Sa 108 ottobre

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digital magazine | ottobre 2013 | n. 108

Alias non alias


sommario turn on – p. 4  Fennesz   Anna Calvi

tune in – p. 8   Jackson C. Frank  Raime   Factory Floor   Virginiana Miller   Nancy Elizabeth  Watain   His Clancyness

drop out – p. 36   Nine Inch Nails   The Smiths

recensioni – p. 80 rubriche – p. 148


#108 ottobre Direttore Edoardo Bridda Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento promo Gaspare Caliri, Stefano Pifferi Progetto grafico e realizzazione Nicolas Campagnari A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito: Stefano Pifferi, Nino Ciglio, Stefano Solventi, Edoardo Bridda, Giulia Antelli, Marco Braggion, Tommaso Iannini, Enrica Selvini, Mario Ruggeri, Giulia Cavaliere, Fabrizio Zampighi, Andrea Forti, Teresa Greco, Antonio Laudazi, Antonio Pancamo Puglia, Daniele Rigoli, Massimo Rancati, Riccardo Zagaglia, Luca Barachetti, Luca Falzetti, Alessandro Liccardo, Alessandro Rabitti, Stefano Gaz, Diego Ballani, Marco Boscolo, Giulio Pasquali, Gaspare Caliri, Gianluca Carletti, Ilario Galati Copertina Julia Holter (foto: Rick Bahto) Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)

SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2013 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


Un nuovo progetto unisce tre musicisti che non hanno certo bisogno di presentazioni come David Sylvian, Stephan Mathieu e Christian Fennesz. In esclusiva per SA, il chitarrista di Endless Summer ce ne racconta nascita e caratteristiche in occasione del tour italiano. Testo di Edoardo Bridda

Fennesz The Kilowatt Hour

Raggiungiamo Christian Fennesz prima via mail e poi al telefono per comprendere cosa dobbiamo aspettarci da The Kilowatt Hour, un neonato progetto che lo vede protagonista in trio assieme ad amici e collaboratori di lunga data come David Sylvian, uno che non ha certo bisogno di presentazioni e tantomeno di riferimenti al suo periodo neo romantico, e Stephan Mathieu, musicista eletroacustico piuttosto affermato e già culto tra gli appassionati del settore. La creatura è veramente nuova: il trio ha provato nei giorni immediatamente precedenti e suonato per la prima volta assieme al Festival norvegese Punkt lo scorso 7 settembre. Ed è la

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prima cosa con la quale dobbiamo fare i conti vista la labilità di confini e di dinamiche ancora tutte da tracciare e definire. Figuriamoci se il progetto è poi di quelli per loro natura aperti, avvolgenti, dronici e ambientali e grossa parte dell’interazione tra i tre è affidata all’improvvisazione. Difficile pertanto, anche solo conoscendo il chitarrista austriaco, aspettarci grandi discorsi filosofici. Soprattutto via mail dove Christian, che è una delle persone più affabili al mondo, probabilmente assorbito dalla seconda assoluta del progetto il 18 settembre alle Officine Grandi Riparazioni di Torino, non ha intenzione d’investire molto tempo. Decidiamo quindi di sentirlo al telefono, già che lo abbiamo conosciuto e intervistato tanti anni fa (era il 2004) a Bologna prima dello show al Link in via Fioravanti, per scavare più in profondità e conoscere quanti più dettagli possibili riguardo allo stato delle cose del The Kilowatt Hour. Innanzittutto si tratta di un progetto che ancora non ha finalità di pubblicazione alcuna. “E’ ancora troppo presto per pensarci ma sicuramente se le cose procederanno bene come stanno procedendo questa sarà la più logica delle conseguenze” afferma il chitarrista, che così evade la domanda più ovvia e classica in questi casi. Lo incalziamo sul nome dato al progetto dato che il Kilowatt-hour è di fatto un’unità di misura. Avete per caso utilizzato formule o equazioni matematiche gli chiedo? E lui “non proprio e poi il mio approccio è troppo intuitivo per una


cosa del genere”. Niente teorie o concetti dunque. Qui si suona e semmai le energie le potrà misurare l’audience sentendo l’estemporanea interazione sonica dei tre più che scafati musicisti. Il trio baserà la performance su un’unica traccia di circa un’ora e un quarto, apprendiamo. “Stephan si prende cura delle frequenze più basse creando una base di atmosfere aperte per il piano di David Sylvian e le elettroniche e le mie parti di chitarra” afferma l’austriaco. Quindi un approccio che, mail alla mano, democraticamente si gioca “un 50/50 tra improvvisazione e parti preparate”. La domanda è retorica ma la faccio ugualmente. E il canto? “David non canta ma ci sono degli spoken word registati che compariranno nel flusso. Sono basati su poesie e scritti di Franz Wright”. Inoltre ci sono dei visuals, immagini concrete e/o astratte presentate grazie a un maxi schermo di cui il trio è piuttosto soddisfatto. Chiedo a Christian della strumentazione, anche se la sua già la conosciamo da anni (chitarra, laptop e pedali). Stephan invece si presenta con zither, e-bow, mixer e laptop. David Sylvian, infine, è al piano e al laptop. E’ quanto basta per creare una grossa massa avvolgente, per dirla nelle parole di uno Stephan Mathieu recentemente intervistato dal Punkt Festival. L’aspetto interessante che apprendiamo dalla nota stampa ufficiale è che Sylvian parla di un ritorno a Plight and Premonition e Flux and Mutability, ovvero ai suoi dischi con il Can Holger Czukay. Fennesz trova che entrambi i progetti abbiano un approccio simile, anche se è innegabile, dal suo punto di vista, la differente natura del sound, anche soltanto per l’interazione in trio piuttosto che in duo. Di sicuro, il prodromo di quest’avventura è Wandermude, un album pubblicato a inizio anno sull’etichetta personale di Sylvian, Samadhi Sound, al quale hanno lavorato sia l’ex Japan, sia Stephan Mathieu

con cameo, nell’ultima traccia, da parte di Fennesz stesso. Eppure, specifica il chitarrista, quel progetto, che è un re-work dell’album Blemish, è nato e si è sviluppato per corrispondenza. Dal vivo, veramente, i tre hanno provato nei quattro giorni precedenti alla prima assoluta al Punkt, festival di settore, di grandi fan dei nostri specifica Christian, dove i musicisti hanno attivato dinamiche inedite e avventurose che il chitarrista ha definito, nel comunicato apparso sul sito ufficiale dedicato al progetto, come tuffarsi nell’acqua gelata. La serata del roBOt festival (24 settembre), che con The Kilowatt Hour inaugura la sesta stagione e conclude il tour di cinque date iniziato alle Officine Grandi Riparazioni di Torino (Mito Festival), e proseguito all’Alcatraz di Milano, al Teatro Massimo di Pescara (21 settembre) e all’Auditorium Parco della Musica di Roma (22 settembre), sarà probabilmente quella che presenterà lo stato più avanzato dell’affiatamento di questi splendidi musicisti. Chiudiamo al telefono con Christian chiedendogli del nuovo lavoro solista. Ci sta lavorando dice. Ha suonato recentemente proprio con Mahieu nel ruolo inedito di batterista, lui che come batterista ha iniziato la carriera per poi dedicarsi a quel mix di elettroniche e analogiche che lo hanno reso famoso nell’ambiente elettronico. Sicuramente vuol tornare a collaborare con Steven Hess, ospite nel suo ultimo EP Seven Stars, primo lavoro a introdurre le percussioni in una sua produzione. “Sto lavorando con alcuni batteristi ma non sono sicuro che finiranno nel mio prossimo lavoro. Quello che ti posso dire è che uscirà per Editions Mego nel 2014. E che non ci saranno grossi stravolgimenti. E’ sempre importante assorbire nuove influenze ma per me è giunto anche il momento di concentrarmi sui miei fondamentali e scavare ancora più a fondo”.

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La songwriter Anna Calvi, in occasione della data milanese al Teatro Franco Parenti, ci racconta la genesi di One Breath. Testo di Enrica Selvini

© Roger Deckker

Anna Calvi L’amore per gli estremi

La incontriamo nella hall dell’albergo dove alloggia in vista del concerto, ma anche delle sfilate della settimana della moda milanese. Minuta, senza età, con un velo di trucco e i suoi classici pantaloni a vita alta, Anna Calvi è tanto garbata quanto timida e schiva: l’unica cosa che l’accomuna con la carismatica songwriter che da lì a poche ore apprezzeremo sul palcoscenico del Teatro Franco Parenti di Milano è il suo magnetismo naturale, unito a un’aria enigmatica, sognante, a tratti distaccata. Non è difficile intuire che, nonostante si sforzi di farlo al meglio, questa non è la parte del lavoro che più la fa sentire a suo agio. Sono passati poco più di due anni dall’omonimo esordio, che l’ha consacrata astro nascente della musica d’autore indipendente europea. One Breath è il suo secondo album, nato sotto la supervisione di John Congleton e registrato in

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poche, intense settimane presso i BlackBox Studios, in Francia; un lavoro, questo, che si affida a meno collaborazioni eccellenti, fatta eccezione per John Baggott (Portishead) alle tastiere. A tarda sera, dopo aver assistito allo show, i presenti – tra cui Giorgia Poli, un tempo bassista per Scisma e ora alle prese con John Parish, e un rapito Umberto Maria Giardini – non potranno che convenire sul fatto che questo nuovo ingresso abbia aggiunto un tassello importante in quello che si presenta come uno dei live più attesi degli ultimi tempi, accolto con incredibile calore dal pubblico in sala. Sapresti dirmi quali sono, secondo te, le maggiori differenze tra il tuo primo album e il nuovo One Breath? Ho voluto sperimentare diverse trame sonore nel nuovo disco, con più forza rispetto al passato. Ho fatto in modo che la chitarra rappresenti,


a tratti, il culmine emotivo della canzone. C’è più incisività, credo, anche nell’uso della mia voce: ho capito di poterla usare in modi molto diversi per sottolineare le emozioni che si nascondono dietro ogni canzone, così da rendere le atmosfere il più particolari possibile. Amo gli estremi. Suoni sgraziati, e poi “sublimi”, rumore e melodia. A proposito delle atmosfere, si è detto che è stato un album ispirato dalla depressione, eppure emana una grande forza… Quello è stato un fraintendimento di NME. Sicuramente la scrittura del disco è coincisa con un periodo terribile della mia vita. Non si tratta di depressione, ma volevo che questo disco esprimesse, in parte, quelle sensazioni di disperazione e rabbia, ma anche di liberazione. È come ti ho detto, mi piacciono gli estremi. Cosa cambia nel nuovo tour? Sarà la stessa band che è sempre stata, con Mally Harpaz ad harmonium e percussioni e Daniel Maiden-Wook alla batteria, ma avremo un tastierista con noi sul palco. È stato Brian Eno a suggerirti John Baggott per gli arrangiamenti di tastiera in studio? Com’è andata? Brian mi ha suggerito un paio di nomi che potevano essere in linea con la mia musica. Ho scelto John perché amo molto le atmosfere dei Portishead; devo dire che ha funzionato molto bene. Per quanto riguarda la fase di scrittura, come avete lavorato? Ho scritto e arrangiato i brani, c’è voluto molto tempo. Poi, quando siamo andati in studio, c’è stata una ricerca molto intensa sulle atmosfere e sui suoni. Volevo che ruotasse tutto intorno alle atmosfere. Lavorare insieme non è sempre semplice, devi mostrarti di buon umore e accettare suggerimenti e modifiche…. Però credo di esserci riuscita e quello è stato il momento più divertente. Parliamo della tua amicizia con Brian Eno… è

corretto dire amicizia? Si, assolutamente. Brian è stata la prima persona che ha avuto in mano tutto il primo disco, che mi ha aiutato a scegliere un produttore, che mi ha incoraggiato ad andare avanti, che si è seduto ad ascoltare il lavoro completo, brano dopo brano. È stato incredibile, per me. Come ti ha scovata? Ho suonato nel locale di un suo amico e lui gli ha parlato di me. Pensi che ci sia una qualche affinità tra la tua musica e la sua? Più in generale, negli articoli che ti riguardano si parla spesso del tuo amore per grandi artisti del passato, da Edith Piaf a Maria Callas e Debussy. Qual è la connessione che senti, se c’è, tra il tuo lavoro e quello dei tuoi artisti di riferimento? Vedi, quando penso alla musica dei grandi, è come vedere una fessura, una porta aperta, e subito dopo un muro enorme. Credo che la connessione tra qualsiasi genere di musica siano le emozioni, quello che una canzone ti fa sentire. Artisti che hanno una personalità tale da riuscire a trasmetterla alla loro musica, come Edith Piaf o Maria Callas. Ecco, si, credo che la musica debba saper trasmettere emozioni che trascendano i testi, o almeno questo è quello che mi interessa. “La Mer” di Debussy, per esempio, non si limita a parlare del mare…è il mare. PJ Harvey, Siouxsie, e mi verrebbe da aggiungere la prima Goldfrapp. Sono molte, e brave, le musiciste donne a cui sei stata associata. Ti senti vicina a qualcuna di loro in particolare? È buffo. Mi accomunano a moltissime grandi artiste…ma molte di loro non le ho praticamente mai ascoltate. Come spenderai il tuo tempo a Milano? Andrò ad alcune sfilate. La prossima è Gucci. Amo molto l’Italia e, forse a causa delle mie origini, quando vengo qui o a Roma mi sento a casa. Credo che mi rilasserò un po’.

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Ascesa e caduta di Jackson C. Frank, uno dei migliori folk-singer dimenticati degli anni '60. Testo di Giulia Antelli.

Jackson C. Frank Blues Run The Game

Di artisti sepolti dall’inesorabile polvere del tempo è piena la Storia. La lista è lunga, ma basta poco per vedere che, a volte, il destino restituisce almeno un po’ di quello che si è preso. Altre volte, invece, succede che il mito e la leggenda si creino negli anni a venire, quando

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la sorte beffarda decide di consegnare direttamente ai posteri la fama e il successo mai goduti in vita. Giusto per fare un paio di esempi, potremmo citare due personaggi il cui percorso ha finito per tracciare eccezionali parabole musicali ed umane, ovvero Sixto Rodriguez e Nick


Drake, entrambi simboli di quel gioco spietato che, spesso, fa in modo che la musica diventi il risultato tanto delle logiche commerciali quanto dell’amara ironia dell’esistenza. Tuttavia, ci sono altre vite, altri musicisti, altri uomini, che, semplicemente, sono stati toccati soltanto dall’oblio, e allora può volerci solo il caso – o la fortuna – per fare in modo che si possano riscoprire fantasmi perduti. Ed è qui che entra in scena il protagonista di questa storia, Jackson C. Frank, the most famous folksinger of the 1960s that no one has ever heard of.

sicista, accade qualcosa – un ennesimo scherzo del destino – che stravolge gli eventi. Dopo dieci anni, infatti, Frank riceve il risarcimento per l’incendio di Cheektowaga: oltre 100 mila dollari, una somma più che ingente anche per l’epoca – il 1964 – che gli permette, appena ventunenne, di saltare su una nave diretto verso l’Inghilterra. Il viaggio, per molti versi, segnerà in modo irreversibile non solo la carriera, ma anche tutta l’esistenza del cantautore: è qui che, a bordo della Queen Elizabeth, nascono la melodia e le parole di Blues Run The Game, il suo pezzo più celebre. Un brano che lui stesso descrisse come “un racconto sulla mia vita e il mio stato d’aniC atch a boat to Eng l and, maybe mo di quel periodo”: in altre parole, la storia di to S pain Jackson Corey Frank nasce il 2 marzo 1943, nella un ragazzo troppo giovane intrappolato nel suo passato e con molti soldi in tasca, ma anche uno gelida cittadina di Buffalo, stato di New York. dei capolavori più sottovalutati della tradizione Dopo aver trascorso l’infanzia in Ohio e dopo folk anni ‘60. aver mosso già da bambino i primi passi nel mondo del canto, si trasferisce assieme alla fami- Arrivato in Inghilterra nel pieno della Swingin’ London con mezzi economici praticamente glia di nuovo nella periferia suburbana di New illimitati, Frank si inserisce immediatamente York, questa volta a Cheektowaga. È qui che, nella scena musicale del periodo. Dopo poche a soli undici anni, comincia la vicenda umana settimane, avviene l’incontro che, musicalmente e musicale del cantautore, segnata tanto dalla parlando, gli cambia la vita. Grazie ad un’amica tragedia quanto da un amore profondo e inconin comune, conosce un duo folk newyorchedizionato per la musica folk. A scuola, durante se di stanza a Londra, il cui album di debutto, una lezione di musica, avviene un’esplosione Wednesday Morning, 3 A.M., uscito appena all’interno di una delle aule, che uccide gran un anno prima, è stato essenzialmente un flop. parte dei compagni e ustiona Jackson su oltre il cinquanta per cento del corpo. Costretto a passa- Si tratta di Paul Simon e Art Garfunkel. Il successo planetario di Sound Of Silence sarebbe re i mesi successivi su un letto d’ospedale, è qui arrivato qualche mese dopo, ma a quell’altezza che avviene il primo, salvifico, incontro con la i due erano, allo stesso modo di Jackson, giovachitarra acustica, che lo porterà ad avvicinarsi ni musicisti che tentavano di far fortuna nella al rock and roll, in particolare ad Elvis Presley. Leggenda vuole che il Re in persona, alcuni anni terra madre del folk. Dopo aver ascoltato una manciata di canzoni, Simon decide immediatadopo, abbia guidato il giovane musicista alla scoperta di Graceland, anche se è già presente in mente di produrre l’esordio del ventiduenne di Cheektowaga. Registrato in meno di tre ore nei Frank una grande passione per il folk, in partiCBS Studios di New Bond Street, Jackson C. colare per l’old time music e i vecchi traditional Frank segna il punto di partenza, ma anche di della Guerra di Secessione. arrivo della carriera del cantautore: dieci canPoco tempo dopo, con il ragazzo al college e ormai deciso a lasciar perdere la carriera di mu- zoni inserite perfettamente nella tradizione del

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classic folk inglese, dove minimalismo acustico e crepuscolarismo blues si fondono per dare vita ad un disco che, in poco più di trenta minuti, si trasforma in una sorta di testamento non solo musicale, ma anche e soprattutto umano. Dall’archetipo folk di Blues Run The Game, passando per i toni di protesta di Don’t Look Back – ispirata, pare, a un omicidio a sfondo razzista nell’Alabama di quegli anni – e gli echi traditional di Kimbie, Jackson C. Frank si colloca, suo malgrado, all’interno di un genere che esprimerà tutte le sue potenzialità solo negli anni a venire (pochi, per la verità). A ben guardare la situazione dell’epoca, infatti, l’Inghilterra si trova nel pieno della Beatles-mania e non stupisce che il pubblico, ancora, non sia pronto per le pacate atmosfere acustiche che caratterizzeranno il resto del decennio. Scarno, lirico ed essenziale come pochi altri lavori, il qui presente è un album diviso tra due culture, quella americana e quella inglese, debitore tanto alla lezione dei vecchi menestrelli blues ascoltati durante l’infanzia, quanto alla poetica ineluttabilità del folk britannico. La stessa che avrebbe influenzato un altro capolavoro del genere, Pink Moon. Pare che Nick Drake conoscesse molto bene il lavoro di Frank, tanto da riprenderne alcuni brani, e, a suo modo, anche lo stesso genio disperato e la stessa tragica esistenza. Un percorso che li accomunerà sotto molti punti di vista, anche se per Drake la sorte sarà un po’ più benevola, benché solo dopo la sua morte: se Pink Moon è la pietra miliare che tutti conosciamo oggi, forse è anche grazie all’esordio eponimo di Frank, grazie a quella scrittura sempre tesa nel tentativo di esorcizzare i propri fantasmi, di curare, inutilmente, le proprie cicatrici. Le stesse che, fin da bambino, Jackson cercava di cancellare dal corpo e dall’anima, con brani che riflettono sia la desolante quiete della disperazione (I Want To Be Alone), sia l’amara consapevolezza per la fine di una relazione (You Never Wanted Me).

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Ai tenui arpeggi della chitarra si accompagna una voce profonda, quasi baritonale, e tuttavia in grado di esprimere una disincantata innocenza, come ad esempio nel blues spettrale di My Name Is Carnival o nell’armonia non-sense di Just Like Anything. Un debutto che, inconsapevolmente, costituirà per il musicista inizio e fine di una carriera mai davvero cominciata, ma allo stesso tempo incredibile e senz’altro degna di una accurata riscoperta. T he b lues are a ll the same

Sul cammino musicale del personaggio, si può aggiungere poco altro. Assieme a un paio di ristampe – Jackson C. Frank Again del 1978 e la raccolta Blues Run The Game del 1996 -, gli esiti commerciali della breve discografia di Frank si riducono all’apprezzamento di un pubblico fin troppo ristretto, o meglio, quasi inesistente. Tutte le uscite, debut compreso, sono accolte da una generale indifferenza, anche se, a Simon And Garfunkel, si aggiungono altri ammiratori illustri tra cui Sandy Denny, Bert Jansch, John Renbourn, Roy Harper e Al Stewart. In pochissimo tempo, inoltre, gli insuccessi professionali portano Frank al declino personale: la morte del figlio, prima e il conseguente divorzio dalla moglie Elaine Sedgwick (cugina, peraltro, della più nota Edie) poi, lo riducono nel giro di qualche anno all’ombra di se stesso, talmente disperato da decidere di tornare a New York nel vano tentativo di ritrovare Paul Simon e finendo invece a dormire sulle strade di Manhattan. Si aggrava anche la depressione che lo perseguita fin dall’incidente di Cheektowaga, al punto da essere ricoverato in un centro psichiatrico con la diagnosi di schizofrenia paranoide. In sostanza, una lunga parabola discendente, che culminerà, nel 1994, con la perdita dell’occhio sinistro, a causa di un colpo partito da una pistola ad aria compressa usata da un gruppo di ragazzini.


Legacy

A quattordici anni dalla morte, avvenuta per arresto cardiaco il giorno dopo il suo cinquantaseiesimo compleanno, Jackson C. Frank può ancora essere considerato come uno dei miglior cantautori dimenticati degli anni ‘60. Se nel corso degli anni, schiere di musicisti hanno riscoperto e rivalutato la sua musica – giusto per fare qualche nome, basti pensare a Mark Lanegan, Robin Pecknold dei Fleet Foxes e Laura Marling, ma perfino a degli insospettabili Daft Punk, che hanno riutilizzato I Want To Be Alone nel film musicale del 2006 Electroma -, ad oggi l’eredità che lascia è per molti ancora nascosta, e, per certi versi, oscura. Per il 17 settembre è prevista una ristampa del vinile del primo disco, fino ad ora praticamente introvabile, tramite l’etichetta 4 Men With Beards, mentre per la primavera 2014 è atteso un box set contenente brani inediti e demo, via Ba Da Bing. Unico erede legale di tutto il materiale di Frank è Jim Abbott, un uomo residente nell’area di Woodstock che, a metà anni ‘90, scoprì il nome

del musicista grazie ad una dedica fattagli su un disco da Al Stewart - To Jackson, all the best, Al Stewart. Abbott ha ritrovato Frank in uno dei momenti peggiori della sua vita e ha cercato di rilanciarne la carriera facendolo emergere dalle nebbie della depressione: l’incontro tra i due è un altro esempio di come tutta la vita del musicista sia stata scandita da continui momenti di ascesa e caduta, da perenni tentativi di risalire la china dell’insuccesso. A differenza di Nick Drake, però, il Nostro non è riuscito a far sì che il mondo si accorgesse del suo immenso talento, nemmeno dopo la sua morte: vale perciò la pena raccontare la storia di un artista che, con un solo album, ha ridefinito i canoni di un genere, anticipando di diversi anni ciò che il pubblico avrebbe accolto solo in seguito. Un mito avvolto in egual misura dalla leggenda e dall’oblio, un eroe byroniano che lascia dietro di sé un capolavoro purtroppo ancora dimenticato, ma senz’altro imprescindibile.

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Hanno suonato live lo scorso giovedì 5 settembre 2013, alla Sala Vanni, all'interno dell'atteso Nextech Festival fiorentino i due produttori Joe Andrews e Tom Halstead in arte Raime. Per l'occasione abbiamo scambiato due parole sulla loro musica, sul futuro e sull'importanza del live. Testo di Stefano Pifferi

Raime Coldest Ever Cold

Sarà un caso, ma uno dei primi risultati in italiano appena si “googla” il termine Raime è il sito di una società campana che si occupa di refrigerazione industriale. Simpatica coincidenza se si considera l’alto potenziale del duo inglese, le cui composizioni raffreddano sino alla stasi algida una elettronica visionaria, isolazionista e post-industriale che sulle prime sembra essere in linea con questa nuova moda da dancefloor

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alternativo. Nelle musiche di Joe Andrews e Tom Halstead c’è però la negazione del ritmo, c’è la dilatazione e la frammentazione della wave più oscura e post-punk – i Cabaret Voltaire, influenza dichiarata, ma anche i misconosciuti (ma non a SA) Ike Yard, non a caso remixati proprio dai due – e l’uso evocativo e disturbante di una elettronica che sfrutta le frequenze basse per impor-


re stati di alterazione e proporre visioni distopiche della realtà contemporanea (vedi anche alla voce Throbbing Gristle). Ad una triade di EP che creò l’attesa facendo crescere il nome anche al di fuori dei confini di genere e a un album, Quarter Turns Over A Living (per la Blackest Ever Black), che li ha confermati maestri nel materializzare incubi metropolitani a forti tinte soundtrack nutriti con materico dubstep ed elettronica di stampo dark-industrial e rivomitati in forme disossate e scheletriche, ha fatto seguito una intensa attività live. Non solo dj-set, stando a quanto si dice nella chiacchierata che segue, ma veri e propri concerti in cui la densità del suono Raime si manifesta nelle sue forme più disturbanti e occlusive, tanto che chi ha avuto modo di vederli ne parla come di esperienze totalizzanti in cui industrial, dub, ambient, drone, minimalismo tribale ed echi (ecatombi) jungle trovano la loro applicazione rigorosa e insieme devastante. In occasione del live fiorentino al Nextech (giovedì 5 settembre 2013, ore 21.15, alla Sala Vanni), abbiamo scambiato due parole con Joe Andrews e Tom Halstead. La vostra musica è cinematica e visionaria, anche se oscura e minacciosa. Sembra la versione notturna del Michael Douglas de Un giorno di ordinaria follia. L’ordinario che mostra il suo lato inquieto, la minaccia che giace sul rovescio della medaglia della quotidianità. Quanto c’è di cinematografico nella musica dei Raime? Quando componiamo musica pensiamo all’ambiente. Arriviamo sempre ad un punto in cui ci domandiamo quali atmosfere un certo pezzo arriverà a creare e, in quel momento, c’entra molto il descrivere le cose in maniera fisica, tangibile. Anche la letteratura è importante per noi, perciò il cinema ci rientra in qualche modo. Abbiamo avuto molti feedback da persone che descrivono la nostra musica come “visiva” perciò non ho

dubbi che ci sia qualche suggestione simile. Ovviamente questo sta a significare che la musica tocca la gente in molti modi. Cosa ci dite dei vostri film preferiti? E delle relazioni tra il cinema e i vostri gusti musicali? Entrambi amiamo i film che vadano oltre i tradizionali livelli di lettura, che è un po’ ciò che accade con la musica. Anche se i nostri gusti sono abbastanza ampi, un film che ci ha molto colpiti è stato The Piano Teacher di Micheal Haneke. Questa nuova onda di musica eletronica sembra essere molto più affine all’isolazionismo anni ‘90 che al classic 4/4, più industrial-oriented che basicamente techno. Voi avete sorpreso un po’ tutti col vostro suono disidratato e minimale. C’è e, se c’è, qual è il futuro per questo tipo di sonorità? Credo che il futuro stia nel continuare a creare relazioni tra l’avanguardia e la “dance music”. È un momento positivo per questo tipo di musica underground. Questa combinazione tra strutture astratte e quelle più pratiche della dance music sta aprendo molte possibilità e opportunità per forme nuove e per nuove modalità espressive, per la tensione che questo clash riesce a creare. Che poi è la tensione tra caos e ordine. Siete fan di gruppi come Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire e Pan Sonic. Che ruolo hanno avuto nel vostro background musicale? Certo che siamo fan di queste band, soprattutto i CV. Torniamo a ciò che dicevamo sopra: esse sono la perfetta combinazione di caos e struttura. Non sono le uniche ad averci influenzato, ma alcune delle tante. Non fate ricorso ad un immaginario pagano o esoterico come alcuni dei prime movers dell’area grigia o come band come Demdike Stare fanno oggi. La vostra musica è urbana, le sensazioni umane, eppure lo spaesamento creato è così estremo… Credo che l’ambito urbano sia quello che ci

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ha sempre ispirati, non perchè lo preferiamo all’”occulto” ma soltanto perché è ciò che ha contribuito a creare le atmosfere più stimolanti in musica. La freddezza e il distacco generati dall’immaginario urbano sono forse per noi più minacciosi poiché riflettono la natura della realtà, piuttosto che il terrore del soprannaturale. La realtà circostante ci è sempre sembrata più impressionante. Da dove viene questa nuova, vecchia, fascinazione per il dancefloor? Noiser e artisti postindustrial sembrano aver scoperto un nuovo mezzo di espressione. Questi due ambiti si stanno riavvicinando perchè utilizzano entrambi simili idee, soltanto espresse in forme diverse. Internet ha contribuito a cambiare il modo in cui le persone usano e consumano la musica e ha offerto una incredibile circolazione delle idee. Ciò è avvenuto anche in passato, ma mai con tale portata. È normale oggi scoprire e ascoltare così tanti tipi diversi

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di musica che i gusti si stanno allargando, tanto che la musica prodotta è altrettanto “nuova”. Sembra molto più naturale che le idee diventino reti di relazioni, piuttosto che elementi esclusivi. Cosa mi dite delle basse frequenze? E delle connessioni con alcuni stati della mente? Credo che le basse ferquenze offrano una esperienza più meditativa, che ci affascina perchè cerchiamo sempre di sviluppare le cose lentamente. La natura del nostro materiale potrà cambiare in futuro, ma non credo che abbandoneremo i sub. Sono terribilmente soddisfacenti. Sappiamo che date molta importanza alla differenziazione tra dj-set e live. Parlateci del live al Nextech: strumentazione, synth, visuals. I visuals sono molto importanti nelle vostre musiche… Sì, i visuals sono parte fondamentale nel nostro lavoro e ci teniamo a curarli con attenzione. Una cura che va di pari passo con la ricerca musicale,


tanto che speriamo che la sinergia audio-video funzioni e venga ben recepita dalla audience. La società che ha girato il film, la Dakus Films, ha lavorato molto e il risultato ci sembra ottimo. Abbiamo avuto una parte importante nel processo creativo, che è stato un grosso impegno, anche se avevamo ben chiaro cosa volevamo rendere visivamente. Direzioni future? Qualche interesse per reiterazioni e modulazioni alla, per fare un nome caldo, Factory Floor? Beh, non vorremmo rivelare troppo. Diciamo che stiamo cercando un modo per svilyppare il nostro suono e le nostre idee. Ti anticipo che ciò potrebbe significare usare il ritmo in maniere diverse. Stiamo per rientrare in studio e cominciare a sperimentare, poi vedremo quel che succederà .

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Tre art rocker da North London riprendono in mano l'eredità DFA e la attualizzano con sperimentazione, synth ed elettroniche metronomico kraut, rimpolpando il vuoto che si era creato in questi ultimi anni nella scena dance rock. Un esordio che potrebbe aprire molte porte. Testo di Marco Braggion

Factory Floor Factory come Warhol. Floor come dance

C’è una nuova via rock al ballo, nei festival internazionali, per sconfiggere la melancolia di XX, Weeknd o Blake? Un po’ di sano sballo post-punk electro minimalista? La risposta giusta sembrano averla in tasca tre ragazzi di North London, che rispondono al nome di Factory Floor e il cui esordio lungo è sembrato, con il passar degli anni (alla faccia dell’hype), una vera e propria chimera. Il primo embrione del gruppo nasce nel 2005, in pieno disorientamento Noughties. Inizialmente formata da Gabriel Gurnsey e Mark Harris,

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la band britannica si consolida con l’arrivo di Dominic Butler. Dopo poco Harris esce e viene sostituito da Nik Colk (aka Nik Colk Void), già nei KaitO. Gabe alle ritmiche, Dom ai synth e la Colk alla voce e chitarra. Una macchinetta da guerra che sforna poche uscite, ma che ad ogni tassello del mosaico aumenta l’hype. I primi due singoli sono di marcata derivazione new wave (Bipolar e Planning Application del 2008), come pure il primo mini Talking On Cliffs (2009). Poi l’ingaggio con la Blast First (nella collana Blast First Petite) per qualche 12 pollici e altre


chicche in formati underground sparse qua e là aumentano l’hype e cambiano il suono facendolo virare sul lato dancey machine. Il prosieguo è già storia contemporanea. Il gruppo manda infatti un CD a Stephen Morriss (Joy Division / New Order) con la richiesta di un remix. Dopo aver trattato Wooden Box, il guru dark-synth si mette a produrre le loro uscite. La notorietà sale quando escono su Optimo (con R E A L L O V E) e sulla mitica DFA con Two Different Ways. Per chiudere il lungo biglietto da visita, le collaborazioni con Chris Carter e Cosey Fanni Tutti dei Throbbing Gristle, con Mark Stewart (ex Pop Group), la residency al prestigioso Institute for Contemporary Arts di Londra e l’EP Beachcombing con il compositore americano Peter Gordon (amico del compianto Arthur Russell). Lo stile dei tre musicisti si rifà all’eredità industriale britannica, all’art rock e al post punk e mescola tutto questo magma con la musica da ballo chic della DFA, pur mantenendo un’identità mutante che prescinde e nel contempo attinge dalla Storia in maniera intelligente, restando sempre a un passo di distanza dal plagio. Il 9 settembre è uscito il loro primo album omonimo: ritmiche ossessive, pezzi lunghi (dai 6 agli 8 minuti) creati con synth, 808 e altre drum machine che aiutano a costruire una formula ipnotica, fatta di echi, pad acidi e suoni che ricordano il sampling midi d’oltreoceano, illuminato dalle estetiche minimaliste, dalla prima rivoluzione technoide di Detroit e dalle frequentazioni arty degli artisti newyorchesi (no wave in primis). Un ponte Londra-NY che si rivela fruttuoso, ricco di idee semplici ma efficaci e che dal vivo non può che trovare la sede privilegiata. La loro musica si connette senza sbavature con il macchinico mitteleuropeo kraftwerkiano, inserisce la qualità della sperimentazione, prova a sfondare su palchi diversi dal dancefloor (ricordiamo la performance alla Tate londinese) e buca sorprendentemente un panorama dance-rock che

ha detto poco di nuovo dopo Juan MacLean. Una rivoluzione? Potrebbe essere… Ci potete raccontare brevemente come vi siete incontrati? Ci siamo incontrati a Londra e abbiamo capito di avere un approccio simile nel comporre musica. La prima volta che abbiamo provato, abbiamo realizzato di aver acceso qualcosa di interessante. Il vostro album di debutto è influenzato da molte fonti. A mio avviso, le più significative sono il minimalismo americano (Steve Reich e Arthur Russell, specialmente nei loop di percussioni e nella traccia vocale di One) e le texture jack/house/acid. Vi piacciono questi suoni? Li avete presi come punto di riferimento o avete considerato altro, all’inizio? Siamo tutti fan di Arthur Russell e degli artisti coinvolti in quella scena, come Peter Gordon, Lizzy Mercier e Laurie Anderson. Ci piacciono i suoni che usavano e gli elementi ritmicodance dei loro pezzi. Inconsciamente abbiamo preso qualcosa dal feeling di quei brani come punto di partenza. Lasciando perdere le macchine, un’altra influenza grossa è il suono dark dei Joy Division e dei Cure. Perché avete utilizzato quelle atmosfere? Come vi siete connessi a Stephen Morris? L’elemento dark della nostra musica viene dal fatto che volevamo inserire suoni primitivi e molti dei suoni che finiscono nei nostri pezzi sono istintivi, quindi non sono propriamente dark. Li definirei più primitivi. Ho letto che l’album è stato registrato nel vostro spazio a North London, su un banco mixer che è stato usato anche per registrare le hit degli Eurythmics. Cosa ne pensate della mossa retrò dei Daft Punk? Non abbiamo una connessione con i Daft Punk, né con il loro approccio alla musica, né con il loro suono. Le influenze dal passato sono inevi-

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tabili quando componi musica. Il fatto è che devi imparare dal passato, portando le idee più in là e non semplicemente riproponendole. Siete stati mixati da Timothy ‘Q’ Wiles, un produttore losangeliano che ha collaborato con VCMG, Erasure e Afrika Bambaataa. Com’è stato farsi mixare da un produttore esterno al gruppo? Vi è piaciuto il risultato finale? Non abbiamo mai incontrato ‘Q’ di persona. Prima di sentire le tracce eravamo un po’ nervosi, ma lui ha capito totalmente il nostro suono e ha dato spazio a tutti e tre i componenti del gruppo nel mix. Quando abbiamo sentito il mix finale, siamo stati entusiasti. Ho sentito una connessione forte (non chiedetermi il perché) anche con i Velvet Underground, forse per qualche affinità con la voce di Nico… e subito dopo ho pensato che questo album, magari in futuro, potrà essere usato come installazione nei musei e nelle gallerie d’arte. Avete mai pensato di suonare in luoghi d’arte (ho letto che avete già suonato al The Tanks, uno spazio sotto la Tate Modern)? Nik e Dom hanno un legame forte con i VU e Nik è un fan di Nico, quindi sicuramente la connessione c’è. Suoniamo in spazi artistici (come abbiamo fatto per la nostra ICA residency), nei club e nei festival. Il nostro suono sembra poter trascendere le tipologie di spazi e luoghi e questo è un’altro modo di sperimentare. In uno spazio artistico siamo più liberi di sperimentare, ma l’energia dei festival e delle folle danzanti ci da comunque feedback per quello che facciamo. Più di qualcuno sta ipotizzando che questo sentiero arty sia il nuovo modo di promuovere gli album e la musica. Penso, ad esempio, all’ultimo video di Lady Gaga (Applause) e all’aumento di interesse che suscitano le mostre d’arte sugli artisti pop. Pensate che il problema fondamentale, per gli artisti con-

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temporanei, sia la politica del vendere musica? O è ancora un modo per parlare di qualcosa di diverso dalla qualità musicale? Non c’è motivo che i confini tra arte e musica non debbano essere poco definiti. Almeno per lasciare possibilità di innovazione alla musica! La musica e il suono sono solo medium diversi. Se sono creati e suonati in modo onesto e sono importanti per uno spazio artistico, perché non proporli in quel contesto? Ma se gli artisti usano il crossover fra arte e musica come specchietto per le allodole, per noi sono falsi. Avete collaborato anche con componenti dei Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire, e con artisti visual come Haroon Mirza e Hannah Sawtell. Com’è stato lavorare con artisti così diversi? Siamo stati disponibili alla collaborazione fin dall’inizio. Ogni incontro è stato come aprire una porta in una nuova stanza, dove puoi sperimentare e aggiungere qualcosa in più al tuo bagaglio di conoscenze. Ci è piaciuto molto lavorare con queste persone. È un modo per imparare nuove discipline, serve ad espandere gli orizzonti. Restando un attimo su Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire, quanto siete indebitati con la cultura e i suoni industrial? I suoni industrial sono quello che tutti sperimentiamo ogni giorno! Passano inevitabilmente nel subconscio. Il disco è in qualche modo una meditazione sul ritmo. È costruito con tracce brevi che si incollano a quelle più lunghe. È un concept album su arte e ballo? Pensavo a tutto questo dopo aver riletto il vostro nome: Factory (come lo studio di Warhol) e Floor (come dancefloor). È un modo stupendo di interpretare il nostro nome! E hai perfettamente ragione. Non abbiamo iniziato a scrivere il disco con l’idea di renderlo concettuale. Volevamo solo costruire


un album che riflettesse il nostro amore per la sperimentazione sonora e la volontà di far ballare la gente! Ci potete dire qualche nome di artisti che vi piacciono e che state ascoltando? Fuck Buttons, East India Youth, Daniel Avery, Forward Strategy Group, Land Observations. Suonerete in Italia o in Europa? Sì, abbiamo in programma un breve tour europeo dal 9 ottobre. Ci piace molto venire in Italia e ci torneremo. Ci siamo divertiti molto lo scorso anno. Si dice che stiate lavorando ad un nuovo album… Ci piacerebbe lavorare a un nuovo disco, ma

prima dobbiamo promuovere questo dal vivo e spingere sul suono. Nessuno sa come suonerà il prossimo.

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La band toscana, che è appena tornata con Venga il regno, sesto album di inediti di una storia discografica lunga e importante, ci racconta del regno che verrà, del passato perduto e delle grandi bellezze che sono proprio dietro l'angolo. Testo di Giulia Cavaliere

© Franco Catalucci

Virginiana Miller Sous les pavés, la plage. Ancora.

Nell’ultimo anno abbiamo sentito parlare di loro soprattutto per l’ultimo film di Paolo Virzì tratto da La generazione, primo romanzo del loro frontman Simone Lenzi, autore, insieme al resto della band, del brano omonimo per la colonna sonora Tutti i santi giorni, vincitore del David di Donatello per la “Miglior canzone originale”. Dopo un secondo libro uscito per Contromano Laterza in maggio (Sul lungomai di Livorno) Lenzi, insieme ai suoi Virginana Mil-

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ler, ha scritto un nuovo disco pronto ad uscire in settembre a distanza di tre anni dall’ultimo ottimo Il primo lunedì del mondo. Ascoltiamo il nuovo album Venga il regno nel centro esatto dell’estate, in quel momento – i primissimi giorni di agosto – che precede la fuga generale e che si consuma in giorni afosi, umidi, asfittici. Lo ascoltiamo prevalentemente quando la notte si fa mattina, su un balcone o camminando per strada tornando a casa, nel vuoto totale della


città in gran parte partita per le vacanze. E’ un album perfetto per l’alba, perché, per la prima volta nella storia della band, in queste canzoni si parla di umanità risolta (almeno un po’), di pace forse appena trovata, dell’età adulta che vuole riappacificarsi con sé stessa: insomma, in qualche modo, di un’alba nuova che appare un po’ più in là, dietro la fine. In quegli stessi giorni, insomma, sono nate queste domande, poi sono arrivate le risposte e, infine, Venga il regno. Il vostro nuovo disco si chiama Venga il regno; mentre lo scrivo ora e mentre lo ascolto mi pare quasi naturale aggiungere al titolo quel “tuo” a cui la religione cattolica ci ha abituati quasi di default, anche se qui il pronome non c’è. Qual é, dunque, questo regno a cui sembrate dire “vieni pure, ti aspetto”? Simone: Il regno che deve venire non lo conosciamo, purtroppo. Quello che vorremmo, è quello utopico in cui la bellezza salva il mondo. Ma anche meno di così: a volte basterebbe un minimo di buon gusto. Sarebbe bastato nel ‘94 ad esempio: un miliardario travestito da miliardario, con quelle sciarpine di seta bianca da miliardario. La parodia di se stesso. Finita in farsa tragicomica, come era inevitabile, date le premesse. Il regno che sembra venire davvero, invece, è quello del narcisismo sfrenato, senza fondamento. L’idea del tutto infondata che ogni cosa che ci riguarda sia importante e pertinente, che ogni nostra parola sia oro colato, che si possa pontificare su tutto. L’idea demente per cui uno vale uno, che è come dire che nessuno vale più nulla. Leggo post demenziali su quel famoso blog dove dei poveretti si esprimono sulla necessità o meno di vaccinare i bambini sulla base di quattro cosine che hanno letto su wikipedia. Però chissà.. il momento è talmente confuso che non si può escludere che ne venga fuori anche qualcosa di buono. In una canzone dell’album, Nel recinto dei cani, dici “venga il regno e sia dei cani”; mi

colpisce molto perché in questi anni la figura del cane torna molto nel cantautorato italiano (il cantautore Iosonouncane, Dei cani – ultimo album dei Non Voglio Che Clara). Com’è il regno dei cani e perché questo regno che deve arrivare è il loro? E’ una dichiarazione d’amore, la tua, alla Martha my dear di Paul McCartney o più una forma di identificazione dell’uomo, che quando matura e cresce fa i conti con sé stesso e vuole solo scoprirsi come un essere puro, animale, empatico con la natura, gli istinti, oltre i ruoli, oltre la “latrina del mondo”, i ministri, il padre eterno? Simone: La prima. Solo una pura e semplice dichiarazione d’amore. Succede infatti che ora, mentre ti rispondo, Gus, il mio cane, è qui che mi guarda come a dire: perché non andiamo un po’ fuori? Che avrai mai da fare, ché non usciamo? E in effetti ha ragione lui. Non c’è nulla di più importante che uscire là fuori a fare due passi, visto che c’è anche il sole. Il sole che poi è gratis e di tutti. Mi viene in mente che nel tuo ultimo libro Sul lungomai di Livorno, uscito per Contromano Laterza, parli moltissimo della tua vita nel recinto dei canti, uno spazio in cui portavi il tuo cane in un momento esistenziale non esattamente sereno. La domanda – per la verità te l’avranno fatta in molti – è questa: come si coniugano il lavoro di scrittore (La generazione prima e ora questo Contromano) con quello di cantautore? Quale dei due “ruoli” senti che ti appartenga maggiormente? Senza remore mi sento di dire che tu rappresenti un caso limite, quello in cui un bravissimo cantautore ha la caratura del grande scrittore. Insomma, si potrebbe dire di te che sei uno scrittore che scrive canzoni ma anche, ancora più precisamente, che sei a tutti gli effetti un intellettuale. Hai, tra le altre cose, tradotto gli epigrammi di Marziale e portato Lacan in una canzone (Oggetto piccolo (a))

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Simone: Credo che questo purtroppo sia anche il mio più grosso limite. I letterati (alcuni dei quali scarsamente alfabetizzati, ma tanto oggi non se ne accorge nessuno, per cui…) non ti prendono sul serio perché suoni in un gruppo, invece quelli che suonano non accettano che tu non ti riconosca nel loro mondo “forever young”. Mi capita anche con la politica, per quelli di sinistra sono di destra, per quelli di destra sono un bolscevico. Alla fine, continuo ad essere quello che sono, tanto non potrei essere nulla di diverso. Anche perché, per venire alla prima parte della tua domanda, non ho mai trovato nessuna forzatura nel passare da una cosa all’altra. Mi piace lavorare con le parole, non so fare altro. Con la musica o in prosa, per me fa poca differenza. Ci sono molti scrittori, anche di successo, che non hanno orecchio e lo dimostrano quando scrivono. Non riesco a leggerli. Non ho mai pensato di dover scegliere fra i due ruoli, mi piacciono entrambi. Forse quello dello scrittore comincia ad essere un po’ più consono all’età: le trasferte in furgone per suonare alle due di notte in un locale cominciano a pesarmi un po’. Ma per adesso, come si dice, tengo botta. Tornando al nuovo disco, ho notato che è un album più sereno, il disco di chi fa un po’ pace forse con il mondo, forse con sé stesso. Emblematico, in questo senso, il primo singolo Una bella giornata: da anni non si sentiva nella musica indipendente italiana un singolo così positivo, lanciato nella vita – forse in quella adulta, della maturità – in modo totale e puro. Anche Tutti i santi giorni, Pupilla, Effetti speciali (“e non mi importa più niente senza di te / ma ti ringrazio comunque / per i giorni normali, per gli effetti speciali”) hanno questo tiro, sono canzoni d’amore sicure di sé, della propria forza… Simone: Sì. C’è infatti tutta una cupezza modaiola e profondamente adolescenziale in cui non mi riconosco davvero più. Ho 46 anni, se non

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avessi trovato niente di positivo, nulla di buono nella vita, mi sarei ammazzato, invece sono vivo e ci tengo a rimanerci. Due canzoni prendono forma dalla Storia italiana del passato, tutte e due raccontano aspetti controversi dell’Italia anni ‘70: il terrorismo rosso e il movimento operaio. Sono due pezzi straordinari, in cui la narrazione è trasversale. Il primo, Anni di piombo, sembra essere un racconto sentimentale lanciato nel cielo in un momento buio della Storia; mi ha ricordato una di quelle lettere di Moro alla moglie, un messaggio rassicurante che poi, in realtà, nelle sue linee più emotive potrebbe essere stato scritto anche oggi. Il secondo brano è onirico, fatato, eppure oscuro ed è sempre una lettera, da San Paolo agli operai del Lingotto. Mi racconti di queste canzoni? La prima così pop, la seconda dilatata, quasi una preghiera… Simone: Ho provato a fare i conti con tutto quello che ha determinato la nostra Storia recente. Anche per capire se sia mai possibile cominciare davvero una fase nuova. Per me, per chi ha la mia età, il rapimento Moro è stato uno spartiacque, forse come il Vietnam per gli americani. Il mondo non è stato più ingenuo da allora, la politica si è mostrata per quel che era: una palude torbida. Restano due canzoni però, non vogliono cambiare il mondo, solo cantarlo. La Lettera di San Paolo agli operai del Lingotto, voglio dirlo, la considero il mio testamento come autore di canzoni. In termini generali, le musiche del disco sembrano più immediate, più pop del solito; una cosa che sento progressivamente più forte e presente, se penso alla vostra discografia, e questo è un valore aggiunto. Mi piace pensare che anche in Italia esista un pop capace di rinunciare ad essere semplicistico, che mantenga una stratificazione sonora che possa comunque arrivare a tanti… Giulio: é anche la nostra sensazione. Con l’ar-


rivo di Matteo (Pastorelli, alla chitarra nda.) abbiamo guadagnato maggiore immediatezza e una sonorità rock che prima era meno evidente. E poi si, col tempo ci siamo resi conto che a volte la ricerca dell’originalità a tutti i costi può compromettere la facilità di ascolto, senza aggiungere niente di interessante. Quando si fanno canzoni lo si deve fare cercando una sorta di linguaggio comune con l’ascoltatore, la comunicazione innanzitutto, sennò che pop è? Come avete lavorato al disco? So che è pronto da un bel po’. Prima i testi poi la musica o viceversa? Come lavorate in studio? Credo che sia sempre interessante provare a indagare su queste fasi del processo creativo, specie quando si parla di canzone d’autore… Diciamo che ci sono due metodi. Il primo : iniziamo da piccoli giri di chitarra, tastiera o addirittura basso, che registriamo nei mesi precedenti nel nostro studio; alcuni di questi hanno caratteristiche da strofa, altri da ritornello o ponte. Successivamente proviamo a fare un collage di queste parti, magari cambiandone l’intonazione o modificandoli secondo le necessità musicali. Successivamente Simone lavora sul testo; una volta che abbiamo testo e musica insieme lavoriamo sulla integrazione dell’uno nell’altra, fino a raggiungere un risultato soddisfacente. Il secondo: Simone porta una canzone completa chitarra e voce che arrangiamo insieme. Questo disco è nato e si é sviluppato con gli stessi modi (e tempi) di quelli precedenti, ma con alcune significative differenze. Durante la composizione delle canzoni il nostro obbiettivo era raggiungere un equilibrio tra testo e musica, senza entrare in modo profondo nella realizzazione degli arrangiamenti; Ale Bavo si è occupato di questo nella fase di produzione. Questo ultimo lavoro è stato differente rispetto agli altri perchè Simone, a causa degli impegni editoriali,era meno presente e quindi la musica ha avuto uno spazio per crescere e svilupparsi

molto più ampio. Lo considero un plus. Capita di parlare con alcuni musicisti e di sentirsi dire che non ascoltano più molta musica, una cosa che, a dire il vero, stupisce sempre relativamente ma soprattutto incuriosisce. Voi ascoltate molta musica? Quando scrivete cogliete la stessa ispirazione che si ha quando si è giovanissimi e affamati, con la voglia di mescolare diverse influenze, o la musica di altri entra poco, oggi, nella vostra? Giulio: Anche io non ascolto molta musica, ma altre persone del gruppo ne ascoltano molta. Con l’arrivo di Spotify, comunque, ho registrato una inversione di tendenza. Ora ne ascolto decisamente di più. Riguardo alla seconda domanda .. beh, personalmente non riuscirei a comporre senza essere influenzato dai gruppi che mi piacciono; sarebbe un po’ come scegliersi un vestito senza avere modelli a cui rifarsiAntonio: Ascolto parecchia musica, di molti generi diversi, ma non seguo molto le nuove uscite. Non ho mai considerato la novità un valore in sé, non ho mai fatto la coda per comprare il nuovo disco di qualcuno, non ho mai letto le riviste per seguire le “scene”, neanche quando, per molti, ascoltare certa musica era parte di un processo di identificazione forte. Ascolto musica per molti motivi diversi. C’è musica che mi emoziona profondamente, altra che mi diverte o che mi piace ascoltare dal vivo, altra ancora che mi fa interrogare sui contesti o sui meccanismi che l’hanno fatta nascere. Per tornare alla tua domanda, credo che la musica che ascoltiamo entri ancora moltissimo nella nostra, perché la scrittura è un processo anche imitativo; ascoltare alimenta il desiderio e la capacità di scrivere. Se vuoi, il mio prototipo di musicista in questo senso è David Byrne. Cosa vi aspettate dai prossimi mesi? Partirà un tour in autunno? Antonio: Sì. Partirà un tour in ottobre, molte date sono già definite e saranno presto annunciate. E noi non vediamo l’ora

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Con ancora nelle orecchie un disco come Dancing, abbiamo intervistato Nancy Elizabeth per scoprire qualche cosa in più sulla sua musica. Testo di Fabrizio Zampighi

Nancy Elizabeth Tra passato e modernità

Che il 2013 sia l’anno del folk? Chi può dirlo. Certo è che negli ultimi mesi sono usciti lavori notevoli riconducibili al genere. Pensiamo all’ultima Laura Marling, ad esempio, licenziataria di un Once I Was An Eagle che stupisce per intensità e trasporto pur non rivoluzionando i parametri dell’immaginario chiamato in causa; al confermato Iron & Wine di Ghost On Ghost; a una Nancy Elizabeth efficace allo stesso modo nel dare trasversalità e lustro a certi suoni arrivando a una sintesi assai interessante: da un lato un patrimonio condiviso che somma Pentangle, Vashti Bunyan, Fairport Convention,

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dall’altro una definizione piuttosto personale di un linguaggio in cui rientrano anche elementi di elettronica e musica contemporanea. In realtà sembra quasi che lo stesso termine “folk” ultimamente, per lo meno in qualche sua declinazione, si sia trasformato assumendo i caratteri di una modernità in divenire. Abbandonato per un momento ogni riferimento a un genere specifico fatto di tradizione, strutture riconoscibili, strumentazione caratteristica, parte di ciò che oggi viene identificato come folk è diventato terreno fertile per un’indagine interiore sempre più profonda e musicalmente articolata.


