Yves Klein - judo e teatro / corpo e visioni

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Signore e sig presenta nori, ho il piacere r vi di Yves Kle stasera Yves Klein in . Dopo av è figlio di pitto er studia ri. to alla Nazionale della Ma Scuola cantile e r alla Scuo ina Merla di Lingue Nazionale Or cessivam ientali, è stato su cent allevator e libraio a Nizza e di cava lli in Irla e Tra il 19 nda 49 e il 1 951, viag . attravers gia o tutta l’ Europa. 1952, si N el imbarca p pone do ve studia er il Giapziali ant le arti m ic arpone dop he. Ritorna dal Giapo aver ot te cintura n era, 4° d nuto il grado di a Tokyo. È nominat n, al Kodokan d o allora d i nico dell a ir in Spagn Federazione naz ettore tecionale di a nel 19 5 judo dipinger e per tut 4. Avendo contin to questo uato a sua man te ie ca simult ra monocroma fi mpo, e già nella n dal 19 aneamen 46, pubb Bernard t li Grasset a e I Fondamenti del Judo delle sue Parigi, e , u p o Parigi, co pere, nell’edizion na raccolta di rip resso roduzion mincia d e Franco a quel m i a color abbando de Sarab omento i nare l’att ia a M a ad attira drid, che ività del Devo am re l’atten judo per , import mettere ata a zio co che quan pensato do ho vis nsacrarsi esclusiv ne su di lui. Nel d 1955, de amente a to per la maliare d apprima ad un b cide di ll ru p alla mag ia del colo tto scherzo e po rima volta i suoi a pittura e viene a tratto in i, d q noi la co r uadri, so p e puro, e abitare a scienza, no rimas Parigi. ho capito oco a poco, mio Yves Kle risveglia m t a . a M d lg in aveva i a r s a c t n d a u d p o c o it , c si di sopr o. m o cosa? N esposto decisa ad assalto. on c ’è nu i sono lasciata am Ho esporlo n , nel 1955 e nel ll a , esclama 1956, da ella mia epoca blu a d u C n g o a le ll , una eria nel 1957. Er tte Allendy a Par pittore. È delle manifestaz igi. Mi so a ap p e io a que ni più im no portanti na entrato nella straordin l punto che mi s d s u e ll a ono subit a sua car ario d riera o resa co le a prim i questa manier n t o del poter di a, tuttav a vista n e ia inamm ell’ambit tra i più issibio dei co audaci, s ncetti, p tabiliti e ersino Kasimir riconosc Malevic iu t i s oggi. Se i è sp ne della forma, Y into fino all’esas v pe es Klein, all’esaspe lui, si è s raziorazione d p into fino el co ancora, fi no all’im lore e persino p mater iù in là esposizio ne che h ializzazione del q o pre uadr ria nell’a prile 195 sentato nella mia o, 8 e che f galleso. Nel f u un gra rattempo n d , e ha intrap di due q succesuad re pera di G ri giganteschi n so la realizzazion el foyer elsenkirc del Teatr e he esposto a o d’Ol momen n, in Germania, to nella m il cui bo Oggi, tu zzetto è tta una nuova ge ia galleria. segue i s nerazion uo e di artis trasform i passi in tutta l’ ti Europa, a improv aderendo appassionati visamen malgrado te questo ne all’etic , in un ca a giovane poscuola di trentu , il che . (Applau n anni, s si) Presenta uo zione di I ris Clert 1 a L’evoluzio n Conferen e dell’arte verso l’ immater za alla So iale rbona, P 3 giugno arigi 1959


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Yves Klein esegue Ashi Guruma


I curatori Bruno Corà e Sergio Maifredi ringraziano: Daniel Moquay, Rotraut Uecker Moquay lo staff di Yves Klein Archives – Paris e in particolare Philippe Siauve i rappresentanti delle Istituzioni e degli Enti che hanno sostenuto la mostra: Marta Vincenzi – Sindaco di Genova Angelo Berlangieri – Assessore alla Cultura – Regione Liguria Andrea Ranieri – Assessore alla Cultura – Comune di Genova Luca Borzani – Presidente Fondazione per la Cultura – Palazzo Ducale – Genova Riccardo Garrone – Presidente Fondazione Edoardo Garrone Paolo Odone – Presidente Camera di Commercio di Genova Pietro da Passano – Direttore Fondazione per la Cultura – Palazzo Ducale – Genova Enrico Da Molo – Direttore Società Per Cornigliano Roberta Canu – Direttore Goethe Institut Genua Paolo Corradi – Segretario Generale – Fondazione Edoardo Garrone Maurizio Caviglia – Segretario Generale – Camera di Commercio di Genova Monica Biondi – Vicedirettore – Fondazione per la Cultura – Palazzo Ducale – Genova Daniele Biello – Responsabile settore Cultura – Regione Liguria Manlio Comotto – Presidente Regionale Ado Uisp – Liguria Elena Palumbo Mosca, per la sua preziosa testimonianza gli Autori dei testi pubblicati in catalogo e gentilmente concessi: Anna Follo Renata Pisu Giuliana Prucca gli Editori ObarraO Edizioni per Yves Klein – Verso l’Immateriale dell’Arte ISBN Edizioni per Yves Klein – I Fondamenti del Judo Silvana Editoriale e il Museo d’Arte Città di Lugano Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci – Prato per i testi gentilmente concessi per la loro insostituibile guida: i maestri di judo Pino Tesini e Cesare Barioli per la tenacia con cui ha creduto in questo progetto Lucia Lombardo per il sostegno e l’amicizia: Silvio Ferrari Maurizio Maresca Liana Mattacchini Romano Merlo Antonio Sapone per la pazienza e la perizia: tutto lo staff e i collaboratori di Fondazione per la Cultura – Palazzo Ducale – Genova


Una mostra su Yves Klein è un evento di grande importanza per la nostra città. Genova è stata capitale culturale europea nel 2004, ma continua ad essere una città in cui la cultura e l’arte - nelle loro rispettive molteplici forme ed espressioni rivestono un enorme valore e continuano a destare attenzione ed interesse. Genova è la città in cui il colore blu è predominante, blu è il colore del suo cielo, è il colore del suo mare, è il colore del suo “jeans”, il tessuto più famoso nel mondo, e anche per queste ragioni si adatta magnificamente ad ospitare il blu monocromo di Klein. Genova dunque rende omaggio all’artista in occasione della ricorrenza dei 50 anni dalla morte, prematura e per questo ancor più crudele. Klein è stato un autore molto prolifico, realizzando in soli sette anni oltre mille dipinti, lasciando di sé un’impronta forte, potente, di straordinario impatto, nel tentativo di raggiungere i confini dell’infinito, l’idea del vuoto, dell’indefinibile. Nel suo cimentarsi anche con la musica, arte quanto mai indefinita ed indefinibile, nella sua idea di superamento dell’arte. Come ebbe egli stesso a dichiarare, i suoi dipinti tendono verso qualcosa, che non è mai nato e mai morto, verso un valore assoluto, immateriale. Questa mostra (come forse ogni mostra a lui dedicata) non può che rappresentare quasi un ideale prolungamento della vita stessa di Klein, brevissima ma straordinariamente intensa, nel rimarcare l’impronta della sua presenza appunto immateriale eppure viva e potentissima, eterna. Il percorso espositivo si sofferma e ripercorre alcuni elementi essenziali della sua opera: il Judo; il Teatro del vuoto, la Danza del fuoco, il Viaggio in Italia. “Il Judo, attraverso la pratica fisica e spirituale dei Kata,” dichiarava Klein “si è costituito, mio malgrado e nonostante la mia formazione, come quella disciplina dell’arte che è il teatro.” Judo e teatro diventano una sintesi fatta di fisicità, di corpi che si incontrano e che si sfiorano, che lasciano impronte indefinite, inafferrabili ma indelebili. Oltre alle rare immagini dell’artista in kimono, sul tatami, con i più importanti judoka del mondo, la mostra propone filmati che riprendono Klein al lavoro e testimonianze delle sue teorie teatrali. E poi ancora i filmati girati durante la realizzazione dei suoi dipinti, la performance-art con modelle immerse nel suo pigmento blu e le orchestre che accompagnano l’artista nel momento dell’esperienza creativa. Raccontare un artista contemporaneo singolare ed eclettico e indagare sulle sue opere ancora non abbastanza conosciute, almeno nel nostro Paese, sicuramente desterà curiosità ed interesse ma soprattutto merita il mio vivissimo apprezzamento. La mia gratitudine a Sergio Maifredi, Bruno Corà, Daniel Moquay e a tutti coloro che si sono adoperati per la realizzazione di questo progetto espositivo.

Marta Vincenzi Sindaco di Genova


La crisi che ci attanaglia potrebbe anche essere letta come una crisi da eccesso. Di consumi, di voglia di appropriarsi, di possedere. Di apparenze tanto prepotenti che poi svaniscono, senza lasciare traccia dentro di noi. Allora avvicinarsi al mondo di Yves Klein può essere l’inizio di una cura. Accostarsi ad una ricerca dell’essenziale, nella musica, nella pittura, nel teatro, al suono più vicino al silenzio, al colore riconquistato nella sua purezza, alla sacralità del gesto fisico nello spazio e in rapporto agli altri che con noi questo spazio condividono. Perché suoni, immagini, gesti trovino eco dentro di noi. Lascino traccia. Klein è per quasi tutti noi corpi che si intridono di blu e lasciano il loro blu sulla tela. La mostra di Genova ci svela il contesto di idee, di gesti, di operazioni fisiche e mentali che sta dietro a quelle tele. Ce le mostra nel suo farsi. E come da esse si può ripensare il teatro, la musica, e la straordinaria esperienza, se vissuta con piena consapevolezza, dello judo. Saranno quindi i giorni della mostra, giorni di cinema, di teatro “fisico”, di sport, a Palazzo Ducale e a Villa Bombrini, in cui artisti e judoka, film maker e teatranti, in rete tra loro, ci restituiranno l’idea a tutto tondo del mondo di Klein. Sono lieto che quella rete, la rete del mondo di Klein, si sia intessuta, grazie a Sergio Maifredi, proprio a Genova, e di aver dato il mio piccolo contributo alla sua tessitura.

Andrea Ranieri Assessore alla Cultura


Una mostra con i tratti del laboratorio culturale. E’ questo l’obiettivo, non facile da raggiungere, di “Yves Klein. Judo e Teatro. Corpo e Visioni” che si apre a Palazzo Ducale, in occasione dei cinquant’anni della morte dell’artista, e curata da Bruno Corà, Sergio Maifredi e Daniel Moquay. Un’ equipe curatoriale caratterizzata da linguaggi, professionalità, modelli di riferimento culturali molto diversi. Critica d’arte, grande collezionismo, regia teatrale si intrecciano in una mostra che non vuol essere - e qui in piena sintonia con Klein e la sua progressiva dissoluzione non solo della figurazione ma dell’opera d’arte stessa - esposizione statica, fruizione passiva, ma evento, performance. Filo conduttore, del tutto inedito in un contesto espositivo, la lotta di Klein contro “ la vocazione di pittore” e la “vocazione di uomo di teatro” e il judo come pratica fisica e spirituale. L’autodisciplina del judo contribuisce a formare la personalità e la sensibilità di Klein. Ed è proprio negli anni dell’intensa pratica marziale che formula la sua concezione della pittura come vera e propria dimensione ontologica. Nella mostra documenti, oggetti, immagini, video che raccontano un percorso artistico segnato dalla radicalità e dalla ricerca. Ma anche un’importante programmazione di incontri internazionali con i protagonisti del judo. Per questo abbiamo parlato prima di laboratorio culturale, di sperimentazione capace di allargare il pubblico tradizionale, di coinvolgere saperi diversi. La mostra è anche un ulteriore momento della collaborazione tra Palazzo Ducale e Fondazione Garrone, ormai partner consolidati nell’innovazione culturale della città, e i Teatri Possibili Liguria, dalla loro nascita abituati a muoversi tra discipline artistiche diverse. Luca Borzani Genova Palazzo Ducale – Fondazione per la Cultura Presidente Paolo Corradi Fondazione Edoardo Garrone Segretario Generale

Yves Klein esegue Ju-No-Kata con Carmen Blackard e Itsutsu-No-Kata con il maestro Oda, in Giappone nel 1953 circa.


Una mostra non da vedere, ma da “sentire”. In questa sfida ci ha messo alla prova Yves Klein, coinvolgendo il Goethe-Institut Genua in un progetto che, grazie alla passione, alla competenza e alla conoscenza di Sergio Maifredi, Bruno Corà e Daniel Moquay, riesce a comunicare l’essenza dell’opera di un artista che, con una dirompente concezione dell’arte e sorprendenti intuizioni, è divenuto figura protagonista del suo presente e del futuro. Come non restare affascinanti da un giovane che si appropria del cielo di Nizza come sua prima opera d’arte, che inventa un ipnotico blu oltremare e si immerge nella vastità della monocromia rifuggendo dalla finitezza della linea. Un sognatore, un utopista che professa l’immaterialità dell’arte, un eccentrico che fa della sua stessa vita un’opera d’arte, un sacerdote-regista che mette in scena l’opera come rito, un acrobata in costante equilibrio tra assenza e presenza, tra vuoto e pieno. Così Yves Klein ha conquistato i suoi contemporanei e noi, con una travolgente personalità che, spinta da curiosità e intelligenza, ha saputo trarre costanti sollecitazioni e arricchimenti da sempre nuove ricerche, da viaggi, da contatti personali e dall’approfondimento di altre lingue e culture. Così si è stretto anche il suo rapporto con la Germania, paese al quale Klein ha dato molto e dal quale molto ha ricevuto. Qui egli presenta per la prima volta i suoi dipinti monocromi nel 1957 a Düsseldorf, in una mostra che inaugura l’attività della Galleria Alfred Schmela, una delle prime e più importanti gallerie private nella Germania del dopoguerra. Nella stessa galleria, anni dopo, forse non casualmente, si sarebbe tenuta la prima mostra monografica allestita in spazi privati di quel Joseph Beuys così vicino allo spirito di Yves Klein. E proprio a Düsseldorf Klein entra in contatto con il noto gruppo Zero, con artisti quali Heinz Mack, Otto Piene e Günther Uecker, animati da una forte volontà di rottura rispetto al passato, che lo coinvolgeranno nella loro intensa attività e saranno profondamente influenzati dalla sua opera. In quegli anni sarà proprio la Germania a offrire a Klein il suo primo e unico incarico pubblico, consistente nella realizzazione dei giganteschi pannelli decorativi per il Musiktheater im Revier di Gelsenkirchen, realizzati in stretta collaborazione con l’architetto Werner Ruhnau, che fortemente lo aveva voluto nel suo gruppo di lavoro. Il teatro di Gelsenkirchen, dove arte e architettura si integrano in modo perfetto e dove la monocromia trova la sua massima dimensione ed espressione, offrirà un definitivo riconoscimento internazionale dell’opera di Yves Klein. Sulla scia di questo successo, l’artista potrà allestire all’inizio del 1961 la sua prima retrospettiva museale, ospitata da Paul Wember nel Museo Haus Lange di Krefeld. E il rapporto con la Germania è pronto a farsi ancora più stretto grazie al suo matrimonio, nel gennaio 1962, con l’artista tedesca Rotraut Uecker, sua assistente e compagna. Vita e arte formano ancora una volta un connubio indissolubile. Ma purtroppo per ancor brevissimo tempo, poiché pochi mesi dopo Yves Klein muore a causa di un attacco cardiaco. Scompare così improvvisamente, all’età di soli 34 anni, un artista che, nel corso dei suoi densissimi sette anni di attività, anche il mondo tedesco ha conosciuto, accolto, apprezzato e ammirato per la sua capacità di librarsi nel più aperto e libero pensiero e di far intravedere ciò che può essere il futuro. Forse non è solo un confortante luogo comune, che muore giovane chi è caro agli dèi. Roberta Canu Direttore del Goethe-Institut Genua


Yves Klein direttore d’orchestra a Gelsenkirchen. 1959



Il Judo è a rte, è un'a rte dello s grande m tesso valo usica, per re della ché deve ogni volta essere ric che lo vog reato liamo di n agli occhi uovo dav . E' un'art anti e persona perché è l le e unive 'arte nella rsale lotta, che vita stessa è come di . re la Yves Klei n

scritto in

Yves Klein, 1962

Giappone ,

nel 1952 c irca.


Yves Kle i n – Judo e Teatro – Corpo e Visioni di Sergi o Maifre

di

Ho sentito per la prima volta il nome di Yves Klein su un tatami, durante uno stage tenuto dal maestro Pino Tesini. Da allora ho iniziato ad inseguire questo nome mitico. Le sue opere, i suoi scritti, le sue fotografie, i suoi film. Centinaia di immagini. Migliaia di parole. Per chi, come me, è stato accompagnato dal Judo per tutta la vita, è impossibile non leggere in trasparenza, tra le righe di Klein, gli insegnamenti ricevuti in ore e ore di esercizio in judogi; per chi, come me, di teatro vive è una luminosa scoperta la genialità dello spazio scenico intuito da Klein. Il Judo e il Teatro si intrecciano. Jigoro Kano1, il creatore del Judo, nel racchiudere i suoi insegnamenti nei paradigmi dei Kata, usa i codici del Teatro No. Ogni Kata porta in scena un principio del Judo, lo rappresenta. Il Judo e il Teatro vivono nelle tre dimensioni: lo spazio del judoka e quello del teatrante non sono circoscrivibili su un piano, quanto piuttosto in una sfera. Non esiste solo un “avanti e indietro”, un “destra o sinistra” ma anche un “sopra e sotto”. Nel Judo il tuo corpo scivola nell’aria, rotea, cade, si rialza; conosci il peso di un corpo che si muove nello spazio sottoposto alle leggi gravitazionali. L’attore affronta lo stesso spazio. Il Judo e il Teatro sono fatti di contatto fisico. Di corpi che si toccano, si sfiorano si intrecciano. Di odori, di carne. In Teatro non c’è un “io” senza un “tu”. Nel Judo non c’è un “Tori” senza un “Uke”. Non puoi fare Teatro da solo. Non puoi fare Judo da solo. L’immortalità si conquista insieme scrive Klein2; tutti insieme per progredire è l’insegnamento di Jigoro Kano. Il Judo e il Teatro obbligano ad essere responsabili dell’incolumità del compagno. Non c’è mai stato nulla di erotico, di pornografico né alcunché di amorale in queste sedute fantastiche (…). Con me, le modelle capivano, facevano qualcosa, agivano. Rassicura Klein in Vieni con me nel Vuoto, pubblicato in Dimanche. Sia nel Judo che nel Teatro il gesto origina dall’azione dell’altro; il Judo e il Teatro sono dinamici, esistono nel movimento: quello che mi interessa nel judo, quello che mi appassiona, è il Movimento, il fine del Movimento che è sempre astratto e puramente spirituale3, annota Klein. Dove l’arte di Klein appare scaturire in modo nitido dal Judo e dal Teatro è nello spazio scenico tatamisudario delle antropometrie. La tela bianca posata sul pavimento è l’area del combattimento e al tempo stesso 1) JIGORO KANO (1860-1938) Fondatore del judo. Appassionato di sport fin da ragazzino (fondò il primo club di baseball giapponese), si avvicinò allo studio del jujitsu in un’epoca in cui la pratica era in forte declino, a causa della tendenza modernizzatrice e occidentalizzante che investì il Giappone nella seconda metà dell’Ottocento. Divenuto maestro a sua volta, fondò nel 1882 il Kodokan Judo, la prima scuola per l’insegnamento del judo. Per tutta la vita fu attivo in particolare come educatore, vedendosi anche assegnare incarichi di rilievo da parte del governo nel campo della pubblica istruzione, e si occupò con passione della divulgazione del judo in tutto il mondo. 2) Yves Klein, L’evoluzione dell’arte verso l’immateriale – Conferenza alla Sorbona, 1959. 3) Appunto da un dattiloscritto di Yves Klein, presso Yves Klein Archives, Parigi.


il luogo della rappresentazione. Ai bordi l’orchestra suona, gli spettatori guardano, il regista Klein, in smoking dirige o forse arbitra l’incontro. Incontro che è rito. Sul tatami si sale con un inchino, salutando il tatami stesso, salutando i maestri e i compagni. Creare le Antropometrie era chiaramente una specie di cerimonia: l’impregnazione fisica della modella con il Blu di Yves (IKB) avveniva in silenzio, in un’atmosfera di grande intensità: Yves, quasi memore di sacerdoti antichi, indicava solo dove applicare il colore. Il corpo della modella, impregnato di blu, si trasformava allora chiaramente in energia vitale materializzata: mi sembrava che diventasse un mezzo per il flusso del “ki”4. L’impronta della modella è l’impronta del judoka che cade sul tatami, coglie puntuale Pierre Restany5. Del resto come immaginare l’opera capolavoro il Salto nel Vuoto6 se non generata da uno spirito intriso di Judo e Teatro. Un gesto che rivela, in uno scatto, anni di esercizio fisico e spirituale e capacità profonda di comunicare, di condividere, di mettere in comune uno stato dell’anima. Yves Klein sa che il Teatro vero, non quello borghese, accade qui ed ora ed è irripetibile ed esige la morte dell’attore. E’ un teatro della crudeltà il suo, memore per impregnazione di Artaud, come ha saputo scoprire Giuliana Prucca7; anticipatore de Lo Spazio Vuoto di Peter Brook, lo spettacolo del futuro è una sala vuota8, scrive Klein. Ho guardato decine di volte le fotografie di Klein. Mai in posa eppure sempre presente, mai sorpreso, sempre zen, in armonia con lo spazio. Ho guardato il ragazzo gioiosamente inquieto che in trentaquattro anni, tanto dura la sua avventura su questa terra, sa abitare contemporaneamente più vite, componendo la sua opera più bella: la vita, la vita stessa che è l’arte assoluta9. Le fotografie costituiscono un ulteriore spazio scenico, una rappresentazione sacra che accompagna la vita di Yves. Yves Klein judoka, Yves Klein teatrante, Yves Klein in volo verso il superamento dell’arte: la mia opera è la mia scia10, lui è già oltre, nella fotografia lui c’è ma in assenza, la fotografia è la traccia di una traiettoria. Yves Klein vive in modo totale il Judo, il Teatro, l’Arte. Non gli basta il dojo di Nizza, non si limita a sognare il Giappone: parte per Tokyo, studia un anno e mezzo al Kodokan e ottiene il 4° dan. Nel Teatro ha intuizioni leonardesche, geniali e ancora lontane dall’essere esplorate oggi. Immagina spazi scenici totalizzanti: una città intera, o addirittura una capitale o, meglio ancora un Paese intero deve servire da scenario11 per vivere l’azione pura della cattura del vuoto. Yves raggiunge la sintesi di Judo, Teatro e Arte. Ho lottato contro la mia vocazione di “pittore”, partendo per il Giappone, in cui poter vivere l’avventura del Judo e delle 4) Da Bruno Corà, Gilbert Perlein, Yves Klein – La Vita, la vita stessa che è l’arte assoluta, catalogo della mostra (Musée d’Art Moderne et d’Art Contemporain di Nizza, 2000 – Museo Pecci di Prato, 2000-2001 ). Gentilmente concesso da Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci. 5) Pierre Restany (1930-2003) critico d’arte francese, fondatore del movimento del Nouveau Réalisme all’inizio degli anni sessanta, amico e grande sostenitore di Yves Klein, incontrato nel 1955. 6) Le saut dans le vide, di Harry Shunk e John Kender. 7) Giuliana Trucca, Artud e Klein, “l’assenza più reale della presenza”, in Yves Klein, Verso l’immateriale dell’arte – con scritti inediti, a cura di Giuliana Trucca, Obarrao edizioni, 2009. 8) Yves Klein, L’evoluzione dell’arte verso l’immateriale – Conferenza alla Sorbona, 1959. 9) Yves Klein, L’evoluzione dell’arte verso l’immateriale – Conferenza alla Sorbona, 1959. 10) Yves Klein, Dimanche – Teatro del vuoto, 1960. 11) Yves Klein, Dimanche – Cattura del vuoto, 1960.


Bozzetti per la copertina de I Fondamenti del Judo. 1954


Biglietti da visita, Yves Klein, Parigi, Judo, 1955 circa.

Bozzetto per la copertina de I Fondamenti del Judo. 1954.


Arti marziali antiche: allo stesso modo, ho lottato contro la mia vocazione “d’uomo di teatro”; ma appunto, il Judo, attraverso la pratica fisica e spirituale dei Kata, si è costituito, mio malgrado e nonostante la mia formazione, come quella disciplina dell’arte che è il teatro. (…) Amo Molière e Shakespeare perché, nella loro opera, si trova quella trasparenza del vuoto che mi affascina. Per me “teatro” non è affatto sinonimo di “Rappresentazione” o di “Spettacolo”.12 In Klein, come in Artaud, il teatro è “l’atto” è il rito. Le sue conferenze sono happening, Klein è un comunicatore che sa essere pericoloso, non racconta, vive e ritualizza. Ogni gesto di Klein appare semplice. Il blu è Blu. L’oro è Oro. Il fuoco è Fuoco. Come l’ippon perfetto del Judo. Ho sempre pensato che fosse molto meglio sfondare le porte piuttosto che perdere tempo a cercarne le chiavi. (…) Quando sono arrivato in Giappone (…) pensavo solo a sfondare porte (…) mentre notavo intorno a me infinite quantità di chiavi che avevano tutta l’aria di funzionare ed aprire senza danno, senza dover sfoderare un’inutile potenza. Mi ci sono voluti ben sei mesi in Giappone di scontri accesi e scatenati ignorando i sapienti kata, prima di fermarmi un giorno senza fiato, stremato e indispettito davanti all’ennesima porta, questa volta troppo spessa, e decidermi finalmente ad afferrare con rabbia la chiave che già da tempo mi offriva uno degli anziani maestri del Kodokan, sorridendo sempre dolcemente. «E ho aperto la porta girando semplicemente la chiave nella serratura!»13 Klein, come i maestri orientali, sa catalizzare energie presenti nell’etere. Klein dice ciò che ancora non esiste nelle parole degli umani, supera il Judo, supera il Teatro, supera l’Arte, preannunciando un mondo immateriale, un mondo che sta per raggiungere la Luna, che non conosce ancora internet, la rete, la globalizzazione. Ma Klein già è lì ad afferrare qualcosa che sta arrivando ed è nell’aria. Da anni mi esercito a levitare e conosco bene i mezzi per riuscirci davvero (le cadute di Judo)14. Siamo onesti, per dipingere lo spazio ho il dovere di recarmi sul posto.15 Il suo mondo è blu. Domenico Modugno deve ancora cantare al mondo: penso che un sogno così non ritorni mai più / mi dipingevo le mani e la faccia di blu. Deve ancora volare. Lui, Yves Klein, il pittore dello spazio ha già fatto tutto questo.

