzante e groove-oriented (il revivalismo funk-punk modernizzato dall’elettronica di Into the Plateau) apripista di un periodo caratterizzato non solo da uno spostamento geografico da Zarautz (Paesi Baschi) a Barcellona, ma anche dalla contemporaneità – dai synth Cut Copy ai loop Animal Collective - di un suono rinnovato in direzione glo-dream/balearic (l’EP Ayrton Senna, ancora più dell’album Subiza, rimane forse l’opera cardine). Quel periodo – il biennio 2009-2010 – fu la loro estate, la grande e irripetibile svolta internazionale – ed è un peccato che non sia ancora arrivato il turno dei nostri Drink To Me - dopo una lunga gavetta dai riscontri perlopiù confinati al territorio spagnolo. Tre anni più tardi il Seasun brilla con meno ardore e lascia spazio a quell’agrodolce malinconia tipica della transizione verso l’autunno. La spiaggia si svuota, lasciando che sia il solo rumore delle onde e della schiuma (Apar in basco) ad accompagnare una scrittura mai così riflessiva: la forte crisi economica, la disoccupazione ed un Real Love che si è rivelato poi essere non così real. Apar, che esce nuovamente per la True Panther Sounds, è quindi la naturale evoluzione – e i pandabearismi in versione telefilm californiano anni ‘80 dell’ottima You Know It’s Right lo testimoniano – di un progetto che ha acquisito sempre più esperienza (anche live, dimensione in cui oggi sono assolutamente da vedere) e che ha smesso di inseguire le mode, preferendo piuttosto lavorare di fino nella ricerca stilistica. Abbiamo così un lavoro più ragionato – e privo di abbagliantiinstant classic - che purtroppo in alcune occasioni fatica a trovare la quadratura del cerchio: i passaggi pop uptempo non de-

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Genere: pop, dream Erano partiti particolarmente ammantati i Postiljonen, con i venti di quella Rivers che li ha lanciati nella prima metà del 2012 (ed è qui riproposta) a raccontarli come cuginetti dei jj con l’ammiccamento lungo su Enya. Si sono poi rivelati progenie diretta della Sincerely Yours (meno “laid-back” e) più “elettronica”, e diremmo come la stragrande maggioranza del più recente pop scandinavo, non fosse che non è cosa da tutti (e di tutti i giorni) il trovarsi esaltati su più fronti web sotto l’effigie di “nuovi Air France”. Per quanto le leggende sia sempre meglio lasciarle al loro posto, va detto che il paragone ha un suo fondamento ed è comunque ben lungi dal far gridare all’eresia. Se è vero, infatti, che la pratica del sample che è frammento di dialogo filmico (e vuol suonare come snippet di ricordi radio) è piuttosto comune fra gli artisti nordici, lo è altrettanto che sono pochi i nomi che ci saltano alla mente ad aver così brillantemente catturato lo spirito “childlike”, la gioia immacolata delle composizioni di Joel Karlsson e Henrik Markstedt come fatto dai Nostri negli slanci di We Raise Our Hearts e Skying High. Sono poi, a maggior ragione, forse soltanto i Postiljonen a poter rivaleggiare con gli Air France (nel post-Air France) quanto a piena internazionalizzazione del pop balearico di matrice svedese: dove i producer “padroni di Göteborg” mostravano fascinazioni europeiste (con tanto di album UK garage in cantiere prima dello scioglimento), qui la mossa è la più ovvia e di tendenza, tutta all’insegna della globalizzata passione di ritorno per gli Eighties. Il punto di riferimento chiave non può che essere l’adoratissimo M83 ed è innegabile che, su questo versante, “l’effetto trasferello” finisca per essere episodicamente fin troppo marcato, con i pad delle percussioni e le nuvole synth-gaze che sono quelle di Anthony Gonzalez, con Supreme che è praticamente Midnight City con spina dorsale tropical e Atlantis che ha persino quel solo di sax (o quasi) a farci attendere per una parodia Youtube della serie “Bill Clinton plays Postiljonen”. Eppure non ci sembra il caso di condannare questo disco d’esordio soltanto perché l’originalità non è il suo forte. Skyer è ben prodotto e curato in ogni virgola, coerentissimo e riuscitissimo nello stereotipare la Scandinavia come la borghesia fatata che ci piace sognare; possiede un parco singoli stellare che è l’ennesimo bastone tra le ruote del successo del prossimo Washed Out e ha tutte le carte in regola – compreso il cantato sussurrato tra Maria Lindén e Elin Kastlander – per farci affezionare, per essere avidamente consumato ora e rispolverato alla prossima estate e ad ogni estate. Come regolarmente facciamo, d’altronde, con No Way Down. 7.2/10 Massimo Rancati

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POSTILJONEN - Skyer (Best Fit Recordings,2013)


collano (Destitute Time) e in generale si ha la sensazione di trovarsi in un innocuo territorio di mezzo tra svogliate velleitàdancey e una decostruzione arty del pop elettronico di stampo eighties. Si balla mentre il cervello macina ricordi. Un rilassante scenario che non conquista mai completamente ma che difficilmente esaspera, soprattutto quando mostra i lati meno prevedibili, come nel caso degli eighties di Dominion e dei due episodi che sfuggono dall’ordinario: la partecipazione di miss Caroline Polachek (Chairlift) nell’insolita Unhold e l’esperimento etereo – vicino al dream pop più celestiale - Keep Up, forse il primo sentore di un nuovo inverno in casa Delorean. 6.7/10

Earl Sweatshirt - Doris (Columbia Records,2013) Genere: hiphop Earl Sweatshirt è uno dei personaggi più controversi e misteriosi del rap contemporaneo. Nel lontano 2010, grazie a due mixtape ormai leggendari, riuscì a concentrare l’attenzione del pubblico sull’allora misconosciuta crew Odd Future, per poi divenire, mano a mano che gli altri membri si affermavano come artisti talentuosi, il grande presente-assente di ogni uscita targata O.F.. Un immenso, giovanissimo, talento di cui però si sono avute pochissime tracce sin dalla sua scomparsa dalla scena per ritirarsi in un centro per adolescenti problematici a Samoa. Alcuni timidi segnali di ritorno hanno contribuito a rendere questo Doris uno degli album più attesi degli ultimi anni, impressione marchiata a fuoco nella nostra coscienza dal singolo, devastante, Chum, ormai nel 2012. L’ottima produzione di Doris chiama in causa nomi importanti: RZA, Neptunes, Badbadno-

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Riccardo Zagaglia

tgood, e, ovviamente, Tyler, The Creator, ma la sorpresa più piacevole è scoprire che in gran parte il disco è stato prodotto da Earl stesso, con esiti più che felici, come in Hive e Chum, due dei pezzi più forti del disco. Ad ogni modo, che siano gli scenari spaghetti western di Hoarse, i bassi inquietanti di Burgundy o la melodia bizzarra di Molasses, le tracce rimangono comunque ben dentro l’orizzonte stilistico già indagato col disco dell’amico Mac Miller: quello di un disco hip hop dagli arrangiamenti minimali e sottilmente sinistri. Drumming boom bap dal piglio un po’ jazzy, bassi pulsanti e ipnotici e molti inserti pianistici fanno da proscenio poco invadente al vero spettacolo, che è quello del flow malatissimo di Earl. Earl e soci confezionano un album hip hop quasi “cantautorale”, in cui gli arrangiamenti vanno solo a completare la voce interessante, ricca di coloriture blues, di Earl, e i suoi complicati intrecci di parole. Cantautorale, inoltre, anche perché Earl si dimostra l’unico rapper della sua generazione che, oltre a possedere doti tecniche fuori dal comune è in grado di andare oltre le solite punchline argute (comunque presenti) per estendere il proprio universo tematico fino a un racconto spassionato dei propri incubi, delle proprie insicurezze e frustrazioni. Dal rapporto col padre che lo ha abbandonato in tenera età alla dipendenza dalle droghe, Earl si mette a nudo creando un flusso di coscienza denso e difficilmente penetrabile da un orecchio poco allenato (prescrittivo l’utilizzo di rapgenius). Forse è questa la croce e delizia di un disco per certi versi ottimo, per altri imperfetto. Il flow di Earl è verboso e complicato, complice l’assenza di arrangiamenti coinvolgenti o ritornelli memorabili che rende questo disco faticoso da digerire, un affare per orecchi pazienti. Del resto nessuno ha mai detto che sarebbe stato gradevole entrare negli incubi di una persona

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Genere: hardcore, rap, hiphop C’è un verso di Killer Mike in particolare, nella traccia Get It, che attacca senza mezzi termini: “We’re here to tell you all your false idols are just pretenders / They’re corporation slaves indentured to all the lenders / So even if you got seven figures, you still a nigga.” Ed è un po’ questo il tono predominante nella nuova – nuovissima – avventura della coppia di fatto El-P e, appunto, Killer Mike. Sette cifre, quelle che indicano i milioni e i dischi di platino, sponsorizzati da multinazionali che controllano il mercato mondiale e schiavizzano la figura del rapper, rendendolo un burattino. Praticamente l’esatto profilo di Magna Carta…Holy Grail di Jay Z, uscito a distanza di una settimana già con il disco di platino in tasca grazie a Samsung. Se Cancer For Cure e R.A.P. Music si immergevano in una realtà politica allarmante costruita sul controllo e sullo stato di polizia, Run The Jewels offre un’istantanea sulla condizione attuale dell’hip hop, una nave che cola a picco, da cui tutti stanno fuggendo e lasciata in balia degli squali di turno. El-P e Killer Mike indossano con convinzione i panni di Avengers, rivali e demolitori dell’establishment rappresentato da Jay Z e Kanye West: “When death runs in the distance there will be no Mercy me’s / There will be no reprieve for the thieves / There will be no respect for The Thrones.” Proprio quel Kanye West che, a modo suo, ha lanciato con New Slaves la sua personale invettiva contro le corporazioni malefiche, che però, a confronto della schiettezza di Run The Jewels, sembra solo grattare la superficie. La produzione di El-P esalta l’efferatezza dei versi di Killer Mike, il quale sembra aver trovato nel newyorchese il suo produttore ideale: “Producer gave me a beat / Said it’s the beat of the year/ I said El-P didn’t do it / So get the fuck outta here.” L’estetica di questo lavoro si muove su territori già esplorati da El Producto, ma non per questo è meno accattivante. I binari su cui si viaggia sono legati a doppio filo con le sue produzioni ormai storiche di Company Flow e Cannibal Ox, uno stile che negli anni è rimasto fedele a se stesso ma che si è anche saputo evolvere e raffinare, trovando nel nuovo decennio linfa vitale. Scorribande picchiaduro a 16-bit che si rincorrono in ambientazioni bidimensionali e quindi scorrevoli, la piattaforma perfetta per i versi veloci di El-P e l’artiglieria pesante di Killer Mike; salvare la partita è impossibile in questo gioco, anzi inutile: 33 minuti che scorrono con leggerezza easy e scanzonata. Sì, Run The Jewels è un disco che vuole innanzitutto divertire riuscendoci, la dialettica da antagonisti è accompagnata da un’immaginario fumettoso, come due goblin urbani che si muovono sinistri nella notte e, una volta scoperti, fuggono di nuovo veloci nei loro nascondigli. Beat che colpiscono duro come mazze chiodate (Get It), che si mettono al servizio di un flow tutto southern (Banana Clipper, con Big Boi), con bassi tuonanti (DDFH), ma anche effetti cinematici (Job Well Done, A Christman Fucking Miracle) o, nel caso di Sea Legs, beat che giocano con lo sci-fi tanto caro ad El-P. Certo, non è un album perfetto, e qualche sbandata – come gli hook di DDFH e No Come Down, bruttini e prevedibili – nel percorso la si incontra. Ma Run The Jewels è, in definitva, la risposta spassosa ed irriverente al cannibalismo dell’industria discografica attuale, un disco disimpegnato ma non lightwheight e, aspetto da non sottovalutare, disponibile in free download. “Run The Jewels is not for your childern.” 7.4/10 Luca Falzetti

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Run The Jewels - Run the Jewels (Fool’s Gold,2013)


problematica e tormentata come Earl. Un disco poco adatto a chi è abituato a buttar giù a memoria i singoli di Rick Ross e French Montana, e che trova invece un pubblico di eletti tra gli ascoltatori di hip hop più pazienti e open minded e in chi, invece, con l’hip hop c’entra poco o nulla ma non disdegna un ascolto impegnativo e, alla lunga, decisamente appagante. 7.1/10 Gianluca Carletti

Genere: indie, folk La hit Home non solo ha cambiato la vita di Alexander Ebert e dei suoiEdward Sharpe And The Magnetic Zeros, ma in qualche modo ha anche inaugurato (Of Monsters and Men e Lumineers ne sanno qualcosa) il periodo d’oro del folk disimpegnato da classifica. Home però è stata anche un’arma a doppio taglio: ha garantito il successo diesel dell’album di debutto Up From Below (2009), ma in parte ha tarpato le ali al successivo – e più meditativo - Here (2012), un mezzo flop – considerata anche l’esposizione mediatica del genere – confermato dal fatto che oggi, nonostante Here sia uscito appena un anno fa, Up From Belowvende più copie. Esclusa la vittoria ai Grammy 2013 per il documentario on the road Big Easy Express - nel quale veniva immortalato lo stato di grazia della band durante il Railroad Revival Tour 2011 in compagnia di Mumford and Sons e Old Crow Medicine Show - quella di Edward Sharpe And The Magnetic Zeros sembra essere una parabola discendente e il terzo, omonimo, disco purtroppo lo certifica. Inizialmente pensato come seconda parte di Here da pubblicare a brevissima distanza, Edward Sharpe And The Magnetic Zeros

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Edward Sharpe And The Magnetic Zeros - Edward Sharpe And The Magnetic Zeros (Vagrant,2013)

rimane impregnato delle stesse sonorità vintage/roots, ma il grande fascino delle paludi qui impedisce al collettivo di effettuare lo step necessario per rilanciare prepotentemente la carriera: le atmosfere rurali e grezze sono ancora presenti e il suggestivo timbro di Alexander riesce sempre ad evocare tempi e luoghi lontani, ma per la prima volta diventa lampante una preoccupante carenza a livello di songwriting. Nonostante l’attitudine teatrale che sembra frutto di un copione hollywoodiano, Alex e Jade non danno l’impressione di essere degli imbroglioni, anzi sembrano sempre stracolmi di una passione che trasuda onestà (persino il passaggio “country calling, yeah I’ve got to leave LA” è credibile), il problema semmai è che lungo le dodici tracce di Edward Sharpe And The Magnetic Zeros a deficitare sia proprio la capacità di attirare l’attenzione ed incentivarne il riascolto. La contemplazione degli old-days e il gusto pop vengono sintetizzati piuttosto bene in Better Days e lodevole è anche la rinvigorita sensibilità psichedelica sixties di derivazione Beatles (Let’s Get High… quella batteria…), accentuata anche dalla progressiva lo-fizzazione retrò del suono a livello di produzione. Convincono invece meno i giochi a due voci (Two) che agli esordi era uno dei punti di forza, le eccessive tentazioni gospel-soul – tanto perfettamente ricamate quanto soporifere nel risultato – di Please!, l’escursione in basso-baritono (tra Crash Test Dummies e De Andrè) di They Were Wrong e i numerosi filler che rispondono al nome di If I Were Free, In The Summer e In The Lion. Così impeccabile a livello di immagine e così revivalisticamente incontestabile a livello stilistico, il progetto Edward Sharpe And The Magnetic Zeros dà l’impressione di essere schiavo di se stesso: se sul palco continua a coinvolgere e a far valere le proprie qualità

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Genere: techno Di Stellar OM Source, ovvero Christelle Gualdi, si trovano tracce nelle correnti synth post-noise americane sin dal 2008, periodo in cui la producer britannica bazzicava un’elettronica fatta di cosmica e krautismi sull’onda di gente come Emeralds, The Arp, Be Invisible Now!, Jonas Reinhardt, Expo 70 e soprattutto Oneohtrix Point Never e produceva – oltre a self released (Alliance, Ocean Woman, Exises) – per etichette come la Black Dirt Records del newyorchese Jason Meagher o per la Synth Series della Ruralfaune. Per quest’ultima, nel 2009, usciva Heartlands Suite, un affascinante lavoro sintetico che, più che adagiarsi su comode referenzialità 70s o sul classico viaggio psych new agey, preferiva l’esplorazione senza devozioni, confini o prossimità, sia che essa portasse verso l’ambient Uk primi Novanta, al solco hauntology, a certa contemporanea o a sapori nipponici. Il lato concettuale à la James Ferraro o gli astrattismi di Daniel Lopatin li ritrovavamo nel secondo album lungo sotto Stellar Om Source, Trilogy Select, uscito nel 2010 per la newyorkchese Olde English Spelling Bee (con lo stesso Lopatin alla co-produzione in Rites Of Fusion), tracklist che completava un percorso sonico basato sugli ambienti e gli spazi. Rilocata in Belgio, con il “7 Charly / Energy pubblicato per la nipponica Big Love nel 2011 (che conta, tra gli altri, anche gente come Nite Jewel e l’italiano Polysick), la producer volta pagina, cambiando campo d’indagine (discog parla di spy-trance) ma non la filosofia di partenza. Punta sui ritmi e sul club, angolando un “tastierismo” che la porta liscia liscia verso il synth pop, l’acid e tutto un terreno di ottantissima techno e house con tutto un portato d’elettro funkismi che, a cavallo 00/10, sono nelle mire di molti (vedi Space Dimension Controller). E’ la premessa ideale per un lavoro come Joy One Mile, terzo album lungo e nuovo terreno d’indagine per una producer che in quest’occasione approda alla Rvng Intl, etichetta molto ricettiva in questo ambito (vedi Blondes di cui Christelle è fan). Nel disco non troviamo il groove a presa rapida di Energy (che per inciso è una chicca acid-house da non lasciarsi sfuggire), nemmeno le punte eccentriche alla MuZiq / Autechre apprezzate in Yesterday Is Karma, ma un mondo di possibilità riconducibile alla prequel club music di Ikonika (vedi anche 1847 Earth sulla compila Synthesis / Re-Synthesist), un percorso di fascinazioni techno al grado zero di futurismo e dalla nervosa costipazione ritmica. Stellar Om Source mette al centro le bass line della Roland TB-303 e l’amore per l’Underground Resistance (lei dice anche un pizzico di John Coltrane), compone dodici dense tracce/possibilità ritmico-espressive e le affida a una figura di peso come il tedesco Gunnar Wendel - ovvero Kassem Mosse - che ne arrangia, missa e chiarifica sette (più ne remissa una Elite Excel). Il risultato ha stregato tutti. Non è né propriamente techno (Polarity) né house (Par Amour) o acid (Trackers), ma ha a che fare intimamente con queste tre correnti; non è neppure la solita rivistazione dai risvolti ironici o dall’incallito spirito citazionista, piuttosto il campo espressivo di un’artista a volte forse troppo in ansia ritmica ma senz’altro genuinamente ispirata dalla strumentazione e dalle fascinazioni che hanno generato il primo suono di Detroit (ma anche di Chicago). Avvincente, persino eccitante. 7.2/10 Edoardo Bridda

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Stellar OM Source - Joy One Mile (RVNG Intl.,2013)


teatral-intrattenitrici, a livello discografico è probabilmente orientato maggiormente al – per il momento ancora ipotetico – greatest hits catalog best-seller che alla realizzazione di dischi che contano. 6/10 Riccardo Zagaglia

Genere: industrial A detta dei pettegolezzi che circolano nelle redazioni dei vari magazine, i Factory Floor dovrebbero essere i discendenti 2013 di Cabaret Voltaire e Throbbing Gristle. Ovviamente per essere attuali devono suonare con un qualcosa che sia più accattivante per le platee hipster o artostoidi che dir si voglia. E allora ecco il connubio con la DFA, etichetta che ha marcato un pesantissimo solco per tutti gli anni ‘00 del nuovo secolo indie. Il disco d’esordio è un deciso assalto ritmico, molto macchinico, all’eredità post-LCD Soundsystem, caratterizzato in prevalenza da synth e atmosfere dark che vanno indietro nel tempo, plagiando in parecchi punti la lezione dei Joy Division (Fall Back ad esempio), gruppo con cui i tre hanno avuto contatti (all’attivo una collaborazione con il batterista Stephen Morris). Di più: il disco è stato registrato su un synth che apparteneva agli Eurythmics ed è stato prodotto da Timothy ‘Q’ Wiles, il produttore di Los Angeles famoso per la collaborazione con VCMG e Afrika Bambaataa. L’effetto memoria – che potrebbe risultare in certi punti pure ingombrante – è però smerigliato con tagli che vanno a pescare ricordi molto più succosi ed intrisi di significato per l’avanguardia musicale newyorchese (pur non essendo americani, il loro è in realtà un omaggio ai suoni technoidi nordamericani). In particolare: il minimalismo classico di Steve

Marco Braggion

Family Portrait - Lontano (Autoprodotto,2013) Genere: pop, triphop Un omonimo EP del 2011 come biglietto da visita e ora l’esordio sulla lunga distanza Lontano: loro sono i Family Portrait, combo da Macerata assai peculiare costituito da Tommaso Lambertucci, Riccardo Minnucci e Emma Lambertucci. Ascolti i primi brani del disco e dici trip-hop, anche se la voce della Lambertucci sta più dalle parti di una Meg epidermica, piuttosto che da quelle di una Beth Gibbons elegante e sinuosa. Considerato anche il fatto che non c’è ortodossia stilistica che regoli l’estetica delle dieci tracce in scaletta, bensì la voglia di mescolare linguaggi, tra synth anni Ottanta (Deserto), archi e voci fuori campo (Lontano), code strumentali da brass band (la conclusiva Tracce), riff di chitarra elettrica che depistano (Sete).

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Factory Floor - Factory Floor (DFA,2013)

Reich, le sperimentazioni di Arthur Russell, la Factory di Warhol e tutta la stagione della prima house, non solo di NY, vedi le citazioni a Can You Feel It di Mr. Fingers (Two Different Ways) o alla Trax (le percussioni di Adonis e DJ Pierre per dirne due). Un disco concentrato sul proprio suono ma nel contempo ibrido, una costruzione di per sè intrigante, ma che ascolto dopo ascolto rivela una profonda insicurezza. Un tunnel che probabilmente verrà apprezzato meglio davanti a qualche proiezione o in qualche esecuzione dal vivo, ma difficile da ascoltare fino in fondo in privato. La cosa buona è che il trio di Londra porta avanti un’estetica compatta, un discorso di elettronica applicata al rock industriale che da un po’ mancava sulle copertine dei magazine. Per ora resta ancora un retrogusto amaro, vedremo in futuro come evolveranno le cose. 7.2/10


Vengono in mente i Lapingra per l’attitudine irriverente e i 2 Pigeons per il coraggio nell’affrontare il genere con personalità, anche se i Family Portrait sembrano mantenere, nei contenuti, una certa continuità con una canzone “d’autore” non banale, ad esempio quella di un’Antonella Ruggiero. E’ vero che quel quid in più necessario per fare il salto definitivo viene fuori solo da brani come la titletrack e pochi altri, in favore invece di una continuità negli arrangiamenti che tende ad assorbire gli sprazzi d’entusiasmo in un far collimare idee molto diverse tra loro che è, in fondo, mediazione; eppure nel disco si coglie una freschezza trasversale e una vitalità a cui non si può non dar peso. Restiamo in attesa fiduciosi. 6.7/10

Forest Fire - Screens (Fat Cat,2013) Genere: pop, indie Un percorso di progressiva distillazione, quello di Mark Thresher e sodali. Messa da parte la pendolarità tra le due coste, scelgono New York come base definitiva e, perché no?, glamour (o hype, se preferite). Se il precedente Starting At The X sembrava un deciso passo avanti rispetto alla prova ingenua dell’esordio Survival, gli schermi di questo terzo album, il secondo per la Fatcat, mostra immagini ben a fuoco. L’elemento di svolta è un’avvicinamento ancora più deciso del territorio kraut, qui ben esemplificato da Annie, brano dove a contornare esplicite citazioni Kraftwerk è un motorik di taglio Neu! con profumi psych lunghi una decina di minuti. Infatuazioni, quelle kraut, che si sentono nelle monodie di synth di Cold Kind, nelle dolenze di Great Wall e nelle tastiere di Monorail, che però nasconde anche un’ascendenza nobile da primi Novanta, quando band come Disco Inferno, Bark Psychsis e Loop esploravano

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Marco Boscolo

Forest Swords - Engravings (Tri Angle,2013) Genere: hypnagogic, witchhouse, triphop Pubblicato nel 2010 dall’americana Olde English Spelling Bee (e poi ristampato con l’aggiunta di bonus track e remix dalla londinese No Pain in Pop) l’eppì Dagger Paths aveva perfettamente colto lo zeitgeist del cambio decade. Da una parte, tutto un portato di hauntologie e witch-ismi, dall’altra un rimestare di step che potevano tanto esser ricondotti al prefisso dub (in particolare alla allora nascente scena post- con i suoi legami con l’r’n’b) quanto a tutta una cultura bristoliana di lungo corso fatta cinema noir, cadenze HH (leggi broken e breakbeat) e naturale attitudine al crossover che, nel caso di Matthew Barnes, si traducevano nella ripresa dell’indimenticata lezione di Pan American e indietro Labradford. Solo parlando del lato chitarristico e ambientale, infatti, nei solchi del britannico si scorgevano post-rock morriconiani, attitudine drone e non ultimo un certo gusto da american gothic fino alle porte di certi paganesimi Constellation; eppure il perno del discorso rimaneva saldo su una tradizione di dub esotico e cosmopolita, soltanto diluito secondo quelle sensibilità attuali (languidezze, presagi, sogni tediati) che se oggi risultano naturali parlando della Tri Angle (che ha fatto scuola) allora non parevano la più naturale e ovvia delle operazioni. Engravings arriva a tre anni di distanza da Dagger Paths in orecchie già saturate dai vari