Un po’ quello che accadeva a un “rock” che ormai vent’anni fa diventava una questione di attitudine più che uno stile preciso, un sovvertire schemi e forme consolidate più che un idioma “classico” fatto di chitarre elettriche, basso e batteria. Del folk originale, nel nostro caso, rimane il suo essere musica diretta, introspettiva e senza filtri, oltre a qualche riferimento estetico: il resto è personalizzazione di un sentire mai così malleabile e di larghe vedute, mai così ibridato e senza confini certi (nella nostra carrellata vogliamo citare anche la Fiona Apple uscita lo scorso anno con The Idler Wheel Is Wiser Than the Driver of the Screw and Whipping Cords Will Serve You More Than Ropes Will Ever Do: disco, il suo, di blues destrutturato, fascinazioni africane, approccio “folk” lontano dai cliché di genere, che pur non rientra appieno in nessuno di questi stili). Nel caso della Elizabeth il percorso evolutivo è tangibile, per una curva ascendente partita da quella tradizione di cui si diceva con un disco d’esordio come Battle & Victory (2008, Leaf ) tutto chitarre acustiche, harmonium e arpa, passando per un Wrought Iron (2009, Leaf ) raccolto attorno al pianoforte e a certe atmosfere scarne e minimali, per arrivare al più recente Dancing (2013, Leaf ). Quest’ultimo l’episodio più rotondo e riuscito di tutta la discografia dell’artista, capace di testimoniare una maturazione ormai giunta a compimento che abbandona i modelli genitoriali per dar spazio a un Es sospeso tra passato e futuro, tra tradizione e malinconie oniriche. Un “inner-folk” perfettamente tagliato sulla voce impalpabile e virtuosa della Elizabeth che riesce a dar vita a un lavoro che non invecchia nemmeno a mesi di distanza dalla sua pubblicazione. Di questo ed altro abbiamo parlato con la musicista di stanza a Manchester, in una chiacchierata che ha rivelato, oltre all’approccio musicale senza barriere della Elizabeth, anche un’indo-

le affabile e per nulla intonata con la musica malinconica e introspettiva che caratterizza la musicista. Dancing ha un suono molto profondo ed emozionante. E’ folk, ma anche ambient, musica contemporanea, musica elettronica. Che differenze ci sono tra questo disco e Battle And Victory o Wrought Iron? La strumentazione è diversa. Il primo disco prediligeva il suono dell’arpa. Il mio secondo disco tendeva a guardare indietro. In Dancing ho usato di più la tecnologia, ho incorporato alcuni elementi elettronici. Credo che musicalmente l’ultimo disco sia molto diverso, ma è un risultato che ho ottenuto senza pormi come obiettivo il fatto di farlo suonare diverso dagli altri. Credo che sia stata una progressione naturale. A leggere i testi, sembra che la tua musica abbia una connessione forte con la tua biografia. E’ davvero così? In che modo la tua biografia influenza la musica che suoni e i testi che scrivi? Come artista, prendo sempre ispirazione dalla mia vita, cerco di scrivere di cose che conosco, senza pensare molto alla provenienza delle parole. Quello che mi succede, le esperienze che faccio: finisce tutto nelle canzoni. Che tipo di relazione hai con la musica folk? Penso alla tradizione inglese di band come i Pentangle, Fairpot Convention, Vashti Bunyan, ma anche a musicisti contemporanei come Josephine Foster, PJ Harvey, Joanna Newsom… Credo che non ci sia un genere di musica che non mi piaccia. Per quanto riguarda il folk, posso dire che ce ne è di ottimo e ce ne è di pessimo (specialmente alcune cose tradizionali inglesi). Lo stesso per gli artisti contemporanei: ci sono cose che mi piacciono e altre che non mi piacciono. Delle tre musiciste che hai citato, amo moltissimo P.J. Harvey e mi piace Joanna Newsom. Con Josephine Foster ho fatto un

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concerto qualche anno fa a Manchester. Le cose che faceva allora mi piacevano, i suoi lavori più recenti, invece, non li conosco bene. In genere, comunque, sono di mentalità molto aperta, mi piacciono un po’ tutti i tipi di musica. E questa apertura mentale, in fondo, si sente anche nella tua musica… Sì, cerco di assorbire più cose possibili, specialmente in un contemporaneità in cui si può entrare in contatto davvero con tutti i tipi di musica. Non ci sono più media che decidono cosa trasmettere. Un minuto prima sei lì che ascolti qualche pazza musica dance africana e il minuto dopo passi al folk irlandese o a un’elettronica che arriva dal Messico. Musicalmente, viviamo in tempi piuttosto eccitanti. Perché non dovremmo sfruttarli? Hai chiamato il tuo ultimo disco Dancing: che rapporto hai con la musica elettronica? In realtà il titolo del disco non ha niente a che vedere con i pochi elementi di elettronica che si trovano al suo interno. “Dancing”, per me, significa “movimento”, e per “movimento” intendo il muoversi del suono nella musica. Spesso le persone associano gli elementi elettronici al mondo della dance music, ma in realtà credo che sia un ragionamento piuttosto moderno, degli ultimi tempi. Il fatto di aver usato elementi elettronici in un disco che poi ho intitolato Dancing immagino che sia stata una semplice coincidenza. L’immagine di copertina dei tuoi primi EP e del tuo primo disco hanno a che vedere con i pesci e l’acqua. Lo stesso si può dire per il video di Feet Of Courage. E’ tutto legato a un concept o c’è qualcos’altro sotto? Anche qui si tratta di una coincidenza. Sulla copertina di quei dischi c’è una cascata, con i pesci che nuotano contro corrente. Era una scena piuttosto rappresentativa di come fosse la mia vita in quel periodo, delle difficoltà che si hanno quando sei al primo disco. Il video di Feet Of Courage invece è legato alle parole della

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canzone, all’immergersi nella vita, nelle situazioni, al cercare di tenere “accesa” la stessa vita. Nel video abbiamo reso questa metafora con il tuffarsi in una piscina. La coincidenza è stata che in quel momento mi è capitato di collaborare con un video producer che voleva filmare nell’acqua, e così lo abbiamo fatto. Esteticamente sei molto legata a un immaginario inglese vecchio stile, quasi vittoriano. Mi riferisco ai vestiti molto eleganti che indossi quando suoni dal vivo e al video di Simon Says Dance. Cosa puoi dirmi di questo aspetto della tua immagine? In realtà, come persona, non mi sento molto elegante e non guardo nemmeno troppo a quello che indosso. Ultimamente però ho incontrato una sarta/stilista che ha deciso di farmi un vestito rosso in seta, vestito che ho indossato anche all’ultimo concerto a Manchester e che mi piace molto. Che tipo di relazione hai con il passato e la modernità? Sembri un po’ un’entità in bilico tra questi due elementi… Non penso a me stessa come a una persona vintage. Ho amici che sono fissati con gli anni Settanta e hanno arredato tutte le loro case in quello stile, ma io non sono molto interessata, nemmeno ad avere tutta quella roba moderna che le persone posseggono. Mi piaccino le cose carine, di buona qualità. E lo stesso accade con i miei gusti musicali e la musica che faccio Che mi dici dei tuoi concerti? Ho visto alcuni video in rete: sembrano live-set molto intimi e raccolti. Pochissimi strumenti e la tua voce. Sarà lo stesso per il tour di Dancing? Suonerai anche in Italia? Mi piacerebbe passare dall’Italia quest’anno perché amo il vostro paese, anche se ancora non c’è nulla di definitivo. Forse verrò in autunno. Per ora sto girando in Uk con una band – si fanno chiamare “The Dancers” [ride, ndr] -, con un batterista, un bassista, qualche cantante


(per rendere al meglio le linee vocali dell’ultimo disco). Molto spesso dipende dalla situazione, comunque. Ad esempio in Italia sarebbe difficile, a livello logistico, far suonare tutte queste persone, anche se mi piacerebbe. In rete c’è un video di te all’Università di Manchester che canti e spieghi come scrivere una canzone. In quel video affermi di ascoltare i suoni che hai attorno, per scrivere musica. Potresti farmi un esempio pratico? E’ una buona domanda. Per dire, ieri stavo parlando con qualcuno e c’era musica sullo sfondo, che mi impediva di concentrarmi sulla conversazione. E’ come se le mie orecchie cogliessero il rumore che ho attorno. Quando ritorna il silenzio riesco a concentrarmi e a creare musica. E’ vero che quando componi cerchi di isolarti dalle altre persone? E’ capitato, sì. Per esempio, Dancing è stato un disco che ho scritto in maniera abbastanza solitaria, nel tempo libero. Per il mio prossimo disco vorrei coinvolgere altre persone nel processo creativo, ma non voglio fare le cose in fretta. Mi racconti qualcosa della scena musicale inglese? Come è cambiata negli ultimi anni con l’avvento delle nuove tecnologie e di

internet? In Inghilterra ci sono moltissime persone che suonano dal vivo, e questo dipende sicuramente anche dal calo delle vendite di dischi. Anche in Inghilterra, come nel resto del mondo, le persone non comprano più molti CD, come invece facevano in passato, e così i musicisti suonano moltissimo dal vivo perché è l’unico modo per guadagnare denaro. A Manchester, città in cui vivo, ci sono almeno cinque concerti ogni sera; c’è molta scelta ma anche molta energia, dal punto di vista musicale, ed è bello che si suoni dal vivo. Del resto ormai la tecnologia è arrivata al punto in cui ognuno riesce a crearsi un buon suono da solo. Non siamo più ai tempi di Frank Sinatra o Dean Martin, quando si registrava dal vivo e da quella registrazione usciva fuori la personalità dell’artista. Ora grazie alla tecnologia, una volta registrato il materiale, si può tornare su tutto modificando l’intonazione della voce e qualsiasi altra cosa. E così è bello che si torni a suonare molto dal vivo, condizione in cui viene fuori realmente la personalità del musicista. La comunicazione tra le persone è certamente meglio di un suono registrato perfettamente.

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Ancora una volta, la Svezia partorisce il male. E' il primo passo verso una nuova costituzione: quella del Black Metal Scandinavo. Il Testimone passa dalla Norvegia a Uppsala, Swerige, dove dopo anni di militanza underground, i Watain raccolgono il frutto dei loro sforzi. Erik Daniellson ci racconta la sua storia artistica. Largo ai Signori del Caos. Testo di Mario Ruggeri

Watain Signori del caos

Girava a piedi a Stoccolma non più di un mese fa, Erik Daniellson, partito da Uppsala senza neppure un alloggio di fortuna, per andare a vedere gli Iron Maiden a Solna. Lo sappiamo perché a piedi giravamo anche noi ed Erik, per chi lo ha conosciuto in quei giorni, sembrava tutto tranne che il leader di una delle più importanti, innovative e sensazionali black metal band del pianeta. Uno dei tanti, diciamo così, che si raggruppa con fan di diverse nazionalità (qualcuno italiano, e lo potrà confermare) passando la notte a bere, come se i tour in giro per il mondo

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non gli fossero ancora bastati. Tatuaggi su tutto il corpo, lo sguardo vitreo (forse di ghiaccio) i capelli lunghi e un aspetto tutt’altro che tranquillizzante, eppure Erik Daniellson di persona è un artista molto profondo. Forse addirittura troppo stretto per gli abiti del black metaller. E forse, proprio per quello, lui ha deciso di cambiare l’atelier della musica satanica per definizione. Filmmaker, illustratore, musicista, regista indipendente, frontman, presto editore (ci confesserà che a Gennaio 2014, se tutto andrà per il verso giusto, inaugurerà la sua piccola casa


editrice “metal fantasy” in compagnia del cantante degli In Solitude), oggi Erik è nella classica posizione del “To Watch For”, ovvero tra i maggior indiziati per essere tra i protagonisti della contemporanea scena metal: eppure i Watain non dovrebbero essere una sorpresa, almeno per chi segue il metal con passione e attenzione. Quindici anni di attività, cinque album in studio e una manciata di live, EP, nonché il documento meraviglioso di Opus Diaboli. Ed oggi che viene pubblicato The Wild Hunt, nessuno può ignorare ulteriormente i Watain. Loro sono i maestri del caos. Visti sotto un’altra lente, sono l’equivalente materiale e infernale dell’approccio globale al black metal dei Wolves In The Throne Room. Black metal e rumorismo. Ma se nei secondi tutto converge verso la dematerializzazione della materia black, nei Watain la teoria musicale va verso il disegno dell’apocalisse. Ancora di più: The Wild Hunt, oggi, è il confluire di tre teorie musicali: la prima, originata dalla visione corale degli Emperor, la seconda trascinata dall’efferatezza dei Dissection di Storm’s Of The Light Bane. La terza, ancora da codificare, ma forgiata in primis proprio dai Watain. E’ questa la chiave di lettura per capire l’importanza dei Watain nel contesto musicale metal. Importanza di cui discutiamo proprio con lo stesso Erik Daniellson. Prima domanda Erik, e si torna immediatamente alle origini: quindici anni dopo, nonostante negli ultimi anni il nome dei Watain sia cresciuto enormemente, finalmente si parla di voi in termini di band definitiva. E’ un traguardo, indubbiamente, ma raggiunto con estrema fatica: come mai? Dovremmo andare ad analizzare il contesto di fine anni ‘90, nel quale ci siamo mossi, in cui ancora non si parlava di neo black metal, né di ritorno della Nwobhm. Insomma, si stava uscendo dal metal storico, dalle vere radici, per entrare in un’epoca sperimentale molto partico-

lare. E noi eravamo indubbiamente, come siamo ancora, una band classica. Forse abbiamo pagato quello scotto. Diciamo che a un certo punto della nostra carriera, ci siamo trovati ad un bivio: mutare anche noi espressione musicale, oppure rimanere estremamente coerenti e rischiare. Abbiamo scelto la seconda strada. E questo ci ha portato a risultati forse inaspettati, ma pieni di soddisfazioni. Radici: un elemento che ritorna sempre nella cultura svedese. Le band scandinave, e in particolare quelle svedesi, sembrano indissolubilmente legate alla storia dell’heavy metal. Mi sono sempre domandato come mai, e passeggiando per Stoccolma, ho notato che i tabloid nazionali, il giorno dopo il concerto degli Iron Maiden, hanno dedicato a loro la copertina di ogni testata giornalistica. Chiedo a te, quindi: è questo il segno di una cultura nazionale legata al metal? In generale alla musica, in particolare al metal. E dici bene: i tabloid hanno sempre dedicato grande spazio al rock e al metal. A Solna è stato costruito uno stadio attrezzato principalmente per ospitare concerti rock: un luogo da 70 mila persone. I negozi di dischi ci sono, si sono storicizzati, hanno un sacco di materiale e tantissima competenza. Ci sono giornali, magazine, un sacco di band. E tutto questo fa cultura ed è una cultura metal. Chiaro che, vivendo in questo contesto, sia praticamente e felicemente impossibile staccarsi dal retroterra metal. Radici che sono esplose prepotentemente in Wild Hunt. Rischio, ma dico che questo è il vostro album più Nwobhm, pur in un contesto black. Sotto certi aspetti, mi avete ricordato molto da vicino gli ultimi Darkthrone… Sono d’accordo, soprattutto con il paragone con gli ultimi Darkthrone. E non è una novità che Fenriz (fondatore e leader del gruppo norvegese) sia un fanatico di Nwobhm. Non tutto il nostro disco è classicamente metal, ma certamente

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quello che si sente in sottofondo e le architetture musicali, lo sono. Eccome. La Nwobhm, soprattutto quella più oscura – e penso a band come gli Angel Witch, i Witchfynde, giusto per citarne alcune, per non parlare dei Sanctuary o dei Sabbath degli anni ‘80 -, è divenuta un punto di riferimento per tutti, noi compresi. E poi c’è il caos, la violenza organizzata, l’efferatezza della vostra struttura black che, paradossalmente, si sta allontanando dai dettami prettamente black per affrontare territori ancora sconosciuti… Quello, se ci riflettiamo bene, arriva dai Bathory. Nessuno come loro ha saputo scrivere, in anticipo di almeno vent’anni, l’equilibrio perfetto tra heavy metal e furia. Vi considerate ancora una black metal band? Sì, forse non totalmente, ma in buona parte sì. Ciò che mi ha lasciato senza parole, in Wild Hunt, è la capacità narrativa di ogni vostra canzone, innanzitutto del concept finale che emerge, almeno dal punto di vista musicale. Ma anche la capacità di trasmettere immagini chiaramente legate all’apocalisse biblica… Beh, questo è decisamente appagante, perché era proprio quello l’obiettivo in sede di stesura brani. Scrivere apocalitticamente. So che può sembrare presuntuoso, ma la mia visione di Wild Hunt era proprio quella: un grande affresco sull’apocalisse del mondo che, se già non è in atto, appare molto vicina. Quindi non andiamo molto lontano se diciamo che Wild Hunt è il disco del romanticismo black metal. Siamo alla sturm und drang del metal estremo. Mi vengono in mente alcuni dipinti di Richter, simbolo del romanticismo pittorico tedesco. Che ne pensi? Che so a che quadri ti riferisci, e ne sono lusingato perché amo quel genere di pittura. Sono molto legato ai classici, alla pittura e all’illustrazione come segno espressivo, e mi ci trovo molto in questa definizione. Pensa che l’anno prossi-

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mo, se tutto andrà secondo i piani, inaugurerò la mia piccola casa editrice che pubblicherà libri di illustrazioni, copertine per cassette e dischi, etc. Veramente? Sì, saremo io e il cantante degli In Solitude. Sono molto eccitato perché è una cosa che volevo fare da molto. Non so quando troverò il tempo, ma lo farò. In effetti il tuo facepainting, a differenza degli standard black, è sempre stato molto dinamico e ha sempre rappresentato un punto di rottura rispetto alla tradizione black stessa. Come se stessi usando il tuo volto come tela… E’ esattamente così. Ho sempre considerato l’arte di truccarmi per gli spettacoli, come espressione teatrale greca. Come maschera non per nascondermi, ma per esprimere altri concetti. Per essere mutevole, per interpretare la musica. A proposito di classicismo: The Wild Hunt è pieno di strutture musicali classiche. Anche in questo caso azzarderei Bach e Wagner. Non è la prima volta che il black metal e l’heavy metal in generale si rifanno alla musica classica, basti pensare a Malmsteen negli anni ‘80, concentrato su Vivaldi, Mozart e Bach. Peraltro, vostro conterraneo… Malmsteen è stato deriso da tutti, ma ha tradotto la musica classica in metal. E’ stato il passo successivo a Ritchie Blackmore, altro personaggio devoto a Bach. Pensa solo a quello che ha fatto nei Rainbow. Questo credo che appartenga alla nostra cultura, e torniamo al punto di prima. Personalmente, io sono un amante della musica classica: magari non un cultore, ma sicuramente ne ascolto tanta. Poi, probabilmente mi mancano le basi teoriche ma amo quel tipo di suono, amo la composizione architetturata. Amo il pensiero prima dell’azione. E la musica classica è quello. Oggi i Watain escono dal mondo underground, e diventano una band di riferimento. Questo lo dice l’interesse della stampa nei


vostri confronti, ma anche l’appeal che avete ottenuto. Eppure, Erik, niente mi toglie dalla testa che rimarrete sempre una band underground, come mentalità e approccio, e forse The Wild Hunt è il disco più underground della vostra storia… Grazie, questo è veramente un grande complimento, perché nella filosofia underground c’è tutto quanto è servito a noi per essere ciò che siamo, per crescere. E’ veramente la nostra base di partenza. Attenzione per i lati oscuri, per le piccole band, per le correnti veramente significative. E qualunque livello di fama potremo raggiungere, anche se non credo che andrà mai

oltre quanto stiamo ottenendo, non usciremo mai dallo spirito underground. Perché è molto di più di una definizione. E’ una filosofia, uno stile di vita, un simbolo, un segno, una precisa scelta. E se domani dovesse passare questo interesse per i Watain ? Continueremo per la nostra strada, come sempre.

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Con Vicious l'entitĂ His Clancyness compie la metamorfosi da alias di Jonathan Clancy a band vera e propria. Sposando un sound piĂš nervoso e mutante, in obliquo tra wave, kraut e psichedelie. Testo di Stefano Solventi

His Clancyness Alias non alias

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A sentirlo parlare, con quell’inflessione ammorbidita da una saggia placidità indiscutibilmente emiliana, potresti persino pensare che tutta questa storia delle origini canadesi sia un espediente astuto. Idem dicasi di quel nome un po’ da spia vecchia maniera. E invece no. Jonathan Clancy è nato effettivamente ad Ottawa, ha fatto per un po’ il giramondo ed ha finito per accasarsi a Bologna, dove ha messo radici, stretto amicizie e soprattutto formato band, tra cui i rimpianti Settlefish e gli adorati A Classic Education. Fino all’ultima incarnazione, His Clancyness, quella in cui sembra giocarsela con il minor numero di filtri, a partire dal nome ironicamente dylaniano. Magari non sarà piacevole ammetterlo, ma l’origine nordamericana è palpabile nella disinvoltura e profondità del suo fare/vivere rock, il gap rispetto a molti indie rockers nostrani c’è, eccome se c’è. Non è certo un caso se gli A Classic Education si sono guadagnati apprezzamenti di primo livello da parte della stampa d’oltremanica e d’oltreoceano, e che gli His Clancyness abbiano fatto il colpo grosso entrando nel roster di Fat Cat Records nientemeno. Ecco, questo sembra un buon punto di partenza per la chiacchierata telefonica con Jonathan ed il batterista Jacopo Borazzo. Ha fatto un certo rumore, e non poteva essere altrimenti, la firma con Fat Cat. E’ arrivata per merito dei tuoi vecchi lavori o perché li hai convinti col nuovo corso di Vicious? JONATHAN: È accaduto in maniera abbastanza casuale. Siamo andati a registrare l’album a Detroit senza accordi con nessuna label, quindi abbiamo proposto il master a una decina di etichette ricevendo alcune risposte ma non da Fat Cat, che era tra le nostre preferite. Poi durante una data a Londra assieme ai Lotus Plaza, il gruppo di Lockett Pundt dei Deerhunter, siamo stati notati da uno statista di Fat Cat che suonava in un’altra band prima di noi. Gli è piaciuto

un casino il concerto, ha chiesto informazioni, gli abbiamo raccontato che avevamo mandato il disco senza ottenere risposta. Così pochi giorni dopo abbiamo ricevuto una mail di Fat Cat che ci chiedeva di aspettare a stringere accordi con altri perché erano molto interessati. Non conoscevano il materiale precedente, che poi comunque hanno parzialmente ristampato prima dell’estate… Veniamo allora al nuovo disco, Vicious: la calligrafia è diventata più nervosa, concreta, diretta. Ci si può sentire new wave, tardo garage, particelle kraut e noise, un pizzico di lo-fi. Questa svolta stilistica è stata dettata più dalla voglia di dire altro o dalla consapevolezza di dover cambiare? JONATHAN: É stato naturale. É la prima volta che registro con una mentalità da band, ovvero assieme a Jacopo e Paul Pieretto. Come naturale conseguenza il suono é uscito piú potente, anche se forse potente non è il termine giusto. Più forte, più massiccio, insomma (ride, n.d.i.). Inoltre é la prima volta che incido con in testa l’obiettivo di fare un album, in precedenza avevo fatto incisioni piú sporadiche, singoli che poi andavano a formare dei 7 pollici o raccolti in long playing. Quindi mi pare di capire che dobbiamo considerare His Clancyness non come un alias ma come una band vera e propria. JONATHAN: Io ho scritto le canzoni, ma siamo un gruppo. Dal vivo siamo un quartetto, tra l’altro amici da una vita. Mi piace avere una gang con cui stare assieme. Recensire un disco come Vicious espone al rischio di citare troppe similitudini; ad esempio, per quanto mi riguarda, non ho potuto fare a meno di citare Wire, Can, Iggy Pop, Pavement, Scott Walker… Quanto a queste e altre eventuali fonti ti sei volutamente ispirato?

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JONATHAN: Di sicuro ci sono molti rimandi, anche se tento di essere piú personale possibile. Nel periodo in cui compongo cerco di limitare gli ascolti, o almeno di limitarli ai classici. Certo mi fa molto piacere se citi i Wire, nel caso di Zenith Diamond sono stati un chiaro riferimento. In altri casi, per certi suoni di batteria – ad esempio di Miss Out These Days – ci siamo rifatti al suono dei dischi solisti di Lindsey Buckingham dei Fletwood Mac. Altrove – é il

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caso di Machines – l’obiettivo era avvicinarsi il più possibile a certi assolo di Neil Young, infatti abbiamo utilizzato un piccolo ampli da 15 watt degli anni Quaranta che Young utilizzava nelle prime incisioni coi Crazy Horse… JACOPO: Alla fine secondo me quello che conta sono le canzoni, non tanto quello che ci ricordano. Tutto deve essere finalizzato al fatto che la canzone funzioni. JONATHAN: Sono d’accordo. D’altro canto è


vero che mi piace documentarmi sulle tecniche e gli aneddoti delle band del passato, guardo documentari in continuazione, anche di band che non mi piacciono. Sono un fanatico di queste cose, mi piace usare riferimenti precisi in studio, ad esempio dire a Chris – il nostro produttore – di far suonare il piano come in quel certo disco dei Beach Boys. Per me é fondamentale. Ed è fondamentale avere un produttore in grado di soddisfarti. A proposito, è per lavorare con Chris Koltay che siete andati a registrare a Detroit? Credi che ci sia ancora un gap di competenze tecniche ed attrezzature tecnologiche con gli studi italiani? JONATHAN: Sì, il motivo principale è stato per registrare con Chris. L’ho conosciuto in tour, nella data di Detroit con gli A Classic Education. Gli sono piaciuti i demo di His Clancyness, ne abbiamo parlato, ci siamo tenuti in contatto. Gli High Bias Recordings sono molto belli e anche a buon mercato, visto che purtroppo a causa della crisi Detroit è una città derelitta… Certo, anche in Italia abbiamo studi bellissimi, solo che forse si sta perdendo l’abitudine ad un certo modo di lavorare, a quel certo atteggiamento che è necessario per produrre un buon disco rock. Forse perché per sopravvivere gli studi devono incidere tante schifezze, tipo le cover band. Si sta perdendo una tradizione ed è un peccato, pensa alle cose meravigliose fatte negli studi Rai durante i Sessanta… JACOPO: A parte lo studio e Chris, poi c’è la città, con la sua atmosfera, il suo immaginario. Incidere a Detroit non è come farlo, che ne so, a Montebelluno. Viverci è stato importante. Quelle tre settimane che abbiamo passato lì sono diventate questo disco. JONATHAN: E’ verissimo, Vicious per me è quelle tre settimane a Detroit, così lo voglio ricordare per i quaranta o cinquant’anni che mi restano da vivere. È anche per questo che amo

fare musica, per l’esperienza che ti lascia. In occasione del Cassette Day avete fatto uscire una Covering Up Cassette (con cover di Gun Club, Julian Cope e The Drifters tra gli altri), mentre come omaggio a chi prenota il disco in vinile avete confezionato la Vicious Fanzine: sembrano un po’ degli adorabili anacronismi, modi di spacciare musica e immaginario musicale di un’epoca che non c’è più. Senti il bisogno di vivere in un mondo in cui la musica reciti un ruolo più importante? JONATHAN: Sicuramente, per me la musica è ancora importantissima. Questo album non è una cosa accessoria, deve essere una colonna portante. Per quanto si tratti di piccole cose che magari interesseranno pochissimi, una fanzine e una cassetta devono contribuire a scolpire e a ricreare quel mistero, quel mondo fatto anche di sogno che il rock deve essere. Probabilmente ci perdiamo troppo in questa smania di condividere, mentre le emozioni dell’ascolto rimangono un po’ in secondo piano. E degli A Classic Education cosa mi dici? Esperienza finita o una parentesi lasciata in sospeso come i Settlefish? JONATHAN: A Classic Education continuerà senz’altro, fermarsi è stata una scelta naturale e un po’ obbligata, nel giro di sei mesi a due membri della band sono nati dei figli… Inoltre, Luca Mazzieri si è concentrato sul suo progetto Wolther Goes Stranger, io su His Clancyness, insomma una pausa normale. Comunque abbiamo suonato moltissimo fino a pochi mesi fa, abbiamo intenzione di tornare a scrivere presto assieme, magari già quest’inverno. Per quanto riguarda i Settlefish, è una questione diversa, sono fermi dal 2008 per cui… Penso che la gente tenda a crearci molte storie sopra, ma in realtà è del tutto normale prendere strade diverse, senza ragioni particolari. Del resto continuiamo a vederci, abitiamo a Bologna, siamo tutti amici. Insomma, la porta è aperta, chissà.

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I Came Back Haunted Che cosa rappresenta oggi un artista come Trent Reznor? Proviamo a rispondere con una breve panoramica sulla sua carriera musicale Testo di Tommaso Iannini Trent Reznor è stato sicuramente un innovatore. Lo è ancora? Se innovatore fosse una di quelle parole assolute, per cui basta esserlo stato una volta per rimanerlo per sempre, la risposta sarebbe scontata. Di sicuro c’è una tensione, nella sua ricerca musicale, che non è mai statica, si proietta sempre in avanti, verso il presente, e, in parte, il futuro. L’aggiornamento tecnologico. La ricerca di nuovi canali espressivi, di nuovi mezzi di comunicazione. L’essersi reinventato compositore di colonne sonore. Allo stesso tempo, il rifiuto sdegnoso di sottomettersi alla novità a tutti i costi: Reznor non si è fatto produrre da Timba-

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land e ha continuato a lavorare in totale autonomia avendo accanto solo persone fidate. Due esempi: Alan Moulder e Atticus Ross. Quel che è certo, è che parliamo di un fulcro della musica degli anni ‘90. Che lo era già alla fine degli anni ‘80. Figura unica nel suo (non) genere quanto obliqua, ha saputo calarsi trasversalmente in più direzioni, calamitare idee (e pubblico) da diversi ambiti musicali e creare uno stile e un immaginario indiscutibilmente suoi. Se esemplifica come meglio non potrebbe categorie tipicamente fine anni ‘80/inizio ‘90 – i concetti di musica alternativa e di crossover – è anche l’unicum, la one man band, l’uno e centomila. Prometeo che ha “rubato” i suoni alienanti della musica industriale per farne un perfetto congegno commerciale. Mago dello studio di registrazione. Cantante, compositore, polistrumentista, ingegnere del suono, produttore. Creatore puntiglioso, che cura ogni dettaglio del suo mondo di suoni ma si impone il buona la seconda (al massimo) per le tracce vocali del suo esordio

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– perché le vuole così, fragili, imperfette e umane. Reznor è anche questo, un paradosso vincente. Così è anche la sua affiliazione all’industrial, molto discussa e contestata dai puristi. Su questo aspetto è bene soffermarsi, anche solo per poche righe. Limitiamoci ai primordi del genere, ai cinque punti programmatici dei Throbbing Gristle indicati nell’Industrial Culture Handbook (citati in Industrial [r]evolution di Giovanni Rossi, che a Reznor ha dedicato anche un’appassionata monografia): «autonomia organizzativa nella promozione della propria musica […]», l’abbiamo; «lo shock come modalità espressiva privilegiata […]» idem; «impiego massivo di elementi mediali diversi, come video e foto», naturalmente c’è; manca, almeno fino a Year Zero, il discorso sull’«accesso all’informazione come fonte di potere, anni prima di Internet». Rimane il quinto punto, la «destrutturazione del concetto classico» di musica. Reznor destruttura il suono, sperimenta con la forma canzone, non nega la musicalità. Non siamo agli antipodi ma è qui, se vogliamo, la divergenza dall’industrial della prima ora. L’altra, ovviamente, riguarda il canto. A differenza di Genesis P-Orridge che orientava le proprie scelte «tra lo spoken word e il canto atonale, sgraziato e disturbato» (sempre Industrial [r]evolution), Trent rispolvera il canto melodico in una gamma di sfumature vocali che va dal bisbiglio all’urlo disperato, immedesimandosi in testi introspettivi di ispirazione autobiografica, in cui è il suo Io lirico a dominare. Per il resto, l’autonomia artistica è stato uno dei suoi punti fermi dai tempi della diatriba con la TVT, che lo ha portato a svincolarsi dalle ottiche del rapporto tra musicista e produttore, ma anche tra produttore e discografico, finendo per assumere in sé tutte queste figure. La multimedialità è un aspetto che ha sperimentato dagli albori della sua carriera, con video dai contenuti forti, poi con le attività interattive sul web, dal download dei dischi, ai remix dei fan, all’Alternative Reality Game di Year Zero. Reznor ha portato queste istanze della prima musica industriale in un contesto mainstream: è il suo più grande merito o la sua più grande pecca, a seconda dei punti di vista. Non si può negare però che l’operazione sia stata un successo artistico e commerciale. Ai tempi dei primi lavori dei Nine Inch Nails, prosperava la cultura cyberpunk; il legame potrà apparire superficiale, ma nel campo della musica Reznor incarna proprio il neuromante di Gibson, com’è stato descritto da Norman Spinrad: «un mago contemporaneo […] la cui magia consiste nell’interfacciare direttamente il proprio sistema nervoso con il sistema nervoso elet-

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tronico della sfera dei computer, manipolandolo (e vendendone manipolato) in modo simile a quello in cui gli sciamani tradizionali interagivano con regni mitici più classici attraverso droghe o stati di trance» (dalla prefazione a William Gibson, Neuromante, Oscar Mondadori). Oltre al sistema nervoso, Reznor ha scoperto un altro elemento della machine music: il cuore. Superomista o umano, troppo umano, Reznor si è sempre mosso sul crinale tra emozione e artificio, tra meccanica e anima. Espressione del clima di malessere della generazione X, il Nostro è stato un personaggio spesso sopra le righe, un Mr. Self Destruct che ha flirtato pericolosamente con i suoi demoni fino quasi a soccombervi nella vita vera. Demoni che ha esorcizzato, però, per molti suoi ascoltatori. Testardo, maniacale, puntiglioso, il suo scopo è sempre e solo stato creare la musica che aveva in mente, musica di impatto – fisico, cerebrale, emotivo. Ha creato una tendenza, ha creato una star (Marilyn Manson), ha creato frotte di imitatori (e se per questi ultimi non è colpevole, per MM una mano sulla coscienza se la dovrebbe mettere…). Sperimentatore pop, è l’uomo che ha “sdoganato” a modo suo synth, campionatori e computer presso un’ampia fascia di appassionati di rock. Un paradosso? Una contraddizione? Comunque qualcosa di molto umano che ha segnato il panorama musicale degli ultimi venticinque anni. M ercer, Pennsylvani a

Nel maggio del 2006 il più celebre ex allievo della Mercer High School vi ha fatto ritorno una sera soltanto, per una cerimonia. Il rocker maledetto è stato ammesso con tutti gli onori nella Distinguished Hall of Fame dell’istituto, insieme a un politico e a un’imprenditrice. L’ex preside Hendley Hoge, che è stato il suo vecchio insegnante di musica e il direttore della banda cittadina, è molto orgoglioso di lui e lo ricorda come un precoce talento già ai tempi della scuola. Di tutt’altro avviso il giornale locale, lo Sharon Herald, che ha criticato la scelta di premiare l’autore di dischi controversi e dai temi scabrosi. Ma come si sa, e come dice il vecchio e abusato proverbio, nessuno è profeta in patria. Mercer è una small town (molto small) di duemila abitanti nel cuore… del nulla, a 70 chilometri da Pittsburgh. «Sono cresciuto in un paesino in mezzo al niente, prima di Internet, di MTV e delle radio dei college. Fino a sedici, diciassette anni il mio input sono state le radio FM e la musica mainstream». Nonostante il figlio “degenere”, la famiglia Reznor è molto in vista in quel

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di Mercer; alla fine dell’Ottocento il bisnonno di Trent, George Reznor, inventò un nuovo calorifero a gas e fondò la Reznor Manufacturing, che produce tuttora impianti di riscaldamento, climatizzatori e condizionatori. L’azienda non è più di famiglia dagli anni ‘60, quando fu venduta a una grossa corporation, ma la dinastia dei Reznor continua in tutt’altro campo con un premio Oscar. C’è di che essere ugualmente orgogliosi, anche se non tutti da quelle parti la pensano così. Mercer non offriva grandi opportunità di scoprire musica alternativa ai top 40, ma non si può dire che intorno a Michael Trent Reznor, nato il 17 maggio 1965, la musica mancasse. Michael Senior, di professione designer d’interni, oltre a essere un ex rocker e un discreto musicista bluegrass, gestiva un piccolo negozio di strumenti. Da bambino Trent prende lezioni di pianoforte. La sua insegnante, Rita Beglin, si accorge subito che è dotato di un talento naturale. Michael e Nancy Reznor divorziano poco dopo l’arrivo della loro secondogenita, Tera, nata nel 1971. Trent viene affidato ai nonni materni, mentre la sorellina rimane con la madre. Per quanto Trent rimanga in ottimi rapporti con suo padre, che tra l’altro gli ha trasmesso la passione per il rock portandolo ai primi concerti (e, a quanto si racconta, facendogli fumare il primo spinello), la separazione dei genitori getta un’ombra sulla sua infanzia, influenzandone il carattere schivo e solitario. A scuola dimostra già il suo talento artistico. È il protagonista dell’allestimento scolastico di The Music Man, recita e canta nel ruolo di Giuda in Jesus Christ Superstar, suona la tuba e il sassofono nella banda e in complessi jazz e la sua insegnante gli prospetta la possibilità di diventare un pianista classico, un vero professionista. Lo studio della musica classica però non lo attrae quanto la prospettiva di suonare rock. Le materie che più lo interessano e per cui si sente portato sono la matematica e l’informatica, che cerca di applicare alla musica interessandosi alla nuova cultura dei sintetizzatori. Dopo un piano elettrico acquistatogli dal padre, che gli insegna anche i primi rudimenti di chitarra e gli lascia usare il retro del negozio come sala prove, acquista un Mini Moog per suonare cover dei Cars e altri gruppi di pop elettronico, la sua maggiore influenza musicale degli anni dall’adolescenza insieme ai Kiss e a The Wall dei Pink Floyd. Ottenuto il diploma nel 1983, Trent studia per un anno ingegneria informatica all’Allegheny College di Meadville, pensando di dedicarsi in futuro al design di sintetizzatori. In questo periodo milita brevemente negli Option 30, un complesso new wave. Dopo aver

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lasciato il college, trascorre una sorta di anno sabbatico, vivendo insieme al padre e suonando in cover band. Quindi decide di trasferirsi a Cleveland e tentare con convinzione la carriera di musicista. Cleveland, Oh io

Per riuscire a sfondare nel mondo della musica, a metà anni ‘80 Trent Reznor si trasferisce a Cleveland insieme all’amico Chris Vrenna. La città dell’Ohio ha una scena piuttosto vivace e molto più da offrire, in termini di negozi di dischi, locali e radio, di quanto non potesse avere un paesino come Mercer. Comincia una girandola di band, che porta Trent a registrare prima un disco con i The Innocent (un tremendo gruppo AOR), poi in una cover band, gli Urge con cui passa da ZZ Top, Van Halen e Journey a Eyes Without a Face di Billy Idol, e poi negli Exotic Birds, guidati da Andy Kubiszewski e abbastanza quotati nella scena cittadina. L’esperienza con gli Exotic Birds, considerati il miglior complesso synth pop dance di Cleveland, è di gran lunga la più significativa; quando Paul Schrader gira a Cleveland il film La luce del giorno, un dramma familiare ispirato al mondo delle band di provincia, Trent è tra i musicisti locali chiamati a fare da comparse. Appare in una breve scena come tastierista dei The Problems, un gruppo fittizio di “rock concettuale” alla prese con una cover di True Love Ways di Buddy Holly. Dopo gli Exotic Birds e le sporadiche collaborazioni con Lucky Pierre e Hot Tin Roof, Trent collabora con Martin Atkins, batterista dei PIL, e con gli Slam Bamboo, improbabili epigoni dei new romantics stile Duran Duran e Spandau Ballet. Ci rimane giusto il tempo di incidere un singolo e di partecipare a un programma televisivo: un Reznor defilato e nerovestito, seminascosto alle tastiere in mezzo a un tripudio di stu-stu-stu-studio line, mise da giovani yuppie e acconciature improbabili; il tutto, rigorosamente, in playback. Ma che cosa non si faccia per campare di musica, il nostro Trent lo deve ancora scoprire in tutte le sue sfaccettatture; gli mancava per esempio, il pulire i bagni dei Right Track Studios, dove è assunto come inserviente tuttofare. Il lavoro allo studio e, prima ancora, l’esperienza come commesso in un negozio di strumenti elettronici, sono più importanti di tutte le effimere esperienze nei complessi di Cleveland. Da PI Keyboards Trent impara a conoscere tutte le novità nel campo degli strumenti elettronici, mentre l’impiego ai Right Track è semplicemente la mossa più azzeccata di tutta la sua vita: oltre a

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imparare le basi del sound engineering lavorando sui dischi altrui e a togliere peli pubici di musicisti dalla tazza del water, la notte, d’accordo con il proprietario Bart Koster, ha libero accesso agli studi per registrare il suo materiale che sta cominciando a prendere forma. O ne Man Band

La prima composizione originale di Trent Reznor – che sarà anche il primo singolo dei Nine Inch Nails – Down In It, è ricalcata su Dig It degli Skinny Puppy. La somiglianza è talmente smaccata che lo stesso Reznor ha sempre ammesso senza remore il debito nei confronti dei canadesi. Gli Skinny Puppy sono tra i padri di un nuovo genere musicale, che unisce l’industrial di seconda generazione, meno oltranzista e più contaminato, con ritmi funky ed elettronici, l’electronic body music (la vigorosa musica sintetica, antenata della techno, di formazioni europee come DAF e Front 242), il rock e la dance. La Metal Dance degli australiani SPK, prime movers della scena industrial internazionale convertiti al nuovo verbo, e singoli come Headhunter dei belgi Front 242, sono tra i capisaldi di questo nuovo stile, ma è soprattutto in America con album come The Land of Rape and Honey dei Ministry (con un po’ di thrash metal nella miscela) e Mind: The Perpetual Intercourse degli Skinny Puppy che si afferma il filone definito più tardi – in modo un po’ discutibile, se vogliamo – come industrial metal. Trent Reznor segue la stessa scia: unire il rumore a ritmi ballabili e le chitarre distorte alle tastiere elettroniche. Il demo di tre canzoni – Down In It, Twist (una versione embrionale di Ringfinger) e Head Like A Hole – che Reznor incide come Crown of Thorns vale l’attenzione di diverse case discografiche. Tra le più interessate c’è la Nettwerk, che ha appena messo sotto contratto Skinny Puppy e Front 242 e per questo non ha fondi. In attesa di poterlo ingaggiare, l’etichetta canadese gli propone uno slot di date come apertura degli Skinny Puppy. Trent accetta, ma sa benissimo di non essere pronto a replicare il materiale che ha scritto dal vivo e con un vero gruppo. Infatti i concerti – lui canta e suona la chitarra, Chris Vrenna si occupa di tastiere e programmazione e Ron Musarra suona la batteria – sono un vero disastro. Da Crown of Thorns il progetto ha cambiato nome in Nine Inch Nails, l’unica ragione sociale ad aver passato il “test delle due settimane” (vuol dire che era ancora sopportabile dopo averla adottato per quattordici giorni). Nel novembre 1988, di ritorno dal fallimentare tour di spalla agli Skinny Puppy, Trent registra nove

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canzoni ai Right Track Studios, pubblicate su diversi bootleg (con titoli come Purest Feeling e Pretty Hate Machine Sessions), per la maggior parte provini di quelli che saranno i brani dell’esordio. Due mesi dopo, Reznor, assistito dal manager John Malm, firma un contratto con la TVT, un’etichetta di New York fin lì specializzata in colonne sonore di serie TV. D own In It

Nel maggio 1989 cominciano le registrazioni vere e proprie. Dai bootleg si può ascoltare come le canzoni fossero già finite a livello di strutture e melodie, ma non gli arrangiamenti, ancora in fase embrionale. L’impostazione di base non cambia: Trent Reznor lavora senza un gruppo di musicisti e senza session men, passa ore ai Ritgh Track e a casa ha allestito un piccolo studio con un Mac, un sequencer e un campionatore E-Max. Preziosa è l’assistenza dell’amico Chris Vrenna a partire dalla scelta delle fonti sonore da campionare. Dal punto di vista strumentale, l’ossatura dei brani è costruita con suoni programmati, loop e campionamenti presi da brani musicali e film. L’album è il risultato di questo lavoro compositivo preliminare e dell’apporto di ben quattro produttori diversi, oltre allo stesso Reznor deus ex machina: si tratta di Flood, Adrian Sherwood, John Fryer e Keith Leblanc. Reznor avrebbe voluto lavorare solamente con Flood, ma quest’ultimo è troppo impegnato su Violator dei Depeche Mode e si limita a produrre due pezzi. Il lavoro con Sherwood per Down In It e quello con John Fyer non soddisfano Trent, rendendo necessario l’intervento di Keith Leblanc. Anche il mixaggio è un processo durissimo che assorbe il nostro ventiquattro ore su ventiquattro; Reznor crea ponti sonori tra un brano e l’altro per amalgamarli meglio; le canzoni hanno infatti una forte individualità, anche se la seconda parte dell’album è più omogenea a livello di suoni e di tipo di canzoni. Il disco parte con i due pezzi prodotti da Flood. Head Like a Hole è il brano più rock, ma di un rock meccanizzato e ammantato di ferocia cibernetica: inizia con le mitragliate sconnesse della batteria elettronica, si assesta sul ritmo sincopato da slam dance delle strofe con il riff di basso sintetico e le percussioni industriali, e diventa metal ballabile con il ritornello, urlato su uno sbar-

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ramento di chitarre al vetriolo. Lo staccato feroce e all’unisono di chitarra e batteria, preceduto da suoni percussivi tra Depeche Mode e Einstürzende Neubauten, marchia a fuoco le strofe di Terrible Lie, sorta di blues stravolto dell’era cyberpunk in cui Trent si rivolge al Creatore incalzandolo, esigendo scuse, implorandolo. Prodotta da Adrian Sherwood, la versione di Down In It è in pratica un trip-hop in versione industriale, un paio d’anni prima che il termine diventi di dominio pubblico; le strofe sono a tempo di rap, caso unico in un disco che fa del canto melodico il suo elemento di distinzione dall’industrial propriamente detto, e allo stesso tempo la pillola per indorare le sonorità di quella scuola e renderle fruibili al pubblico del rock e della dance alternativi. Pretty Hate Machine è il disco pop dell’epoca cyberpunk, come un corpo fatto di ossature e cartilagini elettroniche con un cuore rappresentato dalla voce. La vocalità aspra e volutamente imperfetta al confronto dei suoni sintetici, ma anche l’uso tutt’altro che leccato o perfettino della componente elettronica, esprimono l’idea di resistenza umana all’avanzata inesorabile delle macchine e creano un cortocircuito di senso in cui si specchia l’intera estetica dei Nine Inch Nails, spiegando la loro modernità e il loro impatto

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sul pubblico. Forse era davvero un grande cantante quello che mancava alla musica industriale per uscire dai ghetti settoriali: certo, Something I Can Never Have è la canzone sentimentale che i Throbbing Gristle non hanno mai scritto (se non per farne la parodia in United). Situata a metà disco dopo la più funky Sanctified, tutta arpionata dal suo singhiozzante giro di basso in slap, Something I Can Never Have sembra fermare il tempo all’improvviso: il ritmo è pacato e rarefatto, frasi di pianoforte e un pedale lontano di basso come sfondo per un Trent in versione crooner. Non mancano i contrappunti industriali come soffi pneumatici e colpi metallici sul ritornello, ma è facile intuire come nessuna band del genere avesse scritto un pezzo così melodicamente malinconico. I brani successivi, da Kind I Want To a Ringfinger, sono più danzerecci e synth-pop oriented, vicini a una versione più velenosa e muscolare dei Depeche Mode o a un EBM votata al pop – come in Sin. Con le sue melodie emotive e insidiose e i ritmi ballabili, il Prince della musica industriale ha creato il disco perfetto per la generazione crossover, come spiegato da Daphne Carr nella sua monografia: «Anche se il suo contesto originario era quello della dance, l’album è stato ascoltato e adottato da appassionati di metal, industrial, rock, punk, musica underground e college rock, un pubblico eterogeneo che più tardi si sarebbe fuso sotto la categoria “alternative” nel momento della partecipazione dei Nine Inch Nails al Lollapalooza». Quella di Trent Reznor non era musica per le masse, ma è uscita nel momento giusto per diventarlo. A ffilato come un R eznor

«Il tuo disco è un aborto» tuona Steve Gottlieb. Il patron della TVT pensava di avere in mano un album pop di successo ed è convinto che Trent abbia rovinato le canzoni. Secondo i suoi pronostici, il disco fatto in questo modo (c’è giusto il tempo di sistemare alcuni mix) non sarebbe andato oltre le 20.000 copie. Nel giro di un anno Pretty Hate Machine ne venderà 150.000. Quanto al rapporto con l’etichetta, siamo soltanto all’inizio. Il 15 ottobre 1989 esce il singolo di Down In It, Halo 1 secondo la numerazione progressiva d’ora in poi comune a tutto il catalogo dei Nine Inch Nails. Un mese e cinque giorni dopo, Pretty Hate Machine (Halo 2) fa la sua comparsa nei negozi. Smentendo le profezie di sventura di Gottlieb, le vendite non sono stellari ma costanti, e pur non spingendosi mai oltre il numero 70, il debutto di Trent Reznor rimane per quasi due anni nei primi 200 posti della clas-

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sifica di Billboard. Per il tour, Trent sceglie i suoi collaboratori stabili: Richard Patrick alle chitarre, Chris Vrenna alla batteria e alle tastiere, Gary Talpas – il grafico che aveva curato l’artwork di Pretty Hate Machine - alle tastiere, optando per un mix tra strumenti suonati dal vivo, nastri preregistrati e campionatori. Più avanti alle tastiere subentra l’ex Exotic Birds Nick Rushe (poi sostituito da David Haymes), lasciando Vrenna libero di dedicarsi soltanto alla batteria live. Il suono sul palco dei Nine Inch Nails devia verso sonorità molto più dirette e aggressive, ma sono soprattutto le performance a diventare sempre più violente, tra aggressioni fisiche alla strumentazione, ai musicisti e persino al pubblico. Trent libera l’animale da palcoscenico che è in lui, e l’intensità delle esibizioni è tale da eclissare facilmente headliner come Peter Murphy e Jesus And Mary Chain. Un’astrazione del suo impatto live si può vedere nel video di Head Like A Hole, pubblicata nel marzo del 1990 come secondo singolo estratto dall’album, seguita qualche mese più tardi da Sin (con un video censurato e mai trasmesso in tv). Nel 1991 la partecipazione al Lollapalooza è un passo decisivo per l’affermazione su larga scala dei Nine Inch Nails, capaci, grazie proprio alla potenza dei concerti, di conquistare il pubblico rock e di entrare a pieno diritto nella crema della musica alternativa americana. Vrenna intanto ha lasciato la band per screzi con Reznor, rimpiazzato alla batteria da Jeff Ward. Le date in Europa sono meno soddisfacenti e Trent ha modo – chi l’avrebbe mai detto – di litigare con la stampa inglese… E lui, che non ha peli sulla lingua, non si fa scrupolo di rispondere per le rime. I ’ d Rather Di e T han G i ve You C ontro l