Yves Klein esegue una caduta di Judo su una sua opera davanti a Rotraut seduta a terra.

12) Yves Klein, Dimanche – Teatro del vuoto, 1960. 13) Yves Klein, I fondamenti del judo, 1954. 14) Yves Klein, Dimanche – Dal vertiginoso al prestigioso, 1960. 15) Yves Klein, Dimanche – Un uomo nello spazio, 1960.



: n i e e l t r K a s ’ l e e r Yv t l o , u l b o m uo Corà o n u r di B

La vasca contenente l’IKB (International Klein Blue) allestita nella Cappella con affreschi seicenteschi entro il Palazzo Ducale di Genova accoglie ciò che nel sottotitolo del suo Esquisse de scenario, 1954, Yves Klein definisce “proposizione monocroma esito del combattimento della linea con il colore”, cioè della cosiddetta Guerra. Quel grande deposito di pigmento blu dunque riassume idealmente tutta l’azione pittorica di Yves Klein ed emblematizza l’entità monocroma del colore blu concepito dall’artista come sinonimo della sensibilità pittorica allo stato di materia prima e della sua stessa immaterialità. Il progetto espositivo realizzato per l’occasione a Genova ha dunque deliberatamente individuato quale obiettivo risultato di mettere in risalto l’essenza estetica e poetica dominante di tutta l’azione artistica di Yves Klein. Agli autori di tale ipotesi di lettura dell’incredibile ma reale esperienza di una personalità ormai mitica, com’è quella di Klein, è sembrato possibile percorrere quelle attitudini e quegli aspetti della sua vicenda poetica che, alla stregua dell’interesse per il colore, pongono in risalto l’azione, il movimento, il corpo e le sue estensioni, dal pensiero alla sensibilità, la stessa visionarietà utopica che ha prefigurato ogni fase dell’attività di Klein, trasferendo l’aura dalle opere all’autore di esse. In tal modo, come uno sciamano, Klein diviene il primo artista che, con totale consapevolezza, attraverso il superamento della realizzazione della forma fisica dell’opera, è in grado di trasmettere l’energia e le qualità sensibili che derivano dall’arte pur in assenza di materialità. D’altronde, non è stato proprio Klein a suggerire di compiere questo salto estimativo e concettuale quando ci ha ricordato che «i miei quadri non sono che le ceneri della mia arte»? Tutta l’azione di Klein, sin dagli esordi, è permeata da un’ansia e una tensione drammatica, le quali ancorché non ci si soffermi a dimostrarne i segni, trapelano da ogni sua creazione, da ogni suo progetto, da ciascuna sua azione. Nell’ottobre 1955, assai precocemente nella cronologia del suo percorso di pittore, nel presentare «Yves Peintures» presso le Éditions Lacoste a Parigi, Klein scrive: «… chaque nuance de chaque couleur est bien une “présence”, un être vivant, un force active qui naît et qui meurt après avoir veçu un sorte de drama de la vie des couleurs».1 1 Yves Klein, Texte de présentation de l’exposition “Yves Peintures” aux Éditions Lacoste, 15 octobre 1955, in Le dépassement de la problèmatique de l’artetautres écrits, Édition établie par Marie-Anne


In quegli anni, Klein ha già superato una delle fasi più cruciali e determinanti della costruzione della sua identità, il raggiungimento del 4° dan – cintura nera – di Judo nell’autorevole istituto del Kôdôkan di Tokyo, dopo una residenza in Giappone durata circa un anno e mezzo, dal settembre 1952 al gennaio 1954. Al ritorno in Francia, assieme alla sua qualifica di Judoka, Klein reca anche il menabò da lui redatto e pieno di foto che lo ritraggono nei movimenti fondamentali dei sei kata del judo moderno, per la pubblicazione di un libro, un vero manuale, che verrà edito nel novembre di quello stesso anno dall’editore Bernard Grasset. Nonostante che l’esperienza del judo non troverà posto ancora per lungo tempo nell’azione futura di Klein, per sistematiche avversità frappostesi nel suo cammino di campione sportivo, essa tuttavia, per molte ragioni che si evidenzieranno col trascorrere del tempo – in verità breve – della sua vita, si dimostrerà fondamentale. Ciò dischiude un’interessante prima riflessione sulla singolarità dell’iniziazione all’arte di Yves Klein che, anziché avvenire per vie coerenti al contesto in cui egli è vissuto, sin da adolescente, tra due genitori entrambi pittori o mediante regolari studi accademici, si sviluppa invece ripetutamente attraverso esperienze in ambiti e circostanze formative inusuali e insospettabili, che concorrono alla nascita e all’affermazione di una vocazione artistica dagli esiti dimostratisi rivoluzionari. Prima di dedicarsi sistematicamente alla pittura, sarà libraio a Parigi e a Nizza, studioso di Rosacrocianesimo; insieme agli amici Armand Fernandez (artista divenuto Arman) e Claude Pascal poeta (divenuto Pascal Claude); doratore presso un corniciaio a Londra e stalliere in un club di equitazione in Irlanda, a Dublino; insegnante di lingua francese, musicista, insegnante di judo. Quando nel maggio del ’54, insieme con Claude Pascal si stabilisce a Madrid come direttore tecnico della Federazione spagnola di judo, istruendo corsi di apprendimento della disciplina marziale, la decisione di dedicarsi alla pittura, già emersa in numerose occasioni e attraverso segrete tracce, diviene palese. Il passo verso l’esercizio effettivo si compie attraverso un’originale e sconcertante modalità, che diviene emblematica non solo delle concezioni obiettivamente eversive della prassi artistica di

Klein, ma anche del suo comportamento futuro di stratega comunicativo e artista rivoluzionario. Con il titolo Yves Peinture, alla fine del’54 pubblica a Madrid presso l’editore Franco de Sarabia un catalogo di poche pagine e in pochi esemplari, in cui mostra dei rettangoli di carta in tinta unita e di formato diverso incollati ciascuno su un pagina, accompagnati dalla firma “Yves” e da una didascalia che reca ogni volta una città diversa: Londra, Madrid, Nizza, Parigi, Tokyo, etc. La pubblicazione ha una prefazione di Pascal Claude di tre pagine prive di caratteri tipografici, cioè di testo, al posto del quale pone righe nere orizzontali di inchiostro. Una successiva edizione, dal titolo Haguenault Peintures, simula una diversità d’autore con una medesima struttura. La maggior parte degli studiosi ritiene che, a un attento esame, le tavole che alludono alle opere realizzate da Klein in diverse città, di fatto non siano che la realizzazione di un’idea, ma che quelle opere indicate come tali non siano mai state dipinte. Ne è riprova, ritenuta sufficiente, la loro assenza dal catalogo ragionato delle sue opere redatto da Paul Wember. Taluno, inoltre, in modo analitico, dopo averne esaminato i numerosi aspetti e previo approfondito confronto e riscontro con altre creazioni artistiche e letterarie, trae la meditata e rispettabile conclusione che «Yves Peintures costituisce senza dubbio un’introduzione concisa e un buon strumento per capire le concezioni di Klein e il suo modus operandi, risiedendo uno degli aspetti più rimarchevoli di questa piccola opera nell’affermazione possibile che l’arte consiste nella comunicazione di una informazione artistica».2 Pur condividendo numerose delle considerazioni sviluppate attorno a Yves Peintures e alla luce delle successive azioni compiute da Yves Klein, che questo episodio di riflessione critica sulla sua opera affronta, sarei propenso a valutare quest’opera con un’ulteriore ottica, soprattutto a partire da uno sguardo retroattivo che voglia prendere in esame tanto il resto del suo percorso artistico quanto quello di altre personalità e altre azioni della medesima frequenza poetica che alla sua esperienza potrebbero essere riferibili o fatte risalire. Se prima di Klein gli esempi più rimarchevoli di un’attitudine a far coincidere il processo formativo artistico con la vita, fino al superamento di quello con questa, sono riferibili

Sichère et Didier Semin, École Nationale Supérieure des Beaux Arts, Paris, 2003, p. 40-41.

2) Nan Rosenthal, La lévitation assistée, in catalogo mostra Yves Klein, 3 marzo – 23 maggio 1983, Centre Georges Pompidou, Musée National d’Arte Moderne, Paris, 1983, p. 208


in arte a Marcel Duchamp, a John Cage e al lettrista Isidore Isou, dopo Klein sia Manzoni che Agnetti, che Beuys e alcuni artisti concettuali forniscono esempi di quella stessa attitudine che, in ultima istanza, è rivolta al trasferimento dell’aura dall’opera al suo autore, attuando quel “superamento della problematica dell’arte” individuato e perseguito da Klein con lucidità e azione ben determinate: dimostra di aver colto questo passaggio Germano Celant quando, nel suo saggio storico su Piero Manzoni (1975), chiama in causa Duchamp quale primo autore di tale concezione. Scrive Celant: «Ma innanzitutto vediamo schematicamente qual è il diverso atteggiamento di Duchamp, poiché più che di lavoro si tratta di un diverso modo di essere. Marcel Duchamp è l’individuo che non continua le elucubrazioni visuali sul rapporto tra arte e vita, ma che esce dall’arte ed entra direttamente nella vita. Piuttosto che continuare ad elaborare tecniche atte a mantenere attivo il fantasma della vita nell’arte, egli adotta la soluzione più semplice, dà all’arte il “senso” della sua vita ed in un certo qual modo ne afferma il dissolvimento nella sua persona e nelle sue scelte nel mondo».3 Ma nonostante gli atteggiamenti e le scelte compiute da Duchamp in tempi non sospettabili e ribadite – più tardi – in conversazioni con i suoi interlocutori attraverso dichiarazioni del tipo «Si vous voulez, mon art serait de vivre; chaque seconde, chaque respiration est une œuvre qui n’est inscrite nulle parte, qui n’est ni visuelle ni cérébrale»,4 con la rilettura della sua opera, avvenuta con sistematicità dal 1957-59 e l’assunzione compiuta da vari artisti di modi espressivi che, paradossalmente, perpetuandone le intuizioni e i principi, non accolgono l’annullamento dell’arte nella vita, da lui compiuto e predicato, si renderanno necessari altri atti significativi nell’ambito della concezione del “superamento della problematica dell’arte”, come quelli, appunto, già avviati da Klein, del tutto precocemente rispetto alla diffusione del pensiero di Duchamp. Quali che siano state le ragioni che hanno spinto Klein a produrre le pubblicazioni Yves Peintures e Haguenault Peinture, il dato di fatto è che quell’atto, impregnato di concettualità ante literam, pone già, implicitamente, una sorta di abolizione dell’opera, proprio nel momento in cui, paradossalmente, si accinge a volerla documentare. 3) Germano Celant, Piero Manzoni, Prearo Editore, Milano 1975, p. 13. 4) Marcel Duchamp, citazione da P. Cabanne, Entretiens avec Marcel Duchamp, Éditions Belfond, Paris 1967, p. 135.

Basandosi su principi analoghi, taluno, un decennio più tardi, curerà e allestirà mostre ricorrendo alla sola pubblicazione dei cataloghi senza mai che le opere degli artisti trovino fisicamente collocazione in una sede espositiva!5 Yves Peintures, dunque, a mio avviso, può essere considerato sia il primo documento della nascita del pittore Yves Klein, sia la prima traccia di una vocazione all’immaterialità dell’arte secondo cui è sufficiente, per esistere, che sia immaginata ed enunciata. Ma, seguitando a voler individuare quegli atti qualificanti la concezione del “superamento della problematica dell’arte”, non può essere trascurata altresì la composizione della Simphonie monotone (1949), di un solo tono, una sola nota continua, capace di produrre un volume musicale che impregna di sé lo spazio come una realtà senza inizio né fine. La Simphonie, di una prima durata di 20 minuti, considera un analoga temporalità dedicata al silenzio, con la consapevole volontà di riuscire a rendere presente e far percepire la sua entità. Anche in tal caso, al di là delle differenze che pur caratterizzano questa creazione di Klein dalle esperienze di John Cage, vale la pena sottolineare la precocità delle intuizioni dell’artista nizzardo, considerando che la composizione 4’33” di Cage, dedicata al “silenzio” formalizzato come tale, è del 1952. L’interesse di Klein per il “silenzio” e quello in seguito sviluppato per il “vuoto” recano in sé una medesima esigenza che si qualificherà sempre più chiaramente con la messa a punto di nomenclature molto specifiche e pregnanti attribuite a diversi atti di formalizzazione delle entità invisibili o poco apparenti, ma non per questo meno reali. Nella presentazione alla mostra di Klein delle Proposizioni monocrome, presso la Galleria di Colette Allendy a Parigi nel febbraio del ’56, dove Klein aveva lasciato completamente vuota una sala in modo di testimoniare “la presenza della sensibilità pittorica allo stato di materia prima”, Pierre Restany, che intanto ha stretto un sodalizio con Klein, invita nel testo Il minuto di verità, tutti gli intossicati dell’automobile e dei ritmi della città o degli habitués dell’informale a una cura di silenzio e di ‘niente’. A Milano, invece, l’anno dopo, nella Galleria Apollinaire di 5) Seth Siegelaub è stato il primo organizzatore di mostre a specializzarsi sull’arte concettuale, realizzando un gruppo di mostre che non esistevano al di fuori del catalogo e divenendo un attivo “curatore indipendente”, che ha organizzato ventuno mostre d’arte, libri, cataloghi e progetti in tutti gli Stati Uniti, Canada ed Europa tra il febbraio 1968 e il luglio 1971, tra cui alcune importanti mostre collettive, quali The Xerobook nel dicembre 1968 e 5-31 gennaio 1969, mostra che non conteneva alcun oggetto o pittura o scultura.


Guido Le Noci, Klein propone in una sala undici monocromi dipinti di blu, dello stesso formato, ma in vendita a prezzi differenti; e in un’altra sala altri dipinti monocromi di colore diverso. La quotazione delle opere blu con prezzi diversi intende sottolineare la diversa stesura pittorica e soprattutto il diverso grado di sensibilità fornita all’osservatore e al collezionista. Klein dunque torna a rinforzare il concetto di “sensibilità pittorica” che tanta importanza rivestirà in tutta la sua azione successiva. Nel 1958, presso la Galleria di Iris Clert, nell’impresa di realizzare l’Exposition du vide, precisa ulteriormente l’intervento con il titolo La spécialisation de la sensibiliè e l’état matière première en sensibilitè picturale stabilisée. Di questo lavoro, fondamentale nel processo verso l’immaterialità, Klein descrive puntualmente la preparazione e la presentazione di un testo che, insieme ad altri, di non minore significato, andrà a costituire il corpus del “superamento della problematica dell’arte”. Prima della pubblicazione di questo documento, tuttavia, si assiste ancora a tre eventi di qualificazione poetica di straordinaria innovazione. Nel giugno del ’58, in stretta collaborazione con una modella nuda realizza la sua prima tela impregnata dal corpo, stendendola a terra e scaricandovi sopra venti chili di pigmento blu, dentro cui la modella, immergendosi e rotolando sulla superficie, sotto indicazione di Klein, esegue un monocromo definito in seguito Anthropometrie. L’addizione della delicatezza del corpo animato nell’esecuzione delle opere aumenta, secondo Klein, la sensibilità degli esiti pittorici. Nel marzo del 1959, invece, Klein recatosi ad Anversa, in Belgio, per partecipare al Hessenhuis alla mostra Vision in Motion, a cui era stato invitato insieme ad artisti come Bury, Tinguely, Rot, Mack, Munari, Spoerri, Piene, Soto e Mari, nel momento del vernissage, anziché collocare nel luogo a lui assegnato un quadro o un’opera tangibile e visibile, egli pronuncia ad alta voce, davanti al pubblico, la frase di Gaston Bachelard: «D’abord il n’y a rien, ensuite il y a un rien profond, puis une profondeur bleu» (prima non c’è niente, poi c’è un niente profondo, infine una profondità blu). Interrogato su dove fosse l’opera, risponde: «dove parlo in questo momento» e subito dopo, incalzato da un’ulteriore domanda sul prezzo dell’opera dichiara che esso è un lingotto d’oro del peso di un chilo, perché «per la sensibilità pittorica allo stato materia prima nello spazio specializzato e stabilizzato (…) non

si può chiedere danaro». Se l’azione e le affermazioni appaiono a molti sconcertanti, nondimeno il terzo atto che precede immediatamente la pubblicazione in Belgio de Le dépassement de la problématique de l’art ha del magico o, se si preferisce, dell’inaudito. Klein giunge a concepire la cessione mediante acquisto con lingotti d’oro di Zone di sensibilità pittorica immateriale da lui ideate. Egli lo considera un rito, del tutto analogo seppur diverso da quella della realizzazione delle “antropometrie”. Egli disegna e fa stampare dei cachet de garantie che emette come ricevuta da lui firmata a chiunque acquisti una Zona di sensibilità pittorica immateriale contro venti grammi di oro fino. Il possessore della ricevuta, affinché la Zona di sensibilità gli appartenga completamente e si incarni in lui, deve bruciare, alla presenza dell’artista e di taluni testimoni, la propria ricevuta mentre Klein getta la metà del peso dell’oro in un fiume, nel mare o in qualsiasi altro luogo in cui l’oro sia irrecuperabile. Eccetto le cessioni di “vuoto” e di “immateriale”, compiute in anonimato assoluto, Klein ha ceduto, tra gli altri, tali “zone” al gallerista Peppino Palazzoli, al collezionista Paride Accetti e allo scrittore Dino Buzzati. La pubblicazione del Superamento della problematica dell’arte, avviene il 15 dicembre 1959 nelle Edizioni di Monbliart, La Louvière. Nell’occasione Klein si qualifica “artista pittore, cintura nera quarto dan di judo, diplomato da Kôdôkan di Tokyo, Giappone”. Nelle prime righe dell’opuscolo si legge«Non è sufficiente dire o scrivere: “ho superato la problematica dell’arte”. Occorre averlo fatto. Io l’ho fatto». Nelle righe che seguono afferma: « Per me la pittura non è più in funzione dell’occhio oggi; essa è in funzione della sola cosa che in noi non ci appartiene: la nostra vita». Nella conclusione del testo introduttivo sancisce: «Presentata nel 1957 a Parigi alla Galleria Iris Clert e alla Galleria Colette Allendy, l’epoca Blu fu il mio esordio. Io m’accorsi che i miei quadri non sono che le “ceneri” della mia arte. L’autentica qualità del quadro, il suo “essere” stesso, una volta creato si trova al di là del visibile, nella sensibilità pittorica allo stato di materia prima».6 Nei restanti due anni e mezzo di vita, Klein realizza opere con il fuoco, con l’acqua, con il vento e la pioggia, ma soprattutto sviluppa il rito delle Antropometrie, articolandolo con più modelle e attraverso l’immissione della Simphonie 6) Yves Klein, Le dépassement …., cit. , p. 80.


monotone a base di orchestra di archi; dà inoltre alle stampe il quotidiano di un giorno solo Dimanche dopo aver compiuto lo straordinario Salto nel vuoto a Fontenay aux Roses, un sobborgo di Parigi. Partiamo da Dimanche. In risposta all’invito a partecipare al Festival d’arte d’avanguardia di Parigi per le rappresentazioni teatrali del novembre-dicembre 1960, Klein concepisce le quattro grandi pagine e firmandole come “direttore gerente” le struttura come un manifesto di tutte le tappe della sua proteiforme attività sino ad allora realizzata, ponendo l’accento sulla volontà di presentare una forma di teatro collettivo di 24 ore, cioè un giorno intero di festa, una domenica. Egli si augura che la domenica di quel 27 novembre in programma nel Festival la gioia e la meraviglia regnino e che tutti trascorrano una buona giornata. In tal senso si augura che il teatro debba essere o divenire il piacere di esistere e di vivere, comprendendo meglio ogni giorno la bellezza. Ai titoli che vogliono evocare i suoi maggiori obiettivi poetici Klein affianca alcune immagini: lo spazio vuoto, la propria immagine nel salto nel vuoto, una fontana di fuoco, gli spettatori seduti sul pavimento della strada contemplati dagli attori accalcati sui marciapiedi e, infine, alcuni disegni che illustrano mosse di judo. Se si effettua la lettura di quelle pagine si ha la reale portata della strenua azione di Klein nell’ambito del breve cerchio di anni della sua vita. Il Salto nel vuoto, oltreché la visualizzazione di una tensione verso l’immaterialità – un’immagine geniale e ineguagliata –, è stato possibile tuttavia perché Klein era judoka capace e in grado di compierlo. E ben al di là della sua complessa realizzazione, sia dal punto di vista fisico che da quello tecnico, compreso il contributo dei fotografi Shunk e Kender, esso reca una fortissima eco di valenza sciamanica e perfino iconografica, se si pensa al celebre dipinto greco di età classica rinvenuto sotto il coperchio della tomba del Tuffatore a Paestum, che immortala un probabile atleta che da un trampolino esegue un tuffo di valenza sicuramente simbolica, forse verso l’al di là. La tensione costante di Klein verso l’immateriale e la sua latente azione nel trasferimento dell’aura artistica dall’opera su se stesso,diviene emblematica proprio in questa immagine-opera che dunque segna uno dei punti più avanzati della sua arte. In altri modi, Piero Manzoni, nel costruire la sua Base magica, 1961, sulla quale poteva salire chiunque ma anche egli stesso,

com’è evidente in alcune foto che lo ritraggono in atteggiamento esemplare e compiaciuto, perfino ignaro di aver anticipato le living sculptures Gilbert & George, non nascondeva un’analoga aspirazione. Lo stesso dicasi per l’apposizione della propria firma sul corpo delle modelle o di alcuni suoi amici, tra cui Emilio Villa e Umberto Eco, autenticati perciò come opere d’arte, che non sembra poi così distante dalla considerazione di Klein per le sue modellecollaboratrici-opera nelle rituali performances delle Antropometrie anticipatrici della body art. Un’ultima considerazione in questa riflessione riguarda la tematica stessa del superamento dell’arte, che non è solo un problema affrontato da Yves Klein. Com’è noto, esso risale al concetto hegeliano di “superamento” e poi alle avanguardie artistiche sovietiche, dada e del surrealismo. Successivamente, elaborazioni teoriche e ideologiche, molto diverse tra loro soprattutto per modalità e obiettivi di analisi conoscitiva, si sono alternate usando la medesima proposizione concettuale. Quello che, per ragioni cronologiche, potrebbe interessare l’attuale riflessione relativa a Klein, cioè il superamento dell’arte cosí come propugnato dall’Internazionale Situazionista, da una parte appare di respiro tanto vasto da scoraggiare una seria riflessioni per una circostanza come l’attuale, dall’altra non vi sono molti dati confortevoli nel ritenere che Klein fosse stato a conoscenza delle attività dell’I.S. tenuto conto che essa nasce nel 1957 in Italia dalla fusione del Movimento per un “Bauhaus Immaginista”, dell’“Internazionale Lettrista” (scissa dal Lettrismo di Isidore Isou) e dal “Comitato psicogeografico di Londra”, arcipelago complesso in cui confluiscono le esperienze di Jorn, Constant, Pinot Gallizio, A Khatib, Gilles Ivain, Guy Debord e Michèle Bernstein. L’unica esperienza di cui Klein poteva essere informato riguarda il Lettrismo di Isou, ma francamente i percorsi appaiono distanti. E’ utile che la mostra dedicata a Klein a Genova susciti interrogativi oltre che sul ruolo del judo e del teatro, che pur lo riguardano, in particolare sul problema stesso del “superamento” già tentato dalle postavanguardie, per giungere a un nuovo e più ampio disvelamento della sua vicenda di veggente, poeta, artista e uomo fattosi avanti prima di noi nel futuro.



IL SALTO NEL VUOTO Fotografi : Harry Shunk-John Kender Copyright : Harry Shunk-John Kender


Yves Klein sul tatami in Giappone. 1953 circa.


o r i h c I i d e n o i z a f e r P o t a i v n i , n Abé, 6° da Kodokan, l e d e l a i c uffi i t n e m a d a I Fon . o d u J l e d Sono stato uno dei primi ad avere il piacere di leggere il libro di Klein.

Questo libro mi ha fatto pensare alla grande opera intrapresa dal venerato Maestro Jigoro Kano oltre settant’anni fa. Poiché il Maestro Kano, basandosi su due principi superiori, «il minimo sforzo per la massima efficacia» e «la reciproca prosperità», creò il judo, non solo per il benessere e la perfezione del popolo giapponese, ma per la felicità del mondo, questa opera aiuterà a diffondere l’opera del Maestro. L’evoluzione del judo in Europa è, pur in un tempo più breve, analoga a quella avvenuta in Giappone. All’inizio, il nostro sport aveva la forma del jiu-jitsu, oggi la tecnica ha fatto notevoli progressi, lo studio diventa sempre più simile a quello del Kodokan, ma ci si dimentica ancora troppo spesso di esercitarsi secondo i principi primi. Per lavorare, per progredire e comprendere il judo, ci si presentano due pratiche: il randori e il kata. E né l’una né l’altra possono essere trascurate. Tra di loro esiste una profonda relazione. La stessa che esiste tra la grammatica e la composizione. La grammatica che insegna le regole, i fondamenti della scrittura e del parlare corretto, è il kata. La composizione o l’esercizio libero, è il randori. Per eseguire bene il randori, bisogna dunque conoscere bene il kata. In generale il punto debole del judo europeo sono i kata o fondamenti. Il loro spirito e la loro esecuzione sono stati mal compresi e alterati. Per illustrare il mio pensiero, farò l’esempio del kata più conosciuto, il nage-no-kata1: accade spesso di lavorare solo sulla forma, perdendo di vista lo studio dello squilibrio, dell’atteggiamento, degli spostamenti. E persino nel momento della proiezione, Tori (colui che esegue) resta passivo, tanto che Uke (colui che subisce) è obbligato a proiettarsi. Mentre bisognerebbe fare il movimento completo (tsukuri, kusushi, kake) con sincerità. Eseguito «all’europea» il kata perde il suo importante senso di grammatica. Lo studio delle tecniche e della teoria dell’attacco e della difesa, che ha come base assoluta il principio del «minimo sforzo per la massima efficacia», ci porta ad eseguire i movimenti secondo una sola forma e in modo molto preciso. È praticandoli in questo modo che troviamo i movimenti nei kata. Ed è ciò che spiega l’importanza che rivestono le loro regole severe e le loro forme prestabilite. Il libro di Klein spiega con grande completezza i sei kata principali.