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Fabrizio Zampighi

territori nuovi e dilatati dentro esperienze acide. Questo incrocio, con un afrore più rock, è il punto di forza di un altro brano riuscito come Alone with the Wires, dove si riaffacciano anche echi folk, evidentemente mai rinnegati dai quattro. 6.9/10


Edoardo Bridda

Franz Ferdinand - Right Thoughts, Right Words, Right Action (Domino,2013) Genere: pop, rock, wave “Godiamoceli pure, finché durano”. Così scrivevamo nel 2004, subito dopo l’ascolto del

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fortunato esordio omonimo. E infatti ce li continuiamo a godere, i Franz Ferdinand, oggi più che mai; sicuramente più di nove anni fa, quando il nostro spirito critico era ottenebrato da una spasmodica ricerca, all’interno del revival post-2000, di qualcosa che non fosse una meteora, di qualcosa che lasciasse il segno, di qualcosa che fosse profondo, perbacco. E se avessimo del tutto mancato il bersaglio? Se il punto fosse proprio il non essere profondi? O almeno esserlo senza darlo troppo a vedere (le lyrics, ad esempio; Kapranos ha studiato da Ray Davies, ricordiamolo), che è ancora più cool? Insomma, nel suo quasi immediato riallacciarsi a quel fatidico debutto (che, tanto per ribadirlo, è uno dei dischi migliori del decennio passato) scavalcando le velleità electro-dub (nemmeno poi così marcate, dai!) di Tonight …, questo Right Thoughts, Right Words, Right Action ci ricorda definitivamente cosa erano, sono e saranno (finche’ vorranno loro, a prescindere dalla nostra idea di “durata”) i Franz Ferdinand. Degli intelligentissimi artigiani indie pop che dietro l’immarcescibile e sbandierata cazzoneria e legeresse rivelano di saper padroneggiare come pochi altri la materia, mettendo insieme quegli elementi giusti (disco, garage, post-punk, synthpop… li sapete, dai) che, certo, li sai riconoscere a primo ascolto ma provaci un po’ tu a sintetizzarli così, e con questo spirito da eterni ragazzi, per giunta. Se l’approccio è questo, di volta in volta la differenza la possono fare solo l’ispirazione e le canzoni; solo da quello dipende la riuscita dei dischi, e la scelta di non inondare il mercato di pubblicazioni e di lasciar scorrere un po’ di tempo tra una capatina in studio e l’altra si e’ rivelata una strategia assolutamente vincente. Nel caso di questo disco, poi, siamo stati fortunati, perche’ da Brief Encounters a Evil Eye fino a Treason, Animals e’ tutto un vorticare di ritornelli che, nonostante (o forse per merito

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Holy Other, Vessel (che si sono fatti il giro di moltissimi festival), oOoOO, Evian Christ e in seguito ad alcuni problemi all’apparato uditivo di Barnes. La sua sfida è naturale e proverbiale: trovare un viatico tra mode e personalità, imporre il gusto e tratto distintivo del suo autore, esprimere un’organitictà o un filo conduttore lungo la tracklist, magari introdurre un qualche tipo d’urgenza, d’intimo significato delle scelte operate. Il ragazzo di Wirral sceglie l’equilibrio confezionando un lavoro al laptop che vive (campiona, evoca) i suoni della sua terra e cresce con gli ascolti, un grower che fin dall’opener new agey (Ljoss) alle ancora fresche esplorazioni sugli smalti soul (lo spettro di James Blake in An Hour) propone un variegato setting di fascinazioni etnico estetiche (Thor’s Stone) e di tipo cinematografico. Catturano senz’altro le tracce più particolari e laterali: la metafisica dubby del West con sample di vecchi film b/w effetto Tarzan di Irby Tremor o gli incastri di voci sulle texture classicheggianti al piano di Gathering, ad esempio, lasciano più freddini gli affreschi post-dubstep di The Weight Of Gold, o il lato velatamente pop (Anneka’s Battle) che comunque conquista i suoi gradi d’assuefazione. Sempre di sicuro impatto, infine, gli arpeggi e la spazialità à la Mark Nelson che sono un po’ ovunque. Un album al quale sicuramente si chiedeva di più ma che, senz’altro, seduce e conquista sulla lunga distanza. Cocciuto Barnes, ha scelto d’approfondire le proprie tematiche senza badare a niente e nessuno e questo ha ripagato. 7.1/10

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de) la brevità di ascolto – trentacinque minuti complessivi di durata – restano impressi nella corteccia, lasciando agli ascolti successivi il gusto di rintracciare la cura degli arrangiamenti, del songwriting, dei dettagli, dei rimandi. Insomma, se ai tempi di Take Me Out non potevamo che riportare il loro approccio frullatutto alla febbre emulativa post-Strokes, adesso di fronte a singoli altrettanto validi come Right Action e Love Illumination non possiamo che convenire sulla straordinaria bontà della formula, a prescindere dal contesto in cui è calata. Sì, stiamo sostanzialmente dicendo che i Franz Ferdinand sono un classico, e che tra altri dieci anni ci aspetteremo esattamente un disco altrettanto buono. 7.2/10

Gazebo Penguins - Raudo (To Lose La Track,2013) Genere: hardcore, post I Gazebo Penguins rispecchiano in pieno il compito che ogni band dovrebbe avere, ovvero quello di crescere e migliorarsi album dopo album, arricchendo il proprio stile e rendendo il processo creativo-compositivo più originale. Con Raudo i Nostri ci sono riusciti. Dalla fattura punk con sfumature screamo e hardcore ma del tutto lo-fi di Penguinvasion!, dopo la svolta professionale di The Name Is Not The Named - tra controtempi, ritmi aritmici e riff più precisi – e quella con ancor più tiro e mordente di Legna, ad oggi i Gazebo Penguins vantano l’efficacia di un suono più diretto, orecchiabile ed altamente esplosivo, proprio come da titolo dell’album. In pratica, tutto ciò che si può chiedere a un gruppo emo, intendendo la parola nel suo significato più autentico. Una Correggio che fa “quando 15 anni fa avevamo 15 anni in meno, che bella età (di merda) i 15 anni” è un potenziale inno generazionale

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Alessandro Rabitti

Ghostface Killah - Twelve Reasons To Die (Soul Temple,2013) Genere: rap, hiphop Un trip di neri di Staten Island in guerra contro la famiglia mafiosa De Luca per il controllo di una Sicilia anni ‘60 che ricorda però l’America del Padrino, così come quella di altri mille crime movies: questo è quanto si ascolta nel bel disco sfornato dalla strana coppia Ghostface Killah – Adrian Younge. Per chi ancora non lo conoscesse (è uno dei produttori più hot del momento), Adrian Younge è un musicista e compositore che sta realizzando i sogni di tutti i crate diggers del mondo: dopo aver sfornato la colonna sonora per il blaxploitation Black Pyramid in pieno stile 70s funk, rieditata poi nel bel disco Something about April lavorato col cantante della storica band Delphonics, riesce anche a collaborare con uno dei più importanti wu-membri in circolazione. Non è un caso che la storia sia ambientata in

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Antonio Pancamo Puglia

à la Sex Pistols, un po’ la loro God Save The Queen, anche se un brano forte e corale come Senza Di Te (Legna) in effetti manca. La musica, che abbraccia quel filone post-hardcore tutto italiano capitanato con grande stile da gente come Fine Before You Came (dai quali i Gazebo Penguins si distanziano per un approccio meno maturo e più adolescenziale) e i fuVerme (rispetto ai quali hanno un approccio meno punk), parla di store di vita reale e verità dolorose (Ogni Scelta È In Perdita, Non Morirò), con un linguaggio 90s dagli atteggiamenti più rock e meno punk (Correggio, Piuttosto Bene) molto à la Grade, soprattutto nelle strofe (Casa Dei Miei, Difetto). Poche storie le nostre. Sicuramente tante le loro. Quello che i Gazebo Penguins sanno fare è questo. E lo fanno bene. 7.2/10


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ro with the immortality” o dichiarazioni di morte. Storia a parte per il brano The Center of Attraction, inusualmente nella forma di un dialogo tra Ghostface e Cappadonna incentrato sull’amore di Tony Stark per la donna che lo tradirà a morte. Nonostante questo piccolo problema Twelve Reasons è tra i migliori esempi di hip hop di classe in questo maledetto 2013, non troppo prodigo di uscite di questo tipo. Certo, non potrà essere sparato in macchina a tutto volume come Holy Grail, né citato all’infinito come Yeezus (“Put my fist in her like a civil rights sign/ And grabbed it with a slight grind/ And held it ‘til the right time”), ma rappresenta un hip hop infinitamente più educato, da ascoltare e riascoltare con attenzione per coglierne tutte le sfumature. Sarà forse una mossa di marketing astuta, ma rimane un po’ di amarezza nel constatare come uno dei dischi più interessanti uscito dal giro dei vecchi leoni del ‘90s hip hop sia quasi tutto rivolto all’attenzione dei collezionisti di dischi, dei nostalgici, dei fan di Tarantino, slegandosi in gran parte dal suo luogo d’elezione, ovvero le strade della inner city lasciate alla mercé di artisti quali Chief Keef. 7.1/10

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Italia, perché Younge unisce alla sua passione per la black music dei gloriosi Settanta una sorta di ossessione per le colonne sonore italiane di vecchi film horror e crime italiani che sfocia in una venerazione per il Maestro Morricone. La vocazione cinematica di Younge, già produttore di colonne sonore, porta a un livello ancora più alto il grado di transmedialità che ha sempre caratterizzato le uscite del Wu-Tang. L’album è basato su un concept che è un fumetto, che a sua volta è ispirato ai film anni Settanta, la cui colonna sonora è l’album stesso. La storia è semplice e, come ci ha ben abituato RZA, è un sorta di delirio post-tarantiano. Solo che al posto del solito ninja meet gangsters in New York, stavolta Tony Stark è in guerra con la mafia stessa: “Basically, I get involved with the mafia and making money, then I start fuckin’ one of their bitches, and they don’t like that shit. They fuck around and kill me, but before they kill me, we’re going to war and all this other shit. So they got me, killed me, threw me into a pot of vinyl and melted me down, and now every time someone plays that record, someone gets killed off—you know what I mean?” Purtroppo la capacità evocativa degli strumentali David Axelrod plays Morricone di Younge sembra andare un po’ a discapito della libertà di Ghostface di raccontare storie. Non si può negare l’abilità del wu-veterano nel disegnare con le sue rime immagini tratte delle più classiche pellicole crime, ma al contempo avviene una curiosa inversione per cui sono più le parole a funzionare da abbellimento per la musica che il contrario. Per quanto ce la si metta tutta per dipingere scenari variegati, non ci si può ritenere pienamente soddisfatti da un disco in cui la maggior parte dei testi sono glorificazioni di se stessi del tipo “Ghostface Killah’s back attacking villains, hanging from the ceilings /Godfather motives, / gangsta mentality/ Black superhe-

Gianluca Carletti

Girls In Hawaii - Everest (Naive,2013) Genere: pop, cantautori, indie Con un disco ogni cinque anni i Girls In Hawaii hanno rischiato seriamente di mettere a repentaglio la carriera, a causa anche di un pubblico così ingordo e senza memoria che vorrebbe un disco ogni anno, una foto al giorno su Instagram e un aggiornamento su Facebook ogni mezz’ora. Ancor più serio, ai fini della carriera, è stato l’incidente automobilistico che nel 2010 ha tolto la vita al batterista Denis Wielemans, fratello del cantante Antoine. All’epoca il gruppo sembrava incamminato

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Se per la prima parte della loro carriera il gruppo belga ha potuto contare su un pubblico assetato della leggerezza dream del loro esordio e delle buone melodie del secondo, questa terza prova non all’altezza rischia di farli percepire ai più come uno dei tanti act da bedroom pop che hanno forgiato il proprio suono su quelle direttrici estetiche. 6/10 Marco Boscolo

Glasvegas - Later… When the TV Turns to Static (BMG,2013) Genere: pop, rock, alt, indie Era solo il 2008 ma sembra passato un secolo: i Glasvegas esordivano su formato lungo – dopo aver alimentato per mesi l’hype grazie a singoli azzeccati e decisamente promettenti – con Glasvegas ovvero, per chi scrive, uno dei migliori album di debutto di quell’anno. Tutto sembrava facile in casa James Allan And co, dallo scrivere anthem da classifica (Geraldine, Daddy’s Gone, Go Square Go) al ricreare struggenti atmosfere funeree a sfondo sociale (l’epico crescendo wall-of-sound di Ice Cream Van, e la “knife culture” di Stabbed). Sembrava facile persino realizzare un credibile EP natalizio - Snowflake Fell (and It Felt Like a Kiss) senza passare necessariamente per dei sfacciati marketers. Sembravano poter dare un nuovo senso di continuità al revival post-punk ed invece la seconda prova Euphoric /// Heartbreak non fece altro che certificare la parabola tipica delle band pompate da NME a causa di brani poco ispirati, una produzione – targata Flood – eccessiva e stadium-oriented e l’incapacità di attrarre quanto il predecessore. Il terzo lavoro, Later…When The TV Turns To Static, vede i Glasvegas con quotazioni mediatiche giustamente ridimensionate (nonostante l’approdo ad un’altra major, la BMG): tutto,

recensi o ni

verso un percorso di scomparsa, sebbene non si sia mai parlato apertamente di scioglimento, ma quella tragedia ha cementato nuovamente rapporti umani e artistici. Tornata la voglia di lavorare insieme a nuove canzoni, ecco che nell’arco di un paio d’anni si arriva agli undici episodi di Everest. Dovrebbe essere il “difficile terzo album”, ma gli autori non sono i tipici venticinquenni indie, piuttosto dei trenta/ trentacinquenni di Bruxelles, lontani da hype anglosassoni e camerette americane. L’opening The Spring non ha niente dei sentimenti colorati che associamo alla rinascita della natura in quella stagione. La voce di Antoine è un sussurro su un tappeto di field recording e accordi di pianoforte, in un’atmosfera cupa che non fa venire in mente alcun riferimento musicale tirato in ballo per i dischi precedenti: Belle And Sebastian, Grandaddy, per citare i più frequenti. Tutto il disco è freddo, verrebbe da dire, come se il ghiaccio dell’Everest del titolo lo avesse contaminato. Non si tratta di quelle atmosfere agrodolci à la Yo La Tengo, ma di un tenore piuttosto depresso e deprimente a sua volta, non solo sul piano del compatimento per la perdita improvvisa di un membro del gruppo. Che dire, infatti, dell’uso delle tastiere in brani come Misses o We Are The Living? Grasse pennellate synthetiche che fanno pensare a una brutta copia dei Muse, solo in un territorio più intimo. Le cose vanno meglio con i ritmi più elevati di Changes e Switzerland, ma c’è sempre di mezzo una produzione poco elegante, come se i synth li avessero dati in mano ai Tangerine Dream di fine anni Novanta o a un Mike Oldfield decaduto. Tacciamo su un titolo come Not Dead o sullo spoken word di Here I Belong (con la banalità del suo “all the fucking world”) e sottolineamo solamente come lo slow tempo finale Wars sia funestato da altri effetti da balera di righeiriana memoria che rendono il tutto un po’ straniante.


Riccardo Zagaglia

Goldfrapp - Tales Of Us (Mute,2013) Genere: ambient, elettronica Scorrendo velocemente il catalogo della discografia dei Goldfrapp si vede bene che il gruppo della chanteuse più amata/odiata del synth pop (almeno degli ultimi dieci anni) salta furbescamente fra atmosfere da ballo puro e momenti

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più meditativo-orchestrali. Il segreto del loro successo, reiterato negli anni, sta quindi nel sapiente uso dell’aumento e del rilascio della tensione. Questo dal punto di vista della forma. Per quanto riguarda i condimenti timbrici, il duo di Londra è approdato nel mercato nel momento giusto, all’inizio degli anni 2000, in cui le estetiche di recupero/retrofilia e l’electroclash stavano esplodendo. Dal botto di Felt Mountain, che coniugava le istanze trip di James Lavelle e Massive Attack, le antichità vintage-fashioniste à la Air, il Bristol Sound e l’orchestra con fischietto western di Ennio Morricone, il declino è stato più che mai palese (Black Cherry nel 2003 e Head First nel 2010 i punti più bassi della discografia). Ultimo, ma non meno importante, ingrediente, è l’atteggiamento da diva poshy della frontlady, che faceva a gara con le maniere da maschiaccio di Peaches o con la sensualità post ravey di Miss Kittin, e che costruiva così una nicchia di followers che non volevano sudare troppo sul dancefloor, ma a cui piaceva comunque muovere il culo. Con questo nuovo tentativo di rimescolare le carte, i Goldfrapp vanno a parare furbescamente su ballad lente e blues, una mossa che rallenta il ritmo dopo la raccolta dei singoli dello scorso anno. Due gli ingredienti usati che non hanno ancora perso mordente: la voce di Alison e il tocco produttivo di Will Gregory, in fissa da sempre con i tappetini di archi e con la chitarra arpeggiata folk (almeno da Seventh Tree in poi). Tra le poche variazioni, una simpatica citazione all’estetica dreamy-pastello della 4AD (Alvar) e un buon pezzo da club che aspetta il remix dai Gus Gus (Thea, con un acuto che per un istante fa venire in mente i Matia Bazar). Per il resto è la solita passeggiata chicintrospettiva che starebbe bene sui titoli di coda di una qualsiasi produzione Hollywoodiana. Nuove (?) canzoni da usare come pretesto

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dalla scrittura alla produzione, torna in mano al leader James Allan. L’impegno è volto al rispetto della propria cifra stilistica evitando quindi di scardinare più di tanto gli ingranaggi della formula. Abbiamo di conseguenza i classici brani poprock incastonati nel proprio marchio di fabbrica fatto di sontuose chitarre riverberate e melodie piene di malinconica grandiosità (la titletrack, Secret Truth), attacchi rock fatti di note sinistre (Youngblood), ballatone a effetto cathedral (Choices) e l’episodio piano-driven I’d Rather Be Dead (Than Be With You). L’unica sorpresa, se così vogliamo chiamarla, è rappresentata dal tributo ai Talking Heads di Road To Nowhere (che diventa “road to somewhere”) contenuto in If, traccia nata da una chiacchierata telefonica con Alan McGee. Da un lato si fatica a trovare anche una Whatever Hurts You Through The Night (forse il passaggio più riuscito di Euphoric /// Heartbreak ) data la mancanza del classico pezzo da novanta, dall’altro lato James Allan sembra aver ritrovato una via più diretta e convincente di scrittura, tanto che risulta difficile evidenziare brani realmente disdicevoli. Lungo i dieci episodi di Later…When The TV Turns To Static nulla brilla, ma non si rintracciano neanche troppe infamie. Il risultato è uno status quo tanto utile per la fidelizzazione del proprio pubblico quanto superfluo per la conquista di nuovi sostenitori. 5.8/10

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per il prossimo tour. Goldfrapp: un carrozzone che cerca di riciclarsi e che inevitabilmente stanca. 5/10 Marco Braggion

Genere: cantautori, indie Grant Hart non è nuovo a imprese titaniche. Vent’anni dopo The Last Days of Pompeii dei Nova Mob e a quasi trenta da Zen Arcade degli Hüsker Dü si inventa un’opera, se possibile, ancora più ambiziosa: un nuovo concept album, stavolta tratto da un manoscritto inedito di William Burroughs, a sua volta ispirato al Paradiso perduto di Milton. Vola alto, il nostro Grant, anche se l’argomento è la caduta dell’uomo, vista attraverso quella di Lucifero. Sin dall’inizio, quando in Out of Chaos legge l’incipit del Paradise Lost originale, si capisce che angeli caduti e ribelli sono un tema a lui congeniale, quasi naturale, per vedervi il riscatto di anni difficili, se non di un’intera carriera che gli ha dato meno soddisfazioni di quante ne avrebbe meritate. C’è tutto Hart concentrato in questi solchi, una voce che da tempo non reclamava con tanta forza la propria presenza. Il disco ha qualcosa di arcaico e barocco, con il ricorso frequente a strumenti vecchio stile come le fisarmoniche e suoni di arpa e carillon, ma è anche una raccolta di canzoni in cui l’ex Hüsker Dü dispiega a ventaglio le proprie possibilità di scrittura. Hart guarda ora alla storia e anche alla preistoria della musica pop con l’epica Awake, Arise, le marcette drammatiche If We Have the Will e I Am Death, il blues classicheggiante di Sin, il country rock di Letting Me Out, il pop anni ‘50 di So Far From Heaven, e rispolvera altrove accenti fortemente personali, in particolare nella ballata strappacuore I Will Never See My Home

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Tommaso Iannini

Holograms - Forever (Captured Tracks,2013) Genere: post-punk ABC City, Fever e soprattutto Chasing My Mind. Il debutto omonimo degli Holograms (2012) poteva vantare tre singoli micidiali, ma il resto della proposta non brillava altrettanto e, comunque, mai si aveva la sensazione di essere di fronte a più di una semplice “collezione di brani” assemblata in fretta e furia. Questo Forever, viceversa, è un album nel senso proprio del termine, coerente e strutturato da inizio a fine, senza particolari cali di tiro e tensione. Le chitarre, peraltro, guadagnano in vigore, tagliano sul serio, e gli innesti di synth – che sull’esordio facevano poco più che simulare una freschezza che aveva ancora da arrivare – qui operano con la perizia degli Horrors di Skying, come ben piazzati proto-propulsori a mirare costantemente alla proiezione verso il cielo (e al pugnetto alto dell’ascoltatore, direbbe qualcuno). I singoli restano, si moltiplicano, anzi, grazie a chorus dall’enorme tasso anthemico che questa volta non fanno eccezioni lungo la tracklist, mentre Andreas Lagerström si conferma – a livello vocale – come la driving force più coin-

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Grant Hart - The Argument (Domino,2013)

– forse il pezzo migliore di tutta la raccolta, sicuramente il più intenso e vissuto – e nelle memorie degli Hüskers: la psichedelia di Golden, che riecheggia il riff di She Floated Away, il garage pop di Glorious, che guarda al periodo di Flip Your Wig, e titoli come la beatlesiana (It Was A Most) Disturbing Dream e Is the Sky the Limit?, che sembrano quasi interrogare il passato e chiamare in causa il fantasma di Zen Arcade. A tratti “esagerato”, è un disco convincente che difficilmente sfigurerà nelle playlist di fine anno. 7.5/10


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Massimo Rancati

Jay-Z - Magna Carta… Holy Grail (RocA-Fella,2013) Genere: hiphop Per tutti quelli che avevano visto nel ritorno discografico di Jay-Z un ritorno dell’hip hop più autentico, poetica di strada contro rap da discoteca, la delusione doveva cominciare già dalla copertina. Le statue? Quando mai Jay-Z ha voluto dire statue neoclassiche? Per non parlare dell’enorme maelstrom pubblicitario che si è aperto sotto i piedi del nostro. Certo, per rispondere alle proiezioni sui palazzi di Yeezus serviva qualcosa di grandioso, tuttavia stento a vedere la grandiosità dietro al fatto di appiccicare un brand di telefonia sopra un album hip hop, tradendo tutto quello di buono che l’hip hop ha rappresentato nella sua storia. La verità è che Jeezy è abituato a tenersi in piedi in un rimbalzare continuo di trend e avrà capito di non poter reclamare ancora il ruolo di king con la solita formula, che da decenni lo ha

reso grande: doveva cambiare tutto, perché non cambiasse niente. Per questo motivo il rapper ha fatto alcuni passi importanti fuori dalla sua comfort-zone, ma con risultati alterni. Da un lato, Tom Ford, Picasso, Basquiat e altre icone del lusso contemporaneo hanno rimpiazzato le storie di perdizione e redenzione metropolitana, e se Jay-Z è sempre stato uno incline all’autocelebrazione e al beat epico, da qualche anno il mogul del rap di NY sembra strizzare troppo l’occhio a un’estetica G.O.O.D. Music di cui riesce ad appropriarsi ma senza impensierirne troppo il labelmaster Kanye West, segugio dal fiuto infallibile capace di scoprire tracce di capitale simbolico in ogni dove. Jay-Z sembra adesso come sospeso tra la solita estetica cafonal da pusher arricchito e il tentativo di alzare il livello culturale dei riferimenti, ma senza dire nulla di nuovo. C’è di sicuro l’ansia di ampliare il proprio universo tematico, traghettandolo verso qualcosa di più maturo, cosicché l’esperienza di genitore e di marito segnano un nuovo Jay-Z più riflessivo, che non ha bisogno della cocaina perché è tutto intento a cambiare pannolini. Il compito che il nostro si è posto è insomma arduo e, forse anche da plaudire, ma il risultato è ben lontano dall’essere convincente: i pannolini non sono una tematica molto cara ai gangster e al pubblico più giovane, e se da una parte possono aprire nuovi settori di pubblico al rapper di NY, al contempo potrebbero fargli perdere grip sul demografico più tradizionale. A sopperire a tante incertezze sul versante lirico ci pensa la produzione, vero punto di forza dell’album. Del resto, dietro alla consolle siede per gran parte del tempo Timbaland, che ha scritto alcuni dei momenti più fortunati della carriera di Jay-Z (anche se non ne aveva mai curato un disco intero prima d’ora). Ennesima delusione invece il fatto che Rick Rubin, che compariva nei teaser, non sia citato nei credits

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volgente dai tempi di Ellery James Roberts. Infine, al revivalismo nudo e crudo vengono concessi giusto i trenta secondi (di autentico plagio The Cure) che inaugurano Flesh And Bone e, per il resto e piuttosto che i soliti Killing Joke, si preferisce tributare i primi Editors (Laughter Breaks The Silence) o, appunto, i WU LYF (che hanno certamente ispirato la splendida coda di Rush). Il tutto, finalmente, con una ragguardevole personalità. Il passo in avanti dei quattro svedesi, insomma, vale tanto quanto quello – ultracelebrato – compiuto dai cuginetti Iceage con You’re Nothing e riduce la questione del preferire gli uni agli altri a puramente soggettiva. Il dato di fatto è che, ora come ora, la “rabbia punk” scandinava ha almeno due teste di serie. Nell’attesa del full-lenght dei Lower. 7.1/10