I problemi veri non arrivano dalla stampa, ma dalla casa discografica con cui è sotto contratto. Reznor ha all’attivo diverse collaborazioni esterne ai Nine Inch Nails; una di queste riguarda un progetto di Al Jourgensen, 1000 Homo DJs, per cui canta in una cover di Supernaut dei Black Sabbath. La TVT si rifiuta di firmare una liberatoria per il disco alla Wax Trax! Da lì al reciproco ostruzionismo il passo è breve, e in un attimo siamo alla guerra aperta. La casa discografica vuole spremere la sua gallina dalle uova d’oro e lo sollecita a entrare in studio per realizzare il seguito di Pretty Hate Machine, ma Reznor non ci sta, non vuole piegarsi alle direttive di Gottlieb, che dal canto suo non ha nessun interesse a ridiscutere il contratto. La situazione di impasse

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sta diventando drammatica e si risolve soltanto grazie al provvidenziale interessamento della Interscope. La casa discografica fondata da Jimmy Iovine accetta non solo di scritturare Trent Reznor concedendogli la totale libertà artistica, ma gli propone una joint venture per la pubblicazione dei dischi e, soprattutto, rileva il contratto dalla TVT, a cui corrisponderà parte dei diritti sulle vendite fino alla scadenza dell’accordo. La soluzione Interscope si rivelerà alla fine vantaggiosa per tutti. Mentre la TVT ha il denaro necessario per acquisire il catalogo della Wax Trax, Reznor ottiene la liberta che cercava e la Interscope un musicista di talento su cui puntare. Dopo la firma dell’accordo nel 1992, nei dischi successivi dei Nine Inch Nails compariranno tre marchi: TVT, Interscope, e Nothing, la nuova etichetta fondata da Trent Reznor e dal suo manager John Malm. La Nothing lavora nei budget stabiliti dalla Interscope, ma in piena autonomia creativa, e può anche mettere sotto contratto altri artisti. In un colpo solo Trent ottiene la libertà artistica e una propria etichetta indipendente, con cui pubblicherà vecchi amici del giro di Cleveland ma anche band prestigiose, dai The The agli Einstürzende Neubauten, Pop Will Eat Itself e Meat Beat Manifesto, e distribuirà artisti della Warp come Autechre e Squarepusher. Anche se il nome più celebre legato all’etichetta sarà quello di Marilyn Manson. St ill C annot Fi x Thi s Broken M achine

Nel 1992 Trent Reznor può finalmente incidere le canzoni a cui stava lavorando in segreto. Il risultato, Broken, è un mini album dalle sonorità molto più pesanti di Pretty Hate Machine, più vicine all’impatto live della band e fomentate dalle tensioni degli ultimi mesi. La chitarra distorta, di cui il primo LP faceva un uso decisamente modico, diventa protagonista. Non è un suono naturale, perché le parti sono decostruite come al solito in loop, lo strumento è filtrato pesantemente con il pedale Zoom 2030 e processato al computer con il software Turbosynth, ma la stratificazione e la pesantezza del sound è tale da creare sonorità potentissime che non temono il confronto con un qualsiasi disco heavy metal. I ritmi sono decisamente più squadrati, un 4/4 che, quando non adotta metronomie da infarto come in Wish, è scandito con la mano pesante di una Happiness in Slavery. Per Wish (Grammy Award nel 1993 come Best Metal Performance) e Gave Up si possono azzardare termini come cyber thrash e affini, e il riff monstre di chitarra è la prima cosa che colpisce anche di Last. Rimangono da citare i due minacciosi strumentali, Pinion e Help

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Me I Am in Hell, e le due tracce fantasma, la numero 98 e 99 del CD: una cover di Psysical di Adam Ant e Suck, frutto della collaborazione con Martin Atkins e già in scaletta al Lollapalooza, che unisce le ritmiche funky a un riff hard blues. Per Broken Reznor pensa ad alcuni dei videoclip più disturbanti che siano mai stati concepiti, e che MTV non trasmetterà mai. In particolare, Happiness In Slavery, che ha per protagonista il performer estremo Bill Flanagan torturato da una macchina, e il film girato dall’ex Throbbing Gristle Peter Cristopherson, sono sconsigliati ai deboli cuore e di stomaco. A pochi mesi di distanza dall’uscita di Broken, esce Fixed, un disco di remix a cura di Foetus, Coil e degli stessi Reznor e Vrenna. Già da qualche qualche mese Trent si è stabilito a Los Angeles, dove sta registrando il suo secondo full length. 1 0 0 5 0 C ielo Dri ve

Sembrava soltanto una bellissima villa sulla montagne di Santa Monica. Reznor l’aveva affittata ignorando che fosse la casa di Roman Polanski, proprio quella dove Sharon Tate era stata uccisa nel 1969. In quella magione isolata che dominava su Los Angeles, allestisce lo studio Le Pig, per registrare quello che la maggioranza degli appassionati considera il suo capolavoro. Insieme al fido Chris Vrenna, a Flood e ad Alan Moulder, reinventa ancora una volta il processo produttivo. In realtà torna di nuovo a scrivere partendo da sintetizzatore e batteria; rispetto a Pretty Hate Machine, il taglio dei nuovi pezzi è più claustrofobico e sperimentale. Se il segreto di Pretty Hate Machine era unire ritmi ballabili e melodie catchy a suoni terrificanti, il rumore rimane un elemento centrale sfruttato in modo ancora più versatile, non soltanto per la sua valenza timbrica e ritmica ma anche per quella atmosferica e strutturale di bordoni e texture. Non è in discussione la forma canzone, che si sviluppa in strutture più aperte e progressive: è il caso, per esempio, di The Becoming o Eraser, o di Ruiner, che si concede qualche apertura all’hip-hop come la vecchia Down In It. Più che al progressive in senso lato, l’ispirazione per The Downward Spiral guarda al Bowie del periodo berlinese e al Roger Waters di The Wall. L’insolito strumentale A Warm Place ha un motivo simile a Crystal Japan di Bowie, inserito tra note lunghe e drone ambientali che fanno pensare ai This Mortal Coil ma anche all’Angelo Badalamenti di Twin Peaks. Il secondo LP dei Nine Inch Nails contiene alcuni dei pezzi più acclamati del loro repertorio. Mr. Self Destruct sfida Foetus sulla

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via dell’inventiva più perversa e polimorfa, oltre che del rumore for arts sake. La blasfema Heresy ha un ritornello che suona come una voragine. March of the Pigs rovescia le consuetudini dinamiche del rock moderno: tensione assoluta nelle strofe e rilascio nel ritornello. L’assalto sonoro è anche la parte più tecnica: lo sfasamento ritmico – con le due battute del riff scandite su tempi diversi (4/4 e 7/8) a 130 bpm – è geniale e bizzarro, quanto gli stop & go che lo tagliano di netto. Closer è memorabile non solo per il ritornello (I want to fuck you like an animal) ma per tutto l’arrangiamento, compreso il ronzante finale. Da brividi il suono del macchinario campionato in Reptile e il climax costruito con chitarre acustiche e drones nella lunga introduzione, fino all’urlo agghiacciante che accompagna in sottofondo le strofe della title-track. Infine Hurt, per molti la canzone più importante del disco, sicuramente la più toccante: la costruzione ricorda quella di Something I Can Never Have, tra gli arpeggi di chitarra classica, le note discendenti di pianoforte, i drones sullo sfondo e rumori – simili a suoni di ottoni – che mettono i puntini sul ritornello. Se la linea di demarcazione tra musica suonata e loop si fa sempre più labile per il genio dell’autore, l’alienazione è il sentimento dominante di un contesto in cui l’uomo annaspa in balia delle macchine ma anche la macchina implora di essere distrutta (Eraser) e con lei il demiurgo che l’ha costruita e ha trasformato se stesso

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in macchina per fare musica. Rispetto ai diari personali di Pretty Hate Machine i testi scavano ancora più in profondità. La spirale discendente evocata dal titolo è quella della perdita di sé, della tossicodipendenza e del suicidio, ma i toni dell’io testuale vanno dai deliri di onnipotenza al superomismo nietzschiano, fino all’autodenigrazione che si unisce allo spleen cosmico di Reptile e Hurt. Uscito l’8 marzo 1994, The Downward Spiral è il disco che porta i suoni postindustriali nei piani alti delle classifiche, debuttando direttamente al secondo posto. I Nine Inch Nails diventano i Nirvana della musica elettronica. Le similitudini tra Kurt Cobain e Trent Reznor non sono poche: entrambi hanno preso due generi underground (rispettivamente il punk e l’industrial), li hanno contaminati e inseriti in strutture orecchiabili mostrando come il rumore e la melodia potessero compenetrarsi a vicenda e hanno ottenuto riscontri commerciali un tempo impensabili per chi veniva dal loro background musicale. I sentimenti che li animano sono molto simili, e anche le loro storie personali mostrano qualche parallelismo; entrambi vengono da anonime città, sono figli di genitori divorziati che hanno trovato nella musica una valvola di sfogo. Entrambi subiscono la pressione del successo, le critiche dei media commerciali quanto dei puristi dell’underground. Entrambi scrivono testi personali pieni di emozioni negative, rabbia, frustrazione, dolore, in cui tanti ragazzi sembrano trovare la loro catarsi. Sono gli ultimi romantici, sotto un certo punto di vista. The Downward Spiral sta a Pretty Hate Machine come In Utero a Nevermind: è l’atteso sequel di un disco di successo che reagisce al suo predecessore con suoni più ostici e scomodi. E come In Utero, tratta da vicino temi come la depressione, la paranoia, il suicidio. Reznor non è ancora arrivato alla soglia del non ritorno, o perlomeno non ancora così vicino. Al contrario, sembra che la sua carriera sia all’apice, con quella sorta di consacrazione collettiva rappresentata dal concerto di Woodstock 1994 in cui tutta la formazione dei Nine Inch Nails live (Reznor, Robin Finck, Danny Lohner, James Woolley e Chris Vrenna) si esibisce coperta di fango dando vita a uno show rimasto negli annali. F urther Down T he Spi ra l

Durante il tour di The Downward Spiral, proseguito per oltre un anno, Reznor e Charlie Clouser editano la colonna sonora di Natural Born Killers, presentata in modo molto innovativo come un collage di brani preesistenti usati nel film di Oliver Stone e dei

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dialoghi tratti dalla pellicola. Il disco contiene tre brani dei Nine Inch Nails: A Warm Place, un remix di Something I Can Never Have e l’inedita Burn. Nel 1995 anche The Downward Spiral subisce lo stesso trattamento di Broken: esce Further Down The Spiral, decisamente più originale delle classiche raccolte di remix. Oltre a Foetus e ai Coil, Trent dà carta bianca anche a Rick Rubin, Aphex Twin e Dave Ogilvie. Nel 1995 Trent ha modo di condividere il palco con David Bowie. Un incontro che ha rievocato di recente sulle pagine di Rolling Stone: «Ho incontrato Bowie in un momento non bello della mia vita. Lui si era disintossicato, io no. Mi prese sotto la sua ala protettrice e mi offrì pillole di saggezza che mi perseguitarono, in un primo momento, ma alla fine mi hanno aiutato […]. In uno dei nostri primi incontri disse “Voi ragazzi ci spazzerete letteralmente dal palco perché suoneremo musica che nessuno nel pubblico

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vuole sentire, canzoni dall’album nuovo [Outside, ndr]. Questa è la cosa che devo fare in questo momento”. Fu una frase che su di me ebbe un grosso impatto. Nel senso che ci vuole del vero coraggio per fare una cosa del genere, anche se mi sembrava un po’ stupida. All’epoca non l’avrei mai fatta. Ma allo stesso tempo pensavo fra me e me “Voglio essere il tipo di persona che non ha paura di sperimentare”». Trent non vive un momento felice, il tour lo ha completamente esaurito e pensa che la sua creatura gli si sia rivoltata contro, diventando la parodia di se stessa (e di se stesso). L’autoanalisi, come nei suoi testi, è spietata: si odia per quello che è diventato. T he F rag ile

Per cinque anni i Nine Inch Nails non pubblicano un vero nuovo album. Reznor, esausto dopo il tour, ha scelto di ritirarsi a New Orleans, dove ha costruito il proprio studio ultramoderno in un palazzo un tempo di sede di un’agenzia di pompe funebri, facendone come a Cielo Drive la sua casa e il suo luogo di lavoro. I suoi primi progetti nella nuova location sono la musica per il videogioco Quake (Trent è un patito dei videogame), la produzione di Antichrist Superstar (rampa di lancio per la carriera di Marilyn Manson), del progetto 2wo di Rob Halford dei Judas Priest e della colonna sonora di Lost Highway di David Lynch. The Perfect Drug, il brano inedito dei Nine Inch Nails presente nel disco (nel film se ne ascolta appena qualche frammento), è una prima incursione di Reznor nei territori del drum’n’bass. Nei mesi successivi lavora a un pessimo remix di Puff Daddy e, decisamente più interessante, al remix di un nuovo brano di un David Bowie a cui lo lega una reciproca stima e una forte amicizia. I Am Afraid of Americans è tuttora parte della scaletta live dei Nine Inch Nails. Sembra quasi che Reznor lavori su progetti diversi per ritardare il momento in cui dovrà creare il nuovo album dei Nine Inch Nails. Perché Trent sta perdendo pezzi, della sua band e della sua vita. Decisamente traumatica è la fine del sodalizio con Chris Vrenna, il suo braccio destro. Più fastidiosa, ma molto meno significativa, quella dell’amicizia con Manson. Brian Warner è nel pieno del proprio trip da celebrità e ha platealmente scaricato il suo mentore, che l’ha aiutato a incidere il suo disco più interessante (forse l’unico che valga la pena di essere ascoltato fino in fondo). Il problema di Trent è molto più profondo e personale: da anni la musica ha assorbito tutto il suo essere, è in crisi d’identità, la spirale gli ha lasciato dentro un buco nero, ora amplificato dalla perdita

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della persona che lo aveva cresciuto, la nonna, e dalla dipendenza da alcool, cocaina e antidepressivi. La gestazione di The Fragile è persino più faticosa di quella dei dischi precedenti. Trent riesce a venirne a capo grazie ad Alan Moulder e a Bob Ezrin, il produttore di The Wall, che lo aiuta a mettere ordine nella scaletta e dare al doppio compact disc la forma definitiva. The Fragile è una continuazione di The Downward Spiral, delle sue atmosfere più disparate e dei suoi arrangiamenti più rifiniti. Ci sono più ospiti e parti suonate, dal ritorno di Adrian Belew, che già aveva suonato in The Downward Spiral, ai cori del Buddha Boys Choir (!). Tra i crediti figurano pure Steve Albini e Dr. Dre. Ci sono architetture più pompose che il predecessore escludeva nella sua tagliente inesorabilità; le mettono in mostra l’iniziale Somewhat Damaged e i singoli The Day The World Went Away e We’re In This Together. I punti di riferimento sembrano scivolare di qualche anno indietro, dal metal e dal post-punk in chiave synth-industriale al rock anni ‘70 in veste più rumorosa e alternativa. In molti hanno sottolineato il parallelo ancora più scoperto con il The Wall dei Pink Floyd o le assonanze sempre più evidenti con il lavoro di David Bowie. Le melodie più tornite della title-track o le rotondità ritmiche di The Wretched e Even Deeper rispetto alla secchezza di una Closer, o il riff hard di No, You Don’t dicono di una forma più “classica” in questo senso. Il pianismo impressionista di La Mer (quasi alla Debussy) e la ballata atmosferica The Great Below (splendido incrocio tra A Warm Place e Something I Can Never Have) suggellano il primo disco. Il secondo, leggermente inferiore, colpisce più per le “deviazioni”, come il dance pop di Please, l’irruenza di Starfuckers Inc. e la singolarità di Underneath It All. È un’opera in cui ci si immerge come per The Downward Spiral, di cui The Fragile è il degno successore senza averne l’aura epocale. Del monumentale doppio CD esce un nuovo gemello remixato, Things Falling Apart, molto meno interessante di Fixed e Further Down the Spiral, mentre dal tour è tratto il primo disco dal vivo dei Nine Inch Nails, And All That Could Have Been. Nell’edizione doppia il live è accompagnato da Still, un disco di strumentali composti in origine per il film di Mark Romanek One Hour Photo, ma mai utilizzati. Nonostante The Fragile debutti al primo posto in classifica, le vendite dell’album cadono presto in picchiata, al punto che Trent sarà costretto a finanziarsi il tour promozionale, da cui esce ancora una volta stremato. A Londra rischia di morire

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per un’overdose accidentale di eroina. Se quello è un episodio, le costanti sono alcool, cocaina, depressione e attacchi di panico, un mix insostenibile che lo trascina in fondo a un buco nero. L’ennesima goccia che fa traboccare il vaso è l’assassinio di un suo giovane amico e aiutante, Rodney Robertson, coinvolto in una sparatoria legata al traffico di droga. Probabilmente per la prima nella sua vita, Trent Reznor si rende conto che le canzoni non bastano come terapia e intraprende un lungo periodo di cure per disintossicarsi. Una volta pulito, apre gli occhi sulla gestione dei suoi conti economici. Alla fine della lunga e dolorosa diatriba legale con il suo manager John Malm, ottiene un risarcimento di quasi 3 milioni di dollari. La causa segna però anche la fine della Nothing Records e di una lunga amicizia. Reznor cambia management e lascia New Orleans per tornare in California.

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W ill You Bite the Hand that F eeds?

Quindi lavora al successore di The Fragile, uscito a ben sei anni di distanza, uno in più di quelli che separavano il doppio CD da The Downward Spiral. With Teeth nasce da un processo di scrittura molto diverso, i brani sono stati composti e suonati al pianoforte e nelle registrazioni sono coinvolti i musicisti della band, quasi tutti volti nuovi, da Aaron North all’italiano Alessandro Cortini. Ospite d’eccezione, Dave Grohl. Con il quarto full length in sedici anni andiamo incontro alla prima parziale delusione; è un disco che non ha la capacità di incidere sul panorama musicale dei primi due lavori e manca anche dell’ambizione del terzo. Reznor sembra volersi mettere in gioco con un’elettronica più “normale” a discapito della componente industrial, che viene decisamente meno. È un lavoro molto curato, ma con suoni meno originali o che semplicemente sorprendono meno perché sono diventati familiari: il brutale drum’n’bass di You know What You Are? l’r&b pestone di Collector e Sunspots, la dance pesante di The Hand that Feeds - il primo pezzo politico dei Nine Inch Nails – o il funk rumoroso di Only. Recuperato nel fisico e nel morale, Reznor è anche molto più libero mentalmente e risoluto nelle sue idee. Abituati ad attese bibliche, cogliamo con una certa sorpresa il suo ritorno dopo soli due anni. Il concept alla base del nuovo album è un racconto di fantascienza ambientato nel futuro, con un mondo sull’orlo del collasso, una sorta di 1984 attualizzato agli scenari del dopo 11 settembre, dove un governo teocratico esercita un controllo coercitivo sulle menti dei cittadini attraverso una droga diffusa nei condotti dell’acqua. Al contrario di With Teeth, Year Zero è composto al computer e ripropone un tipo di elettronica grezza e distorta, che in parte richiama le timbriche della prima fase creativa. Siamo ben lontani dall’originalità di The Downward Spiral o The Fragile, che non significa proprio disaffezione da parte di chi lo ha sostenuto ma naturale declino artistico, accettato come tale. Oltretutto, in un mondo come quello dell’elettronica – per quanto rockeggiante – basta poco perché un innovatore possa diventare obsoleto, un relitto di un’epoca passata come gli anni ‘90, più lontani allora di quanto non lo siano oggi. E fa male pensare che questo sia Trent Reznor. Per promuovere questa sua fatica fantascientifica, Trent inventa un nuovo canale creativo, commissionando un ARG (Alternate Reality Game) che finanzia di tasca sua e lancia con un’inedita strategia di marketing virale. Per un artista attento in maniera

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maniacale alla tecnologia come è sempre stato Reznor, era impossibile non cogliere la novità di Internet ma anche capirne implicazione e problematiche. È in questo momento che, sull’esempio dei Radiohead, pur criticando alcuni aspetti della loro operazione, affida alla rete il suo lavoro con Saul Williams, The Inevitable Rise and Liberation of NiggyTardust. Intanto sperimenta con i siti ninremixes.com e remix.nin.com la possibilità di interagire creativamente con il pubblico. “Scaricato” dalla Interscope, si decide a diffondere la propria musica direttamente sul web. Così nel 2008 esce Ghosts I-IV, un album di musica strumentale, pubblicato con licenza Creative Commons in sei formati: dall’mp3 gratuito (della sola parte I) al disco in edizione limitata, al quadruplo LP. I 36 brani strumentali, firmati da Reznor e Atticus Ross, il musicista inglese che diventerà la sua spalla, sviluppano soluzioni sonore molto diverse, accomunate prevalentemente da un visionario minimalismo, e possono essere considerati la prova generale per il lavoro sulle colonne sonore. In modo analogo è distribuito anche The Slip, un disco che aggiunge poco alla storia dei Nine Inch Nails. Sembra quasi un regalo d’addio agli ammiratori. Infatti nel 2009 un comunicato sul sito ufficiale annuncia che i concerti in programma saranno gli ultimi della sua creatura. L’aria che si respira ai concerti è quella del rompete le righe. È stato bello.

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H ow To D estroy Angel s ( and Win…)

La fine (apparente) dei Nine Inch Nails non significa che Trent Reznor voglia smettere di fare musica. Già nel 2010 si delineano i contorni del nuovo progetto, chiamato How To Destroy Angels in onore dei Coil, come il titolo un loro disco del 1984. La presenza di Atticus Ross non è una novità; lo è, ma solo a livello artistico, quella di Mariqueen Maandig, l’ex cantante dei West Indian Girl che Trent ha sposato qualche mese prima. Nei due EP e nel recente album Welcome Oblivion, gli HTDA propongono musica più varia e soft dei Nine Inch Nails, da un lato una canzone elettronica più lineare, con sfumature soul e ambient, dall’altra una sorta di trip hop o trance pop, dalle strutture più circolari e atmosferiche. È il primo vero side project di Reznor a vedere la luce – cosa che non era successa ai più volte annunciati Tapeworm – e propone alcune (poche) stimolanti novità, a partire dalla voce femminile. Tuttavia, la vera grande novità del Reznor 2.0 è la carriera di compositore per il cinema che si è saputo costruire nel giro di un solo lavoro: il suo primo score cinematografico. Per Natural Born Killers e Lost Highway Trent aveva prodotto raccolte di brani di musica preesistente e registrato qualche inedito. Niente di tutto questo avviene in The Social Network di David Fincher, dove il nostro si cimenta, per la prima volta, con un commento sonoro originale. La musica di Reznor e Atticus Ross elude le scelte più classiche delle colonne sonore hollywoodiane, come l’orchestra o i motivi conduttori, ragionando a modo suo in termini di struttura e di tono emotivo e portando una ventata di novità nello stesso rapporto con le immagini. «Credo che la mia sfida come compositore sia stata scrivere dei pezzi che potessero in qualche modo attirare l’attenzione dello spettatore. Non cerco di contribuire a qualcosa. Non voglio essere di supporto al film, ai dialoghi o ad altri elementi. Spero che la mia musica sia fine a se stessa, sia solo da ascoltare. Avvolgo il set con un suono, un’atmosfera, una sensazione e lascio che l’attore si cali dentro… Lascio che sia la mia voce o un pezzo melodico a diventare il centro dell’attenzione». Le fonti d’ispirazione vanno da Walter Carlos a Vangelis ai drones ambientali di David Lynch, ma si tratta di un lavoro originale, scevro da qualsiasi cliché. Hand Covers Bruise, il motivo principale del film, è un brano in cui una melodia malinconica al pianoforte emerge da cluster di dissonanze alla Lygeti. Il brano ritorna tre volte in forma leggermente diversa. Come racconta David Fincher, Trent ha fatto una cosa interessante, cercando di

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utilizzare tre differenti sonorità prodotte al piano: una tastiera, un piano verticale e uno a coda, in diverse ambientazioni; nel film si crea una progressione narrativa usando la stessa melodia. «La nostra colonna sonora dava l’idea che sotto la superficie vi fosse tensione, vulnerabilità, e quindi cambiava tutto il tono del film», una storia di vita da college e amicizie tradite all’ombra di una delle più grandi idee di business della storia recente: l’invenzione di Facebook. Per orchestrare i pezzi, è stato usato anche uno strumento elettronico artigianale, lo swarmatron, che produce sonorità più organiche, imperfette di un normale sintetizzatore. A sorpresa, The Social Network vince il Golden Globe per la colonna sonora e il 27 febbraio 2011 arriva il premio più ambito: l’Oscar. Anche l’Academy ha riconosciuto l’originalità del contributo di Reznor e Ross, che non si fanno pregare per buttarsi anche nel nuovo progetto di Fincher, The Girl With the Dragon Tattoo (Uomini che odiano le donne). Oltre a scrivere le partiture strumentali, il team riarrangia Immigrant Song dei Led Zeppelin con la voce di Karen O; sono presenti anche gli How To Destroy Angels, con la cover di Is Your Long Strong Enough? di Brian Ferry. Lo score è più cupo e ambientale, ispirato al freddo e al ghiaccio. Nelle colonne sonore composte insieme a Ross, Trent Reznor ripropone il connubio organico/macchina tipico tipico della sua arte – soprattutto nel rapporto tra il pianoforte e i sintetizzatori – ma lo fa con nuove sfumature, rinunciando alla sua voce per cercare nuove tonalità espressive. I Nine Inch Nails sono un ricordo del passato? Niente affatto. Eccoli riemergere con un nuovo tour e un nuovo disco. Padre di famiglia, lontano dagli eccessi di una volta, capelli corti e corpo massiccio, Trent è tornato meno haunted di prima, per quanto ci voglia far credere il contrario. A un primo ascolto Hesitation Marks, uscito per Columbia, stupisce per i toni pop dei suoi brani di punta e non è molto più di uno dei tanti dischi di comeback degli ultimi anni. Ritorniamo al quesito di partenza. Reznor è ancora un innovatore? La one man band non lo è come ai tempi belli. D’altro canto, il compositore ha dimostrato di sapersi reinventare benissimo in un’arte delicata come la musica da film. Il musicista rimane un’intelligenza creativa con cui bisogna fare i conti. E il performer visto a Milano ha ancora pochi rivali. Dopo venticinque anni di carriera Trent Reznor è una presenza ancora viva, di cui ritorneremo sicuramente a discutere.

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Gli Smiths, la band pi첫 influente e meno originale degli anni Ottanta, si calano magnificamente in un contesto storico difficile, popolato da figure controverse come Margaret Thatcher o animali da classifica come i Frankie Goes To Hollywood. Qui si racconta la loro storia senza fronzoli, cercando di buttare sempre uno sguardo al presente e uno ai sentieri pericolosi dell'animo di Steven Patrick Morrissey, l'ultima popstar. Testo di Nino Ciglio

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A Mystical Time Zone pt. 1

T he rain fall s hard on a hundrum town

Coronation Street non è semplice da raggiungere. Coronation Street non è neppure quella fiction degli anni Sessanta – prodotta da Granada TV – che appassionò le casalinghe di mezza Inghilterra. È semplicemente una strada non troppo lunga, costeggiata da case basse, di un mattone rosso come quel sole che manca a queste latitudini. Si trova a Salford, nel Nord Ovest di Manchester. Non è facile spiegare a chi non è di Manchester che tipo di rapporti intercorrono fra i mancuniani residenti a destra dell’Irwell e Salford, con i suoi statuti, i suoi lunghi quartieri residenziali, le zone desolate, i capannoni industriali abbandonati e la passione per lo United. Nessuno di Salford si definirà mai di Manchester e viceversa, eppure risiedono sotto la stessa legislazione. Li divide solo un misero fiume. La donna che ci dà indicazioni quando chiediamo di poter raggiungere Coronation Street è di colore, con il velo calato sotto il mento e pochissime parole in bocca. Ci chiede di seguirla. Le luci del tramonto fanno interferenza con quelle della grande città industriale, “the rain falls hard on a hundrum town”. Arriviamo in fondo alla via dove, nella totale indifferenza e desolazione di un gennaio troppo freddo per le mire turistiche, si erge il Salford Lads Club, l’edificio che fa da sfondo alla celebre prima di copertina di The Queen Is Dead. Sì, stiamo parlando di nuovo degli Smiths, la band più influente e meno originale che gli anni Ottanta mai ricorderanno. Un tizio di nome Leslie ci vede incuriositi, si avvicina e si pro-

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pone spontaneamente di farci realizzare il tour del Club. Apre le porte della Smiths Room, la grande sala dedicata al quartetto mancuniano, che raccoglie fotografie di fan, autografi, camicie di Moz, passaggi di personaggi famosi e un arcobaleno di post-it, recanti frasi d’amore sconsiderato verso la band, desideri di seduzione, citazioni di canzoni, una fiumana colorata di venerazione e fedeltà. Questo è quello che più colpisce degli Smiths. Quanti gruppi al mondo possono contare su questo tipo di devozione, questa silenziosa e continua eucarestia, che porta anno dopo anno i fan a visitare i luoghi – anche quelli ipotizzati –, come si fa con i grandi poeti dell’Ottocento? Quante band – nell’arco ridotto di cinque anni e quattro LP – hanno rivoluzionato così dal profondo l’idea stessa di pop-band, la musica, certo, ma anche le sfumature estetiche, lo stile, la moda, le passioni, i gusti poetici di tutte le generazioni a venire, in qualsiasi angolo del globo? E si sa che il lettore malizioso sta già pensando ai baronetti di Liverpool, ma – con un piccolo sforzo – chiunque si accorgerebbe che non è lo stesso sfondo, che non è lo stesso pane, che “nel 1983, l’unica cosa che conta, è essere belli”.

W ho put the M i n Manchester?

Nel 2005 la Manchester Evening News Arena è una bolgia. Il figliol prodigo è tornato. L’uomo che ha odiato e amato la città e l’ha portata al culmine della popolarità, è di nuovo in città. Il suo più celebre cittadino, scappato già nel 1984 a Londra, era poi rimasto esule prima in California (nella villa che Clark Gable aveva regalato a Carole Lombard), poi nella “tranquilla Roma”, a Trastevere, che l’avrebbe riconciliato con il neorealismo cinematografico, con idoli di una vita come Anna Magnani o Pier Paolo Pasolini. Durante lo show alla MEN si concede in una scaletta parzialmente ruffiana, cambia d’abito tre volte, lancia camicie a un pubblico in visibilio, rispolvera pochi brani della sua carriera da Smiths. Certo, le invasioni di palco (diventate ormai punto cardine e indispensabile) sono molto più controllate, ma ciò non impedisce al re dei bassifondi di esclamare un memorabile: “Oh Manchester, please don’t forget me”. Manchester non è una città indispensabile. La sua architettura è al limite dell’osceno. Gli scempi compiuti negli anni dell’espansione urbanistica hanno visto una parziale riqualificazione negli ultimi anni. Nella politica ingegneristica e edile della città, campeggia una sola parola d’ordine: riconversione. Ovunque ti giri, gli

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edifici d’imitazione neoclassica, greca o latina, neogotica o vittoriana hanno nuovi usi. Che si tratti di locali, di centri commerciali o semplicemente di abitazioni. Ma sembra persistere il medesimo problema di sempre: poco fuori, un’umanità dissestata si aggira in un’uniformità sconcertante, fra case basse dai mattoni rossi erette dall’edilizia popolare degli anni Sessanta. E’ la lower-middleclass delle periferie, spesso animata da un senso di appartenenza (quello nordico, s’intende) che si porta dietro dai secoli dell’Impero. Quello stesso Impero che, con la sua disfatta, ha fornito nuovi migranti, che si sono aggiunti a quelli di origine irlandese di inizio Novecento. Il tutto ha creato un mosaico imperfetto di decadenza e meraviglia, che scuote i cuori degli animi inquieti e sensibili. E quale miglior animo inquieto e sensibile di quello di un giovane, Steven Patrick Morrissey, figlio di genitori irlandesi irish blood, english heart. Un animo che ha reso la sua timidezza, un’elegante arma da taglio, da scagliare contro le idiosincrasie di un tempo imperfetto, fatto di Hit manie, di dancefloor e di ecstasy, di sesso, bugie ed efferati delitti. Fatto di “wake-me-up-before-you-go-

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go”, di kajagoogoo, di Reagan e del suo fondo tinta, di Bob Marley e delle sue lotte contro i mulini a vento, dei Duran Duran e delle guerre atomiche, di Lady D, ma soprattutto di lei, l’Iron Lady, ladies and gentlemen, Mrs. Margaret Thatcher. Morrissey, dal canto suo, – come il suo alter ego del Diciannovesimo secolo, Oscar Wilde -, incarna l’archetipo della popstar. Anzi, è l’ultimo baluardo di una sanissima fusione fra popolare e colto; è la mente che è riuscita a rendere il pop una cosa per letterati; è la star sulla cui vita privata si sa pochissimo, pur essendo sempre sulla bocca di tutti; è, come ogni dandy che si rispetti, l’incarnazione romantica di una vita per l’arte e dell’arte per la vita. Non gli si può chiedere di separare i due campi. Lui è la sua arte, la sua poesia e i fan lo sanno; è il figlio e l’erede di nulla in particolare, anche se poi questo nulla l’ha reso padre del britpop e, stando ad NME (tra l’altro, suo dichiarato nemico), l’artista più influente di tutti i tempi. In altre parole, per citare il titolo della migliore biografia morrisseyana, Moz è a tutti gli effetti l’ultima popstar. Già si annusava da tempo che la sua città di nascita fosse una città speciale. Negli anni Sessanta era la capitale ante litteram del clubbing, con i suoi locali R’n’B, i suoi Dj che passavano soul americano, il Twisted Wheel che nel 1963 era il cuore della scena Northern Soul. Naturalmente fu una rapida ascesa che passò attraverso i The Hollied di Graham Nash, i Bee Gees, gli Herman’s Hermits e Wayne Fontana nei Sixties. Poi, se si eccettua il pop da classifica che regalarono i singoli dei 10cc, gli anni Settanta rappresentarono il digiuno della musica mancuniana. Da lì in poi sarà solo party hard, 24 Party People, come reciterà il titolo del film di Winterbottom. Tutto questo per spianare la strada a due loschi figuri che di nome fanno Howard Trafford e Pete McNeish che, ammaliati dai Velvet Underground d’oltremanica, cambiarono i cognomi rispettivamente in Devoto e Shelley e partorirono i Buzzcocks. La prima opera di bene del primo gruppo punk di Manchester fu quella di volare a Londra, incontrare Malcolm McLaren e tornarsene indietro con i Sex Pistols, che nel frattempo stavano mettendo a fuoco la capitale. Così, il 4 giugno 1976, al Free Trade Hall di Manchester, l’ex palazzo del Commercio (abbiamo già parlato di riconversione, vero?), si tenne il primo concerto dei Sex Pistols in città. Pubblico: 42 persone, fra cui Peter Hook, Devoto, Shelley e Paul Morley, mente giornalistica e futuro Art Of Noise. Al concerto seguente, il 20 luglio, le persone furono leggermente di più, ma tutte destinate a lasciare in qualche modo una traccia indelebile nella storia del

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rock. Fra queste, soprattutto Tony Wilson di Granada TV e futuro fondatore con Rob Gretton della Factory (Joy Division, New Order, Happy Mondays) e dell’Hacienda. Non passa inosservato nemmeno Mick Hucknall, leader dei Simply Red, con la sua chioma fiammante. Ma quel che conta è che, nonostante molti abbiano reclamato la propria presenza a una delle due serate che cambiarono per sempre il rock, Steven Patrick Morrissey fosse lì presente, da buon diciassettenne curioso e istruito, non tanto per i Pistols, quanto perché sapeva che Malcolm McLaren era stato manager delle New York Dolls per un po’. Questo è il personaggio. Figlio dei 200.000 irlandesi immigrati nel Nord dell’Inghilterra e di quell’integrazione mancata che fece intitolare l’autobiografia di un altro irish blood – Johnny Lydon - “No Irish, No Blacks, No Dogs”, Morrissey nasce il 22 maggio 1959 a Stretford, al 384 di King’s Road. Domanda: “Qual è il momento in cui sei stato più felice?”. Risposta: “il 21 maggio 1959”. Bum. La madre, Elisabeth Dweyer, bibliotecaria, avrà un ruolo fondamentale nella sua vita. Ecco, a mo’ di lista, solo alcune citazioni riguardanti la figura materna, vista o come idilliaca o come asfissiante: Rubber Ring: “Oh, soffocami, madre…”; Shakespeare’s Sister: “No Mamma, lasciami andare!”; I Nnow It’s Over: “Oh Madre, sento la terra che mi cade sulla testa”. Il padre, talento mancato del Manchester United, è un semplice operaio. “Ho avuto un’infanzia abbastanza felice fino a sei o sette anni, dopo di che la vita è stata orrenda”: questo perché i suoi smettono di andare d’accordo e “se, da bambino, ti ritrovi in un ambiente in cui i tuoi genitori non vanno d’accordo, inizi a credere che questo sia un microcosmo del resto del mondo, che la vita sia fatta così”. Così, il piccolo Steven si chiude nel suo mondo di plastica, fatto delle sue passioni più profonde: i libri e la musica. A sei anni, infatti, compra Come And Stay With Me di Marianne Faithfull, che è solo l’inizio della sua insana passione per la musica cantata, possibilmente al femminile: Francoise Hardy, Dusty Springfield, Twinkle, Cilla Black e, in particolare, Sandie Shaw. Si appassiona ai gruppi femminili degli anni Cinquanta, prima, al glam rock, dopo il 1972: prima Bowie, poi i T. Rex di Marc Bolan, che suonano quello stesso anno al Bellevue Theatre di Manchester, il primo concerto a cui assiste il piccolo Moz. Cresce in lui uno spirito critico, che lo porta a voler comunicare scoperte e contenuti con tutti: dopo il concerto dei Pistols alla Free Trade Hall scrive al New Musical Express e a Melody Maker una recensione in forma di lettera; quando scopre che Tony Wilson terrà un programma

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musicale a Granada TV, Steven è entusiasta, impacchetta un disco delle New York Dolls e lo spedisce per posta agli studi televisivi: “Caro Wilson, ho sentito del suo show. È una notizia fantastica. Per favore potremmo avere musica di questo tipo?”. La fine degli anni Settanta è il periodo più delicato. Peter lascia Betty e la casa di Stretford, Steven è costretto a iscriversi alle liste di disoccupazione (i famosi dole), affinché gli venga proposto un impiego qualunque. È l’inizio di un difficile rapporto con il mondo del lavoro, che avrà in Morrissey un ostinato oppositore: se appartieni alla working class e non svolgi un lavoro manifatturiero o comunque esecutivo, sei considerato a tutti gli effetti un outsider, un buono a nulla o, nel peggiore dei casi, un effeminato. Così doveva sentirsi Steven, appassionato d’arte e di letteratura, costretto ora a lavorare al Civil Service, ora all’Inland Revenue per poche sterline, tralasciando le sue letture femministe: The Facts of Rape di Barbara Toner, Dialogue With Mother di Bruno Bettelheim e molti altri su questa scia. Nel frattempo, si concretizza l’ipotesti, finora solo accarezzata, di entrare in una band. Corteggiato prima da Phil Fletcher (che riconosce in lui un fan delle Dolls), poi dal suo amico Billy

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Duffy, Moz dà vita ai Nosebleeds. Il glam l’aveva salvato (e aveva salvato molti come lui) da una vita da perdente: se il rock aveva fatto capire a una generazione che si poteva essere spensierati, fare sesso e fare soldi, il glam aveva consegnato loro una qualità inimitabile: la consapevolezza di poter anche essere belli. Così Moz, al suo primo concerto con i Nosebleeds, si presenta con i capelli lunghi a permanente e un trucco alla David Johansen. L’esibizione è prorompente, la scaletta si muove fra cover delle Dolls, delle Shangri-Las e alcuni brani dei cui testi è autore lo stesso Morrissey: (I Think) I’m Ready For The Electric Chair, The Living Juke-Box e un Peppermint Heaven durante il quale distribuisce caramelle al pubblico. L’esperienza dei Nosebleeds, nonostante qualche apprezzamento iniziale, finisce nell’arco di un anno. Dopo di loro, per Morrissey, ci sono gli Slaughter And The Dogs, che testimoniano la sovrapponibilità del punk con il glam, in quegli anni. Fulminato dal fatidico concerto dei Pistols, il gruppo nato come emulo degli Spiders From Mars, si trasforma in un’autentica band punk-rock o proto-wave. Con Steven, però, le cose non vanno nel verso giusto. Nel 1978 Morrissey riesce a realizzare il suo primo viaggio negli Stati Uniti, da alcuni parenti in Colorado. È per lo più un nomade in cerca di ispirazione e, soprattutto, in fuga dal destino che vuole risucchiarlo sul sentiero piatto e monotono dell’esistenza del padre. Betty, la madre, lo asseconda nei suoi capricci artistici. Steven cresce come una casalinga ben istruita del Nord. Si appassiona ai kitchen-sink drama, sottogenere del teatro realista inglese, come Coronation Street; invia a Granada Tv pagine e pagine in cui propone sceneggiature e nuovi personaggi. Se quella della famiglia normale del nord poteva essere realtà all’interno del tubo catodico, Steven sentiva che c’era ancora speranza, per un mammone come lui, di sfondare le barriere della cultura popolare. E lo sentiva, protetto com’era da una pila di libri di e su Oscar Wilde, dai programmi pomeridiani delle famiglie matriarcali di Channel 4, dalle repliche pomeridiane dei film con Bette Davis o James Dean. Ma Steven è soprattutto protetto dal dramma familiare per eccellenza e dal fascino sognatore di Jo, la protagonista di A Taste Of Honey, piece scritta da Selagh Delaney nel 1956 e portata sullo schermo nel 1961 da Tony Richardson. Razza, classe, sessualità, genere: tutti argomenti che in A Taste Of Honey scardinano la visione reazionaria e piatta dell’Inghilterra del dopo guerra e s’impongono nello stile di Morrissey e degli Smiths più di ogni altra fonte. A fornire una lista ristretta ed esplicita, ecco

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l’elenco di alcuni dei testi ispirati alla piece: Hand In Glove, Reel Around The Fountain, You’ve Got Everything Now, Shoplifters Of The World Unite, I Don’t Owe You Anything. Discorso a parte per This Night Has Opened My Eyes che, più che un prestito, è una parafrasi musicale dell’intera opera della Delaney; e discorso a parte anche per Sheila Take A Bow, la cui protagonista è probabilmente la stessa Shelagh (“Come può qualcuno così giovane cantare parole tanto tristi?” – canta Morrissey, riferendosi alla giovane età – 18 anni – in cui la Delaney pubblicò l’opera). L’adolescenza di Morrissey è segnata da questa figura, come la sua infanzia lo era stata da Sandie Shaw. Arriva a sovrapporre enormemente i piani di scrittura ed ispirazione, arriva a confondere se stesso con quel mondo, che la critica ha azzardato a definire l’unico valido esempio di Neorealismo inglese. Jo, l’adolescente abbandonata da una madre troppo distratta, instaura delle relazioni “sbagliate”: prima con un marinaio di colore, poi con un omosessuale. Jo, nella Stretford cupa e malinconica degli anni Cinquanta, rappresenta la disadattata, la figlia illegittima di Madre Natura, la vittima relegata ai margini di una società meschina. “In altre parole – scrive Mark Simpson – A Taste Of Honey, è il paesaggio, la madrepatria, il cuore di molte opere di Morrissey […]: è una rappresentazione lirica la cui poesia commovente ma schietta è ispirata dalla gente comune, ne mostra il lato straordinario, l’ordinarietà nella straordinarietà”. Se la Delaney tirò fuori la vox populi da Morrissey e Wilde fece sì che l’altalena testuale del cantante degli Smiths si rivolgesse tanto al cuore, quanto alla mente delle persone, è certamente James Dean a dargli la consapevolezza di un’arma potentissima: la bellezza. La bellezza selvaggia di James Dean, però, (esattamente come l’estetismo magnanimo di Wilde) non coincide con un mito neoclassico di perfezione. La bellezza di Dean fa male per almeno due motivi: 1. Steven coltiva con essa un rapporto malato e perverso, al limite del sessuale, tappezzando la sua stanza/prigione di immagini, poster e frasi dell’attore americano, nutrendo un’idolatria sconsiderata destinata ad incidere l’immagine deviata che appare nelle sue opere; 2. Dean è in realtà un freak: è un mammone anche lui, solo che è tremendamente virile, è bisessuale, ma anche un gradasso americano, è insicuro ma bello in modo assurdo. Dopo Wilde, c’è Dean a restituire il mito narcisistico della vanità maschile di cui Morrissey e gli Smiths si servono nelle loro opera ancora oggi. Come Caravaggio e come Narciso (la copertina del singolo This Charming Man – ovvero l’attore

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omosessuale Jean Marais nel film Orfeo di Jean Cocteau – ricorda in maniera impressionante il Narciso pseudocaravaggesco), come gli Esteti e i Decadenti, Morrissey voleva sfidare la morte, anzi, aveva deciso di andare oltre la cristallizzazione della popstar nell’Olimpo. Morrissey “avrebbe portato a termine l’impresa di congelare la propria adolescenza, aggirando l’inconveniente di dover morire”. Non c’era bisogno di alcuna identificazione in nessun personaggio: esattamente come Dean, che rimase un tenero bastardo perpetuando se stesso nei ruoli che recitava, anche Moz non sente la necessità di separare se stesso – quel se stesso condito e imbastardito da pile e pile di letteratura, arte, musica e cinema – dalle sue parole. Non sorprende dunque, che, prima di ritentare nel difficile mondo della musica, Steven, nel 1981, pubblichi due volumetti per la piccola casa editrice Babylon Books. Si tratta di un pamphlet sulle New York Dolls di appena 24 pagine (3000 copie vendute, mica poche!) e un’opera dal titolo James Dean Is Not Dead, che vende più di 5000 copie. Questi inaspettati successi editoriali avrebbero potuto spingere il giovane Morrissey verso una strada spianata di scrittura (aveva in lavorazione una disanima dei gruppi femminili degli anni Cinquanta), ma, si sa, certe volte il successo non basta. Moz non si sente realizzato, ha perso i contatti con i suoi amici musicisti e, soprattutto, il 1982 è iniziato con diete di pillole e barbiturici. C’è decisamente bisogno di una scossa… D on’t be a jerk , Johnny!