Realizzazione di una Antropometria. Godet. 1958

1) Nage-no-kata = “forma delle proiezioni”, l’insieme delle tecniche che prevedono una proiezione di uke da parte di tori.


Il randori-no-kata, che comprende il nage-no-kata e il kata-me-no-kata2, è una selezione delle tecniche del lavoro in piedi e a terra e, come tutti i kata, è uno studio della difesa e dell’attacco. Il kime-no-kata3 rappresenta l’atemi-waza4. Questa arte di colpire, di sconfiggere un avversario armato di coltello o di sciabola, non può essere studiata sotto forma di randori, e si trova dunque in questo kata. Il ju-no-kata5 si esegue in modo molto lento, e come indica la parola «ju», con estrema cedevolezza. E rappresenta al contempo un’eccellente educazione fisica per i bambini, le donne, gli anziani. Il koshiki-no-kata6 ci mostra la parte artistica del judo. Il Maestro Kano decise di conservare la pratica di questo kata dall’antico jiu-jitsu in ricordo e in omaggio al suo maestro della scuola di Kito. In questo kata, Tori e Uke si presentano vestiti con pesanti armature da samurai. E questo spiega il loro atteggiamento particolare nella camminata e nella caduta. L’itsutsu-no-kata7 fa anch’esso parte del patrimonio artistico del judo. Sono cinque movimenti senza denominazione che esprimono il flusso e riflusso delle onde del mare. L’autore del libro, Yves Klein, attualmente cintura nera 4° dan del Ko-do-kan, è un giovane uomo di 26 anni, pieno di entusiasmo. Egli aveva bisogno di attingere all’origine del judo, vedere da vicino i grandi maestri giapponesi. E ha recentemente soggiornato in Giappone per un anno e mezzo. Ha dedicato questo tempo interamente a studiare il judo, principalmente al Ko-do-kan, alla Polizia municipale di Tokyo, sotto la guida del Maestro Oda, 9° dan. Ha praticato il randori e i kata, ha raccolto innumerevoli appunti, ha fotografato e filmato, dal mattino alla sera. In questo libro presenta una parte della ricca documentazione che ha portato con sé. I fondamenti del judo è un’opera che colma una grande lacuna della letteratura europea sul judo: la spiegazione dei kata. Sono felice che Klein abbia fatto questo lavoro. Questo libro è di grande valore e necessario allo studio del judo. Bruxelles, 12 maggio 1954.

2) Kata-me-no-kata = “forme dei controlli”. Si parla di controllo quando Tori immobilizza Uke. 3) Kime-no-kata = “forme della decisione”. 4) Atemi-waza = “tecniche di colpo”. “Un attacco sferrato con potenza contro un punto vitale può dare come risultato dolori, perdita di coscienza, menomazioni, coma o addirittura morte. Le atemi-waza vengono praticate solamente nei kata, mai nel randori” (Jigoro Kano). 5) Ju-no-kata = “forma della cedevolezza”. 6) Koshiki-no-kata = “forme antiche”, rievocazione di forme della Kito Ryu, una particolare scuola di insegnamento del jujitsu frequentata da Jigoro Kano, che a differenza delle altre, incentrate sullo studio dei kata, prevedeva la pratica del randori (esercizio libero) e di tecniche di atterramento dell’avversario. 7) Itsutsu-no-kata = “forme dei cinque principi”. Questo kata è costituito da cinque forme, che, oltre a rappresentare tecniche di combattimento ispirate al principio del miglior impiego dell’energia, sono portatrici di significati più profondi, di carattere etico e addirittura di concetti cosmogonici.

Klein esegue Ju-No-Kata con Carmen Blackard. Giappone, 1953 circa


Preparazione tela a spruzzo con modella prima di eseguire pittura con il fuoco. 1961.


Realizzazione di una Antropometria. 1960; Fotografi : Harry Shunk-John Kender; Copyright : Harry Shunk-John Kender


e n o i uz

d o r m a t d n o F n I i a ’ l l a D

o d u J l e d i t n e

Ho sempre pensato che fosse molto meglio sfondare le porte piuttosto che perdere tempo a cercarne le chiavi e non riuscire, per mancanza di calma e sangue freddo, a trovare il buco della serratura. Quando sono arrivato in Giappone, me ne infischiavo dei kata e di tutti i segreti che si supponeva nascondessero. In precedenza, in Europa, i due kata a cui mi ero avvicinato (nage-no e katame-no1) non mi avevano assolutamente impressionato. Oggi penso che fosse perché non mi erano mai stati insegnati correttamente. Pensavo solo a sfondare porte, e a metterci ancora più potenza e forza nello «sfondare» meglio e il più rapidamente possibile, mentre notavo intorno a me infinite quantità di chiavi che avevano tutta l’aria di funzionare ed aprire senza danno, senza dover sfoderare un’inutile potenza. Mi ci sono voluti ben sei mesi in Giappone di scontri accesi e scatenati ignorando i sapienti kata, prima di fermarmi un giorno senza fiato, stremato e indispettito davanti all’ennesima porta, questa volta troppo spessa, e decidermi finalmente ad afferrare con rabbia la chiave che già da tempo mi offriva uno degli anziani maestri del Kodokan, sorridendo sempre dolcemente. «E ho aperto la porta girando semplicemente la chiave nella serratura!» Da quel momento ho iniziato a studiare il mazzo di chiavi dei kata del judo, «le chiavi delle famose porte, che fossero spesse oppure no!». … E i giovani non trovano niente di interessante nel fatto di aprire una porta con una chiave piuttosto che sfondarla con brutalità. Si dice: «Ma certo, così è troppo facile, sono capaci tutti». Sfondare una porta sembra sempre più divertente. Yves Klein

1) Nage-no kata (“forma delle proiezioni”) è uno degli 8 kata di judo riconosciuti ufficialmente dal Kodokan. Il kata è composto da 15 proiezioni raggruppate in cinque serie ognuna. Katame-no kata è invece la “Forma delle immobilizzazioni” o “del controllo” (che comprende anche le principali leve articolari e i soffocamenti) Yves Klein sul tatami in Giappone. 1953 circa


l i a r t e n o i z a s r Conve i n i s e T o n i P o r maest ) n a d ° 7 a r e n a r (cintu i d e r f i a M o i g r e eS Sergio Maifredi: Maestro Tesini, qual era il Judo che un ragazzo incontrava in Francia o in Italia negli anni ’50, gli anni in cui Klein pra ticava Judo? Come veniva insegnato, con che spirito ci si avvicinava? Pino Tesini: Tra Italia e Francia c’er a una sostanziale differenza. Mentre in Francia dal dopoguerra era no attivi vari maestri giapponesi, come Kavaishi, fautori di un insegnamento tecnico importante, in Italia il judo pra ticato era il frutto di un’importazione mediata da marina i italiani che avevano viaggiato in Cina all’epoca delle legazion 1 i . Si trattava di gente che già in patria praticava la lotta e la savate2, e che dopo essere entrata in contatto con il judo e il juji tsu in Cina, rientrata in Italia cominciò un’attività di diffusione di que lle arti marziali. La pratica del judo in Italia era quindi anzitutto caratterizzata da una forte contaminazione (si parlava sempre di judo-jujitsu, vedi anche i libri pubblicati da Carlo Oletti, maestr o genovese) e comunque strettamente connessa all’idea dell’aut odifesa. Tanto è vero che era un’attività molto legata alle forze arm ate, praticata alla Farnesina all’Istituto Superiore di Educazione Fisi ca. Tra le rare eccezioni di ambiente non militare c’erano l’AP EF (Associazione Proletari Educazione Fisica) di Milano, che poi confluì nell’esperienza del centro Jigoro Kano fondato dal Conte Facchini, e la scuola del Maestro Attilio Infranzi a Napoli. In questi centri del judo “civile” si cercava di esplorare e approfondire la tecnica utilizzando pubblicazioni di judo giapponesi e fran cesi, di italiane non ce n’erano. A Genova c’era la scuola del Maestro Bianchi, che era stato in Cina con le forze armate all’e poca delle legazioni e che tornato in Italia cominciò a insegnare elaborando un suo metodo, il cosiddetto Jujitsu Metodo Bianchi. Io cominciai a frequentare la 1) Missioni diplomatiche finalizzat e all’espansione delle attività comm erciali italiane in Estremo Oriente. Durarono per tutta la prim a metà del Novecento e videro anch e un tentativo di acquisto da parte dell’Italia della baia di SanMun, circa 180 miglia a sud di Shan gai, nella provincia del Chekiang. La proposta di acquisto fu però respinta dalle autorità cinesi. 2) Pronuncia “savàt”. Anche nota come boxe francese, è una disciplina spor tiva nata nei quartieri più poveri e malfamati di Parigi nei prim i anni dell’ottocento. Trae origine dallo chausson, un metodo di difesa militare basato principalm ente sull’uso dei piedi. All’inizio le tecniche potevano essere eseguite soltanto con i piedi, ma dal 1820 furono introdotti i colpi a schia ffo con le mani e nel 1830 i contendenti cominciarono ad usare i guantoni da boxe. Approdata in Italia nel 1898, la savat e viene attualmente praticata in tutta Europa e nei paesi francofoni di Asia, Africa e Nord Ame rica. In Liguria vi è una forte tradizione legata a questo sport risalente ai primi del novecento, non a caso si trovano tuttora nei manuali alcuni colpi definiti alla genovese che sono tuttavia in disus o nella pratica agonistica a causa della loro pericolosità. Yves Klein esegue Ju-No-Kata con Carmen Blackard


Y.K.

Con o senza tecnica è sem pre bello vincere! Era il m io motto da combattimento in Giapp one durante i campiona ti di judo! Nel judo mi hanno sempre insegnato che avrei dovuto raggiun gere la perfezione tecnica per potermene in fischiare; essere costant emente in grado di mostrarla a tutti i miei a vversari, e così, sebbene conoscessero le mie tecniche, vincere comun que. Yves Klein esegue Ju-No-Kata con Carmen Blackard

zzini sua scuola quando avevo 14 anni. All’epoca i raga Judonon potevano praticare, proprio per quell’idea del cui Jujitsu come pratica di lotta e difesa personale, per hé perc bisognava avere 18 anni e la firma dei genitori, si diventava maggiorenni a 21. Io riuscii a praticare o per sette/otto mesi grazie al padre di un mio amic che frequentava quella scuola e mi portava con sé. In Italia uno dei centri di formazione storicamente la più importanti fu quello di Nettuno, presso la Scuo Otani Centrale di Polizia, dove sotto la guida del maestro si formarono varie cinture nere che poi insegnarono e le in tutta Italia. A metà degli anni Cinquanta, a part judo rare eccezioni di cui ho detto, l’insegnamento del dava in Italia era per lo più in mano alla Polizia. Il che un taglio peculiare alla pratica, molto orientata alla che prestazione sportiva e sconnessa da tutto quello che ha a che fare con la cultura e lo “spirito” del judo, invece era molto presente nella pratica in Francia. S.M. Maestro Tesini, Lei ha avuto modo to di visionare i rari filmati che Yves Klein ha gira in Giappone al Kodokan di Tokyo nel 195253. Che Judo ha trovato Klein in Giappone? P.T. Il judo praticato in Giappone non era molto diverso da quello praticato in Francia dal punto di vista tecnico e culturale, c’erano semmai à differenze nei tempi, nell’intensità, nella possibilit di praticare con tante persone. Del resto il judo francese, come dicevo, era una filiazione diretta di quello Giapponese, c’erano maestri validissimi. S.M. Maestro Tesini, Yves Klein insiste a moltissimo sull’importanza dei Kata, sui Kat come “chiavi che aprono le porte”. Per quei a tempi in Europa lo studio dei Kata era la norm o rappresentava un elemento di novità? 3 P.T. Jigoro Kano dice che i Kata sono come dei con manuali che ogni cintura nera deve avere sempre a, sé per sapere cosa sta facendo, per evolvere. In Itali cui per quell’impostazione sportivo-performativa di no ho detto, non erano molto praticati, addirittura fi ente sivam a pochi anni fa venivano studiati quasi esclu per gli esami, quindi se ne apprendeva la forma, per . lo più senza conoscerne il contenuto e il significato Cesare Pochissime persone in Italia conoscevano i Kata, o Barioli ad esempio, o io stesso, perché avevamo avut judo. accesso a un altro filone, più vicino alla cultura del dal Chi li conosce sa che sono imprescindibili, anche punto di vista tecnico; in ogni Kata ci sono principi a importanti che riguardano la pratica del judo, senz che conoscerli non si capisce cosa si sta facendo. Da qual anno la Federazione Internazionale ha deciso di fare quelli le gare di Kata, con criteri di valutazione simili a questa delle Olimpiadi, quindi formali. Quando fu presa

3) Jigoro Kano (1860-1938), fondatore del judo.


decisione, una decina d’anni fa, io scrissi in un articolo che mi auguravo che, a forza di ripetere centinaia di volte un Kata per prepararsi alla gara, uno arrivasse anche a comprenderne il significato o almeno gli venisse la curiosità di capire cosa stesse facendo. S.M. Maestro Tesini, I Fondamenti del Judo di Yves Klein come si collocano nella letteratura dedicata al Judo, che importanza ai fini della conoscenza e della diffusione del Judo ha avuto questo libro? P.T. Il libro di Klein è stato una pietra miliare nella letteratura judoistica. È estremamente attuale, anche oggi un judoista che lo prenda in mano può scambiarlo per un libro di recente pubblicazione, per il modo con cui è affrontato il discorso tecnico e culturale. E tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quei pochi che in Italia poterono leggere I fondamenti del judo in francese, scoprirono grazie ad esso un judo diverso. Alla fine degli anni Cinquanta poi, per fortuna, Cesare Barioli pubblicò l’Enciclopedia del judo in quattro volumi, in italiano, un contributo fondamentale; però per lo più mancavano nei judoisti italiani l’abitudine e l’interesse per la lettura, per la ricerca tecnica mediata da un libro. Il judo era solamente combattimento, pratica sportiva. E ancora oggi il judo in Italia è spaccato in due, tra chi lo vede solo come sport e chi invece ne riconosce la natura di “via”, con tutto il relativo bagaglio culturale. S.M. Maestro Tesini, dai filmati girati in Giappone, dalle fotografie, che idea si è fatto di Yves Klein judoka? P.T. Klein fu un grande judoka, per la sua epoca. A quei tempi non si poteva semplicemente presentarsi in un dojo in Giappone e chiedere di praticare, bisognava avere una lettera di presentazione del proprio maestro e Klein aveva quella di Kavaishi. Arrivò in Giappone con un bagaglio tecnico già notevole, abbastanza compatibile con la pratica giapponese, e inoltre con una grande curiosità. In Giappone non si limitò a studiare judo, ma fece ricerche, andò a leggere i documenti di Jigoro Kano a cui ebbe accesso attraverso la sua famiglia. Dai video e dalle foto, si vede che Klein entrò in contatto con tutti i maggiori maestri giapponesi dell’epoca, da Oda a Kobaiashi, a Mifune e altri. Era già un judoka di livello quando arrivò, poi naturalmente migliorò. Peccato non avere i video di quando esegue i Kata, sarebbe stato molto interessante. Dobbiamo accontentarci delle foto. S.M. Maestro Tesini, Klein scrisse “l’immortalità si conquista insieme”. A noi appare intrisa Yves Klein esegue Ju-No-Kata con Carmen Blackard


ntali del Judo di uno dei principi fondame ire”, come “tutti insieme per progred o principio? intendeva Jigoro Kano quest ea di evoluzione P.T. Nella cultura orientale, l’id sono legate alla e di importanza dell’individuo tura tradizionale, sua utilità per gli altri. Nella cul ietà nella misura si diventa importanti nella soc lla misura in cui in cui si è utili agli altri, non ne sapevolezza del si diventa ricchi. Forte è la con ssuna parte. fatto che da soli non si va da ne eva Jigoro Jano. “Essere sani per essere utili” dic il Judo-Espressione? S.M. Maestro Tesini, cosa è a questo Judo E può in qualche modo essere diceva che che Klein si ispirava quando o ed all’arte? il Judo lo riportava al Teatr Judo-Espressione, P.T. Sicuramente sì. Più che di ogenshiki”, cioè parlerei di stile d’espressione (“I Jigoro Kano). “esprimersi” come lo chiamava pponese. Penso Esso è alla base della cultura Gia gli attori non ad esempio al Teatro No, dove e il pubblico dà parlano, si limitano ad agire, le, interpretando il suo contributo fondamenta secondo la sua – ogni individuo a suo modo, n c’è un punto sensibilità – quello che vede. No è chiamato di vista unico imposto, ognuno E ritorniamo al a elaborare, quindi a crescere. da nessuna parte. concetto che da soli non si va il metodo Judo due Jigoro Kano ha elaborato per to al Jujitsu (da cui Kata del tutto innovativi rispet mazione e da cui sono lui stesso proveniva come for Kata fondamentali stati mutuati gli altri quattro sutsu-No-Kata. In del Judo): il Ju-No-Kata e l’It Kano parla proprio merito a questi due Kata, Jigoro ata è la “forma di stile d’espressione. Il Ju-No-K attacco e difesa, della cedevolezza”; non c’è più in piedi; non c’è più uno che cade e l’altro che resta ata esprime il principio contrapposizione. Il Ju-No-K praticanti. “Insieme della collaborazione fra i due ata, “cinque forme”, per progredire”. Itsutsu-No-K judo e gli elementi vede la compenetrazione tra il mare, il seme, il tuono, della Natura, come il vento, il delle forme che ecc. I due praticanti eseguono ento, ma che sono rappresentano un combattim , cosmogonico). interpretabili a più livelli (etico

Yves Klein esegue Ju-No-Kata con Carmen Blackard


o ) r t n s a e d a 째 m 6 l a i r a e r n t a e r n u o t i z n i a c s ( r i e l v o i n r Co re Ba fredi i a a s Ce gio M r e S e Yves Klein al Kodokan di Tokyo. 1953 circa.


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e o colp solo tr n u o to m ’ sta osceva il E o . t 4 n 5 tra no ‘ pef ) co n ncon i u t A a ( a ’au oh nell e Fisic and o u d q n u li, lJ zio . ario ti de l’Educa B n esse e t o s r m i t r a s s e pe nd ae che I Fo letaria otta. i: M o an o ? d d r e u b j li dok istratto i ro alla l fr lein i l o d P i K a K e o o e M el ut on a nt id ad ibr gio lme o av sociazi uenzat iglior l ale d a lui er i-gurum i a c H n Ser : o i s fl l m m uffi rs sh ario ché all’A vamo in derai il e pe iato andori, va un a r B v e n e c i i r ’ s e ra os ar ca or ell Ces lmine, p do ed e i lo con ta d acemm ra, e cer i con u d n n o u F u ve od di fu che di j cuni an n la judogi. e la stat om t o l i c u a n i v t t in tec ra per aa a avan Klein onostan te h o o c n s suit ci. e s s n e n e a A g m , v p a ti un cio he ti Y siv no, tti artis ualc i davan massic cces u q r u B S o a . a tt alo re S.M o fa mi trov nesi. Er o. pad ntavo s m a a d i a b il ra siv ue ele oi ab una se istici m e difen Fed ra freq ? P . a . t S s t B ti llo C. ano. E iti ar tatico ea e ar p nch che se a s il m a m o , o a M t o c ? o a oi c iuttos sces anno. era tico ipat oni, an a u ’ s p c l i s o e o i r p t a n cr da istra, ar pe ud la su an, no di u sta j ha p ri mono n a i d i i r v ° s u o i e 4 l c a d o m ad ia e al il su kan in unto nvit suoi qu obb p o i n t i n l o u o i bbia g u i C d c a e a . s o o d e t d o K i s M on el ce ap aio S. zie a ric ° dan d fran un p on ho c noti v e i e e i n v u u 4 a s g io . Se vo. N non izza, a eraz ra. vuto d e a e s C.B onosce f a N e . c h a o lo a c fran becchi pagnol libro, l zato al ente e che m n a z s o e o i R o z re su ssiv si dera fratelli del jud pa del rlo disp e ucce ndo F S e i o a . e d l m c e ? v i n a d e M o a p S. ch , vo spa rist po tecn tem g na va e llora o a puto an allie rettore recente nto, do a u p a d s s S a n an el di lla 1° d e va . Ho che an era Klein i ra ive n , i r C.B inea da ventato le che, a di lode c h k s u i si i wais Il Kodo da Yves ’avvent e a K m fulm he era d isdicevo tazione l o . e co a. c etod odokan Belgio) isti. Ma eric lein t K m o Poi ovato d a presen l s a i az in r ra o-k ad te e fatt po t e il jud bilitosi ttuto i n Ho t esso un nen o o m p d e u a a m ta lt prem que ca latin e poi s a comb sul J la co i a o d c s i r v a sa es er tt ve ice a sp la lo ca e Am o a Tolo o che a La r v i . o r c a M p re ut S. uis fri com ostr ropa, A be (ven n, un eb . o c i d r u j o a nel iro A nbau n Eu aric . Or C.B re più i o da Ich nr y Bir ciò l’inc o in cui p t s e sem resenta tava H lein la n temp orte. u K s p rap contra male e ressi in la sua m i l e e dov nola fin lici int eppi de p s g e spa a molt o dopo v Ave che ann l Q ua i ro d lavo

Kle


Tutti insieme per progre dire. Jigoro Kano L’immortalità si conquist a insieme. Yves Klein


: a t a K e o t o u v , ia m o r c o n Mo i t n e im r e if r i d o s r o c r e p un all’Oriente ne* ll’opera di Yves Klein di Anna Follo

* L’articolo è stato pubblicato in B. Corà, D. Moquay (a cura di), Yves Klein, catalogo della mostra (Lugano, Museo d’Arte, 16 maggio - 13 settembre 2009), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2009, pp. 30-43. Si ringrazia Anna Follo.

era dedicato alla vita e all’op 1 Non c’è analisi, studio o testo attività come judoka o non di Yves Klein che non citi la sua ello soggiorno in Oriente, ma, a liv faccia riferimento al suo lungo tativi di leggere l’opera di Klein bibliografico, mancano dei ten perienza in Giappone, in una nella sua totalità alla luce dell’es artistica e la cultura orientale. ne zio du pro la ci rec int che a prospettiv enza così forte e totalizzante È però indubbio che un’esperi in, che ha inteso la sua stessa nella vita di un’artista come Kle , sia stata molto più per vasiva esistenza come pratica artistica emente riconosciuto. e pregnante di quanto comun crocorpus artistico di Klein in ma Se si ipotizza di suddividere il il suo , ha più ampiamente esplorato categorie rispetto ai temi che cromia, l precoce interesse per la mono percorso si può segmentare ne lla e per l’immaterialità e infine ne oto vu il per e on azi ttr ll’a ne i po rie bene precisare che queste catego ricerca sulle antropometrie: è le mente, dal momento che tutte non sono da intendersi rigida to pat te connesse in un corpus com opere di Klein sono olisticamen esti allo sviluppo di un discorso. Qu e unitario, ma sono funzionali l’opera ncidono con aspetti cruciali del coi che , ne agi ind di si cor per tre enza nessi con l’approfondita conosc di Klein, sono strettamente con te dell’artista e, esplorati nella della cultura giapponese da par cludere grafica di Klein, portano a con prospettiva dell’esperienza bio opere ta ben più significativa nelle sue che la cultura orientale sia sta ineato tol sso: come ha giustamente sot me am ra no fi to sta sia to an qu di ò capire o in Oriente di Klein “non si pu José Jimenez rispetto al viaggi molto esperienza. […] Ritengo che sia ell’ qu te sen pre re ave za sen Klein tutto in allo spirito orientale e soprat importante l’avvicinarsi di Kle sferisce nta del viaggio in Oriente si tra alla filosofia Zen. […] L’ impro iale, ter una proposta meramente ma2 più n no ca, eti est sta po pro alla . ma una proposta complessa” presente in un’opera limitata, ma nocromi tra il 1948 e il 1949, Klein dipinge i suoi primi mo ide tti dall’autore stesso, che dec questi esordi sono stati distru e pittore nel 1951, durante di far iniziare la sua carriera com d. Gli anni che vanno dal 1948 il suo primo soggiorno a Madri nato in numerosi viaggi: visita al 1954 vedono l’artista impeg ania, sul lago di Costanza, in Germ l’Italia, trascorre undici mesi ica si o e in Irlanda, a Curragh, ded a Londra lavora da un corniciai dove si un lungo soggiorno a Madrid, all’equitazione. Compie anche / o pratica la ca una persona che segue e traduce come uomo-judo. Indi dal colore cata indi è kyu o vo allie 1) Judoka: letteralmente si un , cioè il judo. La capacità di zza” vole . Esistono cede a rone dell mar “via a blu, e, filosofia dell la, arancione, verd bravura crescente: bianca, gial dan è a bande VIII al VI dal ; nera è della sua cintura, in ordine di ura cint chiamati dan: dal I al V dan la invece contraddistinto da una al di sopra dei kyu altri gradi la cintura è rossa; il XII dan è dan I all’X IX dal e; rnat alte rosse e bianche mostra cintura bianca. di), Yves Klein, catalogo della du vide, in J.-Y. Mock (a cura ador uist conq n Klei Yves y, 2) McEville erne, 1983), p. 34. u, Musée national d’art mod (Paris, Centre Georges Pompido

Giappone, campionati di Judo. 1953 circa


perfeziona nella pratica del judo, iniziata a Nizza nel 1947, e insegna privatamente il francese. Durante questa esperienza di viaggio frenetica, quasi nomadica, Klein ha modo di assorbire ed elaborare in nuce quelli che saranno gli aspetti dominanti del suo pensiero. Nel 1954 trascorre un secondo periodo a Madrid, ma “Yves s’était préparé à la fin de sa période d’exil, à faire une seconde ‘entrée à Paris’”3: nel 1955 organizza una prima esposizione di monocromi al Club des Solitaires, ma la mostra viene visitata in prevalenza dagli amici di Klein, l’unico critico presente è Pierre Restany, che seguirà Yves Klein in tutto il suo percorso artistico. L’esposizione che segna il vero inizio della carriera di Klein è Yves, Propositions Monochromes, inaugurata nel 1956 da Colette Allendy, gallerista e assidua frequentatrice delle serate di discussione organizzate da Marie Raymond, madre di Klein e a sua volte pittrice astratta. A partire dal 1952 Marie Raymond inizia ad affermarsi nel milieau artistico di Parigi; decide dunque “de consacrer une soirée hebdomandaire à la réception de ses amis et relations. Chaque lundi, elle ouvre son appartement à des artistes, critiques, collectionneurs, amateurs d’art, conservateurs de musée. […] Les lundis de Marie Raymond sont alors très courus. Dans une ambiance bon enfant et souvent joyeuse se côtoient des artistes à la réputation déjà bien établie, […] et d’autres plus jeunes ou pas encore célèbres”4. Klein partecipa alle serate organizzate dalla madre e ha quindi modo di venire in contatto con Jacques Villon e con altri artisti che avevano fatto parte del Gruppo di Puteaux dove era diffuso un comune interesse per gli aspetti più spirituali dell’arte astratta, per la teosofia e il buddhismo: Klein sicuramente condivideva l’attrazione per questi temi e poté così approfondirne alcuni aspetti. Per capire l’influenza della cultura orientale sui monocromi e poi sulle altre opere di Klein non è sufficiente fermarsi ai numerosi spostamenti in Europa, ma è necessario aprire una parentesi sul suo viaggio in Giappone. Il soggiorno nella “terra dei crisantemi” di Yves Klein durò circa quindici mesi ed è documentato da una lunga serie di fotografie scattate dall’artista che testimoniano i suoi spostamenti, i luoghi di interesse storico o artistico da lui visitati, la sua vita quotidiana e, naturalmente, la pratica del judo. Klein parte dalla Francia il 22 agosto 1952 e durante il tragitto la nave sosta nei porti delle maggiori città asiatiche, può così visitare Djibouti, Singapore e Hong Kong. Dopo un mese di navigazione Klein sbarca presso il porto di Yokohama ed è accolto dal critico giapponese Takachiyo Uemura, che ospita Klein per i primi mesi del suo soggiorno: l’artista è immediatamente colpito e affascinato dal contrasto tra l’area metropolitana di Tokyo, dove è impressionato dall’architettura ultramoderna e dalla velocità, e le zone rurali dove sopravvivono le semplici abitazioni tradizionali. Nelle parole scritte da Klein nel suo diario si riflette il senso di straniamento comune ai cittadini occidentali di fronte alla convivenza di tradizione e innovazione caratteristica della società giapponese. A Tokyo Klein è ammesso nel prestigioso istituto Kodokan, fondato dal creatore del judo, Jigoro Kano. Se in Francia aveva imparato il judo nel suo aspetto atletico e sportivo, in Giappone apprende la disciplina nella sua totalità, come tecnica di combattimento e percorso di meditazione. Jigoro Kano aveva elaborato il judo da un insieme di tecniche basate sul jiu-jitsu, ma epurate di tutte le mosse pericolose: le due parole hanno in comune il carattere ju, che significa 3) McEvilley, Yves Klein conquistador du vide, in J.-Y. Mock (a cura di), Yves Klein, catalogo della mostra (Paris, Centre Georges Pompidou, Musée national d’art moderne, 1983), p. 34. 4) D. Riout, Yves Klein. L’aventure monochrome, Gallimard, Paris 2006, pp. 18-19.