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A forza di nutrirsi degli status symbol della borghesia bianca americana i due sembrano col tempo aver perso la capacità di rappresentare la cultura afroamericana che li ha espressi; tant’è che Jay-Z è riuscito a spostare in avanti il processo di sbiancamento dell’hip hop con un disco che cita i Nirvana e i R.E.M., ma quasi nessun artista nero. Per quanto la retorica black power di Yeezus, da parte di un dio coperto d’oro, possa sembrare poco credibile, ha comunque avuto il merito di riportare in auge tematiche da tempo scoparse dall’hip hop mainstream. E, alla fine, invece, cosa verrà ricordato di MC|HG, a parte il titolo pretenzioso e la nascita delle tag ‘apprap’ e ‘dad-rap’? 6.9/10 Gianluca Carletti

Jessy Lanza - Pull My Hair Back (Hyperdub Records,2013) Genere: soul, rnb, elettronica Poco sappiamo di Jessy Lanza, da Hamilton, Ontario. All’attivo un solo feat su un brano di Ikonika (Beach Mode, da Aerotropolis), esordisce ora su Hyperdub con questo full lenght, co-scritto e co-arrangiato da Jeremy Greenspan dei Junior Boys (anche loro originari di Hamilton), e anticipato dal singolo e relativo video Kathy Lee. Jessy pare situarsi in una intersezione tra il synth-pop essenziale e rigoroso dei due concittadini e le tendenze più recenti che rileggono l’r’n’b alla luce degli skills produttivi now e di una coziness minimal – voce sussurrata, pochi suoni intimi e curati ma iniettati di pathos – non lontana dai modi di gente come Beacon e Inc. (giusto per citare i più famosi), e che in qualche modo arrivano fino a Twigs. Una vena che si nutre anche del proprio omologo in chiave chart e/o tamarra, se la nostra twitta – oltre che Dam-Funk – Kelly Rowland e il “porn

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di nessun brano. Così per chi attendeva un contrappunto black all’elettronica algida di Yeezus, o almeno una nuova 99 Problems, MC|HG è quasi tutto incentrato sui sintetizzatori pesanti. Timbo ha ancora la mano ispirata e, in brani come Tom Ford e Picasso Baby, sforna beat degni dei suoi lavori classici. Ma tutto questo non è abbastanza per ri-imporre Jay-Z come leader di un hip hop che al giorno d’oggi corre sempre più veloce, dietro alle tendenze del momento. E sono molti infatti i momenti in cui i nostri si trovano letteralmente a rincorrere queste tendenze e, essendo questo un disco del tutto marketing-oriented, non risparmiano su nulla: c’è la comparsata luxury-rap di Rick Ross in Fuckwithmeyouknowigotit (su beat gigantesco del solito gigantesco Boi-1da); ci sono ospiti RAndB di lusso come Frank Ocean e Timberlake; c’è una estiva “posse cut” dal cast stellare, BBC, con cui ballare in spiaggia a suon di mojito; e persino una scopiazzata da Macklemore, in Somewhereinamerica. In ultima istanza, il boss della Roc-a-fella ha cercato di recuperare tutto il meglio disponibile nell’olimpo del rap mainstream; una strategia artistica e imprenditoriale questa che si mostra però meno lungimirante di quella dell’amico-rivale, ovvero reclutare tutte le migliori nuove leve da ambiti musicali diversi e lasciarsi rinvigorire da loro. I momenti buoni sono abbastanza buoni da alleviare il senso di nausea nel sentire Timberlake citare i Nirvana su un disco sponsorizzato da una multinazionale; ma i momenti no ci sono e pesano abbastanza per poter dire senza paura che questo è un disco assai meno riuscito e futuristico di Yeezus, con buona pace per le dichiarazioni di Timbaland. Nel complesso, MC|HG riesce a far divertire, ma si colloca al di sotto del livello dei classici di Jay-Z, di cui non possiamo non registrare una dura crisi di identità, e di credibilità, che non sarebbe esagerato paragonare a quella del suo amico Obama.


Gabriele Marino

Jimmy Lavalle - Perils From The Sea (Caldo Verde Records,2013) Genere: pop, rock Con un disco nuovo praticamente in tasca (con Phil Carney dei Red House, dal titolo Mark

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Kozelek And Desertshore), Mark Kozelek (passato e presente di lusso fra Red House Painters e Sun Kil Moon) torna all’attacco, questa volta con l’album più strano della sua carriera. Abbandonata la sei corde e l’ansia compositiva degli arrangiamenti, infatti, il lavoro armonico e musicale è tutto affidato a Mr. Jimmy Lavalle, che nel tempo ha lasciato un solco inossidabile nel post-rock cantautorale con i suoi The Album Leaf. Dato il sodalizio non c’è da meravigliarsi se le caratteristiche da grande maestro e tessitore di storie (fra i migliori della sua generazione), spicchino forse sostenute meno dall’apparato orchestrale, ma comunque strazianti e coinvolgenti. Perils From The Sea è l’album in cui la voce di Kozelek, sempre più rauca e monocorde, tocca le trame dell’anima più recondite, lasciando aure d’incanto nelle drum machine e nelle tastiere di Lavalle. Ottanta minuti di leggeri e soavi arrangiamenti minimali, in cui i raddoppiamenti vocali di Kozelek la fanno da padrona, già a partire dall’anthem What Happened To My Brother, apripista spiazzante per chi era abituato allo stile arpeggiato e potenzialmente infinito del cantastorie di San Diego. La particolarità più attesa e interessante del disco sta nella maturazione stilistica delle liriche di Kozelek. Se ancora un po’ posticce e ingarbugliate ci potevano sembrare quelle dell’ultimo di Sun Kil Moon, in Perils From The Sea Kozelek si distacca leggermente dal retrogusto filosofico e sentenziante per ritrovarlo calato nella quotidianità. Una quotidianità rappresentata, ad esempio, dal clandestino messicano incaricato di ristrutturargli casa, ma rimpatriato anzitempo a causa della sua irregolarità (Gustavo); oppure dalla storia faticosa ma lucida del divorzio della sorella in Ceiling Gazing. E ancora: ricordi d’infanzia, paesaggi mozzafiato di San Francisco e scali internazionali (Baby In Death…). Piccoli e deliziosi frammenti, in un mare di

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r’n’b” – che poi dai, non è altro che l’aggiornamento delle cose che faceva Barry White – di LoveRance. L’area stilistica è insomma molto inflazionata, per di più in un momento, che dura ormai da qualche anno, che punta massicciamente sul soul a destra e a manca (qualche nome tra quelli che hanno segnato le direttrici: Bon Iver, Clams Casino, James Blake, SBTRKT, The Weeknd, Jamie Woon, Frank Ocean). Eppure Jessy padroneggia la materia – sicuramente anche grazie alla salda mano di Greenspan – con modi non diciamo consumati ma neppure da esordiente, confezionando una manciata di perle che faranno contenti gli amanti di un club alt- sì, ma comunque linearmente legato, come suggeriscono le note stampa, alla house e al soft-rock anni Ottanta (si veda anche la praticamente-citazione di Da Da Da del Trio nella ritmica di Against the Wall). Pezzi come 5785021 (con il suo pathos trattenuto ma ostentato), Kathy Lee (costruita per piacere ai fan di dubstep (clap), footwork (cut vocali) e trap (charleston); stile questo a cui ammicca anche la title track, voce a parte e nel suo gioco di vuoti e di pieni), Fuck Diamond e As If (ottima electro) sono materiali forse non particolarmente personali, ma eccellenti, e con un grande potenziale in sede club. Forse il disco dai suoni più cool, catchy e “dritti” del catalogo Hyperdub finora, il cui precedente immediato può in qualche modo essere rintracciato nelle produzioni firmate Darkstar. 7/10

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Nino Ciglio

Julianna Barwick - Nepenthe (Dead Oceans,2013) Genere: folk Da Asmatic Kitten a Dead Oceans e terzo disco per la musicista di Brooklyn. Se il precedente The Magic Place suscitava sentimenti contrastanti tra l’estatico e l’offeso nella parata critica di ascoltatori, lì si apprezzava la perfezione formale e tecnica, oltre a quei rimandi bucolici al bosco dell’infanzia che rendevano evocative le evoluzioni voce/loop pedal che contraddistinguono la proposta della Barwick. Allora sembra strettino l’angolo di manovra possibile per uscire da una monotonia estatico-ipnotica che ha avuto estimatori (tra cui chi scrive) e detrattori. La profezia si è rivelata quanto mai esatta, perché in questo nuovo album Julianna cerca di mettere in pista qualche soluzione variata (The Harbinger), con una strumentazione più ampia, e talvolta inserisce anche qualche pas-

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saggio che, in senso stretto, è davvero cantato. In altri passaggi (Look Into Your Own Mind, Phyrric) si sente la mano del produttore Alex Somers (americano, ma compagno di Jónsi) che tenta di addomesticare in una forma più narrativa le circonvoluzioni vocali della Barwick. C’è quasi un tentativo di islandizzazione del sound, che non fa altro che aumentare l’afflato angelico dei brani della Barwick e sottolineando ancora una volta come l’unico registro scelto/voluto sia quello dell’estetica eterea fine a sé stessa. In un paragone poco ortodosso, il terzo disco della Barwick lascia in bocca lo stesso gusto che da studenti svogliati ci lasciavano alcuni canti del Paradiso di Dante Alighieri: noia sotto forma lirica. E volevamo ritornare ad arrostirci con le fiamme dell’Inferno. La domanda da farsi è se Julianna sia mai uscita dall’enclave dorata dell’hispteria brooklynese non tanto per passeggiare all’inferno, ma per almeno per provare qualche emozione diversa dall’estasi. Le capacità per esprimerle nella musica ci sono. L’impressione è che lei non voglia. 6.2/10 Marco Boscolo

Juveniles - Juveniles (Universal,2013) Genere: dance-pop Doveva essere l’estate del revival degli anni Novanta. E invece, il grande successo di Random Access Memories, con il coinvolgimento di mostri sacri come Giorgio Moroder e Nile Rodgers, ci ha spiazzati tutti e ha dimostrato quanto l’ondata precedente della retromania si sia tutt’altro che esaurita, tra funk, dance suadente e citazioni che vanno dagli Chic al Cerrone di Supernature. Non dimentichiamo poi il ritorno di istituzioni del synth-pop come gli OMD e i Visage. I francesi Jean-Sylvain Le Gouic e Thibaut Doray, nati in casa Kitsuné (etichetta discografica hip divenuta anche fashion hou-

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pericolosità, come recita il titolo, restano gli episodi dove compare una chitarra (tra l’altro, non accreditata a Mark, ma a Peter Broderick). Here Come More Perils From The Sea, ipnotica e travolgente, ma soprattutto Caroline, dove Kozelek – come se ce ne fosse bisogno – smentisce chi l’ha sempre accusato di monotonia vocale, sfoderando il ricordo più lucido dei migliori dischi dei Red House Painters. Chiude il disco Somehow The Wonder Of Life Prevails, vera summa filosofica del pensiero di Kozelek, racchiuso nella bellezza di un viso di una fanciulla, che gli dà conforto anche nel momento del dolore, del lutto, del commiato. Rimanendo ancorato a una filosofia quotidiana e intessendo nelle tracce del recording una profondità che solo un maestro navigato come lui sa concepire, Kozelek firma un disco bellissimo, a prova di palpitazioni. 7.2/10


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contraddistingue il chorus di Logical e le luci al neon di una serata a Liverpool di Summer Nights (sembra di assistere alla resurrezione degli A Flock Of Seagulls). Interludi sognanti (Washed Away), irresistibili four-on-the-floor con furti degni di Arsenio Lupin (si ascolti il synth-bass alla Yazoo di All I Ever Wanted Was Your Love, brano per il resto debitore verso i migliori Hot Chip), ammiccamenti ai Frankie Goes To Hollywood (Through The Night, presente anche in versione remix): c’è questo ed altro, in un debutto che è un vero tour-de-force dall’appeal trasversale. Per quanto (piacevolmente) derivativi, i Juveniles si distinguono dalla massa grazie all’eleganza della proposta, a una dance mai caciarona ma nemmeno con la puzza sotto il naso, estremamente fruibile, accattivante, che con una sola ricetta riesce nella difficile impresa di riunire insieme, sulla stessa pista da ballo, ventenni divertiti e quarantenni in preda a un tourbillon di ricordi e di emozioni (si preparino questi ultimi, può scapparci anche un luccicone). Attenti a questi due, potrebbero davvero fare il botto. 7/10

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se), amano il post-punk, la new wave e l’italo disco e trattano questi generi con rispetto, li capiscono ed evitano così la facile pantomima – aiutati, nel loro primo album, dal DJ e produttore Pierre-Alexandre Busson (Yuksek), di Reims come loro. Sarebbe facile liquidare i Juveniles come furbi bambocci del French Touch dalla contenuta stravaganza, peraltro arrivati tardi alla festa. Eppure non siamo affatto di fronte a imitatori dei Phoenix o a dei Daft Punk senza casco: il disco che hanno confezionato è un fiume di melodie electro-pop effervescenti e talvolta irrestitibili, che guardano più a Londra che a Parigi e più al Blitz Club che allo Studio 54. Nonostante il dichiarato amore per gli Smiths e per i primi New Order, i ragazzi dimostrano anche di sapersi prendere meno sul serio (si veda il buffo video di Fantasy – sorta di after hour tra i Duran Duran degli esordi e gli Human League – con i due intenti a far colpo su due ragazze che mostrano per contro più interesse reciproco che verso di loro) e di essere attenti alle tendenze degli ultimi anni (se l’americano Penguin Prison, altrettanto passatista, ha messo le mani su brani di Jack Peñate e Lana Del Rey con risultati interessanti, loro hanno realizzato una cover di un brano di Rihanna, aprono i live set per i White Lies e suonano con i Two Door Cinema Club). E così, come per magia, il passato diventa spesso presente. We Are Young mostra subito le carte in tavola: se le linee di synth provengono da una sala giochi e la voce di Jean-Sylvain ha una smaccata somiglianza con quella di Andy McCluskey degli Orchestral Manoeuvres In The Dark, il risultato è sorprendentemente più vicino all’opera prima di Washed Out. Si guarda alla Munich disco in Strangers – che procede spedita come un treno e ricorda il Battisti di Una donna per amico – e poi si vola in Gran Bretagna, con il basso liquido alla Peter Hook che

Alessandro Liccardo

Keiji Haino - Now While It’s Still Warm Let Us Pour In All The Mystery (Black Truffle,2013) Genere: avant, noise Lo si diceva per Imikuzushi: i tre hanno trovato l’assetto. Jim O’Rourke suona il basso, Oren Ambarchi la batteria, Keiji Haino la chitarra. Sarebbe scarsamente onesto non cercare espressioni più incisive per qualificare l’esercizio dei tre. La chitarra abrasa, il basso percosso poderosamente, i tamburi ipnotici, eccetera. Non siamo per nulla lontani da Imikuzushi, si diceva – il trio è un caterpillar che stende, fa venire la scorza dura a chi lo ascolta, inorgo-

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Gaspare Caliri

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Larry Gus - Years Not Living (DFA,2013) Genere: dance Di Larry Gus sappiamo quanto basta per esser depistati come da tradizione dei migliori cult hero che si rispettino: si chiama Panagiotis Melidis ed è greco. Abita a Milano. Pubblica sulla newyorchese DFA di James Murphy e tra le influenze musicali che possiamo leggere sulla pagina personale Facebook troviamo un collage formato da Lucio Battisti, Albert Ayler, Otis Jackson Jr, Creedence Clearwater Revival e Black Dice. Niente di tutto ciò, o perlomeno non nel modo in cui lo si potrebbe immaginare. Larry è uno che si sottrae come se avesse la consapevolezza di farsi trovare (per farsi ammirare). Soltanto i ragazzi di Pitchfork recensiscono il precedente Silent Congas (del 2012) ed è senz’altro chiaro, fin dalle prime note di questa seconda prova, Years Not Living, che gli svagati, ma serrati, massimalismi sample(beat)pop del milanese per caso, anche questa volta, assumono i contorni di una jam immaginata dagli Akron/Family addormentati davanti a uno stereo che suona la discografia di Madlib in shuffle. Detta così sembra il classico tesoro d’imperscrutabile bellezza ma, a dirla tutta, Gus gioca a carte piuttosto scoperte. A inizio luglio il greco comprime cinquantadue sample dell’idolatrato boss Stones Throw in un’oretta e mezza di dedica sperticata, e ora parte di quel piglio prog con sfilacci (free)jazz, percussioni afosissime infilate in secchi locked groove (e mille layer sonori che svolazzano nel mezzo vanno) foraggiano un tortuoso tappeto sonico per karaokistici smalti pop tra Ariel Pink e Part Time. Humming, falsetti, crooning e coretti freak, nonché glasse pop cantate nella consapevolezza di farsi odiare, portano l’ubriacatura oltre il confine con la nausea, catturando soltanto raramente l’attenzione (Merely Today). Larry

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glisce l’ascoltatore: da tre figure fondamentali della ricerca sul rumore, esce un noise leggibile, mai astratto, rockista se non sanguigno (e quindi accessibile tramite la visceralità). Sembra di avere a che fare con una band, che inscena l’arena per il melodramma della voce di Keiji Haino, che in Who Would Have Thought This Callous History Would Become My Skin, come nelle migliori tradizioni di jazz non blu europeo, dialoga a distanza con un flauto sulla base di un basso dal giro alieno (sempre Keiji), oppure nelle tracce successive punta il dito sul noise degli anni Settanta giapponesi – quelli del resto già attraversati da Haino, figura fondamentale già allora. Da Only The Winding “Why” Expresses Anything Clearly così come da A New Radiance Springing Forth From Inside The Light esce il vero punto di riferimento, di quel noise paranoico e santificante del Sol Levante che Keiji sperimentò da solo, nei Fushitsusha, oppure qualche anno prima osservando Takahashi Mizutani, mentore (lui sì) imprendibile eppure figura emblematica di come, pur semplificando (le strutture), i giapponesi sappiano essere sempre inediti e “mind-blowing”. La prima traccia di Now While It’s Still Warm Let Us Pour In All The Mystery è una porta per riattraversare lo specchio, grazie alla collaborazione di Charlemagne Palestine e Eiko Ishibashi che suonano il bordo dei bicchieri, mentre Haino fa da caronte e apre il rituale – quello che si chiuderà con una title-track spettrale, senza più voci ma con tocchi di chitarra che sembra suonata da un danzatore marziale, nella calma prima della tempesta del ritorno alla normalità. 7/10


Gus sembra puntare a una versione sfatta e caricaturale di Caribou o Hot Chip per dar risalto a un minestrone di beat e spezie colorate che da sole non si bastano (e non ci bastano). Manca la magia. E la voce è insopportabile. 6/10 Edoardo Bridda

Genere: pop, cantautori, rock Laura Veirs sembra non cantare, ma suggerire mondi sommersi con la sua voce sotterranea e lirica, mai sopra le righe. A distanza di tre anni dal fortunato Julie Flame, Warp And Weft vede alla produzione come sempre il fido batterista, produttore, nonché marito Tucker Martine, e la partecipazione, tra gli altri, di Jim James (già presente nel penultimo), k. d. lang, Neko Case, il batterista jazz Brian Blade ed elementi di Decemberists e My Morning Jackets. Disco più ricco musicalmente del penultimo, anche se sono lontane le stratificazioni di un tempo, Warp And Weft si mantiene nell’ambito di un rock chitarristico che ingloba elementi jazz, folk e blues, in cui gli archi non sono invadenti, e l’accompagnamento di tastiere, piano e viola completa un songwriting piuttosto asciutto. Concepito durante la seconda gravidanza dell’artista americana, l’album non si discosta dalle atmosfere evocative e visuali a cui la Veirs ci ha abituato, unito a un lirismo più accentuato, che si fa narrativo e atmosferico. Siamo più che mai in presenza di atmosfere invernali (Shape Shifter), in cui si racconta di maternità, amore, violenza, suicidio, con riverberi di vecchi pezzi folk (Motherless Children riecheggia in Dorothy Of The Island, molto Joni Mitchell), storie ispirate alla realtà – omaggi a Alice Coltrane in That Alice e all’artista Howard Finster (autore tra l’altro di copertine per R.E.M e Talking Heads) in Fin-

Teresa Greco

Lust For Youth - Perfect View (Sacred Bones,2013) Genere: synthpop La vista perfetta del progetto Lust For Youth è ormai orientata, senza più dubbi, verso un dancefloor synth-driven rivolto agli anni ‘80 e depurato dalle asperità degli esordi. Se il precedente Growing Seeds tentava la virata dalle asperità degli esordi – l’ottimo Solar Flare – e l’accoppiata in formato piccolo Saluting Rome e Chasing The Light mostrava come il dancefloor fosse ormai il luogo ideale per le sonorità made in LFY, Perfect View certifica il repulisti a livello di sporcizia sonora e di ambientazioni claustrofobiche in favore di un “pop”, mettiamolo tra virgolette, sempre synthetico ma decisamente più diretto. A momenti targati vecchia scuola, come la End posta quasi a mo’ di spartiacque del disco e, chissà, di una intera carriera pregressa, ne seguono molti, forse troppi, orientati verso questa nuova forma di elettronica catchy che è il vestitino nuovo indossato da Norrvinde. In cui, cioè, casse dritte e lunghe reiterazioni ipnotiche su modalità technoidi – una title track che sul finale lancia più di un indizio riecheggiando addirittura la Blue Monday dei New Order – unite a poche note di synth strati-

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Laura Veirs - Warp And Weft (Bella Union,2013)

ster Saw The Angels – , delizie come il singolo Sun Songs con la chitarra in evidenza e i suggestivi giochi vocali. In generale c’è un mood brumoso, molto più esplicito nell’ultima introversa parte dell’album, con la chiosa della liquida, pianistica e jazzata White Cherry. Chiusura impeccabile. Warp And Weft è coerente con l’ultimissima produzione della Veirs, rivelando ancora una volta un compiuto compendio della sua musica e del suo universo. Musica intensa da assaporare nei mesi freddi che verranno. 7.3/10

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ficate, prendono il posto delle suggestioni e dei clangori industriali, mantenendo giusto quel po’ di pulviscolo oscuro per giustificare l’uscita made in Sacred Bones e mantenere il nome del progetto. Forse l’interesse “sotterraneo” e oscuro di Hannes Norrvide, unico responsabile ormai della sigla se si eccettua l’appoggio saltuario di Loke Rahbelk specie in sede live, è per i progetti collaterali più spinti come Rose-Alliance. Per ora, Lust For Youth rimane sospeso, al guado tra l’oscurità che fu e le mire (ehm) commerciali che saranno. Il giudizio, va da sé, dipende dalle aspettative di chi ascolta. 5.9/10

Mac Miller - Watching Movies With the Sound Off (Universal,2013) Genere: rap, hiphop Sin dalla sua ascesa nel 2010, all’età di diciotto anni, con i mixtapes Kids e Best Day Ever, il rapper di Pittsburgh Mac Miller è stato da subito fautore di un party-rap cazzone e adolescenziale, una sorta di Wiz Khalifa dal flow ancora più moscio e meno interessante nei testi. Il 2012 segna tuttavia una svolta importante nella sua vita come nella sua carriera artistica, un doppio allontanamento dalla codeina e dalla sua città natale che lo porta a lavare i panni nei giri più cool di Los Angeles, dove trova una nuova vena creativa girando in compagnia di gente come Odd Future, Schoolboy Q e Flying Lotus. Sin dall’impressionante lista di collaboratori, questo nuovo Watching Movies… esplicita l’ambizione di Miller di trovare un posto nell’empireo del rap alternative, scegliendo produttori come Pharrell, il già citato FlyLo, Earl Sweatshirt, the Alchemist e Clams Casino. Via quindi le atmosfere scanzonate alla Donald Trumph, per fare posto a un sound più

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Stefano Pifferi

dimesso e sconsolato, in cui il flow poco energico del Nostro si reinventa come una voce da bluesman consumato sul modello degli amici Earl e Tyler, the Creator. WMWTSOF, coerentemente col gran numero di produttori di diversa estrazione che ritroviamo al suo interno, è un album che presenta svariati stili, dal sound tipicamente LosAngeles-era di S.D.S. prodotta da Flying Lotus, alla più classica Red Dot Music, passando per sonorità più clubby come Watching Movies, oltre a diversi brani interessanti prodotti dallo stesso rapper di Pittsburgh. Elemento unificante del disco è proprio l’idea di creare un rap sottotono e segnato da nottate di whisky e sigarette, che in alcuni momenti (Avian) risulta un po’ noioso, ma che sa anche regalare frammenti di godimento inaspettato, anche se forse il piano generale del progetto taglia le gambe a molti collaboratori, considerato che pezzi da novanta come the Alchemist e Pharrell non riescono a regalarci i colpi di tacco a cui ci hanno abituati. Il punto ancora dolente è quello dei testi e delle rime, motivo per cui quando divide il microfono con MC del calibro di Schoolboy Q e Jay Electronica, il Nostro non ne esce certo vincitore. In ogni caso, Miller ci sorprende con momenti molto riflessivi, da adolescente divenuto d’un tratto adulto, come Objects in the Mirror, Aquarium (in cui addirittura se la prende con i maniaci di sport che trascurano temi più importanti) e una REMember in cui canta sommesso “I remember when we were just kids, we knew nothing at all, we’d talk about the life we lived”, con doppio riferimento all’amico Reuben Mitrani morto giovanissimo e al suo passato festaiolo. Nobili intenti, però subito vanificati da altrettanti brani pieni di erba e oscenità abbastanza gratuite e misogine, in particolare Red Dot Music con Action Bronson, ormai veterano dell’infastidire l’ascoltatore con versi inutilmente sgradevoli.