“Comparve in un momento in cui io stavo toccando il fondo, per così dire. E mi diede questa massiccia iniezione di energia. Potevo sentire l’energia di Johnny ribollire dentro di me”. Quando Jacqueline, la sorella di Steven, apre la porta al 384 di King’s Road, Johnny Maher ha l’aria di chi ha qualcosa di veramente importante da comunicare. Si siede in soggiorno e Morrissey non esita ad ingaggiare con lui una disputa musicale. Magari si parte dalle influenze più basilari, dal punk, dalla scena newyorkese, per poi passare alla Motown, al country, che ha segnato l’odio-amore della chitarra di Johnny. Figlio anche lui di immigrati irlandesi, Johnny Maher cresce in un ambiente povero, ma affettuoso, con l’ingombrante figura dello zio chitarrista che gli mette a disposizione una Stratocaster e un po’ di dischi. Cresce in un quartiere di Manchester denominato Little Ireland, dove tutti si conoscono e la musica è una componente essenziale dei momenti di convivialità: ai battesimi, ai matrimoni, si suonano canzoni della tradizio-

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ne irlandese, magari aggiornate al gusto del tempo, con un pizzico di country che non guasta mai. In TV scopre Rory Gallagher che diventerà il principale modello di riferimento nei brani degli Smiths. Col tempo si lascerà influenzare dal funky e – attraverso l’uso della Rickenbacker e l’ascolto dei Beatles – anche dal sound jangled tipico dei Byrds o di Tom Petty. Da non sottovalutare nemmeno l’apporto definitivo dei consigli di James HoneymanScott dei Pretenders, musicista che si rifaceva a sua volta al piglio scanzonato di Nick Lowe ed Elvis Costello. Certo, anche il punk fa irruzione nella sua vita a tempo debito, ma Johnny non sarà mai un punk: ne rifiuta l’approccio semplicistico e distruttivo, preferendogli invece la complessità dei brani ricamati di una Joni Mitchell o di Ronnie Wood, chitarrista di Rod Stewart. La vera svolta, però, arriverà quando (già parte integrante degli Smiths) lavorerà con John Porter e scoprirà le gioie dell’overdubbing, la scrittura a più tracce, la modulazione, la tessitura perfetta e armonica, vera chiave di volta delle melodie smithsiane. A scuola, nel frattempo, conosce Andy Rourke. Con lui, come ogni adolescente musicofilo che si rispetti, mette su i Paris Valentinos, prima, e i Sister Ray poi. Nulla più di semplici esperienze parrocchiali, in cui, fra l’altro Andy suona ancora la chitarra. Sarà Johnny a spingerlo successivamente verso il basso. Segue una piccola parentesi con i White Dice, di matrice british-folk e – scoperto l’immenso universo funky – con i Freak Party, che però sentono la carenza di una voce adatta per il progetto. Johnny, intanto, trova lavoro presso il negozio di abbigliamento X-Clothes a Chapel Walks, dove svolge il ruolo di ragazzo-immagine, modello e, se capita, anche commesso. Dal negozio passano personaggi di spicco: Mike Joyce, Tony Wilson, Mike Pickering e, soprattutto, Joe Moss. Joe, al pari di Malcolm McLaren e Brian Epstein, è un imprenditore nel campo della moda e convince Johnny a cercare un autore di testi valido, oltre ad offrirsi come finanziatore del progetto. Più giovane di quattro anni rispetto a Steven, Johnny è il seduttore, l’uomo di mondo, il virtuoso, l’anima furente del duo che, da quel fatale 1982, avrebbe cambiato la storia del pop. Mentre Steven è il mingherlino sociopatico, che non è in grado di suonare un accordo nemmeno a pagarlo, Johnny, con il suo essere apparentemente a suo agio in quel mondo difficile, fornisce a Morrissey la materia necessaria per sbloccare quel fiume poetico che gli scorre nelle vene. E Steven, a sua volta, canta come se dalla musica di Johnny dipendesse la sua stessa vita. È così che si consuma il ma-

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trimonio. Il bellissimo matrimonio a cui presto aderiscono anche Andy Rourke al basso e Mike Joyce alla batteria. A cui presto si unisce una schiera sterminata non solo di fan, ma di veri devoti. È così che Steven diventa Morrissey e Johnny diventa Marr. La famiglia, in quanto tale, deve portare un cognome unico. La scelta, appare scontata: The Smiths. Il cognome più diffuso in Inghilterra (soprattutto nel nord) è il modo che hanno questi quattro ragazzi di dirci che non vogliono essere i nuovi Frankie Goes To Hollywood, che non vogliono essere ascritti ad alcuna categoria, che sono persone comuni con ruoli comuni, di pura estrazione working class. In più, Patti Smith è certamente punto di incontro fra Steven e Johnny, così come la famiglia Smith di Beyond Belief, il libro sui Moor Murders su cui ritorneremo. Più problematica la spiegazione che ricollega il nome al concittadino, leader dei Falls, Mark E. Smith, o a Robert Smiths dei Cure. Con entrambi non corre buon sangue. A nd you must be looki ng very o ld ton ight

Sembra un racconto di fantasia, ma è vero che Steven e Johnny inizialmente non hanno alcuna intenzione di mettere su una band

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in proprio. La loro ambizione è quella di mettere la loro musica a disposizione di alcuni interpreti, proprio come si faceva ai tempi del Brill Building. Inutile dire che il progetto non prende piede (in questa fase), forse proprio grazie allo stile di scrittura di Morrissey, che si dipinge di altre tinte una volta attivato il processo creativo nei brani. Marr fa ascoltare a Steven una base di chitarra; Steven immagina una melodia e scrive un testo. Poi, nel momento dell’arrangiamento vero e proprio, Marr riaggiusta nuovamente la struttura. È così che nascono i primi brani: da These Things Take Time a What Difference Does It Makes?, da Handsome Devil a Miserable Lie. A questo punto occorre premere per un momento il tasto “pausa”. La carriera degli Smiths segna, nelle fasi iniziali, un punto di non ritorno, nella musica contemporanea. Alcuni avvenimenti saranno poi perpetuati nell’indie-music odierna fino allo sfinimento. Stiamo parlando della rivelazione, del boom mediatico incondizionato, con alle spalle poco più che un 45 giri e qualche live. Gli Smiths fanno il botto ben prima del loro album d’esordio. Come succederà (con molto meno impatto) in anni recenti a band come Drums, Haim, Dum Dum Girls, Palma Violets e altri nomi indieavolati che calcheranno palcoscenici più grandi delle loro medie ambizioni. Eppure, per gli Smiths, i tentativi con i discografici sono frequenti: un Drone Demo viene registrato nel dicembre del 1982 e spedito agli uffici della EMI, che però si dichiara disinteressata al progetto. Pochi mesi prima, intanto (il 4 ottobre), gli Smiths tengono il loro primo concerto al Ritz, come spalla dei Blue Rondo A La Turk. Ancora senza Rourke, lo show conta quattro brani, tra cui una cover di un pezzo dei Cookies. Ovviamente la cosa più divertente è quella meno attesa. Un amico di Morrissey, James Maker, sale sul palco come go-go dancer e aizza il pubblico con il suo ballo effeminato. Un po’ come farà Bez degli Happy Mondays, il cui unico ruolo riconosciuto sarà quello di suonare le maracas e aizzare il pubblico. Le cose vanno meglio il 25 gennaio 1983, al Manhattan Club, quando, Rourke è definitivamente in formazione e Moz rispolvera i suoi trucchetti da incantatore, lanciando caramelle e confetti al pubblico durante l’esibizione di Miserable Lie. Tra il pubblico è presente anche Tony Wilson, titolare della Factory, che riceve dalla band un demo. Ed ecco uno degli scherzi più strambi della storia: la band che avrebbe potuto risollevare l’etichetta dal post-Joy Division, viene miseramente rifiutata: “vennero alla Factory – commenta Wilson – quando non eravamo in condizione di metterli sotto contratto –

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non era il momento giusto. […] La band più Factory del mondo […], gli Smiths, vennero proprio quando stavamo pensando di chiudere baracca”. O, se volete, in maniera più lapidaria e fantasiosa, in 24 Hours Party People, Dio appare a Wilson (Steve Coogan) pronunciando queste parole: “Tony, hai fatto un buon lavoro. E in fondo avevi ragione. Shaun [Happy Mondays] è il più grande poeta dai tempi di W.B. Yeats; i Joy Division sono stati la più grande band di tutti i tempi; probabilmente avresti dovuto mettere sotto contratto gli Smiths, ma avevi ragione su Mick Hucknall. La sua musica è spazzatura ed è un fottutto roscio”. Prima che i rapporti fra Smiths e Factory rasentino l’odio (Moz definirà Wilson “un maiale intrappolato nel corpo di un uomo” e Wilson su Moz: “una donna intrappolata nel corpo di un uomo”), gli Smiths tengono un memorabile concerto all’Hacienda il 4 febbraio 1983. Memorabile per almeno due motivi: in primis consegnerà definitivamente gli Smiths alla Storia musicale della città di Manchester, e poi inaugurerà il rapporto ossessivo della band con il mondo floreale. Quello dei fiori non è solo un trucco da palcoscenico: è un vero e proprio omaggio. Omaggio alla libertà di esprimersi, alla libertà di sentire e comunicare i propri stati d’animo, soprattutto in una città (Manchester) e in un locale (l’Hacienda) che – a detta di Moz – avevano disperato bisogno di recuperare il proprio rapporto con la Natura. I fiori, sostanzialmente, offrono speranza. E sono un palese omaggio ad Oscar Wilde, che li usava in qualsiasi situazione. Moz li tiene nella tasca di dietro dei jeans o nella patta, li usa a mo’ di frusta, ci fa letteralmente il bagno. Un atteggiamento destinato ad essere riutilizzato da band di quegli anni come Echo & The Bunnyment, Big Country o Cure. Sono i Buzzcocks ad introdurre Morrissey e Marr a Geoff Travis di Rough Trade. L’etichetta londinese è decisamente il simbolo del mercato indipendente, quello che ricercano gli Smiths in quel periodo. Geoff stava portando nel Regno Unito dischi destinati a non attraversare l’Atlantico per via di un “commercio losco” che fornì il nome dell’etichetta: il rough trade è infatti un espressione gergale omosessuale che sta per rapporto maschile a pagamento. Dal 1978 in poi, la Rough Trade fa firmare contratti fruttuosi, mantenendo intatta la politica del do-it-yourself : Pere Ubu, Cabaret Voltaire, Pop Group, Young Marble Giant riassettano la scena wave di quegli anni. Con Hand In Glove registrata pochi giorni prima (le spese – 200 sterline – sono a carico di Joe Moss), gli Smiths bussano alla porta di Geoff Travis. “Aspettammo delle

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ore, per poi sentirci dire che che Geoff non poteva riceverci. Allora Johnny chiese ‘ Chi è Geoff Travis?’. Qualcuno indicò una figura in lontananza in fondo al corridoio, Johnny lo inseguì e lo obbligò ad ascoltare. Due ore dopo il disco era in stampa”. Gli Smiths chiedono ed ottengono 22.000 sterline di anticipo per la registrazione, la somma più alta mai sborsata da Rough Trade. Il contratto è firmato dai soli Morrissey e Marr, mentre Rourke e Joyce non si pongono il problema dei ricavati, mettendo le basi per quella che sarà la lunga azione legale che seguirà lo scioglimento della band. Dopo i primi concerti a Londra, gli Smiths vengono ingaggiati per le famose John Peel Session della BBC, lanciandosi sempre più a capofitto nell’Olimpo musicale britannico. Ci sono almeno altri due motivi alla base della fama senza precedenti che coinvolge la band ben prima dell’uscita del primo Lp. Innanzitutto l’aura scandalistica e compromettente che circonda il primo singolo, Hand In Glove. La copertina, tratta da The Nude Male di Margaret Walters, ritrae un uomo nudo di spalle e serve forse come commento al verso “the sun shines out of our behinds”, il sole splende dai nostri sederi. Hand In Glove, inoltre, è un’espressione che letteralmente significa “mano nel guanto”, ma può essere usata per indicare rapporti stretti di complicità, probabilmente sessuali. La canzone, in fin dei conti, è una canzone d’amo-

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re, pur sottraendosi agli stilemi del genere. C’è l’invito a rifiutare le convenzioni sociali, c’è l’ammicco all’omoerotismo (quel “se la gente fissa, lasciala fissare” sa veramente tanto di dichiarazione anti-omofobica), c’è il riferimento ad A Taste Of Honey (“I probably never see you again”) e, molto più in generico, il riferimento ad una sessualità pura, senza limiti di razza o orientamento. Hand In Glove, in breve, ha vita facile a diventare oggetto di dispute infinite su tali tematiche, ma anche, l’oggetto proibito, da fruire di nascosto dai genitori. Moz ha la forza di risvegliare questo potentissimo sentimento adolescenziale in chi l’ascolta. La storia della composizione è persino divertente: Marr strimpella a casa della sua futura moglie Angie e viene fulminato da una serie di accordi interessanti. A quel punto obbliga Angie a guidarlo da Moz, mentre lui, sul sedile di dietro, continua a suonare quella successione per paura che sfumi via. L’inclusione di Handsome Devil, come lato B del singolo, inoltre, causa non pochi problemi. Per i detrattori, il brano inneggia alla pedofilia. Il Sun, padre di tutti i tabloid scandalistici, titola con “Canzone pedofila imbarazza la BBC”. I fatti, naturalmente, scuotono l’interesse dell’opinione pubblica per gli Smiths, pur causando problemi alla band e alle logiche di marketing. Sotto accusa, infatti, è anche Reel Around The Fountain, che non viene più scelta come secondo singolo, in favore di This Charming Man. E’ una scelta che si rivelerà assai fortunata. Nonostante i possibili appigli scandalistici ci siano tutti (il brano è la cronaca di un incontro fra un bel ciclista e un uomo in una macchina dai sedili in pelle), la critica lascia passare e This Charming Man si guadagna il venticinquesimo posto delle classifiche ufficiali, spianando al gruppo la strada per Top Of The Pops. Quel giorno è memorabile per gli Smiths: il pubblico in visibilio, l’esibizione live prorompente, la sera, headliners all’Hacienda. E’ l’inizio del successo. L’album, che ancora tarda ad arrivare, è stato nel frattempo annunciato come The Hand That Rock The Cradle. Le registrazioni avvengono nell’estate del 1983, ma, una volta nelle mani di John Porter – che si sarebbe dovuto occupare solo del missaggio – , crolla il castello: è tutto da rifare. Marr e Porter inaugurano un connubio felice, destinato a ridisegnare lo stile chitarristico di Marr e del pop in generale. This Charming Man, ad esempio, ha una cosa come quindici tracce di chitarra, di cui una suonata lasciando cadere un coltello da cucina sul manico, una con una Telecaster ad accordatura aperta, una con un vibrato acceso e così via…

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Il 1983 si chiude con due singoli fortissimi e una manciata di live. L’84 si apre, invece, con il primo vero singolo proveniente dalle registrazioni dell’imminente The Smiths: What Difference Does It Makes?. “Tutti gli uomini hanno segreti, e questo è il mio”: questo l’esordio del brano, che viene condito da un senso di corruzione e rassegnazione palpabile a cui, come per molti altri brani degli Smiths, è stata data una lettura gay-oriented. L’esibizione a Top Of The Pops rimane memorabile, con Morrissey che stringe un solo gladiolo in mano e, udite udite, porta un apparecchio acustico all’orecchio. Il disabiliy chic che esce fuori è in realtà un omaggio ad un rocker americano, Johnnie Ray, arrestato nel ‘59 per omosessualità. Nello stesso periodo spunta fuori un altro tratto identificativo di Moz, destinato ad essere imitato nei decenni a venire: i tipici occhiali della mutua, con montatura nera spessa. Forniti dal National Health System inglese, erano già allora cifra stilistica anche di Elvis Costello e Buddy Holly. It ’s time to tale were told

Nell’autunno del 1965, la polizia di Manchester arresta Ian Brady e Myra Hindley, rei di aver rapito, violentato e assassinato tre bambini dal ‘63 in poi. I corpi di Edward Evans (sedici anni), John Kilbride (dodici) e Lesley Ann Downey (dieci) vengono rinvenuti sulle colline di Saddleworth Moor, seppelliti sotto terra. Alcuni anni dopo, nel 1987, Brady confessa altri due infanticidi, sconvolgendo ancora di più l’opinione pubblica mancuniana. Morrissey al tempo è appena un bambino, ma queste vicende – riprese nel libro Beyond Belief di Emlyn Williams – lo impressionano particolarmente. La morte, in questo senso, fa irruzione nella vena poetica degli Smiths, caratterizzando, in particolare, uno dei brani dell’imminente The Smiths (ma il primo a cui lavorano Johnny e Steven dopo il loro incontro): Suffer Little Children. Quando The Smiths vede finalmente la luce, siamo nel febbraio del 1984. La copertina dell’LP ritrae un giovane Joe Dellissandro in Flesh, un film del 1968 di Paul Morrissey, esponente della Factory newyorkese di Andy Warhol. Naturalmente, la pellicola è una storia di prostituzione maschile, di un rough trade omosessuale. I fatti di morte riguardanti i Moors Murderers non sono l’unica linfa vitale di The Smiths. Bisogna aggiungere almeno il macrocosmo della sessualità e del cosiddetto “quarto sesso”. Ma procediamo con ordine. Suffer Little Children, che chiude il primo disco degli Smiths, è

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un vero esempio di maestria compositiva. Dal punto di vista dei testi, Morrissey si affida alla polifonia bachtiniana: entrano in scena, come attori di un dramma, i bambini vittime degli omicidi, gli assassini, le madri straziate, Steven stesso che si immagina vittima. La scena è per certi versi raccapricciante: dai piccoli chiamati per nome, alle perle bianche della collana di Lesley Ann, dal “solido odore di morte”, alle buche scavate per seppellire i corpi. Il finale è degno delle migliori tragedie greche: sarà l’intera città, Manchester, a dover rispondere di questi efferati delitti (“Oh Manchester, so much to answer for”). Marr accompagna il tutto con la flemma di una ballata folk che assomiglia più a una ninnananna inquieta, degno sottofondo per una storia tragica che non risparmierà il brano da accuse di aver sfruttato la materia “stupro e pedofilia” per una canzone pop. Interverrà addirittura un parente delle vittime dei Moors Murderers a placare gli animi, sostenendo la giustezza della causa di Morrissey e compagni. Sulla stessa lunghezza d’onda musicale e tematica, anche The Hand That Rocks The Cradle, ufficialmente il primo brano composto da Moz-Marr. La ballata tessuta su un arpeggio folk e ispirata a Kimberly di Patti Smith, sfiora vette d’inquietudine impagabili.

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Mentre un padre dondola una culla, “i fantasmi e la tempesta” devastano il mondo fuori dal “sacro santuario”, “un piano suona in una stanza vuota/ ci sarà sangue sulla mannaia stanotte”. Sul finale, Moz canticchia Sonny Boy di Al Jolson, “salimi sulle ginocchia, Sonny Boy”, aggiungendo “tua madre non lo saprà mai”: facile, anche qui, ricollegarsi a un discorso sulla pedofilia. E altrettanto facile alimentare dibattiti e scandali su di esso. Altro campo d’azione di questo disco d’esordio è il macrotema della sessualità, dentro il quale finiscono anche le turbolenze di amori indecisi, adolescenziali o apparentemente deviati. Così è l’amore di Hand In Glove e di This Charming Man. Ma così è anche la torbida storia d’incontri di Reel Around The Fountain, che accompagna la timidezza del protagonista sul “patio”, dove viene schiaffeggiato e spinto, fino a perdere l’innocenza, pur restando una figura impalpabile e fuggevole, da poter infilzare e mettere dentro “una teca come una farfalla”, come ne Il Collezionista di Fowles. Sulla stessa linea anche You’ve Got Everything Now, che tra la confusione e lo spaesamento per una relazione sbagliata, trova persino la forza di dichiarare al mondo: “Non voglio un amante, voglio solo essere legato/nella tua macchina”. Miserable Lie ci dà l’assist per provare ad avventurarci in quel nervoso coacervo di tensioni che è il mondo sentimentale di Morrissey. Insieme a Wonderful Woman e Jeane (mai incise su disco), è infatti dedicata a Linder Sterling, ex fidanzata di Howard Devoto e convivente di Morrissey dal 1976 in poi. Quali siano stati (o siano) i loro legami, non ci è dato saperlo. Ciò che conta è che Linder svolge un ruolo determinante nelle dinamiche creative di Steven. E Miserable Lie – seppure rovinata da un pessimo missaggio – ne è l’esempio. Il brano inizia con un lungo addio (“C’è qualcosa contro di noi/non è il momento/perciò addio…”) a cui segue, attraverso un dignitoso esempio di schizofrenia musicale, un urlo disperato sull’impossibilità di un amore sincero (“l’amore è solo una bugia meschina”), perché devastato nella sua purezza come un fiore mai sbocciato (con riferimenti impliciti al De Profundis di Wilde). Sono i passi che porteranno a Pretty Girls Make Grave, in cui si dichiara: “ho perso la mia fiducia nel sesso femminile”. Come dire: sulla mascolinità stendiamo un velo pietoso, ma ora persino l’ultimo residuo di interesse che possedeva il sesso femminile, è sfumato via. Questo perché – e sarà Morrissey stesso a ribadirlo più volte – si proclamerà profeta del quarto sesso. “Il terzo sesso è già stato provato ed ha fallito. Quello che fa Marc Almond [dei Soft Cell] è patetico. […] desidero avvicinarmi alla liberazione dell’uo-

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mo. […] Sono annoiato da uomini e donne. Tutta questa segregazione sessuale, anche nel rock, è veramente spregevole”. Naturalmente, non è facile cogliere la profondità del discorso di Morrissey, così spesso viene frainteso per una dichiarazione di omosessualità. Gli viene persino chiesto di farsi promotore di una campagna per i diritti gay. La risposta scontata è: “No, proprio no. […] ho una posizione molto non-sessuale e guardo alla gente con un approccio umanista. […] Mi rifiuto di accettare etichette come etero- bi- e omo-sessuale. Tutti hanno le stesse identiche necessità sessuali. La gente è solo –sessuale, il prefisso è irrilevante”. Fuori dagli schemi, fuori da Tarzan-maschio e Jane-femmina, Steven vuole presentarsi come una persona semplicemente sensibile, che vede l’altro sesso non in maniera sessuale, anzi, disprezza chi tende a farlo. Alla faccia di band dichiaratamente o non gay-oriented (Soft Cell, Frankie Goes, Culture Club, Pet Shop Boys), Morrissey e gli Smiths creano questo piccolo universo di malizia ed equilibrio, che vede il corpo come un tempio maoista, che professa il celibato, ma non si pente di trattare tematiche piccanti. “Toccò a Morrissey – scrive Simpson – rappresentare un ‘omoerotismo’ che non fosse ‘camp’ o ‘travestito’, congenito o per ciò che conta ‘omo’. Era semplicemente bello”. Moz plasma, crea sui testi linguaggi e sentimenti comuni per esprimere la forza della straordinarietà, le condizioni inusuali della vita. Insomma, quello che tutti vedono come straordinario o strambo, come una relazione omosessuale, viene descritto con una purezza e una naturalezza inarrivabile.

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Genere: post-rock Il teaser Taipei rilasciato non più di un mese fa ha creato non poca curiosità attorno a Wild Light, release in full lenght numero sei per una band arrivata ai dieci anni di carriera. Due erano gli aspetti che più incuriosivano: la forte presenza delle chitarre nelle immagini dallo studio di registrazione – con addirittura scene di archetti a strofinare le corde degli strumenti – e le derive elettroniche iniziate con We Were Exploding Anyway, continuate nel successivo eppì Heavy Sky e culminate nella poco esaltante sonorizzazione di Silent Running. L’opener Heat Death Infinity Splitter – ripresa poi nella conclusiva Safe Passage – è spiazzante: il brano rievoca le sonorizzazioni più sintetiche composte da Vangelis per le numerose colonne sonore, ha un suono massiccio e corposamente elettronico; solo con la successiva Prism si inizia a capire dove andrà a parare il sound dei 65daysofstatic: tolte le esplosioni e i frenetici muri sonori a cui il gruppo ci aveva abituati, la continuità è rappresentata solamente dall’incalzante incedere della batteria di Rob Jones. Tastiera e chitarre si intrecciano in un connubio di giochi di volumi e di inserimenti graduali con apice nella doppietta Taipei/ Unveil The Wild Light, dove la band piazza il paio di melodie a presa rapida alla God Is An Astronaut. Accade di rado che nel panorama post-rock una band possa stupire in positivo per un rinnovamento nel proprio percorso artistico: come con

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Kveikur per i Sigur Rós, in Wild Light ritroviamo un gruppo che ha saputo evolversi da una forma multisfaccettata di musica, farne sintesi e fondere il bagaglio di esperienze accumulato nel lavoro più solido e maturo della propria carriera. Un disco capace di essere evocativo senza trucchi o troppo mestiere. Non è da tutti. 7/10 Andrea Forti

AaVv - Scared To Get Happy. A Story Of Indie-Pop 1980-1989 (Cherry Red Records,2013) Genere: pop, indie A ragione definita come la Nuggets dell’indiepop, Scared To Get Happy è una super-mega compilation maniacalmente curata da John Reed e che si ispira alla mitica fanzine di mr. Sarah Records Matt Haynes per indagare in maniera pressoché completa – scarse le eccezioni e spesso solo per questioni di diritti, vedi alla voce Smiths, My Bloody Valentine, Orange Juice e pochi altri – il fenomeno “indie-pop”. Virgolettato d’obbligo quando si traffica con una materia così scivolosa, dato che nei cinque CD per 134 tracce e quasi sei ore di musica racchiusa nell’arco temporale del sottotitolo, ritroviamo nomi storici e illustri (semi)sconosciuti accomunati da un qualcosa che non è un suono, quanto più una suggestione. Anzi, ad esser precisi, una maniera di intendere la vita oltre che la musica. I tempi d’oro delle vacche grasse post-Nevermind con le major a buttare le reti e tirar su contratti praticamente per tutti – un esempio? i Melvins! – per prontamente

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65daysofstatic - Wild Light (Hassle Records,2013)


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Agnes Obel - Aventine (Pias,2013) Genere: cantautori, contemporanea Dopo il successo ottenuto con il debut Philharmonics quasi tre anni fa, sia nella natia Danimarca che poi in Europa, si aspettava la prova del difficile secondo album per Agnes Obel, di stanza a Berlino. Un successo, il suo, fulminante, causa anche l’utilizzo di un brano, Just So, per alcune campagne pubblicitarie. In realtà la Nostra è autrice di sostanza, che ha fatto del suo songwriting delicato, tra classico e moderno, e di una buona scrittura al piano la sua cifra. Aventine consta quasi esclusivamente di pezzi per piano, voce e violoncello (quest’ultimo suonato da Anne Müller, presente anche in Philharmonics e dal vivo, già all’attivo con Nils Frahm), violino e viola compaiono in alcuni pezzi (The Curse, Pass Them By e Fivefold ad opera di Mika Posen dei canadesi Timber Timbre), così come la chitarra (Pass Them By di Robert Kondorossi dei Budzillus) e l’arpa scozzese (Fuel To Fire); si apre con lo strumentale per piano Chords Left, un ideale seguito delle atmosfere liquide del primo, per poi proseguire in modo piuttosto cinematico, si vedano le atmosfere sospese alla Twin Peaks di Run Cried The Crawling. Altrove sono richiami alla classica e alla contemporanea a fare capolino, rielaborati e fatti propri alla maniera di un John Cale (e non a caso, nel debut, era presente la cover di Close Watch dello scozzese, che non sfigurava affatto nel contesto). Un’esplorazione la sua – come dichiarato – sul suono degli strumenti a corda. Un album melodico, sospeso e intenso, che si concretizza nella accessibilità di alcuni pezzi – come accadeva nel precedente – mentre si dispiega totalmente negli strumentali. Una conferma di classe e di semplicità. 7.2/10 Teresa Greco

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liberarsene una volta capito il non-potenziale commerciale, erano ancora distanti e, sinceramente, inimmaginabili. Questa bibbietta però ci dice molto dell’underground che, volente o nolente, contribuì a creare quel mostro a metà tra mainstream e underground, il cui sperpero insensato di denaro fu al tempo stesso la dimostrazione vivente della miopia delle major e il primo grosso colpo all’industria discografica istituzionalizzata, molto prima dell’mp3. Tornando su Scared To Get Happy, nomen omen si dirà, a scorrere la monumentale tracklist si noteranno un paio di cose: in primis come si alternino nomi conosciuti a emeriti sconosciuti, band dalla vita breve e dal successo wahroliano (siamo grossomodo in Inghilterra, dove un singolo di successo non si è mai negato a nessuno) e altre pronte a spiccare il volo verso lidi di notorietà indubitabile (Stone Roses, Inspiral Carpets, Prefab Sprout, Aztec Camera, Lloyd Cole, James, JandMC, Pop Will Eat Itself ), in un frullatone generale dall’indubbio fascino per il neofita come per lo speleologo musicale. L’altra cosa che balza agli occhi è come il suono “indie” sia in realtà inesistente, per lo meno per come lo si è poi codificato – anche in termini se non dispregiativi, per lo meno non accondiscendenti – nei decenni successivi. Proto brit-pop, shoegaze, dream pop, post-punk, c-86, ethereal-wave, noise-pop, pre-grunge, twee-pop e non si sa quante altre sigle ancora potremmo tirar fuori per dar conto dei suoni che si snodano lungo i cinque dischi di questa collezione, obbligatoria per comprendere uno dei fenomeni più rilevanti dell’underground. Con un booklet di 56 pagine pieno zeppo di foto, immagini, flyer e informazioni dettagliate per ogni singola traccia, Scared To Get Happy si candida a compilation dell’anno. Bisogna solo decidere quale anno. 8/10


Genere: wave, dark Basterebbe confrontare le copertine degli album principali di Chelsea Wolfe per intuirne l’evoluzione. O per lo meno per sgranare tutti i grani di quel rosario di sofferenza che dalle prime mosse nel pantano dell’underground “goth” virato folk più melmoso e declinato di volta in volta in forme doomy, apocalittiche o catartiche, si è via via spostato verso una elegante forma di rock virato noir. Se all’epoca degli esordi era facile comprendere la nostra nel calderone witch- o addirittura moan-wave – complice anche un immaginario piuttosto decrittabile – o incastrarla con difficoltà all’altezza della dislessica accoppiata Apokalypsis/ Unknown Rooms, ora la faccenda si fa più lineare ma, al tempo stesso, più complessa. Dalle prime criptiche prove – l’occhio che non vede in Apokalypsis, le figure femminili travisate di The Grime And The Glow e Unknown Rooms – a questa prova matura, effigiata da una Chelsea elegantemente luciferina, l’ammorbidimento, o meglio, l’allontanamento dal pantano di cui sopra è palese. Le atmosfere plumbee sono più rarefatte, i contorni più delineati e nitidi, la produzione molto più curata e le canzoni dosate ed equilibrate, senza mai lasciare elementi fuori posto o eccedere in solipsismi fini a se stessi. Che sia l’ambientazione notturna e gloomy sorretta da beat incalzanti di Feral Love, i rimandi ad una sorta di incrocio tra una PJ Harvey mefitica e una Bozulich visionaria ed epica (Kings), il romanticismo ferino di The Waves Have Come - tra archi e sospiri heavenly – o quello cranesiano di House Of Metal, le controparti in nero di Ancestors, The Ancients, c’è su tutto un senso di austera eleganza e decadente poesia che ne denota la ormai raggiunta maturità. Alla ragazza, però, piace mischiare le carte e, pur mantenendo il collante gloomy e nero, nella eterogeneità di fondo dell’album alterna alcuni momenti tipicamente da pop-(cold)-wave 80s come in The Warden (primo singolo scelto dall’album) – ennesima, emergente stella del mattino nell’universo della Wolfe –, riprese di zuccherose melodie 60s che tante altre coetanee stanno rivalutando – solo trattate con una colata di nero pece (Destruction Makes The World Burn Brighter) – e dosi di cinematiche attrazioni noir (Sick e Reins, con quest’ultima oscura e ossessiva) che forse suggeriscono future evoluzioni. Pain Is Beauty è il disco in assoluto più riuscito della Wolfe, libero da schematismi di genere e dotato di una scrittura, anche a livello testuale, “popular” nel senso di attrattive e potenzialità “commerciali”. Certo, c’è di fondo una sensazione di eccessiva pulizia e “patinatura” del tutto, specie in sede di produzione, ma di sicuro gli orfani della Zola Jesus di mezzo – per fare un nome affine – troveranno riparo tra le cortine scure e le cappe fumose di questo disco. 7.4/10 Stefano Pifferi

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Chelsea Wolfe - Pain Is Beauty (Sargent House,2013)


Genere: elettroacustica Uno split che vale e significa molto più di una semplice condivisione delle due facce del vinile. In primis, perché mette il nostro Boccardi sul piano di un mostro sacro del calibro di Lawrence English; in secundis, perché dimostra se ancora ce ne fosse bisogno lo spessore della scena ambient/elettronica/elettroacustica italiana; infine, perché non di semplice split si tratta, quanto di lavoro d’insieme (e nello stesso tempo, individuale). Tutto nasce dalle fonti sonore curate da Boccardi per il progetto, ambizioso anzichenò, San Lupo, che il nostro curò l’anno scorso in combutta con altri “nuovi elettronici” come Nicola Ratti e Attilio Novellino: l’elettronica dei tre ad interagire col violoncello di Matteo Bennici e col coro Antonio LaMotta diretto da Davide Mainetti per un set dall’indubbia valenza suggestiva oltre che di possibilità di nuovi affondi sul fronte dell’interazione digitale e non. Il lavoro in questione vive proprio della rielaborazione o degli echi di quella esperienza. Per Boccardi, manifestandosi in una lunga traccia (Drops, Salt, Ask Me Next Life) in cui l’interazione tra elementi acustici – voci, basso, sax, ecc. – ed elettronici – synth, effettistica varia, ecc. – produce una suite in tre sezioni (che definiremmo moviementi) dal fortissimo sapore visivo/visionario e in cui riecheggia la perizia e l’equilibrio tra le diverse fonti in gioco. Spesso giocati sul crescendo, gli elementi “altri” rispetto alla tradizione di genere sono posti su un piano di diversa calibratura che rende il tutto, e nello stesso tempo, riconoscibile ed alieno: la parte centrale è memorabile in questo senso, tra l’astrazione del coro e le abrasioni elettroniche. Sul lato opposto, il redivivo Lawrence English lavora sul materiale inviatogli da Boccardi per elaborare una traccia in quattro parti (The

Rocks That Tear The Ocean) che è una versione altrettanto “fusa” degli elementi in gioco, ma virata più su ambientazioni estatiche e rarefatte in cui il peso del coro viene via via diluito verso ambient sognante e insieme oscura. La risultante è un lavoro di grande spessore che ribadisce la bontà della “scena” italiana, l’accuratezza della ricerca sonora di Boccardi e la lungimiranza della Fratto9. 7.2/10 Stefano Pifferi

Anna Calvi - One Breath (Domino,2013) Genere: rock C’era molta attesa per il secondo album di Anna Calvi, prodotto da John Congleton, scritto nel corso di un anno e registrato in poche settimane tra la Francia e Dallas. L’artista inglese di origini italiane, con l’omonimo debut del 2011 prodotto da Rob Ellis, aveva ricevuto una nomination per il Mercury Prize 2011 e per i Brit Awards 2012, riuscendo a mescolare con irruenza PJ Harvey, l’impeto punk di Siouxsie e languori sparsi wave e post wave (dagli Smiths a Jeff Buckley, passando per Edith Piaf ). Per fortuna la Calvi non ama ripetersi e consegna con One Breath un album abbastanza diverso dal precedente, nel quale l’aggressività è stata in parte sostituita dalla riflessività, mediata da recenti esperienze che le sono capitate. L’attitudine resta inalterata, quel che cambia è il suo approccio musicale, più soft con la voce per esempio, usata anche come uno strumento espressivo, e con un maggiore ventaglio sonoro, si veda l’uso delle tastiere (c’è John Baggott dei Portishead, consigliatole da Brian Eno) e delle chitarre, non più spalmate ma adoperate soprattutto come climax emotivo. L’album irrompe con fragore (Suddenly, un pezzo che avrebbe potuto essere nel precedente disco), continua sulla falsariga con il primo singolo Eliza - tumultuosa cavalcata rock (su

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Lawrence English - Split 12 (Fratto9 Under The Sky,2013)

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Àsgeir - In The Silence (One Little Indian,2013) Genere: pop, cantautori, art, indie, folk É il Bon Iver dei ghiacci, il Nick Drake delle aurore boreali. Vera e propria pop star nella sua Islanda, ma ancora sconosciuto al resto del mondo, il ventunenne chitarrista e cantautore Àsgeir ha ben pensato di riadattare in lingua inglese il disco di platino Dyrd í Dauðathogn del 2012, record assoluto per il debutto di un artista locale, già nello stereo di un islandese su dieci.

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In The Silence (questo il titolo della versione worldwide) vanta la collaborazione di John Grant (co-protagonista, per altro, nel video del singolo King and Cross), che ne ha curato la traduzione dei testi, offrendo al ragazzo una sponsorizzazione non da poco; e sebbene non compaia in alcuna nota, sembrerebbe di sentire lo zampino di Mr. Grant anche nella produzione, nell’equilibrio tra brezza folk, sottili modernità elettroniche e pensiero sinfonicooccidentale. Già, perché rispetto alla prima edizione, questa release porta arrangiamenti più ricchi e sonorità più sontuose, in taluni casi piene di un’energia tutta nuova (Torrent), con la chitarra acustica a fungere da fulcro, talvolta su tappeti ritmici elettronici (Higher, Head In the Snow), talvolta con la sola voce o quasi (Was There Nothing?), più spesso alternando strofe intimiste e ariose aperture (In Harmony), in un continuo contendersi tra autorialità folk e art-pop. La voce perennemente in falsetto, malinconica, sommessa e costantemente armonizzata, ricorda in maniera inequivocabile il già citato Justin Vernon, ma la qualità delle canzoni non da adito a futili accuse di plagio stilistico, lasciandosi anzi apprezzare per la sensazione di grazia e leggerezza, per le melodie ispirate e per una certa familiarità che si rivela certamente utile a prendere l’ascoltatore per mano fin dal primo ascolto. Nell’esportare questo ennesimo successo annunciato, la terra del ghiaccio si conferma fucina di talenti, quasi sempre giovanissimi, dettando le regole di un stile che da tempo possiamo definire nordico, capace di rinnovarsi continuamente nel contrasto tra armonie azzurrine e una sensibilità musicale che di freddo ha invece ben poco. 7.1/10 Antonio Laudazi

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“una donna forte che ricorda la persona che ero e che vorrei che ritornasse“) – ma decelera via via (passando per la wave piena di distorsioni di Love Of My Life) per culminare in Sing To Me, nell’omaggio a uno dei suoi idoli, Maria Callas: una ballad spettrale e ampiamente lirica, a suo modo anche anni Settanta nelle atmosfere “sinfoniche” alla Morricone e la voce alla Goldfrapp, che nelle intenzioni paga pegno anche al compositore John Adams, indicando uno dei futuri musicali possibili per la Calvi. La title track procede nella stessa linea di grandeur, per finire con la delicata e eterea The Bridge e così chiudere il cerchio. One Breath, nelle parole dell’autrice, rappresenta un turning point, “il momento in cui tutto sta per cambiare e ci si sente sospesi sull’orlo di qualcosa“, come canta nella title track, “la sensazione di stare per aprirsi che terrorizza ma dà anche forza perché si avverte la speranza“. Quindi la voglia di uscirne che si fa strada su tutto: la personalità della Nostra, ancora una volta, è la sua forza. Non tutto nell’album funziona allo stesso modo, qua e là si avverte incertezza sulla strada da prendere, ma si è fatto un altro passo avanti verso una maggiore personalizzazione. 7.2/10


Genere: pop, synthpop, electro Next big thing annunciata già sul finire dello scorso anno, per una serie di congiunzioni astrali – ed in particolare per la firma con la label che arriva inusualmente tardi e con le vele della ribalta già spiegate – i Chvrches giungono al debutto lungo quando manca da fare soltanto il victory lap. Non stupisce, dunque, che buona parte della tracklist di The Bones Of What You Believe abbia natura di greatest hits, con tutti i singoloni che ci hanno tenuto compagnia dal maggio 2012 ad oggi che vengono riproposti, eventualmente rinnovati da un nuovo missaggio. Attenzione, però, a liquidare questo disco come la classica giocata facile per capitalizzare tutto il capitalizzabile con il minimo dello sforzo. È senz’altro vero, infatti, che la struttura dei brani presenta una marcata ricorsività attorno al classico schema strofa-ritornello-strofa-chorus-ritornello e che più volte si indugia sul gioco al contrasto tra la voce bubblegum, acuta e fanciullesca (indiepop!) di Lauren Mayberry, testi che la dipingono in pose vendicativo-sanguinarie ed il sostegno strumentale, fatto di raffiche di synth sci-fi e ritmiche heavy step, a chiudere un immaginario che al cinema starebbe nel Sucker Punch di Zack Snyder. Ma è allo stesso modo innegabile che la reiterazione della formula vincente, combinata ad un evidente sforzo in selezione volto a mantenere il più alta possibile la qualità della proposta, finisce per accodare alle killer track già note altrettante killer track, per un raccolta priva di riempitivi e, per giunta, stratosfericamente prodotta (dalla combo Iain Cook-Rich Costey, già al lavoro con i Nine Inch Nails). I tre scozzesi, poi, oltre a ribadire la bontà del loro elettropop – che, in definitiva, fa la cresta a quello dei Purity Ring, sostituendo l’iper-melodicità a tutto ciò che nei canadesi rimandava al goth –, dimostrano – lo avevano già fatto nel Recover EP – di essere i migliori sulla piazza nel coniugare Chromatics ed M83 senza risultare surrogati né degli uni, né dell’altro (Tether), di saper rivitalizzare i traballanti Passion Pit (By The Throat) e che l’arduo compito di aprire i concerti dei Depeche Mode è stato loro affidato per una ragione ben precisa (Science/Visions). Sottolineare i leggeri cali di tensione che si verificano quando Martin Doherty si avvicenda al microfono e va ad omologarsi dove sarebbe meglio non omologarsi mai (leggi: i Coldplay, in You Caught The Light), significa stare a cercare il pelo nell’uovo. Godiamoceli senza mezzi termini questi Chvrches, finché durano, ovvero finché le canzoni non si rovineranno per i troppi ascolti. È il loro anno. 7.5/10

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Chvrches - The Bones Of What You Believe (Glassnote Records,2013)

Massimo Rancati

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Genere: ambient, techno, elettronica, idm Donato ‘Dozzy’ Scaramuzzi è una metà dei Voices From The Lake. Insieme a Giuseppe Tillieci ha raggiunto nel 2012 la notorietà ed il giusto riconoscimento internazionale per un eccellente lavoro che assemblava ambient e techno con gusto e savoir faire da maestri. Il nuovo disco nasce come rivisitazione di Vaporware, un pezzo di Chris Madak aka Bee Mask (musicista cresciuto nella scena sperimentale di Cleveland e ora residente a Philadelphia) pubblicato lo scorso anno come singolo su Room40, la label del compositore australiano Lawrence English. Dozzy e Madak si incontrano al Labyrinth Festival nipponico, uno degli eventi mondiali per gli appassionati di elettronica di frontiera, psichedelica e goa-ambient. Dopo uno scambio fruttuoso di idee, il romano decide di rendere omaggio all’amico con un ampliamento del singolo. I punti di vista sul pezzo sono in totale sette e ognuno prende spunto da una particolare sonorità dell’originale – che viaggiava su coordinate ambient giocattolo – tagliando con loop minimal e field recordings. Fin qui nulla di strano. Sembrerebbe la solita operazione per addetti ai lavori. Invece quando gusti l’ambient che ti rimette in pace col mondo, le sonorità ispirate che non sentivi dai Settanta dei Tangerine Dream con quel tocco che coniugava sperimentazione, prog, elettronica e loopismo spinto, basilare per tutto quello che sarebbe stata la techno (Vaporware 07), quando ti tuffi in teorie acquatiche e piogge idratanti (Vaporware 01) o in vocalizzi minimal-angelici à la The Field (Vaporware 03), in ritmiche naive-pop (Vaporware 04), non puoi che essere contento, appagato e in un certo qual modo tornare bambino. Dozzy sa esattamente cosa prendere dall’originale, costruisce loop che non stancano, perché proprio nel momento in cui sembrano essere arrivati alla ripetitività, scattano con la variazione propositiva. Il suo mondo è la colonna sonora di un’aurora boreale che spazza via gli hangover post-club e ci rinfranca, ci fa capire che i Selected Ambient Works di Aphex Twin non sono poi così distanti. Si viaggia su una qualità altissima, che sorprende. Uno dei migliori dischi dell’anno. 8/10 Marco Braggion

Belle And Sebastian - The Third Eye Centre (Rough Trade,2013) Genere: pop, indie Uno degli elementi fondanti della quasi ventennale (!) epopea dei Belle And Sebastian è lo speciale, strettissimo rapporto con i fan, ieri come oggi. In questo senso, a dispetto degli inevitabili cambi stilistici, estetici e di formazione che hanno costellato l’avventura di Stuart

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Murdoch and co., dagli esordi ad oggi nulla è cambiato. Il pubblico cui continuano a guardare è quello dei singoli, degli EP, di tutte quelle uscite collaterali al full length dove spesso, invero, si annidano le perle da custodire più gelosamente; un’estetica da inguaribili romantici, la stessa del caro vecchio pop dei Sixties, di Morrissey e dell’indie anni ’80. Roba da collezionisti e completisti, da adepti di un culto

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Donato Dozzy - Plays Bee Mask (Mego,2013)


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goffi, a volte stucchevoli, ma sempre adorabili, su. 7/10 Antonio Pancamo Puglia

Body/Head - Coming Apart (Matador,2013) Genere: rock Rispetto a Lee Ranaldo e all’ex marito Thurston Moore, Kim Gordon è l’ultima degli ex Sonic Youth a pubblicare un disco dopo la fine della band. Confrontando Between the Times and the Tides di Ranaldo, il debutto dei Chelsea Light Moving e quello dei Body/Head, è evidente che Lee Ranaldo ha prodotto la migliore raccolta di canzoni (da cui emerge tutto il suo amore per il folk-rock e la psichedelia degli anni ’60), che il progetto di Moore è più quadrato ma anche più prevedibile e che infine è Kim Gordon a essersi spinta più lontano. Kim, considerata in genere la meno “musicista” del terzetto, è l’unica ad aver rinnovato in proprio la vena sperimentale dei Sonic Youth. Il frutto discografico del suo sodalizio con Bill Nash – sotto la sigla Body/Head – è un album a cui si addice in senso positivo l’abusato aggettivo “sperimentale”, innervato da una tensione palpabile tra un minimo appiglio formale lasciato dalle litanie e dai monologhi di Kim Gordon e il flusso sonoro spezzato, decorticato e sostanzialmente free che li accompagna e contrappunta, ma che da quelle parti vocali più spesso si libera per seguire le proprie traiettorie. L’iniziale Abstract suona come se l’intro di Teenage Riot non fosse mai arrivata al riff e si fosse invece sfrangiata e dissolta nel caos. Se qui la metrica del canto cadenzato di Kim fa pensare a una forma di guida vocale, non è così in molti altri pezzi in cui la voce viene sommersa dai rumori o manipolata in loop (Ain’t). Senza batteria, le partiture oscillano

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segretamente condiviso con pochi altri eletti. È quindi all’audience cosiddetta “generalista” che si rivolgono raccolte come Push Barman To Open Old Wounds (2005, relativa al periodo Jeepster) o questa, che mette meticolosamente insieme tutte le canzoni pubblicate nei singoli editi da Rough Trade dal 2003 al 2010. E l’ascoltatore medio e (più o meno) casuale cosa potrebbe tirare fuori da questo ascolto più di quanto non gli abbiano già detto sui BandS i tre LP di riferimento del periodo in oggetto, ovvero Dear Catastrophe Waitress (2003), The Life Pursuit (2006) e Write About Love (2010)? Troverebbe la conferma di un eclettismo enciclopedico, di una confidenza – a volte sin troppo sfacciata, ai limiti dell’improbabilità – con pressoché tutto lo scibile pop: dalla bossanova (Love On The March) al power pop (Suicide Girl), dal country (I Believe In Travellin’ Light) al reggae (The Eighth Station Of The Cross Kebab House), dal synthpop (la rilettura di I Didn’t See It Coming fatta da Richard X) al folk alla Simon and Garfunkel (Stop, Look And Listen), dal night club (Long Black Scarf) all’afro alla Graceland (il remix degli Avalanches di I’m A Cuckoo), dal twang (Passion Fruit) alla ballad anni ’50 (Meat And Potatoes)… fino alla summa di questo percorso, il già singolo Your Cover’s Blown (qui presentato in un inedito Miaoux Miaoux Remix), coi suoi cambi di tempo, genere e atmosfera volutamente carichi e forzati. L’orecchio ne ha da goderne (specie nei momenti in cui l’ispirazione sovrasta la ricerca formale, come il sax irresistibile su tappeto di synth in Heaven In The Afternoon), e nondimeno si sorride spesso, perché in fondo questi ex-ragazzi scozzesi sono sempre rimasti loro. Immaginatevi un nerd in smoking catapultato a una festa di gala in mezzo alle star di Hollywood: l’effetto dei Belle And Sebastian “seconda maniera” è più o meno quello. Un po’

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Tommaso Iannini

Braids - Flourish // Perish (Arbutus Records,2013) Genere: dream, elettronica, experimental “We have come so far / Don’t throw this / […] / She’s thrown it.” La dipartita della tastierista (e collaboratrice dai tempi del liceo) Katie Lee ha colpito i Braids al cuore e nelle fondamenta, tanto che in questo Flourish // Perish li ritroviamo non solo ridotti a trio, ma anche come band “nuova” in (quasi) tutto e per tutto. Andate sono, infatti, le tematiche passionali (ed erotiche) di Native Speaker (2011), così come andata è la neo-psichedelia che ce li aveva presentati come corrispettivo degli Animal Collective con base a Montréal. I Nostri, ora, scrivono per introspezione e si limitano ad un’artronica minimale. Si stringono, insomma, al side-project Blue Hawaii (dal quale restano separati praticamente soltanto per la perpetuata predilizione per i

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toni organici). Il nuovo lavoro non può, ovviamente, avere lo stesso impatto del predecessore nei riguardi di una scena canadese ormai consolidata su affini sonorità (si vedano anche, ad esempio, i Majical Cloudz) e, per giunta, la tracklist non è scevra di episodi impalpabili (Girl, Ebben). Eppure la perizia dei Braids musicisti, nonostante il loro “suonar meno”, resta evidente. L’album, nel suo essere monolitico, si muove comunque in un range dinamico di soluzioni che vanno dalla Björk possibilmente più sottovalutata (quella di Vespertine, in Victoria) al “mozart dei nostri tempi” (Aphex Twin, in Together), passando per riletture subliminali del trip hop di stampo Portishead (Hossak). Raphaelle Standell-Preston, poi, gode tantissimo del maggior spazio lasciatole dalla direzione qui intrapresa e si (ri)conferma tra le voci più versatili e, di fatto, “uniche” del postJoanna Newsom. Calata nell’apoteosi di logiche math (assimilate nel corso della tournée a fianco dei Battles) che caratterizzano In Kind, risulta autenticamente imprendibile, diremmo addirittura clamorosa, tanto da incastonare la gemma più luminosa in repertorio dove meno te l’aspetti, ovvero nel disco di transizione. Non era facile. Così come non era facile compierla, questa transizione. E presentarcela in fioritura avanzata, a rassicurarci che in casa Braids, a dispetto di premesse ed apparenze, nulla è davvero perito. 7/10 Massimo Rancati

Califone - Stitches (Dead Oceans,2013) Genere: rock, avant, folk Il difetto più grosso dei Califone fin dai loro primi passi – cioè dalla fine dello scorso secolo – è stata una certa indeterminatezza, un muoversi sparso e accorto tra tremori roots e sperimentazione post, che a gioco lungo non

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tra il puro rumorismo (Everything Left) e una scansione interna che fa a pensare a una forma di progressione drammatica, se non a un rock comunque sradicato e reso l’astrazione di se stesso - come in Actress e Can’t Help You, dove si possono riconoscere accordi e un’ombra di sviluppo, o ancora in Ain’t, con l’accenno di un ritmo elettronico. Se il riferimento più vicino possono essere i Royal Trux di Twin Infintives e certo post-rock (l’arpeggio di Last Mistress potrebbe addirittura far pensare agli Slint), i Body/Head si riallacciano comunque a una linea nobile che va dai primissimi Pink Floyd, ai Can, ai Throbbing Gristle e naturalmente ai Velvet Underground, l’eco delle cui chitarre è quasi un pedale costante. Disco ostico, non un capolavoro, ma decisamente stimolante, in attesa di sentirne l’annunciata “mutazione” dal vivo. 7/10


Genere: rock, indie, dream Abbiamo lasciato l’entità His Clancyness alle prese col proprio “journey through the past” un anno e mezzo fa in occasione di quel Always Mist Revisited che sembrava chiudere i conti con le fatamorgane dreamy degli A Classic Education, residui di un’avventura lasciata in sospeso per far posto a qualcosa di diverso. Che accade oggi, dopo la firma in calce ad un contratto per la Fat Cat Records e la missione in quel di Detroit presso lo studio di Chris Koltay (già al lavoro con Akron Family e Liars). Il risultato è sorprendente fin dal titolo, un Vicious che rievoca senza dubbio alcuno il pezzo cardine del glam intossicato targato Lou Reed. Più che musicali, i collegamenti col caro vecchio ex-Velvet Underground sono atmosferici: i dodici pezzi in scaletta filano nervosi e scuri, scossi da un lirismo febbrile e una tensione assieme feroce e indolenzita. Come se Clancy si fosse iniettato inchiostro nelle vene per poi concedersi sogni a cuore nero con The Idiot e Tago Mago sotto il cuscino, ferma restando la propensione alle ugge caliginose nelle quali ben si mescolano i rimandi psych e le palpitazioni 80s. L’alternarsi di ballate indolenti e uptempo kraut-wave sembra fatto apposta per tratteggiare una dimensione irrequieta, dominata da un’apprensione febbrile che spesso collassa in languore agrodolce. Tra le tracce migliori c’è una Slash The Night che plastifica residui Scott Walker con ceruleo sgomento Lower Dens, una Zenith Diamond che scalpita frenesia Wire e una Machines dal motorik crepuscolare e struggimenti Eno, cantata con nella gola un groppo acidulo Jeffrey Lee Pierce. Non male anche le suggestioni allampanate Teardrop Explodes di Safe Around The Edges, il caracollare quasi Malkmus di Miss Out These Days o la breve Avenue che rincula verso radici folk sofferte come una foschia Mark Kozelek. E’ bravo Clancy a fare in modo che questo carosello eterogeneo di influenze sembri una danza macabra che gli accade in testa, l’inverno del suo sconcerto mentre il mondo gli impazzisce intorno e non gli resta che tenersi a galla aggrappato allo specchio infranto delle proprie passioni/ossessioni. In qualche strano modo, si sente che lo sente davvero oltre il velo della pantomima retronostalgica. Segnando la differenza in positivo. 7.2/10

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His Clancyness - Vicious (Fat Cat,2013)

Stefano Solventi

li ha resi riconoscibili quanto invece avrebbe meritato il loro talento. Eppure proprio questo stare in mezzo a tante cose imprecisate è il motivo per cui oggi, giunti al settimo album, Rutili e compagni suonano integri, intensi, persino godibili, capaci come non mai di spacciarti complessità per leggerezza, e viceversa.