Yves il Monocromo 1960 Il vero diventa realtà …Proiettare la mia impronta fuori di me, io l’ho fatto! Quando ero bambino… Mani e piedi inzuppati nel colore, poi applicati al supporto, ed ecco, ero lì, di fronte a tutto ciò che era psicologico in me. Avevo la prova che possedevo cinque sensi, che sapevo farmi funzionare! Poi ho perso l’infanzia… come tutti d’altronde (non bisogna farsi illusioni) e, adolescente, a forza di ripetere quel giochetto, ben presto ho incontrato il nulla. Il nulla non mi è piaciuto, ed è così che ho fatto la conoscenza del vuoto, il vuoto profondo, la profondità blu! Adolescente, sono andato ad apporre la mia firma sul retro del cielo in un fantastico viaggio realistico-immaginario un giorno in cui ero sdraiato su una spiaggia a Nizza… Da allora, tra l’altro, odio gli uccelli, perché cercano di fare dei buchi nella mia opera più grande e più bella! Gli uccelli devono sparire! Y.K.

Yves Klein al Kodokan di Tokyo. 1953 circa.

flessibilità, cedevolezza; ma mentre jitsu significa arte, do vuol dire via, cammino, (judo: via dell’adattabilità) e sottolinea il carattere pedagogico, formativo ed etico insito nella disciplina del judo. Il suffisso do (via, Tao) in giapponese indica sia un mestiere o un’attività pratica, sia un metodo laico per insegnare dei principi che sono propri del taoismo e dello Zen: il judo è quindi, al pari della cerimonia del tè (chado), della calligrafia (shodo), dell’ikebana (kado), sia un’arte marziale sia una forma rituale e meditativa che trova le sue radici nel buddhismo Zen. Durante il suo soggiorno Takachiyo Uemura e Shinichi Segi introducono Klein alla cultura e alle arti tradizionali nipponiche; come testimoniano le foto del suo Journal du Japon l’artista visita la Ginza e il palazzo reale di Tokyo, il tempio Toji, il palazzo reale di Kyoto, il palazzo di Katsura e il bosco sacro di Ise con il tempio della dea Amaterasu, nonché il più famoso dojo5 della città di Kyoto. Molto interessanti sono le rare immagini che lo ritraggono mentre compie azioni quotidiane, come leggere il giornale, preparare il materiale per dipingere, o le foto che scatta alla sua camera a Tokyo, dove i suoi oggetti sono sparsi sui tatami6. Con la mostra di monocromi da Colette Allendy Klein si accorge che “parecchi spettatori, prigionieri di un modo di visione convenzionale, rimanevano molto più sensibili ai rapporti delle diverse proposte tra loro (rapporti di colori, di originalità, di valori, di dimensione e di integrazione architettonica): essi ricostituivano gli elementi di una policromia decorativa. È questo che mi ha spinto a portare più avanti il tentativo e a presentare […] una mostra dedicata a quello che io oso chiamare il mio periodo blu”7: il rapporto di Klein con il colore, la lunga e faticosa ricerca che lo porta a brevettare il suo IKB (International Klein Blue), è uno dei primi aspetti della sua opera che può essere messo in relazione alla sua conoscenza della cultura orientale. Nei monocromi di Klein si intravedono al contempo influenze dalle religioni più diffuse in Giappone, talvolta anche fuse in forme sincretiche, lo shintoismo e il buddhismo. Klein impiegò molto tempo a scegliere il pigmento blu oltremare e il legante in gradoni che non modifica la lucentezza del colore; questa attenzione alla salvaguardia della brillantezza ricalca l’attitudine orientale, “dans la sensibilité japonaise, en effet, il importe parfois moins de savoir si l’on a affaire à du bleu, à du rouge ou à toute autre coloration, que de savoir si l’on est en présence d’une couleur mate ou d’un couleur brillante. […] L’oeil occidental contrairement à l’oeil japonais, n’est pas toujours capable de les distinguer”8. Il blu di Klein ha una profondità, una sua identità che fa pensare ai kami giapponesi. I kami sono entità divine strettamente connesse alla vita e alle azioni quotidiane: nello shintoismo, si può considerare kami “un’entità divina, un eroe mitologico, un grande saggio o un sovrano, un antenato famoso, ma anche il tuono, un’eco nella foresta, una volpe, una tigre, un dragone o semplicemente un insetto” 9, o qualsiasi altra cosa che possa rappresentare una forma 5) Dojo: luogo dove si pratica il judo. Letteralmente significa “luogo di studio della via”, termine usato anche nel buddhismo per indicare il monastero come luogo sacro da rispettare. 6) Tatami: anticamente, termine generale per indicare stuoie di giunco, di paglia o di bambù, o anche pelli di animali o drappi di seta che venivano stesi sull’impiantito delle case patrizie. Oggi per tatami si intende una struttura rigida, dalla misure standard (circa 90 x 180 cm), che ricopre il pavimento delle stanze in stile giapponese, e il cui numero definisce l’area del vano. I tatami sono formati da stuoie di giunchi intrecciati che rivestono una spessa imbottitura di paglia di riso pressata (di circa 5 cm) e sono bordati da una passamaneria decorata. 7) Y. Klein, L’avventura monocroma, in G. Martano (a cura di), Yves Klein. Il mistero ostentato, Martano Editore, Torino 1971, p. 100. 8) M. Pastoureau, Bleu. Histoire d’une couleur, Editions du Seuil, Paris 2006, p. 153. 9) F. Maraini, Giappone. Mandala, Electa Mondadori, Milano 2006, p. 20.


di ierofania nel quotidiano, nell’ordinario. Klein descrive il suo blu attraverso le parole del filosofo Gaston Bachelard, “A la question que l’on me pose souvent: pourquoi avoir choisi le bleu? D’abord il n’y a rien, ensuit il y a un rien profond, puis une profondeur blue”10, come chiave d’accesso ad una profondità, a un “altrove” fatto di spiritualità: questo atteggiamento è fortemente radicato nel buddhismo, dove l’oggetto è solo uno strumento di supporto per la meditazione, che deve portare invece al di là delle cose. “Il valore immediato di un’immagine sta nella sua possibilità di servire da sostegno a una contemplazione che conduca alla comprensione. […] L’oggetto è solo un punto di partenza e un segnale indicatore che invita lo spettatore a eseguire un atto. […] Deve vedere il Buddha nell’immagine piuttosto che un’immagine del Buddha. È una questione di penetrazione, nell’accezione più tecnica del termine”11; l’atteggiamento di Klein verso i suoi monocromi è esattamente di questa natura, come confermano le sue stesse parole nel saggio L’aventure monochrome: “il quadro non è che l’impronta sensibile, il testimone che ha visto ciò che è avvenuto […]. I miei quadri rappresentano degli avvenimenti poetici o meglio essi sono dei testimoni immobili e silenziosi” 12, e poco più avanti “I miei quadri sono le ceneri della mia arte”13. Se nei monocromi la presenza fisica del supporto è intesa come un invito a volgersi verso contenuti spirituali, la posizione di Klein diventa ancora più radicale nelle sua ricerca di un’arte immateriale. Il tema dell’immaterialità, del vuoto, è uno dei più caratterizzanti della filosofia Zen che Klein conosce e sviluppa in una delle sue opere più significative, La spécialisation de la sensibilité à l’état matière première en sensibilité picturale stabilisée, Le Vide (époque pneumatique) meglio conosciuta come Le vide,, inaugurata presso la Galerie Iris Clert il 28 aprile 1958. In questa celebre esposizione Klein trasfigura lo spazio per renderlo simile a quello di una sukiya14, mentre l’inaugurazione sembra mimare le azioni svolte durante il cha-no-yu15. Durante il suo viaggio Klein ha modo di visitare le stanze del tè giapponesi, la sukiya ha un ruolo molto preciso, “paragonabile a quello della camera del vuoto negli esperimenti scientifici; si tratta cioè di un recinto dal quale sia stato eliminato l’insieme delle contingenze normalmente presenti per permettere a un fenomeno controllato di compiersi con la massima intensità”16. La sukiya comprende il roji, sentiero sconnesso che, nell’essere percorso, deve spezzare i legami con il mondo esterno; il machiai, portico dove gli ospiti attendono l’invito a entrare e che serve per purificarsi e predisporre il proprio stato mentale alla calma e la mizuya,, anticamera dove gli oggetti per la cerimonia vengono lavati e preparati. L’ospite entra nella sala per il tè (chashitsu) attraverso una piccola porta, ma “una volta entrati, nei pochi metri quadrati del sukiya,, si è dentro uno spettacolo tanto straordinario quanto poco appariscente, allestito col massimo del rigore formale 10) G. Bachelard, L’air et les songes,, citato da Yves Klein durante l’inaugurazione della mostra Vision in Motion – Motion in Vision, Anversa, 17 marzo 1959. Si veda Riout, Yves Klein cit., p. 56). 11) A. K. Coomaraswamy, Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte,, Adelphi, Milano 1987, pp. 141-142. 12) Y. Klein, L’avventura monocroma cit., p. 99. 13) Ivi, p. 100. 14) Sukiya: la stanza del tè, generalmente separata dal resto della casa. 15) Cha-no-yu:: letteralmente “acqua calda per il tè”, conosciuto in Occidente anche come Cerimonia del tè, è una delle arti tradizionali Zen più note. Codificata in maniera definitiva alla fine del Cinquecento dal monaco buddhista Sen no Rikyu¯, maestro del tè di Oda Nobunaga e successivamente di Toyotomi Hideyoshi. Il Cha-no-yu di Sen no Rikyu¯, riprende la tradizione fondata da Murata Shuko e Takeno Jo¯o¯, e si basa sulla concezione del wabi- cha,, basata sulla semplicità del rito e sullo stretto collegamento con gli insegnamenti buddhisti: la sobria bellezza wabi si oppone dunque alla bellezza sontuosa, denominata in giapponese basara. 16) F. Espuelas, Il vuoto. Riflessioni sullo spazio in architettura, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2004, p. 188. Yves Klein al Kodokan di Tokyo. 1953 circa.


e della semplicità, dove il protagonista discreto ma deciso è il vuoto”17. Gli unici aspetti evidenti nella sukiya sono il tokobashira, cioè la trave verticale che separa la stanza dal tokonoma, vano appartato ma non separato, leggermente rialzato dal pavimento che funge da cornice tridimensionale dove viene disposto qualcosa da contemplare. Ne Le Vide Klein fa rimuovere tutti i mobili e gli oggetti dalla galleria, lascia solo la moquette grigio scuro e la vetrina incastrata nel muro di sinistra, dipinge di bianco tutte le pareti per purificarla e impregnarla di sensibilità pittorica, come aveva fatto in precedenza nei suoi monocromi. “Nulla deve sconcertare la vista nella galleria… che, nello stesso tempo, non dev’essere deliberatamente troppo nuda”18: come la sukiya la galleria è riempita con il vuoto; l’unico elemento che spezza questa unità è costituito dal tokonoma, cioè la vetrina a muro che Klein non fa rimuovere. La netta separazione tra interno ed esterno segnata dal roji per Klein è definita dal colore, se l’interno della galleria è bianco tutto l’esterno è dipinto con l’IKB. Per l’inaugurazione gli invitati percorrono le fasi del chanoyu; per staccarsi dai pensieri contingenti si passa sul roji e si resta un po’ di tempo nel machiai, così Klein fa impregnare i suoi spettatori di IKB nell’androne del palazzo prima di farli entrare nella sensibilità stabilizzata all’interno della galleria. Rievoca la professione di umiltà fatta dagli invitati alla cerimonia del tè, che devono passare per una porta angusta, facendo passare gli invitati all’inaugurazione dal piccolo ingresso sul fondo della galleria invece che da quello principale sulla strada, infine ai visitatori è servito un cocktail bleu: il parallelismo con il chanoyu, di per sé già molto evidente, è sottolineato nella cronaca della serata scritta da Klein quando scrive “ore 22:50: […] Arrivo di due graziose giapponesi in kimono: straordinarie”19. Il passaggio all’immaterialità iniziato da Klein viene sviluppato con la vendita delle Zone de sensibilité picturale immatérielle dove l’opera non è più in una forma, ma in un accadere fortemente ritualizzato. Klein assorbe dalle arti tradizionali giapponesi questa attenzione per la ritualità, come si è visto ne Le Vide e come afferma durante la sua conferenza alla Sorbonne del 3 giugno 1959. Durante il suo intervento si concentra sullo shodo, l’arte della calligrafia, attività volta allo sviluppo sia di una tecnica sia di una forma di spiritualità. Klein, durante la conferenza, effettua una dimostrazione pratica di calligrafia e spiega la differenza tra la pittura come veicolo di sensibilità e la pittura come semplice manifestazione di materia; solo il primo tipo di pittura può evolvere in forma di immaterializzazione: “Je tiens à m’étonner devant vous et à constater que l’on a une très piètre idée de ce qu’est la calligraphie japonaise en Europe. Ces pauvres gens du geste et du signe n’en ont compris que le côté exotique et superficiel. On ignore, ou l’on semble ignorer, que la calligraphie japonaise a en réalité évolué de la sorte”20. Con il suo intervento Klein cerca di mutuare un atteggiamento buddhista per cui l’attenzione non è tanto agli oggetti in sé quanto agli stati d’animo: le arti legate allo Zen non sono fini a se stesse, ma svolgono un ruolo chiave nel raggiungimento del satori21. Il rituale della cessione delle Zone de sensibilité picturale 17) G. Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio Editori, Venezia 2004, p. 78. 18) Y. Klein, Il superamento della problematica dell’arte (1959), in Martano, Yves Klein cit., pp. 65-66. 19)19 Ivi, p. 68. 20) Y. Klein, L’évolution del l’art vers l’immatériel, in Y. Klein, Vers l’immatériel, Editions Dilecta, Paris 2006, pp. 70-71. 21) Satori: illuminazione, raggiungimento della buddhità. L’equivalente, nel buddhismo Zen, della rinascita nel buddhismo della Terra Pura. Nel buddhismo Zen il satori è considerata un’esperienza accessibile a ogni essere umano. Equivale a quello che sperimentiamo formulando di colpo la risposta a un indovinello o comprendendo lo spirito di una battuta o la soluzione di un problema.


22) McEvilley, Yves Klein conquistador du vide cit., p. 31. 23) T. Génévrier-Tausti, L’envole d’Yves Klein. L’origine d’une légende, Area Editions, Paris 2006, p. 47. 24) Citazione di Klein riportata in ivi, p. 55. 25) E. Palumbo Mosca, Su Yves, in B. Corà, G. Perlein (a cura di), Yves Klein. La vita, la vita stessa che è l’arte assoluta, catalogo della mostra (Nice, Musée d’art moderne et contemporain; Prato, Centro per l’arte Contemporanea Luigi Pecci, 2001), p. XII.

Quello che mi interessa nel judo, quello che mi a ppassiona, è il Movimento, il fine del M ovimento che è sempre astratto e puramente spirituale e che viene a mescolarsi alla passione e all’emozione del movimento. Y.K.

immatérielle ripercorre quest’attitudine: l’importante non è l’oggetto materiale, ma la sensibilità che attraverso quest’ultimo è possibile acquisire, o meglio la sensibilità pittorica che Klein può trasmettere attraverso la combustione del certificato di acquisto dell’opera, anche se ciò vuol dire distruggere il prodotto materiale. La pratica di Klein come judoka si traduce nelle sue opere più intensamente connesse con la fisicità,la corporeità, come le antropometrie e le pitture di fuoco. Klein parte per il Giappone con l’intenzione di tornare in Europa con il grado di judoka più alto raggiunto fino a quel momento da un occidentale e per raggiungere il suo obiettivo “Yves pratiquait le Judo à l’institut Kodokan et se lassait projeter à traves l’espace spirituel du Judo plusieurs heures par jour. Avec la grandeur qui le caractérisait, il se montrait d’une determination farouche”22: i suoi sforzi sono premiati, perché ottiene il diploma di cintura nera IV dan ricevuto dalle mani del presidente dell’istituto Kodokan, Risei Kano. Come già anticipato, Klein non assorbe soltanto le nozioni tecniche della disciplina, ma anche quelle più immateriali, come “discipline, respect des règles, soumission au protocol et au cérémonial (ce qu’Yves Klein ne manquait certainement d’apprécier!)”23, che non manca di trasferire nella sua produzione artistica: come l’artista stesso ammette “le Judo m’a servi à comprendre que l’espace pictural est avant tout le fruit d’une ascèse spirituelle. Le Judo en effet c’est la découverte par le corps humain d’un espace spirituel. […] Le Judoka ordinaire ne pratique pas en esprit mais en physique et émotionnel [sic]. Le vrai Judoka pratique en esprit et sensibilité pure”24. A partire dal 1958 Klein aveva iniziato a dipingere usando dei pinceaux vivants, cioè il corpo nudo cosparso di colore di alcune modelle, che diventavano così parte attiva della creazione dell’opera. Come ricorda una delle prime modelle di Klein, Elena Palumbo, “quando si lavorava in atelier creare le antropometrie era chiaramente una specie di cerimonia: l’impregnazione fisica della modella con il blu di Yves (IKB) avveniva in silenzio, in un’atmosfera di grande intensità: Yves […] indicava solo dove applicare il colore. Il corpo della modella, impregnato di blu, si trasformava allora chiaramente in energia vitale materializzata: mi sembrava che diventasse un mezzo per il flusso del ki”25. Il riferimento al ki è strettamente connesso al judo, infatti esso rappresenta quella forza vitale che scorre in ogni organismo vivente generando processi fisiologici quali la respirazione, la digestione, la circolazione ecc.: durate il combattimento non vince il judoka più forte, ma quello capace di accumulare e direzionare il suo ki. Molte foto documentano il processo creativo, non solo delle antropometrie, ma anche delle antropometrie sudario, ottenute in negativo sulla tela, e delle pitture di fuoco, create bruciando la carta precedentemente inumidita in alcuni punti, di modo che le fiamme facciamo emergere un’impronta. Dalla documentazione fotografica delle Anthropométries de l’époque bleue del 9 marzo 1960 e delle pitture di fuoco realizzate al Centre d’essai de Gaz de France il 18 e 19 luglio 1961 emerge un dato che mette in connessione queste opere con l’attività di judoka


di Klein, che nel 1954 scrive Les fondements du Judo per l’editore Grasset e dal 1955 al 1960 insegna judo. Durante la realizzazione delle sue opere Klein indica alle modelle posizioni molto simili ai kata del judo; il kata (letteralmente forma, modello, esempio) indica una serie di movimenti preordinati e codificati che rappresentano varie tecniche e tattiche di combattimento: l’esercizio del kata non si pratica solo nelle discipline marziali, ma in tutte le arti Zen che hanno come fine il do per fondere, attraverso la respirazione, la componente fisica e mentale eseguendo una predeterminata sequenza di gesti per raggiungere una più elevata condizione spirituale. Ciò è evidente quando le modelle si trascinano sul foglio durante le Anthropométries de l’Epoque bleue, movimento mutuato dall’ikkomi, ovvero il trascinamento a terra dell’avversario. Oppure quando il corpo è impresso sulla carta con un braccio alzato e il busto in lieve torsione si ha una derivazione dal muneoshi, cioè la spinta data all’altezza del petto. Nelle cosmogonie, tele che Klein lascia esposte agli agenti atmosferici in modo da riuscire a registrarli nelle sue opere, ritorna con forza l’idea di imprimere il ki delle diverse manifestazioni naturali sulla carta: in questo senso è cruciale per Klein la conoscenza delle incisioni del giapponese Shiko Munakata, che considerava la matrice di stampa importante al pari dell’incisore, in quanto la placca da incidere non può essere considerata come una superficie neutra, ma come una forma vivente dotata di un proprio ki. La formazione del judoka emerge anche nel Saut dans le vide del 19 ottobre 1960, quando Klein si lancia dal tetto del dojo di rue Gentil-Bernard 5 a Fontenay-aux-Roses: nel suo diario Klein aveva scritto “le Judo (‘Voie de la Souplesse’) que l’on peut appeler littéralement l’invention de la chute (c’est, en effet, une des recherches les plus importantes du fondateur du Judo, Kano Jigoro)”26. Con questa azione estrema e altamente simbolica, che gli costerà una lussazione alla spalla, cerca di rappresentare l’unione del corpo materiale con l’immaterialità attraverso un gesto al contempo ginnico e spirituale come quelli alla base del judo. Klein mutuò dalla cultura orientale alle sue opere, e alla sua stessa esistenza, non tanto delle singole suggestioni, quanto piuttosto un’intera visione dell’arte; “In Giappone non si studia un’arte per amore dell’arte, ma per ricevere l’illuminazione spirituale che essa può donare. Se l’arte si limita alla dimensione esteriore, se non conduce a ciò che è più profondo e più essenziale, in altre parole se non diventa una forma di spiritualità, il giapponese non la ritiene degna di essere studiata. Arte e ‘religione’ sono intimamente unite nella storia della cultura giapponese”27: allo stesso modo arte e vita sono fuse nell’esperienza di Yves Klein.

26) Citazione di Klein riportata in Génévrier- Tausti, L’envole d’Yves Klein cit., p. 53. 27) D.T. Suzuki, Prefazione, in G. Herrigel, Lo Zen e l’arte di disporre i fiori, SE Editore, Milano 1993, p. 10. Yves Klein al Kodokan di Tokyo. 1953 circa.


Riflessioni sul Judo, il Kiai, la Vittoria costante

Mi è stato chiesto spesso se il Judo aveva avuto un ruolo nella mia concezione pittorica. Ho sempre risposto sino ad oggi di no. In realtà è inesatto: il Judo mi ha dato molto, ho iniziato a praticarlo quasi contemporaneamente alla mia pittura. L' uno e l'altro hanno vissuto con me come io vivo con il mio corpo fisico. Ecco in sostanza quello che so dello Judo: prima di tutto un grande principio "avere lo spirito della vittoria". Bisogna considerare le disfatte come tappe importanti verso la Vittoria finale. Le piccole vittorie come disfatte pericolose per la Vittoria finale. Appena si prende coscienza che la vittoria finale è acquisita, il pericolo della disfatta definitiva è in agguato per voi. Appena la Vittoria finale, è raggiunta definitivamente si ha un nemico in più, se stessi. Il nemico vinto lo sa e conta su questo fatto per la rivincita. Il kiai: Il nostro corpo fisico è costituito da uno scheletro e da carne. Nelle ossa circola il midollo spinale, sostanza più o meno identica a quella del cervello. Le ossa sono le linee del corpo, le linee sono l'intelletto, la ragione, l'accademismo; la carne, la passione, ciò che è stato creato dall'intelletto nell'uomo dopo la caduta, il peccato originale ed è ciò che lo sostiene pur vivendo solo grazie a lui. Lo spirito, la sensibilità pura, la vita stessa nell'uomo è al di fuori di tutto ciò, benché legata alla sfera fisica e alla sfera emozionale. Il judoka normale non pratica nella sfera spirituale ma in quella fisica ed emozionale. Il vero judoka pratica in spirito e sensibilità pura e allora poiché la vita è la vittoria costante , vince, vince sempre. (…)

Yves Klein al Kodokan di Tokyo. 1953 circa.