C’è ancora molto lavoro da fare per arrivare a un prodotto veramente all’altezza delle proprie ambizioni, ma non possiamo non complimentarci per la maturazione di un artista capace di sfornare un prodotto onesto e sonicamente innovativo senza risultare spiazzante come Yeezus. 7/10 Gianluca Carletti

Genere: pop, cantautori, rock, alt Malgrado la sbandata “commerciale” di metà carriera, ci sono buoni motivi per considerare i Marlene Kuntz – giunti al nono titolo lungo in vent’anni – una band piuttosto coerente. È un merito, che rischia però di essere anche il loro principale limite. La scelta di recuperare oggi l’inquietudine assieme letteraria e sonica con cui scossero gli anni Novanta va inevitabilmente a scontrarsi con ciò che sono diventati nel frattempo il mondo, il rock e i Kuntz stessi. Ovviamene non possiamo rimproverare loro il tentativo, al limite semmai lo sdegno vagamente snob con cui lo fanno. Sta di fatto che questo Nella tua luce è una raccolta di buone canzoni tipicamente kuntziane. E, porca miseria, non funziona. Nel senso che si limita ad intrattenere con una certa gravità, dipinge quadretti di denuncia poetica (Catastrofe, Adele) che però non scendono dalla cornice, non ti feriscono. Certo, nei testi avverti spessore e urgenza, la voglia di affrontare i malanni contemporanei senza paura di sfilettarne la complessità e senza perdere il senso per la densità poetica. Ma, spiace dirlo, non ti coinvolgono più di tanto perché avverti la strisciante supponenza degli sforzi autoreferenziali, di esercizi pensati soprattutto per alzare l’asticella degli esiti artistici. Similmente, quando tentano l’alzata di scudi irriverente (Il

Stefano Solventi

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Marlene Kuntz - Nella Tua Luce (Columbia Records,2013)

Genio, una Giacomo eremita che cita il Vincenzo di Fortis) sono sì efficaci ma ti lasciano col retrogusto d’un dente avvelenato un po’ a gratis. Non vorrei scriverlo, ma insomma, ecco, di una posa. C’è poi da considerare l’insistenza sul riffarama corposo e acidulo da Nineties criogenizzati, roba che scozza improvvidamente solennità CSI e baldanza (consentitemi) Negrita, tanto che la vena ruspante di una Seduzione si sgonfia per così dire nella culla, mentre la più nevrastenica Senza rete si dibatte tra viluppi orchestrali e vampe elettrosintetiche quasi Muse come se volesse disperdere artificiosamente le tracce. Non ci sono, insomma, le condizioni ideali per far scattare l’empatia, che pure ballate come Osja, amore mio e la title track potrebbero meritare. Ti ritrovi così a fare i conti con una band nel pieno della maturità e della forza, professionalmente al top, piuttosto ispirata, ma irrimediabilmente zavorrata dal proprio stesso quid. Peccato. 5.7/10

Mayer Hawthorne - Where Does This Door Go (Universal Republic,2013) Genere: pop, soul, rnb, funk Con Mayer corriamo il rischio di ripeterci. Valga allora quanto detto in occasione del debutto su Stones Throw, che lo dischiuse al mondo con un paio di instant classics, e del secondo album, quello del passaggio su major (Universal Republic, ora Republic e basta) e – soprattutto – “della maturità” (leggi conferma stilistica e rafforzamento autorale). Mayer è un talento, capace di offrire un entertainment genuino e artigianale ma assolutamente impeccabile (il paragone con Justin Timberlake ce lo siamo già giocato), ed è sempre più conosciuto e amato negli States, cosicché i riscontri sui numeri si traducono adesso in collaborazioni d’impatto

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Gabriele Marino

Medicine - To The Happy Few (Captured Tracks,2013) Genere: rock, alt, shoegaze, dream Torna con cadenza ormai decennale la formazione californiana guidata da Brad Laner, arrivata qui a un quinto lavoro – dopo The Mecha-

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nical Forces Of Love del 2003 – che riprende il discorso pop-shoegaze iniziato nella Los Angeles dei primissimi anni ‘90 e culminato, in termini di popolarità, con il cameo della band in una scena e nella colonna sonora del film Il Corvo, con la scintillante Time Baby II ed Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins alla voce. Se la Los Angeles di quegli anni bruciava – nelle distorsioni di Laner e nell’immaginario a fumetti di James O’Barr -, quella di To The Happy Few è, a distanza di più di vent’anni, la versione più moderna, mitigata e normalizzata di un sound che col passare del tempo ha abbandonato i contorni più lussuriosi e dannati, pur rimanendo, appunto, roba per pochi. Non è forse un caso – oppure sì? – che quest’album coincida con il ritorno discografico della band a cui, per forza di cose, i Medicine sono sempre stati associati: i My Bloody Valentine. Stilisticamente ma anche qualitativamente, i Medicine sono quanto di più vicino alla band di Shields gli Stati Uniti siano mai riusciti a produrre. Ma se di somiglianze ce ne sono – dagli effetti eterei usati per le chitarre alla voce filtrata di Beth Thompson (che sostituisce Shannon Lee nella nuova line-up) – nette sono anche le differenze che separano le due band. Se mbv sembra sospeso nel tempo – e in qualche modo è proprio così – To The Happy Few è sicuramente molto più “qui e ora”, più diretto e sfacciato nella sua ricerca delle melodie e del ritornello ma anche nell’uso della voce, strumento che in mbv mai assume contorni ben definiti e che invece nei Medicine viene, in episodi come Holy Crimes, anteposta a tutto il resto. Forte dell’esperienza a nome Electric Company – navigando in territori IDM – ma anche di innumerevoli collaborazioni – non ultime quelle con Anthony Gonzalez degli M83 per Hurry Up, We’re Dreaming – gli anni senza Medicine di Brad Laner sono stati tutt’altro

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e – immaginiamo – danarose come quella con Pharrell Williams, che produce 3 brani (che in Wine Glass Girl ci sia il suo zampino lo si capisce in un istante, all’attacco della ritmica), e Kendrick Lamar (che rappa su Crime; su How do You Do c’era già stato il feat di Snoop Dogg). Il disco propone il consueto profilo r’n’b/soul del nostro – freschezza delle progressioni, cantabilità pop, cura del dettaglio nell’arrangiamento – particolarmente irrobustito da innervature funk (Allie Jones; il grippantissimo singolo Her Favorite Song, con un coretto femminile nell’inciso irresistibile) e illuminato dai migliori tra gli ispiratori “di settore possibili”, ovvero i maestri del fusion pop Steely Dan (sentire particolarmente Back Seat Lover; Jack Splash e Pharrell confermano la fonte, negli ultimi tempi sempre più tirata in ballo, si veda anche Random Access Memories). I riferimenti di Mayer sono vari e in bella mostra (la title track apre con un pathos che ricorda la seconda parte di What Goes Around… Comes Around; Robot Love avvicina il suono electro passando per la disco; Corsican Rosé tenta l’update sottopelle con qualche colpetto di sedicesimi sul charleston, a mo’ di retrogusto trap; All Better altro non si può definire se non lennoniana), ma il suo modo di approcciarli e aggiornare la tradizione – ecco che ci ripetiamo – non è mai retrologia, ma adesione totale alla materia e capacità di regalare pezzi che vanno giù come i migliori cocktail. 7/10


Luca Falzetti

Mick Harvey - Four (Acts of Love) (10 SPOT,2013) Genere: cantautori, rock Nelle parole dell’autore, il sesto disco solista di Mick Harvey è «una meditazione sull’amore romantico: la sua perdita, il risveglio, la sua lotta tumultuosa e il suo posto nel nostro universo». A tutti gli effetti un concept album, come attestano anche le riprese di due brani (Praise The Earth e Where There’s Smoke), Four (Acts Of Love) è diviso in tre atti, intitolati allusivamente Summertime In New York (come un brano, cover di Exuma), The Story Of Love e Wild Hearts Run Out Of Time. Programma ambizioso, come lo è anche la rac-

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colta di canzoni che l’ex Bad Seeds ha allestito tra originali e cover. Dei primi conquistano l’iniziale ballata Praise The Earth, la Glorious in cui Mick duetta con PJ Harvey, le intense God Made The Hammer, giocata su morbidi arpeggi di chitarra acustica e atmosferici inserti di violino, e I Wish That I Was Stone, scandita da solenni accordi di pianoforte. Delle seconde, si fanno apprezzare le riletture di Van Morrison (un’onirica The Way Young Lovers Do), Saints (The Story Of Love) e Roy Orbison (Wild Hearts). Harvey si conferma arrangiatore sopraffino, con grande senso della misura in un contesto in cui sarebbe stato facile farsi prendere la mano, e confeziona un piccolo classico allestito con gusto e intelligenza. 7/10 Tommaso Iannini

Minks - Tides End (Captured Tracks,2013) Genere: pop, indie, dream Tides end è il secondo disco per i Minks, progetto a carico del Frontman/songwriter Sonny Kilfoye nato e cresciuto in casa Captured Tracks, progetto che si inserisce a pieno titolo nel filone dream pop che l’etichetta newyorchese sta portando avanti da qualche anno a questa parte, ritrovando dunque gli stessi mood dei vari Mac DeMarco, Wild Nothing e Soft Metals. Ad ogni modo la connotazione dei Minks è synth pop, oltre che retrò. Sono le tastiere a farla da padrona, tastiere riciclate dai settanta ottanta e attualizzate allo spirito cameristico e glo-fi di oggi. Il buon Sonny se la cava benino tra canzonette pop e ritornelli ammalianti ma il problema di Tides Ends è la totale assenza di qualsiasi tempo e luogo. Chi sono i Minks, figli di Ariel Pink, dei Simply Red, o magari dei Matia Bazar di Tango quando Margot raggra-

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che inattivi, hanno anzi permesso al musicista americano di rimodellare il sound del gruppo attraverso parametri più ampi e aggiornati rispetto a quelli di vent’anni fa. Il singolo e opener Long As The Sun è forse l’episodio più rumoroso, soprattutto nei primi due minuti, ma già dalla seconda parte di canzone si intuisce che la vera natura di quest’opera è quella di un pop etereo e ammaliante, a tratti stordente ma che non rinuncia mai all’appeal radiofonico. E infatti con il passare dei pezzi i ritornelli si fanno più insistenti, i vocal meno increspati e le chitarre più morbide, giù fino alla ballatona dreamy The End Of The Line, passando per il power pop di matrice quasi canadese di Butterflies Out Tonight, con cui Laner dimostra di saper muoversi bene tra passato e presente, tra il piano etereo e quello materiale. To The Happy Few non punta ad elevare l’ascoltatore – come riesce invece a fare mbv – ma più semplicemente ad intrattenere, confermandosi per ora come unica valida alternativa, per tutti quelli che di shoegaze non ne hanno mai abbastanza. 6.9/10

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nella qualche suggestione di Elettroshock? E quando l’hanno fatto questo disco, oggi, cinque anni fa, negli anni 80? Ok è vero il marchio Captured tracks c’è, ma rimane poco altro. E’ il concetto di una musica globale senza radici e dunque senza personalità, il paradosso di un suono che vuole essere totale e ricercato nel mix di tantissime influenze e che finisce invece per diventare muzak da cocktail bar, specie considerando che i compagni di etichetta sopracitati hanno fatto di meglio. 5.4/10 Stefano Gaz

Genere: pop, minimal, disco, elettronica, idm Nel 2002, il primissimo incontro tra i due Modeselektor e Apparat non funziò granché. Doveva uscire un album e invece il trio s’accontentò di un EP con un titolo piuttosto emblematico Auf Kosten der Gesundheit, ovvero a costo della salute. Troppo differenti, infatti, gli approcci delle parti coinvolte e, con il senno di poi, troppo differenti anche i percorsi che Sebastian Szary, Gernot Bronsert e Sascha Ring stavano per intraprendere negli anni a venire, con i primi a muoversi sardonici nelle correnti dell’electro e della bass music senza negarsi battute spezzate, hip hop – e in dj set specialmente – e qualsiasi espediente elettronico potesse far muovere il culo alle masse e il secondo, al contrario, a misurarsi sempre più con le stelle, in una costellazione di sentimenti che trovano nel dream pop (e in una band) lo sbocco più naturale. Dopo un secondo tentativo abortito ai BerlinMitte City Pool, la ragione sociale Moderat riappare nel 2009 e questa volta il registro è un altro, perché c’è un album congeniato alla perfezione. Una tracklist con l’ombra lunga di Kid A e il beneplacito di Yorke (che, per la

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Moderat - Moderat II (Monkeytown Records,2013)

cronaca, ha partecipato al secondo album della coppia Happy Birthday! e replicherà in Monkeytown), un disco dove c’è tutta una Germania techno emozionata dentro il cuore di una electro che sa arricchirsi di sinfoniche austerità popadeliche. C’è un album che dialoga fascinoso tra ritmi e melodia e c’è una formazione che l’UK sound lo guarda molto da vicino (angolando alla bisogna garage-2 step e post-jungle, come dire Burial e la DMZ) e compensa le zone scoperte con un trittico di ospiti in zona l’hip hop (con Busdriver) e reggae dub (le star germaniche Seeed e Paul St. Hilaire, quest’ultimo già di casa con Rhythm And Sound). Quando i percorsi si separano nuovamente, i tre produttori procedono in qualche modo in parallelo e su binari solidissimi: Monkeytown dei Modeselektor è l’album produttivamente più solido della coppia, The Devil’s Walk della Apparat Band, l’approdo formale dell’estetica dream tanto cercata da Ring e la sonorizzazione della piece teatrale Krieg und Frieden di quest’utlimo a ricordarci quanto nei fuori programma, Sascha, sia ancora in grado di superarsi. Metteteci che, nel frattemo, Thom Yorke si è portato in apertura di alcuni concerti dei Radiohead entrambi i progetti e otterrete senz’altro un’attesa piuttosto alta per questo Moderat II, lavoro che si rivela da subito un album posizionato nel presente anche meglio del suo predecessore. Se il primo capitolo respirava l’oscurità della dubstep, il nuovo episodio è il trionfo del colore e dell’estate di molte delle traiettorie del suo post-, prima tra tutte la UK garage che i nostri avevano già ben presente con Burial e pure con tutta una ripresa di trip hop breakbeat, r’n’b e synth scenici che abbiamo visto, tra l’altro, anche ai piani alti in classifica. Da queste parti, s’aggira il primo singolo Bad Kingdom, un brano funzionale che si gioca l’ultimo ponte con le spinte electro del passato aprendo così a una tracklist anche molto 90s,


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Edoardo Bridda

Money - The Shadow of Heaven (Sunday Best,2013) Genere: indie, wave Ancora Inghilterra, ancora una chiacchierata band al debutto con annessa etichetta-fardello next big thing. Se quest’anno i Palma Violets e i Peace hanno raccolto meno di quanto avrebbero dovuto con i rispettivi album d’esordio (anche discreti ma di certo non memorabili), i mancuniani Money, quatti quatti, hanno giocato tra luce e ombra, consapevoli delle loro potenzialità e dei vantaggi a lungo termine del preferire la sincerità alla furbizia. Un hype mediatico che in un paio di anni si è diffuso a macchia d’olio partendo dalle primissime release locali tramite la SWAYS Records – situata a fianco della famosa Strangeways Prison – e arrivando all’atteso debutto lungo The Shadow Of Heaven (via Bella Union). All’interno delle dieci tracce di The Shadow Of Heaven troviamo la tensione emotiva di

scuola Glasgow di Holy Esque, Glasvegas e soprattutto dei Father Sculptor, plasmata su analoghe atmosfere realizzate attraverso scelte di produzione che amplificano echo e riverberi creando una sorta di effetto campana di vetro, l’impeto dei concittadini Wu Lyf (alcuni frangenti di Letter to Yesterday ad esempio) e le evocative estensioni vocali targate Active Child. Il merito di questa varietà stilistica va attribuito anche alla versatilità timbrica di Jamie Lee, messa – giustamente – in risalto da lunghi fraseggi caratterizzati da un apporto ritmico utilizzato con il contagocce (Cruelty Of Godliness ne è praticamente priva), spesso come mero supporto all’enfasi vocale. Nascono così struggenti e commoventi dialoghi piano-voce (Black e Goodnight London) di pura malinconia mancuniana, slow-anthem liberatori che sfociano in apoteosi finali (Cold Water e il suo approccio arty) e brani che magari tra qualche anno verranno considerati classici (alla sopracitata Goodnight London non mancano le carte in regola per esserlo). Degne di nota anche i testi: mai banali, a tratti decadenti, figli di una formazione culturale di un certo tipo che traspare fin dal motto “courtesy is a fallacy”, passando per l’influenza di poeti, filosofi e pittori del primo Novecento quali Rainer Maria Rilke e Khalil Gibran. Sebbene – e forse proprio per questo ancora più valido – non esente dalla contagiosa tendenza di un nutrito numero di newcomers nel mettere davanti la ricerca stilistica-atmosferica al songwriting di stampo tradizionale, al disco non manca praticamente nulla: i Money hanno saputo costruire un proprio immaginario musicale ed extra-musicale che trova in The Shadow Of Heaven il proprio manifesto. Un lavoro per certi aspetti fuori dal tempo, che respira in un contesto tutto suo. 7.1/10

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dominata cioé da profumi new age (Versions) mescolati a mestizia pallida à la Yorke e freschi fermenti sempre brit dalle parti di Holy other e Girl Unit (la buona Let In The Light). Milk fa un po’ lo spartiacque della scaletta: ci troviamo dentro un looping à la The Field di dieci minuti ad aprire a una seconda parte che si specchia nel misto di canzoni e strumentali della prima. C’è da dire che alcuni interludi sono tra l’ottimo (il mix tra dubstep e idm di Ilona) e il prezioso (This Time) e le canzoni lo sono meno (anche se quest’ultime apparecchiano una scaletta che scavalca certe rigidità di The Devil’s Walk). Così come Damage Done che è lì per essere “Quel pezzo” poi non si rivela all’altezza delle aspettative. Tutto rientra nel gioco delle sintesi, forse troppo, ma questo mood, pur studiatissimo, le sue strade per il cuore è in grado di trovarle. 7.2/10

Riccardo Zagaglia

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Genere: garagerock Potevano aspettare qualche mese ancora e festeggiare i dieci anni dal primo concerto, i Movie Star Junkies, ma la combriccola torinese è troppo (involontariamente?) iconoclasta per star lì a guardare date e ricordare o celebrare avvenimenti. Ecco, quindi, Still Singles, il cui nome ci ricorda la rubrichetta dedicata da Mosurock su Dusted Mag ai vinilini e che, guarda caso, riassembla la miriade di pezzi piccoli sparsi dai cinque in giro per il mondo. Una maniera, volenti o nolenti, per indagare e sì, celebrare, l’epopea made in MSJ attraverso un percorso che dalle prime sgangherate prove arriva fino alle ultime infuocate, debordanti eppur mature e calibratissime uscite discografiche (l’ottimo Son Of The Dust) e live (l’ultima furibonda prova al NOfest! ne è ennesima dimostrazione). Dunque, a conti fatti ben venti pezzi per un doppio vinile eterogeneo com’è giusto e naturale che sia, ma anche pieno di piccole chicche misconosciute e di potenziali suggerimenti per una lettura trasversale dell’intera carriera del quintetto. Che sì, riprende come riferimento i nomi che mille volte abbiamo letto nelle recensioni o che abbiamo pensato al momento di ascoltarli, ma che mostra anche, via via che si susseguono gli ascolti, uno sviluppo verso una forma canzone sempre più articolata e varia senza perdere in impatto, emotività, concretezza e assalto frontale. Va da sé che le prime prove siano più minimali, più crude nel loro intersecare traiettorie bluesy in modalità noise-rock alla Chrome Cranks o roboticamente sboccate alla maniera dei Suicide – senza l’enfasi malvagia del duo, in realtà – con organi sfatti (Garsin), cavernose reminiscenze (Lipstick) e cavalcate aussie-rock alla Birthday Party (Flamingos); altrove la matu-

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razione compositiva è evidente e la struttura dei pezzi guadagna in organizzazione senza perdere in immediatezza. Echeggiano così strani ibridi alla Morphine (una Baltimore sensuale e conturbante) o robette country-folk-blues strappacuore come la cover di Cold And Gold di Bob Corn, sprazzi dei Mule d’antan qua e là a imbiancare, fino a passaggi che certificano la stessa evoluzione che vi fu dai Birthday Party ai Bad Seeds, come la splendida Satan Satan. Fate vostro questo lavoro, non solo per carpire l’essenza ultima dei Movie Star Junkies, ma anche per poter apprezzare le molte perle nascoste tra questi solchi. 6/10 Stefano Pifferi

Múm - Smilewound (Morr Music,2013) Genere: folk, folktronica Disco lungo numero sei per i Mùm dopo ben quattro anni di silenzio, tanti ne sono passati da quel Sing Along to Songs You Don’t Know che li vedeva cimentarsi con un indie pop molto più banale di quanto potessimo attenderci. Insomma, dei principali fautori della folktronica – fenomeno transitorio ma indelebile – sembrava non fosse rimasta che una combriccola di ex-ragazzi con la sacrosanta voglia di monetizzare la fama in modo non molto interessante. Questo Smilewound aggiunge nuovi particolari alla vicenda, obbligandoci a rivedere un po’ di cose. Innanzitutto, la compagine guidata da Gunnar Örn Tynes e Örvar Þóreyjarson Smárason non rinnega nulla del proprio passato, anzi forse mai come oggi sembra farsene carico, reinvestendo l’inventiva giocosa (anche nel senso di videogame) dei primissimi tempi (che abbiamo potuto apprezzare nella raccolta Early Birds), gli espedienti fragranti altezza Finally We Are No One e l’immediatezza delle ultime prove alla luce di un estro melodico sensibilmente

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Movie Star Junkies - Still Singles (Wild Honey,2013)


Stefano Solventi

Nick Rivera - Zamalek (La Bél Netlabel,2013) Genere: psych, avant, folk Ad un anno abbondante dal debutto, l’ex Bron Y Aur e Franklin Delano torna con un lavoro che prosegue nel solco del folk mutante, svincolandosi però dalla ragnatela di trame sintetiche che innervavano Happy Song Is A Happy

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Song. Sette i pezzi che si sviluppano erratici, nei quali l’inquietudine placida e seriale del Jim O’Rourke in fregola John Fahey si fa cogliere da vampe hard acide Motorpsycho, dove le eventuali parti cantate sono poco più che la reiterazione di una frase, un nucleo emotivo messo a candire nel liquido amniotico (tra trombe e french horn) col fare tra lo sperso e il febbrile di certo post, finché non produce scariche di energia rabbiosamente viva. C’è qualcosa di mollemente angelico nella bella Pigeons Fly Freak, I Always Do si gioca la carta dell’inflessione bossa, mette in scena un mantra soave e psicotico la conclusiva The Wasp And The Butcher… And The Bird, mentre I Try So Hard si muove tra languore e ossessione (splendida l’idea di farne soundtrack per il frammento di un film porno vintage, caldamente consigliata la visione negli appositi canali). Un disco suggestivo, a tratti disturbante, ben suonato, strutturato su alcune notevoli intuizioni melodiche. 7.1/10 Stefano Solventi

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ringalluzzito. Il risultato è un lavoro che torna a fare sintesi anziché mera rifrittura o deviazioni aggratis, ipotizzando così un credibile synth-pop per gli anni Dieci. Tutto ciò con la densità e la disinvoltura di una band navigata ma ancora tutto sommato giovane, come dimostra la verve dreamy irrequieta di When Girls Collide (come una versione caramellata dei Lali Puna), lo zucchero filato Sigur Ròs in fregola polifonica di Sweet Impressions, la tensione cinematica à la dEUS tra mantici esotici e chincaglieria giocosa di One Smile, oppure quella sorta di trip hop adolescenziale screziato drum’n’bass di Toothwheels. Tra gli aspetti più interessanti c’è l’utilizzo delle voci, tutte femminili, a proposito delle quali va registrato il rientro nei ranghi della “gemella” Gyða Valtýsdóttir: duetti che mettono in scena un delizioso contrasto tra fiabesco e consapevolezza, tra sogno infantile e disincanto adulto, vedi soprattutto il passo di bambagia tra downtempo e wave di Slow Down. Contrariamente alle (mie personali) attese, questo album è un piccolo miracolo di freschezza, come già lo era il singolo Whistle (dalla soundtrack del film Jack And Diane) qui posto a sigillare la scaletta, un errebì androide posterizzato arty capace di non farsi sopraffare dall’ospitata clamorosa di Kylie Minogue. La leggerezza spesso è un abbaglio, talvolta una chiave alla fine di un lungo percorso. 7/10

Nine Inch Nails - Hesitation Marks (Columbia Records,2013) Genere: rock Trent Reznor ha pubblicato sul sito ufficiale dei Nine Inch Nails una lunga traccia audio in cui parla del nuovo disco. Spiega che dopo il garage electronics di Year Zero, composto su laptop durante la tournée di With Teeth, e la velocità con cui è stato prodotto The Slip, ha deciso di tornare a un lavoro più meditato, aperto, con la collaborazione di ospiti importanti (Adrian Belew, Lindsey Buckingham, Pino Palladino) e dunque con un apporto maggiore di strumentazione e di parti suonate. Meditato però significa anche alleggerito, dato che la scelta di fondo rispecchia una linea minimale fatta di sottrazione al posto d’infinite sovrain-

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Tommaso Iannini

Pacific Air - Stop Talking (Universal Republic,2013) Genere: pop, indie Il pop estivo, se non eccessivamente becero, non ha mai ucciso nessuno. Lo sanno bene i fratelli Ryan e Taylor Lawhon (in arte Pacific Air e in precedenza KO KO) al debutto lungo nel periodo dell’anno più adatto per tentare il colpaccio con una proposta easy e senza troppe pretese. Stop Talking, così si intitola l’undici tracce d’esordio, è uno di quei dischi per loro stessa