Dieci pezzi che procedono tra crepuscoli di tenere inquietudini elettroacustiche (la diversamente wilchiana Moonbath.brainsalt.a.holy. fool, il disincanto sornione e rapito tra miraggi floydiani di We Are A Payphone), switchano con paciosa disinvoltura tra fregole motoristiche (l’agrodolce Frosted Tips, la robo-psych

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Genere: pop, orchestrale_sinfonica Arrivati al fatidico terzo album, gli islandesi Hjaltalin si trovano davanti a una prova importante. Finora il loro percorso è stato abbastanza scorrevole, avendo ricevuto prima in patria e poi al di fuori, successo e considerazione. Un chamber pop il loro che partito in leggerezza e sensibilità con Sleepdrunk Seasons - con una piccola orchestra sinfonica – si è poi declinato, con il secondo lavoro Terminal, tra tentazioni soul funk, disco e pop sixties, memore dei maestri Burt Bacharach e Lee Hazlewood. Si aggiunga il cantato spesso a due voci, maschile e femminile, con grandi variazioni in tempi e mood. Enter 4, già uscito in patria a fine 2012, ha visto una gestazione difficile, a causa di problemi mentali del leader, Hogni Egilsson, che hanno messo in serio stand by l’attività del gruppo. Questo stato si riflette per forza di cose nel disco, che in superficie mostra una struttura composita e pop in senso lato. Ma è in realtà album cupo e riflessivo, doloroso nei temi, che esplora spesso il confine tra malattia e salute, normalità e “anormalità”, di quel che si può fare esperienza entrando in una quarta dimensione, che il Nostro ha provato. I pezzi sono più lunghi, quasi mini suite tematiche, e rieccheggiano gli ultimi Efterklang e i Radiohead, con echi di Robert Wyatt e Brian Eno (la spettrale I Feel You). L’elettronica è preponderante, il mood è oscuro, fino ad arrivare dalle parti dei Portishead di Third (Myself ), ritornare al pop del singolo Crack In A Stone, con echi del Gabriel melodico in più di un’occasione (Letter To…), per concludere con la soffusa ballad per voce e piano Ethereal, nella quale Hogni Egilsson tocca le corde più personali e sofferte. Un degno finale per un album mai così personale. 7.3/10 Teresa Greco

minimale di A Thin Skin of Bullfight Dust), liberando spesso e volentieri un afflato melodico deliziosamente obliquo (una Magdalene che ciondola dolciastra tra Gram Parsons ed Elton John, quella Moses che stropiccia solennità cinematica come una plausibile via di mezzo tra M. Ward e Roger Waters). A volte ti sembrano i cuginetti timidi dei Flaming Lips, altrove dei Neutral Milk Hotel sonnacchiosi, oppure dei Wilco che non si decidono a zompare fuori dal laboratorio alchemico. In ogni caso, è sempre un ascolto che nasconde il germe della sorpresa. Tastiere, sax,

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armonica, sintetizzatori, chitarre scorticate, slide lumacose: tutto può accadere e infatti accade, evitando con cura il clamore a vantaggio di una terapia di vibrazioni lunghe e amniotiche (la quasi eniana Turtle eggs/an optimist), tra vecchie carabattole e modernità (Movie Music Kills A Kiss). Al solito, è poco probabile che lascino un segno profondo nell’immaginario collettivo. Ma, ancora una volta, bravi. 7/10 Stefano Solventi

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Hjaltalín - Enter 4 (Goodfellas,2013)


Genere: pop, indie A prescindere dai generi (psych-rock, synthpop o indie pop), le band australiane più blasonate degli ultimi anni hanno un filo conduttore: un grande istinto melodico. Rientrano pienamente in questa categoria i Cloud Control, vincitori dell’Australian Music Prize 2010 per l’album di debutto Bliss Release. Le sonorità tanto acerbe quanto trascinanti dei primi tempi – l’omonimo EP del 2007 e il singolo Death Cloud del 2008, riproposto poi super ripulito in Bliss Release - hanno con il tempo subito un addolcimento dettato sia da una produzione ovviamente più patinata, sia da una direzione sonora più distesa e dilatata. Il piacevole fluttuare dell’opera seconda Dream Cave ha traghettato il gruppo di Alister Wright e Heidi Lenffer nella top 10 della classifica australiana, ennesima conferma di come – contrariamente al nostro “bel paese” impantanato tra pensionati della canzone, talent e rapper accecati dal riflesso dell’oro – nel nuovissimo continente ci sia sempre spazio per giovani band dall’appeal internazionale (Tame Impala, Gypsy and The Cat, Atlas Genius, The Jezabels, San Cisco ecc.). I loop, gli space-synths e l’intreccio di cori in echo di Scream Rave introducono un disco coeso nella sua perfezione stilistica, nonostante le diverse sfumature caratterizzanti i singoli brani. Moonrabbit pesca dal sixties-pop californiano, Island Living si appoggia al corposo groove ritmico e sembra figlia di un certo modo anni ’90 di intendere il synth-pop (oscuro e rock-friendly), Dojo Rising è pura e contagiosa indolenza mentre Happy Birthday si aggrappa ad una strofa a cavallo tra spensieratezza e malinconia. Meno immediata ma indubbiamente degna di essere citata è Promises che, come la titletrack, è un brano d’altri tempi con un Ali-

ster Wright in grande spolvero – qui si muove tra Evans Kati e Alex Ebert – e un bel gioco di cori in supporto. Se le armonie a due voci della coppia Wright+Lenffer possono spesso ricordare quelle della coppia Buckingham+Nicks (Fleetwood Mac), i riferimenti temporali – esclusa la furba Scar - sembrano essere comunque altri, cioè quelli di un post-modernismo che sfrutta gli anni Sessanta, non solo per cavalcare l’onda neo-psichedelica (la lisergica Tombstone ad esempio), ma anche per rievocare le suggestioni meno battute di quell’epoca. Ciò nonostante (e sebbene sia giusto apprezzare l’evoluzione di un progetto) Dream Cave non è incisivo quanto il predecessore: le canzoni non mancano e l’eterogeneità neanche, ma tutto sembra rimanere confinato all’interno di un disco incapace di lasciare una traccia all’esterno, tanto che – con un po’ di cattiveria – si potrebbe affermare che l’aspetto dell’intero lavoro che rimane maggiormente impresso sia l’artwork. 6.3/10 Riccardo Zagaglia

Cordepazze - L’arte della fuga (Autoprodotto,2013) Genere: pop, cantautori, wave I palermitani Cordepazze sono una di quelle band – potremmo far rientrare nella categoria anche gli Io?Drama – che riescono a creare una musica intrigante, pur non affidandosi a chissà quali velleità sperimentali. Anzi, nel caso specifico, custodendo un pop-rock con qualche chitarra wave giusto un po’ più pungente, attraversato da un’agile attitudine cantautorale. E’ tutto qui l’universo della band, con la voce limpida di Alfonso Moscato a ricordarci che il “bel canto all’italiana” è lì a un passo, senza che prenda mai il sopravvento su una formula che evita con gusto le banalità gratuite. Un “mainindie” che funziona, innanzitut-

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Cloud Control - Dream Cave (Ivy League,2013)


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Fabrizio Zampighi

David Yow - Tonight You Look Like A Spider (Joyful Noise,2013) Genere: avant, classica E così anche il caro David Yow ha messo su il suo personale Metal Machine Music. No, non siamo a quelle altezze di rumore bianco, ma l’idea di fondo è valida lo stesso: ribaltare totalmente la prospettiva su cui si basa la propria materia musicale. Tonight You Look Like A Spider è un disco su cui l’ex cantante di Scratch Acid e soprattutto Jesus Lizard ha lavorato nell’ultimo quindicennio, stando a quanto si legge nella press. E visto che spesso parliamo

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di “monolite” per descrivere un lavoro “peso”, sappiate che nella edizione limitata a 50 copie del vinile screziato grigio e nero c’è un vero e proprio monolite scolpito da Yow stesso, a dimostrare non si sa bene cosa. Forse la corrispondenza col contenuto del vinile, dato che fatte salve le ovvie distinzioni, qui siamo sul versante dell’ultimo Scott Walker. Zero noiserock, zero abrasioni vocali, zero chitarre imbizzarrite e spazio a follie strumentali d’impianto classicheggiante-contemporaneo senza troppo costrutto, tra sberleffi da carillon impazzito (Roundhouse), lugubri passaggi (ehm) darkcameristici (Lawrence Of A Labia), matasse di noise elettronico modulate in maniera un po’ arruffona (Uncle) se non proprio fine a se stessa (The Door), soundtrack chiesastiche dalle velleità horror alla Goblin (Thee Itch). Anche nei pezzi “forti” dell’album Opening Suite e Visualize This, tracce che da sole sommano a metà dell’intero minutaggio, la sensazione è di molta fuffa e poca sostanza, nonostante alcuni passaggi qua e là – l’approccio teatrale e avanguardista alla ultimo Walker della prima, il droning sospeso e notturno della seconda – tentino di risollevare il tutto ammantando di un certo velleitarismo intellettualoide una materia invero noiosa. Buona dose di iconoclastia, perversioni sonore in quantità soddisfacente, scelte a volte prescindibili fanno di questo Tonight You Look Like A Spider un divertissement totalmente inutile. Da ricordare solo come parto folle di uno schizzato come Yow. 5/10 Stefano Pifferi

Dent May - Warm Blanket (Paw tracks,2013) Genere: wave Dal fatidico incontro con gli Animal Collective, il nerd del Mississipi, Dent May, non è più

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to perché chi scrive è bravo a far coincidere profondità e semplicità in versi come “imparare a mendicare / per fare risultare margini” (La Digos) oppure nelle amare riflessioni di una Credi a me in cui si canta “trecento libbre / sono il campione del comparto alimentare / quando cammino agli altri viene il mal di mare / risatine / e forse un cenno di pietà”; e poi perché musicalmente si rimane sempre su ritmi sostenuti e ganci melodici assassini, unendo però certe tastiere frizzanti in stile I Cani (La rivoluzione), chitarre elettriche che non sarebbero dispiaciute ai Radiohead di Pablo Honey (Ora Pro No), o magari un Franco Califano aggiornato e inaspettato (l’ottima e surreale Quello che vorrei). C’è spazio anche per un violino nel parco strumenti del disco, per un suono che gli “intellettualodi” prestati all’indie disprezzeranno a priori, ma che noi – e a quanto pare anche il Premio Fabrizio De Andrè, che li ha scelti nel 2007 – promuoviamo senza troppe remore. Se nei palinsesti delle radio commerciali ci fossero meno Negramaro e più Cordepazze, forse vivremmo in un mondo migliore, non perdendo nulla, tra l’altro, in termini di orecchiabilità. 6.7/10


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dirti che ti amo, piccola”). E, allargando il discorso, è la stessa profondità poetica, in fin dei conti, a risentirne, venendo a creare un gap non indifferente con le armonie superbe. Se si sia dato alla musica per matrimoni (come immaginava già in tempi non sospetti) o stia concependo una carriera polimorfa e solitaria (come Divine Comedy, per dirne una) o, ancora, si sia servito di questo radio-sound magicamente retromaniaco per prenderci tutti per i fondelli, non possiamo saperlo. Di certo, le melodie contenute in Warm Blanket difficilmente si schiodano dai padiglioni auricolari e, se proprio lo si vuole vedere come un disco superficiale, lo si faccia rilassandosi e preparandosi a staccare la spina per un po’. 6.9/10 Nino Ciglio

Destruction Unit - Deep Trip (Sacred Bones,2013) Genere: psych, garagerock Dicono che la loro è “brooding American psychedelia, modern psych, debt and war psych” ma in realtà sono affini a soggetti sporchi e lerci come i Fucked Up. Magari non proprio limitrofi per sonorità o punti di partenza, ma di sicuro come metodologia e risultati: non sono rassicuranti, non sono accomodanti, non sono leggeri né tantomeno carini. Sono punk fino al midollo e iconoclasti quanto basta per metter su un disco in cui, in maniera irriverente, si fanno beffe dell’establishment, dei suoni curati, delle forme levigate e di quant’altro rientri nel manuale del giovane musicista 2.0. Riverberano tutto, distorcono ancor di più, dilatano le forme e suonano sgraziati come se non ci fosse un domani. E più che un deep trip quello dei cinque dall’Arizona è un bad trip in cui tutto suona esattamente come dovrebbe suonare: tra cingolati noise, riverberi di feedback, echi cavernosi e motorik sfrenato (Slow Death

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lo stesso. Le sue avventure precedenti, quelle licenziate con i più svariati moniker e generi, dal power pop dei Rockwells alla dance dei Dent Sweat, al country dei Cowboy Moloney’s Electric City, sembravano giunte a una svolta, quando, con The Good Feeling Music Of Dent May and His Magnificent Ukulele, aveva trovato nel nume di Brian Wilson e nel virtuosismo dello strumento a quattro corde una propria dimensione. Ma, quando uno è un personaggio (e questo certo non glielo si può negare), lo è fino in fondo e ad attenderlo c’era un pugno di svolte, di cui l’ultima (quella funky-tropical-wedding dance) è racchiusa nel suo terzo lavoro Warm Blanket. Stando al titolo, ci saremmo aspettati una manciata di canzoni riflessive, degno sottofondo di un inverno da passare al caminetto con un buon libro, sotto una calda coperta. Eppure, l’eredità che Dent si porta dietro, l’ha spinto a non cedere alle sirene della malinconia e farsi guidare, piuttosto, dritto tra le braccia del suo mentore Wilson. Così facendo, Warm Blanket si differenzia dai precedenti solo per il livello degli arrangiamenti e delle melodie, che qui toccano vette di altissima orecchiabilità. Si va dalle aperture sixties in stile Motown (Born Too Late, Corner Piece) al surf-pop alla Beach Boys (Yazoo, It Takes A Long Time), lasciando persino spazio alla sperimentazione vagamente catchy (Do I Cross Your Mind?) e al country (Summer Is Gone). Arrivato ad una massima consapevolezza dei propri mezzi di arrangiatore, è probabile che Dent debba ancora mettere a punto la vena testuale del songwriting. Numerosi sono i richiami ad epoche non vissute, alla difficoltà di accettarsi come parte di questo tempo (“Credo che in futuro mi sentirò meglio di quanto mi sento ora” in Ready To Be Old) o inni al disfattismo contemporaneo, filtrato in chiave sentimentale in Born Too Late (“Sono nato troppo tardi per

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Genere: pop, soul, rnb L’avvento di Janelle Monáe ha indubbiamente portato una ventata d’aria fresca nel panorama R’n’B contemporaneo, a partire dalll’EP Metropolis e passando per un debutto, The ArchAndroid, che, attraverso temi di afro-futursimo ed un tocco di sci-fi nelle narrative, ha parzialmente ridefinito l’immaginario di ciò che si intende per art-pop in questo nuovo decennio. Attraverso un ventaglio impressionante di soluzioni che vanno dal funk, al soul, passando per un tocco di psichedelia e una buona dose di hip-hop, Janelle si è posta l’obiettivo di svecchiare certi canoni che, fino ai 00’s, hanno visto l’immagine femminile essere progressivamente svilita e svuotata da tutti quei significati – anche sociali – che nei Sessanta erano molto più forti e consapevoli. Un percorso che continua fedelmente con The Electric Lady e porta le parti IV e V del lungo progetto a compimento, lasciando anche intendere che ci sarà spazio per altri capitoli. È ancora tutto sospeso tra tradizione ed avanspettacolo, tra analogico e digitale, tra realtà e finzione, con Janelle che si lancia in varie dimensioni temporali affrontando – a testa alta – differenti stili e periodi dell’R’n’B. Un’omaggio ed un messaggio forte di empowerment, una di presa di coscienza razziale, sociale, politica, umana, religiosa e sentimentale. Le carte messe sul tavolo dai testi dalla Monáe sono veramente tante, ma allo stesso tempo sono giocate in maniera astuta e del tutto immerse nella sua personalissima narrativa. Il display di feat nelle tracce iniziali parla chiaro e delinea lo stile e la forma di questo LP, dal funk di Givin ‘Em What They Love con Prince, al soul-pop in compagnia di Erykah Badu di Q.U.E.E.N., passando per l’alt-R’n’B con il volto nuovo Solange Knowles nella title-track e la bella, bellissima, ballad con Miguel, Primetime. Performance vocale ricca e trasformista quella della Monáe, che sa giostrare liberamente tra un rap di scuola Outkast e la Motown di Diana Ross, toccando parecchi alti (Victory) pur essendo priva di quella pastosità e di quel calore prettamente black, essendo di natura ben definita e lineare. Abbracciati i pregi e le qualità tematiche e stilistiche di questo disco, ne va forse sottolineata la lacuna, che per alcuni potrebbe essere addirittura un pregio, ovvero quell’essere upbeat senza compromessi, come d’altronde lo era anche il precedente The ArchAndroid. Passaggi come la hit single Dance Apocalyptic avranno forse un grande appeal radiofonico, ma rischiano di consumarsi in fretta rasentando territori pop da un morso e via, trattamento che The Electric Lady di certo non merita. Ben vengano allora le suite più calde e funky come It’s Code e Ghetto Woman, oppure le atmosfere 80’s jazz di Dorothy Dandridge Eyes con Esperanza Spalding. Un ritorno graditissimo che è, sopratutto, anche una conferma di tutte quelle voci che si sono rincorse negli ultimi anni e che vedrebbero in Janelle Monáe una degna erede delle grandi icone pop del passato. Sperando che una volta raggiunta la piena maturità musicale, la sua vena creativa sia ancora intatta. 7.4/10 Luca Falzetti

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Janelle Monáe - The Electric Lady (Atlantic Records,2013)


Sounds), hardcore old e new-school, paranoia in quantità industrial, lentezze pachidermiche che ringiovaniscono i Melvins dell’affaire Jello Biafra (Bumpy Road), garage-rock sfascione (Control The Light) e un’aura di puzzolente disagio che ce li fa apprezzare da subito. Cover allucinogeno-psichedelica, inclusa. Destruction Unit in realtà è tutta farina del sacco dell’ex Reatards Ryan Rousseau; il Nostro ha all’attivo una buona manciata di album autoprodotti e uno krautissimo di un paio di mesi fa, Void, su Jolly Dream. Nella formazione iniziale, parliamo di una decina abbondante di anni fa, c’erano un paio di Lost Sounds: Alicja Trout e Jay Reatard. Come dire, tutto torna. 7/10

Drake - Nothing Was the Same (Republic Records,2013) Genere: hiphop Se Take Care ci ha insegnato qualcosa, è che nel mercato hip-hop, lo spazio per i sentimenti è più di quello che l’industria immaginasse. Drake non risponde totalmente alle caratteristiche tipiche del rapper, ma prova a reinventarle – e ne paga lo scotto con la frangia di pubblico più hardcore e tradizionalista – muovendosi su contorni ibridi che spaziano dall’R’nB al pop, tra canto e rappato, con una forte propensione al ritornello killer (Take Care con Rihanna), ma sopratutto allontanandosi dalla classica figura del gangsta a muso duro. Drake è un tenerone, e non fa nulla per nasconderlo. Il disco precedente offriva non poche soddisfazioni dal punto di vista dell’intrattenimento, lavorando sodo con singoli straordinari e vantando una compattezza stilistica invidiabile per un sophomore. Il nuovo Nothing Was The Same, dal canto suo, pur muovendosi in una direzione simile, non raggiunge gli stessi livelli di intensità e divertimento.

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“Just give it time, we’ll see who’s still around a decade from now”, avverte Drake in Tuscan Leather, opening track di questo terzo LP, ostentando una sicurezza ormai necessaria nell’ambiente per poter essere presi sul serio (Yeezus, ma anche Magna Carta). Ma, anche se non assolutamente un rapper mediocre, Drake non è nemmeno tecnico come Kendrick Lamar; deve quindi tenere il piede in due scarpe e fare il The Weeknd – senza luci rosse – di volta in volta, senza voler rinunciare a qualche episodio testosteronico in stile Jay-Z, nel tentativo di non sbilanciarsi troppo né da una parte né dell’altra. Al suo meglio, Drake riesce ad essere incalzante e confidenziale. Le lacune di questo approccio però ci sono e si vedono, specie quando i singoli episodi non sono così irresistibili e le tematiche proposte sono già state approfondite in precedenza. Nonostante Hold On, We’re Going Home – un popR’n’B in salsa M83 – sia piuttosto avvincente, il beat del singolo Started From The Bottom è pressoché deludente, in una traccia che, dal flow al testo, sembra tornare sui livelli mediocri dell’esordioThank Me Later. Il tentativo di inserire nuovi elementi nell’impasto sonoro è indubbiamente incoraggiante, ma le involuzioni trap tentate in alcuni episodi (Worst Behaviour, Connect, 3.05 My City) coincidono purtroppo con i pezzi peggiori che Nothing Was The Same sa offrire. Molto meglio quando Drake si tuffa senza remore nei beat più soul (Too Much, con Sampha dei SBTRKT) già sentiti ed apprezzati in Take Care, dove il Nostro non sembra affatto un pesce fuor d’acqua, suonando anzi come l’ibrido perfetto tra rap e soul a cui il canadese ambisce. Ma, da contraltare, la scelta di titolare un pezzo Wu-Tang Forever – senza che parli del Wu-Tang – è una paraculata quasi imperdonabile, così come inopportuno è il sample di C.R.E.A.M. in Pound Cake – con l’inascoltabile

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Genere: elettronica, beats La base di ciò che s’è detto a proposito di Room(s) vale grossomodo anche qui: quel crocevia di uk-garagismi, chopped soulful vocal e altre creatività ritmiche anima ancora le trame dell’atteso nuovo lavoro di Travis Stewart. La differenza sta semmai nella visione di sintesi, in una formula più a fuoco e “pop”, come una personale risposta a Moderat II. Dopo la zampata sulla media distanza a firma Sepalcure con Praveen Sharma, Make You, l’altra freschezza con Jets (in combutta con Jimmy Edgar), l’eppì su LuckyMe SXLND e quello su The Index Nastyfuckk, Machinedrum propone le sue dinamiche in un 2013 che a livello di fermenti e possiblità, può esser paragonato al 2010, ovvero ai mesi propedeutici all’esplosione dell’ondata post-dubstep o soul-step. Del resto, Travis ha una storia sua, un background di IDM, folktroniche e astrazioni HH che non vengono mai dimenticate, un filo rosso che dalla future garage (vedi anche quel Falty Dl – sempre accasato Ninja Tune – che remixò la sua U Don’t Survive) porta diretti alle convergenze UK attualmente sulla piazza. Per lui, sempre ricettivo e attento al presente, mescolare questi ingredienti è stato un gioco da ragazzi, tanto che l’obbiettivo di Vapor City - e il cambio d’etichetta già lo evidenzia – è, ancor prima che nello studio dei ritmi, in un interesse per gli umori e gli spazi, e da lì il parallelo con l’album dei Moderat (e in Rise N Fall il riferimento a Apparat è anche diretto, peraltro) e tanto più a fuoco, se il lavoro è un concept sui sogni ricorrenti. Nella nuova scaletta non troviamo più gli smalti vintage rave della Future, né la piano house; interessante notare come il caracollare ritmico della footwork sia stato confinato (SeeSea, Eyesdontlie) e come, in generale, tutti quegli aspetti laboratoriali che avevano fatto di Room(s) il fiore all’occhiello di molta critica specializzata abbiano lasciato il posto a un nuovo livello di raffinazione, magari tornando a guardare certo LA HH e ancor di più a certi fermenti ’94. Il producer di stanza a New York punta a dinamiche che ricordano da vicino le produzioni jungliste, quelle che allora condussero alle gabbie dorate della drum’n'bass e che, da queste parti, riavvolgono il nastro su glo-fi e la coda elettronica della witch house. Del resto, non è un caso che la possibilità junglista accarezzata nella precedente prova diventi qui una strategica iniezione, inforcando così un altro trend di ritorno. Machinedrum fa il suo e lo fa ancora di più pensandosi come un Burial americano in controluce (Dont 1 2 Lose U, Vizion), un Holy Other a Venice Beach o uno Scuba in fregola Om Unit. Poi è chiaro, la sua impronta non è né profonda come quella lasciata da Untrue, né in formato graffitti come quella di un SBTRKT. Come dire: dove non arriva il Travis autore, c’è la scafatissima produzione di uno Stewart che trova la via maestra, oltre che nella citata Eyesdontlie, negli scambi tra 2 step e jungle di Gunshotta o in quelli con la dark HH di Eyesdontlie, nel retrogusto Boards Of Canada circa 2000 di Center Your Love o nell’omaggio synth-nostalgico 80s à la Washed Out di U Still Lie. 7.3/10 Edoardo Bridda

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Machinedrum - Vapor City (Ninja Tune,2013)


feat di Jay-Z –, come se i riferimenti old-school andassero a validare lo status di Drake o aggiungessero spessore al suo personaggio. Al contrario, lo portano più lontano dalla sua forma migliore. Se solo si decidesse ad abbracciare una volta per tutte la sua figura di orsacchiotto R’n’B , potremmo metterci una pietra sopra e non decretare questo terzo LP un’esperienza a tratti poco gratificante. 5.8/10 Luca Falzetti

Genere: pop, cantautori Da una decina d’anni, ogni volta in cui sir Elton John pubblica un nuovo album, si parla di “ritorno ai bei tempi di Madman Across The Water, Goodbye Yellow Brick Road e Captain Fantastic“. Se da una parte è positivo leggere tanti elogi a una delle più grandi star del pop anglosassone del Novecento, il discorso sottintende che, quindi, fino al 2002 l’artista abbia inciso dischi insignificanti o brutti, e che oggi ci sia la stessa ispirazione di quando il nostro scalava le classifica con i suoi capolavori dei “classic years”: una doppia bugia, visto che dopo un decennio problematico (gli anni Ottanta, specialmente per via di scivoloni come Ice On Fire e Leather Jackets) la sua carriera si è risollevata con album più che dignitosi, magari in parte penalizzati da una produzione troppo “leccata” (The One) o da un eccesso di ballad (The Big Picture), e visto che per sua stessa ammissione Bernie Taupin, il vecchio sodale, l’amico fraterno e il compagno di scorribande in più di quattro intensi e travagliati decenni, considera ormai comporre i testi un semplice hobby. Detto questo, si deve riconoscere che a sessantott’anni Reginald Kenneth Dwight non ha perso l’ispirazione né la voglia di proporre

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Elton John - The Diving Board (Capitol,2013)

buona musica, arrangiata con gusto e, stavolta, spogliata di qualche orpello di troppo. Merito del produttore T-Bone Burnett, nome storicamente legato a dischi di Elvis Costello, Roy Orbison, John Mellencamp ma anche Tony Bennett e Diana Krall (e lavorò già con Elton John e Leon Russell per The Union), che ha messo saggiamente il pianoforte in primo piano. The Diving Board è un “back to basics” più di quanto lo fosse il già ottimo Songs From The West Coast un decennio fa, seppure con un cast di musicisti rinnovato, giovane ma con una solidissima gavetta alle spalle (il chitarrista Doyle Bramhall II, già con Eric Clapton e Roger Waters, il tastierista Keefus Ciancia e il bassista Raphael Saadiq, un tempo nei Tony! Toni! Toné!). La voce di Elton John non è più la stessa, la sua estensione si era ridotta già dopo i polipi alle corde vocali nel lontano ’86 e oggi è ancora più sofferta, roca, ma sempre ricca di pathos. Le dodici nuove canzoni (ci sono anche tre onirici intermezzi strumentali di ispirazione classica e jazzistica) sono spesso legate, più o meno direttamente, con le vite di Reg e Bernie: Oceans Away è un toccante tributo al padre del paroliere, Oscar Wilde Gets Out fa pensare a un parallelo con le vicissitudini di Elton John, in lotta con se stesso per molti anni. C’è molta America, in The Diving Board: molto blues, più di una punta di country, cori gospel, fiati, persino il Tom Waits edulcorato nelle atmosfere da jazz club della title-track. C’è molto Elton John del passato, prossimo e remoto, che riemerge negli arpeggi e nelle linee melodiche di più di un brano (ai fan storici Can’t Stay Alone Tonight ricorderà I Guess That’s Why They Call It The Blues e I Never Knew Her Name, ci sono evidenti richiami a Cry To Heaven e I Fall Apart nella malinconica My Quicksand e al classico Someone Saved My Life Tonight nel primo singolo Home Again, quest’ultimo cor-

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Genere: elettronica Grandioso non è sinonimo di ambizioso. Grandioso è l’organo con cui chiude Boring Angel, primo brano di R Plus Seven, come un witz freudiano ma senza nessuno spirito, nel motto. Quell’organo è uno specchio per allodole – e R Plus Seven è seriamente ambizioso, pur non essendo grandioso. E’ un’operazione intellettuale, che sarà accolta in modo manicheo. Breve non vuol dire meno complesso. Ce lo insegna Lopatin, stringendo le durate – lo aveva già fatto in Replica – e riducendo le stratificazioni di R Plus Seven, ma raggiungendo un programma davvero avveniristico – asciugando la parola dalle connotazioni positive. Asciugare è il verbo, portare la musica dell’anoressia emotiva. Lapotin si asciuga ulteriormente dell’enfasi gotica e dei tic new-age (ormai sono marionette nel teatrino), adottando semmai tecniche più vicine al minimalismo, come naturale evoluzione della rincorsa all’essenza. Fa di tutto – non sempre ci riesce – per uscire dai propri gusti più triti e per perdere il carattere di glitcher cosmico, pur facendo a tratti una glitch trascinante (l’inizio di Zebra, così come Up lo era in Replica). Sviluppa una brevitas non tanto effettiva, quanto percepita. Scompone i brani e li rimpinza di pause. Sembrano cut-up ma sono interruzioni, come si fosse in un’opera che ci descrive (Along), dando il minimo tempo indispensabile per riflettere. Pause fumanti, di vapore. Questa vaporwave è il fumo degli uomini grigi di Momo: non è la reale protagonista di una pianificazione, come per James Ferraro in Far Side Virtual, anzi una risultante di un mondo oltre il reale. Come dicemmo per i Blues Control, questa è in qualche modo una AOR del duemila, ma mancano gli adulti che sappiano affrontarla. Nella vaporwave cogliamo proprio la capacità di un gruppo più o meno coeso di autori di musica di immaginare e realizzare uno Zeitgeist alternativo a quello oggi presente, certo non molto piacevole da accettare, ma più realista del re muzak-ista. Non c’è bisogno di essere Debord per capire che noi siamo quelle persone lì. La questione è anche compositiva, dal momento che ci sembra sempre incredibile che gli autori di musica continuino da sessant’anni a scrivere le canzoni nello stesso modo. L’uomo del presente vive nel passato, il futuro promesso e mai arrivato che ci eravamo proposti è rimasto allo stato di progetto. Oneohtrix Point Never propone altre forme narrative nella forma canzone. È strano constatare che questo è disumano, perché è umano sempre e solo quello che riconosciamo. Ecco la vera impresa di R Plus Seven: costruire un mondo poco riconoscibile. Un mondo “incompossibile” con il nostro. Di certo ci sono gli esseri umani, o post-umani, di certo ci sono forme animali e vegetali. Ci sono dialoghi (He She) incomprensibili (e ce li fa sentire dentro un brano intitolato Inside World). Impossibile da posizionare: è un paradiso o un inferno. Ma chissà dove (e quando) si trova quel mondo. 7.6/10 Gaspare Caliri

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Oneohtrix Point Never - R Plus Seven (Warp Records,2013)


Alessandro Liccardo

Elvis Costello - Wise Up Ghost And Other Songs (Blue Note,2013) Genere: cantautori, soul, hiphop Era molto atteso il risultato della collaborazione tra The Roots e il songwriter inglese, nata da un incontro nello show Late Night with Jimmy Fallon, in cui la band è di casa. L’incontro sarebbe dovuto servire per realizzare un singolo per il Record Store Day e si è trasformato invece in un full length. Tanta stima ed entusiasmo da parte di entrambi hanno portato a Wise Up Ghost and Other Songs: un riuscito esperimento nel quale non si tratta più di Elvis Costello né degli americani, ma di un particolare connubio nel quale la base hip hop diventa soul magmatico e programmatico, con la voce

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riottosa del veterano e ineffabile MacManus. Per la verità c’è da dire che trattasi forse più di un’opera costelliana che viceversa, nel senso che Questlove e soci, insieme al loro ingegnere del suono Steven Mandel si sono letteralmente messi al suo servizio: ecco che alcuni dei nuovi pezzi sono in realtà un mash-up di vecchi testi di Costello, si veda l’antesignano hip hop di Pills And Soap che troviamo nella furiosa Stick Out Your Tongue, così come succede in Wake Me Up con Bedlam e The River In Reverse, in un gioco stratificato di rimandi e citazioni. Soul, funky, ballad (Tripwire, Viceroy’s Row), atmosfere scure roventi e battagliere e in chiusura un classico accorato songwriting (If I Could Believe): gli elementi per una rivitalizzazione reciproca ci sono proprio tutti e ben distribuiti. Un piacere per le orecchie, un mix di sensibilità musicale, lirica e critica. Un album molto denso. 7.2/10 Teresa Greco

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redato da un video azzeccatissimo); c’è persino qualche giocosa citazione di opere altrui, dal Piazzolla dell’introduzione di The Ballad Of Blind Tom al Grieg di Peer Gynt. The Diving Board è un disco che scorre fluido, con momenti d’eccellenza, senza inventare nulla di nuovo. Disponibile in varie configurazioni, con un discreto numero di tracce aggiunte a seconda dei territori e delle catene che forniscono edizioni esclusive, è ben registrato (si sente il fruscio del nastro, coerente alla natura vintage del progetto, e non si avverte alcuna distorsione) ma si poteva fare qualcosa di meglio con il suono delle percussioni, spesso stranamente impastato. Stride il trattamento con l’auto-tune della voce di Elton John in un contesto prevalentemente acustico e così piacevolmente “naturale”, e i testi di Bernie Taupin tendono spesso alla verbosità. Non saranno poche piccole pecche, tuttavia, a far scendere il re dal trono: The Diving Board è un ritorno a casa e, al tempo stesso, l’Elton John che non ti aspetti. He’s still standing, senza dubbio. 7.1/10

Emiliana Torrini - Tookah (Rough Trade,2013) Genere: pop, electro, folk Sono passati cinque anni dall’ultimo album in studio di Emiliana Torrini, Me And Armini, un disco che lei stessa aveva definito “di transizione”. Oggi la ritroviamo con Tookah, un lavoro che la ripresenta sicuramente cambiata, ma anche irrimediabilmente cresciuta. Più che nelle prove precedenti, infatti, stavolta la musicista islandese ha deciso di mettere al centro della propria musica se stessa e la sua vita, già a partire dal titolo dell’album: “tookah” vuole esprimere nientemeno che l’essenza della cantante, qualcosa che “ti connette con tutto e con tutti“, e il motivo di tale scelta è da ricercarsi nella nascita del primo figlio. Un evento che ha spinto la Torrini a raccontarsi in modo nuovo, con la precisa volontà di mostrare una maturità

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Giulia Antelli

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Empire Of The Sun - Ice on the Dune (Astralwerks,2013) Genere: synthpop Recensione un po’ tardiva, sì, per il secondo album del duo australiano, alla ribalta grazie al singolo Alive, uno dei tormentoni di questa estate oramai in via di conclusione. Ebbene, questo “arrivare dopo” rispetto alla data di pubblicazione ci consente di leggere e insieme rileggere a freddo Ice On The Dune, tenendo anche conto di come ha saputo spendersi nel tempo, del suo decorso sulla media-lunga distanza, cercando di fare un piccolo bilancio di uno dei fenomeni pop più chiacchierati e controversi della stagione in corso. Già, perché molta stampa sembra non aver gradito l’ultima fatica di Luke Steele (lo ricordiamo, già negli Sleepy Jackson) e Nick Littlemore, denunciando poca sostanza su una formula già ampiamente esplorata. Ma d’altro canto non si può negare che il successo di pubblico di Alive, forte di innumerevoli passaggi radiofonici e onnipresente nelle playlist da beach-party, rappresenti un indicatore di cui tener conto. Rispetto al lavoro precedente, Walking On A Dream, del 2008, l’audience certamente si è spostato da un popolo distrattamente indie ad un più generico mainstream: quello, per intendersi, che conosce il ritornello ma non il nome del gruppo, né tantomeno i suoi trascorsi. Entrando nello specifico, ciò che ci si para davanti è un sapiente collage di chincaglieria synth-pop tra MGMT (precisiamolo: di molto superiori) e Nicky and The Dove (in comune con questi anche l’apparato iconografico fantasy), con un occhio agli ottanta e un piede sempre in pista. Ma l’anima eccessiva, plastificata e futuristicobarocca con elementi tribal-ambientalisti è mostrata con grande disinvoltura e proprietà di linguaggio; un blockbuster che non cerca mediazioni per sembrare autoriale, ma anzi palesa

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diversa non solo a livello personale ma anche musicale, quasi a voler suggerire la presenza di un concept. Ottime intenzioni che però si perdono nella direzione che prende il disco, quest’ultimo, come i precedenti, orientato verso una formula electro/folk in cui è protagonista la voce. Dunque, già a partire dai languori dance-pop di una title-track che ricorda molto da vicino un’altra regina del genere, Kylie Minogue, Tookah mostra subito la propria anima, ovvero una serie di brani in bilico tra spirito disco e dolcezza acustica: è il caso di Caterpillar, uno degli episodi più riusciti, che sintetizza al meglio questo paradigma, come anche l’essenzialità di Autumn Sun ed Elisabet, in tutto e per tutto debitrice verso l’emotività del songwriter per eccellenza, Nick Drake. La seconda parte del disco prosegue invece sui binari dell’elettronica, come ad esempio in Speed Of The Dark, scelta non a caso come singolo di lancio, con tastiere in salsa eighties e stratificazioni vocali che si susseguono lungo la melodia catchy del brano. La stessa ipnosi electro che ritroviamo nella When Fever Breaks che chiude il disco e che per molti versi tira le somme sulla riuscita complessiva di Tookah: mancano molta della sostanza emotiva di Fisherman’s Woman, così come vere e proprie vette d’ispirazione, in favore di brani più orientati all’orecchiabilità melodica. Atmosfere che, forse, si discostano molto dallo spirito con cui Emiliana ha registrato l’album, anche se, nel complesso, Tookah può essere senza dubbio considerato come il degno ritorno di una personalità di tutto rispetto nel panorama del female-pop contemporaneo. 7.2/10


Genere: cantautori, rock Dal rebetico al robotico, verrebbe da scrivere innanzitutto di questo lavoro dei Santo Niente – il quarto in quasi venti anni- per sottolineare quanto la band rappresenti una prosecuzione del percorso del suo leader con altri mezzi. Non ce ne vorranno i tre compagni di viaggio (nel frattempo tutti cambiati), ma sosteniamo con convinzione che la band altro non sia che la proiezione rock della peraltro mutevole attitudine musicale di Umberto Palazzo. Il quale dai tempi de Il fiore dell’agave – otto anni fa – ha esercitato intensamente l’attività di DJ, si è concesso scorribande desertiche come El Santo Nada, si è aggirato nello spleen balcanico in solitario con Canzoni della notte e della controra. Un’attitudine a scavalcare gli steccati che oggi piega la barra del Santo Niente verso un rock ibridato di elettronica, minaccioso e beffardo, allusivo e cupo, sensuale e cinico, sorretto soprattutto da una forte convinzione nei propri mezzi e possibilità, che lo porta ad eleggersi cronista autorevole ancorché scomodo e per nulla retorico della frana socioculturale in atto. Tipo quando in Maria Callas – non un omaggio alla divina soprano ma lo struggente dramma di un travestito – azzecca la giusta misura tra asprezza e compassione, disimpegnandosi in una bella mistura di ugge folk-psych, languori french e palpitazioni sintetiche. O come quando nella incalzante Le ragazze italiane ti racconta il collasso dell’innocenza senza salire su nessun pulpito, pura a-moralità in sella ad un riff ossessivo e svalvolate acide (notevole il sax elettrico di Sergio Pomante) da nipotini disincantati di zio Iggy Pop. E’ questo l’unico pezzo che Palazzo interpreta cantando, altrove difatti predilige un reading che rimanda ai trascorsi Massimo Volume (band di cui – vale la pena ricordare – è stato tra i fondatori) sfiorando altresì il mood di certi quadretti paradigmatici Offlaga Disco Pax. Soltanto sei le tracce in programma che comunque assicurano i canonici quaranta minuti di durata, cui contribuisce soprattutto Primo sangue, cavalcata che si avvia asciutta e basale prima di inforcare una pulsazione androide squarciata da strepiti radenti, pennellate noise e una sconcertante digressione balcanica, più o meno la raffigurazione sonora del racconto di ordinaria scelleratezza ivi narrato. Questi forse i momenti più preziosi, senza nulla togliere all’iniziale Cristo nel cemento che è invettiva ingrugnita dal piglio hardcore-blues narcotizzato (rivolta senza tanti giri di parole all’America che divora vite, speranze, cultura), alla sordida Un certo tipo di problema col suo riesumare soluzioni anni Novanta tra uno sfarfallare di pentatoniche e sfrigolii asprigni come certe ballate acide CSI, mentre Sabato Simon Rodia chiude la scaletta (e i conti col moloch statunitense) sciorinando una insidiosa trama post, plumbea e arty (trovate sintetiche, la zufolata di flauto…), inquietante e stranamente sorniona. L’impressione è che il disco abbia centrato gli obiettivi prefissati con la sobrietà delle idee chiare e una cruda, tenace ispirazione. Disco riuscito, in altre parole, perché sostenuto da una ragguardevole intelligenza di sé. 7.4/10

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Santo Niente - Mare Tranquillitatis (Twelve Records,2013)

Stefano Solventi

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Genere: fieldrecordings, ambient Questa primavera, vedendo Terry Riley all’organo nella basilica di Santa Maria dei Servi, a Bologna, ho pensato per un attimo alla chiesa di Ravedeath, 1972. Proseguendo il pensiero, qualche giorno dopo, ho riflettuto un poco sulla direzione. Riley tornava a far giacere il raga indiano su una linea, senza pensarlo in termini generativi. Su quella strada ho percepito l’affinità con il trittico di In The Fog, dal capolavoro di Tim Hecker. In Virgins accade in qualche modo viceversa. Tim Hecker pubblica uno scientifico ma sentito tributo alle origini del minimalismo, traendone a piene mani le capacità ascensionali e cicliche di autorigenerazione. In quel preciso attimo in cui l’orecchio viene rapito dal gioco minimalista, ecco le staffilate. I colpi teatrali. La consapevolezza del musicista elettronico che prevale sull’artigiano dei livelli. Virginal I funziona come un piccolo esempio-manifesto. Si regge sull’iterazione di un piano (che sembra un cembalo) e su un clarinetto basso (sullo sfondo), che prende il sopravvento sul finale, lasciando a sua volta il posto a soffiate droniche. Nel mezzo, il caosmo elettronico. Dall’altra parte dello specchio, Stab Variation nasce come un mixing alla Holden e si chiude con droni che sottendono quella medesima tastiera di Virginal I. Virgins sembra reggersi sulla tensione tra elettronica e chamber “suonata”, facendo proprio un metodo. Il modello minimalista crea pattern timici, su cui sovraiscrivere (per esempio scelte cosmico-wagneriane, come avrebbe fatto Klaus Schulze, in Live Room) dronici o i suddetti colpi scena, glitchando (a volte senza grande originalità: Amps, Drugs, Harmonium) anziché glissando. Oltretutto il “blocco” minimalista nei brani è come se fosse un tutt’uno, uno strumento unico in una logica “cameristica” dell’elettronica di Hecker (questa non è una novità): in quel tutt’uno vale l’impasto degli strumenti analogici, che sono come un campione trattato (preparato, se preferite), trattati alla stregua di una traccia da missare con le altre (grazie all’aiuto di Valgeir Sigurðsson, con l’assistenza di Randall Dunn e del solito Ben Frost). Uscendo dal metodo, Hecker in un caso sembra Basinski (Black Refraction), nell’altro centra un piccolo capolavoro (il monologo marziano di Stigmata II). Detta così, sembra un esercizio retorico. Ma ciò che ha dimostrato Ravedeath e che Virgins sigilla è il talento timico di Tim Hecker. Al contrario di Lopatin – con il quale peraltro l’anno scorso ha co-firmato Instrumental Tourist, per la Software Records – e della recentissima uscita a nome Oneohtrix (R Plus Seven, sempre per Warp, label in eccellente stato di forma), l’operazione di Hecker non è punto intellettuale. Va comunque alla pancia, o a quella parte del cervello che ha bisogno di un sostegno passionale. Il cervello è nutrito dalla maestria, dal gioco su ciò che è noto ma anche sul ruolo demiurgico del musicista elettronico. Perché, in conclusione, questa musica è definitivamente elettronica e non elettroacustica. 7.5/10 Gaspare Caliri

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Tim Hecker - Virgins (Kranky,2013)


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fondamentale di radicamento presso il pubblico di “influencer” costituito prevalentemente da certa stampa di settore, media on-line e ascoltatori di prima categoria, senza l’appoggio dei quali si rischia l’effetto ”skip” prima e il disinteresse poi. 5.8/10 Antonio Laudazi

Felpa - Abbandono (Sussidiaria,2013) Genere: cantautori, shoegaze Daniele Carretti non ce la fa proprio a dormire sonni tranquilli e così, non pago del successo ottenuto con gli Offlaga Disco Pax, ritenta la sorte dopo aver già dimostrato con il suo progetto Magpie di saperci fare con lo shoegaze – quello di inizio anni ’90 – e di saper tessere trame delicate e buie che si disperdono in riverberi lontani (Milk), in echi ipnotici (Tell Me), dentro soffocanti ambientazioni emotive (Bitter and Sad), disponendo anche di una certa capacità reinterpretativa nel riproporre cover (da incorniciare Keys Of Life di Klaus Nomi per la sua amara dolcezza). Nel 2013 tocca allora all’esordio da solista con Felpa ed il suo Abbandono. Daniele sa che lo shoegaze è il suo terreno favorito, e prosegue in maniera più matura e cantautorale il percorso iniziato con i Magpie, ma questa volta in italiano. Lo fa da solo, incidendo quasi esclusivamente di notte. Un ciclo vitale che nato, sta per morire, dalla prima traccia Di Giorno (L’Inizio) all’ultima Di Notte (La Fine). Felpa, come si evince già dal titolo, parla di letterali abbandoni e di conseguenza punta a stimolare certi sentimenti che sanciscono una sorta di bad-ending empatica tra binomi. L’intreccio tra le languide chitarre gaze di fattura tipicamente Slowdive-iana sono un po’ il fulcro di questo Abbandono, assieme a una voce morbida, soffusa, ma tagliente per i suoi contenuti; entrambi gli elementi fanno sì

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trucco e parrucco rivelando persino i materiali posticci dei quali si compone (e non sono forse casuali in questo senso alcune scelte legate ai costumi e alle scenografie del videoclip di Alive). Rispetto al passato, là dove Walking On A Dream si presentava più timidamente, con il pudore giovanile di chi cerca di dosare gli ingredienti sonori in maniera equilibrata, Ice On The Dune appare quasi volgare nel suono saturo, immediato e sfrontato, sia esso scelta stilistica o, più probabilmente, ricerca di un consenso facile e diffuso. L’introduzione dell’album ci apre un mondo a tre lune e piramidi scintillanti (pare quasi di veder spuntare Brendan Fraser da dietro una duna), per sfociare nei beat rigonfi di synth e nel buon ritornello di DNA. Alive è un pezzo fortissimo, lo abbiamo già detto, mentre Concert Pitch già denota una certa stanchezza della scrittura, appoggiandosi su stilemi da ultimi The Killers che nulla aggiungono al già risentito. La title track si lascia ascoltare con i suoi lustrini e il romanticume anni ’80, dove ogni cosa emana riflessi di luce abbagliante; e se il mid tempo funkeggiante di Awakening risale su falsetti di voce, I’ll Be Around uno dei pezzi migliori del lotto, evoca i Pet Shop Boys più meditabondi. Tutto il resto, ad eccezione di qualche suono azzeccato e melodie sulla sufficienza, suona fiacco e datato. Difficile dunque che il disco riesca a sopravvivere a sé stesso, ed è probabile che il forte traino di Alive (di certo sufficiente a rimpinguare le tasche del duo) possa costituire la base per un consenso duraturo. Al di là del giro d’affari che, sull’onda lunga del successo, probabilmente continuerà ad essere consistente ancora per un po’, l’impressione è che artisticamente la band si sia bruciata troppo in fretta, senza aspettare quel processo

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Genere: pop, cantautori Per celebrare il suo ventesimo anniversario la band inglese è ritornata a registrare – in questo caso nel leggendario Studio 2 di Abbey Road – non un nuovo album, ma dieci versioni di pezzi che voleva in qualche modo recuperare per dare loro nuova vita, non certo greatest hits. Brani di cui Stuart Staples e soci non erano del tutto soddisfatti o che non erano ancora usciti, e che rappresentano il punto di congiunzione tra quello che i Tindersticks sono stati e quel che sono diventati. Quale migliore modo, allora, di festeggiare la storia dell’elegante gruppo, che tra chamber e indie pop ha fatto la storia del genere trainato da Stuart Staples e David Boulter? Il disco, scevro di qualsiasi retorica, offre la preziosa opportunità di riascoltarli con lo spirito di oggi, in attesa forse di un nuovo lavoro originale dopo il recente The Something Rain. Ogni pezzo racconta una storia e nell’insieme i brani trovano perfetta unità di intenti, a dimostrazione della vitalità di un gruppo che avrebbe ancora da dire. Si va da pezzi apparsi nei dischi solisti di Staples (l’opener Friday Night, 2002, già in una versione scarna in Lucky Dog Recordings e legata alla colonna sonora per i film di Claire Denis) a brani dei primi dischi della band (She’s Gone, A Night In, Sleepy Song, 1994, dal secondo album, a cui i Tindersticks hanno voluto dare una veste più matura), passando da tracce tratte da Simple Pleasure (If You Are Looking For A Way Out, I Know That Loving, 1999) ai più recenti What are you fighting for? (2006) - che avrebbe dovuto trovare posto in The Hungry Saw -, Say Goodbye To The City (2003), Marseilles Sunshine (2003), Dying slowly (2001). Un gran lavoro di archivio guardando avanti. Sempre di gran classe. 7.4/10 Teresa Greco

che si raggiungano alti e struggenti momenti di emotività (Perdono o L’Ultima Estate), vellutati estratti tra softpop e dreampop (Di Notte (La Fine)), inflessioni lo-fi (Come Mi Vuoi) e intermezzi strumentali ((Interno Notte)). Felpa, da solo, descrive un viaggio malinconico, che prima o poi tutti noi affronteremo nella vita. Cosa manca ad Abbandono? Poco, forse solo quel distacco sonoro dal passato targato Magpie, anche se un’evoluzione stilistica è avvenuta e questo per ora basta. Felpa ha dimostrato che è possibile tornare su certe sonorità con nuova inventiva, anche se non si ricrea un

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genere, e che se si realizza un album stilisticamente abbastanza omogeneo, il songwriting può comunque avere un valore. 7.1/10 Alessandro Rabitti

FKA Twigs - EP2 (Young Turks,2013) Genere: pop, art, rnb, elettronica, triphop, downtempo

È passato circa un anno dall’esordio su queste pagine del “volto misterioso del future-randb“. All’epoca i brani disponibili erano solamente due – Hide e Ache – e Tahliah Barnett/Twigs

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Tindersticks - Across Six Leap Years (City Slang,2013)


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gelo a James Blake in versione female) in un progetto sempre più credibile e identificabile, apparecchiando la tavola per un album d’esordio destinato a lasciare il segno. 7.2/10 Riccardo Zagaglia

Fuzz - Fuzz (Trouble In Mind,2013) Genere: hardrock Non ci stupisce l’ennesima uscita di Segall, il più frenetico tra i garager della Bay Area. Dopo la prova songwriting di Sleeper, ecco un nuovo gruppo e un nuovo moniker, Fuzz, un progetto che nasce dalla collaborazione con Rolando Cosio al basso e Charlie Mootheart, compagno musicale sin dagli esordi in quel di Laguna Beach. E siccome si ritorna al casino, a un hard rock tutto rumore e feedback, era logico lasciare momentaneamente la Drag City a favore della più piccola e lo-fi Trouble in Mind. Fuzz fa parte di quella che potremmo definire una discografia di scoperta, ovvero: scopri un gruppo che ti piace magari ripescandolo dai 60-70, ti esalti, e ci fai un album. Ecco stavolta è il giro del classico, i Black Sabbath. Segall si sposta alla batteria, Mootheart alla chitarra e i due (perché Cosio pare un po’ lo sparring partner) iniziano a sparare le cartucce: pezzi tirati, con assoli hard che svolazzano qua e là, i riffoni di Tony Iommi sempre dietro l’angolo, la batteria pestata. Brani in cui il risultato va oltre le modeste premesse per la naturalezza con cui i due si intendono e non a caso il meglio arriva quando i due abbozzano qualche jam come in HazeMaze o la conclusiva One, segnalando quindi la buona prova di Mootheart alla chitarra. E poi non si trovano punti deboli nello scorrere delle otto tracce: il ritmo è forsennato, si gioca con il pieno/vuoto per rafforzare il senso di energia e vitalità, con la sola What’s in my head destinata a spezzare un po’ la trama con cadenze più lente ma sempre heavy.