Schizzo di scenario n. 1 Judo (dattiloscritto del 1954)

Yves Klein

Questo film, che potrebbe avere una lunghezza di 500 metri (60 minuti circa), o anche più (il doppio), avrebbe il fine di sviluppare le formule poetiche dei differenti sport giapponesi. Derivati dalle arti marziali, gli sport da combattimento fanno parte della vita giapponese. Si potrebbe anche dire dell’anima giapponese, a causa dell’interpenetrazione tra la sfera fisica e quella spirituale in Giappone. La parte più importante del film sarebbe consacrata a questo bello sport, nato alla fine del XIX secolo, poiché si può chiamare alla lettera l’invenzione della caduta, ju-do, e cioè la via della cedevolezza. Tutto, nella sua pratica, è in effetti decontrazione. Egli attinge i suoi concetti nell’intelligenza del corpo e in una specie di mimetismo con le forze della natura. L’aspetto sociale del judo, sport nazionale in Giappone, che conta così tanti adepti in Occidente per il suo valore e raffinatezza, come l’arte Giapponese, così a lungo ripiegata su se stessa, e tardivamente scoperta nel XIX secolo dalla Francia, e nella quale gli impressionisti hanno attinto un così grande rinnovamento mentre il Giappone scopriva l’arte francese. Dovrebbero essere ricordati i differenti sport particolari, quali il Karaté, che tende a dare al corpo la durezza di un minerale (all’opposto dello judo), il Kendo, scherma con la sciabola che si pratica indossando un’armatura, dando ai combattenti l’aspetto di pesanti ma vivaci coleotteri. Aikido, Bo-jutsu ecc... In alto: Dattiloscritto Riflessioni sul Judo, sul Kiai, la Vittoria costante. In basso: Dattiloscritto Schizzo di scenario n.1 Judo. 1954

Yves Klein


Apprendo che l’Unione delle due Federazioni è stata appena conclusa domenica scorsa e che i gradi Kodokan sono riconosciuti ora ufficialmente in Francia. Sono 4° Dan del Kodokan dal 18 dicembre 1953 (in allegato la fotocopia del mio diploma conquistato in Giappone dopo un anno e mezzo di soggiorno di studio). Sono a chiederLe di farmi la grande cortesia di voler registrare e riconoscere il mio grado e la sua data originaria sia per rispetto per il Kodokan di Tokyo che per la mia dignità personale e di restituirmi la mia carta del Collegio delle cinture nere (anch’essa allegata) debitamente firmata con il grado di 4° Dan (e anche con la data del mio diploma Kodokan del 18 dicembre 1953). RingraziandoLa anticipatamente e mettendomi da ora in poi, con la mia tecnica e la mia conoscenza del Judo, a sua completa disposizione, La prego di gradire, Signor Presidente, l’espressione della mia assoluta considerazione. Yves Klein

Dattiloscritto Lettera al Presidente della Federazione Francese di Judo. 1956

Lettera al Presidente della Federazione Francese di Judo, 25 Ottobre 1956

Signor Presidente,


I Kata tradizionali del Judo A cura di Pino Tesini, cintura nera 7° dan

prima volta, in forma analitica, il fluire dell’azione pura, libera dalle briglie dei nostri desideri di vittoria o dalle paure di sconfitta. Il praticante, normalmente,

In quasi tutte le discipline orientali tratte dall’esperienza guerriera dei secoli passa-

ha provato spontaneamente in randori e in shiai (combattimento) le sensazio-

ti sono presenti degli esercizi formali, detti kata, che assolvono molteplici funzioni.

ni dell’azione priva di controintenzioni. Ora le riprende in forma analitica, se-

Il kata è normalmente inteso come un modello di riferimento, il più immutabile

guendo quell’alternanza di esperienza creativa e apporto della Tradizione che

possibile nel tempo, o soggetto a modifiche da parte di grandi esperti della disci-

favorisce la crescita non solo nel Judo ma in ogni campo dello scibile umano.

plina, dopo ponderati e ben giustificati motivi.

Kime-no-Kata è suddiviso in due parti: Idori (posizione inginocchiata) e Tachiai

I kata quindi sono da sempre stati concepiti per:

(posizione eretta). In ciascuna di esse vi sono contrattacchi da prese, colpi e armi

- tramandare il principio di una azione (o più azioni concatenate fra loro) sotto

(pugnale, spada corta, spada). Le stesse tecniche si ripetono in piedi e in ginocchio,

l’aspetto strategico, tattico e della relativa esecuzione.

portando i praticanti a sperimentare diverse soluzioni per gli stessi attacchi portati

- permettere l’analisi degli stati mentali durante le varie fasi dell’azione, con riferi-

da posizioni e da distanze diverse. E’ costituito da 20 attacchi e relativi contrattac-

menti sia alla respirazione sia alla gestione e all’impiego del ki (energia primaria).

chi.

- tramandare l’origine di azioni che sono state in seguito trasformate dalle esigenze della pratica .

JU NO KATA

- tramandare gli aspetti reconditi della Disciplina che oltrepassano la mera esecu-

Il Ju-no-Kata o Kata della cedevolezza propone lo studio dell’alternanza tra Yin

zione tecnica e che attingono alle radici filosofiche primarie alla base della disci-

(energia nascosta, passività) e Yang (espressione appariscente dell’energia, inizia-

plina fisica.

tiva) nel fluire continuo delle azioni. E’ costituito da quindici forme stilizzate suddivise in tre gruppi. Il ruolo di Tori ed Uke si alterna fino alla conclusione dell’azione.

NAGE NO KATA

Non vi è soluzione di continuità e il principio “Ju” o “Yawara”(assecondare, cedere)

Il Nage-no-Kata, o Kata dei lanci, contiene i segreti dei principi di azione del judo fi-

pervade tutta l’esecuzione di questo kata. La ricerca dell’armonia è lo scopo princi-

sico dimostrati attraverso quindici tecniche di proiezione suddivise in cinque grup-

pale dell’esecuzione. Ju-no-Kata nasce nel 1887 e si tratta del primo vero apporto

pi: tecniche con uso prevalente degli arti superiori; tecniche con uso prevalente

originale del Judo di Kano. Sono evidenti le influenze del Tai-Chi-Chuan cinese ma,

delle anche; tecniche con uso prevalente degli arti inferiori; tecniche di sacrificio

nello spirito del judo, le forme per lo sviluppo del Chi, energia interiore, sono ese-

sul dorso; tecniche di sacrificio sul fianco. Ciò che nel randori o in shiai avviene in

guite in coppia. E’ indicato come “Kata superiore” e, in esso, i legami tecnici con il

un battito di ciglia, nel Nage-no-kata è dimostrato lentamente e meticolosamente.

randori e con la pratica sportiva sono minimi. Sviluppa nel praticante la continui-

In ognuna delle 15 tecniche eseguite a destra e a sinistra occorre dimostrare squi-

tà nell’azione e la sensibilità verso il fluire dell’energia, per portarlo ad un’azione

librio, contatto e proiezione. Il Nage-no-Kata è stato mutuato dalla scuola di Kito,

spontanea e libera da tensioni inutili. E’ il Kata in cui Jigoro Kano parla per la prima

specializzata nelle tecniche di lancio

volta di “Stile di Espressione”.

KATAME NO KATA

KOSHIKI NO KATA

Il Katame-no-Kata è il Kata delle tecniche di controllo. Anche in questo caso si

Una spiegazione del Koshiki-no-Kata è cosa estremamente complessa. Il Koshiki-

tratta di quindici forme suddivise in tre gruppi (immobilizzazioni; strangolamenti

no-Kata, Kata delle Cose Antiche o della scuola di Kito, ripercorre la storia e l’evolu-

e leve articolari) che dimostrano i modi dell’energia (Ki) nei controlli. Nel Kata-

zione del combattimento a partire dal Yoroi Komiuchi no Jidai (epoca del combat-

me-no-Kata lo studio passa attraverso il controllo e l’impiego della respirazione.

timento con le armature) fino al Judo. Il praticante sperimenta con il corpo i vari

Il ritmo di esecuzione cambia da lento e potente nelle immobilizzazioni a leggero

passaggi storici. E’ ritenuto il Kata più importante per la sua storia e per essere una

e deciso negli shime-waza (strangolamenti) per divenire decisamente più rapido

sorta di anello di congiunzione tra le antiche scuole di Jujutsu e il Judo Kodokan. E’

nei kwansetsu-waza (leve articolari). Il controllo non è qualcosa di statico ma si

molto difficile da eseguire ed è presentato in poche occasioni importanti, solo dagli

espleta nel movimento e nell’adattamento alle mutevoli condizioni determinate

alti gradi. L’azione animata da energia e decisione non è necessariamente rapida e

dal movimento di Uke. Queste forme hanno un grande valore didattico per il prin-

trascende la nozione di stretto contatto con l’altro che il judoista ha acquisito dagli

cipiante, per l’apprendimento della corretta tecnica di controllo, delle tecniche di

esercizi di allenamento della forma (uchi komi, butsukari, ecc). La prima parte del

difesa al suolo (fusegi), delle forme di rovesciamento (nogare-kata), del modo di

kata ha l’esecuzione più lenta e pesante, contro l’agilità e la rapidità delle tecniche

variare la posizione per rendere il controllo efficace nonostante i movimenti di uke

della seconda parte, proprio per evidenziare le due parti di KITO “Luce e Ombra”.

Questo Kata è stato mutuato dalla scuola di Ju-jitsu di Tenshin-shin-yo-ryu specializzata nel katame- waza e nell’atemi-waza (colpi nei punti vitali). Non ha una

ITSUTSU NO KATA

particolare spettacolarità per chi lo osserva da fuori, ma, agli occhi di un esperto,

Itsutsu-no-Kata (Forme del cinque) mostra l’uomo che, nel suo cammino, incontra

può subito apparire il grado di comprensione dei praticanti e come questi utilizza-

gli elementi della natura e vi armonizza. La strada dell’uomo è metaforicamente

no l’energia.

rappresentato dalla salita al monte Fuji. E’ un kata di “stile di espressione” e interiore in cui non vi sono praticamente vere e proprie tecniche o proiezioni ma

KIME NO KATA

tutto si basa su una “drammatizzazione” che racconta l’eterno rapporto dell’uomo

Il Kime-no-Kata è il Kata della decisione o del Kime (intenzione senza riserve).

con il Tutto. Non a caso è l’ultimo dei Kata e l’ultimo apporto di Jigoro Kano al suo

Attraverso l’esecuzione di forme, che non hanno un legame esteriore marcato

metodo. Richiede di aver raggiunto la piena maturità judoistica per essere com-

con il randori e che comportano l’impiego degli atemi e delle armi (spada cor-

preso e di aver assimilato completamente i messaggi contenuti negli altri Kata.

ta e bokken), questo Kata propone ai praticanti l’analisi dell’azione pervasa dal

Jigoro Kano non diede alcun nome a queste tecniche se non il loro numero. Resta

kime, dalla sincerità dell’intenzione senza riserve. Con lo studio di Kime-no-ka-

opinione diffusa che il professor Kano volesse rappresentare, con questo Kata, la

ta (che avviene come progressione didattica dopo i primi due) si affronta per la

strategia del judo paragonandolo a cinque forme che assume l’acqua.

I Kata tradizionali del Judo


Piccolo glossario KATA È una forma, una sequenza di movimenti che praticata insieme a un controllo armonico della respirazione permette di raggiungere una più elevata condizione spirituale. Quasi tutte le discipline marziali e le arti orientali legate al concetto di DO (=via) prevedono l’esercizio dei KATA. Li troviamo ad esempio anche nel sado (cerimonia del tè) e nel kado (composizione floreale). Nelle arti marziali essi rappresentano uno studio di azioni, di cui evidenziano i principi e le possibilità di esecuzione. Ma hanno sempre anche un contenuto recondito, legato all’evoluzione spirituale dell’individuo. I KATA principali del judo sono 6. “La collaborazione che si instaura fra l’allievo e l’Insegnante e tra i praJUDO

ticanti (Tori e Uke) durante lo studio delle tecniche, va in una direzione

JU-DO: letteralmente “via della cedevolezza”

che attraverso il reciproco aiuto ed il mutuo rispetto, porta al miglioramento delle capacità di relazioni personali, sociali e morali; questo con-

“Il judo ha la natura dell’acqua: l’acqua scorre per raggiungere un li-

cetto, se assimilato interiormente, può venire applicato anche nell’am-

vello equilibrato.. Non ha forma propria ma quella del recipiente che

bito della società in cui viviamo, migliorandola” (Jigoro Kano)

la contiene. È indomabile e penetra ovunque. È permanente ed eterna come lo spazio e il tempo. Invisibile allo stato di vapore, solidificata in

TORI e UKE

ghiacciaio ha la durezza della roccia” (Bunji Koizumi)

TORI è il praticante che esegue la tecnica, UKE colui che lo aiuta, subendola.

“Il jūdō è la via più efficace per utilizzare la forza fisica e mentale. Allenarsi nella disciplina del jūdō significa raggiungere la perfetta co-

IPPON

noscenza dello spirito attraverso l’addestramento attacco-difesa e

E’ il massimo obiettivo conseguibile in un incontro di Judo, ed attribui-

l’assiduo sforzo per ottenere un miglioramento fisico-spirituale. Il per-

sce automaticamente la vittoria immediata. Il suo effetto è equivalente

fezionamento dell’io così ottenuto dovrà essere indirizzato al servizio

a quello della schienata nella lotta.

sociale, che costituisce l’obiettivo ultimo del jūdō” (Jigoro Kano)

Consiste nell’eseguire una qualsiasi tecnica - nei limiti delle regole del combattimento - con qualità tali da poter mettere fuori combattimen-

JIGORO KANO (1860-1938)

to l’opponente.

Judoka e pedagogo giapponese, fondatore del judo. Appassionato di

Nel Judo consiste nel proiettare l’avversario con velocità, destrezza e

sport fin da ragazzino (fondò il primo club di baseball giapponese), si

decisione determinandone la caduta sulla schiena senza che colui che

avvicinò allo studio del jujitsu in un’epoca in cui la pratica era in forte

subisce abbia potuto opporre resistenza. Quando avviene ciò l’incon-

declino, a causa della tendenza modernizzatrice e occidentalizzante

tro si chiude con la vittoria dell’attaccante.

che investì il Giappone nella seconda metà dell’Ottocento. Divenuto maestro a sua volta, fondò nel 1882 il Kodokan Judo, la prima scuola

KODOKAN

per l’insegnamento del judo. Per tutta la vita fu attivo in particolare

Letteralmente “luogo per lo studio della Via”. È la scuola istituita da Ji-

come educatore, vedendosi anche assegnare incarichi di rilievo da par-

goro Kano per l’insegnamento del judo, da lui fondato nel 1882. È

te del governo nel campo della pubblica istruzione, e si occupò con

tutt ’oggi esistente e si trova in un edificio di otto piani a Tokyo, Giap-

passione della divulgazione del judo in tutto il mondo.

pone.

JUDOKA

TATAMI

Chi pratica il judo

Letteralmente il termine rimanda a una tradizionale pavimentazione giapponese composta da pannelli rettangolari di paglia intrecciata, che

JUDOGI

vengono accostati. Le dimensioni di ogni pannello (tatami) sono indi-

L’abbigliamento di chi pratica il judo (giacca e pantaloni di cotone bian-

cativamente quelle dello spazio occupato da una persona sdraiata. Il

co resistente, senza bottoni o parti metalliche; la giacca è stretta in vita

tatami è quindi anche una unità di misura della superficie, per indicare

da una cintura, pure di cotone, che può avere colore diverso a seconda

l’ampiezza di un ambiente. Nel judo e nelle arti marziali, il tatami è la

del grado dell’atleta)

superficie dove si pratica, costituita da materassini accostati.

Piccolo glossario


Cooperare significa coniugare la propria azione con quella degli altri, in vista di uno scopo da raggiungere. Lo scopo per il quale propongo la cooperazione è l’arte.

Y.K.

Yves Klein durante la conferenza Evolution de l’art vers l’immatériel, Sorbona, Parigi. 3 giugno 1959 Foto: Roger Duval (diritti riservati)



Yves Klein sul cantiere del teatro dell’Opera di Gelsenkirchen, 1959. Foto: Ilse Pässler (diritti riservati)


t e a t Da anni , mi eser cit mezzi p er riusci o per levitare e rci effett c nel judo ivament onosco bene i ). e (le cad [‌] ute, E cosÏ, m i piacere bbe dav scena di ve un teatr o, sdraia ro presentarmi metro d to nello s al suolo spazio a ulla , senza t per alm q rucco e eno senza in ualche commen cinque o dieci ganno, minuti, ti. e Yves Kle il tutto s enza in


Dialogo con me stesso “Ma… creando qualcosa, solo a loro importa soprattutto di sapere in sostanza che la verità non esiste solo l’onestà esiste l’onestà è sempre di pessimo gusto visto che dopo tutto l’onestà finché è umana altro non è che un insieme di leggi di vedute apprese Ma diventa vita la vita stessa la potenza questa strana forza della vita che appartiene né a voi né a me né a nessuno la vita è la vita… tutto ciò che ho detto fin qui tutto ciò che ho appena detto l'ho fatto per tentare di avvicinarmi a ciò che voglio fare questa sera ma ancora non ci riesco tutto ciò che ho detto fin qui è poco è niente è un ciarlare davanti a se stessi no è molto difficile formulare il pensiero… tento quest'esperienza perché vorrei non dover scrivere scrivendo è strano si può pensare meglio si può sognare meglio e tracciare sulla carta iscrivere scrivere ma parlando ci si sente si articola si pronuncia è molto strano ancora non capisco bene cosa stia succedendo quando si scrive ovviamente si può riflettere meglio concentrarsi per ritrovare quanto è successo davvero durante l'atto di pensare pensare forse non è la parola giusta quando si pensa spesso non si è ispirati l’ispirazione è pensiero più qualcos'altro più l'apparizione dello spirito questo spirito strano non si può dire insomma che non esista questo spirito

Artaud e Klein, “l’assenza più reale della presenza” di Giuliana Prucca1)

1) Da Yves Klein, Verso l’immateriale dell’arte – Con scritti inediti, a cura di Giuliana Prucca, ObarraO edizioni, 2009. Per gentile concessione dell’autrice e della casa editrice.

Lontano dall’essere un riferimento obbligato, come Bachelard e Delacroix lo sono per la monocromia, Antonin Artaud figura solo episodicamente negli scritti di Yves Klein, ma sempre in una modalità destinata, da una parte, ad attirare tutta l’attenzione del lettore e, dall’altra, a tradurre il “bisogno di far maturare il vuoto”2 del suo autore. In “Dimanche”, Klein sembra in effetti costruire il proprio omaggio a registi teatrali importanti, quali Stanislavski, Polieri e Cocteau, in una sorta di crescendo drammaturgico, per poi distaccarsene quasi bruscamente e preferire alla loro ricerca quella artistica e soprattutto esistenziale del poeta francese. Definendolo come colui “che presentiva quanto propongo qui oggi”, Klein lega indissolubilmente Artaud alle proprie teorie sul vuoto, inteso come materialità senza materia, come quella dinamica di smaterializzazione che permetterebbe paradossalmente di giungere alla vera materia, sbarazzata della sua forma e del suo potere rappresentativo, di pervenire, cioè, al centro del Tutto universale dove si cela l’energia vitale o al “margine del vuoto dove si situano le origini della verità”3. Klein ci fornisce così lo strumento per una lettura artaudiana innovativa, diversa da quella delle avanguardie teatrali degli anni Sessanta e Settanta concentrata principalmente sul corpo e sulla crudeltà della carne, una lettura che vada, al contrario, in un senso più inorganico inscrivendosi in quello stesso atto di svuotamento e di negazione dell’io che farà 2) Antonin Artaud, “Le Théâtre et les dieux”, in Messages Révolution-naires, OC VIII, Gallimard, Paris 1971 e 1980, p. 167. L’approfondimento della relazione tra Antonin Artaud e Yves Klein, oggetto del presente studio, trae e riprende preziosissime informazioni dal libro di Nicolas Charlet, Les écrits d’Yves Klein, Luna Park–Transédition, Paris 2005, che dedica alcune pagine ai legami tra i due autori. 3) Id., “Secrets éternels de la culture”, in ibidem, p. 226.

più tardi Carmelo Bene proprio a partire dall’opera di Artaud. “Popolare lo spazio per coprire il vuoto” è già nella riflessione kleiniana un modo di “trovare il cammino del vuoto”4. L’incontro tra Yves Klein e Antonin Artaud avviene in assenza e per impregnazione. In assenza. È molto improbabile che i due artisti si siano conosciuti nella vita. Artaud rientrò a Parigi nel giugno 1946, dopo un internamento durato nove anni in diversi ospedali psichiatrici francesi, e morì nel marzo 1948. Il giovane Klein invece si trasferì definitivamente nella capitale francese solo alla fine del 1954, dopo una serie di viaggi che lo portarono a visitare l’Italia, fare il servizio militare in Germania, imparare l’equitazione in Irlanda e la tecnica della doratura a Londra, approfondire lo studio del judo in Giappone e insegnarlo a Madrid. A Parigi frequentava i caffé di Montparnasse, dove l’eco di Artaud era ancora molto forte in seguito alle sue due ultime manifestazioni importanti: l’insuccesso della conferenzaperformance, Histoire vécue d’Artaud-Mômo. Tête-à-tête par Antonin Artaud, il 13 gennaio 1947 al teatro del “Vieux-Colombier” – che doveva consacrare il grande ritorno del poeta sulla scena pubblica, ma che mostrò invece un Artaud irriconoscibile, balbettante, incapace di leggere le sue poesie e i suoi appunti, costretto infine a rinunciarvi – e il divieto di messa in onda, l’anno seguente, della sua trasmissione radiofonica Per farla finita con il giudizio di dio, la cui registrazione eseguita durante un’audizione privata iniziò a circolare in 4) Id., “Le Théâtre et les dieux”, op. cit., p. 167.


anche se si è materialisti esiste è un momento favorevole forse un momento organico favorevole all'improvviso tutto va per il meglio È terribile perché ho un registratore posso tentare quest'esperienza ero qui avevamo appena finito di cenare ed ecco tutto cominciò d'un tratto oh ! era una fantasticheria ispirata in fondo piuttosto comune ne ho conosciute di ben più importanti di molto più entusiasmanti ma ritornava quell'apparizione così di colpo e allora ho pensato d'un tratto bisognerà pur tentare una volta di dire provare a sognare continuare a sognare parlando… udire… provare a cogliere quell' atmosfera dello spirito ma ora non ci riesco più ho mandato subito Rotraut a farsi un giro ma non era possibile non capiva perché l'avessi mandata a farsi un giro non comprendeva la ragione per il quale l'avevo mandata a farsi un giro gliene ho trovato una così quella di andare a cercarmi una donna per andarci a letto mi sono detto che in fondo se funziona sarà piacevole e poi anche se non dovesse funzionare potrebbe riportarmi alle mie fantasticherie perché è strano ma dopo aver parlato in questo modo sento che se avessi un po' di sensualità intorno a me una sensualità intelligente sana onesta non sentimentale potrei forse tornare e parlare non è molto realistico quello che ho appena detto in fondo ciò che vorrei è svelarmi davvero tutto quello che avviene dentro di me tutto ciò che voglio tutto ciò che non voglio tutto quello che sono tutto quello

edizioni “pirata” fin dagli anni Cinquanta. Se l’atto di censura negava, ancora una volta, la dimensione pubblica ad Artaud (la registrazione su nastro magnetico venne allegata per la prima volta in versione “ufficiale” al testo di Alain e Odette Virmaux, Antonin Artaud. Qui êtes-vous?, mentre la trasmissione venne radiodiffusa soltanto nel 1999), d’altra parte alimentava il mito del genio “suicidato dalla società” negli ambienti artistici e letterari. Presso gli archivi di Klein, pochi documenti riguardano direttamente Artaud e, ancora oggi, non si è a conoscenza se Klein possedesse nella propria biblioteca libri dello (o sullo) scrittore. Per esempio, aveva potuto leggere il suo Van Gogh, pubblicato nel 1947 dall’editore K, lo stesso che avrebbe pubblicato la versione a stampa di Per farla finita con il giudizio di dio, subito dopo la morte dell’autore? Si potrebbe pensare di sì, a giudicare dai numerosi riferimenti che Klein fa nei suoi scritti più importanti, dalla Conférence a “Dimanche”, a colui che viene considerato da entrambi, stanchi della linea e della sua “gabbia orribile”, il più grande “colorista dell’avvenire”, in grado di usare il “colore preso così come è spremuto dal tubetto”5 o di “mangiarlo”, come dice Klein in L’aventure monochrome con immagine ancora più artaudiana, direttamente dal tubetto. Oppure, aveva letto i primi studi critici intrapresi in quegli anni sull’opera di Artaud, come l’articolo del 1956 di Maurice Blanchot in “La Nouvelle Revue Française” o il saggio di Georges Charbonnier del 1959, o le numerose testimonianze sulla conferenza dello scrittore nel 1947, in particolare quella di André Gide pubblicata il 19 marzo 1948 in “Combat”, rivista che, più tardi, divenne sua fedele sostenitrice, stampando il giornale di un solo giorno, “Dimanche”? Ad assistere alla conferenza del “VieuxColombier” c’era anche Raymond Hains6, membro del Nuovo Realismo fin dalla sua fondazione a casa di Klein e capofila degli “affichistes” insieme a Jacques Villeglé, con il quale esponeva appunto i manifesti strappati ai muri della città, operazione che rivelava un certo gusto 5) Id., “Van Gogh”, Le suicidé de la société, OC XIII, Gallimard, Paris 1974. 6) Raymond Hains, ed. Bompuis, MACBA, Barcellona 2001.