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natura allergici alle classifiche di fine anno: personalità ancora poco spiccata, intuzioni sonore e apporto innovativo vincini allo zero, target indefinibile, contenuto artistico quasi impalpabile e inversamente proporzionale ad un elevato livello di paraculaggine da highrotation. Non è tutto da buttare però: in brani come Float, Roses e Move i due californiani dimostrano non solo di essere abili polistrumentisti, ma anche di sapere scrivere pezzi pop già belli che finiti capaci di insinuarsi nella mente in modo talmente subdolo da risultare incredibilmente immediati. Un appeal radiofonico che tende però a svanire in una seconda metà del disco – esclusa Duet in B Minor – caratterizzata da un easy-listening anni ‘80 rimodellato e modernizzato da Chris Zane. Il producer, già massivamente al lavoro sui dischi dei Passion Pit, ha infatti avuto un ruolo fondamentale nel decontestualizzare l’approccio bedroom del duo trasferendolo in zona stadium-ready. La formazione musicale fortemente influenzata dalla madre, che ha visto i due fratelli masticare musica new-age per anni, ha avuto un impatto indiretto sul suono del progetto: i toni, decisamente soft, non sono mai troppo sopra le righe e, pur avendo tra le mani melodie e ritmi che lo permetterebbero, non fanno mai trasparire quell’esuberanza tipica di alcuni colleghi, preferendo invece muoversi ondeggiando tra riverberi dreamy, falsetti e cori decisamente androgini. Esemplari in questo senso So Strange e Intermission. Pur indirizzato verso un destino a breve termine, tra alti e bassi Stop Talking si difende dignitosamente e, soprattutto, non uccide nessuno. 6.1/10 Riccardo Zagaglia

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cisioni. I primi brani ascoltati lo confermavano: Came Back Haunted e Copy of A sono tra le cose più orecchiabili e “leggere” – a livello d’arrangiamento – che siano uscite dalla sua penna. Leggere però non significa non riuscite: sono canzoni pop in cui il ritmo un po’ ipnotico e un po’ ossessivo e l’atmosfera dark s’intonano bene a melodie catchy sottilmente minacciose. Ci si deve abituare a suoni meno taglienti rispetto al passato per entrare nel mood dell’album; questo, però, non è abbastanza per giustificare innocui funkettini (All Time Low), canzoni deboli (Find My Way), una Disappointed che fa il verso ai Radiohead, Various Methods of Escape o In Two che sembrano fare la stessa cosa con un vecchio pallino di Reznor (Prince), gli scialbi coretti di Everything Everything o il mediano urban rAndb di Satellite. Reznor non si è risparmiato e ha pensato persino a due master diversi per il nuovo lavoro, tuttavia tanta cura nei suoni acquista un senso soltanto quando le qualità espressive delle canzoni la sanno esaltare. Non bastano episodi più audaci come Running o i brividi melodici di I Would for You per giustificare una sufficienza piena. 5.9/10


Genere: punk E chi se lo sarebbe mai aspettato questo ritorno dei Paolino Paperino Band: dopo vent’anni di quasi totale silenzio e sporadiche compars(at) e live – memorabile quella del 5 Giugno 2004 a sostegno del collettivo anarchico del Libera di Modena – oramai le speranze erano già più che morte e sepolte. E invece Porcellum (inizialmente intitolato Uguali A Noi Umani e modificato all’ultimo per la vicinanza temporale alle elezioni politiche 2013) esce tramite crowdfunding e desta subito le attenzioni di addetti ai lavori e ascoltatori. C’è da premettere che i Paolino Paperino Band, nonostante vantino una discografia decisamente corta, sono uno dei gruppi più importanti della scena punk italiana anni ‘90 e non solo. La loro interpretazione del genere ha infatti raggiunto livelli alti sia per l’attitudine estrema, sia per l’intelligente demenza ed irriverenza gioviale nei testi, questi ultimi così lungimiranti da essere ancora attuali (Fetta, Extracomunitario, Tonnoplast, Alcool Puro, A.N.D.S.). Non è da meno la capacità di abbracciare la dialettica punk e miscelarla ad altri generi quali lo ska (Stronzi, Compagno Cittadino), il reggae (Patata Malata), il funk (Assto), il crossover (L’Opinionista, Troietti), talvolta all’interno della stessa canzone. Pislas in questo senso, è stato, una sorta di faro per i kids più attenti. Ne è prova il fatto che certe canzoni siano rimaste per anni – e lo saranno ancora – dei must, ad esempio la “pogatissima” Fettadi-salame da inserire nella scheda elettorale, la solid-punk Troietti, la ska-ggiante Compagno Cittadino e la erotic-hard-core Porno Tu. Con Porcellum la fanbase del gruppo modenese si spacca in due. I nostalgici che, immersi nel passato, ancora sanno accettare e comprendere il cambiamento (in negativo, ma era inevita-

bile) e coloro che rifiutano, dissociandosi da questo reunion album. Di fatto si sente che sono passati anni, che la macchina compositiva non è più quella di una volta, tanto che i pezzi di Pislas sono distanti anni luce da quelli di Porcellum. Della formazione originale sono rimasti Yana alla voce e Termos alla batteria e il paragone con la produzione storica vive di tematiche: Referendum è la moderna Fetta e Troiaio è la nuova Compagno Cittadino, ma l’efficacia dei testi è forse un ricordo. Qualche barlume di luce lo si scorge in Ciccioli, un inno ballad-punk al maiale, all’Emilia, al lavoro e ai caduti. La verve e l’esuberanza punk è difficile da mantenere nel tempo – come testimoniano, ad esempio, Punkreas o Pornoriviste – ma qui, rispetto a Pislas, manca anche la voglia di toccare sfere musicali diverse (quando accade, come negli accenni reggae di Peones e i ritmi ska in Anima Del Cazzo, non si raggiungono i livelli sperati). In definitiva Porcellum è un disco per chi si accontenta. 6.3/10 Alessandro Rabitti

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Paolino Paperino Band - Porcellum (Autoprodotto,2013)

Pet Shop Boys - Electric (Kobalt Label Services,2013) Genere: pop, dance-pop, 80s Sembrava che ormai non ci fosse più speranza. Li abbiamo ascoltati dimessi e distaccati nel precedente Elysium, quasi un film-incubo girato tra tassisti che ricordano a Neil Tennant quanto apprezzino ancora le sue vecchie canzoni, momenti da gustare finché durano e la presa di coscienza che il tempo passa, inesorabilmente, e che alla soglia dei sessant’anni non si riesce più a sedurre come una volta. Eppure, chi si aspettava un addio dai Pet Shop Boys deve ricredersi: Tennant e Lowe hanno chiuso con la Parlophone dopo quasi trent’anni di onorato servizio e hanno fondato una propria etichetta, la x2 (affiliata alla Kobalt), per lan-

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di Fluorescent e il richiamo ai rave di Shouting In The Evening, che suona come il risultato di un’ipotetica task force composta dagli Yello e da Skrillex. Se in Elysium il protagonista era Tennant, con la sua sagacia e il suo talento criminalmente sottovalutato nello scrivere testi, intelligenti ma non pedanti – neppure quando sfocia nel commento politico – e spesso dallo humour irresistibile, è senza dubbio Chris Lowe a fare la parte del leone in Electric, con le sue tastiere scintillanti e lo spiccato senso per la melodia. In Thursday, uno tra i momenti migliori di un disco che non inciampa mai, lo riascoltiamo insieme al rapper Example e ci accorgiamo che nel frattempo, dopo il pasticcio di Happiness Is An Option dal mezzo passo falso Nightlife, i nostri hanno imparato ad avventurarsi in territori non loro con maggiore consapevolezza. Stavolta è l’ospite ad allinearsi ai Pet Shop Boys, che recuperano per l’occasione temi e sonorità degli esordi (se il testo è figlio di I Want A Lover, la progressione degli accordi è quella di Love Comes Quickly e i suoni quelli di You Know Where You Went Wrong) e li traducono, insieme a un synth-bass elegantemente scippato ai Royksopp, in un linguaggio moderno, fresco, attuale. Non mancano neppure un omaggio a Trevor Horn e alla magia delle sue produzioni ZTT nel dance-pop erudito di Inside A Dream (“The Land of Dreams is better far / above the light of the Morning Star” è una citazione di William Blake) e a Sterling Void, di cui i due ripresero It’s Alright, nella conclusiva Vocal. I due gentiluomini inglesi rialzano la testa e ritornano a fare ciò che meglio riesce loro: riempire la pista da ballo, ma con la sensibilità tipica dei grandi autori pop. Musica per scatenarsi, per riflettere, abbandonarsi al piacere e arrendersi con le mani alzate all’amore, che sarà pure un costrutto sociale o, come cantava

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ciare un lavoro che è la perfetta antitesi del suo predecessore. Un disco elettrico ed elettrizzante, estivo, da consumare con due cubetti di ghiaccio e la compagnia giusta, che ripercorre tre decenni di dance music con l’esperienza che è propria di due grandi maestri – che, messa da parte la malinconia, vengono convinti da Stuart Price a tuffarsi nella piscina miracolosa di “Cocoon”, a ricaricare le batterie e a offrire al pubblico il colpo di coda che si aspettava. Già dalle prime note di Axis capiamo subito dove si andrà a parare. Tra spennellate vivaci di synth e voci robotiche si ritorna per un attimo a Relentless (l’extra disc di Very, capolavoro del 1993), ma tra i riferimenti si rintracciano Menergy di Patrick Cowley, l’accoppiata Giorgio Moroder/Harold Faltermeyer e il Jean-Michel Jarre di Chronologie. La lunghezza insolita delle nove canzoni fa pensare a un altro classico del duo, Introspective, e non è l’unico elemento in comune tra i due lavori: se ventincique anni fa Neil giocava con l’idea di unire “Che Guevara and Debussy in a disco beat”, oggi fa convivere come se niente fosse Henry Purcell (via Michael Nyman) e Karl Marx in Love Is A Bourgeois Construct – quasi una rilettura forbita di Hung Up di Madonna, con un titolo per cui il buon vecchio Morrissey ucciderebbe. Se un tempo i Pet Shop Boys portavano in classifica Always On My Mind di Elvis Presley (ma nel frattempo ci sono state anche Where The Streets Have No Name degli U2, My Girl dei Madness e Viva La Vida dei Coldplay), ora sembrano volerci riprovare con un brano dal canzoniere di Bruce Springsteen, The Last To Die, vicinissimo nel nuovo arrangiamento a Human dei Killers (non a caso prodotta da Price). Dopo l’hi-NRG del brano d’apertura ci sono suggestioni Balearic (Bolshy si aggancia a Bilingual, album con cui sembra che Neil e Chris abbiano fatto pace, e a The Sun Rising dei Beloved), la deep house sinistra


Tennant anni fa, una “catastrofe”, ma soggioga e non lascia alcuna via d’uscita. Non chiamatelo un comeback album, perché i Pet Shop Boys non se ne sono mai andati: hanno solo voluto farci credere, per qualche anno, di voler guardare la partita da bordocampo e di non essere più interessati, in mezzo ai Guetta e ai Benassi, a tirare in porta. Ma in fondo sapevamo già che le cose non stavano così. Chapeau. 7.3/10 Alessandro Liccardo

Genere: indie Una cosa che avevamo predetto già qualche anno fa. La scena di Perth sta catalizzando le attenzioni degli appassionati di rock psichedelico e non solo. Fino ad ora i Tame Impala l’hanno fatta da padrone, anche perché Kevin Parker è sembrato il più determinato a tradurre in musica le personali ruminazioni lisergiche. I Pond hanno più che altro l’aspetto di una simpatica combriccola di freak, impegnati in un cazzeggio di studio che solo per una fortuita combinazione di elementi si coagula in canzoni. Naturalmente non è così. C’è stato un momento in cui la passione per funk, glam e seventies in generale, produceva delizie pyscho pop coincise e originali (e per questo vi rimando al disco Frond). Già con lo scorso Beard Wives Denim, però, la vena spacey prendeva il sopravvento. Quello era anche il momento in cui la musica dei due progetti gemelli sembrava sovrapporsi. Oggi pur non mancando le affinità fra Tame Impala e Pond (soprattutto per la patina ingiallita della produzione) i secondi si staccano definitivamente dal pianeta Terra, per assecondare la follia di Nick Allbrook, che a differenza di Parker per gli Impala, ha una personalità ingombrante e, ahimé, dispersiva. Brani come Alone a Flame a Flower sono speri-

Diego Ballani

Porcelain Raft - Permanent Signal (Secretly Canadian,2013) Genere: pop, electro Per uno che ha girato il mondo dalla Corea agli Stati Uniti e ha un numero indefinito di progetti musicali alle spalle, il solo fatto che rispetto al 2012 non abbia cambiato città è di per sé una notizia. Evidentemente le buone recensioni e il tour con gli M83 devono aver quietato un po’ l’animo costantemente in ricerca di Mauro Remiddi. Per il suo secondo disco sotto il moniker Porcelain Raft, l’italiano continua la sua esplorazione di atmosfere nostalgiche e bittersweet. Rispetto a un anno e mezzo fa, però, la libertà totale che un progetto solista gli accordava (e gli continua ad accordare) è stata comunque accompagnata dalla voglia di suonare con altri musicisti: una pletora di apparizioni live al fianco di svariati musicisti USA e non solo. Le registrazioni, parallelamente, hanno l’impressione di essere maggiormente “suonate” rispet-

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Pond - Hobo Rocket (Modular,2013)

colate commistioni di riff sabbathiani, placide oasi floydiane, deliqui cosmici e sceneggiate glam. Accentuata l’impronta cinematica, in pezzi come Whatever Happened… e Midnight Mass sembra di ascoltare i Flaming Lips gonfiati a suon di steoridi zeppeliniani. Odarma inizia soffusa, da qualche parte fra Elton John e The Soft Bullettin, prima di partire per mille rivoli ritmici e melodici, difficili da ricondurre ad unitarietà, ma da cui, tutto sommato, è bello lasciarsi portare alla deriva. Come un film affascinante ma dalla trama oscura, Hobo Rocket vive per giustapposizione di immagini, magari non sempre coerenti, ma sicuramente suggestive. Talvolta (come nell’incantevole minuto finale che sembra rubato ai Pink Floyd di Meddle) addirittura struggenti. 6.5/10

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Marco Boscolo

Public Image Ltd. - First Issue (Light In The Attic Records,2013) Genere: rock, rocknroll, art, punk Si può dire di tutto dell’era Sex Pistols. Che fosse una vera r’n’r swindle architettata dal burattinaio McLaren, che non fu l’inizio del punk ma solo la sua spettacolarizzazione mediatica “britannica”, che quei quattro mestieranti buttati sul palco fossero personaggi di una sorta di teatro dell’assurdo senza nessuna capacità né musicale né artistica. Quando si parla del ‘77 ogni opinione è lecita, anche la più superficiale e sgraziata. Ma se c’è una cosa che quell’esperienza – e il senno di poi – ci ha insegnato, è che Johnny Rotten non era uno stupido né tanto meno un burattino, semmai una mente lucida in grado di recepire, in anticipo sui tempi, molte delle svolte coeve a livello artistico e

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musicale. Lo dimostra l’esperienza Public Image Limited, vero e proprio spartiacque per le musiche a venire e non solo. Si pensi all’accurato marketing promozionale – fieramente punk al midollo e probabilmente esemplato sulle pretenziose velleità McLareniane – che contraddistinse tutte le uscite made in P.I.L. con scelte estetiche e anti-commerciali – i tre 12” nella scatola da pizza cinematografica di Metal Box, la cui seconda edizione in cd fu semplicemente intitolata Second Edition – oppure alla fluttuante formazione che ruotava intorno al “ripulito” John Lydon. Le cronache sono note. Raggruppata in pochissimo tempo una formazione stramba con Keith Lavene alla chitarra, Jah Wobble al basso e Jim Walker, Lydon mette in scena uno degli album più devastanti, iconoclasti, ossessivi e malvagiamente scarni mai prodotti fino ad allora (e forse neanche dopo, a dirla tutta). Il post-punk, quello più disidratato, nervoso, anticonformista, nasce qui. O meglio, qui trova il suo senso etimologicamente post-. Chitarra tagliente, basso rotondo ma minimale, batteria elementare e, su tutto, il rantolo fastidioso, ammorbante, ferino e sprezzate di Lydon diventano, da questo disco in poi, il canone da seguire per liberarsi dai cliché di un punk ormai divenuto macchietta. È dunque una sorpresa ripescare questo lavoro – mai pubblicato in USA perché considerato troppo sperimentale e che ora va a colmare questa inspiegabile lacuna – e rendersi conto di quanto abbia inciso, direttamente o meno, sulle musiche dei decenni successivi. E di quanto avesse torto il caro Lydon quando, nell’omonima track, ci ammoniva con lo storico attacco “You never listened to a word that I said / You only seen me for the clothes that i wear”. No, Johnny il marcio, ti abbiamo ascoltato e apprezzato, abbiamo imparato a memoria le

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to al passato, come avviene in I Lost Connection, dolente piano-ballad che starebbe bene in un club di Manhattan. Ma non si commetta l’errore di pensare a una svolta in qualche modo accomodante. Le passioni di Remiddi sono ancora tutte lì, tra le schegge ambient (Open Letter, Warehouse), la cold wave (o glofi) che lo ha fatto accomunare in certi casi a Washed Out (Five Minutes From Now, Think Of The Ocean) e rimandi al pop estatico/atmosferico dei Sigur Ros (Cluster). Ma quello che sembra essersi impossessato della di Remiddi è un bisogno di catalogazione geografica del paesaggio urbano, come ben testimoniato da The Way Out, scritta durante l’uragano Sandy. Se Strange Weekend aveva dalla sua il vantaggio dell’effetto sorpresa (o quasi: i più attenti avevano già tenuto d’occhio l’EP Gone Blind), Permanent Signal - fin dal titolo – vuole sottolineare come la “zattera di porcellana” non teme i marosi ed è qui per durare. 7/10


tue canzoni, le abbiamo consumate e ora ti ringraziamo per questa ristampa che ci fa comprendere ancora di più quanto fosse un disco necessario per interpretare l’allora e tutto ciò che da lì in poi è venuto. P.S. Come bonus track nel secondo CD allegato c’è Cowboy Song, b-side del primo 7”, ma soprattutto una lunga intervista a Lydon tenuta presso la BBC nel lontano ottobre del ‘78. Ascoltatela, c’è da ridere. 8/10 Stefano Pifferi

Rue Royale - Remedies Ahead (Sinnbus,2013) Finanziato attraverso una campagna su Kickstarter, Remedies Ahead è l’ennesima declinazione di quel folk-pop intimo, malinconico e da monolocale arredato ormai tratto distintivo dei Rue Royale. Il precedente Guide To An Escape aveva formalizzato il suono del gruppo in un equilibrio tra arrangiamenti minimali e melodie quasi intangibili ma assai efficaci; il qui presente terzo disco della formazione angloamericana – formata dalla coppia (anche nella vita) Ruth e Brookln Dekker – è una raccolta di filigrane in controluce incisa, per la prima volta, in uno studio di registrazione con tutti i crismi (i dischi precedenti della band erano stati in tutto e per tutto autoproduzioni). E chissà che il cambio di abitudini non abbia pesato sul risultato finale, in un tentativo di raffinare ancora di più gli incastri vocali e strumentali che dona al tutto un’eleganza consapevole ma sfuggente, eterea e talvolta quasi altolocata. Non proprio un esercizio di stile ma un rimirarsi allo specchio quello sì, con qualche ottimo spunto e un innegabile fascino. Try As They Might e Almost Ghostly citano certi Low ultima maniera con cognizione di causa e man-

Fabrizio Zampighi

Sakee Sed - Ceci N’Est Pas Un Ep (Appropolipo Records,2013) Genere: rock, psych A tre o quattro anni dalla prima pubblicazione Alle Basi Della Roncola nel 2010, i Sakee Sed ritornano in carreggiata con il quarto lavoro Ceci N’Est Pas Un Ep. Ogni anno un’uscita: si può correre il rischio di sbandare, soprattutto perchè le musiche del duo allargato bergamasco sono da sempre inzuppate di alcolici. Ma non è questo il caso. I Sakee Sed hanno esordito su un’impronta da saloon e piano bar con Alle Basi Della Roncola, si sono aperti a qualche sonorità blues da stordimento con Bacco Ep, si sono gettati nella psichedelia con A Piedi Nubi e adesso si ritrovano ancora a sperimentare, a mostrare la solita versatilità su più fronti. Ovviamente il suono di base rimane riconoscibile, dal pianoforte che si fa anima del gruppo ai testi pieni di ironia e follia.

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Genere: pop, folk

tenendosi a debita distanza, l’iniziale Changed My Grip suona raccolta e intensa come da copione, eppure la sensazione è che manchi un po’ di sostanza che giustifichi un tale dispiego di raffinatezza. Tutto scorre comodo e fin troppo rilassato, tra certi Notwist in versione folk citati da Set Out To Discover e odori Girls in Hawaii in Dark Cloud Canepy, ma nulla spicca nel peraltro piacevole tono generale del disco. Da sempre per i Rue Royale il succo del discorso è la qualità della scrittura, il peso specifico delle melodie in una cornice di semplicità apparente, non certo l’innovazione musicale: in Remedies Ahead si viaggia un po’ col freno tirato in questo senso, ci si lascia attrarre dalla pulizia della forma, finendo per cozzare contro un conformismo sonoro elegante ma non sempre imprescindibile. 6.5/10

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Alessandro Rabitti

Salah Addin Roberto Re David - Storie scritte sulla sabbia (Autoprodotto,2013) Genere: contemporanea Il profilo è quantomeno singolare: pianista contemporaneo/improvvisativo con esperienze ai confini con l’elettronica, musicista abbastanza curioso da farsi contaminare dalla tradizione Lamaista tibetana, collaboratore per colonne sonore cinematografiche e teatrali e infine custode di una fede islamica che lo lega a un Medioriente mai così vicino. Tanto da arrivare ad affermare: “La parte più intima del mio fare musica si esprime attraverso l’improvvisazione pianistica. Ciò che cerco di realizzare è una forma personale di Dhikr: la Rammemorazione di Dio”. Questa la cornice di Storie scritte sulla sabbia di Salah Addin Roberto Re David, una cornice che non è solo cornice ma biografia che si fa musica. Se non palesemente nell’estetica, di certo nell’”impianto filosofico” che regge il

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tutto, a cominciare da un minimalismo introspettivo che non lascia spazio ai voli pindarici o a virtuosismi tecnici. È più un mood distonico à la Thelonious Monk (XII) quello che si ascolta, traslato in ambito contemporaneo tra microvariazioni e dinamiche piano-forte, pause e ripartenze dialettiche forbite (XIII). Capita di annusare uno Charlemagne Palestine in certi suoni ripetitivi e monocromatici (V), come di scorgere in lontananza fate morgane di Medioriente accompagnate dai cieli pesantissimi e plumbei di un Francesco Grillo chiamato a offrire la sua opera pittorica a un booklet assai elegante (VIII). Complessivamente, un lavoro godibile e per nulla pretenzioso. 6.8/10 Fabrizio Zampighi

Sarah Neufeld - Hero Brother (Constellation Records,2013) Genere: cantautori, orchestrale_sinfonica Dopo il progetto Saltland della violoncellista dei Thee Silver Mt. Zion Rebecca Foon, Constellation pubblica il primo album solista del violino degli Arcade Fire (nonché Bell Orchestre) Sarah Neufeld. Sempre di archi si tratta, ma declinati in modo diverso e differenti nella resa armonica e nelle finalità. Tant’è che la qui presente musicista di stanza a Montréal opta per un disco fondamentalmente minimalista che investe moltissimo sugli echi ambientali, sui cambi di mood e di tempo, sulla coesistenza a volte anche drammatica di pochi ma determinanti elementi. Registrato a Berlino dal pianista e produttore Nils Frahm in location piuttosto insolite – tra cui anche un garage sotterraneo – proprio per preservare il valore aggiunto dei riverberi naturali, Hero Brother è musica per violino (quasi) solista (gli unici altri strumenti sono l’harmonium e il piano di Frahm) che raccoglie suoni

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La psichedelia – preannunciata già nello sguardo perduto della ragazza disegnata in copertina – diventa esplosiva in Boccaleone, notevole l’assolo acido e sgangherato a fine brano, mentre né Il Mio Altereggaesi rallenta “blueseggiando” e ci si assopisce nella nenia-ballad Olderifa Express per condurre l’ascolto in un viaggio intrecci piano/chitarra. Metal Zoo in certi punti si fa stoner, un brano che potrebbe scatenare se non “poghi”, almeno i classici movimenti pesanti del collo tipicamente metal-head. La southern rockJimmy è Perso Nel Delirio di stampo Creedence Clearwater Revival, tra ripetitività del riff e follia strumentale, è un corroborante per la loro riconferma. Con una Strappi Bianchi che chiude col botto, groviglio a doppia velocità blues and roll e heavy guitar alla Jack White, riff impazziti in coda e saluti a tutti. 7/10


Fabrizio Zampighi

Scott Matthew - Unlearned (Glitterhouse,2013) Genere: cantautori, alt “Il primo problema che dobbiamo affrontare tutti, uomini e donne, non è imparare, ma disimparare”. Tira in ballo una frase dell’intellettuale femminista Gloria Steinem il quarto