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si apprestava a pubblicare l’ep d’esordio intitolato semplicemente EP: tanto bastava per includere l’astro nascente della scena di South London all’interno della lista Ones To Watch 2013. Un cambio di moniker – da Twigs a FKA Twigs – e un contratto discografico con la Young Turks (e di conseguenza XL Recordings) hanno tenuto vive negli scorsi mesi quelle attese per un grande debutto lungo che Tahliah ha saputo alimentare, di volta in volta, tramite videoclip d’impatto a corredo di brani dalle soluzioni sonore sempre affascinanti. Quello di FKA Twigs è il sodalizio perfetto tra una vocalist e un producer – quell’Arca già dietro ai beat poderosi di Yeezus di Kanye West – che sembrano avere appiccicato in fronte il termine “futuro”. Alla corte di Tahliah Barnett, Arca vira sull’astratto giocando con il tempo tra accelerazioni e decelerazioni (uno dei più lampanti marchi di fabbrica del progetto), beat sinuosi e non sempre composti, bassi profondi e suoni dall’”aspetto” quasi alieno. Nascono così le quattro tracce di EP2 in cui l’estrema sensualità del timbro di Tahliah si intreccia magistralmente con il lavoro certosino di Arca: How’s That e il suo lento incedere trip-hop – tra snare in echo e oscuri tappeti di synth – impreziosito da assurdi ticchettii, Papi Pacify in cui vengono messe in mostra tutte le doti canore capaci di sprigionare un calore soul/randb che scioglie l’algida e marziana base, il piccolo gioiello art-pop Water Me emblema delle capacità tecniche del giovane produttore e Ultraviolet, punto di incontro tra un certo randb anni ’90 e le idee del primo Tricky androidizzate in un contesto iper-digitale. FKA Twigs – padre giamaicano e un passato nella danza – continua a condensare l’eccentricità di Björk, il post-trip hop da bass generation del primo disco di Emika, il future-pop dei Purity Ring e la black più minimale (da D’An-

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Un disco che si innesta sulla scia di Slaugtherhouse della Ty Segall Band pur con un canovaccio più ristretto e ripetitivo. A trasparire con più forza è invece il divertimento e l’immediatezza della composizione, ed è questo in fin dei conti il valore aggiunto che permette a Fuzz di innalzarsi al di sopra della mediocrità. 7.1/10 Stefano Gaz

Genere: pop Non dev’essere facile mettersi nei panni di Gary Numan. Riconosciuto come pioniere del pop elettronico, emerso alla fine degli anni Settanta con i Tubeaway Army e Are Friends Electric? (campionata parecchi anni dopo dalle Sugababes per Freak Like Me), è stimato da colleghi come David Bowie, Prince e Kanye West, è amico di Alan Wilder, ispiratore tanto di Trent Reznor quanto di Lady Gaga, ma la critica non ha perso occasioni per bastonarlo, anche ingiustamente. Ha continuato a guardare avanti anche quando i suoi colleghi vivevano di rendita nei tour-nostalgia (ha ceduto solo nel 2010, con la riproposizione integrale dal vivo di The Pleasure Principle), eppure per molti lui resta “quello di Cars“, canzone che negli States ebbe ancora più successo che in Inghilterra. Colpa forse del suo carattere schivo, di una timidezza che all’esordio fu un bel problema (come oggi ammette nelle interviste), della sua insicurezza che lo spinge da sempre a filtrare e modificare elettronicamente la propria voce. Erano sette anni, inoltre, che non si faceva vivo, escludendo la parentesi di Dead Son Rising che raccoglieva idee rimaste nel cassetto e rielaborate per la fanbase più tenace: questo perché non se l’è passata molto bene, il buon Gary, sotto antidepressivi nel bel mezzo di una crisi di mezza età, e la gestazione del nuovo Splinter

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Gary Numan - Splinter (Songs From A Broken Mind) (Edel,2013)

si è rivelata dunque lenta e non priva di intoppi. Il sottotitolo del disco, Songs From A Broken Mind dice parecchio sul suo calvario degli ultimi anni, sulle sue difficoltà nel risollevare le sorti della propria vita coniugale e sull’accettare il ruolo inedito di padre di famiglia. Sono canzoni terapeutiche, queste, che affrontano i demoni di petto e che partono quasi da appunti scritti su un Moleskine – e sono quanto di più introspettivo Numan abbia mai scritto in una carriera che procede ormai da trentacinque anni. Ade Fenton condivide con Gary la cabina di regia e, come ci si può accorgere ascoltando il risultato finale, gli ha dato i consigli giusti. La voce è meno artefatta del solito, e alcune canzoni sono provini limati quanto basta per non perderci in spontaneità (ad esempio Lost, nata come molte altre al pianoforte); alle tenebre industrial alla Nine Inch Nails di Here In The Black si alternano sapienti tour-de-force al limite della dance come Who Are You e Love Hurt Bleed, quasi una più trascinante rilettura di A Pain That I’m Used To dei Depeche Mode, in un album che vede la melodia riconquistarsi il ruolo meritato di protagonista. I sintetizzatori e la chitarra di Robin Finck (NIN, Guns ‘n Roses) si compenetrano in I Am Dust così come in We’re The Unforgiven, altra chicca affettuosamente depechemodiana (stavolta dalle parti di Barrel Of A Gun). Una menzione a parte la merita il brano di chiusura, My Last Day, che è stato ispirato dall’incontro con una signora a Los Angeles – città in cui nel frattempo l’artista si è trasferito – che stando alla prognosi sarebbe potuta morire da un momento all’altro. “Le parlai a lungo, e il suo era un coraggio incredibile che io mai avrei avuto“. Tornato in pista dopo molto tempo, Gary Numan promette di terminare i lavori per una colonna sonora e di partire per un tour che lo terrà occupato per due, massimo tre settimane


alla volta per poter occuparsi dei suoi figli, e di comporre una canzone nuova durante ogni settimana di riposo dalle fatiche “live” in modo tale da poter avere un altro album pronto per la fine del 2014 o all’inizio dell’anno successivo. Intanto, Splinter è un disco adulto, un arcobaleno dopo una tempesta, che ci restituisce un artista in più che discreta forma. 6.9/10 Alessandro Liccardo

aggiustamento, mantiene inalterato il proprio fascino. Così, se Let’s Get Killed si lascia scappare qualche concessione pop di troppo, è sul finale che arriva il colpo di coda. Kick è un dub industriale che fra archi, carillon e squarci di luce apocalittica, possiede la tensione dei più sadici romanzi thriller. Inoltre attualizza i NIN meglio di quanto gli stessi NIN abbiano saputo fare. 6.6/10 Diego Ballani

Genere: indie Quando attacca quel basso granitico, la batteria materica e la voce strozzata di Scott McCloud, ci ritroviamo nuovamente invischiati nel noir metropolitano dei GVsB, quello che per troppo tempo ci era mancato e che credevamo sepolto dopo il pallido You Can’t Fight What You Can’t See. Poi certo, l’opener Diamond Life ha una paraculaggine tutta anni ’10. La stessa che trasforma degli sgorbi informi come i Pixies, in cherubini indie da fare ascoltare a mamma e papà. I GVsB non hanno mai voluto irretire nessuno. Per stenderti gli bastava metterti un cappio intorno al collo e stringerlo lentamente. Poi ti toglievano l’aria e ti finivano facendoti inalare venefici vapori industriali. Ecco perché assalti punk come Fade Out sembrano persino fuori luogo, una volgare quanto inutile dimostrazione di potenza. Quando arriva 60 Is Greater Than 15, al netto di una certa rilassatezza di fondo, si ritorna a respirare l’aria viziata di un tempo, con le chitarre come scariche elettrostatiche, ritmica da catena di montaggio e atmosfera malsana. E’ dunque vero che i GVsB aderiscono alla regola non scritta che vuole i ritorni delle band anni ’90 con un sound più pettinato. E’ anche vero che la loro formula era talmente interessante che, pur con qualche

Golden Suits - Golden Suits (Yep Roc,2013) Genere: pop, cantautori, lo-fi Fred Nicolaus, ovvero la metà dei Department of Eagles (l’altro è Daniel Rossen dei Grizzly Bear), ci prova in solitario, spinto sembra da una serie di vicissitudini troppo personali per poterle ponderare in condominio. Così, fidando nella spiritual guidance dello scrittore John Cheever e nell’aiuto di Rossen più qualche altro grizzly, sforna una raccolta di dieci tracce sotto il disarmante moniker Golden Suits. Ovunque volesse andare a parare, ci è riuscito piuttosto bene. Le canzoni non sono di quelle che squarciano l’airplay, ma funzionano in virtù d’un trasporto soffuso George Harrison tra vaghezze umorali Randy Newman, il tutto glassato da una stralunatezza degna del più placido Robyn Hitchcock, tale da determinare un accadere emotivo differito, ciondolante su vibrazioni un po’ (di)storte e rallentate. Quel tanto che basta a spostare il baricentro dall’asse della consuetudine, costruendo siparietti intriganti, stranamente poetici. C’è qualcosa del caracollare balzano Pavement (Find A Way), seppure spesso immerso in un liquido amniotico Radar Bros (You Can’t Make Your Mind Up); altrove persino avverti un retrogusto da Sea and Cake irretiti Mark Kozelek (Dearly Belove).

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Girls Against Boys - Ghost List (Epitonic,2013)

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Ma è soprattutto questo piglio diversamente leggero – l’inquietudine appena dietro la cortina fumogena, una nostalgia che s’insinua strisciando e svicola come è venuta – a costituire il quiz prezioso di pezzi melodicamente non eccelsi eppure contagiosi, come la opening Swimming In ‘99 o la languida Under Your Wing. 6.9/10 Stefano Solventi

Genere: pop, mainstream, alt, indie Nell’era internet-centrica della long-tail globalizzata le major continuano a sopravvivere e lo fanno passando dai vecchi canali, purtroppo ancora forti di quell’ascolto passivo intrinseco della maggioranza della popolazione. Infatti, tra passaggi radio e jingle pubblicitari è ancora il dio denaro a dettare legge e il successo a volte è la mera conseguenza di attività di marketing mirate. Lo sanno bene i Grouplove, giovani pupilli dell’Atlantic Records prima inseriti nelle soundtrack dei milionari videogame targati EA Sports (Colours) e poi lanciati, grazie allo spot dell’iPod Touch, nelle stazioni fm di larga scala (Tongue Tied). Tongue Tied aveva probabilmente le carte in regola per funzionare anche senza il supporto promozionale, ma se siamo qui a parlare dei Grouplove come uno dei probabili gruppi bestseller della prossima stagione è perché i californiani capitanati da Christian Zucconi (sempre più figlio dell’immaginario 90s alternative) e Hannah Hooper (pittrice, tra le altre cose) possono contare su investimenti di un certo tipo. Esponenti dell’ala meno folkish dell’invasione happypop/fake-indie dello scorso biennio in compagnia di Walk The Moon e Youngblood Hawke, i Grouplove danno seguito al mediocre debutto Never Trust a Happy Song (un

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Grouplove - Spreading Rumours (Atlantic Records,2013)

titolo che era tutto un programma) confezionando e plastificando il tredici tracce Spreading Rumours, lanciato adeguatamente da un singolo - Ways to Go - con un appeal radiofonico quasi comparabile a quello di Tongue Tied e la Hooper che insegue i Barenaked Ladies di One Week. L’effervescente power-pop a due voci dei cinque di Los Angeles oscilla continuamente tra il “banale, ma almeno è orecchiabile” e il “ma fanno sul serio?”. In questa seconda categoria finiscono senza se e senza ma episodi quali il passaggio in quasi-solitaria di Hannah Hooper in Didn’t Have To Go, il pasticcio indietronico in cassa dritta Shark Attack – osceno quanto l’omonima saga di film – e tutta una serie di tinte teen spesso anonime (Sit Still). Gli anni ’90 sono invece protagonisti nell’attacco rock-funk e nella strofa (la melodia di All Apologies è dietro l’angolo) di Borderlines And Aliens, in What I Know e in quella Raspberry che suona come un “hey, proviamo a fare una canzone alla Pixies?” Se i toni tra folk e country di Save The Party For Me non sorprendono, riescono invece nell’impresa la semiacustica Hippy Hill – atmosfera californiana e bel cambio di verve a metà brano – e I’m With You: un minuto di solo pianoforte, un altro minuto di cavalcata avvolgente e poi virata disco-funk – a quanto pare un must di questo 2013 – decisamente penalizzata dall’eccesso di ah-ah-ah e oh-oh-oh. Una produzione in grande spolvero e una tecnica sopra alla media per il genere (miracoli da studio a parte, strumentalmente sono senza dubbio precisi) che applaudiremmo maggiormente se venisse abbandonata la smodata esuberanza jump-inducing da high school party estivo e se i Nostri iniziassero a capire che l’autoironia di chi non si prende troppo sul serio non giustifica certe produzioni. 5.3/10


Genere: pop Nel mondo musicale non è così raro trovare band a gestione familiare: dalle Corrs agli Hanson, passando per la folkloristica meteora The Kelly Family, ci si è sempre domandati più che lecitamente quanto questa particolarità influisse sul loro successo, confrontata con la reale sostanza. Appare dunque molto facile porre gli stessi interrogativi nel caso delle losangeline Haim, in parte mitigati dalla biografia: con una madre cantante e un padre batterista – entrambi per passione e con discreta abilità, vedere per credere – per Este (27), Danielle (24) ed Alana (21) è risultato naturale apprendere l’uso degli strumenti rimanenti (basso, chitarra e synth) per fare musica e completare le jam casalinghe che derivavano dagli ascolti familiari fatti di americana, Rolling Stones e Fleetwood Mac. Sessioni che, col passare del tempo, si sono tramutate in un EP digitale di inediti rilasciato gratuitamente a febbraio dello scorso anno. Forever conteneva tre brani che sarebbero poi confluiti in Days Are Gone: Go Slow, Better Off ma soprattutto la title track, autentico tormentone dal basso funk che ha prima rapito blogger di spicco come Jarri di disco naïveté, poi i magazine musicali e infine la Polydor, che ne santifica il debutto direttamente su major. Sarebbe deplorevole ridurre le 11 tracce a semplice natura pop – che rimane comunque la matrice del disco – senza menzionare tutto il calderone di influenze che le tre musiciste hanno fatto proprio. Gran parte del disco non avrebbe lo stesso impatto senza l’indole funk che Este – la più ribelle e scatenata sul palco – ha introdotto nelle linee dei pezzi più ritmati; alla babyhaim Alana vanno tributati i meriti principali per i brani più d’ispirazione wave, dove si mette in luce nelle composizioni in synth e tastiera (le Carsiane Running If You

Call My Name e Go Slow), mentre la forza rock che Danielle imprime con la chitarra poggia radici sul rock tradizionale, come quello di Santana (Let Me Go, The Wire). Questa distinzione di personalità ha riflessi anche sulle parti cantate, dove è ben riconoscibile l’ariosa vocalità della leader Danielle – spesso e volentieri così incalzante da sfiorare performance degne delle migliori artiste nu randb, per esempio in Don’t Save Me – rispetto alle altre due, con timbri più sottili. Alla luce di tutto ciò emerge un quadro più che positivo: le Haim sono giovani artiste dotate di un ottimo potenziale, con un esordio che convince in personalità e con la capacità di vivere il momento senza badare tanto alle apparenze (non ci troviamo di fronte a nuovi modelli di stile o sex symbol, non ce ne vogliano) preferendo concentrarsi sulle possibilità che la vita da musicista le offre, divertendosi giù dal palco e convincendo sopra. In fondo era ciò che sognavano quando, da bambine, passavano i pomeriggi provando nella loro casa. 7.1/10

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HAIM - Days Are Gone (Polydor,2013)

Andrea Forti

Huerco S - Colonial Patterns (Software,2013) Genere: elettronica Giusto il tempo di spegnere i loop e layer sonori del ritorno di The Field (Cupid’s Head) che in cuffia un album come Colonial Patterns non può che continuare egregiamente la qualità del viaggio sonico lì intrapreso con altri densi e variegati strati sonori. Huerco S., progetto del producer di Kansas City Brian Leeds, già attivo su una serie di piccole label tra cui Opal Tapes, Wicked Bass, Other Heights, e un alias (Royal Crown Of Sweden), ha progressivamente abbandonato il clubbing house per approdare su territori differenti. Sentirlo in questo lavoro al debutto lungo su Software è

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Edoardo Bridda

Icona Pop - This Is… Icona Pop (Record Company Ten,2013) Genere: pop, mainstream, dance-pop, synthpop, electro

Andiamo con ordine. Quando I Love It uscì era il maggio del 2012. In Svezia, paese natale di Caroline Hjelt e Aino Jawo, in arte Icona Pop, fece il botto e in breve tempo la mania si diffu-

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se. Prima venne usato nel videgioco Need For Speed: Most Wanted, poi in Germania per uno spot Coca-Cola Light, poi nel reality americano Snooki and JWoww, in una puntata di Girls e in una di The Vampire Diaries. Il vero exploit, però, arrivò con la celebre pubblicità del Samsung Galaxy S4, in cui l’electro pop velato punk del singolone dell’estate 2013 sfondava i televisori di tutti e arrivava in qualsiasi discoteca o balera: dall’indie-snob alla commerciale. Sbarcò nel nostro quotidiano, ossessionandoci anche nei posti di villeggiatura più improbabili e, come ogni tormentone che si rispetti, quel non-so-che di intrigante che ci avevamo scovato inizialmente, finì per perdersi nel fastidio, nel mal di denti. Ecco perché l’arrivo di un intero album avrebbe dovuto finalmente svelare il mistero Icona Pop. Avrebbe dovuto schiarirci le idee e farci comprendere perché gente come Titus Andronicus, Cookie Monster e Florence and The Machine (non certo il punto più alto del mainstream) avevano sentito il bisogno di fare cover del brano più famoso della band. Ma la storia del duo parla da sola. Conosciutesi ad una festa (e dove sennò?) in un periodo difficile per entrambe (una appena mollata dal boyfriend, l’altra zoppa per – parole sue – essere caduta da un trampolino dopo una sbronza), Caroline e Aino volevano sfondare in un modo semplice ed efficace. Il techno pop, l’EDM da college movie, sembrava la strada più sicura. Ma, mentre l’EP Iconic (2012) e la release svedese omonima (2012) conservavano alcuni suoni sporchi e terrigni, s’allevavano su certi Crystal Castles e Kap Bambino indorati per adolescenti (sì, ancora più adolescenti), l’album definitivo This Is… risulta già manicheo, troppo MTV-oriented per suscitare l’interesse necessario, è il trionfo della banalità. È come se la fretta d’arrivare (e di sfondare) avesse prevalso sulle (poche) idee buone. O, molto più probabilmente, è come se

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un po’ come sublimare la Kompakt nell’estetica della label curata da Daniel Lopatin in arte Oneohtrix Point Never. Ma c’è di più: è anche un ottima scusa per calarci nel (para)clubbing più elitario, tra un Marcel Dettman in bilico tra Dettmann e Dettmann II e più vicino a Basic Channel e Maurizio, i lavori di Shed e tutto uno spettro d’astrazioni basate su fruibilità 4/4 house e techno. È un lavoro con un suo mood, molto variegato, fatto con synth, cassette e altro materiale analogico, e soprattutto con moltissimi punti di fuga, tanto che il producer americano non poteva che racchiuderlo in una geografia sonora sbandierata fin dal titolo. Il concept del lavoro fa infatti riferimento allo spettro di fascinazioni di una storia americana pre-europea, come sottolinea Leeds a Dummy. E se la press ufficiale calca su ganci illustri – il Basinski dei tape ritrovati e l’ambient di Eno e Hassell -, andando un po’ più a fondo si nota come l’orientamento sia rivolto al contemporaneo. Quello che si va a toccare è un ampio spettro di suggestioni elettroniche vaporose, in particolare, gli ultimi due album di Lopatin (certamente più in “sezione verticale” sullo zeitgeist) o, perché no, l’ottimo Donato Dozzy (sicuramente più in versante new age), pensando il tutto alla luce di un revisionismo dancefloor, magari con l’ombra di Actress in senso panoramico, liberandolo cioé dall’oscurità degli scantinati. Da avere. 7.3/10


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solo per un attimo, prende il posto della cascata vulcanica e ribelle a cui le Icona Pop sembrano doversi appigliare coattamente. Insomma, per fare l’icona pop o, più semplicemente, per fare un disco pop non c’è bisogno di forzare la mano su quelle che non sono le proprie caratteristiche. Basta avere carisma e un pugno di melodie. E alle Icona Pop non mancano né l’uno né le altre. 5.8/10 Nino Ciglio

Il nido - I piedi della follia (Gaiden Records,2013) Genere: wave, rap, orchestrale_sinfonica, progmetal Chissà cosa avrebbe pensato Frank Zappa dei Il nido. O per meglio dire, dell’universo a cui la band riesce a dar vita nel suo disco d’esordio I piedi della follia. Certo è che in questo mondo inventato c’è qualcosa che non va: le lancette dell’orologio girano al contrario, il telegiornale trasmette videomessaggi del Presidente del Consiglio 24 ore su 24, i banchieri sono pallidi e hanno canini aguzzi, vostra nonna balla la dubstep a Palazzo Grazioli. Sì, insomma, tutto è sottosopra, allucinante, spaventoso. L’avesse fatto Wayne Coyne dei Flaming Lips, un disco del genere, sarebbe stato un tripudio di quei suoni fantascentifici, spacey e psichedelici che solo lui riesce a concepire; Il nido, invece, dà la propria versione dei fatti accelerando sul versante del surrealismo da loser e mettendo insieme dieci tracce dadaiste e squilibrate. Ci pare di poter dire che la base di tutto sia una no wave/prog in bilico tra chitarre elettriche taglienti e fiati (Lex Intro, Metronotte, L’indegno Vito, Stimoli avversivi), ma alla fine non ne siamo neanche troppo sicuri, tale è la centrifuga di stili cui si è sottoposti una volta schiacciato play. Per dire, un brano come Operazione Nido unisce elettropop, crossover, hip hop, reggae e certe trombe messicane in sordina;

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qualche produttore furbetto avesse scorto nel nome il presagio benefico di smuovere le casse. D’altronde, cosa fa un’icona pop se non questo? Fatte le dovute precisazioni, This Is… è un disco che potrebbe funzionare bene nel circuito mainstream. È di certo più irruento e fresco di una Ke$ha, più electro di quanto punk fosse Avril Lavigne ai tempi, ma meno centrato della figura scoppiettante di una Christina Aguilera e ancora meno emotivo di una Rihanna, che, se non altro, ha una voce da rispettare. La tematizzazione, poi, è quella classica dello pseudo rrriot-electro, con le due tutte prese a recriminare spazi del girl power (Hold On, We Got The World), a pretendere un divertimento che sembra non arrivare mai da un party qualunque (All Night, On A Roll), a rivolgere preghiere ecumeniche al Santissimo Fine Settimana (Ready For The Weekend). I brani puzzano tutti di festini hard, di sbronze colossali e successive amnesie da hangover. Le ragazze hanno capito che la techno va per la maggiore, ma non sono state in grado di filtrarne l’essenza in un disco pop. D’altronde è normale aspettarselo da chi dichiara di essere una “nineties bitch”, perché è in quel periodo che dobbiamo cercare i fiori non sbocciati. Gli stessi fiori di un brano come Girlfriend, che fa esercizi – come Jay Z nel 2002 – sulla variazione del tema di Me and My Girlfriend di 2Pac del 1996. Solo che, mentre Jay Z stravolgeva l’apparato narrativo con la storia di Bonnie e Clyde e amplificava i sample della base con chitarre acustiche destinate a consegnare la canzone alle vette delle classifiche, le Icona Pop, ça va sans dire, non hanno questo potenziale e finiscono per scimmiottare il pezzo originale e condirlo in salsa Phoenix. Non è tutto da buttare, in questo This Is… Brani come Then We Kiss o In The Stars (ma la stessa I Love It) funzionano bene con il loro retrogusto estivo e con la loro cadenza biascicata (for the record: la cadenza pop per eccellenza) che,

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Fabrizio Zampighi

Ishome - Confession (Fuselab,2013) Genere: ambient, electronica, beat Dalla Russia la poco più che ventenne Mirabella Karianova aka Ishome arriva finalmente al disco di debutto, dopo quasi dieci anni di gavetta tra studi di musica elettronica ed EP, singoli e mixtape. Alle prese con sintetizzatori di ogni sorta, la Nostra ha spaziato e sperimentato l’elettronica più varia, esperienza che le ha permesso di crescere e di essere poi presa negli anni ’10 sotto l’ala protettrice dell’etichetta ucraina Indeks Music, con la quale ha

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realizzato le sue prime produzioni, Caraboo e Al Capone, che hanno un sapore elettronico condito da beat scuri e incasellati in un deep ambient minimal. Col cambio di label (direzione Proton Music), in Eva il minimal ambient di Ishome rimane ma le sue sonorità si avvicinano a beat downtempo, compaiono voci effettate, si acquisisce quella luminosità che era mancata agli esordi. E nel 2013 Ishome ritorna in madrepatria approdando alla russa Fuselab – etichetta che oltre alla cura del suono è molto legata all’aspetto visual-art dei suoi artisti – ed esordisce su full length con Confession. Ed è qui che Ishome mostra la sua maturità, perchè la proposta sfocia in un elettronica del tutto multiforme, amplifica il coinvolgimento emotivo, abbraccia un beat più vivace, lo comprime offuscandolo in una deep ambient, ne estende le forme andando a toccare motivi sia dance sia techno. Nulla di sconnesso in Confession, groove variegati che nei pomposi electrobeat ricreano strutture house ambient, non troppo distanti da suoni a-là Boards Of Canada (Tetra 94 (Part 1), Tetra 94 (Part 2)). Il disco mostra capacità nel saper ricreare atmosfere minimali, tremoli e tappeti synth in un ambient che ricorda il più morbido Apparat (Wildness, Earth), melodie techno à la Aphex Twin e atmosfere Holy Other, private però di quel loro glitch. In certe situazioni si spinge fino a sfiorare lente oscurità ammalate di witch house (It Exists). Questo lavoro elettronico, nonostante non goda di brevetti di alcun genere, riesce comunque ad attrarre. Le capacità di Ishome di ripercorrere con bravura retro-strade di una elettronica già assimilata non la pongono in una posizione di demerito; non rompe con vecchi schemi ma ci gioca a dovere, ricreando un immaginario synth eterogeneo e molto personale. 7.2/10 Alessandro Rabitti

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L’inutile epicità richiama la musica classica; Il Parenormale annusa il metal. Ogni tanto vengono in mente i No Guru di Milano Original Soundtrack, altre volte dei Casa meno intellettuali e più cazzoni, più spesso l’idea che Il Nido si stia divertendo un mondo a prenderci in giro. Convinzione suffragata dalla presenza di alcune parentesi ironiche parlate inserite in mezzo a una tale cacofonia disturbante: spiegazioni tecniche dei brani, dialoghi tra personaggi assurdi, persino una rubrica della posta di una inventata Radio Squaquerone. Con tanto di crediti del disco cantati in forma di ragtime nell’ultima traccia. In realtà, il quartetto non ha nulla di improvvisato e, oltre a dimostrare buona perizia tecnica, conosce la materia; tolta tutta la facciata demenziale, rimane un disco divertente – un po’ alla maniera delle produzioni di Musica per bambini, se ci passate il paragone azzardato -, che mira esclusivamente all’originalità e a superare ogni tipo di barriera di genere. Il risultato è una bella boccata di ossigeno che tuttavia non fa scorgere, in lontananza, segni di una progettualità organica e ben definita. Che sia proprio questo lo scopo finale di tutta l’operazione? 6.7/10


Genere: impro, freejazz, jazz-core Il trio è ben assortito: da una parte la batteria fisica, sudatissima, instancabile di Balazs Pandi, uno che è free anche quando suona con Merzbow e Gustafsson, figuriamoci in un combo che indaga lo stile jazzistico “istituzionalizzato” da Ornette Coleman dandone una propria, personalissima, versione; dall’altra il sax brasiliano di Ivo Perelman, frantumato in mille riflessi di acuti, strettoie e deflagrazioni; in mezzo il basso elettrico di Joe Morris, col suo borbottare tellurico e indecifrabile che fa da collante tra gli acuti dei primi due. Quest’ultimo minaccioso sulle frequenze basse, almeno quanto Perelman e Pandi sono anfetamina su quelle alte e nella parte ritmica, in una ricerca di significati che ha a che fare esclusivamente con l’interplay e l’improvvisazione. Il risultato è un incalzare continuo, un vibrare saturo di piatti, rullante e note stritolate, un gorgogliare di link sonori solo supposti e ai confini con l’esaurimento fisico e mentale; musica che scrive manifesti (Freedom), accenna a momenti di stasi (What Love Can Lead To), macina statement rarefatti ma insistenti più di un’emicrania senza ibuprofene (Universal Truth). In chiusura i diciassette minuti di Stigma sembrano aprire per un attimo, per poi stamparti sul grugno l’ennesima cavalcata assordante in cui ipotizzare fatemorgane di break hip hop in mezzo al “noise” generato dal sax di Perelman. Autoreferenziale? Forse. Affascinante? Senza dubbio. Ma solo per veri cultori. 6.7/10 Fabrizio Zampighi

Jackson And His Computer Band - Glow (Warp Records,2013) Genere: elettronica Nel 2005 il giovane Jackson Forgeaud esordiva

con uno Smash centrato in pieno: l’album parlava del disorientamento dell’elettronica mid’00 (noi avevamo parlato di electroshifting) e coniugava molte anime, lasciando dubbi irrisolti su quelle che sarebbero state le sorti della musica composta con le macchine. Di propositivo in quel disco si coglieva la voglia di mescolare il passato col presente e di riuscire a non far cadere il piatto della bilancia nè sull’una, nè sull’altra parte. Dopo quell’anno ne sono successe di cose: Forgeaud si è messo a remixare come un forsennato (pezzi di Kavinsky, Kap Bambino, Charlotte Gainsbourg, Planningotorock, Surkin e molti altri), la bolla dubstep è scoppiata (anche) nel massimalismo à la Rustie / Ferraro, l’autotune è diventato pane per tutti gli artisti pop mainstream (una a caso Madonna), e a tutti è venuta voglia di vestirsi con paillettes e di attaccare al soffitto sfere stroboscopiche (Daft Punk) o di ripiegare sul prog Seventies (Justice). Anche se rimane pur qualche rimando alle atmosfere Warp (in particolare i pianoforti dei Boards of Canada in Dead Living Things), in questo nuovo album la connessione con il rock suonato si fa più stretta. Si sentono infatti gli echi francesi degli Air (Orgysteria), dei già citati Justice (nella teatralità barocca di Pump), qualche posa massimalista (Seal e Vista, forse i pezzi più riusciti), e pure tocchi di Simian Mobile Disco (Arp #1). Il calderone aumenta di consistenza (ma non di qualità) con un prescindibile accenno industrial à la Nine Inch Nails anni ’90 (Blood Bust) e con un ricordo vintage degli Stereolab (Memory). Un disco che si ascolta bene, che viaggia veloce con un’estetica da singolo più che da album, operazione probabilmente influenzata dalla massiva esperienza di remixing di Forgeaud. Stare con un piede su più staffe può essere un plus, soprattutto per un esordiente, ma l’eterogeneità non focalizzata su un binario – se

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Balazs Pandi - One (RareNoise,2013)

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iterata – può risultare spiazzante. L’insostenibile leggerezza del postmoderno elettronico viene esplicitata involontariamente in queste 12 tracce, mosaico frastagliato che pone più quesiti che risposte. Glow è una bella casa degli specchi, pulita, tirata a lucido (anche dal punto di vista produttivo), ma qualche volta ci si va a sbattere la testa. Occhio a non farsi troppo male. 6.8/10 Marco Braggion

Genere: folk A dieci anni dall’esordio e dopo quattro anni di silenzio musicale, la cantante residente a Newcastle torna sulle scene con il secondo album per One Little Indian. Il titolo è ispirato alla compagnia elettrica per cui un giovane Elvis Presley faceva le consegne sessant’anni fa, poco prima di diventare una star planetaria. Il folk della Williams è, fin da queste promesse, molto più americano di quello di molte sue colleghe britanniche. E pure questo decimo mattone nella carriera la fa guardare più al pop-folk americano e alla polvere delle strade USA, che alla tradizione europea. Funziona tutto, grazie anche a una eccellente produzione e a una band che sostiene la sua fragile voce di velluto. Tra i musicisti vale la pena ricordare Jon Thorne dei Lamb che suona il contrabbasso e la batteria di Luke Flowers direttamente dalla Cinematic Orchestra. Perfetto per le giornate autunnali che stanno per arrivare, ma se cercate qualcosa che vi stupisca, andate altrove: qui non si esce, con classe senza dubbio, dal seminato. 6.5/10 Marco Boscolo

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Genere: world_etnica, folk, electronica Kevin Blechdom torna alla ribalta con un’altra collaborazione ed ancora una volta riesce a toccare sonorità alle quali non ci aveva minimamente abituato. Tutto questo grazie a un incontro con Hamdi Makhlouf avvenuto in Tunisia presso l’Ennejma Ezzahra, un centro di musica araba e mediterranea, per un seminario tenutosi alla fine del 2011. Il risultato è questo 7+1, un lavoro il cui significato va innazitutto ricondotto a una frase chiave che leggiamo nella press: “7 spices symbol of the presidency of Ben Ali and 1 popular revolution made ​​a few months auparavants”, un chiaro riferimento, dunque, alla caduta del regime dittatoriale che ha dominato la Tunisia per più di vent’anni. L’approccio edonista di Kevin Blechdom trova così nuovi modi e modalità nelle musiche arabo-tunisine di Hamdi Makhlouf, una tabula rasa per chi la ricorda terrrorista sonica con Matmos e J Lesser, nel duo Blectum From Blechdom, ma anche per chi aveva apprezzato il folk country solista di Gentlemania. Il banjo e l’oud in veste del tutto arabeggiante aprono ad una sorta di ballad western-mediorientale (Hasir Ho Down), in cui anche le voci sussultorie, soprattutto quella di Hamdi, fungono da strumento melodico (Meditation). Il loro girovagare sonoro sembra ispirato, nello stile, all’avanguarda di Glenn Branca, e dietro questa ricerca si giunge a momenti che mescolano classicismi alla Wim Mertens, “acusticismi” alla Thurston Moore (Phalanges) e sonorità di stampo popolare sudeuropeo. Le tastiere non sono del tutto abbandonate, qua e là fanno da contorno in tappeti wave ambient (Into Waves) o si bagnano di sapori prog rock su (Thk) a supporto di virtuosismi decadenti acustici. C’è anche spazio per una revisitazione tributo ai Dueling Banjos di Arthur Smith e Don Reno

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Kathryn Williams - Crown Electric (One Little Indian,2013)

Kevin Blechdom - 7+1 (Tsuku Boshi Records,2013)


(Deliverants) e per una cover di Tim Buckley e Larry Beckett (Song To The Siren) che dilatata i tempi dell’originale, mantenendo alto il livello di emotività anche grazie alla bravura canora di Kevin Blechdom e Hamdi. 7+1 è un disco senza confini, arabo e americano assieme. Da un lato, l’elettronica e il countryfolk con quel retroterra di performance teatrali visual-art ed elucubrazioni digitali, dall’altra le ricerche e il jazz del tunisino. Innegabile un discorso didattico e un poco di nostalgia anche per l’irriverenza creativa degli esordi, anche se per quella c’è già una reunion in atto con Blevin Blectum. Le Blectum From Blechdom stanno per tornare. 7.1/10

King Khan and His Shrines - Idle no More (Merge,2013) Genere: garagerock Erano sei anni che King Khan non si faceva vivo con gli Shrines, i quali avevano lasciato spazio al sodalizio con il Bbq Mark Sultan per un ritorno al grezzume del rock’n'roll stampo ’90s. Poi dal 2009 una serie di sfortune, amici persi tra suicidi droga e malattie, ed ecco puntuale arrivare la depressione con conseguenti cure psichiatriche. Idle no more ha dunque il sapore della rinascita e del cambio di rotta, la trasformazione del negativo in positivo. L’album esce per la Merge, anche questa una novità. Per l’etichetta americana dovremmo immaginarci un Roky Erickson che jamma con la Su Ra Arkestra o ancora un Wilson Pickett insieme ai Velvet Underground, discorsi che appaiono po’ esagerati. La realtà è che Idle no more è un disco curato, con canzoni in ottimo equilibrio tra la chitarra di Kahn e i fiati degli Shrines e con i piedi nel garage rock di sempre. C’è più gospel magari, nella ballata Pray for Lil ma ancora di più nella stupenda Darkness

Stefano Gaz

La metralli - Qualche grammo di gravità (A Buzz Supreme,2013) Genere: pop, folk, jazz Torna il collettivo modenese La Metralli, a due anni di distanza dal debut Del mondo che vi lascio che aveva fatto presagire sonorità jazz unite ad una forma-canzone tipicamente d’autore. Con la seconda prova Qualche grammo di gravità, il gruppo prosegue con la stessa formula, arricchendola ulteriormente di atmosfere folk-mediterranee, soprattutto grazie al cantato di Meike Clarelli, sempre più orientato ad un canone interpretativo in salsa world e latin. Nonostante la grande cura per gli arrangiamenti, divisi tra anima pop-folk e ricercatezza jazz, i quindici brani di Qualche grammo di gravità non riescono tuttavia a catturare in pieno l’attenzione dell’ascoltatore, disperdendosi in una sovrabbondanza di influenze e stili che rimandano, da un lato, al primo Capossela (in particolare quello di Modì), dall’altro a un mix che spazia dallo swing al tango, dal rock al mambo. Il tutto, però, senza una direzione precisa in grado di diversificare la sostanza delle singole canzoni, nonostante la presenza di alcuni buoni episodi, ad esempio nel ritmo spagnoleggiante di Ruggine e carie o nella malinconica nenia di Sognando senza denti; stesso discorso per la grazia avant-folk di Merìdies,

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Alessandro Rabitti

in cui King Kahn tira fuori tutta la sua abilità di crooner ed è il momento in cui si respira il sapore della confessione personale, del dolore che passa ma rimane sottopelle. Il resto serve ad accertare la ritrovata forma del nostro ed è la scusa per tornare in scena tirando fuori dall’armadio stramberie in paillettes, parrucche e copricapi faraonici. Non vediamo l’ora. 7/10

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che, con la sua lunga coda strumentale, spezza l’incedere un po’ troppo monotono di un album la cui la maggior parte dei brani segue la scia di un folclore esotizzante, ad esempio in Cesarina l’incendiaria o La sciancata. Non basta dunque l’ottima voce di Meike, sempre in primo piano, a fare in modo che i pezzi di Qualche grammo di gravità si distacchino da questo paradigma, per un disco che, nonostante alcune intuizioni e buone abilità tecniche, pecca di eccessiva uniformità, senza mostrare la propria personalità a chi ascolta. 6/10 Giulia Antelli

Genere: pop, rock A sentire i giri di basso in stile U2, le chitarre taglienti rubate ai Joy Division (Cash) e quei riverberi che sembrano ammiccare agli onnipresenti Jesus and Mary Chains (Milano), potresti tacciarli di facile revivalismo i Les Enfants. E invece il secondo EP – il primo, omonimo, è uscito nel 2012 – di Marco Manini (voce, batteria), Francesco Di Pierro (chitarra), Umberto Del Gobbo (farfisa and synth, chitarra, metallofono) e Michele Oggioni (basso) è tutto fuorché una replica fine a se stessa. Dentro ci trovi persino scampoli di un cantautorato essenziale, intelligente, non per forza di cose aderente agli standard di genere, capace tuttavia di suonare credibile con quelle malinconie un po’ teatrali in bella vista. In realtà è proprio la commistione tra una voce che ricorda le intensità moltheniane – o per meglio dire umbertomariagiardiniane – senza scimmiottarle e una parte musicale curatissima in ogni dettaglio e con qualche reminiscenza anni Ottanta, che funziona. Quanto basta per creare un disco forse non particolarmente innovativo, ma in grado di descrivere un piccolo universo di sentimenti

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Fabrizio Zampighi

Lorde - Pure Heroine (Universal,2013) Genere: pop, mainstream, art Quando, a inizio luglio, vi abbiamo parlato di The Love Club EP, la neozelandese Lorde era pressoché sconosciuta fuori dai confini nazionali, all’interno dei quali, invece, stava già spopolando. Da allora, quella della sedicenne Ella Yelich-O’Connor/Lorde è stata una vera e propria invasione degli USA: una rapida scalata, prima al vertice della classifica “alternative” (dove staziona da ormai un mese, con tanto di copertina Billboard) e poi di quelle generaliste dove in questo momento la sua Royals sembra avere poche rivali. La classica teen-diva dallo scarso talento? Non proprio. Come si poteva già evincere da The Love Club EP, la Universal – con la quale lavora da ormai due anni – ha trovato qualcosa di più della tipica gallina dalle uova d’oro da sfruttare nell’immediato: non capita tutti i giorni, infatti, di scovare una ragazza della sua età che inizia a fare musica ispirandosi a nomi quali Burial, SBTRKT e The Weeknd. Segno dei tempi? Probabile, ma è indubbio che ci sia passione e di conseguenza margini per una maturazione artistica in un contesto meno bubblegum. Per il momento bisogna accontentarsi di un album d’esordio – Pure Heroine – che non aggiunge troppo alle qualità che già conoscevamo: 400 Lux è una sorta di Royals con meno appeal, mentre Team e Tennis Court mettono ancora più in evidenza la tendenza – qui più chiara rispetto all’EP – ad avvicinarsi a una Lana Del Rey (con la quale condivide una certa indolenza melodica). È però nel minimalismo dell’accoppiata beat scandito+voce (magari supportata da un harmonizer) che Lorde

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Les Enfants - Persi nella notte EP (Autoprodotto,2013)

e spazi capace di rapirti con garbo. 6.5/10


Riccardo Zagaglia

M+A - These Days (Audioglobe,2013) Genere: dance-pop, elettronica Nel momento dell’uscita di When, singolo di lancio di These Days, avevamo avuto una sensazione unica: quella di aver finalmente trovato la colonna sonora perfetta dell’estate ormai alle porte, più dei gorgheggi di Pharrel in Get Lucky o dei brutti remixoni su brutti pezzi di Rihanna. When ce la siamo portata dietro nei viaggi in macchina con il mare da un finestrino e il litorale dall’altro. L’abbiamo cantata e ballata nelle feste con gli amici e nei pomeriggi di pioggia torrenziale in montagna. Una cosa che non capita tutti i giorni, con certa musica italiana. E alla fine è cresciuta così tanto nelle orecchie che siamo riusciti a rendere la pubblicazione di These Days (previsto per l’imminente autunno) un countdown curioso e ansioso. Quando SA ha incontrato gli M+A in occasione del loro esordio Things.Yes, loro hanno risposto così a una domanda sulla presunta ballabilità

di alcuni brani del disco: “non siamo assolutamente tipi da party. Abbiamo voluto fare musica dance ma non ci siamo riusciti, perché in realtà non riusciamo a lasciarci alle spalle gli anni di grunge e post-rock”. Ebbene, These Days ha l’onorato compito di superare quell’ostacolo che solo nel 2011 sembrava insormontabile. Ha, cioè, il compito di sacrificare i padri delle camicie a scacchi sull’altare di ritmi tropicali e di abbassare le latitudini referenziali nei pressi di certa Florida RandB non troppo distante dalla black music o dal soul. Date le aspettative, il rischio delusione era dietro l’angolo. Alessandro Degli Angioli e Michele Ducci, divisi fra Bologna e Londra, hanno suonato tutti gli strumenti del disco, tenendo gli occhi puntati sulle tendenze musicali più in voga e sorretti dall’autorevole Monotreme Records, label britannica di tutto rispetto. Anche se ai più maliziosi potrebbe sfuggire qualche commento arguto riguardo a un’operazione che, visti i tempi, si direbbe ruffiana, l’impatto di These Days non è da poco. Innanzitutto, in ottica nazionale, serve finalmente a scrollarci di dosso un certo clima di cupezza metropolitana, che finiva per star stretto a un panorama che avrebbe potuto dar molto di più, rischiarando le tinte fosche e recuperando la vena melodica. Il trucco, si sa, l’hanno scoperto i Daft Punk di Random Access Memories: l’italo disco (che i francesi sono andati a scovare nelle produzioni di Giorgio Moroder) è un terreno fertile che merita una riscoperta, una valorizzazione e un aggiornamento. Ora, senza nulla togliere a band importantissime in quest’ottica come i Casa del Mirto, questo approccio finalmente torna a casa. Secondariamente c’è quel ghetto-style che, attraverso una forzatura che alcuni potrebbero definire inappropriata, è in verità un surrogato scherzoso e convincente di quel binario che parte dai suoni funk della Motown, passa per l’hip hop e conclude il suo

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riesce a dare il meglio di sé, ritagliandosi il proprio trademark sound per il futuro. Nonostante alcune situazioni post-moderniste di White Teeth Teens (la prima metà ha un retrogusto anni ’60) e una Ribs che suona come un club-anthem volutamente mancato (e proprio per questo convincente), Pure Heroine è tuttavia un disco che soffre di una certa monotonia di fondo e della mancanza di quel gusto arty che siamo certi possa appartenere alla musicista (se non oggi, tra qualche anno). Le dieci tracce – scritte in parte con la collaborazione del connazionale Joel Little – dell’opera prima di Lorde sono probabilmente più interessanti della maggior parte delle canzoni che gli ascoltatori passivi di mezzo mondo sono abituati a fagocitare, ma da qui a far scattare la standing ovation ce ne passa. 6/10

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Nino Ciglio

Manic Street Preachers - Rewind The Film (Columbia Records,2013) Genere: pop, brit, alt “I can’t fight this war anymore / Time to surrender, time to move on”. Siamo abituati

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a farci spiazzare dalle virate dei Manic Street Preachers, dai loro album spesso diversissimi l’uno dall’altro usciti in oltre vent’anni di onorata carriera, dalla sempre splendida voce di James Dean Bradfield e dalle sortite della lingua biforcuta di Nicky Wire. Mentre molti loro colleghi sono spariti dalla circolazione per poi riformare la band dopo molti anni, loro sono sempre stati tra noi. E l’uscita di un loro nuovo lavoro, come questo Rewind The Film, è ancora a suo modo da considerarsi un evento – specialmente perché il seguito, Futurology, sarà lanciato tra pochi mesi e sarà qualcosa di totalmente diverso, con la promessa di influenze new wave e kraut-rock. I Manics li si perdona anche dopo l’uscita di un album zoppicante come Postcards From A Young Man, cui sono seguiti un’eccellente doppia raccolta di singoli e la ristampa del debutto Generation Terrorists. Abili da sempre nel mescolare amore e rabbia, energia e malinconia, i tre questa volta consegnano un disco dimesso, segno tangibile del fatto che i tempi sono cambiati e che la generazione ribelle di cui hanno fatto parte ha perso, o almeno teme di aver perso. Parte con una frase lapidaria – “Non voglio che i miei figli crescano come me” – l’opener This Sullen Welsh Heart, con la partecipazione di Lucy Rose: è il momento, dunque, di riavvolgere la pellicola e guardarsi indietro con animo (spesso solo apparentemente) mite, di attingere dal proprio bagaglio di esperienze e dalle proprie influenze. Così, se in Anthem For A Lost Cause (un titolo che è tutto un programma) riemergono i Manics di A Design For Life, in Builder Of Routines si gioca a rievocare i Beach Boys spectoriani di God Only Knows. Della partita è anche l’ex Pulp e Longpigs Richard Hawley, con il calore di una voce che ammalia e conquista nel tripudio d’archi della title-track, così come Cate Le Bon (cui James lascia il campo libero in 4 Lonely Roads).

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viaggio nell’RandB west coast, in un modo che – a nostra memoria – pochi erano riusciti a fare da queste parti. Il disco, poi. Down The West Side, Freetown Solo, che già da sole sostengono l’impalcatura dell’opera, pullulano di armonia e orecchiabilità, con innesti hip hop e curvature di chitarre acustiche da tramonto a Palm Beach. E anche se al mic non c’è una Mary J Blige a singhiozzare, la voce di A, più consapevole (anche se palesemente più rauca), fa una certa figura. Ci sono Game, De-light e Pratical Friday che sono più vicine alle produzioni precedenti, macchiate di Royksopp, ma che qui compaiono in una veste più melodica. E in questo senso potrebbero dirci qualcosa Neon Indian, Washed Out o Toro Y Moi. C’è il gusto vagamente jam-jazz d’effetto radiofonico di L.E.M.O.N. o Midnight Radio, che riprende il discorso lasciato in sospeso da Touch dei Daft Punk. Menzione a parte merita il binario B Song – Slow, che omaggia egregiamente il retro funk graffiato sui piatti di Beck, anche questo un nome che non si fa spesso quando si parla di musica italiana. Il classico pelo nell’uovo è rappresentato da canzoni fin troppo ripetitive. Il main theme (se così vogliamo chiamarlo) di When è utilizzato, con le dovute minime variazioni, in almeno quattro brani, relegando l’ampio respiro delle melodie ad una sorta di mantra rituale, che qualcuno potrebbe apprezzare proprio per questa sua ossessività. Poca cosa, comunque, per chi ha davanti a sé un grande futuro. 7.3/10


Alessandro Liccardo

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Marianne Faithfull - Broken English (Deluxe edition) (Universal,2013) Genere: post-punk Con un anno d’anticipo sul 25ennale, si celebra con l’edizione deluxe quello che è il centro e lo snodo fondamentale della carriera di Marianne Faithfull, il disco con cui nel ’79 si scrollò di dosso anni di vagabondaggi artistici e biografici. Come ormai è noto, uscita dalla cerchia Stones e dalle sue seduzioni letali, l’icona della Swinging London non era tornata davvero ad una vita regolare, imboccando anzi una via fatta di nomadismo, abusi, stravizi, vagabond ways sul serio (come intitolerà un album più tardi) che ne avevano messo a repentaglio salute e carriera. La quale, peraltro, languiva tra un disco non pubblicato, un segno di vita come guest nel 1980 Floor Show di Bowie e un dimenticatoio interrotto da un contratto arrivato “non so neanche io perché” per un disco country, Dreamin’ My Dreams, che altrettanto misteriosamente finisce per vendere bene in Irlanda. Ma come aveva dimostrato l’ospitata dal Duca, Marianne non aveva perso la capacità di trovarsi dove si muovevano le cose nuove, e in quegli anni bazzica musicisti del nascente giro new wave: con uno, Ben Brierley dei Vibrators, intraprende una relazione che arriverà al matrimonio, mentre con il chitarrista Barry Reynolds realizza un paio di canzoni che suscitano l’interesse di Chris Blackwell, il quale la mette sotto contratto ma soprattutto nelle condizioni di rinascere artisticamente. Perciò niente tentativi di bissare il successo del precedente disco replicandone lo stile: il gruppo viene dal nuovo ambiente musicale, parla la lingua dell’epoca sapendo cogliere e rielaborare le tendenze più vive e fervide del momento, sia stilisticamente che come capacità di raccontare il mood di quegli anni, e in quel senso Marianne e co. dirigono gli sforzi. Il risultato

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Rewind The Film è un insieme di frammenti, di riprese che disposte in ordine sparso formano un racconto. Canzoni come parole estratte da un cappello burroughsiano, talvolta grintose (Show Me The Wonder è un felice pop tutto melodia e fiati in primo piano, quasi à-la Divine Comedy) e talvolta depresse (è il caso della marcia funebre As Holy As The Soil), spesso con il gusto immutato per la citazione colta – Manorbier è un cinematico brano strumentale, con tanto di theremin che rievoca il luogo che Giraldus Cambrensis definì “il punto più gradevole del Galles” e in cui una giovane Virginia Woolf e Siegfried Sassoon si recavano per trarre ispirazione per le proprie opere letterarie. Quindici anni dopo Tsunami tornano le suggestioni orientaleggianti nell’elegante (I Miss The) Tokyo Skyline, un potenziale singolo in un album che funziona meglio in modalità “shuffle” piuttosto che nel poco scorrevole ordine originale della sua scaletta: i duetti sono tutti all’inizio, e ci sono troppe ballate acustiche una dopo l’altra che tendono a formare un unicum indistinto. Le si promuove con riserva, queste dodici canzoni dal gusto dolceamaro che spesso non seducono, se non con ascolti ripetuti. È come se si avvertisse una certa stanchezza nella penna di Nicky Wire, come se alcune tracce stessero qui a fare numero (i Manics hanno relegato al rango di B-side brani più incisivi di alcuni di quelli che troverete qui). Chissà, forse una selezione più accorta dei pezzi migliori di questo episodio e del prossimo, già praticamente pronto, avrebbe giovato. I tempi di The Holy Bible non torneranno più, ma a quanto pare neppure quelli di This Is My Truth, Tell Me Yours - più volte accostato a questo nuovo album durante le interviste. Rewind The Film è un disco un po’ così, di passaggio, a tratti anche un po’ bolso, che riesce a convincere solo in parte. 6/10

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sboccatezza scritta dall’enfant terrible Heathcote Williams, la quale diventa un sermone d’accusa e gelosia nei confronti del suo famoso ex-fidanzato. Un disco epocale, dopo il quale però non vissero tutti felici e contenti – almeno non subito: per la salute ci sarà ancora la battaglia contro l’alcool, mentre artisticamente il disco successivo sarà un passo indietro. Ci vorrà l’87 circa perché le cose si stabilizzino: intanto le basi sono state gettate. L’edizione include anche materiale dai singoli (l’aggiornamento alla nuova vocalità di Sister Morphine, qualche remix 12) e il mix originale del disco, preferito dall’autrice ma sacrificato a un suono meno classico e più asciutto, secondo i dettami della “freddezza” wave (peccato però per certe chitarre argute della title-track…), oltre ai promo video girati all’epoca da Derek Jarman. 9/10 Giulio Pasquali

Mark Kozelek and Desertshore - Mark Kozelek and Desertshore (Caldo Verde Records,2013) Genere: rock, blues, folk Detto fatto. Arriva puntuale come un orologio svizzero l’ennesima produzione di Mark Kozelek in questo 2013 fortunato. Creatura multiforme che sembra aver momentaneamente accantonato il moniker Sun Kil Moon, Kozelek è tornato alla carica dopo aver sperimentato i pattern elettronici conditi all’occasione dal figlioccio Album Leaf. Ed è tornato come meglio sa fare: con al suo fianco la band strumentale Desertshore, composta dal compagno di sempre Phil Carney (già insieme nei Red House Painters e Sun Kil Moon) e dal pianista classico Chris Connelly, ai quali si aggiunge, in fase di registrazione, il batterista dei Sun Kil Moon Mike Stevens. Il risultato, musicalmente parlando, è una nuova linfa per brani slow che

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è un disco che fa sembrare lontano anni luce il country di poco tempo prima: è il disco di una reduce dagli inferi, a partire dalla foto virata blu in copertina, dove “broken english” sembra indicare lei stessa, e dove quella voce che per alcuni era stata rovinata dalla sregolatezza diventa mezzo principale per il racconto dei travagli attraversati. Attraverso il rock robotico e insieme accorato della title track, dedicata alla terrorista Ulrike Menhof e vibrante delle ansie più oscure di fine ’70, una Witches’ Song che ricorda l’appellativo dato da sempre alle donne che escono dalla norma e in cui canta “Danger is great joy, dark is bright as fire”, il blues meccanico vagamente Nightclubbing di Brain Drain che, come la successiva Guilt continua ad alludere ai suoi recenti trascorsi e ai giudizi che suscitavano, l’autrice ridefinisce una sua nuova identità, seppellendo definitivamente la vecchia Marianne-usignolo sotto quella di una donna che a 33 anni sembra aver vissuto e visto tutto. Non come Lucy Jordan, la cui ballata apriva il lato B del vinile: pescata dal repertorio dei Dr. Hook and the Medicine Show (tipica rock band post-west coast che a un tratto passa armi e bagagli alla disco), vibra maestosa nel narrare la vita frustrata e tranquilla di una Emma Bovary a stelle e strisce, specchio al negativo della cantante. La quale, dopo la corsa spacedisco-boogie di What’s The Hurry, chiude il disco con due botti da leggenda. Il primo è una cover spettrale – e definitiva – della lennoniana Working Class Hero (i Green Day con la loro versione fanno una figura da ragazzini, benché ai tempi delle rispettive incisioni loro fossero quattro anni più vecchi), un blues minaccioso squarciato da lame di chitarra, in cui le 12 battute vengono ridiscusse non ignorando la lezione dei Pink Floyd di Money. Il secondo è Why D’Ya Do It?, un reggae lurido e punkeggiante che mette in musica una poesia di rara


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Cloud che mette nella stessa strofa la mancanza lacerante che si prova per il piccolo gatto morto nel 2011 e… “slipped off to kitty heaven”, con la dipartita dell’amico Tim Mooney degli American Music Club, che sprigiona in Kozelek un senso di tenerezza e di consapevolezza amara sulla vita. Musicalmente intenso e orchestrato secondo metodi vagamente chamber rock, Desertshore riserva ancora sorprese per gli amanti di Kozelek. Perché la scrittura personalissima non omette racconti e storie degne delle migliori sceneggiature hollywoodiane. Come quella di Hey You Bastard I’m Still Here, nella quale Mark racconta di aver letto la Bibbia Satanica da bambino e di aver incontrato Anton LaVey, leader della Chiesa di Satana, in un supermercato dell’Ohio. Non dobbiamo crederci, ma l’impatto è potentissimo. Così come lo è nel ritratto anaforico di Jason Molina, citato in Sometimes I Can’t Stop o nelle parole rassicuranti del padre dopo la morte di uno zio in Brothers, alle quali si aggiungono un falsetto singolare e una coda di pianoforte che spegne il disco nel silenzio della morte. Non è certo l’opera che consegna Kozelek alla Storia, questa con i Desertshore, perché lui nella Storia c’è già. E il nuovo lavoro lo conferma semplicemente, consegnandosi ai posteri nello splendore intatto di un ennesimo masterpiece. Così ormai ci ha abituato e il rischio di viziarci rimane alto. Assetato di storie e impavido, però, Kozelek rimane il ragazzo insicuro di un tempo, con la differenza che ora è capace di dirlo al mondo, senza temere le conseguenze. Così semplifica in Tavoris Cloud: “At the age of 46 I’m still one fucked-up little kid who cannot figure anything out”. 7.3/10