per il calembour visivo e i giochi verbali, d’ispirazione surrealista e lettrista. Un altro Nuovo Realista e lettrista della prima ora era François Dufrêne, che, fin dal 1950, introdusse Yves Klein all’avanguardia letteraria parigina e probabilmente all’esempio artaudiano. In effetti, il lettrismo, creato nel 1945-1946 da Isidore Isou che Klein conobbe personalmente, salutava nelle glossolalie di Artaud una prefigurazione delle proprie esperienzelimite sulla frammentazione poetica e sulla destrutturazione linguistica. I lettristi furono anche tra i più accaniti difensori del poeta, perseguitato, secondo loro, dalla psichiatria e dai metodi “nazisti” del suo medico di Rodez, il dottor Gaston Ferdière. Isidore Isou anticipò la rivoluzione sessantottina, proclamando già nel 1949 l’insurrezione giovanile, e arrivò perfino a identificarsi con un “sant’Artaud reincarnato”7. Ma quello che indirettamente interessava Klein in Artaud, attraverso le invenzioni verbali e i recital spesso improvvisati di poesia sonora dell’amico Dufrêne o attraverso i film sperimentali di Isou dissocianti l’elemento uditivo da quello visivo fino alla scomparsa quasi totale della pellicola, era un certo risalire al di là del linguaggio articolato verso una crudeltà del suono, verso una purezza del segno, affrancato dal senso e dalla gabbia del significato tradizionale, per accedere invece a una lingua universale, a un “mondo senza dimensioni”, dove regnerebbe “l’inconcepibile” e “l’infinito”, secondo quanto lo stesso Klein scrisse nel 1952 in un articolo di chiara influenza lettrista, intitolato Des Bases (fausses), principes, etc et condamnation de l’évolution8 e pubblicato da Dufrêne nella sua rivista, “Soulèvement de la jeunesse”. Se il minimo denominatore per i lettristi era la lettera, il fonema unico, al confine tra la parola e il suono, per Klein era il monocromo, in grado di portare alla dissoluzione della forma nel colore e, in generale, di ogni forma espressiva nel silenzio. Anche il poeta e pittore Camille Bryen, che Klein conobbe verso la metà degli anni 7) Cit. in Sylvère Lotringer, Pazzi di Artaud, Medusa, Milano 2006. 8) In Le Dépassement de la problématique de l’art et autres écrits, a cura di Marie-Anne Sichère e Didier Semin, Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts, Paris 2003, pp. 19-23 e pp. 324-327.


che non sono ecc. tutto questo vorrei davvero registrarlo registrare il modo in cui parlo a me stesso durante le mie fantasticherie quando parlo a me stesso ricordo dei particolari addesso, ecco comincia posso nello stesso tempo parlare a me stesso e nello stesso tempo parlare ad altri sentirli rispondere calcolare le loro risposte se dico questo risponderà questo ecco è così che funziona insomma ci sono molte supposizioni quando si fanno dei piani quando si calcola insomma se faccio questo succederà questo se faccio quest'altro accadrà questo si analizza bene il tutto consegentemente agli atti e conclusioni vale forse la pena davvero è interessante iniziare oppure è meglio non fare nulla è forse meglio interessarsi ad altro è forse meglio cambiare del tutto argomento… quindi cambiare argomento fare qualcosa altro è quello che sto facendo prima di abbandonare un argomento ripercorro sempre tutte le possibilità… nel campo dell'arte per esempio e della creazione delle mie opere. è divertente perché prima ho un'idea poi di solito so già come sarà realizzata abbastanza sommariamente Vedo dei dettagli piccole cose piccoli dettagli di costruzione Ne disegno i volumi nello spazio della mia immaginazione la costruisco ne faccio un archetipo poi quell'archetipo lo sottopongo insomma a un confronto con tutto ciò che so che è esistito per sapere se non sto rifacendo qualcosa che è già stato fatto non dovrebbe essere così visto che in fondo non ha alcuna importanza se una cosa è già stata fatta ma non mi piace fare quelcosa che qualcun altro ha già fatto o esplorare qualcosa che qualcun

Cinquanta, s’interessava a questo tipo di ricerche su una certa conflagrazione linguistica. Vicino al movimento surrealista, Bryen sviluppava nei suoi poemi automatici e fonetici, così come nei suoi disegni e nei suoi collages, un linguaggio autonomo non più controllato dal pensiero razionale. I suoi objets à fonctionnement degli anni Trenta, assemblaggi di oggetti decontestualizzati, rappresentavano per il critico d’arte Pierre Restany il ponte ideale tra i ready-made di Duchamp e gli oggetti che i Nuovi Realisti recuperavano dal quotidiano. Dopo un passaggio nell’astrazione lirica e nell’informale, di cui organizzò alla galleria Colette Allendy l’importante mostra del 1948 H.W.P.S.M.T.B. (dalle iniziali degli artisti partecipanti: Hartung, Wols, Picabia, Stahly, Mathieu, Tapié, Bryen), raggiunse negli anni Cinquanta i giovani amici, Hains e Villeglé, nei loro esperimenti di deformazione visiva della scrittura, di decostruzione delle forme fino al limite dell’intellegibile, di cui l’Hepérile éclaté, esplosione tipografica di una poesia sonora di Bryen, costituì il primo esempio di “poème à dé-lire”9. La sua esperienza artistica forniva dunque al giovane Klein un’ulteriore possibilità di avvicinarsi all’opera di Artaud. In effetti, Bryen dedicò a quest’ultimo, nel corso degli anni, alcuni scritti critici e, soprattutto, illustrò un testo molto significativo che il poeta marsigliese scrisse nel 1947 e regalò ad Alain Gheerbrant, direttore delle edizioni K, con il quale Bryen stesso pubblicò un’Anthologie de la poésie naturelle e un testo dal titolo emblematico La chair et les mots (La carne e le parole) nel 1948. A parte la tiratura del 1958 presso l’editore PAB di Alès, limitata però a 19 copie, tutte accompagnate da un’incisione originale di Bryen, Voici un endroit rimase inedito al grande pubblico fino al 2004, anno in cui venne inserito nel “Quarto” di Gallimard, un’edizione in un unico volume di tutti gli scritti artaudiani che si affianca alla monumentale pubblicazione delle opere complete, purtroppo mai terminata, intrapresa da Paule Thévenin alla morte dell’autore. Non siamo certi che Klein abbia potuto leggere questo testo, ma come non vederlo, 9) Scomposizione della parola “delirio” nel prefisso privativo francese “dé-” e il verbo “leggere”. Dalla prefazione di Camille Bryen, citata in Nicolas Charlet, Les Ecrits d’Yves Klein, op. cit., p. 59.

fin dalle sue prime parole, un precursore di quel “vuoto pieno di sensibilità” che il pittore descrive nella Conférence?: “Ecco un luogo pieno zeppo di sorprendenti, unici, straordinari, mirabolanti [...], dico appunto pieno zeppo di mirabolanti ricordi”. Artaud continua evocando, come “fantasmi e strani personaggi”10, coloro che hanno abitato prima di lui nella clinica di Ivry-sur-Seine in cui alloggia dal suo rientro a Parigi, e in particolare Gérard de Nerval, affermandosi così, tramite questa sovrapposizione locativa, come erede diretto di quei poeti, Villon, Baudelaire, Poe e Nerval appunto, “suppliziati della lingua”, “paria”11 della società: “Il parco di Ivry dove Gérard de Nerval passeggiava di fronte al palazzo del comune rivoluzionario del 1788 presieduto dal sindaco Jean-Paul (sic) Marat12, medico. Vi passeggiò prima di andare a impiccarsi. E lo si può ancora sentire sotto le alte fustaie del vecchio parco come pietrificato, solenne e funebre la sera sotto la luna, il parco come apocalittico d’Ivry, in cui strani scorci si aprono qua e là sull’acqua della Senna, anche lei scintillante e, pare, pietrificata, avendo visto scorrere lugubri incartamenti. Fu proprio nel municipio di Ivry e nella stanza che occupo attualmente ad essere fatto a pezzi, trinciato dalla folla, l’ufficiale della guardia di Luigi XVI che a quell’epoca volle opporsi all’inizio della sedizione. [...] Non è però nei monumenti né sulle pietre, ma sopra le fustaie insuperabili del parco dove, cinquant’anni dopo la tormenta, passeggiava l’anima malata dell’infelice Gérard de Nerval che si vedono passare talvolta strane particelle e come i tronconi di un formidabile popolo spettrale respinto dalla rivoluzione del 1789. Gérard de Nerval si ammalò dello sterminio di cento capolavori, della polverizzazione, briciola dopo briciola, di diecimila creazioni apocalittiche, di cui talvolta gli alberi funebri del parco portano ancora, sottoterra, l’eco oggi incenerito e la fama”13. L’atmosfera d’impregnazione poetica che 10) Yves Klein, Conferenza alla Sorbona. 11) Antonin Artaud, Les Tarahumaras - Lettres de Rodez, OC IX, Gallimard, Paris 1971 e 1979, p. 170. 12) Lapsus di Artaud: probabilmente si è confuso con il ruolo da lui interpretato nel film Napoléon di Abel Gance del 1927. Il nome del sindaco è in realtà Jean-Louis Marat. 13) Id., “Voici un endroit”, in Oeuvres, Quarto, Gallimard, Paris 2004


altro ha già esplorato non mi piace andare in un territorio in cui qualcuno altro è già andato qualcuno della mia razza non importa come cioè razza umana se l'idea ha la fortuna di essere parecchio nuova di non essere stata ancora esplorata da nessun essere umano nella storia nel corso di tutta la storia allora rassicurato ricominicio a pensare in modo costruttivo nel senso di è valida questa cosa sarà materializzata una volta una volta creata … sì una volta che sarà creata da me sarà una cosa permanente una cosa di valore insomma la cosa che creerò sarà un'entità un compagno per gli altri come per me stesso voglio dire per tutti noi et per uno solo nello stesso tempo uno strano compagno della sensibilità e mi studio tutto questo nei minimi particolari ma è proprio qui che diventa difficile parlare perché mi studio questo nei minimi dettagli cioè cerco non riesco ad esprimere bene ancora ciò che voglio dire cerco una sorta… non trovo le parole… vedo il suo irraggiare la vedo visivamente cioè la cosa come se fosse creata dopo averla comparata ad altre e poi anche al di là della comparazione dicendo a me stesso ma in fondo perché mettere a confronto non c'è nessun motivo e deve essere e ha delle qualità mi chiedo è necessario è vero è bello e brutto nello stesso tempo è completo è molto curioso perché dico tutto questo a me stesso e vedo sempre l'opera e intanto sento che si sta facendo e che comincia a diffondere un irraggiamento

questo testo evoca sembra anticipare quella pittorica che, per Klein, si specializza, stabilizza e trasmette nello spazio espositivo della galleria d’arte, dapprima tramite il colore blu e, in seguito, attraverso la sensibilità immateriale dell’artista. Se nel testo di Artaud appena citato si fa nuovamente riferimento a una certa frantumazione verbale, la lezione che sembra trarre qui Klein però non è più quella di una concezione universalista del linguaggio, ma di un’incarnazione e materializzazione del vuoto. Per impregnazione. Klein non era solo circondato da lettori di Artaud, ma anche da due persone che lo conobbero personalmente: il judoka Robert J. Godet e la mercante d’arte Colette Allendy. Quest’ultima fu la prima ad ospitare una mostra di Yves Klein nel 1956 e la loro collaborazione durò fino alla chiusura della galleria nel 1960, in occasione della quale l’artista scrisse un omaggio alla gallerista, sottolineandone appunto il fiuto e il coraggio di esporre per prima i “grandi nomi di oggi” e soprattutto l’estrema gentilezza nel ridare dignità e forza di continuare agli artisti in difficoltà creativa14. Qualità, questa, che sembrava essere la caratteristica comune anche alla coppia Yvonne e René Allendy, rispettivamente sorella e marito, in seconde nozze, di Colette, nonché grandi amici di Antonin Artaud fin dal 1922, quando s’incontravano, insieme a Masson, Tzara, Desnos, Satie e Leiris, ai pomeriggi domenicali organizzati da Daniel Henry Kahnweiler, il mercante d’arte dei cubisti. Nel 1926, Yvonne Allendy sostenne attivamente, anche sul piano economico, il progetto artaudiano del “Teatro Alfred Jarry”, mentre suo marito, che divenne il medico psichiatra di Artaud nel 1930, lo invitò a tenere alcune conferenze alla Sorbona organizzate dal “Groupe d’Etudes Philosophiques et Scientifiques pour l’examen des Tendances nouvelles”, di cui il dottor Allendy era animatore, oltre che membro della “Société française d’homœopathie” e della “Société psychanalitique” di Parigi. A lui si devono anche una serie di pubblicazioni sul sogno 14) Yves Klein, “Hommage à Colette Allendy”, in Le Dépassement de la problématique de l’art et autres écrits, op. cit., p. 173.

e sui legami tra la scienza moderna e l’alchimia che hanno potuto certamente interessare Yves Klein. Secondo una testimonianza raccolta da Alain e Odette Virmaux nel testo citato15, Artaud, non avendo uno spazio in cui fare le prove, poté usufrire del locale messogli a disposizione dai coniugi Allendy al primo piano della loro villetta in rue de l’Assomption. Venticinque anni dopo, nel maggio del 1957, Colette Allendy, che ereditò la palazzina alla morte di René nel 1942 e ne fece la propria dimora e galleria d’arte, mise a disposizione d’Yves Klein quella stessa sala, in occasione della sua mostra Propositions Monochromes. Pare che nessuno abbia notato la coincidenza, eppure diversi testimoni avevano sentito Klein evocare il ricordo di Artaud nella sala al primo piano. Secondo quanto dichiarò Raymond Hains in un’intervista del 1974, Klein pensava che si sentisse ancora la presenza di Artaud in quello che sapeva essere lo studio in cui il dottor Allendy riceveva i pazienti16. Ciò che interessa qui maggiormente è che, in piena epoca blu, Klein elaborò, proprio in quella stanza occupata precedentemente da Artaud, e quindi impregnata della sua sensibilità, un primo abbozzo di quella teoria sul Vuoto che avrebbe precisato l’anno successivo con la mostra omonima alla galleria Iris Clert. Decise infatti di esporre ad alcuni amici, come parte integrante della mostra, la sala svuotata semplicemente dai mobili, piena soltanto – secondo quanto era affisso sulle scale – di “blocchi di sensibilità pittorica immateriale” (in questo caso, artaudiana), come dimostra anche una sequenza video in cui si vede Klein aggirarsi solo per la stanza. In questa stessa ottica di presenza nell’assenza, possono essere viste le conferenze che entrambi gli artisti tennero alla Sorbona. Se, come sappiamo, il 3 giugno 1959 Klein espose compiutamente le proprie idee sull’evoluzione dell’arte verso l’immateriale in una conferenza tenutasi nella sala Turgot della Sorbona, vale la pena forse di ricordare che, nella sala Michelet, Artaud sviluppò, su invito 15) “Interview avec une amie anonyme”, in Alain et Odette Virmaux, Antonin Artaud. Qui êtes-vous?, La Manufacture, Lyon 1996, p. 133. 16) Nan Rosenthal, “La Lévitation assistée”, in Yves Klein, catalogo d’esposizione, a cura di Jean-Yves Mock, Centre Pompidou, Paris, 3 mars–23 mai 1983.


che mi risponde e conversa con me questo più che altro per spiegare come si svolgerà la creazione la creazione di un oggetto cioè un quadro una scultura un dipinto in realtà è sempre la stessa cosa che io creo e che è la parte più valida in quello che creo e che non creo visto che è questo che m'interessa quello che sto facendo in questo momento questa autoanalisi analisi del mio modo di pensare questo svelarmi è indecente lo so non si dovrebbe è romantico è psicologico non amo la psicologia ma perché lo faccio perché secondo me al di là di questa fantasticheria affettiva ad occhi aperti iperlucida con questa visitazione dello spirito ecc. ecc. questa fantasticheria che insomma appare ad un essere umano è umana comunica con l'essere umano è universale ma è umana ebbene se rivelo me stesso nell’architettura dell'aria perché non ci sarà più alcuna intimità si saprà tutto ciò che la gente pensa tutto ciò che la gente fa forse verrà allora un'intimità diversa da molto molto più lontano qualcosa che oggi non riusciamo neppure ad immaginare e che esiste e la cosa strana è pensare che oltre a questo esiste qualcos'altro ancora di più grande di più ampio e così via e allora non so più se bisogna limitarsi ad approffittare banalmente dei momenti semplici e banali della vita limitarsi ad essere un essere umano normale senza sforzo senza essere semplicemente se stessi così come si è oppure se bisogna essere intelligenti se bisogna pensare se bisogna essere onesti cioè spingersi sempre oltre

del dottor Allendy, due tesi chiave per l’elaborazione del suo Teatro della Crudeltà, che vennero infatti riprese dapprima in rivista, “La Nouvelle Revue Française”, e poi inserite nella raccolta Il Teatro e il suo doppio, uscita nel 1938. Si tratta delle due famose conferenze La messinscena e la metafisica del 10 dicembre 1931 e Il Teatro e la Peste del 6 aprile 1933. Sovrapporre anche questi ultimi avvenimenti della vita dei due artisti può aiutare a comprendere perché in “Dimanche” Klein elegge, tra gli altri, proprio Antonin Artaud quale maestro del vuoto e precursore delle sue teorie fondate su un’assimilazione radicale del teatro alla vita. “Dimanche”, “ultima forma di teatro collettivo”, non era infatti solo la realizzazione di quel “vivere in costante spettacolo” che Klein annunciava già nella Conférence, di quel teatro che sarebbe dovuto essere “la vita tangibile materiale, affettiva e spirituale di tutti i giorni” e non più esistere come “un mondo artificiale a parte”, ma ovunque e allo stesso momento17; esso era anche l’esempio pratico e concreto di quanto Artaud non era riuscito ad applicare e rappresentare con i Cenci e di ciò che era andato dunque a cercare in Messico, dove, a differenza dell’Occidente, l’arte teatrale era ancora nella vita stessa: la “cosa preziosa”, come scrisse a Jean-Louis Barrault da Città del Messico nel giugno 1936, cioè “il vero dramma”, che forse, profetizzava, non si sarebbe più svolto “sul palcoscenico”18. Quella confusione tra attore e spettatore che provocava “Dimanche”, per il semplice fatto che acquistando il giornale si partecipava attivamente all’evento in uno spazio, la città intera, affrancato dai vincoli di scenografia, di dimensione scenica e, soprattutto, di rappresentazione per impregnarsi ovunque, sembrava risuscitare l’idea artaudiana di spettacolo totale, di uno spettacolo che mettesse in diretto contatto non solo tutte le parti dell’organismo, conscio e inconscio, spirito e corpo, ma anche gli individui tra loro, facendo cadere, per esempio, le barriere tra la scena e il pubblico. Se la comunicazione 17) Yves Klein, “Les cris bleus de Charles Estienne ou Du vertige au prestige”, 17 janvier 1959, in Le Dépassement de la problématique de l’art et autres écrits, op. cit., p. 401. 18) Antonin Artaud, De quelques problèmes d’actualité aux messages révolutionnaires, OC VIII, pp. 312-313.

si fa così contaminazione, in cui sembra riconoscersi anche l’impregnazione di Klein, il quale, come afferma già nel suo Diario del 1957, è “riuscito a sopprimere lo spazio davanti al quadro, nel senso che la presenza del quadro invade questo spazio e il pubblico stesso”19, il teatro diventa un’epidemia paradossalmente terapeutica perché, da una parte, guarisce dalle separazioni all’interno dell’essere e, dall’altra, contagia, altera, “svuota collettivamente gli ascessi”20. Anche la pittura, per la sua “armonia visiva fulminante”21, può essere contagiosa quanto la peste: la sua carica plastica fa irruzione nella lingua e permette alla poesia di entrare nello spazio. Peinture era il titolo inizialmente previsto della conferenza di Artaud La messinscena e la metafisica, il cui manoscritto era conservato proprio da Colette Allendy. Il testo indica infatti nel quadro di Luca da Leida, Le figlie di Loth, che tanto aveva colpito Artaud al Louvre, non solo quello che dovrebbe essere il teatro, ma anche, in generale, il modello di riferimento per una parola che voglia riconquistare materialità e densità. La pittura, arte delle immagini, “soffio visivo”, secondo una definizione di Bernard Noël, si presenta dunque come il “doppio” sinestetico di ogni vera poesia consistente in un linguaggio più concreto e fisico, più “spaziale e colorato”22, dove alle parole si sostituiscono gesti, suoni, grida. E blu erano proprio le grida che Klein pretendeva lanciasse Artaud e che fece ascoltare durante la Conférence, insieme a quelle dell’amico Charles Estienne, critico d’arte che, tra l’altro, aveva recensito l’8 giugno 1946, sulla rivista “Combat”, la serata in omaggio al rientro di Artaud a Parigi, tenutasi al teatro Sarah Bernhardt. Il pittore però rimproverava ad Artaud di preoccuparsi ancora dell’articolazione linguistica, di avere un attaccamento troppo tradizionale alla parola, mentre egli non giudicava necessario disarticolare il linguaggio, ma ridurlo al silenzio. In realtà, affermando in “Dimanche” che “il ‘Verbo’, in questa a-forma, non è ‘Parola’ 19) Yves Klein, “Quelques extraits de mon journal en 1957”, in Le Dépassement de la problématique de l’art et autres écrits, op. cit., p. 46. 20) Antonin Artaud, “Le Théâtre et la peste”, in Le Théâtre et son double, OC IV, Gallimard, Paris 1978, p. 30. 21) Id., “La Mise en scène et la Métaphysique”, in ibidem, p. 33. 22) Id., “Sur le théâtre balinais”, in ibidem, p. 60.


provare a spingersi sempre più in là… è la logica dell'onestà oppure non angosciarsi più di tanto vivere bene vivere felici essere irresponsabili è questo in fondo è la responsabilità che impone la consapevolezza che si può sempre fare meglio il perfezionismo in fondo io sono un perfezionista ma sarà un male questo perché non si è mai felici lo sappiamo tutti che c'è di meglio e che si può fare meglio esiste un meglio esiste un oltre mai soddisfatti… e poi d’altra parte essere soddisfatti è mediocre si sta qui belli soddisfatti non si sa più cosa fare e non si fa nulla perché altrimenti non si è più soddisfatti si segue la filosofia del dell'immobilismo dell'essere e basta sapendo che esistono migliaia di altre possibilità è questione di temperamento io so chi ci spinge chi spinge la gente come me a cercare oltre eppure è là dove si è che è interessante anche bisognerebbe nello stesso tempo riuscire a rimanere là dove si è insomma è l'equilibrio è l'equilibrio che conta come sempre l'eterno equilibrio davvero la Francia è il paese dell'equilibrio è quello che si dice e io non lo so ma è certo anche che è da quando sono tornato qui dal mio viaggio di tre mesi in America che mi sento di nuovo capace di pensare a quest'equilibrio che non osservo per niente che non conosco affatto ancora e che ammiro e che invidio e che nondimeno vorrei capire che vorrei vivere quest'equilibrio creatore onnipotente e tranquillo nello stesso tempo calmo e dinamico e esclusivo nello stesso tempo.” YVES KLEIN

articolata e neppure disarticolata” e, più in là, che “il Verbo è la carne”, Klein non è molto lontano dalla convinzione artaudiana di non doversi attardare sulle forme, ma di distruggerle, bruciarle, anzi, successivamente, per immergersi nel bagno delle forze vitali. Klein e Artaud condividono lo stesso rifiuto della forma, dell’oggetto artistico distinto dalla vita, del soggetto psicologico e separato, in nome di un ritorno allo stato primitivo di materia, di vita diffusa, di contatto diretto tra l’uomo e le energie dell’universo che lo circondano, che lo sommergono integralmente fino ad annientarne l’io e a farne emergere invece la “carne impersonale”23. L’uomo di Artaud che si muove in mezzo alle forme “come una vasta respirazione”24 corrisponde all’“individuo anonimo creatore”25 di Klein che dispiega nel monocromo le grandi pulsazioni ritmiche del cosmo. Questa partecipazione con il Tutto che il lavoro di creazione deve rappresentare è “sempre distinta dalla forma, è l’essenza dell’immediato, la traccia dell’Immediato”26. I tentativi di giungere a una certa “spersonalizzazione” dell’arte, a una pura “presenza onnipotente e anonima”27 condussero Klein ad abbandonare il pennello e a dipingere dapprima con il rullo, secondo lui strumento meno psicologico, poi con il fuoco, realizzando pitture e monocromi in parte bruciati che ricordano i famosi “sorts”, lettere maculate e bucate dalla sigaretta, veri e propri atti magici carichi di potere premonitore e incantatorio che Artaud inviava ad amici e personaggi storici. Anche le performance in cui a dipingere era direttamente il corpo della modella intriso di pigmento blu permettevano a Klein di mantenere una certa distanza dall’opera. Le prime ricerche sulle impronte umane, in seguito chiamate antropometrie, vennero create a casa di Robert Godet nel 1958. Quest’ultimo, fondatore di una scuola di judo ed esperto di filosofie orientali, era anche l’editore 23) Yves Klein, “Brevet d’invention pour un ‘Procédé de décoration ou d’intégration architecturale et produits obtenus par application dudit procédé’”, in Le Dépassement de la problématique de l’art et autres écrits, op. cit., p. 162. 24) Antonin Artaud, Le Théâtre et les dieux, op. cit., p. 165. 25) Yves Klein, “Vitesse pure et stabilité monochrome”, in Le Dépassement de la problématique de l’art et autres écrits, op. cit., p. 67. 26) Id., “Manifeste de l’hôtel Chelsea”, New York 1961, in ibidem, p. 305. 27) Id., “Origines de la carrière picturale”, in ibidem, p. 431.

di Michaux, Bataille e Desnos. Propose ad Artaud nel 1943, quando si trovava già a Rodez, di riprendere in volume D’un voyage au pays des Tarahumaras, pubblicato nell’agosto 1937 presso “La Nouvelle Revue Française”. Il progetto non venne però realizzato e il libro uscì soltanto nel 1945 a cura di Henri Parisot. È proprio a partire da quel viaggio in Messico del 1936 che Artaud scrive le pagine più signicative sulla “nozione della necessità del vuoto”28. Ancora una volta non sappiamo se Klein abbia potuto accedervi, ma sicuramente conosceva, come testimonia un suo appunto riportato in nota a “Dimanche” e conservato agli Archivi, Les Nouvelles Révélations de l’être, testo pubblicato un anno più tardi, in cui lo scrittore francese s’identificava chiaramente con il vuoto. Ed è infine dal contatto con le tracce dell’arte messicana e con i segni delle montagne Tarahumara che Artaud approfondisce in particolare un’idea dello spazio che si sviluppa dal vuoto, come punto centrale però da cui nasce la vita, come punto “intorno al quale s’inspessisce la materia”29. Se una riflessione sull’immaterialità non può essere disgiunta da considerazioni sulla materia e sullo spazio, non è stato dunque paradossale e antitetico in questa sede avvicinare due personalità e due esperienze artistiche a prima vista tanto diverse quanto quelle di Klein e di Artaud. L’uomo kleiniano che sfida le leggi gravitazionali saltando nel vuoto sembra essere, in quest’ottica, l’altra faccia dell’uomo artaudiano contro il destino che “va dal vuoto verso il pieno e quando raggiunge il pieno può ricadere nel vuoto”30, vertiginosamente.

28) Antonin Artaud, Notes sur les cultures orientale, grecque et indienne, OC VIII, p. 104. 29) Id., Le Théâtre et les dieux, op. cit., p. 166. 30) Id., “L’Homme contre le destin”, in Messages Révolutionnaires, Gallimard, Parigi, 1971.