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album di Scott Matthew, interamente dedicato a riletture di brani altrui. Il cantautore di Queensland è l’ultimo di una lunga serie di artisti che hanno sentito la necessità, almeno per una volta in un’intera carriera, di concedersi dischi da interprete: a volte con operazioni filologiche (si pensi agli standard jazz di As Time Goes By di Bryan Ferry o ai classici americani in Am I Not Your Girl? di Sinéad O’Connor, al tributo alle grandi firme della canzone d’autore made in Canada Hymns Of The 49th Parallel di k.d. lang o ai classici francesi o dell’ex Unione Sovietica ripresi da Marc Almond), altre volte con l’intento di destrutturare i brani e farli diventare qualcos’altro (Scratch My Back di Peter Gabriel). Unlearned nasce per soddisfare entrambe le esigenze: è tanto un lavoro di recupero delle proprie origini da “ascoltatore” quanto una volontà di incidere finalmente in studio cover proposte durante i concerti, spogliate e riarrangiate, rese il più delle volte irriconoscibili. Scott Matthew è il cantante intimista, sensibile e romantico che abbiamo già apprezzato a partire dal suo debutto autografo, ma se nelle prime tre prove ci siamo concentrati sulla qualità del suo songwriting, qui il vero perno del lavoro è la sua voce, il suo talento nell’interpretazione, la sua fantasia nello scomporre e ricomporre brani amatissimi che poco hanno a che fare l’uno con l’altro. Potrebbe sembrare una scelta scontata, quella di Love Will Tear Us Apart, se ci fermassimo all’artwork minimale senza ascoltare il risultato dolcemente straziante del nuovo trattamento; un piano, una chitarra e un ukulele sono i fedeli compagni di viaggio che si è scelto Scott per Unlearned, salvo due belle sorprese: la voce di Neil Hannon che lo accompagna nell’evergreen Smile di Charlie Chaplin e la toccante accoppiata padre-figlio (l’ospite è Ian Matthews) in Help Me Make It Through The Night, dal repertorio

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tesissimi, connessi fino al midollo alla variabile ritmica e alle dinamiche del suono, ma al tempo stesso capaci di aperture inaspettate in spazi ampi e rassicuranti. Ecco che allora a un Colin Stetson richiamato dal lavoro incessante dell’archetto in You Are The Field (diverso strumento ma stesso approccio) succede una Breathing Black Ground che gioca con lentezze e droni in crescendo, al pizzicato celestiale di They Live On vengono contrapposti il tapping quasi psichedelico di Wrong Thought, i classicismi da camera di Right Thought, o magari le altezze siderali dell’introduttiva Tower. La Neufeld è brava perché, oltre a confezionare quarantatré minuti di musica strumentale coinvolgente nonostante, sulla carta, il progetto sia tutt’altro che di facile fruizione, trasforma tale musica in un linguaggio vero e proprio fatto di pause e ripartenze, cambi di tono e contrappunti puntuali. Più che musica, una conversazione in piena regola veicolata da un parlato umorale, ipnotico, che mima le incostanze tipiche della comunicazione umana svelando un universo di microvariazioni sullo strumento che è al tempo stesso contesto e soggetto. E chissà che il fatto di lavorare anche come istruttrice di Yoga – con tanto di musiche selezionate per le lezioni che vanno da Aphex Twin ai Boards Of Canada, almeno a sentire la diretta interessata – non abbia influito in maniera determinante sulla concezione musicale alla base di questo Hero Brother. 7.2/10

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Alessandro Liccardo

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Sebadoh - Defend Yourself (Domino,2013) Genere: rock, indie, lo-fi Bene, alla voce “reunion riuscite con il buco di vecchie glorie dei ‘90” possiamo ufficialmente aggiungere quella dei Sebadoh, che i più penserebbero al traino di quella dei Dinosaur Jr. e invece no, perché Lou Barlow e Jason Loewenstein non hanno mai smesso, neppure a distanza, di lavorare insieme (vedi il tour semiacustico del 2002-3) o quantomeno di desiderare di farlo (vedi questa nostra insospettabile intervista del 2005). Ma non è stata la rimpatriata celebrativa del 2007 con la testa matta Eric Gaffney – si ricorderà, fondatore della bizzarra creatura in tempi non sospetti insieme all’accigliato, sensibile e occhialuto nerd Lou – per la riproposizione dal vivo di Bubble And Scrape ad accendere la miccia per questo Defend Yourself, quanto la stretta frequentazione di Jason con il batterista Bob D’Amico nel corso di quell’altra incredibile avventura chiamata Fiery Furnaces. Oh mamma, direte voi, una rifondazione art-pop-prog-psych sotto l’influsso dei terribili fratelli Friedberger? Macché: per quanto suoni banale dirlo queste canzoni sono Sebadoh 100%, e non necessariamente quelli più addomesticati dell’omonimo del ‘99 (tantomeno quelli “quadrati”, veloci e diretti alla Bakesale), dato che gli echi del citato Bubble And Scrape (Inquiries) se non addirittura di III (Oxygen, State Of Mind) si fanno sentire eccome. Il sound è sporco il giusto – la nota stampa parla, fieramente, di autoproduzione; se non loro, chi altri? -, lo stile è riconoscibile all’istante eppure l’effetto nostalgia stavolta, pur essendoci inevitabilmente, viene sovrastato da qualcos’altro. Qualcosa che ci piacerebbe chiamare maturità, ascoltando l’iniziale I Will o Let It Out (debitrici del Barlow solista, di certo), la quasi morbida Listen e soprattutto la cavalcata à la Built To Spill Final Days; ma

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di Kris Kristofferson. La nuova versione di To Love Somebody dei Bee Gees culla, commuove e fa quasi dimenticare il fatto che ci siano già state decine di rivisitazioni (da Bonnie Tyler a Jimmy Somerville, da Rod Stewart al duo Billy Corgan-Robert Smith), e mai avremmo pensato che, una volta privata degli steroidi soul tipicamente anni ‘80, I Wanna Dance With Somebody di Whitney Houston potesse celare una malinconia tanto disperata. Ridotta in cenere e ricreata da capo, come fecero Antony con Crazy In Love di Beyoncé o Sarah Jane Morris con Toxic di Britney Spears, si distingue anche dalla più fedele interpretazione di David Byrne eseguita live alla Union Chapel. Si procede a salti temporali e geografici, passando da Darklands dei Jesus and Mary Chain a No Surprises dei Radiohead, da Harvest Moon di Neil Young (già magistralmente ripresa da Cassandra Wilson per lo splendido New Moon Daughter) a una Total Control dei Motels che in Italia ebbe una certa fortuna grazie alla versione di Anna Oxa. Spicca anche un intenso remake di I Don’t Want To Talk About It, brano reso noto prima da Rod Stewart e poi dagli Everything But The Girl (per il film Philadelphia la rilessero le Indigo Girls). Scott Matthew ci mette passione e impegno nel “disimparare” le canzoni prese in esame e rimetterle in circolazione nelle sue personalissime versioni, vibranti, intrise di una lacerante dolcezza. Non lo consiglieremmo come primo passo per conoscere questo artista e forse non è neppure un disco imprescindibile, ma Unlearned resta un intrigante esempio di come, quando si è sicuri dei propri mezzi e quando si getta sul serio il cuore oltre l’ostacolo, anche un’operazione che sulle prime potrebbe far storcere il naso diventa un’esperienza d’ascolto unica e affascinante. Provare per credere. 6.8/10


spendere quella parola sarebbe un’altra banalità, meglio dire che questo è esattamente il disco che ci si aspettava dai Sebadoh nel 2013. Ovvero un disco di ( just gimme!) indie rock come ormai se ne sentono pochi. 7.3/10 Antonio Pancamo Puglia

Genere: pop, wave, dream Lo sa bene chi li ha seguiti sin dagli esordi: i Selebrities non hanno mai faticato a scrivere belle canzoni. Ciò che mancava al debutto lungo Delusions (2011) era soltanto il giusto bilanciamento tra l’anima dream e synth-pop (affine al recente spin-off sotto l’egida Twin Shadow, Rush Midnight) e quella smaccatamente new wave e post-punk (dello stesso stampo 80s ed all’epoca fin troppo dominante). Un bilanciamento che arriva puntuale, assieme ad una migliore produzione, con questo Lovely Things. Il quartetto di Brooklyn non può, dunque, che piacerci più ora che allora, nel suo evitare di dover (ancora) necessariamente rispondere ai vari Cure, Visage e Chameleons, ma far piuttosto intercedere le più fresche letture revivaliste della generazione Captured Tracks (col giro di Born Killers che è la miglior cosa che i Beach Fossils hanno mancato di consegnarci). Non può che piacerci più ora che allora se la stessa Maria Usbeck, pur senza perdere l’ordine dreamydelle cose, vede di liberarsi di qualche cliché di genere conciandosi più propriamente da starletta pop (fino alla totale immedesimazione con Shirley Manson dei Garbage in Wither Away) e se la proposta risulta, in generale, più personale; se, infine, le belle canzoni che i Selebrities non hanno mai faticato a scrivere diventano, per piglio e semplificazione, anche memorabili. Su tutte:

Massimo Rancati

Sestomarelli - Acciaierie e ferriere lombarde folk (A Buzz Supreme,2013) Genere: rock, folk Un titolo da scioglilingua per un folk-punk ironico e coinvolgente, che affianca alle atmosfere irlandesi dei Pogues di Shane MacGowan un combat-rock vicino forse per attitudine al Joe Strummer solista, per un debut album che profuma di acciaio e rivoluzione, ma anche di divertita quotidianità. Un quartiere industriale alle porte di una grande città, centinaia di concerti alle spalle, seppur nel ruolo di cover band (con il nome di Los Desperados) e lo spirito partigiano – mai appassito – di certa provincia: tutto questo ritorna d’impatto nelle melodie dei Sestomarelli, con testi che mescolano con lucida ironia i nonsense che si celano dietro la vita di ogni musicista (Un’ora lurida), le ballate tradizionali da campagna irlandese (Briciole) e un immaginario antico che riporta al primo Branduardi (Il Conte). Non mancano momenti più squisitamente romantici in una Il ritmo del tuo cuore che alterna la dolcezza del sentimento al rock’n’roll più crudo dei Seventies dei Jam, mentre sarcasmo e insoddisfazione si dividono la scena in Gli Stones. Per quanto siano inevitabili i rimandi a Modena City Ramblers (ma con un’attitudine classic rock più marcata) e Bandabardò (Lo strano caso del Signor Rossi), i Sestomarelli si dimo-

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Selebrities - Lovely Things (Cascine,2013)

Temporary Touch, coi suoi scenari tropical a far da contraltare alle chitarre wave. Vale come abbraccio all’estetica Cascine di cui si era finora rimasti ai margini, come consacrazione del tag “summertime goth” col quale i nostri si presentano sui social network e, appunto, come singolo dell’estate per chi, secondo fede musicale, è costretto al nero tutto l’anno. 6.9/10

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strano in grado di manipolare un genere non nuovo con buona personalità, forti della capacità di esorcizzare con leggerezza e distacco i propri malesseri, artistici o umani che siano. 6.6/10 Enrica Selvini

Genere: wonky, elettronica Terzo album in tre anni e sempre su Ghostly per Shigeto, al secolo Zach Saginaw da Ann Arbor, Michigan (tana della label e di pionieri del glitch hop come Dabrye), ovverosia uno degli interpreti più stimati e credibili della wave wonky internazionale e specialmente della sua declinazione arty e abstract. Quello del nostro è un suono da poltrona costruito su squisite pennellate che sono goloserie in punta di bisturi da stato dell’arte della cosmesi timbrico-ritmica; un suono che negli anni è cambiato poco, sostanzialmente perdendo in quadratura ritmica e acquisendo calore umano, coerentemente con il progetto di un electronic jazz e di una fusion blacktopistica qui testimoniati da take pesantemente in odor di fusion latin, rigogliosa come vegetazione tropicale, à la Chick Corea And Co (particolarmente Ringleader, ma anche Soul Searching e la title track). Il risultato, viste le premesse tecniche, è spesso accostabile ai lavori di Lapalux (Miss U punta allo stesso r’n’b strumentale e sofisticato). Gusto e stile davvero a palate, non si discute. Ma se cercate l’incisività – nonostante tutti i bisturi di cui sopra – cercatela altrove. 7/10 Gabriele Marino

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Genere: synthpop Arriveremo mai a stancarci di quel sovraffollato filone di synth-pop, analogico e retrò, che puzza di underground al latex ed è debitore – in parti uguali – nei confronti di wave gotica, kraut, italo-disco e techno? Ne dubitiamo, ma potrebbe anche succedere. Di certo, però, difficilmente ci stancheremo dei Soft Metals, del loro approccio tanto viscerale da figurare come amore ossessivo per la materia, che sfocia in godimento para-erotico nella ripetizione tematica e che in questo Lenses trova la definitiva consacrazione. Il nuovo album del duo di Portland (ora stanziato a Los Angeles) riprende dove il precedente LP self-titled (2011) aveva lasciato, ne conserva le doti altamente cinematografiche (leggi: carpenteriane) e ne evolve la formula già piuttosto vincente con logiche migliorie ed (ottimi) nuovi spunti. Il discorso, innanzitutto, si fa più strutturato ed il songwriting tanto più raffinato da far dubitare che si componga ancora per improvvisazione (e invece pare sia sempre così). La stessa tecnica arpeggiata di Ian Hicks compie un lampante salto di qualità, approdando allo status di firma, “glamour” ed “arty”, in grado di rivaleggiare persino col tocco del santone Jhonny Jewel. Aumenta, poi, la spinta sulle inclinazioni elettroniche della proposta (bastino le staffilate acid house dellatitletrack e la consapevolezza che dietro al propulsivo drum programming di In The Air si nasconde JD Twitch), ma senza eclissare una ritrovata Patricia Hall e la contemplazione di quel paio di intimi episodi (When I Look Into Your Eyes, No Turning Back) che i suoi spasmi vocali, languidi eppur gelidi, tingono di impossibili incontri fra Tangerine Dream e Chromatics. Infine, la tendenza naturale alla sperimentazione viene anch’essa ricalibrata e focalizzata negli

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Shigeto - No Better Time Than Now (Ghostly International,2013)

Soft Metals - Lenses (Captured Tracks,2013)


otto minuti di techno cerebrale e chilled-out – tra Blondes, Actress e la 100% Silk – che chiudono l’album (Interobserver), mentre il resto della tracklist elegge accessibilità e concisione a valori dominanti. La scelta si rivela efficace, proiettando i Soft Metals oltre la natura di affare per soli feticisti del genere. Il disco da tanto di cappello, insomma, è servito. E ce ne è per tutti. 7.1/10 Massimo Rancati

Genere: pop, rock, alt, indie Da teenager di Springfield, Missouri, quando l’apice della settimana è raggiunto dall’andare al megamall per cercare di conoscere qualche ragazza, può essere divertente dire che suoni in una band che si rifà fin dal nome al primo presidente della Russia. Può aiutare a rimorchiare e a darsi un tono. La vicenda diventa surreale, almeno per chi scrive, se dopo una decina d’anni, tre dischi e una raccolta di rarità e b-side prendi un aereo per andare effettivamente in Russia a suonare per la Boris Yeltsin Foundation (non devono aver visto l’ora di ingaggiare gli americani…), investiti – seppur per un giorno – del titolo di ambasciatori della cultura a stelle e strisce a Ekaterinburg, versante asiatico degli Urali. Se il trio di ragazzotti fosse britannico, invece che americano, avremmo potuto aspettarci anche un documentario ironico stile Monty Python. Tocca invece accontentarci dell’epica made in USA, con i tre che sul volo di ritorno si sentono carichi come molle e ritornati a casa hanno l’urgenza di cominciare a scrivere nuove canzoni come facevano agli esordi. Eccoli allora nella soffitta dei genitori di Will Knauer, con “[Jonathan] James che fa da ingegnere, [Philip] Dickey e Knauer che scrivono i testi e le parti di chitarra sul davanzale della finestra al terzo piano e le voci registrate nella

Marco Boscolo

South London Ordnance - He Do the Police in Different Voices (Aery Metals,2013) Genere: electro Dop alcuni singoli e 12” sparsi e un EP su Hotflush (Revolver, due pezzi, a marzo 2013), il misterioso South London Ordnance, classe 1988, inaugura la propria label personale con questo 10”. La sua è una electro che punta al club intrisa di umori bass UK, dub e virati dark; Discogs la tagga addirittura come house, noi la faremmo rientrare nella future garage. In Black Acre il featurer Brolin conclude con sdilinquimenti soul esangue non lontani da quelli di scuola James Blake; il resto è un’esplorazione del concetto di cavalcata electro, tra oscillazioni che non trovano risoluzione ma in qualche modo si settano e riescono ad appagare (Modular Splash, nel doppio remix di Factory Floor e JD Twitch), galleggiamenti dark house (Floating World), arrangiamenti che masticano globulosità e deformazioni tattili Cobblestone Jazz (anche se con tutt’altre tinte; System) e addirittura ricordi del synthpop Depeche Mode (Obsidian). Incluso nel pacchetto uno spettrale remix d’autore (Chris Carter dei TG). Da tenere d’occhio. 7.1/10

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Someone Still Loves You, Boris Yeltsin Fly by Wire (Polyvinyl Records,2013)

tromba delle scale”. Tutta la premessa pseudo-mitografica per scrivere che musicalmente la ricetta, invece, rimane sempre la stessa: party song e ballad dolciastre per un powerpop zuccherino tra Rivers Cuomo e Brian Wilson. Le nuove tracce daranno nuova linfa al rapporto con i fan e rinvigoreranno le scalette dei live. Tanto negli USA, quanto – ci auguriamo per loro – in un’altra puntata verso le terre della vodka. 6.4/10

Gabriele Marino

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Genere: experimental Forse la cover di Piano Song dei mai dimenticati God Machine può spiazzare, così delicata ed evanescente al limite dell’esangue. O forse no, se si (è) entra(ti) a fondo nel progetto Sparkle In Grey. Malinconia in dosi massicce a parte, quello che emerge dalla fedele rendition del classico dello sfortunato trio americano – e che prendiamo come chiave di volta per scardinare l’architettura di Thursday Evening – è l’eleganza di fondo, la ricercatezza strutturale e il perfetto equilibrio tra gli elementi, oltre che un gusto particolare per le “seconde linee” (ci perdoni Robin Proper-Sheppard) del rock che premia da subito il quartetto lombardo. Gli Sparkle In Grey sono – possiamo dirlo con certezza, ormai, alla luce del terzo album lungo più una miriade di split e lavori collaborativi – uno dei gruppi più eleganti che si possano incontrare nel panorama italiano. Hanno di fondo una delicatezza, una attenzione tale, diremmo quasi maniacale, al cesello e al dettaglio anche impercettibile, che le loro composizioni potrebbero essere tranquillamente assimilabili a partiture classiche, nonostante i quattro traffichino con generi della modernità come il rock in opposition, il post-rock più o meno umbratile e orchestrale, l’art-rock colto e volubile. Thursday Evening è un lavoro denso di mille riferimenti e di mille sassi gettati nello stagno dai cui cerchi concentrici si sviluppa una visione d’insieme che assume di volta in volta toni e gradazioni diverse: ora docilmente cameristica e pronta a sfaldarsi verso lidi etnoworld (Thursday Evening (Ieri)), ora ispirata a abissi dub-wave, ora più corposa e noisy, quasi a giocare con lande cosmiche alla maniera dei nuovi corrieri, ora astratta minimal-techno in divenire (Song For Arch Stanton). Altrove emergono svisate post-rock su architravi white

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dub (Der Maurer) o eleganza orchestrata alla maniera del giro canadese (una Boiling Humiliations tra beat digitale e sensibilità umana), elementi che ci fanno venire in mente misconosciuti eroi sotterranei come i Bark Psychosis. Ma prendeteli solo come vaghi punti di riferimento questi nomi e queste suggestioni, fugaci indicazioni in una galassia in continua espansione ed evoluzione che trasuda classe e ricercatezza anche nella scelta delle altre due cover: che sia ricaduta su due outsider come Borbounese Qualk (la bellissima Soft City) e Empirical Sleeping Consort (il soffuso andamento ipnotico di drones e violini di Of Swift Flight) ci dice molto sulla ricerca sonora compiuta da Alberto Carozzi, Cristiano Lupo, Franz Krostopovic e Matteo Uggeri. Quando si dice che accessibilità e sperimentazione possono convivere, non si può non pensare a dischi del genere. 7.4/10 Stefano Pifferi

Speedy Ortiz - Major Arcana (Carpark,2013) Genere: lo-fi, post-rock Ci sarebbe quasi da augurarselo, che una giovane adolescente disadattata venga tediata dai bulli della scuola come nel più classico stereotipo da teen movie americano. Il risultato potrebbe essere, nel caso in cui la vittima possegga una spiccata vena artistica, Major Arcana: un debut album che trova la sua raison d’être nel disagio giovanile, manifesto e poetica di intere generazioni di indie-rockers (And though I once said/ I was better off just being dead, recita No Below, uno degli episodi migliori del disco). Originari del Massachusetts, gli Speedy Ortiz di Sadie Dupuis si rifanno alla scena alternative americana a cavallo tra gli anni ‘80 e i ‘90: bassa fedeltà, arpeggi dissonanti e fuzzati, feedback

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Sparkle In Grey - Thursday Evening (Old Bicycle,2013)


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Enrica Selvini

The Stepkids - Troubadour (Stones Throw,2013) Genere: hiphop Gli Stepkids sono dei musicisti fantastici e da qualche mese a questa parte si stanno finalmente facendo conoscere da un pubblico più ampio rispetto alla pur ruspante nicchia Stones Throw/Now Again, grazie alle deliziose cover in chiave acustica e jazzy – diffuse attraverso il loro canale Youtube – di tre singoli tra i più ascoltati del 2013, ovvero Suit And Tie di Justin Timberlake, Get Lucky dei Daft Punk e Stay di Rihanna. Ascoltarle – attraversate da uno swing trascinante, leggere e fragranti come una crostata di mele, solo spazzole, contrabbasso e qualche accordo di elettrica in un sapiente ricamo di armonie vocali di ascendenza doowop + Beach Boys – è una goduria.

Tim, Jeff e Dan arrivano così al secondo album, dopo lo splendido omonimo debutto del 2011, con un biglietto da visita perfetto del loro humour e della loro profonda ed esercitatissima conoscenza delle radici della musica che fanno, ovvero le cover di cui sopra e il singolo – rubato al Donald Fagen di Nightfly, con oppurtuni aggiornamenti stilistici e “di scuderia” – The Lottery. A condire la base paciosa e solare di funk-disco-soul, ancora e sempre allori e languori space And psych, che nei momenti più visionari e slanciati possono ricordare qualcosa come i Soft Machine patafisici avvolti in una patina fusion. Sfuma l’effetto-sorpresa rispetto all’esordio, ma il loro talento e il loro stile cristallino riescono sempre a stamparti un sorriso sulla faccia, progressione dopo progressione, inciso dopo inciso, dettaglio su dettaglio. Godibilissimi. Preziosi. 7/10 Gabriele Marino

Steve Gunn - Time Off (Paradise Of Bachelors,2013)

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e improvvise esplosioni soniche come contraltare di un’anima spiccatamente pop che fa più volte capolino nel corso di questo esordio per Carpark Records, prodotto da Justin Pizzoferrato (già al lavoro con Dinosaur Jr. e Sonic Youth). Major Arcana scorre fluido dalla prima all’ultima traccia, infestato dal fantasma dei Pavement di Stephen Malkmus (e non a caso, dal momento che Sadie ne capeggiava una tribute band a nome Babement), a dividersi la scena coi Sonic Youth più docili e l’indie folk dei Sebadoh: dieci schegge che, se da un lato seguono fin troppo bene la lezione dei numi tutelari del genere, dall’altro denotano una personalità in grado di frullare gli stilemi di un’epoca musicale vecchia di ormai quasi trent’anni, donandole nuova vita. Il tutto, grazie a un’attitudine sbilenca e DIY tanto genuina quanto credibile e a un songwriting dal livello assolutamente sopra la media. 7.4/10

Genere: folk C’è una cosa di cui ci si rende conto attraversando gli Stati Uniti: l’equivalente della nostra provincia velenosa là si annida ovunque, nei quartieri delle grandi città come nelle cittadine dei deserti sud-occidentali. Una cosa che avviene in queste roccaforti di resistenza al cambiamento è il continuo ripetersi della tradizione. Essa viene fatta e rifatta, detta e ridetta, la ridicono amandola, così come Bruno Latour disse della espressione “ti amo” (che va ripetuta in continuazione, non basta dirla una volta per tutte). Nel reiterare il rituale della (giovane) tradizione musicale americana il pubblico è stratificato, trasversale. Non è un’operazione di “recupero”, non essendoci stata mai un’interruzione di continuità. Steve Gunn che riprende il contry-folk psiche-

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Gaspare Caliri

Summer Camp - Summer Camp (Moshi Moshi,2013) Genere: pop, indie La prima cosa che si nota e che non ci si aspetta

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da questo Summer Camp – omonimo sophomore del duo britannico – è che come brano d’apertura ne abbiano inserito uno chiamato The End. Al di là del contenuto della traccia si può interpretare la scelta come indicatore della direzione intrapresa in quest’opera: è finito il tempo di Condale, cittadina fittizia in cui è ambientato l’esordio. La coppia – nell’arte come nella vita, date le rivelazioni sul loro essere marito e moglie successive al loro successo – ha deciso di mettersi in gioco proponendo un disco personale, che tratta di loro stessi e di chi gli sta intorno, senza quell’approccio cinematografico che faceva di Welcome To Condale un caso isolato nel panorama musicale. Prendendo a prestito l’assunto newtoniano all’azione descritta ne è corrisposta una uguale e contraria, che si è riflessa sull’aspetto prettamente musicale sulla composizione dei brani; l’affidarsi a Stephen Street, coartefice dei successi di Blur e The Smiths, ha rappresentato in questo senso una limitazione della propria espressività delegando parte del processo a chi ha più esperienza. Ed ecco che scompare molto della produzione “da cameretta” delle parti di batteria – sostituita da loop campionati da strumentazione reale, anche grazie all’ausilio del turnista William Bowerman per alcuni brani – e con l’architettura lo-fi d’esordio rimossa in virtù di una (chiamiamola) purificazione del sound tesa a rimuovere totalmente ciò che di secco e sporco c’era prima, con basso e synth tirati a lucido. Il pop si fa patinato, talvolta addirittura con maestosità orchestrali alla Lana Del Rey (Fresh) o raffinatezze eighties tanto care a Wild Nothing (Pink Summer). Spiace notare però la scomparsa dei bei duetti botta-erisposta tra Elizabeth Sankey e Jeremy Wasley, sostituiti dal predominare della voce femminile col contraltare limitato ai soli e sporadici cori. La somma algebrica delle componenti pone Summer Camp su un piano di paragone neces-