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non sfigurerebbero nelle tracklist degli album di gioventù delle varie formazioni del cantautore di San Francisco. Ma non solo: i lunghi tappeti di piano e i ritmi spesso sincopati rendono Desertshore uno degli album più “movimentati” della sua carriera. Come spesso accade quando si parla dell’aura monotona e coinvolgente delle corde vocali di Kozelek, la vera virtù del disco si nasconde nei testi. Sembra – ora più che mai – che il nostro non abbia più paura di nulla. L’attitudine timida e spersonalizzante che aveva toccato, a volte, la sua produzione, lascia il posto ad un autobiografismo spiazzante, di quelli che quasi imbarazzano l’ascoltatore. Ci troviamo immersi in particolari intimi della vita dell’autore, che come vene pulsanti, ritrasmettono nero su bianco storie, ricordi e i sentimenti di sempre. Come in Livingstone Bramble, dove una scenetta di insonnia si incrocia con ricordi di vita d’artista in contesti difficili (“Ho telefonato al mio promoter spagnolo riguardo l’imminente tour in ottobre / erano le quattro del mattino quando mi sono rilassato e ho stretto a me il mio amore”) che finiscono nel più umile (e forse triste) dei modi: guardando un incontro fra Ray “Boom Boom” Mancini e Livingstone Bramble sul canale ESPN Classic. E Livingstone Bramble ci permette di parlare dell’ispirazione quanto mai giocosa e divertita che regna, sia musicalmente (con i Desertshore a fare il verso ai Crazy Horse), sia dal punto di vista del songwriting. Leggete qua: “Posso suonare come Fripp o come Johnny Marr / fare giri come Jay Ferrar”. Non sembra Kozelek. O forse sì, perché subito dopo spunta il solito dentino avvelenato: “I hate Nels Cline” sentenzia nella canzone, mentre Carney si cimenta in un assolo terribile, che dovrebbe parodiare i Wilco. Ma la vena ironica non si esaurisce qui, perché viene condensata e mixata egregiamente a un fingerpicking malinconico di Tavoris

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Genere: rock, post “Noi che accendiamo lumi, / per nasconderci le luci”. Sta forse tutto in quel “noi” ripetuto più volte nell’iniziale Dio delle zecche – stranamente l’unico testo non scritto da Emidio Clementi, l’autore è Danilo Dolci – il significato del nuovo disco dei Massimo Volume. Quasi si trattasse di una condivisione d’intenti con chi ascolta, di un capirsi senza parlare, lontani da un quotidiano che fa paura (vince chi resiste alla nausea / chi perde meno / chi non ha da perdere) e ben saldi a un passato che in qualche maniera ritorna. Sempre lungo i bordi, a leccarci le ferite tra stanze in affitto e personaggi da romanzo, qui forse ancor più che in quel Cattive abitudini che tre anni fa aveva sancito un ritorno convincente per una band amatissima dal pubblico e mai dimenticata. Disco raffinato, calibrato, analogico e per certi versi anche “innovativo” quello (atmosfere in molti casi più lente, riflessive), almeno quanto Aspettando i Barbari – grazie anche a suoni più scuri e decisamente elettrici – ci sembra fisico, ortodosso, rappresentativo dell’immaginario più “riconoscibile” dei Massimo Volume. Soprattutto nei testi, tanto che quando si racconta dell’abitare stanco di Silvia Camagni o si collezionano fotogrammi di vite vissute alla mercé del destino in La notte, sembra quasi di stare ai tempi di Stanze o Da Qui. Del resto, se anche Clementi, intervistato qualche tempo fa da Radio Città del Capo, si sbilanciava definendo il nuovo parto come qualcosa di più “freddo” rispetto all’album precedente, un motivo ci sarà. Da ricondurre, certo, alle registrazioni in digitale che hanno caratterizzato le session dell’ultimo disco (diversamente da quanto accaduto con Cattive abitudini), alla circostanza che ha visto i musicisti lavorare spesso sui brani ognuno per conto proprio,

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ma forse anche al periodo storico in cui i due album sono stati concepiti. Là si parlava di un mettere insieme i cocci dopo otto anni di latitanza, di un tentativo di rinascita niente affatto scontato da consumare (magari) tra equilibrismi sottili; qui il passo sembra deciso e veloce, con tre anni pieni di concerti – e, crediamo, di soddisfazioni – alle spalle. Un disco più diretto del predecessore, insomma, profondo come sa essere ogni cosa partorita da quel marchio registrato che è ormai la band bolognese, ma al tempo stesso senza troppi livelli interpretativi da diradare. Anche dal punto di vista musicale, a giudicare da un suono che non cerca intermediari, leggermente arricchito nei timbri – spuntano anche aromi di synth – ma comunque riconoscibile: post rock stratificato e a suo modo metodico nelle progressioni più evocative (Il nemico che avanza), noise in certe chitarre taglienti (Compound), con sprazzi sorprendenti come i For Carnation di Vic Chesnutt o il Clementi in “versione John Lydon” negli acuti di Dymaxion Song. Consolatorio in tempi grami come sono quelli che stiamo vivendo (la notte / è una lama illuminata / che taglia il buio / e la paura / e punta avanti / dove tutto / riposa immacolato / e giusto / e nostro / e puro / prima dell’arrivo dei barbari, si canta nella title track) e ricco di ricordi personali (la San Benedetto del Tronto di Clementi citata in La cena), Aspettando i barbari è in fondo un disco consapevole. Quella consapevolezza da artigiano che serve a tradurre con onestà e etica del lavoro un immaginario in tutte le sue declinazioni, conoscendone alla perfezione tempi e modi. In questo i Massimo Volume sono sempre stati bravi e il loro sesto album ne è l’ennesima conferma. 7.2/10 Fabrizio Zampighi

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Massimo Volume - Aspettando i barbari (La Tempesta Dischi,2013)


Genere: pop, dream I Mazzy Star non sono tipi da intervista. Nella loro storia ne hanno rilasciate pochissime e sempre molto laconiche. Solo due (per ora) servono ad aprire la campagna pubblicitaria del loro ritorno dopo diciassette lunghi anni. Al Guardian, però, le cose sfuggono un po’ di mano e l’intervistatore in difficoltà si trova a confrontarsi con il muro di timidezza (c’è chi, nei commenti, la definisce arroganza) di Hope e David e sperimenta sulla propria pelle quanto scriverà nel prosieguo: “Intervistare i Mazzy Star è come gettare sassi in un pozzo profondo e aspettarsi di ricevere deboli spruzzi di ritorno”. Si ha a che fare con questo quando si parla di Mazzy Star. Di una band che si è ritrovata catapultata nel culto Nineties dello slow core, del dream pop di matrice più acustica, di quel clima di malinconica decadenza che nei Novanta faceva da contrappunto agli amplificatori ridotti in macerie del grunge. Ma i Mazzy Star non hanno taciuto per questi diciassette anni che separano Seasons Of Your Day dal 1996 di Among My Swan. Dai progetti collaterali di Hope Sandoval (quei Warm Inventions in cui ha militato anche l’amicopartner Colm Ó Cíosóig dei My Bloody Valentine) all’assiduo lavoro in studio, che ha portato la band a raccogliere i dieci episodi di Seasons Of Your Day. Si avverte palese più che mai una linea di continuità, in effetti, soprattutto con il loro canto del cigno del 1996. Se l’esordio She Hangs Brightly (datato 1990!), infatti, sembra invecchiare meglio ad ogni ascolto con la sua freddissma lucentezza e So Tonight That I Might See presenta sprazzi di animata wave che al tempo facevano il verso a quanto di più prolifico avesse prodotto da un lato il Regno Unito in campo dream (Jesus and Mary Chain), dall’altro gli USA in campo slow

core (Low), l’asse Among My Swan – Seasons Of Your Day ripesca soprattutto dal calderone blues-country-americana le armi più convincenti. A primo acchito, sembra che il tempo si sia fermato. Il songwriting è potente, la voce di Hope – nonostante i suoi 47 anni – più soave che mai, le risposte sulla sei corde di Roback sempre più pure di fingerpicking e slide. L’apertura, affidata a In The Kingdom, è giocata sui modelli folk di una scrittura paragonabile a Dylan o Neil Young, come se la nativa messicana Hope sentisse il bisogno di ripescare le radici più incontaminate, scrivendo sull’organo, sugli slide lisergici di Roback e sui ticchettii di glockenspiel, un nuovo passato. Elettricità e acustico trovano una fusione molto interessante, un equilibrio nel quale tutti gli strumenti suonati nel disco (moltissimi, ma appiattiti nel solito gioco di monotonia del genere) restituiscono un clima “morfinico” di cui California (singolo prescelto, ma forse il brano meno rappresentativo) è l’esempio più palpabile. Canta come una Joni Mitchell del Mississippi, la Hope, che in I’ve Gotta Stop si riscopre blues-girl sorretta dai lick soffusi della distorsione di Roback e dalle rade percussioni di Colm Ó Cíosóig. E canta di passioni bruciate nel fuoco del tempo in Common Burns, unico brano (insieme a Lay Myself Down) edito in un 12’ del 2011. Non sfigura, in quest’ottica, il cameo di Bert Jansch – leggenda scozzese della sei corde, recentemente scomparso – che, per Spoon, intesse un fragile mantra di slide e arpeggiato come quelli che si sentivano nelle dark ballads dei Velvet Undeground and Nico. C’è tempo persino di ricordarsi i referenti psycho pop nella cavalcata interminabile che chiude il disco, Flying Low. Un tocco di armonica, la voce spinta sempre più in profondità e qualche giro che potrebbe accendere l’interesse dei fan della chitarra di Jimmy Page.

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Mazzy Star - Seasons Of Your Day (Rhymes Of An Hour,2013)

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MGMT - MGMT (Columbia Records,2013) Genere: pop Tornano gli MGMT di Andrew VanWyngarden e Ben Goldwasser con un nuovo disco, questa volta omonimo, registrato ai Tarbox Road Studios ancora una volta con Dave Fridmann (coproduttore e già dietro al mixer nel precedente Oracular Spectacular) e accompagnato nella versione Deluxe da un software (“Optimizer”) a integrare musica e immagini video. Tre i singoli previsti (a Your Life Is A Lie seguiranno Alien Days e Cool Song No. 2) per un album che tradisce fin dall’incipit un’ispirazione squisitamente sixties, in un magma sonoro che si destreggia tra la psichedelia sghemba dei Pink Floyd di The Piper At The Gates Of Dawn e l’eleganza elettronica e retrò degli Air, passando per il Brian Eno di Here Come the Warm Jets e certe atmosfere dei Mercury Rev di

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Yerself is Steam. I Nostri si lasciano così definitivamene alle spalle l’elettro-pop e la naturale vocazione all’anthem da dancefloor delle varie Kids e Time To Pretend, e abbandonano qualsiasi struttura canonica nel nome di una ricercaomaggio alle loro radici musicali: con le voci quasi mai in primo piano sono i suoni a farla da padrone, dando all’intero lavoro una coerenza che travalica i singoli episodi (davvero difficile estrapolare una canzone piuttosto che un’altra, tanta è l’impressione di trovarsi di fronte a un’unica, inscindibile massa sonora), minimizzando le differenze che intercorrono tra i brani; facile così scovare, nella marcetta garage di Your Life is a Lie e nel marziale incedere della cover Introspection il fantasma del solito Syd Barrett, mentre sono i Beach Boys in LSD uniti ai Beatles di Sgt. Pepper’s e del Magical Mistery Tour a far capolino nella cantilena pop Plenty Of Girls In The Sea, a cui fa da contraltare la cupa – e flaminglipsiana – Mistery Disease. Se Congratulations, privo com’era dei singoli che avevano fatto la fortuna del suo predecessore, era stato forse oggetto di delusione per i sostenitori di Oracular Spectacular, questo terzo lavoro in studio si sposta un gradino più in là, lasciando un gap difficilmente colmabile tra i Nostri e chi, in loro, ricerca ancora la geniale spensieratezza di Electric Feel. MGMT è un album prezioso, netto nel suo tagliare ogni ormeggio con la monotonia della realtà moderna, decisamente interessante, sicuramente pretenzioso, figlio di una band che però, forse, sotto questa attitudine ha sepolto una piccola parte di anima. 7.3/10 Enrica Selvini

Moby - Innocents (Mute,2013) Genere: elettronica A Moby va riconosciuto un gran talento nel

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Strana storia, quella dei Mazzy Star. Una storia che – nonostante il culto nato con brani come Fade Into You che li ha catapultati nell’Empireo del genere – i Nostri sembrava non avessero intenzione di vivere, di sfruttare. Rinchiusi in una gabbia di timidezza e fragilità che li ha un po’ resi un enigma da risolvere, forse ricavavano attrattiva precisamente da quella. Ora che sono diventati tangibili, qualcosa è sfuggito. E Seasons Of Your Day ne è un po’ la conferma, dal momento che le canzoni non sono state pensate per un exploit di ritorno (o per una reunion, come molti penserebbero), bensì centellinate punto per punto in questi diciassette anni. Un disco, in fin dei conti, che non aggiunge nulla alla loro carriera, che non si preoccupa del tempo che passa, ma si difende egregiamente attraverso una scrittura che solo loro avrebbero saputo concepire. 7/10


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zione sorniona nella pantomima gospel – quasi dei Polyphonic Spree in sollucchero – di The Perfect Life, mentre l’ex-Screaming Trees mastica la filastrocca piana di The Lonely Night come se non avesse alcuna consapevolezza di quanto gli sta accadendo intorno (per inciso: un blando cincischio sintetico che azzecca un crescendo dalla delicata bellezza). In definitiva è un disco ambizioso, dal quale potrebbero decollare due o tre singoli da alta classifica, che purtuttavia tradisce una insanabile distanza tra intenzione e possibilità. Prendi la traccia conclusiva, quella The Dogs cantata dallo stesso Moby in un tremolio malfermo di tastierine 80s, un po’ come potrebbero dei Depeche Mode visti attraverso una caramella eniana: comunica un senso di smarrimento gradevole, quasi confortante, ma scivola via proprio come l’aurea mediocritas del suo fortunato autore. 6.2/10 Stefano Solventi

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confondere i piani tra complesso e facile, tra dimensione radiofonica e retroterra alternativo, tra fatamorgane vintage e pulsione futuristica. Ciò che gli ha permesso (e ancora gli permette) di confezionare ordigni pop tanto fascinosi quanto didascalici, che nei casi più riusciti sembrano naturalmente destinati ad occupare l’airplay. Merito del metodo, quel ricorso sistematico – al limite dell’ossessivo – ad un espediente in loop (spesso un sample) su cui la canzone si sviluppa e a cui l’ascolto s’aggrappa. Modalità tanto efficace quanto ripetitiva, proprio il motivo per cui non riesco ad andare oltre un moderato apprezzamento per l’arte di Richard Melville Hall. Il quale in occasione dell’album numero undici ha pensato di accantonare quasi del tutto la pulsione danzereccia, per confezionare una sorta di concept sul tema della vulnerabilità, quanto mai attuale in questi tempi di precariato incipiente e progressivo. Ed ecco quindi che, chiamato Mark “Spike” Stent a co-produrre e una pattuglia eterogenea di ospiti ad interpretare, ci propone una collana di ballate malinconiche e visionarie, sclerotizzate d’imperfezioni calcolatissime, esercizi di nazionalpopolariato evoluto con sospetti di alternativo strisciante. Qualche strumentale che vaporizza evanescenze siderali da qualche parte tra Air, Eno e Terry Riley (Going Wrong, Everything that Rises), downtempo languidi con implicazioni spacey un po’ Morcheeba e un po’ Zero 7 (The Last Day, per la mestamente sensuale Skylar Grey, oppure A Case for Shame, cantata da una intensa Cold Specks), così come acidità noir asperse di funk cinematico (Don’t Love Me, affidata alla grinta allusiva di Inyang Bassey). Incuriosiva parecchio, sulla carta, la presenza di Damien Jurado, Wayne Coyne e Mark Lanegan: ebbene, il primo regala vibrazioni lunari alla toccante ma invero sempliciotta Almost Home, il secondo sfodera una presta-

M.O.F. - Fried Generation (Auand,2013) Genere: elettronica, jazz, fusion Rispetto all’esordio Embarrassing Days – correva l’anno 2009 – il quintetto ferrarese sfronda dalla ragione sociale il “5tet”, rinunciando così ad una connotazione di chiara matrice jazzistica. Quasi a voler sottolineare ciò che i Nostri fanno in musica, ovvero la fuga dal recinto (aureo) jazz per infilarsi in un solco freneticamente indefinibile tra fusion e rock, mossi da un piglio di concitata sperimentazione su suoni e strutture. Chiamateli più semplicemente MOF quindi, e aspettatevi caroselli adrenalinici di trame funk-rock e sinuose trepidazioni cyber-blues, venate soprattutto dalla chitarra e dagli ordigni elettronici di Frank Martino (bravo sia nel lavoro di fino, che nelle sfuriate ipercinetiche à la Scofield in overdose bop), senza nulla togliere alla sezione ritmica e

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Neve Naive - The Inner Peace Of Cat And Bird (Sonar Kollektiv,2013) Genere: pop I Neve Naive sono un duo composto dalla cantante Alexa Voss (attiva come corista, nonché da sola come Miss Flint) e da Stefan “Merse” Ulrich, produttore nonché trombonista nei Ruffcats e nella live band dei Jazzanova. All’esordio ma non debuttanti, dunque, come mostra un sound che già risulta compiutamente definito: contrariamente a quanto suggerirebbe una copertina da folk-pop fricchettone, lo stile segue le linee di un mix tra elettronica e soul, tra swing e occasionali glitch; dove se si eccettuano le ballate Anti Realist e Goodnight My Friend o quelle in battuta bassa di Hands e Maybes, o l’ospitata di Blake Wormell in Bubblegum (sorta di soul-hip hop radiofonico

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dalle frenesie p-funk – o Django Django), per il resto il boogie risulta il tratto dominante, da 30 Years, che apre le danze dopo l’intro glitchambient, al vaudeville solare di How I Learned To Fly, da Junkyard al gran bel singolo Dancer. L’umbratile cocktail tra vintage e contemporaneità risulta legato ai suddetti Jazzanova solo alla lontana e presenta sia ingredienti che risultati diversi tanto da Matthew Herbert in versione big band che, per dire, da una Caro Emerald: non che i nostri non siano pop, ma lo fanno scivolando lungo swing notturni per i quali risultano più calzanti richiami come i Micatone o il Tricky che rielabora Billie Holiday sul primo volume di Verve Remixed, con il triphop che affiora anche in alcune cadenze Laika o nel modo in cui la voce sa emergere impudente come certa Beth Gibbons (ma volendo anche sbarazzino alla Whigfield). Un pop dunque che sa poggiarsi su elementi che in teoria pop lo sono poco, come le batterie scorticate e i controtempi, e che non sacrifica alla cantabilità la costruzione di un paesaggio sonoro peculiare e sempre in movimento. 7.3/10 Giulio Pasquali

Nightmares On Wax - Feelin’ Good (Warp Records,2013) Genere: elettronica Settimo album per George Evelyn, in arte Nightmares On Wax. Prima generazione Warp che ritorna sul luogo del delitto e continua la missione musicale degli esordi sheffieldiani della label inglese con una dolcissima miscela di downtempo, funk e slow motion di classe (a voler essere precisi, i primi singoli dell’uomo erano sperimentazioni bleep, ma il biglietto da visita che lo ha reso famoso è sempre stato su coordinate trip). Il disco è un buon mix di chill-out music con ritmiche che vanno a pescare da un dub in-

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al lavoro generoso di sax e trombone. Ne esce un interplay evocativo (il mistero febbrile di You’re Doing It Wrong, la cinematica Leo Rising) e incendiario (l’incalzante The One Who Met, la convulsa A.M.), un delirio lucido scritto sui nervi (la pungente apprensione di Dramma in B.) e non senza ironia (il lirismo sonnacchioso di Morning). Il jazz è ancora un sostrato evidente, ma l’approccio è libero, senza preconcetti, la scrittura esce agilmente dalle pagine (vedi la scattante mutevolezza avantbop di Pay Pray Play), i mostri sacri vengono rievocati con disinvoltura (le particelle Weather Report nella sincopata Eureka, in sella ad una formidabile tensione cubista di piano) mentre le radici blues diventano un respiro denso e necessario (la mesta, bellissima Finally Fried). Probabilmente il diaframma tra jazz e pop-rock non si dissolverà mai, ma dischi del genere autorizzano a pensare che sia soprattutto un problema di chi (non) ascolta. 7.2/10


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Marco Braggion

of Montreal - Lousy With Sylvianbriar (Polyvinyl Records,2013) Genere: pop, psych, indie Kevin Barnes si dà al classic rock? Sì e no. Come sempre non c’è una visione univoca e coerente nel mondo scombinato degli of Montreal. Nel senso che se è vero, come dice la cartella stampa, che il folletto di Athens accantona funk e strumentazione sintetica per abbracciare un sound più organico, se pure la polverosa ombra dei Flying Burrito Brothers si estende su brani dal taglio folk rock come Belle Glade Missionaries, è anche vero che, alla prima svolta, la ruvidezza Seventies si nebulizza nel solito effluvio di colori e profumi speziati. Nell’esilio auto-imposto a San Francisco, Barnes è andato alla ricerca delle radici artistiche, ma non necessariamente di quelle West Coast.

Diciamo che dopo le mossette alla Prince, la sbandata R’n'B e le geometrie variabili dei precedenti album, si ritorna agli amori di un tempo: alla narrativa kinksiana, alla malizia decadente del glam. Una maggior linearità fa affiorare le influenze in tutta la loro evidenza (in Imbecille Rages e She Ain’t Speakin’ Now è come se Syd Barrett fosse alla guida degli Spiders From Mars) e permette a Barnes di dimostrarsi autore di canzoni in senso stretto, senza dover spiazzare l’ascoltatore ad ogni costo. Ci sono almeno due canzoni che danno il metro di quanto riesca nel suo intento: la prima è la toccante Sirens Of Your Toxic Spirit, delicata ballata che accarezza i timpani come uno stormo di cherubini che cantano 13 dei Big Star; l’altra è Hegira Emigré, un boogie sudista attraversato longitudinalmente da lampi psichedelici. È così che la seriosa prosopopea del 70s rock, a base di ritmiche granitiche e slide guitar, si infrange contro l’approccio surreale a cui eravamo stati abituati, trasformandosi in un’irresistibile farsa. In fondo è questo il filo rosso che attraversa l’album, peraltro uno dei più solidi dell’intero catalogo. Perché se è vero che gli of Montreal più ammirati sono i Fregoli dell’indie pop, capaci di sovrapporre senza posa ritmi e melodie, sono poi i lavori più regolari come Hissing Fauna, Are You The Destroyer? a consolidarne lo status. Insieme a quest’ultimo, Lousy With Sylvianbriar è un album che può fungere da entry point anche per nuovi adepti al culto degli of Montreal. Sappiano, però, che un Kevin Barnes altrettanto accomodante non lo troveranno tanto facilmente. 7.3/10

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farcito di ottoni (Tapestry), soul in battuta bassa (Give Thx), reggae (Be, I Do), jazz chic di scuola viennese (con il featuring di Wolfgang Haffner in Luna 2) e ambient (Om Sweet H(Om)e). La differenza con i lavori precedenti sta nell’uso di suoni orchestrali, che riflettono la collaborazione con Sebastian Studnitzky, l’arrangiatore di Jazzanova. Non a caso ci sono archi, qualche fiato e tappetini melodici balearic (There 4u) a far da collante ai brani. Roba da pre-club Novanta, quando si aspettava di andare al rave e ci si doveva scaricare, cose che sentivamo in Funki Porcini, DJ Vadim, Herbaliser o nella migliore Thievery Corporation (Now Is The Time). L’album suona retrò, ma è compatto, ben prodotto e viaggia senza problemi dall’inizio alla fine. Insieme a Tosca, Evelyn è uno dei pochi sopravvissuti (e non sputtanati) di quell’epoca, così distante, ma anche così vicina. L’uomo usa bene la nostalgia del passato, senza risultare patetico. Viaggione. 7/10

Diego Ballani

Okkervil River - The Silver Gymnasium (ATO,2013) Genere: rock, indie Per l’ottava fatica di studio della band che deve

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Marco Boscolo

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Peter Gabriel - And I’ll Scratch Yours (Real World,2013) Genere: rock Ci sono voluti tre anni per far sì che gli artisti omaggiati da Peter Gabriel in Scratch My Back ricambiassero il favore. Era già tutto nei piani dell’ex Genesis: al suo volume dedicato alle cover, reinterpretate in uno stile sobrio, con arrangiamenti orchestrali tra il sublime e l’ampolloso, tra il moribondo e il solenne, sarebbe dovuto seguire subito il gemello And I’ll Scratch Yours – tant’è che molti brani qui presenti sono già noti ai più, perché diffusi in release speciali per il Record Store Day o su YouTube e SoundCloud. Troppo bello per essere vero: molti rifacimenti in risposta tardavano ad arrivare, e qualcuno ha rinunciato a inviare contributi dopo aver storto il naso (è il caso dei Radiohead, inizialmente previsti in scaletta con Wallflower) ascoltando la bizzarra trasformazione del proprio pezzo. Incassati i “no” anche da David Bowie (Heroes), Neil Young (Philadelphia) e Ray Davies, tutto è rimasto in standby per un bel po’ di tempo. Dopo aver rivisitato il proprio passato in New Blood, sempre accompagnato dall’orchestra, e dopo aver celebrato con un anno di ritardo le venticinque primavere di So, Gabriel raccoglie ciò che ha ricevuto e pubblica una compilation con dodici cover, con i nove più entusiasti destinatari della sua missiva e tre sorprese dell’ultimo momento – al posto di Bowie c’è Brian Eno, che fa propria Mother Of Violence; c’è Joseph Arthur (sulle cui capacità il Nostro ha creduto sin dall’inizio, e del quale interpretò In The Sun per un album-tributo a Lady Diana) alle prese con una sinistra e rallentata Shock The Monkey che lascia a casa trucco, tastiere e drum machine e che al contempo suona diversissima dall’omaggio dei Coal Chamber e Ozzy Osbourne già in circolazione; c’è Feist che fatica a dare una lettura “altra” di un classico come

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il proprio nome al titolo di un racconto di una discendente di Aleksei Nikolaevich Tolstoi, gli Okkervil River tornano a calcare il solco del concept album come già avvenne con Stage Names (dove però si osava di più sul fronte di un rock ruspante ma barocco, quasi privo di ritornelli) e Black Sheep Boy (che aveva dalla sua una maggiore ispirazione generale). Qui la produzione è affidata a John Agnello, già al servizio di Cyndi Lauper e John Mellencamp: non proprio idoli dell’indie-folk. Il suono rimane quello di sempre, ma per le cartoline da Meriden (New Hampshire), la città natale del Will Shelf che le firma tutte, l’attitudine è meno sanguigna e meno folk che mai. L’operazione è quella di un album di solida tradizione americana, al confine (forse si tenta il salto, visto il produttore) di un mainstream mai così alla portata di major indie come gli Okkervil River. Il problema è che tolta l’aura hipster della presentazione del disco in grafica 8-bit e delle atmosfere d’antan della copertina, si ha l’impressione di un disco scritto con il pilota automatico e, come già si notava da queste parti, costruito artificialmente attorno ad elementi che funzionano, strizzando contemporaneamente l’occhio ai fan di vecchia data e a un potenziale pubblico da stadio. Quello, per intenderci, di un Bruce Springsteen cantore dell’America media (Meridien come il New Jersey?) o degli Arcade Fire e di tutti i loro Suburbs. Dovrebbe essere significativo che il brano più riuscito sia una cavalcata krauta (Walking Without Frankie, che fin dal titolo rimanda ai Suicide di Frankie Teardrop a cui sembra aver rubato la base). Da galera, invece, le tastierone Ottanta messe in apertura di Stay Young: farebbero vergognare anche Boy George. 5.5/10


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hanno qualcosa con cui spezzare l’appetito. 6.2/10 Alessandro Liccardo

PINS - Girls Like Us (Bella Union,2013) Genere: rock, indie, post-punk, lo-fi, garagerock Continua la stagione dei debutti all-female: dopo l’ottimo tiro rock filtrato dal revivalismo post-punk delle Savages, dopo i cliché da strappona portati avanti dalle evitabili Deap Vally e il recentissimo Days Are Gone delle ormai dive Haim, è arrivato il momento delle mancuniane PINS. Attese da un anno – precisamente dalla pubblicazione dell’EP Luvu4lyf – alla prova del nove, le quattro ragazze guidate da Faith Holgate pubblicano su Bella Union il proprio manifesto intitolato Girls Like Us, un lavoro che si concentra su proclami (vedi il “we wanted to kick off the album by letting listeners know that we are ready for a fight if they want to take us on“, ma anche il titolo stesso del disco) che oltre ad essere stereotipati, sono anche decisamente anacronistici, figli di un concettto – il riot grrrl – che ormai ha già fatto il suo tempo. Non basta un look modaiolo – e apparentemente dissociato dalle sonorità del disco – a tappare le lacune compositive di un progetto che sembra nascere e morire nell’inseguimento di un successo che probabilmente faricherà ad arrivare: se da un lato è giusto appoggiare la convinzione nelle scelte DIY (l’album è stato realizzato in una sola settimana) e la dialettica garage, dall’altro lato non si può chiudere un occhio su una mancanza di idee piuttosto lampante. Che le fuzz-guitar del garage americano marchiato Vivian Girls abbiano ancora qualcosa da dire è tutto da decidere; nel dubbio le PINS arricchiscono a proprio modo quell’universo con influenze geograficamente più vicine a loro, dal periodo C86 a linee di basso di derivazione post-punk in zona Siouxsie and the

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Don’t Give Up (già rielaborato anni fa da Willie Nelson e Sinéad O’Connor), perfetto così com’è nel già citato So. La buona notizia è che And I’ll Scratch Yours non suona mai come una serata karaoke tra VIP annoiati: c’è chi grattando lascia segni sulla pelle (Lou Reed stravolge Solsbury Hill come lui solo sa fare, Randy Newman regala una versione insolita, sbilenca e rudimentale di Big Time) e chi si limita a fare un po’ di solletico (Regina Spektor offre un’interpretazione delicata di una Blood Of Eden già delicata di suo, Paul Simon asciuga Biko con una chitarra acustica e appena accennate suggestioni world, quasi in punta di piedi), ma il più delle volte i brani sono scelti dal songbook con criterio e ben si addicono alle personalità della sfilata. Per un David Byrne che delude, c’è una Games Without Frontiers che suona come se fosse stata scritta proprio per gli Arcade Fire, e succede che Bon Iver e gli Elbow si trovino perfettamente a proprio agio nelle rispettose Come Talk To Me e Mercy Street e che Stephin Merritt - colui che tanti anni fa si ritrovò il veterano Gabriel tra il pubblico pagante di un concerto dei Magnetic Fields e che raggiunse una fetta di pubblico nuova grazie all’inclusione di The Book Of Love nella colonna sonora di Shall We Dance - torni all’amata elettronica lo-fi dei suoi esordi in una minimale Not One Of Us. Sarebbe potuto essere un vero pasticcio e invece And I’ll Scratch Yours alterna riuscite iniezioni di nuova linfa e piccoli momenti di noia. Un progetto imperfetto, concretizzatosi in ritardo, senza dubbio periferico in una carriera che dopo Up si sta purtroppo macchiando con qualche opera interlocutoria di troppo; Peter Gabriel può permettersi di vivere di rendita, ma attendiamo con ansia la zampata che – ne siamo certi – è ancora alla portata di un vecchio leone come lui. Intanto, i fan impazienti

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Riccardo Zagaglia

Pixies - EP-1 (Autoprodotto,2013) Genere: rock “Non ci sono Pixies in questi Pixies”, dice Pitchfork. “Non so se mi accetterete. Non so se vi accetterò. Ma abbiamo questo ricordo. Possiamo riprovarci?”, dice Black Francis. Nessuna via di mezzo. O, con l’uscita definitiva di Kim Deal, facciamo finire la storia con Trompe Le Monde. Oppure diamo una possibilità ai Pixies del 2013. Tertium non datur. Senza entrare, volutamente, nel merito delle implicazioni artistiche, biografiche, economiche e persino discografiche di questa vicenda (si ricorderà, iniziata con la rimpatriata trionfale di nove anni fa), il dovere di cronaca

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ci impone di dire che queste quattro canzoni sono le prime pubblicate dai Pixies negli ultimi ventidue anni (se si eccettuano Bam Twock e Bagboy, uscite sul web rispettivamente nel 2004 e nel giugno scorso, due settimane dopo l’annuncio dell’abbandono della bassista), e costituiscono la testa di un’annunciata serie di EP che troverà diffusione esclusivamente attraverso il web. Ed è adesso che il nostro compito si fa arduo, perché avremmo preferito fermarci qui e lasciarvi alla messe di recensioni e pareri a dir poco controversi già ampiamente disponibili in rete. Ora, pur non abbracciando l’integralismo dei nostri colleghi d’Oltreoceano (l’1.0 di P4k è del tutto ideologico, risposta secca e implacabile al patetico “I beg for you to carry me” che Francis piagnucola in Indie Cindy implorando, di fatto, il pubblico indie a non abbandonarlo…), fatichiamo davvero a trovare qualcosa che sia degno del nome Pixies in questo EP. O meglio, qualcosa che sia degno d’essere ascoltato. Mettiamo pure da parte l’ingombrante passato, nonché gli inevitabili imbarazzi di ripresentarsi oggi, senza un membro fondatore e per di più con il ferro inesorabilmente raffreddatosi dopo interminabili e logoranti tour autocelebrativi. Semplicemente, questo EP-1 non è proprio una gioia per le orecchie. Brani fiacchi, senza tiro, neanche particolarmente efficaci dal punto di vista melodico. Andro Queen è una ballata eterea e bizzarra che poteva andar bene, al massimo, per un album solista di Charles, e non saranno certo i richiami alla fantascienza, la chitarra acustica indolente o le frasi in esperanto a far venire in mente i Pixies. Nel suonare né più né meno come un pezzo minore dei Weezer, Another Toe In The Ocean è quasi paradigmatica di quanto il tempo a volte sia tutt’altro che galantuomo e, anzi, possa riservare scherzi beffardi e crudeli. A parte i versi imbarazzanti cui si faceva riferimento un po’ più su (cui ag-

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Banshees. Brevi tracce (solo la conclusiva The Darkest Day supera i quattro minuti) segnate dai limiti di un progetto la cui preoccupazione maggiore sembra essere quella di rispettare canoni estetici ben definiti, invece che stimolare l’ascolto (come invece fanno i non troppo distanti gallesi Joanna Gruesome guidati da Alanna McArdle, anch’essi all’esordio in questi giorni). Nelle rare occasioni in cui invece questo succede, si è purtroppo di fronte ad abbozzi (il psy-surf di un minuto Play With Fire, i cori incrociati di Waiting For The End e Velvet Morning, uno spoken su un riverbero chitarristo, guarda un po’, alla Velvet Underground), mentre si presenta di frequente quella sensazione da band alle prime armi, ancora acerba, da formarsi (I Want It All, la Lost Lost Lost di “I feel alright, I feel so young. There’s nothing else I want to become” e Stay True) e soprattutto priva di fantasia. Possono solo migliorare le PINS, per il momento ancora intrappolate nella fase “suoniamo in una band, siamo cool”. Le attendiamo alla seconda prova, senza rovinarci il fegato. 5.5/10


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Antonio Pancamo Puglia

Placebo - Loud Like Love (Mercury,2013) Genere: rock Davvero difficile riconoscere in questo nuovo lavoro targato Placebo la verve autoriale del miglior Brian Molko, quello, per intenderci, dei brani più amati e acclamati della band, da Nancy Boy a Pure Morning, passando per Without You I’m Nothing. Per quanto l’ensemble britannico non si sia mai realmente allontanato dalle coordinate che da poco meno di un ventennio ne contraddistinguono il percorso, in Loud Like Love tutto risulta annacquato e privo di reale urgenza creativa. Certo, il terzetto inglese si dimostra ancora avvezzo a ritornelli-killer tra il rock e il pop più accattivante (esemplificativa, in questo senso,

la title track), ma in episodi quali Too Many Friends – potenzialmente, va detto, un singolo micidiale – tutto suona pericolosamente vicino a certa paccottiglia da spot pubblicitario, che davvero poco conserva della carica degli esordi. Anche l’ambiguità sessuale, tema portante dei primi anni di successo, e l’androginia di Molko sopravvivono solo in qualche accenno testuale (o visivo, se contiamo il video di Too Many Friends, scritto in collaborazione con Bret Easton Ellis) che però, a tratti, appare fine a se stesso (“Il mio computer pensa che io sia gay / ho buttato via quel rottame giù per gli Champs Èlysées“) tra eccessi “emo” e una buona dose di retorica. Arrivata al settimo album, la band di Brian Molko e Stefan Olsdal costituisce oggi più che mai una proposta sempre uguale a se stessa, che non rischia mai troppo per non deludere i fan affezionati e che non sembra in grado (o non ha intenzione) di rinnovarsi e di accaparrarsene di nuovi: ben confezionati esercizi di stile, buone aperture per una formula furba, con ritornelli e costruzioni melodiche che per quanto funzionino, sanno fin troppo di già sentito (Scene of Crime, Hold On To Me). Ed è così che canzoni tutto sommato piacevoli come Purify, la già citata Loud Like Love e Rob The Bank finiscono per essere l’ennesima prova che sì, i Placebo sono ancora in grado di muoversi alla grande, ma solo sulle solite, collaudatissime strutture. 5.9/10

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giungeremmo un non proprio memorabile “you put the cock in cocktail”), Indie Cindy è quella che si gioca – si brucia – più chance: parte alla Where Is My Mind?, riprende anche interessanti schemi sghembi alla Surfer Rosa ma si perde in un testo prolisso e in una struttura che l’affossa decisamente, per non parlare della ridicola melassa che sommerge il ritornello. In coda, What Goes Boom forse è la più probabile del lotto in quanto pare riprendere esattamente da dove avevano lasciato Bossanova e Trompe Le Monde: certi riffacci hard rock, aperture melodiche surf e un Joey Santiago in gran spolvero (la sua è la prova più credibile, a ben vedere). Un po’ poco, e non esattamente da manuale. Invecchiati male, ridondanti, stucchevoli, francamente imbarazzanti: ai Pixies del 2013 non possiamo nemmeno fare l’augurio che indirizzammo ai Bauhaus del 2007, quando definimmo il loro Go Away White “una macchia che verrà coperta dalle sabbie del tempo”. Il secondo EP uscirà a novembre. 4.5/10

Enrica Selvini

Samuele Bersani - Nuvola numero nove (Fuori Classifica Edizioni Musicali,2013) Genere: pop, cantautori Dovessimo menzionare un cantautore italiano che non è riuscito ad avere, in termini di seguito e di attenzione, ciò che ha sempre meritato,

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gio Pardo e Diego Palazzo (il secondo già alla chitarra con i Baustelle). Non si perde la cifra stilistica classica di Bersani, ma sembra aprirsi, concedersi qualche lusso pop in più, senza tralasciare mai la qualità, riuscendo insomma a non perdersi in ingenuità. Resta il fatto che uno come Samuele Bersani va ascoltato e riascoltato perché la sua è una penna capace di andare a fondo, di rendere stratificato ogni pezzo, ogni racconto, con uno stile connotato e definitissimo in grado di aprire a molti universi autoriali degni di tanta musica d’autore italiana che fu. 6.8/10 Giulia Cavaliere

Siriusmo - Enthusiast (Monkeytown Records,2013) Genere: 80s, wonky, elettronica Da una parte abbiamo Siriusmo ovvero Moritz Friedrich, un tipo che nelle foto è spesso sommerso letteralmente dalle tastiere; dall’altra un collettivo capitanato da John Withers. Il primo è un producer tedesco con già una corposa carriera alle spalle fatta più che altro di singoli e collaborazioni anche grosse (Boys Noize e Snoop Dogg tra tutti), il secondo è esordiente e si fa ritrarre con altri ragazzi in giro per Cape Town o con Emmanuel Nzaramba con sfondi basic photoshop; al centro ci sono questi due lavori caldi ed estivi che tastano il polso di un presente ancora dominato da 80s sound, wonky beat e, in generale, da un’attitudine frulla-tutto figlia di questi anni di giri attorno al mondo internettari. Per fare un paragone con la Paw Tracks degli Animal Collective, Friedrich è un po’ l’Ariel Pink della Monkeytown dei Modeselektor; per il duo tedesco, infatti, questo producer è un autentico genio ed è proprio per produrre la sua musica che è nata la loro etichetta (da quanto apprendiamo dai ragazzi di Resident Advisor che hanno visto il documentario We Are Mode-

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di certo diremmo Samuele Bersani. Nonostante la strada pop percorsa sin dall’inizio, complice un battesimo e uno svezzamento sotto l’ala protettiva del suo pigmalione Lucio Dalla, Bersani sarebbe forse riuscito a farsi ascoltare meglio integrandosi in quello che oggi chiameremmo “circuito indie”. Al di là delle hit note, delle quali Giudizi Universali e Replay sono i capofamiglia capolavori, la sensazione è che gli album di Bersani, intesi come struttura finita di un insieme di brani, non siano mai stati realmente accolti dal grande pubblico. Dedicato proprio a Dalla, Nuvola numero nove è un ennesimo tentativo di cercare di affondare un colpo netto nella produzione d’autore italiana, un ennesimo album capace di non tradire mai la poetica estremamente incisiva del suo autore pur aprendosi, in termini di sonorità, ad orizzonti contemporanei più recenti. Un disco di rinascita che riesce a mantenere toni lievi, delicati, anche nel parlare amaramente della società e dei mali del nostro tempo (Chiamami Napoleone, D.A.M.S. sulla disillusione della vita di uno studente fuorisede a Bologna). Nuvola numero nove è infatti la traduzione di quello che in inglese è ”cloud nine“, ovvero il nostro “settimo cielo”. E’ lì che sta oggi Samuele Bersani, dopo aver trovato un amore nuovo, Desirée - che poi è la metà di EN and Xanax, prima hit di quest’album -, romanticissima rappresentazione in forma psicofarmacologica dell’incontro perfetto, quello pronto a sopportare e lenire in termini reciproci ogni ansia, ogni attacco di panico: “In due si può lottare come dei giganti contro ogni dolore / e su di me puoi contare per una rivoluzione.” Se i giochi melodici sono quelli tipici del cantato a cui Bersani ci ha abituati sin dall’inizio, l’album è ricchissimo di momenti che fanno pensare all’ultimo lavoro dei Baustelle, cosa evidentissima ne Il re nudo che non a caso vede la collaborazione degli Egokid di Piergior-


Edoardo Bridda

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Sleigh Bells - Bitter Rivals (Lucky Number,2013) Genere: pop, noise Il terzo disco degli Sleigh Bells arriva dopo un anno e mezzo dal buon Reign Of Terror. Da loro non ci aspettavamo una vena compositiva così prolifica, ma tant’è: Derek E. Miller e Alexis Krauss son tornati con il loro shredpop chitarroso e pompante. Stando alle poche dichiarazioni che hanno preceduto l’uscita, i primi pezzi sono stati registrati a febbraio e il pacchetto è stato finalizzato in poco tempo. Quest’urgenza è un marchio di fabbrica del duo di Brooklyn e viene tradotta in ritmiche semplici ma efficaci, ostinati pestaggi percussivi che ricordano i Nine Inch Nails, qualche distorsione alle chitarre e metriche che si rifanno all’hip hop. I principali riferimenti, già pienamente utilizzati nei precedenti episodi, sono M.I.A. (Sugarcane), i Beastie Boys (la titletrack), le riot grrrl e il pop ubermainstream (To Hell With You, vedi alla voce Katy Perry o Miley Cyrus). In più si dice che il tutto sia stato ispirato anche da Michael Jackson (Sing Like A Wire) e Beyoncé, quindi ancora pop e randb commerciale. Miller è cresciuto e dice di essersi stancato di uscire ogni sera, di fare le ore piccole e di sbronzarsi. Alexis ha dichiarato che il compagno di band è diventato quasi straight-edge. I due raccontano anche di aver iniziato a fare boxe in una palestra vicino allo studio di registrazione. Sveglia alle 7, allenamento e poi in studio. Siamo diventati grandi? Pare proprio di sì. Non solo cambiamenti di routine, però. Lutti familiari (Derek Miller ha perso il padre) e una successiva rinascita su un mood più positivo sono gli ingredienti che aprono una nuova strada alla band. Dal punto di vista musicale non ci sono grosse novità. Il disco è una buona prova di rock con chitarre noisy filtrate wave ’80 e qualche

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selektor). Il producer tedesco però, al contrario di un Pink che va diritto al punto quando si tratta di produrre, ha faticato non poco per realizzare Enthusiast, l’atteso seguito di un esordio, Mosaik, che si muoveva su territori a lui familiari quali electro, house e french-touch. Il risultato è tanto eccentrico – e, come suo solito, ricco di punti di fuga – quanto riuscito, generoso e ubriacante. Ascoltare le sue acrobazie di Doctor Break, Congratulator, Itchy e soprattutto l’omonima Enthusiast (pensate a un frullato di electro, hip hop, 80s, prog-idm, house, sushi à la James Ferraro in salsa fusion, Chemical Bros, bozzetti cabaret ecc.) è come ascoltare il disco di un produttore di LA a cui hanno somministrato l’intero catalogo Planet Mu degli esordi. E non è di poco conto che la cosa funzioni e fili via fluida. Curioso che anche l’esordio di John Wizards, altra miscela altamente variegata e instabile, goda degli stessi pregi. Qui parliamo di uno sviluppo floreale più che scatologico o “proggheggiante”, e troviamo una one man band – duo con Nzaramba in alcuni episodi e infine – live – band vera e propria – che con mentalità elettronica e laptop pastura 15 brevi intingoli che sono l’equivalente del primo album dei Vampire Weekend (quelli che guardavano diritti a Paul Simon) o all’Africa immaginata da Tune-Yards immaginati da un’angolazione da zapping televisivo 80s (iYoungwe). Mentre Enthusiast rappresenta un ritorno all’eccentrica prima fase di Rephlex e Planet Mu, l’omonimo di Withers è l’avamposto più lontano dal suono dell’etichetta di Mike Paradinas. Eppure, entrambi i lavori, al pari delle incursioni post-garagiste analizzate in un’altra recensione comparata, fotografano un’estate 2013 che non punta a stupire con futuri possibili ma, ancora una volta, con la continua ricombinazione di possibilità e tradizioni differenti. 7.2/10

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inserto di tastiere (recentissimo anche per loro un bel remix per Chloroform dei Phoenix). Il risultato suona bene, si ascolta molto volentieri e c’è pure qualche singolo che spacca (Young Legends). Dieci pezzi che non rivoluzionano la storia del rock, ma che fanno passare una mezz’ora piacevole. Presi a piccole dosi non fanno poi così male. 6.8/10 Marco Braggion

Genere: electro, techno, rave Bob Rifo l’abbiamo trattato sempre bene. In Romborama ci eravamo gasati per la freschezza dell’esordio, ed eravamo anche un po’ orgogliosi del fatto che fosse marcato Made in Italy. Nel secondo album (che poi non era un disco vero e proprio ma un Best Of di singoli), avevamo riconosciuto l’autorialità, la statura e la forza degli arrangiamenti del bassanese. Hide arriva dopo una lunga sequenza di singoli, stampati dopo il best of, che hanno spaziato fra noise (Church of Noise, 2011), rimescolamenti fidget del french-touch (Rocksteady, 2012), ballad da arena (Chronicles of a Fallen Love, 2012), anthem noisy-EDM (Spank, 2013) e una ridefinizione del moniker per i live a seconda della direzione dello show (The Bloody Beetroots Death Crew 77, The Bloody Beetroots DJ Set e The Bloody Beetroots Live, che hanno aggiunto al gruppo Dennis Lyxzén alla voce, Battle ai synth, Edward Grinch e Mad Harris alla batteria). Il disco, a parte le canzoni già pubblicate, è una resa dei conti personale e generazionale. Rifo è nato nel ‘77 e come molti di quelli che leggono, ha vissuto le stagioni del rave Nineties, il declino dell’acid nei ’00 e la rinascita del movimento con l’EDM contemporanea. Il suo punto di vista è quello di un buon costrutto-

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The Bloody Beetroots - Hide (Ultra Music,2013)

re di suoni, miti ed atmosfere che cerca di far meglio degli altri amici/nemici di scuderia. Ma non solo. Hide è stato spinto da una strategia di promozione musicale che riflette (ovviamente in tono minore) la bomba Daft Punk. Anche qui si punta infatti sui featuring d’eccellenza, magari d’antan. E allora vai con il batterista dei Mötley Crüe Tommy Lee (in Raw), il rapper di Trinidad ora newyorchese Theophilus London, la talkbox di Peter Frampton (quello di Show Me The Way) e nientemeno che l’ex beatle Paul McCartney, uno in gran spolvero dopo la recente collaborazione con Dave Grohl, Krist Novoselich e il chitarrista/turnista Pat Smear nella reunion dei Nirvana battezzata ironicamente Sirvana (la sorpresa non è proprio totale, dato che il singolo con Macca era stato pubblicato qualche settimana fa, infarcito di gustosi remix da parte di Riva Starr, Aucan e altri). Questo non è però l’ennesimo disco che copiaincolla i trucchi ben noti insegnati dalla crew Ed Banger o dall’electro house dell’inizio noughties. Rifo prende in giro lo sballo, si maschera su tagli acidi in contrapposizione alla voce angelica di Greta Svabo Bech, impasta la storia (con la pseudoballad Out of Sight), ci ricorda che si può far di meglio di Kavinsky nella bomba strumentale di Reactivated, si sputtana con la cover dello Zecchino d’oro (Volevo un gatto nero), cerca qualche ammodernamento della proposta pure nel soul-hop (All the Girls) e va a parare anche nella noise tech da arena (The Source). È quindi la visione di un (anche se da poco) over 35 che fa ballare i giovani e utilizza trucchi rodatissimi che hanno radici nella semplicità massimalista del rock. Rifo non rischia nulla (potrebbe azzardare qualcosa vicino all’UK bass più ballabile ad esempio), ma è comunque sempre fra i primi della classe, con una spocchia che piace, uno di quelli che può permettersi di fare lo sbruffone


e sbaragliare i vari Aoki, Benassi, Guetta e Avicii di turno. Per chi si attendeva una deviazione dal prodotto ubercapitalistico, ci sarà ancora da aspettare qualche album, quando il producer non sarà più in grado di saltare dietro la consolle e magari si toglierà la maschera di Venom. Per ora, Dioniso trionfa ancora su Apollo e gli altri stiano a guardare, mangiando pure un po’ di polvere. 7/10 Marco Braggion

Genere: ambient, techno, elettronica Con Looping State of Mind, terzo album del produttore svedese residente a Berlino Axel Wilner, la formula The Field aveva raggiunto un perfetto punto di sintesi tra riconoscibilità e concisione, cementando così un marchio che ha fatto scuola ed ha, direttamente o indirettamente, influenzato un ampia schiera di produttori, non ultimi Caribou a Jon Hopkins. In quell’album shoegaze, minimal e minimalismo colto, dream e dance avevano raggiunto un’invidiabile quadratura ma anche un alto grado di spendibilità live, un aspetto quest’ultimo che, ricordiamolo, aveva dato il la all’intero progetto fin dalla sua prima comparsa, nel 2007, con l’esordio Here We Go Sublime. Naturale che il producer, trovandosi di nuovo in studio per dar un seguito a quella prova, dopo la parentesi krauta con il moniker Loops of Your Heart in And Never Ending Nights, si sia trovato in una condizione d’iniziale empasse e dark feeling. Empasse rotta soltanto dopo aver trovato la via nelle note di No. No… che altro non è se non un tuffo nei territori della memoria sui quali il Nostro si era concentrato nel precedente lavoro. Interesse che, tornando all’attività dell’utlimo triennio, lo ha portato anche a remissare Luneburg Heath di Harmo-