Domenica 27 novembre 1960 (Il giornale di un solo giorno) 1960 (27 novembre) Stampa tipografica recto-verso in bianco e nero, foglio doppio, prima pagina 55,5x38 cm



Domenica 27 novembre 1960 (Il giornale di un solo giorno) 1960 (27 novembre) Stampa tipografica recto-verso in bianco e nero, foglio doppio, prima pagina 55,5x38 cm



Traduzione di Elena Palumbo Mosca. dalle ore 00.00 alle ore 24.00 Domenica 27 Novembre YVES KLEIN PRESENTA: Domenica 27 novembre 1960 FESTIVAL DELL’ARTE D’AVANGUARDIA Novembre – Dicembre 1960 NUMERO UNICO Il giornale di un solo giorno la Rivoluzione blu continua

Attualità

Nel quadro delle rappresentazioni teatrali del Festival dell’Arte d’Avanguardia di novembredicembre 1960, ho deciso di presentare una forma ultima di teatro collettivo: Una domenica per tutti. Non ho voluto limitarmi a una mattinata o una serata. Presentando la domenica 27 novembre 1960, dalle ore 0 alle 24, presento quindi un giorno di festa, un vero spettacolo del vuoto, all’apice delle mie teorie. Però si sarebbe potuto utilizzare qualsiasi altro giorno della settimana. Desidero che in questa giornata regnino la gioia e il meraviglioso, che nessuno senta ansia e panico e che tutti, attori-spettatori, consapevoli o anche inconsapevoli di questa gigantesca manifestazione, passino una bella giornata. Che ognuno entri o esca, vada in giro, si muova, si muova o resti tranquillo. Tutto ciò che pubblico oggi in questo giornale è anteriore alla presentazione di questo giorno storico per il teatro.

TEATRO DEL VUOTO Il teatro si cerca da sempre; si cerca fin dal suo perduto inizio. In realtà, il grande teatro è l’Eden; l’importante è stabilire una volta per tutte le nostre posizioni statiche, ciascuno in modo individuale e non più personale nell’universo. Da molto tempo ormai annuncio dovunque che sono il pittore…. Non ne conosco altri oggigiorno ! Tengo anche a dire: “Sono l’attore, sono il compositore, l’architetto, lo scultore.” Tengo a dire: “Io sono”. Mi si ribatterà senza dubbio che questo è già stato urlato in mille modi e maniere diversi: è certamente giusto. Quindi, forse io lo ripeto: consapevole però, ben consapevole d’aver ottenuto il diritto di dirlo: ed ecco che, per me come per tutti, non c’è più niente da fare; il teatro ufficiale, oggi, è “essere” ed io “sono” proprio effettivamente tutto quello che si vuole che io “sia” e perfino tutto quello che non si vuole che io “sia” ! Arriverò perfino, un giorno, a non “essere” più per niente affatto!.... Ma, che non ci si sbagli: quando dico: io, me, mio, etc. , non si tratta di me. È perché lo spirito in cui vivo è uno spirito di meraviglia stabilizzato e continuo - uno spirito classico - che io non ho nessun carattere d’avanguardia, dell’avanguardia che, essa sì, invecchia così in fretta, da una generazione all’altra. La mia arte non apparterrà a questa epoca, come neppure l’arte di tutti i grandi classici non è appartenuta alle epoche in cui sono vissuti, perché io, come loro, nelle mie realizzazioni cerco prima di tutto di creare la “trasparenza”, il “vuoto”incommensurabile in cui vive lo spirito permanente ed assoluto, liberato da ogni dimensione ! No, non mi lascio trascinare dal mio ruolo, parlando oggi di un teatro del vuoto con una tale premessa orgogliosa, egocentrica e senza dubbio perfino vanitosa, in apparenza: il mio teatro acquisirà un valore universale proprio se i miei compagni conosceranno il mio pensiero meglio di quanto lo conosca io, perché, se sono migliaia, lo rifletteranno migliaia di volte mentre io, sono solo. Mi rendo conto benissimo che, scrivendo queste righe con ciò che potrebbe sembrare una specie di complesso del più forte, mi presento da solo. A chi fosse abbastanza cieco e maldestro per concedermi il vantaggio di attaccare la mia esasperazione del mio “Io”, farò notare che è certo facile trascinarmi alla sconfitta, però a quel tipo di sconfitta che è come le vigilie delle grandi vittorie definitive per coloro che entrano nel gran gioco e che sanno esporsi. Ho lottato contro la mia vocazione di “pittore” andando in Giappone per vivere l’avventura del judo e delle Arti Marziali antiche; nello stesso modo, ho lottato contro la mia vocazione di “uomo di teatro”; però proprio con il Judo, attraverso la pratica fisica e spirituale dei “Kata”, si è realizzata mio malgrado la mia formazione in quella disciplina dell’arte che è il teatro, in modo imprevedibile ma altrettanto proficuo e profondo, se non ancora di più, di qualsiasi altro. Nel presentare il seguito, obbedisco ad una

necessità profonda, agisco come un realista pieno di buonsenso. Mi piacciono Molière e Shakespeare perché nella loro opera si trova quella trasparenza del vuoto che mi affascina. Per me “teatro” non è affatto sinonimo di “Rappresentazione o di “Spettacolo”. Alcuni studiosi importanti che erano davvero d’avanguardia, come TaÏrov, per esempio, volevano teatralizzare il teatro. Evreinoff sognava del monodramma, della teatralità nel quotidiano, pensiero-gesto-parola. Stanislavsky, realista estremista, avrebbe auspicato la morte effettiva e definitiva dell’attore che deve recitare la sua morte in scena. Il precursore Dada, Vakhtangov, rinchiuse il pubblico per due ore, con il solo cinico scopo di rinchiuderli, semplicemente. D’altronde quest’avvenimento faceva parte del suo “teatro della rivolta” e s’intitolava La Serata insolita. IL cecoslovacco Burian creò un teatro sintetico: i personaggi del suo testo, Romeo e Giulietta, erano macchine fantastiche ed infernali che si muovevano sul palcoscenico mentre gli attori fra le quinte dicevano il testo. Amphithéatroff presentava delle scenette laconiche di dieci minuti, interrotte da discussioni che evidentemente facevano parte del programma. Il che gli farà sovente dichiarare al suo pubblico, per il quale scriveva su ordinazione, che era disposto a sopportare pomodori e uova marce, ma le pietre, assolutamente no. I fonografi, de “Gli sposi della Tour Eiffel” di Jean Cocteau, sono anche dei bei fenomeni. Sarebbe troppo lungo citare qui tutti i tentativi fatti dall’inizio del secolo nel campo della rappresentazione teatrale per uscire dalla convenzione, dalle idee ricevute, dall’accademismo. Credo che sia stato fatto quasi di tutto, fino a Jacques Polieri, ultimamente, con la sua regia del testo di Tardieu, in cui si sentono delle voci sul palcoscenico, dove si trovano tre schermi, unica scenografia e presenza (La sua idea, d’altronde, è di far vivere e parlare la scenografia.) Benissimo ! – Che fortuna, che tutto questo sia esistito, attenzione però, avverto bene il lettore, la mia opera teatrale non ha nulla, assolutamente nulla a che vedere con questi orientamenti o ricerche, tranne, forse, con Antonin Artaud, che presentiva quello che io qui oggi propongo. Tuttavia Artaud, come molti altri “Grandi” del vero teatro, si perdeva in quella falsa concezione artificiale e intellettuale del Verbo, che ha messo tanti, per così tanto tempo, su una falsa strada. Quanto a me, so una cosa sola: che “all’inizio era il Verbo, e il Verbo era Dio”. Due volte “essere”, e due volte “Verbo”, più “Dio”: cinque punti in tutto che, se li si medita un po’, dicono proprio quello che vogliono dire: il “Verbo”, in questa a-forma, non è “Parola” articolata, e neppure non articolata. Quel che desidero: niente ritmo, soprattutto mai più ritmo ! E poi la mia opera non è una “ricerca”, è il mio solco. È la materia stessa della vertiginosa velocità statica con la quale, stando sul posto, mi slancio nell’immateriale ! E attenti, ancora, tengo

Il teatro deve essere, o perlomeno deve cercare di diventare rapidamente il piacere di essere, di vivere, di passare dei momenti meravigliosi e di capire meglio ogni giorno la bellezza del presente. Tutto ciò che pubblico in questo giornale sono le mie tappe verso questo giorno glorioso di realismo e di verità: il teatro delle operazioni di questa concezione del teatro che io propongo non è soltanto Parigi, la città, ma anche la campagna, il deserto, la montagna, il cielo stesso, e lo stesso universo, perché no? So che inevitabilmente tutto funzionerà benissimo per tutti, spettatori, attori, macchinisti, direttori ed altri. Tengo a ringraziare Jacques Polieri, direttore del Festival dell’Arte d’Avanguardia, per il suo entusiasmo nel propormi di presentare questa manifestazione: “ La Domenica 27 novembre”. Yves KLEIN

veramente a precisare che, quando parlo della mia opera, non dico: “È molto più bella perché è inutile !”. No, dico: “È così, sarà così, e nessuno potrà mai impedire che sia così” ! Perché, appunto, è “classica” !” …. Così, molto rapidamente, si arriva al teatro senza attore, senza scenografia, senza spettatore… null’altro che il creatore da solo, che non è visto da nessuno, se non dalla presenza di nessuno, e il teatro- a-spettacolo incomincia ! L’autore vive la sua creazione: è il proprio pubblico, il proprio trionfo oppure il disastro. Rapidamente, l’autore non c’è più neanche lui, eppure tutto continua…. ….Vivere una manifestazione costante, conoscere la permanenza di essere: essere qui, dappertutto, altrove, dentro e fuori, una specie di sublimazione del desiderio, una materia imbevuta, impregnata nel “dappertutto”…. e tutto continua, mono-teatro, al di fuori del mondo psicologico finalmente… L’avvenire del teatro: è una sala vuota, non è più una sala ! Da allora, questo manifesto del 1954 mi ha ispirato delle proposte di mediazione come queste: creare una specie di teatro privato, da frequentarsi (affettivamente) mediante abbonamento. I soci, in cambio della loro quota d’iscrizione, ricevono un posto a loro nome nella sala vuota del teatro in cui ha luogo la manifestazione continua senza attore, senza spettatore, etc. Questa a-rappresentazione continua, in una sala in cui, da quando è stata installata non entra più nessuno, deve avere dei momenti più intensi di altri, segnalati agli abbonati, in partenza, con un programma che ricevono per posta o in qualche altro modo ! In questi momenti particolari, preferibilmente la sera, o al mattino presto, allo spuntar del sole, il teatro deve essere illuminato e brillante, che lo si veda bene dall’esterno (la situazione ideale per questo tipo di teatro, per ora, sarebbe a Parigi, il teatro Marigny, per esempio). Lo ripeto ancora una volta: tutto è chiuso, nessuno può entrare, è aperto soltanto il botteghino all’entrata, in modo che i ritardatari o i non abbonati possano procurarsi i posti di chi all’ultimo momento non è venuto, come in ogni manifestazione. Il direttore di un simile teatro dovrà andare alla ricerca degli attori adeguati in città, in campagna, o durante lunghi viaggi fatti apposta per questo, rinnovando così continuamente la compagnia. Sceglierà gli attori per la strada, dappertutto oppure altrove, e dovranno firmare subito un contratto definitivo, con un anticipo sui loro onorari. Il nuovo attore così scelto non dovrà fare nient’altro se non sapere che è un attore, e passare a prendere il suo cachet dopo ogni seduta, oppure “nel momento di iperintensità” indicato nel programma degli abbonati. Dopo essere stato così ingaggiato, l’attore fuggirà, carico di questa sua nuova e grave responsabilità d’essere un attore, e si dileguerà nella folla, nella società, per diventare finalmente un visitatore serio del gigantesco museo del tempo passato che è diventato il mondo moderno oggigiorno!


Pura sensibilità Una piccola sala. Gli spettatori, dopo aver pagato regolarmente il biglietto d’entrata, abbastanza caro… penetrano nella sala e si siedono al loro posto. Il sipario è abbassato. La sala illuminata.

Non appena la sala è piena, un uomo si presenta sul palcoscenico, davanti al sipario ancora abbassato e dichiara: “Signore e Signori, viste le circostanze, stasera saremo costretti ad incatenarvi alle vostre rispettive poltrone (e per di più, ad imbavagliarvi) durante tutta la rappresentazione. Questa misura di sicurezza è necessaria per proteggervi da voi stessi, di fronte a questo spettacolo particolarmente pericoloso, da un punto di vista puramente affettivo ! Esprimiamo in partenza il nostro rammarico alle persone che non possono sopportare d’essere così imbavagliate e legate prima che si alzi il sipario, e le preghiamo gentilmente di aver la cortesia di uscire dalla sala per farsi rimborsare all’uscita. Nessuna persona sarà tollerata nella sala durante lo spettacolo se non è solidamente incatenata alla sua poltrona. Grazie.” …. Subito, penetra nella sala un gruppo di incatenatori-imbavagliatori che, sistematicamente, una fila dopo l’altra, paralizzano rapidamente tutti gli spettatori. Quando tutto è pronto, la sala diventa buia… Il sipario si alza lentamente con uno scoppiettìo continuo, simile al frizzare della gazzosa appena stappata, ma amplificato prodigiosamente. È un’inondazione sonora, monotona, che impregna volumetricamente lo spazio, percettibile dall’udito sensibile di ogni spettatore. In scena: una sala vuota bianca, bianchissima: tutti gli angoli sono arrotondati… Tutto è vuoto, assolutamente vuoto, con lo scoppiettìo ! (Nel caso in cui gli spettatori non fossero imbavagliati, bisognerebbe togliere il suono). In sala, delle bellissime ragazze, nude o al massimo in bikini, passano tra le file degli spettatori come delle maschere-hostess e li riconfortano, rimettono a posto catene e bavagli, dicono che ora è e per quanto tempo devono ancora sopportare lo spettacolo (dei bellissimi giovani, anche loro nudi o in bikini, si occupano delle spettatrici). Dopo la prima mezz’ora, lo scoppiettío a poco a poco si spegne, si dissolve completamente, e un’altra mezz’ora trascorre nel silenzio assoluto per gli spettatori, che sono sempre di fronte alla scena vuota, bianca e illuminata brillantemente. Il sipario si abbassa. La luce si accende di nuovo in sala. I gruppi di incatenatori tornano e liberano gli spettatori da bavagli e catene.

Il pittore dello spazio si getta nel vuoto ! Il Monocromo, che è anche campione di judo, cintura nera 4° Dan, si allena regolarmente per la levitazione dinamica ! (con o senza rete, rischiando la vita). Sostiene di essere in grado di raggiungere ben presto nello spazio la sua opera preferita: una scultura aerostatica formata da Mille e Uno palloncini blu, che nel 1957 era fuggita dalla sua mostra nel cielo di Saint Germain des Prés per non tornare più! Liberare la scultura dal suo piedestallo è stata per molto tempo la sua preoccupazione. “Oggi il pittore dello spazio deve andare effettivamente nello spazio per dipingere, ma deve andarci senza trucchi e senza inganni, non in aereo, in paracadute o con un razzo: deve andarci da solo, con la sua forza individuale autonoma, in una parola, deve essere capace di levitare.” Yves: “Sono il pittore dello spazio. Non sono un pittore astratto, anzi: sono un figurativo e un realista. Siamo onesti, per dipingere lo spazio, ho il dovere di andare sul posto, nello spazio stesso.”


Cattura del vuoto Una città intera, addirittura una capitale, oppure, ancora meglio, un Paese intero, deve servire da palcoscenico e scenografia. Lo Stato stesso annuncia la data della rappresentazione in tutto il territorio. Il giorno previsto, esattamente all’ora prevista, tutti tornano a casa, si chiudono a doppia mandata e fuori tutto è vuoto di qualsiasi essere umano per due ore. Per strada non c’è più nessuno, nessuno negli uffici amministrativi e altri luoghi pubblici, più nessuno in campagna, tutto è

chiuso, tutti sono a casa e non si muovono. Il territorio, agli occhi dello Spazio, deve sembrare completamente vuoto di persone vive per due ore! ….Ma allora dei compagni fedeli saranno a casa mia, intorno a me, e mi butteranno fuori mio malgrado, perché avrò paura, e sarà necessario espellermi letteralmente, fuori nel vuoto delle strade e della campagna, di fronte alla natura e a tutto. A dire il vero, sarà soltanto un passo sul

I ladri d’idee

Quando l’urbanismo dell’aria e ancora e soprattutto - dopo questa fase - quando sarà stata compiuta l’immaterializzazione totale e definitiva dell’architettura, cioè quando vivremo il Paradiso perduto, di nuovo nella natura climatizzata, nudi, senza nessun ostacolo artificiale, è certo che la nostra concezione attuale dell’intimità sarà ben diversa. Vedremo continuamente tutto ciò che oggi è segreto e nascosto agli altri, e gli altri vedranno lo stesso di noi, in tutti i minimi avvenimenti della nostra vita quotidiana. La nostra sensibilità sarà allora sviluppata in modo che diventerà possibile perfino considerare la possibilità fra noi di vedere i nostri pensieri più profondi. Questi pensieri non saranno né letti intellettualmente né percepiti, saranno “presi”, e piuttosto per impregnazione, per “sensibilità”, sempre, piuttosto che per penetrazione psicologica: perché lo psicologico sarà allora scomparso completamente o quasi. Tuttavia, se tutti gli uomini riusciranno a conquistare questa possibilità di “sognare nei sogni

degli altri”, come oggi si rubano delle idee, le idee cosiddette “nell’aria nuova” - che alcuni captano più rapidamente degli altri, ed altri realizzano più rapidamente di alcuni - , ci sarà sempre “il poeta” che, aldilà del sogno vero e proprio, conoscerà la “transe” illuminata del contatto col centro affettivo di ogni cosa, con la “gioia” come materia prima, quella gioia che, alta e profonda, è al di fuori delle dimensioni ed è all’origine della vita stessa.

Questa rappresentazione è un’anticipazione di questo stato delle cose, prende ancora in considerazione molte aspetti dell’atmosfera psicologica nella quale viviamo ancora attualmente, per mostrare appunto che l’idea che “un giorno non vi saranno più idee” avrà allora la sua vera funzione, il suo vero valore. Sarà il “silenzio”, generatore di ogni cosa in ognuno di noi. La scena può essere sia triangolare, composta da due schermi bianchi trasparenti sui quali il film sarà proiettato da dietro le quinte, sia semicircolare, con un unico schermo, che sarà allora panoramico, per presentare sempre il film-scenografia dalle quinte. Tutto è bianco immacolato, anche il suolo, anche il soffitto. Quando si alza il sipario, passano trenta secondi, mostrando la scena vuota violentemente illuminata. Poi, con l’inizio di un tono continuo l’illuminazione diventa meno intensa, fino al momento in cui sugli schermi (o sullo schermo panoramico) viene proiettato un film. In platea sono seduti fra gli spettatori, abbastanza lontani fra loro, due attori che improvvisamente si alzano, si vedono e si fanno dei cenni d’amicizia, decidendo di andare ad incontrarsi sul palcoscenico. Attraversando le file di spettatori, si dirigono verso il palcoscenico. Adesso la proiezione del film sulla scena è incominciata: un paesaggio ridente, degli alberi, delle colline, un fiume, il tutto è soleggiato, in un’atmosfera molto alla Renoir, con una prospettiva meravigliosa e indefinibile in lontananza, all’orizzonte. Il suono continuo si è trasformato in una dolcissima musica pastorale. L’attore che viene da sinistra arriva per primo sul palcoscenico e contempla incantato il paesaggio. L’attore che viene da destra arriva secondo, contempla un attimo lo stesso paesaggio anche lui esclamando: “Fa bello, oggi !” L’attore che si trova a sinistra ha un fremito a queste parole e nel paesaggio, dalla sua parte, si alza il vento. Nel soffio del vento, una voce, la sua: “ Eppure l’avevo pensato io per primo !” L’attore a destra: “Che paesaggio meraviglioso!” L’attore a sinistra riceve queste parole come un pugno nello stomaco e si gira verso il pubblico, convulso, mostrando un viso sconvolto… Nel paesaggio, dalla sua parte, si ammassano delle nuvole e il vento raddoppia di violenza. La voce, nel vento, dice: “L’avevo visto prima di lui ! ...” , “È lui, è il ladro d’idee !” E così, da idea a idea,

Dal vertiginoso al prestigioso (1957 – 1959) Da anni, mi esercito per levitare e conosco bene i mezzi per riuscirci effettivamente (le cadute, nel judo). Da un lato, c’è il vampirismo notturno leggendario e tradizionale, con l’immobilità fisica assoluta durante il giorno. È una questione di diastole e sistole, e c’è d’altronde nell’individuo la liberazione effettiva della personalità in tutti i suoi aspetti, attraverso l’esasperazione dell’Io praticata fino ad una specie di sublimazione purificatrice assoluta. Ho dichiarato recentemente, nel gennaio 1959, in una mia comunicazione in Germania, che l’artista di domani, liberato dal mondo psicologico, creerà e ricreerà se stesso, capace di levitare in totale libertà fisica e spirituale. Ho già fatto dei tentati-

vi di realizzare opere di questo genere, come le sculture volanti aerostatiche del 1957, composte di mille e uno palloncini blu, come pure l’esperienza dell’obelisco della Place de la Concorde illuminato di blu notte, mentre il piedestallo restava nell’ombra, e come i vapori dell’inaugurazione dell’epoca blu nel 1957. È ciò che io chiamo da sempre il passaggio dal vertiginoso al prestigioso (liberazione dalla schiavitù del piedestallo nella scultura). E così, mi piacerebbe davvero presentarmi sulla scena di un teatro, sdraiato nello spazio a qualche metro dal suolo, senza trucco e senza inganno, per almeno cinque o dieci minuti, e il tutto senza commenti.

cammino della reale “cattura del vuoto”, che avverrà dopo la mia scomparsa definitiva, durante una di quelle solenni sedute nazionali. Tale “cattura del vuoto” sarà realizzata da coloro che avranno capito questo pensiero, o piuttosto questo principio e che lo vivranno come un’azione pura e statica, in modo del tutto naturale, finalmente.

da futili constatazioni a constatazioni futili e universali rimaste senza valore e senza proprietario, l’attore che sta a sinistra prova tutti i tormenti di sentire tutto per primo e di ascoltare l’altro, l’attore a destra, enunciare tutto prima di lui. L’opera teatrale è quasi un monologo, dato che l’attore a destra parla sempre, in piedi davanti agli schermi, la schiena agli spettatori oppure, di tanto in tanto, guardando il suo amico che si torce sempre più dalla disperazione vicino a lui, con una serie di gesti che esegue a volte girato verso gli spettatori, a volte verso il film-scenografia. Il film, in rapporto stretto con le idee sempre rubate, può proiettare qualsiasi tipo d’avvenimento pensato dall’attore a sinistra, che derivi dalla prima constatazione del paesaggio soleggiato. Lo sfondo sonoro è composto evidentemente dallo svolgersi del tutto. E così, da una sciocchezza all’altra, quello che viene sempre derubato si trasforma in un relitto abbattuto, che pensa sempre per primo, anche se è reso impotente da ogni genere di cose sempre più grandi, trovandosi così effettivamente sempre più derubato. (Si possono proiettare su di lui, con dei proiettori combinati, moltissimi colori violenti per rappresentare il suo sconvolgimento emotivo. L’attore che sta a destra resta sempre in piedi, nel suo spazio, il sole brilla e il paesaggio resta sempre uguale; è felice. Nella sala, si alza una giovane fra gli spettatori in platea, e si dirige verso il palcoscenico. L’attore a sinistra la vede per primo. L’attore a destra tuttavia, ancora per primo, dice: “Com’è bella!” La giovinetta sorride e lo raggiunge sul palcoscenico, si guardano, si girano intorno, si prendono per mano…. Improvvisamente, la giovane vede il relitto vivente, per terra, a lato, nella zona in cui tutto è scuro, spiacevole e disastroso. Attirata naturalmente da chi soffre, abbandona bruscamente le mani dell’attore di destra e va direttamente a inclinarsi sull’attore a sinistra, che si torce dal dolore per terra, divorandola con gli occhi. Lo rialza dolcemente. La barriera mentale è stata elevata, l’attore a sinistra ha in testa l’immagine della compagna che è venuta istintivamente in suo aiuto. L’amore non permette più all’altro di vedergli le idee. Il paesaggio meraviglioso ritorna dalla sua parte, la giovinetta va in giro. Contemporaneamente, cala una brusca oscurità nello spazio dell’attore a destra, che scompare ! (I dialoghi sono in corso di preparazione).

Balletto del fuoco In un giardino: un immenso schermo emisferico di carta bianca ignifugata, in modo che il fuoco di una saldatrice la attraversi senza infiammarla. Il pubblico, seduto davanti a questa superficie bianca uniforme, vede apparire improvvisamente una fiamma, dopo che, in una frazione di secondo, ha aperto un foro. La fiamma scompare – dietro lo schermo di carta, degli uomini muniti di lampade saldatrici, disegnano così col fuoco dei vuoti su tutta la superficie dello schermo.


Vieni nel vuoto con me Dipingo quasi sempre con un modello e da qualche anno ormai, addirittura con la cooperazione effettiva del modello. Da molto tempo mi chiedevo perché i pittori figurativi o perfino gli astratti a volte, come Fautrier, per esempio, avessero bisogno di dipingere dei nudi. Non bastava il motivo della ricerca di una forma umana viva da disegnare e da copiare direttamente: sentivo che c’era altro. Il modello nudo porta sensualità nell’atmosfera. Attenzione ! Non sessualità ! Il modello crea nell’atelier - come eventualmente all’esterno - il clima sensuale che permette di stabilizzare la materia pittorica. È il semplice buonsenso, che non si deve abbandonare quando l’artista si rinchiude nelle sfere creative dell’arte, con il valore della carne come centro di gravità - nel senso della vera fede cristiana che dice: “Credo all’incarnazione del Verbo, credo alla risurrezione dei corpi” - ed è qui di nuovo, con il vero senso del teatro del Verbo: il Verbo, è la carne! Ho quindi preso delle modelle, ho provato: era bellissimo. La carne, la delicatezza della pelle viva, il suo colore straordinario e paradossalmente così incolore mi affascinavano. Le mie modelle ridevano molto nel vedermi dipingere allora degli splendidi quadri monocromi, di un blu ben unito ! Ridevano, ma si sentivano sempre più attirate dal blu. Un giorno, capii che le mie mani, i miei strumenti di lavoro non bastavano più per maneggiare il colore.