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delico non è un esercizio intellettuale, o meglio, non lo è a tutti i costi. In Europa sarebbe pieno di connotazioni, in USA spesso denota solo talento, capacità, passione – oppure la loro assenza. A volte anche isolamento. Il nostro filtro si è spesso ingannato sulle scelte intellettuali degli americani. Come successe con i Meat Puppets nei confronti di Grateful Dead e suoni acidi e desertici (sentite peraltro New Decline e quanto si avverta Meat Puppets II): non era reazione intellettuale al punk hardcore e alle sue limitazioni, era lo spirito di esso dentro a ciò che a Kirkwood e soci piaceva fare. Le scelte del talentuosissimo Steve Gunn che si struttura in una band – per la prima volta stabilmente con i vecchi amici John Truscinski alla batteria e Justin Tripp al basso – cambiano direzione rispetto all’intimità e all’interiorità alla John Fahey – e alla Dave Pajo – e va verso un’apertura a strutture più narrative, canzoni lievemente psichedeliche, a scelte melodiche che ricordano il cantautorato, forse anche per la morbidezza del timbro di Steve, che stempera le potenzialità psych delle piccoli viaggi musicali attraverso cui ci conduce. I riff e le ossa armoniche, le invenzioni arrangiative, le progressioni di Time Off sono nel continuum del folk psichedelico e cantautoriale. Steve Gunn infila una serie di piccoli classici, ma nel dire questo, una volta di più, stiamo leggendo con un filtro europeo la ripetizione di quella tradizione che attira i musicisti americani. E, quando sono bravi, non c’è banalità, non c’è noia, c’è continua invenzione, anche se incrementale e non rivoluzionaria. 7.4/10


sariamente differente meno di nicchia e più a confronto del pop di massa, che potrà godere di un prodotto confezionato per essere di facile ascolto. Il prezzo che si paga è però molto alto: vengono a mancare quelle atmosfere di serena malinconia, frutto di ritornelli-filastrocca da canzoniere per bambini, che li contraddistinguevano; salvo sporadici casi degni di menzione (la già citata Fresh, Keep Falling, Two Chords) il resto del lavoro ci pare un passo indietro rispetto a quanto ci hanno dimostrato nel passato. 6.2/10

per la vita, per la musica (in antitesi al titolo) è tutta lì come sempre. Allora qual è il senso del titolo per una band sempre identica a se stessa? Ecco la risposta dei Superchunk “maturi” che filosofeggiano: “I hate music/ what is it worth?/ can bring anyone back to this earth/ Filling the space between all these notes/ But I’ve got nothing else/ so I guess here we go” (Me And You And Jackie Mittoo). Chi apprezza, alzerà volentieri il volume. Per gli altri sarà una virgola ininfluente nel panorama attuale. 6.3/10

Andrea Forti

Marco Boscolo

Genere: pop, rock, indie Quando il decimo disco di una band ha un titolo così, c’è da interrogarsi. Non sono certo degli sbarbi alla ricerca del colpo ad effetto facile, tutt’altro. Soprattutto guardando all’anagrafe e considerando che i quasi quaranta minuti dell’album sono intrisi di una musica solare (forse appena meno del solito) e dal piacere prettamente fisico di imbracciare gli strumenti. E nonostante gli anni passino anche per Mac McCaughan e Laura Ballance, l’attitudine rimane la stessa del passato, la stessa che li ha messi in pista nuovamente nel 2010, dopo uno iato quasi decennale che aveva fatto pensare a uno scioglimento. Le undici tracce sono il più Ninenties degli emo/power pop e se qualcuno pensasse che muscoli e rughe non vadano d’accordo, si ascoltasse quella scheggia praticamente HC di Staying Home. Certo, qua e là fanno capolino una chitarra acustica (Overflow) e una tastiera (What Can We Do), ma si tratta di suppellettili che non influenzano il tono dell’arredamento. La voce di Mac riesce ancora a graffiare come nei tempi migliori e l’urgenza (tardo)adolescenziale dell’urlare quell’amore

The 1975 - The 1975 (Polydor,2013) Genere: pop, mainstream, rock Hanno iniziato a suonare più di dieci anni fa (era il 2002, almeno così dicono) e hanno cambiato il nome quattro o cinque volte prima di arrivare al marchio definitivo (The 1975); ciò nonostante la band di Matthew Healy rimane ancora una creatura dai confini indefinibili, per quanto patinati. Infatti, nei quattro EP di presentazione – specialmente nel Sex EP - hanno manipolato influenze musicali apparentemente inconciliabili senza dare troppe indicazioni sulla strada che avrebbero percorso: tanta carne al fuoco e brani caratterizzati da coordinate stilistiche distanti tra loro. Così, tra passaggi post-rAndb alcuni fraseggi non troppo lontani da certe cose “emo”-pop anni zero, l’unico leitmotiv facilmente delineabile è l’ottimo fiuto per la hit orecchiabile. Nonostante siano maggiormente confinabili in un generico “pop-rock”, i due EP del 2013 - Music for Cars uscito a marzo (contenente il fortunato singolo pop-funk Chocolate) e IV pubblicato a fine maggio nell’attesa dell’omonimo album di debutto – non hanno permesso di inquadrare la loro proposta in un contesto ben preciso.

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Superchunk - I Hate Music (Merge,2013)

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di Healy – che tende a tramutarsi in un ulteriore strato ritmico. Chocolate, Settle Down e Girls sono gli esempi diretti della formula, mentre Pressure e Menswear ne sono la versione in slow-motion o, con una punta di crudeltà, da boy band. Destinato principalmente ad un target under-25 (sia dal punto di vista musicale che dei testi), The 1975 è un prodotto fresco e vincente che può portare aria nuova nelle charts e nelle playlist delle serate indie meno ricercate. Saranno anche dei furbacchioni, ma Matthew Healy e compagni meritano probabilmente più del facile odio che sono destinati a raccogliere. 6.2/10 Riccardo Zagaglia

The Bug - Filthy EP (Ninja Tune,2013) Genere: industrial, dub, grime Kevin Martin torna alla urban tribale di The Bug e lo fa, come sempre, restando fedele a se stesso e allo stesso tempo traslando leggermente. Le atmosfere sono il gotico urbano distopico (vedere la copertina, à la death metal) e fumato che conosciamo, le radici nell’industrial, la testa nel ragga, il rappato ansiogeno e vagamente farneticante come si conviene, affidato ad habitué come Flowdan e Daddy Freddy (London Zoo e altro) e alla new entry – nel roster di featurer del nostro – Danny Brown (in Freakshow, forse il pezzo migliore dell’EP, con Kiki Hitomi – compagna di Martin nella vita e nei King Midas Sound - a decorare con diafani incisi lontani). Martin è bravo anche quando si impegna poco e lo dimostra riciclando qui lo stesso beat in due cantilene-filastrocche uguali e completementari (Kill Them e Louder). Produzioni e vocal sono di impatto, ma il taglio grime appare meno potente e in primo piano a questo giro, il flow meno unto e torrenziale, più quadrato e acido. Quattro pezzi in pilota automatico di

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Quello dei The 1975 è uno di quei dischi d’esordio sui quali non è difficile prevedere grandi riscontri di massa già dagli EP che lo hanno preceduto (esemplari gli Imagine Dragons in questo senso). La certificazione, se non altro, è attestata dalla congiunzione dei seguenti fattori: un’immagine telegenica, una certa personalità e soprattutto canzoni ipoteticamente capaci di conquistare le radio al di qua e anche al di là dell’oceano. Canzoni addirittura ripresentate in una nuova veste per poter risultare ancora più appetibili al grande pubblico, come nel caso del Bloc Party meets Jimmy Eat World di Sex, qui presente in una tinta più epica e meno istintiva. I mancuniani però sanno che oggigiorno è importante mostrare anche un lato artsy per tenersi buono il pubblico meno generalista, pertanto sfoggiano ritmiche atipiche in Talk! e tra un colpo ben mirato alla retromania ‘80s (dopotutto sono fan di John Hughes) del synthbass pulsante dell’incolore Heart Out e uno al nu rAndb elettro-driven della tutto sommato inconcludente M.O.N.E.Y., riescono anche ad infilare un evocativo passaggio piano-voce (Is There Somebody Who Can Watch You) e la ballata – anch’essa un po’ forzata - Robbers. Ma non sono questi i frangenti in cui la band sembra poter fare la differenza: i quattro convincono maggiormente quando si tuffano nel loro trademark sound - e The 1975 ha il merito di farlo finalmente emergere – composto da un mix di Talking Heads, il Peter Gabriel di US e un’intera compilation One Shot ‘80 compressa in tre minuti. Le peculiarità sono rintracciabili in un groove di stampo funk (basso protagonista e quella chitarra a metà strada tra il concetto di “chitarre che suonano come insetti” dei Foals e spensierato summer pop da MTV), in atmosfere esuberanti – punto di incontro tra gli Hanson e le Haim - e in un apporto melodico – reso tra l’altro unico dall’accentuata pronuncia


buon livello, molto uguali tra loro, non irresistibili, forse anche prescindibili, niente più e niente meno di questo. Soprattutto se in vista di un disco lungo previsto per fine anno e dal titolo programmatico, Angels and Devils, con dentro ospiti come Death Grips, Grouper e Gonjasufi. 6.2/10 Gabriele Marino

Genere: pop Anche il duo di San Francisco passa attraverso il classico album di riflessione sulla morte. Avessimo tempo per un’analisi più lunga, potremmo forse individuare quasi un genere a sé. Gli album che vi appartengono sono spesso definiti come “una svolta” nella produzione dell’artista in questione o un “elemento a parte” nella discografia. Ci è sempre sembrato bizzarro, visto che la storia della musica tutta è infarcita di brani ispirati o sulla morte di qualcuno caro. Basta pensare ai requiem della musica classica o alla produzione blues delle origini, passando per le tradizioni folk di tutto il mondo. Ecco perché la retorica che nel mondo indie circonda dischi di questo tipo: prima o poi nella vita di tutti, musicisti compresi, qualcuno che ami lascia questo mondo. Saremo forse troppo cinici, ma talvolta abbiamo l’impressione che quest’aura, nelle analisi di dischi indie siffatti, serva più che altro a mettere al riparo dalle critiche elementi essenziali della produzione musicale come l’ispirazione e la capacità di suscitare emozioni e sentimenti. Nel caso di Carrier dei Dodos, la quinta prova in studio, arriva dopo la scomparsa del Christopher Reimer (Women) che si era aggiunto da poco alla band nelle sue escursioni live e che viene appunto presentato come un disco di sentimenti dimessi, riflessivi in seguito a

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The Dodos - Carrier (Polyvinyl Records,2013)

questo dolore. I due musicisti approfittano per ribadire il solco già ripreso con il precedente No Color dopo il passo, se non falso, almeno laterale di Time To Die. Siamo quindi nei territori tra il folk del muovo millennio stile Fleet Foxes (vedi anche certe armonie vocali “appalacchiane”), un continuo gioco di stratificazione “analogica” marchio di fabbrica del duo e un afflato Arcade Fire ancora più marcato, dovuto alla presenza – novità assoluta – della chitarra elettrica. Ciò non deve indurre a pensare che i ritmi siano alti. Al contrario, il disco riflette anche dal punto di vista dei tempi e dei toni un rallentamento, un sguardo più delicato, adatto appunto alla riflessione sulla scomparsa di un amico. Sul cinismo abbiamo detto la nostra, e non ci aspettiamo che sia un’opinione (perché di questo si tratta) condivisa. Sugli aspetti musicali riassumiamo scrivendo che nonostante un elemento (l’elettrica) nuovo nella composizione, il discorso compositivo torna a battere i sentieri più graditi ai fan della prima ora. Sospettiamo che dopo una decina d’anni di carriera, i Dodos abbiamo esaurito la carica di freschezza nelle prime prove e che stiano continuando a realizzare buone canzoni indie-pop rassicuranti. 6.6/10 Marco Boscolo

The Ex And Brass Unbound - Enormous Door (Ex Records,2013) Genere: post-punk, jazz Abbiamo ancora negli occhi (e nelle orecchie) quello spettacolo di suoni in libertà che gli Ex in formazione allargata alla Brass Unbound portarono in giro un annetto fa culminando in un live al romano Brancaleone da lasciare a bocca aperta. Ora quel caleidoscopio di suoni liberi trova una sua collocazione discografica in questo Enormous Door, album pensato e registrato proprio durante quella manciata di

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Stefano Pifferi

The Mowgli’s - Waiting For The Dawn (Island,2013) Genere: pop, rock, indie, folk Destino beffardo quello dei The Mowgli’s: dal

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2010 hanno in repertorio un brano vincente come San Francisco ed ora, dopo che Of Monsters and Men e The Lumineers hanno saturato la scena, per loro potrebbe essere troppo tardi. I risultati non esaltanti di altri folk-poppers (i Last Bison di Inheritance ad esempio) e le recenti predilizioni del grande pubblico per le sonorità epico/bombastiche di Imagine Dragons o Bastille non hanno frenato la Island dal mettere sotto contratto gli otto californiani in vista della pubblicazione dell’album Waiting for the Dawn. È un chiaro do or die quello di Waiting for the Dawn: quasi una re-release del precedente Sound the Drum (ne eredita ben otto tracce), l’album non solo ha il compito di sfondare, ma deve farlo anche in fretta. Quattro le cartucce a disposizione: la sopracitata killer-track da spot tv San Franscisco, l’indiavolato piano-rock festoso di Slowly, Slowly e l’accoppiata radiofriendly che sintetizza tutte le Home e le Little Talks di questo mondo: la whistle-driven Clean Light e l’abusata formula botta-risposta uomodonna della contagiosa Hi, Hey There, Hello. L’outsider è la mumfordiana Carry You Will, forse la traccia dalla struttura meno scontata nel suo crescendo dal retrogusto agrodolce. Altrove a prevalere è un vitale power-pop che flirta con l’US rock fm di fine ‘70 (la titletrack), un folk-rock decisamente troppo mellifuo (Love Is Easy) e l’esuberanza party-oriented dei Youngblood Hawke. Melodie a presa rapida (la strofa di Emily ad un certo punto diventa The Dark of the Matinée dei Franz Ferdinand) e la solita coralità post-collettivi (dagli I’m From Barcelona ai Polyphonic Spree): una formula che sulla carta nasce con l’obiettivo di non stancare mai ma che oggi, a causa anche di una invadente sovraesposizione mediatica, genera l’effetto opposto. Così, ad un solo anno di distanza, la domanda

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date italiane (opera di Riccardo Parravicini presso gli studi leccesi Posada Negro) in formazione raddoppiata, che allo storico quartetto di anarco-punk olandesi vede aggiungersi pezzi grossi del giro “impro-jazz” come Mats Gustafsson e Ken Vandermark ai sax baritoni e tenori, Wolter Wierbos al trombone e il nostro Roy Paci alla tromba. Si capirà da subito che sulla base punk senza steccati, fluttuante, energica, melodica, eccentrica e positivamente quartomondista come quella che gli Ex portano fieramente avanti da un trentennio abbondante senza mai risultare copie di se stessi, si vanno a stratificare composizioni che fanno dei fiati orchestrali la propria peculiarità. E che questa mistura avviene in maniera talmente naturale che è veramente difficile credere che questo sia un progetto estemporaneo. Dopotutto, i quattro in più vivono ognuno la propria musica esattamente come i quattro olandesi: in maniera totalmente aperta, libera da paletti e concepibile come un flusso unico in cui movimenti circensi (Bicycle Illusion è da big band estrosa alla maniera dei balcanici) e passaggi ferali da funeral band – qui molto c’avrà messo il caro Paci –, influenze afro-funkettone (il traditional etiope Belomi Benna qui rivisitato) e stramberie assortite (We Are Made Of Places sembra riecheggiare la The Gift velvettiana in modalità afro-jazz) convivono pacificamente al servizio di una visione musicale a 360 gradi. Ennesima dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, della statura di un progetto che supera ogni aspettativa ad ogni nuova prova. 7.4/10


con la quale terminavamo la recensione di My Head is an Animal (“rinuncereste ad uno degli album più gradevoli – e adatti alla stagione estiva – degli ultimi tempi?”) trova la sua risposta… affermativa. 5.6/10 Riccardo Zagaglia

Genere: pop, alt È difficile non voler bene a Fran Healy. Trovare sugli scaffali dei negozi un nuovo disco dei suoi Travis nel 2013 è come reincontrare dopo anni quel nostro compagno di scuola a suo modo interessante, sempre con la battuta pronta, disposto ad aiutarci passandoci la sua versione di latino. Ai tempi lo sottovalutavamo, perché in gita scolastica non trascinava certo le folle e se ne stava un po’ in disparte – magari provando qualche nuova melodia con la sua chitarra da studio – e non aveva l’appeal (e l’approccio sufficientemente sfrontato) per far breccia sulle ragazze della classe, eppure oggi ci accorgiamo di quanto fosse piacevole la sua compagnia. Non è neanche cambiato più di tanto: forse la voce ha perso smalto e il falsetto non gli riesce più come una volta, ma sa ancora scrivere buone canzoni. E Where You Stand, capitolo settimo di una carriera che va avanti da sedici anni, è qui a dimostrarlo. Il titolo dell’album è uno statement particolarmente fiero per gli standard dei Travis (ricordate? The Invisible Band, The Boy With No Name) e torna anche in bella mostra il loro logo in copertina; dopo il passo falso di Ode To J. Smith riecco protagoniste quelle melodie softrock che inaugurarono un felice filone che va dai Coldplay ai Keane, passando per gli Snow Patrol. Senza il fiato sul collo, i Travis hanno registrato il disco tra la Norvegia e i mitici Hansa Studios berlinesi in due anni, con l’aiuto

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Travis - Where You Stand (Kobalt Label Services,2013)

di Michael Illbert (che lavorò con gli Hives, ma anche con a-ha e Roxette), per la Red Telephone Box – di loro proprietà – appoggiandosi, come i Pet Shop Boys, a Kobalt Label Services. Where We Stand è sin dalle prime note un album squisitamente “alla Travis”, che attinge alla miglior tradizione pop britannica e non solo; rischia poco, è vero, ma tutto è ben dosato (il basso di Dougie Payne, la batteria di Neil Primrose e la chitarra di Andy Dunlop) e si ascolta che è un piacere. Parte in sordina, l’opener Moving, fino a quando un pianoforte vivace trascina e accende la miccia, quasi a far ricordare non solo Bruce Springsteen ma anche quell’Elton John ingiustamente bistrattato di Just Like Belgium; i ragazzi sono ancora “tied in the 90s” in Another Guy - episodio cupo e spigoloso in bilico tra certi Radiohead e gli Smashing Pumpkins di 1979 - e in una successiva New Shoes che ricorda non poco il trip hop gentile e radiofonico dei Morcheeba, ma ci prendono in contropiede con il ritornello di A Different Room – ipotetico incontro tra Bono e i Crowded House appena appena baciato da discreti inserti elettronici – e quello ancora più felice di Boxes. C’è tempo anche per ricordare ai più distratti che i Travis nascono nell’era del britpop con la kinksiana On My Wall, e che non rinunciano neanche stavolta a un omaggio al pop con la P maiuscola di Sir Paul McCartney in Anniversary, stranamente relegata al rango di traccia bonus per gli acquirenti della deluxe edition, quest’ultima comprensiva anche di Parallel Lines e di un DVD allegato. È un vero peccato che il loro nome, negli ultimi anni, sia stato per molti sinonimo di “musica banale e prevedibile”; l’allievo Chris Martin si è allontanato dalla semplicità di Parachutes, i Keane si sono smarriti dopo un EP confusionario per poi fare marcia indietro, e anche Amy MacDonald (fan dichiarata del quartetto

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scozzese, ammise di aver iniziato a comporre canzoni dopo averli visti in concerto) non ha più il successo del fortunato esordio. Eppure forse oggi qualcosa sta cambiando, visto che Where You Stand ha debuttato al terzo posto nell’Album Chart in patria. E pazienza se non c’è sperimentazione, se è tutto così coerente e pettinato – in fondo, un disco ben fatto piace anche se non potrà cambiare la storia della musica. Così, giusto il tempo di finire il caffè al bar col nostro amico ritrovato, gli chiediamo il numero di telefono prima di congedarci. Chissà che non ci si organizzi e che venga presto a trovarci. Intanto la pulce all’orecchio ce l’ha messa lui: why did we wait so long? 6.7/10

Tripwires - Spacehopper (Frenchkiss Records,2013) Genere: pop, brit, shoegaze Se alle scuole superiori un gruppo comincia a fare cover degli Slipknot e dopo qualche anno si ritrova a suonare una sorta di pop di stampo brit mescolato a distorsioni shoegaze, motivi indie rock e un’attitudine alquanto space rock, allora dietro al progetto non può che celarsi una apertura mentale a dir poco elevata. Una versatilità a 360° ampliata nel tempo quella dei Tripwires: ci sono voluti circa sei anni per riarrangiare, perfezionare e completare Spacehopper nella loro Reading definita come un “gran posto per scrivere musica”. La cura per il dettaglio infatti la si comprende sin dopo i primi minuti di ascolto e va in parallelo con una spiccata dote creativa. Certo, non siamo di fronte ad una rivoluzione nè tantomeno ad un gruppo dalla vena innovativa degna di memoria, ma di un primo full lenght che si fa notare – oltre che per alcuni brani azzeccati – per le atmosfere spazio-emozionali che sa creare. Il loro sound si rifa agli anni ‘90, questo è

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Alessandro Rabitti

Ty Segall - Sleeper (Drag City,2013) Genere: garagerock Dopo una moltitudine di dischi sfornati al ritmo di due-tre all’anno, dopo aver ristampato tutto il ristampabile dei suoi gruppi adolescenziali, Ty Segall ha deciso di tirare il fiato con il nuovo Sleeper e di cambiare un po’ registro. Un disco concepito con l’acustica in braccio, di songwriting, nel quale aleggia automaticamente lo spettro di Gene Clark se si pensa all’amore del nostro per i Sessanta-Settanta californiani. Ma è una mezza verità. In realtà il songwriting di Segall ha poco a che fare col folk quanto piuttosto con l’indie (The Keeper), gli apparati Sixties di cori, coretti e falsetti sono decisamente più riconducibili ai Byrds e, dulcis in fundo, qui non si raggiunge mai la

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Alessandro Liccardo

indubbio. Attacchi shoegaze che ricreano e alcune sonorità che vanno a braccetto con personaggi del calibro di Slowdive e Ride (Love Me Sinister o Spacehopper), e che sfociano nei riverberi – non del tutto funzionali – di palese fattura My Bloody Valentine plasmati su strofe britpop alla Travis di Paint, un brano che suona leggermente forzato nella sua natura. Allo stesso tempo i Tripwires compongono melodie proprie del rock più british-style, tra linee morbide di chitarra e basso, dimostrando il loro attacamento a quelle chitarre diventate un marchio di fabbrica degli Oasis (Catherine, I Feel Sick) o ad impostazioni strutturali dei primissimi Radiohead (Plasticine, la bonus track Clusterfuck, o anche Tin Foil Skin se fosse stata lunga la metà). In definitiva, un disco che si lascia ascoltare suonato da un gruppo che è bene continuare a tenere d’occhio. Non sia mai che, risolta qualche piccola indecisione compositiva, la band regali qualche soddisfazione in più nel futuro. 6.6/10


delicatezza del miglior Clark solista. Più giusto dire che per l’ennesima volta il piccolo Re Mida della Bay area fa incetta di canzoni pop, con undici tracce pronte a scorrere senza particolari intoppi e grandi vette. Smuovono un po’ le acque un approccio che rimane azzeccatamente lo-fi (vedi le tamburellate di Come inside) e lo slide blues di 6th street, ma complessivamente si viaggia nell’ordine del buon cantautorato che come da titolo vuole scaldare e intenerire, magari rannicchiati a letto con un bel pigiamino addosso. Certo non è il classico sogno estivo ma per ora toccherà accontentarsi. 6.7/10

Washed Out - Paracosm (Sub Pop,2013) Genere: pop, dream I primi lavori di Greene sono stati costruiti interamente con samples e con strumenti MIDI: i due album del 2009 (l’EP Life of Leisure e la cassetta High Times) ad esempio sono stati registrati con l’aiuto di una tastiera M Audio Oxygen a due ottave e con un laptop, praticamente l’equipaggiamento di un freshmen che inizia a studiare musica elettronica. Già nel tour di Within And Without si capiva però che l’uomo si era stancato delle macchine, con risultati interlocutori e laboratoriali. Paracosm è il pretesto per dedicarsi ad un nuovo inizio in vista di una musica basata su strumenti interamente live e su un tipo di registrazione e produzione analogiche. Greene si mette quindi ad usare un organico d’epoca, tipo l’Hammond Novachord del 1939, il Mellotron o le ondes Martenot di inizio anni 50, un po’ come hanno fatto i Daft Punk con Random Access Memories e va in cerca di studi di registrazione old school (i Maze Studios con la supervisione di Ben H. Allen, già collaboratore di Animal Collective,