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The Field - Cupid’s Head (Kompakt,2013)

nia and Eno ’76 (Tracks And Traces Remixed) e a far parte dei Cologne Tape. Il nuovo album non prosegue per direzioni motorik e in generale tedesche nel senso più ovvio, ma senz’altro ne fa propria la polpa più intima, quella romantica germanicità che è poi il cuore pulsante di un intero spettro di producer germanici di ieri ma anche di oggi, da Moderat a Kalkbrenner. Cupid’s Head, quindi, come seguito di un terzo compiutissimo e osannato lavoro, pensato (pare) con meno strumentazione al seguito ma, di fatto, il primo prodotto esclusivamente grazie all’utilizzo di vario hardware. Nessun latop impiegato dunque, e questo perché la naturalezza del suonato, il surfing tra e sui loop, deve risultare il più organico possibile. Vien fuori che 20 Seconds Of Affections è un mezzo capolavoro. La traccia conclusiva dell’album è una nuvola di vapori folk-pop che sembrano diluire le produzioni del Brian Eno conto terzi degli 80s e 90s (ci sentiamo persino Joshua Tree) in un polveroso loop wave-shoegazetronico che cresce come la panna montata. E’ il momento estatico infinito lavorato in grana fina, umoralità quasi impercettibili, ruvidità del groove impolverate ad hoc. La chiosa di un lavoro che regala ai posteri un disco non agli stessi livelli, ma che segue gli standard (già alti) dell’episodio precedente: They won’t See Mee è il ritorno a certe tribalità techno come base per esplorazioni synth 70s in taglio rock, pura ermeneutica dancefloor; Black Sea pastura, sul finale, una felpata techno in punta acid su un perno d’elittica electro; l’omonima Cupid’s Head ci va di chopped vocal elegiache/pop in raffinata mestieranza Machinedrum (avercene!); No.No… raddoppia con signorilità wavey à la Underworld. Ascolti e riascolti l’album e ti perdi nuovamente in questi loop, carichi di suggestione e Storia. 7.2/10 Edoardo Bridda

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Genere: soul, rnb, funk, black, hiphop Ci siamo sempre chiesti come abbia potuto nascere un piccolo gioiello RandB come Frank Ocean in seno al collettivo hip hop Odd Future, le cui uscite sono sempre state segnate da irruenza, volgarità demenziale e misoginia. Ma forse il segreto meglio custodito del gruppo era, almeno fino ad oggi, The Internet, un duo composto dalla moderna crooner Syd the Kyd e dal produttore Matt Martians. Per i più attenti, Kyd e Martians si erano già fatti notare con l’esordio Purple Naked Ladies, album ampiamente snobbato dalla critica e dal pubblico, che lasciava intendere, con picchi come il singoloanthem Cocaine, alcuni segnali di genuino talento offuscati, purtroppo, dall’inesperienza. Così, parallelamente alle recenti uscite dell’Off Future – che hanno mostrato un grande sviluppo e maturazione anche artistica dei singoli -, The Internet si presentano alla seconda prova con un’accresciuta consapevolezza dei loro mezzi. La sostanza, beninteso, non cambia: la voce sussurrata e fragile di Syd dipinge scenari da crooner 2.0 fatti di innamoramenti e droghe sintetiche, mentre il bravo Matt Martians provvede con languide basi RandB. Rispetto al precedente lavoro però, in cui a farla da padrone era un sound più club-oriented, in questa nuova prova il linguaggio del duo si arricchisce di riferimenti ‘70s, accogliendo al suo interno una più spiccata anima neo-soul. Il risultato è qualcosa di veramente prezioso che unisce funk, soul e jazz da aperitivo in un randb moderno ed elettronico, ma anche vicino al (neo) soul più letargico; quel mood oppiaceo che attraverso Voodoo di D’angelo si riconnette al Marvin Gaye anni Settanta, capace di creare coi suoi tocchi leggeri un’atmosfera sensuale e stonata allo stesso tempo. Syd, che probabilmente non ha il talento di un

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Frank Ocean, non sarà una voce particolarmente tecnica o un personaggio di grande carisma, ma appare più padrona dei propri limiti, tanto da renderli meno appariscenti. Persino la sua tendenza a scrivere testi piuttosto ingenui e banali viene superata dalla scelta del duo di concentrarsi sulla creazione di canzoni particolarmente trippy e distese, in cui la dolcezza fiabesca del cantato, che spesso esce di scena, fa solo da aiuto al viaggio, invece che cercare il ritornello memorabile. Se mai vi è un aspetto tipicamente Odd Future nella poetica di Feel Good, è proprio quell’atteggiamento i don’t give a fuck, quell’approccio quasi amatoriale, sprezzante, verso le strutture ben riconoscibili, i ritornelli e le levigature pop, che caratterizza anche le più fortunate uscite targate OF – si veda ad esempio il taglio radicale di un disco come Doris, sul quale invece pesavano tutte le pressioni di un disco mainstream. Un rifiuto di adagiarsi sul formato “radiofonico” che distingue l’album dalle contemporeanee uscite di settore, una su tutte The Electric Lady di Janelle Monáe e la sua irresistibile vena pop. Una scelta coraggiosa, che probabilmente aveva tagliato le gambe a Purple Naked Ladies e che, seppur addolcita, impedirà a questo disco di raggiungere le vette delle classifiche RandB. Le frequenti parti strumentali invece faranno la gioia degli ascoltatori più interessati a immergersi in queste jam psichedeliche eccellenti e trascinanti, come la funky ‘Pupil/The Patience‘. Purtroppo diversi brani più generici e monotoni fanno da intoppi in un viaggio che rimane sicuramente appagante. Soprattutto se in buona compagnia. 7/10 Gianluca Carletti

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The Internet - Feel Good (Odd Future Records,2013)


Genere: indie, synthpop Di album d’esordio baciati da un immediato successo – spesso alimentato da un singolo tormentone – ne abbiamo visti molti e di flop artistico-mediatici dovuti al classico, esasperato, tentativo di ripetere l’impresa una seconda volta, ne contiamo altrettanti. L’obiettivo dei neozelandesi The Naked And Famous era quello di sfuggire a questa rodata parabola discografica con un secondo disco che fosse non solo all’altezza di un debutto – Passive Me, Aggressive You, 2010 – che all’epoca fece piuttosto scalpore (Young Blood n.1 in Nuova Zelanda e riempipista negli indie club), ma anche in grado di portare avanti un percorso di caratterizzazione stilistica degno di una band che volesse lasciare, in qualche modo, un segno. Il gruppo di Alisa Xayalith e Thom Powers in parte è riuscito nell’intento: frutto di un periodo trascorso in una abitazione del Laurel Canyon (e la mente vola alla haunted house di Blood Sugar Sex Magik), In Rolling Waves riesce a toccare varie sfaccettature sonore senza mai dare l’impressione di essere il parto di una band che, non sapendo che pesci pigliare, le tenta tutte. Non sono rari gli episodi in cui mondi lontani, quasi agli antipodi, riescono a trovare un punto di congiunzione esemplare quanto funzionale. È il caso dell’iniziale A Stillness, capace di unire un approccio acustico di matrice country-pop con un’elettronica notturna in grado di generare sensazioni piuttosto evocative. Anche altrove si tenta la via semiacustica con risultati però alterni: il crescendo dreampop di scuola ’90s della conclusiva A Small Reunion è uno dei passaggi più alti del disco, praticamente l’opposto di What We Want, invece banale e anonima. C’è poi una produzione di grande impatto che

funge da motore a curvatura in direzione epic rock, apportando mutazioni all’anima synthpop e modellando trame in parte inedite in casa The Naked And Famous: dal post-rock (la chitarra sul finale della titletrack) a quel minimalismo-wave di derivazione The XX presente nel quasi tributo Waltz (e si potrebbero scomodare anche i nostrani Wolther Goes Stranger per le sovrapposizioni vocali e per la melodia sinuosamente ciclica su cassa dritta). La ricerca del perfetto pop-anthem dà vita a brani caratterizzati da una energia tanto trascinante quanto bombastica: il patinato singolo Hearts Like Ours e le guitar-driven I Kill Giants e Grow Old – quest’ultima non troppo distante da certe cose targate Joy Formidable – sono piacevoli tracce dall’appeal immediato, che tuttavia non lasciano a bocca aperta, soprattutto se la post-adolescenza è un ricordo lontano. All’interno di In Rolling Waves si fanno largo facili tentazioni mainstream (The Mess ad esempio) e, con esse, alcune facilonerie evitabili; a conti fatti, tuttavia, la sintesi di contemporaneità pop mascherata indie portata avanti dai The Naked And Famous convince più di quella, fin troppo sfacciata, dei Grouplove di Spreading Rumours. 6.5/10

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The Naked and Famous - In Rolling Waves (Somewhat Damaged,2013)

Riccardo Zagaglia

The Royal Concept - Goldrushed (Universal Republic,2013) Genere: pop In ambito pop pochi paesi possono vantare il continuo ricambio di newcomers della Svezia, probabilmente il territorio non anglofono con la maggiore prospettiva internazionale a livello musicale. Tra le decine di artisti e band svedesi – qui trovate una playlist creata ad hoc – che ogni anno si affacciano sul mercato, ultimamente sono probabilmente due i nomi destinati

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Riccardo Zagaglia

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The Stranglers - Feel It Live (On Tour 2012) (Edel,2013) Genere: post-punk Quando Hugh Cornwell mollò il gruppo nel ’90, il rapporto tra i dischi di studio e quelli dal vivo era di dieci a due. Negli anni successivi il numero dei live è aumentato, ma in genere riguardavano per lo più eventi particolari, anniversari, concerti memorabili oppure testimoniavano cambi di formazione (e comunque nulla rispetto al profluvio di antologie, specialmente degli anni ’90: la piccola label per cui incidevano monetizzava così il grande nome). Negli ultimi anni poi si sono aggiunte le pubblicazioni da fan club o del sito personale, in genere souvenir delle tournée recenti (anche negli anni ’00, in cui erano tornati sotto contratto con la Sony) e il monte totale è cresciuto ulteriormente. In una carriera così lunga ci sta, d’accordo, ma forse ora si esagera: negli anni ’10, a fronte del solo Giants come album di studio, sono già usciti due live (acustici, uno dei quali era il bonus dell’edizione speciale del suddetto Giants) e ora questo Feel It Live. Oltre ai prevedibili classici (manca Golden Brown, forse poco in linea col recente suono aggressivo) e alle canzoni dell’ultimo (peccato però per l’assenza della suggestiva My Fickle Resolve), esce fuori anche qualche vecchia perla assente da tempo (vedi Sometimes o The Raven) ed è ben rappresentato anche il precedente Suite XVI (un solo brano invece da Norfolk Coast). Dal vivo i Nostri sono ormai delle macchine da guerra, anche le sbavature e i limiti sono quelli giusti del live (benché la recente Mercury Rising perda inaspettatamente in potenza rispetto alla versione da studio), i pezzi vengono resi a dovere, anche nel modo in cui si armonizzano quelli di epoche lontane (la voce di Baz Warne non avrà il fascino di quella di Cornwell, ma accusa meno il palco). Quindi un senso ce l’ha questo disco, anche per

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a sfondare le barriere “indie” e a raccogliere i consensi del grande pubblico: i NONONO di Pumpin Blood e i The Royal Concept. Per questi ultimi non lo diciamo sulla base di solide prove (il loro album di debutto Goldrushed ha da poco esordito “solamente” in 25° posizione in patria), ma sul potenziale radiofonico di un brano in particolare: On Our Way. Rimane solo da sperare che in zona mainstream-FM sia rimasto un briciolo di buongusto, altrimenti è probabile che nei prossimi mesi quel mix tra Bastille e Fun. abbia la meglio sul nostro povero udito: a memoria, è difficile ricordare un chorus così becero. Il resto di Goldrushed si distacca in parte da certi contesti totalmente privi di gusto, ripartendo dal The Royal Concept EP dello scorso anno, con il quale condivide tre brani – Goldrushed, In The End e D-D-Dance – che mostrano l’altro grande punto di domanda che sorge spontaneo durante l’ascolto della band guidata da David Larson: che obiettivi artistici può avere un gruppo che, nella maggioranza dei casi, non si sforza minimamente per non essere scambiato – ancora più degli Atlas Genius – per una cover band dei Phoenix? In questo panorama frivolo e Phoenix-centrico (Busy Busy e Girls Girls Girls ruotano attorno alla stessa formula) è possibile comunque rintracciare qualche spunto meno deplorevole: il riffino acustico di Radio (altro probabile singolo) e il sax di Cabin Down Below, apparentemente ad opera di quel Kenny G – su Facebook ha annunciato “Check out my new favorite band from Sweden… and guess who is playing sax on their new album?” – spesso oggetto di derisione durante gli anni ’90. Goldrushed, al momento pubblicato solamente in Svezia, è un album che sentiamo di consigliare esclusivamente ai fan dei Phoenix, i quali potrebbero avere così modo di rivalutare in positivo il mediocre Bankrupt!. 4.5/10


i non-fan; l’ascolto è piacevole come era per gli altri,e tutto testimonia efficacemente la longeva tenuta live: detto questo, però, adesso basta. 6.7/10 Giulio Pasquali

Genere: rnb Nonostante il progetto The Weeknd sia in giro solamente da un paio d’anni, e questo rappresenti appena il debutto su scala major, la formula R’n'B retro-futurista proposta da Abel Tesfaye sta già correndo il rischio di finire nel tritacarne. E non per dire che questo album sia un buco nell’acqua per il producer canadese, anzi. Kiss Land è ancora pieno di tutti quegli elementi che ci hanno fatto innamorare dei primi tre mixtape di Abel – raccolti poi in Trilogy lo scorso anno – ma in questo nuovo lavoro si fatica a trovare la progressione che era invece lecita aspettarsi, visti i capitoli trascorsi. Ci troviamo più che altro di fronte ad una riproposizione, tematica e stilistica, di quanto fatto finora, feat con Drake compresi. Se due anni fa Abel era avvolto nel mistero e si muoveva a piacimento tra le ombre del web, The Weeknd oggi ha un volto con cui fare i conti, ed il salto di Tesfaye nel mainstream sembra quantomeno riluttante. Passata per forza di cose la sbornia da culto per i primi mixtape, adesso è arrivato il momento di diventare grandi. Lui non sembra invece il tipo disposto a scende a compromessi, ama giocare da solo, e questo disco lo riconferma come l’animale strano dell’R'n’B. L’amore come commercio, dettagliato come una transazione e immerso in una realtà lussuriosa e disperata; questa la spirale tematica – già ampiamente trattata nei lavori precedenti – da cui Abel non sembra volersi allontanare. La produzione dal canto suo non delude ed è

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The Weeknd - Kiss Land (Republic Records,2013)

ricca di elementi, pur rimanendo oscura e tenebrosa, con tinte industrial, tanto soul e chitarre languide che richiamano le chart 80′s, simili a quelle usate da Twin Shadow nel suo Confess. I suoni, seppur narcotici, non mollano la presa neanche nei pezzi con un minutaggio elevato, con transizioni strumentali quasi atmosferiche (Professional), oppure passaggi senza soluzione di continuità tra un pezzo e l’altro, che rendono Kiss Land un (quasi)concept davvero solido. Forse troppo. “I’m not a fool, I just like that you’re dead inside/I’m not a fool, I’m just lifeless too” canta Abel in Belong To The World, il perno centrale di un disco intriso di desolazione – sopratutto emozionale – reso vivido da testi molto grafici, spesso spinti all’eccesso. Ma Tesfaye non è certo la prima popstar a fare leva su certi temi per catturare l’attenzione, tutti i suoi illustri predecessori, tra cui l’idolo Micheal Jackson, hanno ampiamente cavalcato l’onda. Il vero problema di questo disco sembra risiedere nell’insistenza e nel modo in cui Abel presenta le sue storie, una carrellata di situazioni erotiche al limite dello stucchevole, che sul finire del disco rischiano seriamente di disinteressare anche l’ascoltatore più morboso. Invece che entrare nel suo mondo, ci si ritrova spesso a guardare da fuori una vetrina, un voyeurismo che sa di scabroso, scene a cui non avremmo voluto assistere. Live For con Drake è quasi una riscrittura di Crew Love, con poche variazioni sul tema, mentre Wanderlust gioca a nascondino riadattando la pop-wave anni Ottanta, con risultati anche discreti. E se Adaptation usa un sample dei Police, il cerchio sembra chiudersi attorno al personaggio The Weeknd, intrappolato tra calde nostalgie strumentali e raffinati sintetismi moderni, mai appagato né dagli uni, né dagli altri. Appurato il suo talento nel produrre suoni che rievocano vividamente un imma-

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ginario notturno e disinibito, resta da verificare quanto veramente Abel sappia essere un songwriter abile a smarcarsi da certi clichè da badboy maledetto, ruolo che fin troppo accuratamente si è voluto ritagliare in Kiss Land. Se da una parte l’identità e il suono ormai riconoscibile di The Weeknd non sembrano stati compromessi nel passaggio alla Republic, è forse l’ambizione del progetto ad essersi arrestata, rischiando di deludere tutti coloro che in The Weeknd hanno deciso di investire, se non soldi, almeno sentimenti. 6.4/10 Luca Falzetti

Genere: alt, indie, post-punk, kraut Si dice da qualche parte che le maggiori attività di Chichester, West Sussex, siano camminare, andare in bici e visitare la bellissima cattedrale. Roba da impazzire, scappare o – perché no? – formare un power trio post-punk. Di quelli cupi, rudi, con le chitarre altissime e una bacchetta a sfondare i tamburi ad ogni concerto. Una band che dia fuoco a tutta la provincia e persino alla cattedrale. Di certo, quando i TRAAMS si sono formati ci hanno pensato e forse è per questo che il loro disco suona così urgente, così massiccio, indelebile nella sua sporcizia, eppure estremamente calibrato. Certo, per questo e anche perché dietro il mixer di Grin (il loro debutto) c’è uno come Rory Attwell dei Test Icicles e, soprattutto MJ degli Hookworms. Di base, c’è un doppio binario in Grin, come se la band avesse un’anima a due facce la cui immaturità non permettesse ancora di scegliere. Da una parte c’è la deriva post-punk, quella della pura energia incapsulata in brani dal minutaggio scarsissimo, che si fonde con una dose di art anni Novanta debitrice verso la vena di band come Modest Mouse, Bright Eyes o

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Nino Ciglio

Trentemøller - Lost (In My Room,2013) Genere: dance, elettronica La carriera di Trentemøller si è sempre smar-

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Traams - Grin (Fat Cat,2013)

Decemberist. È la vena che catapulterebbe i Nostri sotto i riflettori in men che non si dica, quella che farebbe saltare i fan ai concerti e che, a dire la verità, regalerebbe meno soddisfazioni. Perché è una pista battuta che potrebbe sembrare una risposta britannica ai Parquet Courts di Brooklyn; perché, anche se lo sanno fare bene, il verse-chorus-verse rischia di durare un disco e niente più. Ma è bene dire che brani come Demons, Flowers, Fibbist o Loose hanno il giusto piglio. Pop, ma non troppo, ossessive e ossessionate, ripetitive quanto basta da suscitare curiosità. Sembra di sentire l’esplosività dei Metz, mitigata da ritornelli cantabili (“I don’t even know your number / and you don’t even know my name” di Flowes rimane memorabile) e testi di un gustoso disagio di provincia (i Demons della canzone sono i soldi per vivere). E poi c’è l’altra anima. Quella roboante e martellante della jam in salsa kraut. E qui i tre ragazzi di Chichester si superano, dimostrando di non essere una semplice band da power chord, ma artisti capaci di costruire le giuste atmosfere asfissianti, assimilando referenti e fonti fino a nasconderli nelle linee di basso o nella chitarra distorta. È qui che il muro del suono si alza, la voce si fa rada (e rauca) e le pulsioni semplicemente essenziali. E questa sensazione si avverte già in apertura con Swimming Pool (a dir la verità, il brano meno intenso del disco), si lascia accarezzare in Head Roll con il suo lento incedere monocorde ed esplode in Klaus, il monolite che chiude il disco, che già da solo vale il prezzo del biglietto. Il biglietto da visita dei TRAAMS, s’intende. 7/10


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Redhead), Sune Rose Wagner (The Raveonettes). Quando non chiede aiuto a qualche amico, Anders se la cava egregiamente con toni cupi che richiamano i già nominati Depeche Mode (Still On Fire, Trails), visioni trip-onirico-blues (Morphine, appunto), medio-oriental-etniche (Costantinople) e suite ambient (Hazed). Proprio qualche settimana fa avevamo mosso qualche critica ad un altro protagonista della musica elettronica (Jackson and His Computer Band, Glow) per quell’intestardirsi su un’attitudine eterodossa. Trentemøller fa esattamente il contrario: pur variando, trova nel dark un’unità e una coesione da manuale. Disco maturo, che conferma il danese come uno dei più importanti artisti elettronici contemporanei. Il fatto che abbia tanto successo, per una volta, non è sintomo di bassa qualità. 7.2/10 Marco Braggion

Tropic Of Cancer - Restless Idylls (Blackest Ever Black,2013)

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cata fra dance e minimal, fra attenzione a suono e atmosfera da un lato e al ballo dall’altro. Tra le tappe che hanno contribuito a costruire il mito dell’uomo di Copenhagen c’è il 2003, con quell’esordio storico (Trentemøller EP) che chiamava Roulèe da un lato (Le Champagne) e Metro Area dall’altro (In Progress), ma anche il 2005 del singolo Physical Fraction, quando ci aveva abituato a suoni orientali (Prana) o – sempre nello stesso anno – a suoni minimal con tagli psichedelici (Sunstroke). In seguito i richiami al maestro Richie Hawtin (Polar Shift, 2005) e ad altre coordinate, vedi il blues in Vamp di The Last Resort (full d’esordio del 2006) o l’ambient (/pop/IDM) in Into The Great Wide Yonder. L’uomo di Copenhagen riesce a far contenti un po’ tutti, sia i clubbers più “pesi”, sia gli indie rockers con velleità electro-dance, sia chi di elettronica non vuol sentir parlare, ma magari vuole ascoltare “buona musica”. Una tattica piaciona, che da sempre sta nel mezzo. Il nuovo disco richiama già dal titolo lo smarrimento e la problematicità della sua proposta. Come risolvere l’eterno conflitto minimal vs maximal? L’ipotesi testata su questo nuovo album è quella di puntare sulla melodia – proposta attraverso chitarre, synth o linee vocali – e su un mood dark-nordico-intimista. Sia dipeso o meno dall’affiancamento ai Depeche Mode nel loro Delta Machine Tour dell’estate 2013 o dalle comparsate nei più importanti festival internazionali (Melt, Dour, Pitch, Zurich Open Air, già iniziate però nel 2007 e immortalate nel buon Live In Concert), il cambio di rotta sembra comunque tenere. In gran parte grazie anche ai featuring d’eccezione: i Low, Jana Hunter (amica di Devendra Banhart e attualmente nei Lower Dens), la bella voce della folk singer Marie Fisker (già sentita in Sycamore Feeling e accompagnatrice del tour), Jonny Pierce (The Drums), Kazu Makino (Blonde

Genere: synthpop, dark E’ arrivato il momento del debutto sulla lunga distanza per Camilla Lobo a.k.a. Tropic of cancer, artista losagelina che ha passato anni disseminando singoli ed EP per Downwards, Ghostly international, l’italiana Mannequin e naturalmente Blackest ever black. Un percorso che ha permesso alla Lobo di nutrire un folto seguito negli ambienti wave già pronti a incoronarla tra le nuove dark-queen stile Chelsea Wolfe e Zola Jesus, nonchè una certa attesa per l’uscita di Restless Idylls che, diciamolo subito, è buon debutto ma non fa il botto. Partiamo col dire che il ritorno in casa B.e.b. è segnato dalla supervisione dei due compagni di sempre: il Silent Servant Juan Mendez, nel 2007 membro effettivo dei Tropic of cancer, ma soprattutto Regis, boss Downwards con alle spalle parecchie intrusioni nell’etichetta

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Stefano Gaz

U-God - The Keynote Speaker (Soul Temple,2013) Genere: hiphop Se esistesse un tribunale d’appello della Storia, probabilmente Lamont Jody Hawkins, in arte U-God, farebbe bene a fare ricorso: pur essendo a tutti gli effetti un membro del nucleo

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originario del Wu-Tang Clan, ha potuto partecipare solo marginalmente alla registrazione di Enter the Wu-Tang perché impegnato a scontare una condanna in carcere per possesso di stupefacenti. Questo, però, non gli ha impedito, con la partecipazione ad altri storici album come Liquid Swords e Triumph, di ritagliarsi un posto nel cuore dei tanti wu-fanatici sparsi nel mondo, che hanno avuto modo di appassionarsi alla voce profonda di U-God. Nel 1999, sulla scia di altri membri leggendari, ha anche tentato la carriera solista con Golden Arms Redemption, un album di buon livello supervisionato da RZA, a cui però hanno fatto seguito un paio di uscite discutibili e con credits meno rilevanti, tanto che sembrava ormai destinato a non scrollarsi più di dosso la nomea di membro di secondaria importanza all’interno dello storico collettivo hip hop. Con Keynote Speaker, U-God sembra provare più seriamente a spezzare la serie negativa, ricorrendo nuovamente all’aiuto di vecchi amici come RZA per assemblare un cast di ospiti più che nutrito: GZA, Method Man, Inspectah Deck, Elzhi (Slum Village) e Kool Keith. Le premesse sarebbero buone – e in effetti non mancano momenti in cui l’alchimia funziona e il delivery martellante di U-God ci fa tornare alla memoria visioni di neri nel blocco con il ghetto blaster in spalla – ma nella maggior parte dei casi il disco riesce a suonare solamente datato. In buona parte per colpa di U-God stesso che non riesce a impostare un wordplay di livello un poco superiore al generico machismo di strada, ma soprattutto perché, a parte le tre tracce by RZA, la produzione è quasi del tutto affidata a produttori semi-sconosciuti che non riescono a smarcarsi da un sound boom bap generico capace di stancare persino il pubblico più reazionario. Da parte mia mi sento di consigliare altri lidi per gli amanti del cassa/rullante, come Doris

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di Kiran Sande, e capace dunque di garantire senso di appartenenza e qualità. A uscirne è un suono decadente tra Joy Division e influenze ’80s ma, a differenza del passato, si trovano anche riferimenti a quello shoegaze etereo che è marchio di fabbrica della concittadina Tamaryn. Questo perché oltre al binomio drumming/synth dal puro sapore analogico che è alla base dei rimandi wave, la Lobo si diletta abbondando con suoni drone, inabissando la sua voce lasciva sotto una moltitudine di echi e riverberi. Le iniziali Plant Lilies in my Head e Court of Devotion hanno il polso dell’intero album: suono circolare e geometrico, dream-wave imbottita di oscurità, approccio sempre minimale con o senza beat. Non si va oltre perché Restless Idylls è un lavoro concepito monocorde e al massimo può offrire variazioni sul tema: Hardest Day e More Alone con un 4/4 leggermente più spinto, Wake at Night che in contraltare gioca quasi esclusivamente sulla saturazione del suono, in mezzo i giusti punti di fusione suggestivi e forse ridondanti come Chidren of a Lesser God. Ok quindi, la Lobo debutta bene, ma è difficile preferirla ad altre artiste sui generis. Non parliamo tanto del binomio Wolfe/Jesus che rimane sullo sfondo, quanto del parallelo con la nostrana Mushy: lei è esattamente sullo stesso tracciato e alla resa dei conti propone lavoro più vario e affascinante. 6.9/10


per una versione più originale e contemporanea del boom bap, oppure Twelve Reasons to Die per chi si vuole affidare a schemi rodati con un tocco appena più sofisticato. Vale forse la pena un ascolto soltanto se siete quel tipo di persone che sanno a memoria tutti i dischi di Ghostface Killah e hanno un libretto su cui si segnano le rime migliori. 5/10 Gianluca Carletti

Genere: cantautori, rock Cinque brani che riconfermano Umberto Maria Giardini elemento prezioso del panorama cantautorale nostrano: questo e molto altro si nasconde in Ognuno di noi è un po’ anticristo, EP che anticipa il nuovo lavoro (previsto per il 2014) dell’ormai ex-Moltheni, dopo il fortunato esordio La dieta dell’imperatrice (La Tempesta / 2012). Diretto, crudo, tanto onesto quanto graffiante, l’autore marchigiano prende le distanze dal minimalismo moltheniano per accostarsi a nuove sonorità – forse memore dell’esperienza nel progetto Pineda – sotto il segno dell’eclettismo di stampo internazionale. Melodie inquiete e incalzanti, organi che segnano il passo, incedere ora nervoso ora più morbido, ritmiche in tensione costante con le chitarre in primo piano ad intrecciare delicati arpeggi dal gusto post-rock. Geometrie taglienti, squarciate da distorsioni acide, a creare dinamiche quasi progressive: un tappeto sonoro che racconta il bisogno di andare oltre tutto, anche oltre se stessi, passando tra delicatezza e volgarità, decadenza e idillio, metamorfosi e rinascita. Notevole la strumentale Oh Gioventù, figlia di un sound decisamente anni ’70, che ben si aggancia alla digressione finale di Omega,

Enrica Selvini

Venom P. Stinger - 1986 – 1991 (Drag City,2013) Genere: punk Una gran botta di energia. A un primo ascolto, verrebbe da definirli così questi Venom P. Stinger, band che nella seconda metà degli anni Ottanta scorrazzava per Melbourne (ma ha anche girato in tour per gli States, nel 1991) proponendo una formula punk-rock che, nonostante abbia sempre prediletto ritmo ed energia alla melodia, non si può dire fosse comunque da tre accordi e via. Se per attitudine ricordano band come gli Agnostic Front, sul fronte musicale i Nostri richiamano i primi Wire, per l’alternanza di ritmiche marziali ed esplosioni di energia. Certo, manca tutta la raffinata estetica della band inglese, ma in certi brani qui contenuti c’è un’attitudine avanguardistica che non era e non è merce comune. I Venom P. Stinger sono una testimonianza di come gli anni Ottanta siano stati un laboratorio fuori dal comune per l’attitudine punk e oltre, anche in Australia. Poco prima gli Hüsker Dü avevano già definito nuovi territori – hardcore punk – trascinandosi

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Umberto Maria Giardini - Ognuno di noi è un po’ anticristo EP (Woodworm,2013)

tra Stereolab e i Tortoise di TNT, fil rouge dell’intero EP. Non mancano tuttavia i richiami al panorama nostrano nella battistiana Tutto è anticristo, costantemente in bilico tra pop deviato, cantautorato e psichedelia. Un EP in cui Umberto Maria Giardini si rivolge all’ascoltatore con quell’approccio visionario e imprevedibile che, tra eleganza poetica e caustica disillusione – pur se accompagnato da una maggiore complessità musicale – non può che rimandare al suo recente passato e al Moltheni de I segreti del corallo. Un percorso artistico di cui questo lavoro pare la naturale prosecuzione. 6.9/10

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da a I Cani e Zen Circus, ammiccando però con decisione ad un brit-pop che ha barattato la sbruffonaggine con un fatalismo parecchio indolenzito (Povero Cristo, Odio quando mi guardi). Altrove rivangano la sguaiatezza dell’italian-beat come fosse un antidoto per la desolazione esistenziale (Una canzone per perdere tempo, Giusy), mentre con La Ballata degli ostinati e Dormire smazzano malanimo tra il bucolico e l’acidulo come dei cuginastri dimessi degli A Toys Orchestra. C’è maturità in questa loro freschezza, portata in dono forse dall’esperto producer Manuele “Max Stirner” Fusaroli o più probabilmente dall’inclemenza dei tempi. E c’è ancora, ovviamente, da crescere, iniziando magari con l’evitare certa retorica giovanilista un po’ a gratis (Il quartiere). Ma il dado è tratto e questi disincantatissimi lucchesi sembrano tipi che si giocano la partita fino in fondo. 6.8/10

Marco Boscolo

Stefano Solventi

Violacida - Storie mancate (Audioglobe,2013)

Visioni di Cody - Appennino libero (Autoprodotto,2013)

Genere: pop, rock, alt Lucca vista da fuori è una città adagiata su una tranquillità sorniona e persino un po’ conservatrice. Ma se allunghi lo sguardo ad altezza d’uomo fin dentro le antiche mura, le cose assumono una piega diversa. Ad esempio che la generazione iperconnessa dei circa ventenni si riveli qualcosa in più di un ammasso di cervelli intenti a scambiarsi status e figaggine effimera, come tende a pensare chi è uso a liquidare con una certa fretta la questione. I Violacida, ad esempio, sono quattro più o meno ventenni che si sono messi in testa di rappresentare in formato indie rock uno spaccato di scoramento, rabbia e amarezza tipico della loro generazione. Lo fanno col tono aspro e umorale che riman-

Genere: rock Si sono scelti un nome letterario, mutuandolo dal padre della beat generation, ma la loro musica è una miscela diretta di punk-rock in italiano mediato da uno spiccato senso dell’umorismo. Le Visioni di Cody, quartetto proveniente da quell’appennino tosco romagnolo evocato sin dal titolo di questo agile EP – la quarta loro fatica – hanno dalla loro la capacità non comune di scrivere qualcosa di sensato e originale, senza per questo tracciare necessariamente nuovi solchi. Le sei canzoni del lotto, nervose come si conviene, vivono di intuizioni di non poco conto, sia per quanto riguarda le linee melodiche che le ritmiche, serrate e aspre. Il sound generale, con le chitarre in prima fila, è debitore

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dietro tutta una scena californiana che ha dato poi frutti succulenti. Ma la band australiana si porta dentro anche influenze post-punk, come i già citati Wire, e per questo risulta comunque più arty di una classica punk band. Un’evoluzione del sound che questa raccolta permette di seguire step by step. Nella ristampa Drag City trovate l’LP dell’86, Meet My Friend Venom, e il successivo What’s Yours Is Mine del 1990, accompagnati dagli EP Walking About dell’88 e Waiting Room del 1991 (tutto ristampato anche in vinile, sempre per Drag City). La band si è riformata nel 1993 e ha dato alle stampe un altro singolo e un album, Tear Bucket (1994), prima dell’addio definitivo. Oltre che nei già noti Dirty Three, comunque, il resto della formazione ha continuato a suonare in svariate band (troppe per citarle tutte), portandosi appresso un po’ dell’energia dei Venom P. Stinger. 7/10


Ilario Galati

Volcano Choir - Repave (Jagjaguwar,2013) Genere: rock, prog, art, indie Se Unmap del 2009 era un tentativo grezzo di collaborazione, questo secondo sforzo sotto la sigla Volcano Choir dovrebbe dire definitivamente dove la collaborazione tra l’ossessivo falsetto di Justin Vernon (Bon Iver) e i loop post-rock dei Collections of Colonies of Bees voglia portare. La risposta secca e – qualcuno dirà fin troppo – tranchant che ci sentiamo di dare, è che pare che non lo sappiano nemmeno i diretti interessati. Ma andiamo con ordine.

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Unmap, oramai quattro anni fa, era stato scritto a distanza, con pezzetti di musica e testi che si scambiavano di posto via email. Per questo secondo album, il modus operandi è stato più simile a quello di una band: si è lavorato alacremente sulle canzoni – tutti assieme – finché il risultato non è stato soddisfacente per tutti. Un disco, quindi, che risulta coeso sul fronte formale e tecnico, ma che sacrifica la naivetè dell’esordio (perché tale è da considerarsi Unmap). Dopo il bagno di critiche positive per il suo ultimo lavoro a firma Bon Iver, Justin Vernon aveva tutta la voglia di aprire un’altra direzione, parallela, alla propria musica. Il problema, qui, è che la personalità dello stesso Vernon (praticamente un intoccabile del folk indie a stelle e strisce dopo For Emma, Forever Ago) ha spinto i Collections a limitarsi al ruolo di comparse o di semplice backing band, per un progetto più rock, ma anche più vicino all’effetto sentimental-furbo dei Coldplay (che riecheggiano abbondantemente nel singolo Byegone). Non è presente nemmeno quella marcatura maggiore di atmosfere ambient che era lecito attendersi dal connubio tra i musicisti, in favore di un approccio più “muscolare” (Comrade su tutte) che fa pensare che anche i Volcano Choir pensino a venue un po’ più grandi per il prossimo tour, almeno negli USA. Non diciamo, ovviamente, che siamo di fronte a musica da stadio, ma nemmeno ci pare di poter cogliere l’intimità del folk o l’intellettualismo del post-rock. Ecco, cari Volcano Choir: a che cosa siamo di fronte? Nel disco non c’è traccia di una risposta. 6/10

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di certo rock nostrano, ma è la componente letteraria che colpisce in primis: testi barricaderi non banali, appunto perché filtrati massicciamente da quell’(auto)ironia che difetta a molti colleghi. A partire dalla traccia che apre il disco, Il Manifesto, lucida disamina – tra le altre cose – sullo stato della stampa italiana in generale, e di quella “controculturale” e d’opposizione in particolare, col quotidiano comunista del titolo e il Mucchio Selvaggio a rischio chiusura. Ma non è tutto qui, visto che ce n’è anche per Marchionne e il suo golfino, per Fazio e il suo buonismo, Saviano, l’articolo 18 e per tanto altro. Dello stesso tono, anche qui con alcune intuizioni davvero notevoli, il canto partigiano sui generis Ritorneranno (“Eran partiti per la guerra, si son fermati al bar a bere”) e Augias, scelto come singolo, dove lo scrittore è immaginato come un punkabbestia con tanto di piercing e immancabile cane a seguire. Meno interessanti gli altri tre brani, che ripropongono in sostanza la formula già espressa, ma con meno dinamismo e pagando maggiore tributo ai modelli nazionali (gli Zen Circus meno buskers). Ma la sostanza c’è. Eccome. 6.8/10

Marco Boscolo

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Genere: lo-fi, soul, blues Chiudevamo la recensione di Acousmatic Sorcery con la facile profezia del rientro nei ranghi della normalità produttiva per Willis Earl Beal, precario della black music sfuggito ai meccanismi dello showbiz solo per entrarvi dalla finestra dell’hype 2.0, notoriamente avido di anomalie intriganti. Così è stato, ed eccoci al sophomore per questo ex busker a domicilio col lo-fi quale orizzonte esistenziale prima che estetico, oggi ovviamente convertito ad un estro gospel-blues dai tratti ancora “stregoneschi” ma frutto di un preciso processo ingegneristico. Possiamo, insomma, misurarlo in una competizione di alto profilo, nella quale dimostra di potersela giocare. E pure bene. Sprigiona fascino insidioso come un’allucinazione Tom Waits in Too Dry To Cry, consuma gravità cinematica come un’uggia turgida TV On The Radio in Burning Bridges, chiama Cat Power – spirito borderline affine? – a condire di languore felpato il classic soul di Coming Through, fa schioccare dita tra pensose irrequietezze jazzy (la title track). E poi via tra patchwork spiazzanti (le chincaglierie rumoristiche, la densità trip-hop e il blues soul dalla polpa roots di Ain’t Got No Love), drammi cyber-chiesastici (What’s The Deal?), swing stradaioli (Hole In The Roof, con una febbre che scava rabbia nella voce) ed ectoplasmi folk-errebì (la vagamente bossa White Noise, una Everything Unwinds che reinventa Terry Callier nel futuro prossimo). Willis è ossessionato come Cody ChesnuTT però meno devoto al canone soul, più incline a mescolare le carte anche di mazzi diversi fin quasi a far saltare il banco, arrestandosi giusto un attimo prima di abbandonare l’alveo della

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black. Regalandoci nuove ragioni per ascoltarne in questi anni Dieci del nostro scontento. Nobody Knows non otterrà l’impatto dell’esordio, che in effetti somigliava alla nascita di un bizzarro prodigio. Tuttavia, per quanto mi riguarda, la sorpresa vera è oggi. 7.4/10 Stefano Solventi

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Willis Earl Beal - Nobody Knows (XL,2013)



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Il nostro appuntamento mensile coi vinili stavolta allunga lo sguardo su una delle etichette più cool del momento, la Blackest Ever Black, senza dimenticare di passare in rassegna le uscite del sottobosco italiano

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Diamo inizio all’appuntamento di questo mese con una breve rendicontazione delle ultime uscite di una delle label più in vista del momento, la Blackest Ever Black di Kiran Sande. Nota ai più per le pubblicazioni di Vatican Shadow, Tropic Of Cancer e compagnia caliginosa, l’etichetta inglese (da poco trapiantata a Berlino, ma tu guarda) è altrettanto rinomata per il ritmo forsennato delle sue pubblicazioni nonché per quello altrettanto breve in cui queste vanno sold-out. Una breve rendicontazione, dicevamo, sembra necessaria per mettersi in pari. Dei sopracitati Tropic Of Cancer è appena uscito il doppioLP Restless Idylls in anticipazione del quale è stato pubblicato il 7” one-sided More Alone. Piccolo oggetto di culto tirato in 300 copie già a prezzi discretamente elevati su Discogs, contiene una versione diversa (ma neanche più di tanto) da quella presente sull’album, il quale ovviamente vi consigliamo di sentire. Il 7” lo lasciamo ai soli integralisti del progetto di Camella Lobo. In contemporanea, sempre su BEB, è uscito anche un nuovo 12” per i Black Rain. Padrini dell’elettronica più cyperpunk fin dai primi anni Novanta, il gruppo di Stuart Argabright (già Ike Yard, Dominatrix, Death Comet Crew) è tornato a incidere da un anno a questa parte e Protoplasm è la prima pubblicazione di questo nuovo ciclo. Quattro tracce che mescolano industrial, techno, darkwave e ambient con un tocco e un’attitudine da vecchia scuola che suona più fresca che mai. Per loro è previsto un nuovo full-length con l’anno venturo. Per ora godetevi questo EP e fate un tuffo nel passato prossimo, solo per rendervi conto – ovviamente – di quanto sia ancora presente. Tornano anche i britannici Tom Halstead and Joe Andrews, non come Raime, bensì col misterioso side-project tanto interessante quanto ben custodito Moin. Dopo il 7” split con Pete Swanson dell’anno passato, ecco pronto un 12” omonimo in cui i due impugnano gli strumenti più tradizionali (sì proprio chitarra, basso e batteria) per dar vita a un post-rock da contorni vagamente mathematici e dal retrogusto dub/industriale. Molto early 90’s, ma non c’è di che stupirsi, no? Restiamo su sonorità vagamente simili, ma andiamo in casa Connelly e troviamo un nuovissimo e promettente duo composto niente meno che da moglie e marito. Sì, la coppia assassina Mike (Wolf Eyes, Hair Police, Failing Lights) e Tara (The Haunting e The Pool at Metz) Connelly ha partorito una nuova, ferale creatura dal nome Clay Rendering. Per loro un singolo su 12” pubblicato dalla Hospital Productions di Dominick Fernow e massicce dosi di malessere. Due tracce su questo Vengeance Candle per chitarre blackmetal/shoegaze, ritmiche putrescenti, whispers da


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una stanza buia e, se non bastasse, anche la fisarmonica (sic) di Tara ad aggiungere drammatica solennità a un dei pastoni più tetri che ci sia capitato di incontrare di recente. Immaginate una colonna sonora per un film di Dreyer con le premesse appena accennate e capirete come sia il caso che li teniate d’occhio. Chiudiamo il cerchio dei side-project e delle sperimentazioni limitrofe con Burma Camp, ovvero lo spin-off technoise degli inglesi KVB. Già noto per gli album su Cland Destine e Cititrax, il duo di Londra rilascia ora tre tracce con questo nuovo moniker in cui indaga il lato più versatile del proprio sound, radicalizzandone i tratti ed estremizzandone le prospettive. Così i beat darkwave diventano techno, i riverberi shoegaze si dilatano fino a divenire industrial, le reiterazioni postpunk si allargano fino ai limiti della musica rituale/occultista. Repulsion esce per Mira, sottoetichetta di Avian, in formato 10” con una tiratura limitata e artwork seriale. Ah, non possiamo dimenticarci di segnalare la ristampa del primissimo singolo di Dark Day (il progetto post-DNA di Robin Lee Crutchfield) ad opera dell’infallibile Dark Entries. In questa nuova versione di Hands In The Dark troviamo i due pezzi originariamente sul 7” e, sul lato B, The Exterminations (1 Thru 6), ovvero quel che a suo tempo (A.D. 1981) su il B-side del 12” Trapped. Saltando verso lidi più pacati, segnalazione obbligatoria per lo strambo e “local” vinile 12” a firma Dany Greggio. Cantautorato triste da spiaggia riminese a fine settembre, Ritratti oltre ad essere impreziosito da una splendida copertina di Marco Neri – l’opera “La casa delle bandiere” che da anche il titolo ad una canzone – è la perfetta realizzazione di un lavoro sentito, malinconico, essenziale nelle strutture e poetico nella realizzazione. Riecheggia la Rimini di Greggio, non quella felliniana tutta abbondante ed eccessiva; l’agiografia di San Giuliano della Ballata di San Giuliano diviene l’occasione per celebrare i luoghi dell’autore, il borgo omonimo di Rimini, tra miracoli e storie (extra)ordinarie esposte in punta di chitarra acustica e con una verve cantautorale che rimpiangiamo sempre più. È però tutto il resto del lavoro ad essere registrato in loco, mentre l’universo personale di Greggio viene esposto (La Casa Delle Bandiere, ritratto amical-personale cucito sulla persona di Marco Neri, l’ispirazione Handkeiana di Canto Alla Durata, l’alone De Andrè a svolazzare sul tutto) alla maniera malinconica delle preziosissime foto dell’inlay. A scalare di giri, tocca all’ep 10” in formato deluxe (copertina sagomata a mo’ di busta, cd in allegato e toppa in regalo) dei Cayman The Animal. Aquafelix prende il nome da un parco acquatico e mostra i 4 in discese mozzafiato da scivolo di sangue, centrifughe hc di quello vecchia maniera in un misto-frutta con r’n’r, noise e quant’altro, ironia a fiotti (check sui fantastici titoli dei pezzi, come Shiny Happy People Dying), mestizia da consapevolezza (quella di “essere troppo vecchi per morire giovani” del precedente disco). Illustra Ratigher, produce Valerio Fisik, trionfano i Cayman. In conclusione, il 7” degli Psycho Kinder, progetto ruotante intorno a Alessandro Camilletti (voce, testi) e alle musiche di Luca Barchiesi e Michele Caserta. Al di fuori di ogni catalogazione, lucidi nella propria visione poetica, restii ad ogni tipo di moda o trend, ci offrono due brani abrasivi il giusto per poter rinverdire l’ossessione per la wave più robotica con un cantato in italiano che mangia in testa agli Offlaga. Se L’incomunicabile è la premessa, bisogna metterli in riga e richiedere a gran voce altre “canzoni d’autarchia”. Stefano Pifferi

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campi

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Linea gotica (Black Out,1996)

“Anche la disperazione impone dei doveri e l’infelicità può essere preziosa” Questo il monito che, a circa sei anni dallo scioglimento dei CCCP, caduti insieme al muro di Berlino, si nasconde e si ripete nel libretto che accompagna Linea Gotica: un disco oscuro, meditativo, che mescola le epoche dei conflitti (la guerra mondiale come quella nei Balcani) riuscendo nella difficile impresa di trasformarle in un luogo di riflessione senza spazio né tempo. Il verbo, il suo peso e il suo fascino – tanto ammaliante quanto sibillino e oscuro – capace di innalzare i popoli come di fargli da alibi per le più crudeli finalità: è la parola la vera protagonista di Linea Gotica, unica bussola in un mare sonoro mai così buio: le onde scandite dal basso regolare, semplice e insieme monolitico di Maroccolo, increspate dalle graffianti scariche elettriche a sei corde di Canali (o dal violino, come nel folk dal sapore apocalittico di Cupe vampe, probabilmente vertice massimo del disco), carezzate dalle tastiere di Francesco Magnelli, solcate dall’indispensabile chitarra guida di uno Zamboni mai tanto minimale. Su tutto si staglia, funerea e salmodiante, la voce di Ferretti, che trova nelle armonie di Ginevra Di Marco il suo perfetto contraltare, quasi a gettare una fioca luce in questa notte dell’anima, oscillando tra cruda narrazione e un rinnovato bisogno di spiritualità (L’ora delle tentazioni). È una paradigmatica messa al rogo dei luoghi sacri dell’umano raziocinio che, insieme al sapere, trasforma in cenere le zone più profonde dell’essere umano, rendendo persino i sogni terreno minato, come riflesso di un mondo indecifrabile (Sogni e sintomi). Straniante, in questo contesto, la cover di E ti vengo a cercare (circa tre minuti più lunga dell’originale), dove il crepitio delle chitarre si contrappone ancora una volta alla sacralità delle voci, prima che proprio l’autore – Franco Battiato – faccia il suo ingresso a chiudere i giochi con una leggerezza tanto liberatoria quanto solenne. È in questo ipotetico triangolo tra ricerca del divino, cronache di guerra e meraviglia animale – dove il buon senso e la ragione si piegano a puro istinto, unica risorsa quando è l’instabilità a renderci saldi (Esco, Io e Tancredi) – che Sarajevo diventa metafora di una Storia agonizzante, in cui Lindo Ferretti traccia la sua personale strada, riprendendo in parte quell’atmosfera rarefatta e anelante all’assoluto già presente in brani come Madre (CCCP, Canzoni, Preghiere, Danze del II Millennio – Sezione Europa, 1989) e Annarella (Epica Etica Etnica e Pathos, ultimo album dei CCCP, 1990). Scritto tra il grano maturo della Val d’Orcia e chiuso dai versi di un attualissimo Pier Paolo Pasolini (Irata), Linea Gotica è un tassello unico e irripetibile all’interno della discografia italiana, zenith creativo e vicolo cieco del percorso CCCP/CSI, tanto estremo negli intenti da non poter rappresentare altro che un cortocircuito, un punto di rottura tra ciò che si è stati e ciò che non si potrà più essere: “Non tornerò mai dov’ero già/ non tornerò mai a prima/ mai”. Enrica Selvini

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Liz Phair Exile In Guyville (Matador,1993)

classic

alb u m

Liz Phair Genere: cantautori, alt, indie Ci sono tanti tipi di “classici”. Ci sono i dischi storici, punto di riferimento per qualsiasi appassionato. Ci sono i dischi di culto che hanno individuato una nuova direzione o un nuovo genere di musica e che continuano a far sentire la loro influenza. Ma esistono anche altre pietre miliari, simbolo dell’epoca in cui sono state realizzate oppure “classici” perché rappresentano qualcosa di unico. A questa categoria appartiene il più clamoroso esordio dell’indie rock americano dei primi anni ’90. Una perfetta sintesi di diverse anime del rock indipendente post-grunge, dove il college rock incontra la bassa fedeltà e il nuovo cantautorato folk, ma anche l’opera di un personaggio che non rientrava appieno in nessuna di queste categorie. Grintosa, sagace, caustica, impudica, sexy e vulnerabile, po’ Kristin Hersh, un po’ Chrissie Hynde, un po’ PJ Harvey, un po’ Courtney Love, Liz Phair non era una riot grrrl né una folksinger classica. Dove le Bikini Kill in Double Dare Ya prendono in giro la parola girlfriend per invitare le ragazze a darsi una svegliata, Liz in Fuck and Run racconta di volere un fidanzato e di sentirsi nelle ossa la solitudine; è mossa da un senso di rivalsa nei confronti dell’universo maschile ma senza i toni velenosi delle ragazze di Olympia. Scrive, Liz, da una prospettiva postfemminista, decisamente più personale che politica, post Sassy e pre Sex and the City, trasversalmente indie e pop nello stesso tempo. Rockeuse smaliziata senza tabù quando parla esplicitamente di sesso, ma anche cantautrice confessionale e intima, con la freschezza del suo repertorio sapeva sfuggire alle classificazioni troppo facili e catturare immedtatamente l’attenzione. Un’ambivalenza che non è riuscita a sfruttare nella sua carriera mainstream finendo per accodarsi alle dive più giovani di lei, ma che in questo debutto per la Matador garantisce equilibrio tra suono indie e melodie orecchiabili e soprattutto permette a tante persone di riconoscersi in lei. Altro aspetto clamoroso di Exile In Guyville, che nel 2013 compie vent’anni e che già nel 2008 aveva festeggiato i quindici con una nuova edizione, è il suo essere un doppio LP di 18 canzoni per un’esordiente che aveva sì inciso i nastri a nome Girlysound (di fatto dei demo del disco finito), ma non aveva ancora suonato dal vivo. Più clamoroso ancora, Exile è una risposta punto per punto a un classico – assoluto – come Exile On Main Street dei Rolling Stones: «una fonte d’ispirazione, come un amico immaginario; tutto ciò che cantava Mick Jagger è diventato una conversazione o una discussione con lui che diventava un insieme di tutti gli uomini della mia vita». Non una ripresa filologica quindi, ma un concept (l’altra metà del titolo si ispira a Goodbye

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To Guyville degli amici Urge Overkill), da cui Liz Phair trae una raccolta di canzoni eclettica, che non ricopia lo stile del gruppo inglese ma riprende la stessa varietà e libertà in un contesto lo-fi, esattamente com’era stato per l’album più enigmatico di Jagger e Richards. In Exile in Guyville, tutto gira come dovrebbe intorno alla voce di Liz e alle sue scarne linee di chitarra – vedi gli accordi cadenzati e nervosi di Fuck and Run, il giro squillante di Divorce Song – a cui si aggiunge un suono smart casual cucito sulle canzoni, informale il giusto per “sbozzare” i demo di Girlysound ma anche per esaltare l’eclettismo di una scrittura semplice e già completa, che si tratti del folk rock di Help Me Mary, della delicata psichedelia di Dance of the Seven Veils, Canary e Shatter, del soul sui generis di Never Said, del rockblues di Mesmerizing, dell’elettronica fai da te di Flower. A modo suo, un classico che l’autrice non ha mai superato e che nel suo piccolo ha pochi termini di paragone. Tommaso Iannini

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