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Stefano Gaz

Deerhunter e Gnarls Barkley). La retrofilia organologica del musicista di Atlanta, Georgia, risulta, a differenza di quella di De Homem-Christo e Bangalter, tutto sommato kitsch; l’output finale non sembra essere cambiato di molto rispetto all’esordio. In due mini documentari sul backstage dell’album, costruiti con i blasonati The Creators Project, si capisce che se l’idea di avere dei sample più organici aumenta la qualità del sound, in fondo gli strumenti e i suoni registrati passano sempre per drum machines, pad o tastiere. È quindi innegabile che un vero e proprio cambiamento radicale non ci sia stato. Andando a testare l’ipotesi sulla resa delle canzoni (prescindendo dalle sonorità), la conclusione è presto detta: il risultato finale non cambia. Il suono di Washed Out rimane ancorato perciò all’estetica chill intrisa di reminiscenze 80, orchestre loungey à la Air e un po’ di folkitudine con bandierone americano a stelle e strisce (che fa da sfondo allo studio casalingo). Un quattro quarti slow un po’ psych (Don’t Give Up), qualche vago richiamo all’estetica pop vintage degli Stereolab mescolato con laser à la Beck (nella pur pregevole All I Know), slow motion connessi alle prove precedenti con qualche spunto prog (Weightless) e qualche vago rimando pure alle atmosfere dei Coldplay con tanto di uccellini e suoni naturali (Falling Back) fanno di questo disco il primo vero lavoro ‘commerciale’ di Greene. Il disco potrebbe sfondare quindi, perché è ascoltabile e curato nella costruzione del relaxing mood. Per chi non lo conosce sarà una scoperta apprezzabile, da suonare come fondino pre-party. Per i fan, un’inutile marcia indietro, camuffata con la scusa del passo avanti nella ricerca del suono orchestrato e più live. Il risultato è invece una prescindibilissima riproposizione di tutti i cliché della scuola glo. Il sophomore di Washed Out non riesce a ri-

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costruire l’interessante discorso meta musicale di James Ferraro (vedi ad esempio Far Side Virtual) e si prende troppo sul serio, risultando pesante e alla lunga indigesto. 5.5/10 Marco Braggion

Genere: indie, post-punk, shoegaze Quando si impiega più di un anno per stendere le dieci lunghezze di Jinx, dopo aver aggiunto il quarto componente alla band, essersi trasferiti da San Francisco a Brooklyn e aver pubblicato un esordio molto importante come Sports a forti ed oscure tinte post-punk e shoegaze e un discreto ritorno con l’EP Red, ci si aspetterebbe come minimo un sophomore di tutto rispetto. Le carte in tavola c’erano tutte, ma i Weekend le sfruttano solo per tre quarti. Il nome dell’album è un riferimento a quello che è l’approccio generale; i testi sembrano intristirsi e, in questo senso, l’abbandono di un luogo tutto sun-fun-luv come la California ed il recente periodo personale non troppo positivo del cantante Shaun Durkan hanno probabilmente avuto una certa influenza sulle situazioni compositive di Jinx. Rispetto a Sports una specie di evoluzione c’è, intesa più come un cambiamento piuttosto che come un miglioramento. Il fatto che ci siano troppi richiami mescolati a suoni con poca personalità, fa sì che il disco rimanga un po’ sospeso nel vuoto. Chi ha scelto la stessa strada, ad esempio Diiv o Savages, ha saputo fare di meglio. Il lato più ombroso di Sports si è allontanato ma non del tutto; il post-punk di marca Joy Division si è purificato dall’aspetto più epilettico e dalle inclinazioni noise e lo-fi, sostituito da linee ritmiche più melodiche; la voce si è schiarita ed illuminata, avvicinandosi sempre di più a visioni offuscate shoegaze à la The Jesus And Mary Chain (Sirens, Adelaide) o

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Alessandro Rabitti

White Lies - Big TV (Polydor,2013) Genere: indie, wave “A volte sento di dover fuggire via”, cantavano i Soft Cell (e ancor prima Gloria Jones). La fuga non è da un amore corrotto, questa volta, ma dalle speranze ridotte al lumicino che un non meglio specificato piccolo paese europeo è in grado di offrire, sognando una nuova vita in una metropoli conosciuta solo grazie alle immagini proiettate da un grande TV color, nitide e dai colori vivi e accesi. Recidere il cordone ombelicale e viaggiare verso l’ignoto, dunque, è la decisione che prende la protagonista del racconto che si sviluppa nel concept-album dei White Lies, sull’equilibrio delle relazioni (tra due amanti, tra genitori e figli…), che giunge dopo l’ottimo successo di due prove come To Lose My Life e Ritual. La storia avrà un lieto fine? Lo si può scoprire solo ascoltando per intero il terzo lavoro del trio londinese, più ambizioso dei precedenti ma al contempo più solido, fedele a uno stile che è un trademark consolidato fatto di magniloquenti tessiture tastieristiche, un basso à-la Simon Gallup (i ragazzi incidono per la Fiction, per anni la casa dei Cure), la voce scura ma slanciata di Harry McVeigh e una propensione spiccata al ritornello anthemico.

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Weekend - Jinx (Slumberland,2013)

à la My Bloody Valentine (It’s Alright), passando attraverso un imprinting ritmico ispirato ai primi The Cure o Depeche Mode (Scream Queen), per spingersi fino a percezioni spaziali molto The Stone Roses (Rosaries) o ad atmosfere idilliache alla Sigur Rós (il riverbero in apertura di Sirens). Il risultato, alla fine, è un disco ben confezionato, che può puntare a conquistare soprattutto quegli ascoltatori che conoscono già l’immaginario musicale di riferimento. 6.7/10


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il disco finisce con una doccia gelata (“This killing time is going to bruise forever / So turn it back / better late than never”) dopo aver accompagnato sensazioni e stati d’animo contrastanti, un corto circuito tra individualismo e volontà di amare qualcuno più di quanto questi possa ricambiarci. Se la patina post-adolescenziale della trama non spaventa, siamo di fronte al disco più interessante dei White Lies pubblicato fino ad oggi. Se i detrattori con il santino di Ian Curtis li dipingono come un bluff clamoroso a rimorchio dei più rispettati Interpol ed Editors, loro si rivelano tutt’altro che bugie innocenti – semmai artisti con le idee sempre più chiare, pronti a sfidare la concorrenza a settembre piuttosto che nell’assai meno competitivo contesto postnatalizio che fece balzare il debutto al n. 1 nel Regno Unito. Non era solo hype, quello. Una bella conferma. 7/10 Alessandro Liccardo

William Basinski - Nocturnes (2062,2013)

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Una ragazza, il suo compagno, un padre speaker radiofonico mai conosciuto prima. Luci e ombre, tensione e abbandono, sprazzi di luce e baci con le lacrime agli occhi sotto la pioggia scrosciante: nelle mani sbagliate poteva diventare la sceneggiatura di una fiction di serie B di un regista di belle speranze col feticcio di Bret Easton Ellis, e invece tutto funziona (quasi) fino alla fine. Le insidie dell’edonismo possono spingerci avanti e indietro, come su un ascensore impazzito, dal 1985 al 2013 e viceversa – e anche il produttore Ed Buller (già reincontrato con piacere con i Suede) insieme alla band non fa che confermare quest’impressione: il gioco del “motivo mascherato” è fin troppo ingenerosamente canzonatorio, ma è fuori discussione che i tre abbiano ancora lo sguardo rivolto all’alternative rock di trent’anni fa. Per questo, non ci si stupisca più di tanto se si trovano tra le pieghe i Tears For Fears di The Hurting in First Time Caller e in Mother Tongue, piuttosto che gli Echo and the Bunnymen, scampoli di Night Time dei Killing Joke, dei Cars, degli Psychedelic Furs e degli Ultravox. I nuovi brani (dieci, più due brevi interludi strumentali) sono potenti e sono nati per essere cantati al secondo ascolto. Tutto è straordinariamente denso nella title-track che funge da opening scene, e il ritornello del singolo There Goes Our Love Again è di quelli che stendono al tappeto (segno che quelli di Strangers e Farewell To The Fairground non sono stati semplici colpi di fortuna). Gli archi simulati al synth non traggano in inganno, qui non si guarda solo dallo specchietto retrovisore – il vintage sa fondersi con suoni più moderni in Change, ballata spaziale in cinemascope che mette insieme Jon And Vangelis e il più recente Dave Gahan delle avventure extra-depechemodiane, e nei Killers sotto mentite spoglie di Be Your Man. Non è affatto detto che, scavando in una miniera d’oro, si trovi per forza un tesoro nascosto:

Genere: avant, elettroacustica, ambient Dopo la reissue in blocco, l’anno scorso, dei Disintegration Loops, la seconda collaborazione con Richard Chartier (Aurora Liminalis, uscito da pochi mesi), Basinski in Nocturnes ci consegna un paio di composizioni per loop che tornano – almeno per il brano che dà titolo all’album – alla grandezza cui ci ha abituati fino a The Garden Of Brokenness. Basta andare sul sito web del compositore per riprendere la fotografia espressa nelle prime righe: l’ultimo album, il box set della consacrazione, l’ultima collaborazione. Nothing between, sembra dire, invitandoci a non considerare Vivian And Ondine, testimonianza di un live, 92982, altro capitolo meno rilevante, e via a ritroso fino al Garden.

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Gaspare Caliri

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Zola Jesus - Versions (Sacred Bones,2013) Genere: wave, dark, goth La via per la celebrità passa anche attraverso momenti come questo Versions. In due parole, la cara Nika Roza Danilova a.k.a. Zola Jesus, ex nuova reginetta dark del sottobosco americano, a nemmeno venticinque anni sente l’urgente bisogno di ripulire ancor di più la propria immagine – e di conseguenza il proprio sound – da qualsiasi impurità che ne attesti la provenienza melmosa e lugubre. In realtà, un paio di questi indizi rimangono: la label innanzitutto, quella Sacred Bones sempre più lanciata nell’esplorazione dell’underground più dark e wave oriented che si possa immaginare, ma incline a commistioni mainstream neanche troppo velate o scontate (vedi alla voce David Lynch o Jim Jarmusch); e poi il nome del prestigioso featuring di Versions. Quel JG Thirlwell agitatore della scena noiseindustrial della prima ora con la sigla Foetus e celebrità rispettata ad ogni latitudine, come dimostrano le collaborazioni da Coil a Throbbing Gristle, passando per Nick Cave, Marc Almond, RHCP e NWW. Complice fu, tanto per concludere il quadretto neo-radical-chic, una performance da tenersi al Guggenheim di NYC, in cui Zola Jesus invece di presentare il solito set elettronico chiese come sponda qualcuno in grado di rendere “classicamente”, per un quartetto d’archi, la sua musica già all’altezza di Conatus molto più piana e intelligibile che in passato. Quel qualcuno era Thirlwell, che riarrangiò per un quartetto alcune canzoni della Danilova (la performance è visibile nel dvd allegato all’edizione limitata dell’album, per i curiosi). Nulla di strano sotto il sole (nero), se non che archi e orchestrazioni, pur se dosate dalle sapienti mani di mr. Foetus, poco si confanno a tracce elaborate per essere ruvide e disturbanti o,

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Non è nel segno di Satie che si muove il loop di pianoforte preparato diNocturnes, preso da una tape composition registrata a San Francisco alla fine degli anni Settanta. William Basinski, per questa composizione rimescolata per piano e spettri, usa una manciata di note che sembrano prendere lezione da Morton Feldman, maestro assoluto nel creare immagini inedite nel rapporto tra pianoforte e tempo sospeso. Lo si sente nella capacità di manipolare gli effetti di battimento, e nella maestria nel dare evidenza, nel reiterare della stessa sequenza di note, a un suono, un timbro alla volta, amplificato nella propria efficacia dalla compresenza degli altri. Non esistono momenti di sosta assoluta come in Garden Of Brokenness. L’ambientale di Nocturnes è fedelmente figlia di quella di Brian Eno, potenzialmente infinita, fatta di cambiamenti molto più spesso annidati nei dettagli che negli effetti macroscopici. Diversamente, The Trail of Tears stende un tappeto ambient che ci ricorda la Kranky Novanta, Labradford su tutti. Eppure è una registrazione molto recente, del 2009, il cui estratto è finito nell’opera di Robert Wilson The Life and Death of Marina Abramovic. La musica di Basinski possiede come pulsazione vitale l’andirivieni tra presente e passato – anzi, proprio l’indecidibilità del tempo, che corre ma poi non trascorre se non accadono fenomeni eclatanti. È l’essenza forse di quello che da sempre ha da dirci William Basinski. Non c’è un concept evidente in Nocturnes – niente a che fare con la potenza dei Disintegration Loops, forti anche senza ascoltarli, basta raccontarli. Nocturnes parla di notte ma di oggi e di ieri, confondendoli. 7.5/10


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come nel caso delle prove più recenti, già di per sé dotate di quel taglio cinematografico, visionario e (ehm) “classico”. Dopotutto, a ripercorrere la carriera, breve ma intensa, di Zola Jesus ci si rende conto che le asperità degli esordi, i traffici con l’oscurità di Aurora Borealis o Die Stasi, la liason nemmeno troppo dangereuse con LA Vampires del giro Not Not Fun, sono ormai un bel ricordo da quando il passaggio dal nero al bianco – vedi alla voce Conatus – si manifestò nella sua pienezza. La Zola Jesus di oggi è ormai, e definitivamente, dopo questo lavoro, un fenomeno da (quasi) mainstream e come tale dovremmo guardarlo. Però a noi mancano quelle velleità sperimentali che ce l’avevano mostrata coraggiosa e sfrontata esordiente, e non basteranno atmosfere malinconiche rivestite da brumose accigliature dark e goth dall’orecchio sapiente di Foetus per farci contenti. Versions è un lavoro strutturalmente perfetto, sapientemente equilibrato e dalla bellezza cristallina; un lavoro rigoroso e algido come solo alcune orchestrazioni sanno essere. Però è qualcos’altro rispetto a ciò che, ostinatamente, continuiamo ad aspettarci da musiciste come la Danilova, specie se ci si sofferma sul ruolo che, giocoforza, la sua voce non proprio memorabile va ad assumere in un contesto del genere. In definitiva otto rivisitazioni (più della metà proprio dal disco precedente) e un inedito (Fall Back) di cui non si sentiva la necessità se non come lasciapassare per ciò che si diceva sopra. 6.4/10 Stefano Pifferi

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Il consueto giro nei formati strani stavolta con vinili e digitali a nome Il capro, Light House, Dust, Claudio Rocchetti, Magik Markers, Goat, NOS Project, Floex

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Al rientro da una afosa estate, una notevole mole di formati strani ci attende a parziale giustificazione dei rumors sul sopravvento del vinile sugli altri medium di riproduzione musicale o della riscoperta “istituzionale” della cassetta con l’ormai prossimo Cassette Record Day. Piccola soddisfazione anche per noi che ci giochiamo spesso le nostre carte sui giri piccoli. Non come quelli pubblicati dalla romana Mannequin, che girano a 12” e ci immergono nell’autunno incipiente con una buona dose di wave nelle sue varie declinazioni minimal o cold. Quelle che Dust e Light House, ultimi alfieri della label romana, ci regalano con questa doppietta sono due delle anime, molto distanti, della Mannequin. Da una parte il quartetto di stanza a NY Dust, combriccola varia per provenienze e background, tipica formazione da melting pot cittadino in Onset Of A Decimation spinge sul versante di una elettronica arty, tra slanci italo-disco virate dark, house acida da dancefloor alternativo, ipnosi da reiterazione e, su tutto, una neanche tanto latente volontà post-apocalittica che ce li fa apprezzare. Light House invece si posiziona in tono con lo standard dell’etichetta, con una dark-wave al femminile con una Dawn Sharp cantante eterea e sognante a puntellare una musica ostica e notturna, teatrale e sensuale, spesso tesa (la title track), a volte freddamente ritmata (i beat minimali di Walls Want Communion), quasi sempre suggestiva. Il mini In Their Image è una ristampa e di mezzo c’è anche un ex Rapture, Chris Relyea. Meritano l’ascolto. Sempre a 12” gira un altro vinile made in Italy. L’autore è il nostro noiser preferito Claudio Rocchetti e l’etichetta che stampa lo one-side Pointless Vanishing Point è l’apprezzata Holidays: una lunga traccia in tre movimenti assemblata in solitudine, inspirata dalla land art di Robert Smithson, con suggestioni tratte dalla Trilogie De La Mort di Eliane Radigue e supporto degli spiriti affini Al Doum, Von Tesla e Stefano Pilia. In soldoni, basse frequenze e increspature di suoni ipnotici rotte da echi di psichedelie etno perse nelle nebbie del tempo per un lavoro concettuale e al solito molto suggestivo. Diminuendo i giri di vinile, segnaliamo il ritorno dei Magik Markers di Elisa Ambrogio, Pete Nolan e John Shaw. Mrs. Chasny prepara il comeback lungo Surrender To The Fantasy previsto per novembre con un 7” edito sempre da Drag City e in cui convivono le due


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anime della formazione: quella marcatamente sperimentale e noisy e quella più intellegibilmente rock. La title track Ice Skater va di bassa battuta, voce angelicata e rock notturno e sussurrato, mentre il contraltare Machines va di deragliamenti noisy, effettistica degenerata, voci smostrate e guazzabugli da no future noise. Aspettiamo con ansia il successore di Balf Quarry. L’altro 45 giri che abbiamo l’obbligo morale di segnalare è la prima uscita, remix esclusi, per i Goat dell’acclamato World Music. Dreambuilder e la sorella Stonegoat rinverdiscono il suono multiforme del disco lungo tra wah wah imbastarditi in modalità afro, ritmiche e percussioni ipnotiche, suggestioni hard psych e quant’altro è ormai entrato a tutti gli effetti nel lessico della band scandinava. Stonegoat poi meriterebbe un discorso a parte nel suo essere tremendamente sensuale e assurdamente retrò, tanto che a chiudere gli occhi ci si ritrova in qualche comune americana dei tardi ‘60. Un paio di segnalazioni anche per due dischi non-fisici. Il primo si muove su territori latamente impro-jazz ed è a nome NOS Project, collettivo ruotante intorno al batterista greco Chris Silver T., dedito ora alle manipolazioni elettroniche, e che vede la partecipazione al sax soprano del nostro Mauro Sambo, artista e musicista tanto attivo quanto interessante. Mud, me è una lunga escursione in una unica traccia per quasi mezzora di rarefazioni ambient in cui flauti (Paulo Chagas), violini (Matthias Boss) e chitarre (Michael Parque) creano paesaggi psichedelici di matrice quasi bucolica ma sempre tesi e vibranti, per una musica che guarda indietro – certi esperimenti 60s rock in opposition – così come in avanti: l’avanguardia, insomma, si manifesta sia nel mezzo di diffusione, solo digitale e in free dwld, sia nella apertura senza barriere ad una musica estatica e multiforme in cui elettrico ed acustico, corde ed elettronica trovano il loro giusto equilibrio per un lavoro suggestivo. L’altro lavoro intangibile è quello de Il Capro, formazione immolata all’amore per horror soundtracks, prog nostrano, rock corposo dai timbri quasi stoner o sludge e tutte le suggestioni riscontrabili in influenze varie come Sunn O))), Sabbath, Badalamenti, Earth, George A. Romero e Goblin. Le Notti del Maligno vol​. ​1: Il Riflesso della Morte, passo primo di una trilogia horrorosa, è una breve intro ad una via personale alla riscoperta delle fascinazioni cinematografiche – titoli come Jaws, Psycho o Rosemary’s Baby la dicono lunga – che ultimamente abbiamo avuto modo di riscontrare in numerosi e diversi progetti. A conclusione dell’estate, un disco per l’autunno. La tedesca Denovali pubblica un interessante 10” a nome Floex, nom de plume del giovane compositore ceco Tomáš Dvorák. In Gone algidi paesaggi di increspature glitch si fondono con l’elettronica gentile e cameristica per creare lande sonore cullanti e notturne, contrappuntate da note di piano (opening, Saturnin Fire And The Restless Ocean, e chiusura, Time To Go), mostrandosi più ritmicamente accese quando, paradossalmente a reggere l’architettura sono voci suadenti come quella di Sára Vondrášková dei Never Sol nella title track. A testimonianza della caratura di Floex, il remix di Saturnin Fire… da parte della Hidden Orchestra. Buon autunno a giri di vinile. Stefano Pifferi

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Patti Smith

classic

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Horses (Arista, 1975)

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10 febbraio 1971. Tra il pubblico della St. Mark’s Church, le celebrità si mescolano agli appassionati di letteratura. In programma c’è il reading di Gerard Malanga insieme al debutto di una giovane poetessa. La ventiquattrenne Patti Smith può contare sui primi ammiratori “importanti” e sui primi sponsor tra la gente che conta nell’ambiente culturale di New York. Ad accompagnarla in alcuni pezzi c’è un chitarrista, Lenny Kaye, che nel futuro immediato sarà il produttore della mitica compilation Nuggets e in quello prossimo diventerà la sua spalla quasi inseparabile. Sembra una predestinata per la celebrità. In effetti lo è. Devono passare però quattro anni prima che mantenga quelle promesse di fama e gloria. Quattro anni perché trovi la strada, definitiva, di un cantautorato a metà tra la poesia declamata e il rock scarno e urbano del CBGB’s. Quattro anni in cui Patti ha pubblicato le prime raccolte di poesie, ha recitato a teatro, conosciuto da vicino alcuni suoi eroi come William Burroughs e Bob Dylan e incrociato il cammino con compagni di viaggio importanti, come Kaye, come Tom Verlaine dei Television, come Robert Mapplethorpe, autore dello scatto in bianco e nero che la rende già un’icona. Quattro anni in cui ha dato forma al proposito di iniettare nuova linfa vitale nelle vene secche del rock attraverso la poesia. Quattro anni in cui il suo discorso si è evoluto fino ad acquistare un più ampio respiro e una nuova cadenza, dall’accompagnamento jazzato di Piss Factory - il lato A del suo primo singolo – e dal protorap che apriva il lato B Hey Joe, a quello che lei stessa ha definito three chord rock and roll merged with the power of the word; che mescola cioè la recitazione lirica a una profetica anticipazione del punk rock. In questo senso Horses è il vero album spartiacque degli anni ‘70, perché «era una via di fuga dai concerti negli stadi e dalle band sfavillanti. Tornavamo nelle strade, nei garage. La gente che venne dopo era di QUEL genere. Noi eravamo i nonni, i primi a essere usciti dal CBGB». La madrina del punk segue, qui più che nei suoi lavori successivi, un modulo espressivo ricamato sulla ritmicità dei suoi versi e sulle impunture drammatiche del recitativo all’interno di un rock fluido e teatrale, anche se mai sopra le righe o pomposamente progressivo. Non una grande cantante ma una performer eccezionale per com’è in grado di modulare la voce, Patti si presenta con una band – oltre a Kaye, Ivan Kral alla chitarra e al basso, Richard Sohl al piano e Jay Dee Daugherty alla batteria – che la sa assecondare sulla via del free form, e nel contempo rendere di nuovo incendiari i classici (Gloria dei Them e Land of Thousand Dances), oltre che interpolarli alla musica originale con una finezza notevole. Il recital e la forma canzone convivono naturalmente dando vita a un incipit tra i più memorabili della storia, a partire dal verso «Jesus died for somebody’s sins but not mine» con cui attacca, su pochi accordi di pianoforte, un pezzo che diventa blues per poi sfociare in un’in-


alb u m classic

tensa cover di Gloria che è allo stesso tempo un tuffo nel passato, in quel Sixties garage che Lenny Kaye conosceva molto bene e aveva chiamato punk rock, e un’escursione in un futuro prossimo che porterà nel 1977 a un secondo anno zero del rock and roll. Stessa cosa in Land, una The End protopunk di nove minuti che comincia addirittura dalla sola voce recitante per fare cut-up con il brano di Chris Kenner e impollinazione cross-culturale tra Arthur Rimbaud e Chuck Berry al grido Go Rimbaud and go, Johnny go. I brani centrali non sono da meno, anzi, è qui la vera cartina di tornasole dell’album. Free Money parte da versi intonati su un sottofondo scarno che diventano strada facendo una canzone rock dal passo trascinante. Birdland porta avanti lo stesso discorso di Piss Factory anche se con una maggiore fusione tra l’impianto musicale e lo sviluppo dei versi. Kimberly risolve in un grandioso refrain finale un andamento melodico di seducente eccentricità in cui memorie velvettiane si mescolano ad anticipazioni di new wave. Completano il disco pezzi più “standard” come il reggae di Redondo Beach, la Break It Up ravvivata dal tocco chitarristico di Tom Verlaine, e, in ultimo, Elegie, anche se le cose più belle rimangono appunto quelle fuori misura, che danno veramente l’idea dell’intensità del personaggio, difficile da catalogare sotto qualsiasi aspetto. È curioso leggere che fu criticato per il suono, perché per la scaletta Horses non può essere che un classico. 9/10 Tommaso Iannini

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Comune di Faenza

Comune di Forlì

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Provincia di Ravenna

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a c i s u la m l e d l iva ana t s e f nde nte itali a r g Il più emerge mbre e t t e - 29 S 8 2 27 ZA N E A F o Storic

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VENERDÌ 27 SETTEMBRE Anteprima Peppe Voltarelli live • Balera in piazza - Omaggio alla Musica di Secondo Casadei con Moreno il Biondo & “Sestetto 1928” • Faenza Street Parade con DJ in tutti i locali del centro storico di Faenza con Max Monti e il patrocinio di ANPAD SABATO e DOMENICA 28 SETTEMBRE Mercato della cultura in piazza del Popolo: due giorni di stand, incontri e live nel centro storico. SABATO 28 SETTEMBRE Notte Bianca del Mei in 30 spazi della Città nel Centro Storico, con Erriquez e Finaz della Bandabardò, Fabrizio Moro, Shel Shapiro, Enrico Ruggeri, Gene Gnocchi, Andrea Mingardi e altri. Al Teatro Masini Targa Mei Giovani, Premi Rete dei Festival e Indie Music Like. In Sala del Consiglio Comunale Incontri, Premiazioni, Corsi e Formazione con Music Lab e Campus Mei e Focus sul Web e il Live. DOMENICA 29 SETTEMBRE Tra gli Ospiti: Pierpaolo Capovilla del Teatro degli Orrori, Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, Almamegretta e tanti altri. loghi

4-04-2008

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