Era il modello stesso che mi occorreva, per dipingere il quadro monocromo… No, non era follia erotica ! Era ancora più bello. Buttai per terra una grande tela bianca, vi gettai venti chili di blu e la modella vi si tuffò letteralmente, dipinse il quadro rotolandosi in tutti i sensi con il corpo sulla superficie della tela. Io dirigevo l’operazione in piedi, girando rapidamente intorno a quella superficie fantastica lì per terra, guidando tutti i movimenti e gli spostamenti della modella. La ragazza, così entusiasmata dall’azione e dal blu visto da vicino e in contatto con la sua pelle, finiva per non sentirmi più mentre le gridavo: “Ancora un po’ più a destra, qui, ritorni qui rotolando su questo lato, venga ad applicarvi il seno destro, e via di seguito”. Non c’è mai stato niente d’erotico, di pornografico o di minimamente amorale in quelle sedute fantastiche; non appena il quadro era terminato, la modella faceva il bagno. Non le ho mai toccate, d’altronde è per questo che avevano fiducia e che a loro piaceva e piace tuttora cooperare così, con tutto il loro corpo, alla mia pittura. E inoltre era la soluzione del problema della distanza nella pittura: i miei pennelli erano vivi e teleguidati. Con me, al principio, pensavano che fossi matto: poi non potevano più fare a meno di venir a posare per me, o piuttosto, di venire a lavorare con me ! È quello che voglio rappresentare in scena, con l’accompagnamento musicale della canzone “Vieni nel vuoto con me”, di Hans-Martin Majewsky.

Quando penso a te Torna sempre lo stesso sogno Camminiamo abbracciati Sul sentiero selvaggio delle vacanze E poi, a poco a poco, Tutto sembra dissolversi intorno a noi Gli alberi, i fiori, il mare Sul bordo del sentiero Di colpo, non c’e più niente Siamo alla fine del nostro mondo Allora… Torniamo indietro? No… Dici di no, lo so Vieni nel vuoto con me ! Se un giorno tornerai Tu che pure sogni Di questo vuoto meraviglioso Di questo amore assoluto Io so che insieme Senza dover dire una parola Ci butteremo Nella realtà di questo vuoto Che attende il nostro amore, Come ogni giorno io attendo te: Vieni nel vuoto con me ! 1957

Conclusione … Se male, c’è: “…Non è quello che volevo !” Vedere nelle Naturometrie dell’epoca blu lo sviluppo pittorico di questa proposta.

Progetto per un istituto teatrale nazionale

Il contratto

Gli spettatori sono ricevuti da uno psichiatra, che li sottopone ad un esame generale di attitudine alle sedute dell’Istituto. Poi entrano tutti in una piscina, dove sono lavati e puliti a fondo da splendidi e giovani esemplari femminili della razza umana. Passano in seguito in una sauna per venti minuti, poi in una camera d’ossigenazione, dove li si sciacqua con un getto d’acqua mentre, solo attraverso il senso del tatto (passando mani e braccia attraverso dei manicotti nei muri e toccando senza vedere), possono ammirare le sculture tattili ipersensibili, che sono dei meravigliosi modelli vivi, nudi, uomini e donne, esposti a portata di mano degli spettatori dall’altra parte dei muri. In seguito, dopo l’ozonizzazione, gli spettatori vengono immersi in un sonno artificiale di ventiquattr’ore, poi risvegliati, massaggiati, sciacquati, rivestiti e cacciati fuori malamente.

Stupefazione monocroma

1° Atto

2° Atto

Si alza il sipario, sul palcoscenico l’attore e lo spettatore sono seduti uno di fronte all’altro, ai lati opposti della scena. In mezzo, un po’ più indietro, l’autore. Discussione fra i tre personaggi sul teatro di Yves Klein e su tutte le altre possibilità teatrali.

Il sipario si alza su una sala di teatro con la platea, i palchi, etc.: tutte le poltrone sono occupate da attori, c’è il pieno. La sala ricostruita sul palcoscenico è identica in ogni particolare a quella dove si trovano i veri spettatori. Al centro, fra le due sale, vari autori stanno in piedi davanti a dei tavolini e presiedono il dibattito a turno.

Gli spettatori convocati entrano in una sala vuota il cui pavimento è ricoperto di ricchi tappeti molto spessi di lunga lana bianca e dove sono loro distribuite delle pillole blu da prendere subito. Due o tre minuti dopo, i personaggi che hanno preso le pillole subiscono gli effetti dello stupefacente, cioè, un piacevole torpore dinamico nel

quale appare un immenso spazio interiore ed esteriore blu, blu unito monocromo. (Tuttavia, dentro questo blu due altri colori sembrano ben distinti e separati fra loro: l’oro e il rosa, però tutto è blu IKB unito in fin dei conti,) È la beatitudine dei paradisi artificiali in blu. Tutti stanno bene.

Le cinque sale Il legame fra lo spirito e la materia è l’energia. Il meccanismo combinato di questi tre stati produce il nostro mondo tangibile, considerato reale ma effimero. Per questo, da così tanto tempo, il teatro è spettacolo, e usciremo da questo disastro solo quando prenderemo la decisione di essere indifferenti nei confronti dell’energia. È in quel momento che avverrà l’illuminazione straordinaria ed extra-dimensionale, e si sarà in diretta nello spirito e nella materia ! La manifestazione in cinque sale, percorse dagli spettatori, che trascinano una palla al piede, è una proposta in quest’ordine d’idee.

5. – Passaggio nella sala dei nove monorosa, sempre dello stesso formato dei blu e oro delle sale precedenti (colore esatto: i.k.p.) (5) lacca di robbia rosa, uscita. 6. - Nello stesso ordine di a-idee, nel 1958 era stata prevista una manifestazione in collaborazione con Jacques Duchemin. Lo scopo essenziale era di rendere omaggio a Sua Santità il papa Giovanni XXIII. - Una grande sala quadrata. Su uno dei muri, un immenso quadro blu monocromo I.K.B., sul muro opposto un immenso quadro monocromo bianco dello stesso formato, che nel giro di trenta minuti esatti diventa blu.

1. – Entrata attraverso la sala dei nove quadri monocromi blu, tutti dello stesso formato e dello stesso blu. (I.K.B.) (1). 2. – Passaggio per la sala vuota completamente bianca e immacolata (compreso il pavimento) (I.K.I.) (2). 3. – Passaggio nella sala dei nove Monogold dello stesso oro fino 999,9 (I.K.G.) (3) e sempre dello stesso formato dei monocromi blu della prima sala. 4. – Passaggio nella sala vuota oscura quasi nera (I.K.N.) (4).

Sugli altri due muri, due quadri, sempre dello stesso formato, uno rosso e l’altro verde che, esposti all’aria della sala, dovevano dissolversi nello stesso tempo di appena trenta minuti. Tema della manifestazione: “Il Male e la Guerra che scompaiono davanti a Giovanni XXIII”. Il pubblico sarebbe stato invitato e perfino trascinato a cantare un Te Deum durante i trenta minuti della manifestazione.

(1) (2) (3) (4) (5)

I.K.B. = International Klein Bleu. I.K.I. = International Klein Immateriel (vide). I.K.G. = International Klein Gold. I.K.N. = International Klein Néant. I.K.P. = International Klein Pink.


La guerra

Piccola mitologia personale della monocromia, che risale al 1954, adattabile ad un film oppure ad un balletto. (Avvertimento: Ho voluto lasciare intatto questo testo, così come l’avevo scritto nel 1954. È vero che oggi lo trovo un po’ ingenuo e che senza dubbio non userei più gli stessi termini). Due personaggi astratti principali: la linea e il colore, che in seguito si combinano, si moltiplicano e si interpenetrano. Unica scenografia: un immenso schermo emisferico (schermo destinato a ricevere in trasparenza la proiezione di un film dalle quinte, oppure di fronte). Prima scena: Proiezione di un bianco intenso ed immacolato per quattro secondi sullo schermo. Seconda scena: Passaggio progressivo dal bianco all’oro (colore dell’oro fino 999,9), quattro secondi fissi, con l’inizio di un suono continuo e mono-tono (lunghezza d’onda dell’oro). Terza scena: passaggio progressivo dall’oro al rosa (lacca di robbia). Passaggio progressivo dal suono continuo dell’oro al suono continuo del rosa. Quattro secondi fissi di rosa sullo schermo ed insieme quattro secondi di mono-tono rosa. Quarta scena: passaggio progressivo dal rosa al blu (blu I.K.B.). Passaggio progressivo dal suono continuo del rosa al suono continuo del blu. Quattro secondi di blu fisso sullo schermo, accompagnati da quattro secondi di mono-tono blu. Quinta scena: Sull’immagine blu unito appare improvvisa, gigantesca, una mano (impronta preistorica di una mano, Castello, Spagna, Abate Breuil). Nel suono continuo, un colpo forte e drammatico. Commento: Approfittando dell’esigenza, sentita dal primo uomo, di proiettare all’esterno il proprio segno, la linea - che in realtà, nello spazio incommensurabile dall’eternità, non sta da nessuna parte però c’è, e aspetta - riesce ad introdursi nel regno finora inviolato del colore e dello spazio. Qui incomincia la composizione di musica concreta. Inizio eventuale anche del balletto. I ballerini, che finora erano sdraiati sul palcoscenico, invisibili, si alzano lentamente davanti allo schermo e incominciano a danzare il tracciato della mano gigantesca proiettata sullo schermo. Lentamente, la mano si anima sullo schermo. La mano scompare progressivamente: tre dita, poi solo più due, e disegnano nell’argilla scoperta delle tracce lineari…. Appaiono allora successivamente i tracciati fatti dalle dita preistoriche scoperte dall’Abate Breuil a Hornos de la Peña e ad Altamira, in Spagna. I ballerini, con i loro movimenti, seguono le tracce delle dita sullo schermo. Nello stesso tempo, una musica concreta lineare segue il tracciato delle dita. In questa parte del balletto l’uomo scopre tutte le forme della natura, le forme del mondo della realtà tangibile e sensuale sulla quale i suoi occhi si sono appena aperti. Scopre le forme della donna e quelle di una roccia, di un leone, di una pianta, e qui si può aggiungere una danza leggermente suggestiva, perfino erotica: la scoperta reciproca dell’emozione affettiva sensuale fra l’uomo e la donna. Poi, viene l’epoca dell’omicidio (Abele e Caino), il passaggio definitivo dal sogno alla realtà. A partire da questo momento, spetta all’eventuale coreografo dividere quanto segue in varie scene: Rapidamente dominato, il colore puro, anima universale nella quale era immersa l’anima dell’uomo nel paradiso terrestre, è imprigionato, suddiviso, tagliato, ridotto in schiavitù. Sullo schermo, proiezione delle tracce delimitate dal rosso di Hornos de la Peña o di Pech-Merle nel Lot, dei tracciati australiani della tribù Worora, Port George, dove si vedono anche dei piedi. La musica concreta continua, adattandosi alle immagini proiettate sullo schermo.

Nella gioia e nel delirio della sua astuta vittoria, la linea soggioga l’uomo e gli imprime il suo ritmo astratto, che è insieme intellettuale, materiale e affettivo. Ben presto arriverà il realismo. Dopo il primo momento di stupore, l’uomo preistorico si rende conto di aver perso la visione. Si riprende scoprendo la forma detta figurativa. Realismo ed astrazione si combinano in un’orribile miscela machiavellica, quale diventa la vita terrestre umana, ed è la morte vivibile: “La gabbia orribile”… come dirà Van Gogh migliaia di anni dopo. Il colore è asservito alla linea, che diventa la scrittura… Sullo schermo, proiezione dei cervi schematici e dei cacciatori di Nuestra Señora del Castillo, di Almadén, dell’Abbé Breuil, delle orde guerriere di Cueva della Valle del Charco dell’Agua Amarga, a Teruel. Musica concreta, con l’aggiunta di ritmi africani. Questa scrittura di una falsa realtà che si elabora, la realtà fisica figurativa, permette alla linea di organizzarsi quasi definitivamente ormai, in territorio conquistato. Il suo scopo: aprire gli occhi dell’uomo sul mondo esterno della materia che lo circonda e aprirgli il cammino verso il realismo. Nell’uomo si allontana la visione interiore del colore senza però riuscire ad abbandonarlo del tutto: al suo posto si crea una specie di vuoto atroce per gli uni, sconvolgente oppure meraviglioso e romantico per gli altri, che diventa la vita interiore, l’anima straziata dall’attualità della linea.

È nel monocromo infatti l’eccellere della pittura cinese, in particolare nell’epoca “Song”. A volte, l’artista aggiunge alle tinte piatte un “pointillé” all’inchiostro che permette di ottenere dei giochi di luce. I dipinti monocromi più antichi sono in stile severo, come il celebre rotolo di seta conservato al British Museum a Londra (opera del pittore Koukaï , IV secolo). I toni violenti, rossi e porpora, appariranno solo a partire dal XIII secolo. Tuttavia, il colore stesso riconosce che questo chiaroscuro, questa delicata pittura d’atmosfera, queste nuvole di toni e semi-toni che si sfumano senza urto dall’uno all’altro, pur essendo segnati pochissimo dal disegno, non sono una vera vittoria ! È solo un armistizio, al massimo un compromesso. Il colore non vuole una falsa liberazione. Vuole una vera vittoria, libera da qualsiasi dubbio. Ben presto, grazie a questi tentativi di coesistenza, la linea riesce a farsi amare - o piuttosto stimare – dal colore (regno del concetto forma+colore, categorie logiche della visione come della comprensione. Colore e disegno si adattano l’uno all’altro e si instaura e prende forma una vita malata, ma vivibile. Le civiltà, di fronte alla semplice apparenza di pace che regna fra i due nemici, si consacrano alle arti pittoriche (nascono i grandi miti), il colore, come la linea, è messo più o meno in valore a seconda delle epoche. Sullo schermo, osservazione dei colori e delle linee in ognuna di queste civiltà. Elenco di esempi importanti che mostrano a volte la superiorità della linea, a volte quella del colore. (Deduzioni psicologiche). Linea e colore si affrontano in tutte le civiltà seguenti. Osservazione ed immagini messe a confronto sullo schermo.

Il colore sporcato, umiliato, vinto, preparerà tuttavia lungo i secoli una rivincita, una ribellione che sarà più forte di tutto. Sullo schermo, proiezione delle figure in corsa, di Bassonto, in Africa del Sud. I bisonti di Lascaux con le macchie di colore rosse e verdi. Cavalli di Lascaux, poi macchie di colore indipendenti dal disegno. Disegni astratti incisi su oggetti neolitici, ossa con incisioni, cervi trasformati in segni in Andalusia del Sud, ripresi dall’abate Breuil.

L’India, gli Etruschi, il Giappone, le civiltà dell’Asia Minore, Medio Oriente, Grecia, Roma. La religione che sovente vieta la rappresentazione figurativa nell’arte, il colore presso gli Africani; mostrare bene il “rituale”.

Seguito musicale con la Messa dei Poveri di Erik Satie. La storia della lunghissima guerra fra linea e colore incomincia così insieme alla storia del mondo, dell’uomo e della civiltà.

Le miniature irlandesi astratte, il Medioevo in Europa.

Ogni volta il colore, eroico, fa cenno all’uomo che sente il bisogno di dipingere (fenomeno del tentativo di liberarsi nello spazio da parte del corpo affettivo), un’esigenza che gli arriva da qualcosa di molto profondo in lui, aldilà della sua anima… Il colore, che il disegno rinchiude nelle forme, fa l’occhiolino all’uomo. Passeranno dei millenni prima che l’uomo senta questi appelli disperati e si metta di colpo febbrilmente in azione per liberare il colore e se stesso. Il paradiso è perduto, le linee intersecandosi diventano le sbarre di una vera e propria prigione, qual è d’altronde, sempre di più, la vita psicologica umana. Il dramma dell’inevitabile morte dei “mortali”, nel quale sono trascinati dalla coesistenza tempestosa della linea e del colore in guerra fra loro, provoca la nascita dell’arte. Questa lotta per la creazione eterna e soprattutto immortale, per giungere a trasmutare in oggetto, forma, suono o immagine - dandole forma - quell’universale anima-colore che è la vita stessa, conquistata, invasa, oppressa dalla linea, potenza magica del male e delle tenebre, terribile, perché fa morire. Dalla situazione delle forme figurative e dall’incanto che l’uomo sente nel separare il disegno dal colore - se non lo fa, gli resta sempre una vaga impressione di rimorso - nasce la scrittura. Sullo schermo, sfilata di segni importanti che illustrano sempre i primi sintomi della nascita della scrittura: vera ed unica valida missione della linea e del disegno. Geroglifici. Il colore, sollevato, respira e ridiventa puro anche se nell’antico Egitto è sempre prudentemente tenuto separato. Ogni casta ha i suoi colori (rituale dei colori). America: civiltà Azteca, Tolteca, Maya. In Cina, il colore sembra liberarsi con un mezzo, un’astuzia (qui, piuttosto ancora, carattere rituale del colore al quale vuole sostituirsi il simbolismo grafico, l’ideografìa). Nelle immagini, il colore invade le superficie con delicatezza e per un certo tempo sembra che il disegno gli si sottometta; ma non è con delle astuzie che il colore vuole liberarsi, lo sa bene.

Il mondo pittorico cristiano: orientale e occidentale.

I primitivi italiani, il Rinascimento, per arrivare fino ai giorni nostri, cioè in primo luogo ai precursori dell’impressionismo. Ultimo soprassalto e tentativo di difesa della linea nell’opposizione Ingres-Delacroix. “il colore – diceva Ingres – aggiunge degli ornamenti alla pittura (intendeva: il disegno, la composizione), ma ne è soltanto la dama di corte…” Delacroix riprendeva però nel suo diario delle osservazioni che lo avevano colpito: “I colori sono la musica degli occhi… Certe armonie di colori producono delle sensazioni che neppure la musica può raggiungere”. Molto importante, il concetto ritrovato del lirismo. Opposizione fra il potere rituale del colore, essenzialmente affettivo, e il simbolismo razionalizzante del grafismo. La storia dell’arte è l’anima della storia dei popoli. I popoli felici non hanno storia: ora, i popoli felici sono quelli in cui regna la pace, questo significa che, perché esista una storia dell’arte, come una storia dei popoli, occorre molto semplicemente che ci sia della guerra! Ci vuole della guerra e poi della pace, e poi di nuovo la guerra e di nuovo la pace – Dualità – Duello – Contrasto – Opposizione – Progressione ed evoluzione, attraverso confronto e analogia. Ciò che si può rimproverare all’arte, a parte qualche eccezione, è appunto di essere stata fino ad oggi solo una storia dell’arte, una specie di testimonianza costante dell’epoca. Certo, molti genî sono vissuti malgrado tutto da veri artisti: cioè, più o meno inconsapevolmente, sono stati trasportati dalla loro arte ben oltre la loro epoca, a volte in anticipo di qualche secolo, sovente indietro d’altrettanto. Ma il legame invisibile - la colla che tiene insieme l’universo intero attraverso il tempo ed è eterna – andrebbe percepito e trasmutato nella creazione artistica. I veri artisti dovrebbero essere simili a dei


profeti della pace, una pace profonda e violenta nella sua intensità, più forte della guerra distruttrice. Oggi, la linea è inseguita nei suoi ripari più sicuri dalla necessità di ritrovare l’assoluto. La rapidissima evoluzione della calligrafia giapponese in questi ultimi anni ne è la prova, la linea scompare, o piuttosto si trasforma in forme prive di contorni o quasi, e riempie tutto lo spazio in modo quasi uniforme. La linea, gelosa del colore, autentico abitante dello spazio, tenta di liberarsi dalla sua condizione di turista dello spazio: il tratto si dissolve, invade la superficie pittorica. È la scoperta della dominante onnipotente che va svelata alla luce del giorno, l’evoluzione permette l’iniziazione che rimetterà tutto in ordine. Tutti, dappertutto, desiderano la vera pace, non l’espressione falsa e disonesta : “La Pace delle Nazioni”, ma la pace ineffabile nella natura e nell’uomo prima dell’intrusione della linea nel colore. Oggi il calligrafo giapponese potrebbe quasi riempire una data superficie con la sua presenza qualitativa spaziale, in modo uguale e uniforme, il risultato sarebbe una dominante impregnata dovunque da lui, attraverso la sua scelta e la sua qualità di creatore. Più nessuna sbarra psicologica lineare. Di fronte alla superficie-colore, ci si trova direttamente davanti alla materia dell’anima. Il disegno, è scrittura in un quadro. Si disegna un albero, ma sarebbe lo stesso dipingere un colore e scrivere vicino: albero. In fondo, il vero pittore del futuro, sarà un poeta muto che non scriverà niente ma racconterà, senza esplicitarlo, in silenzio, un quadro immenso e illimitato. Presso gli Egizi la linea, nel presentire il pericolo dell’insurrezione continua del colore, da lei sconfitto ed occupato, tenta di conquistare una vittoria psicologica imitando la natura “tutta sensibilità” del colore, e porterà così alla falsa illuminazione del piacere dei sensi, quasi sempre sensuale, in particolare degli occhi. Gli artisti saranno allora degli esteti, astratti o realisti; passando attraverso tutta la gamma della figurazione, il colore agonizza, poi si riprende. Dei patti sono negoziati fra i due avversari a seconda delle varie civiltà. Capita sovente che il colore riesca a dominare, senza riuscire mai, però, a disfarsi completamente della linea. Sempre, lungo tutta la storia dell’arte, si vede che è incomprensibile, inverosimile però vero che in pratica gli artisti hanno sempre scelto come tema emotivo l’effimero o l’irreale. Ma il potere dell’immagine è tale che si vedono civiltà intere, spaventate, vietare di volta in volta la figurazione oppure l’astrazione. Nel XX secolo, giunto al nadir del materialismo, il velo del tempio dell’arte si è finalmente lacerato, l’iniziazione è per tutti e ognuno potrà apprezzare e capire profondamente l’arte, un tempo riservata a rari privilegiati. Nei primi capitoli del suo Trattato, Leonardo da Vinci insiste per dimostrare la superiorità della pittura sulla poesia, la musica e la scultura. La pittura e l’arte in tutte le sue forme preoccupano la massa. Si riconoscono all’immagine le possibilità d’esplorazione dell’inconscio. Si intraprendono ricerche più o meno consapevoli per ritrovare qualcosa di dimenticato, ma che tutti sentono. La conoscenza del reale offerta dai nostri sensi è alla base dell’esperienza dello spazio; analoga sarà la nozione che ne costruisce l’intelligenza. Bergson l’ha ricordato: “Il controllo fisico, come quello delle parole o delle nozioni chiare, viene meno non appena si passa da ciò che si definisce attraverso la sua forma a ciò che si sente per la sua intensità oppure solo grazie alla sua qualità. Non c’è un’idea chiara e distinta se non per analogia con le separazioni dello spazio. La sensibilità pura è confusa… È solo durata, quindi comunicabilità”. “Il bambino è andato a letto. La stanza è buia. Chiude gli occhi, appoggia due dita tese a forcella sulle palpebre. E vede delle grandi fiamme. Le vede, eppure esse sono dove sono i suoi occhi, più profonde ancora, nella sua testa. Ma non c’è più né dentro né fuori, né oggetti, né occhi. Il bambino vede semplicemente un colore intenso. Adesso leva le mani dagli occhi e c’è un insieme meraviglioso di forme a rombo ravvicinate, mobili come l’acqua, morbide come un velluto liquido che diffonde luce fosforescente, come fiori di cespugli nella notte. Ma quella luce stupe-

facente non è luce del giorno, né della notte. È immutabile, ma trema dolcemente. È da sempre nella sua testa. Vi resterà sempre? E il colore è più bello di tutti i colori della terra, sontuoso come il colore intenso delle viole del pensiero in giardino, però senza quell’aspetto di stoffa antica ammuffita chissà dove. Il bambino chiama sua madre e le chiede: “Che cos’è quello che si vede quando si chiudono gli occhi?” Ma sua madre prima non capisce, lui spiega e sua madre gli risponde: “Non devi fare così… diventeresti cieco !”

Delacroix e il realismo romantico. Il 20 febbraio 1824, pur essendo deciso a ricalcare, per così dire, la natura, scriverà: “Eh, maledetto realismo, vorresti forse illudermi che sto assistendo davvero allo spettacolo che tu sostieni di offrirmi? quando cerco rifugio nelle sfere della creazione artistica, è dalla crudele realtà degli oggetti che fuggo”. “Guai al quadro che non mostra niente oltre al finito. Il valore del quadro è l’indefinibile: appunto ciò che sfugge alla precisione”. Che cos’è? “È ciò che l’anima ha aggiunto ai colori e alle linee per andare verso l’anima”. Delacroix cercava l’espressione totale di se stesso nel colore e grazie al colore. Ma il punto in cui sbaglia e in cui c’è confusione sul senso della parola “anima”, è quando aggiunge: “L’anima racconta disegnando una parte del suo essere essenziale”. Quando si parla di disegno, l’anima non c’entra più e su questo il XX secolo preciserà le cose. Si tratta del subconscio, che è ben diverso. E quando dice: “È in te che devi guardare e non intorno a te”, è giusto, ma attenzione: c’è in noi una parte essenziale che è l’unica vera vita e perfino la vitalità, è l’anima, il resto è solo realismo, quello che tutti considerano tale e che è solo l’effimero. Il subconscio, l’intelletto, la sensualità, etc. etc. È subito dopo l’epoca chiamata “realismo” che si compie quella rivoluzione pittorica che poi condurrà finalmente alla grande lacerazione del velo del tempio dell’arte. Si tratta dell’impressionismo. L’impressionismo sarà una rivoluzione tecnica. Senza esagerare in partenza, come si è fatto, l’importanza delle teorie di Hood o di Chevreul sulla visione colorata. Gli Impressionisti erano, per la maggior parte, abbastanza incapaci di seguirli, diremo che l’idea era nell’aria… Resta il fatto che questi pittori sono stati colpiti dalle risorse che offriva loro la scomposizione della luce in colori elementari grazie al prisma. Hanno capito che due colori messi vicini potevano confondersi, per l’occhio, esaltandosi l’un l’altro, mentre la loro miscela offre un aspetto pesante e terroso. Hanno quindi raccomandato, su questa base, l’uso del colore puro e generalmente chiaro. Alcuni hanno perfino preteso di mettere al bando il nero e le sue sfumature di grigio che, d’altronde, in natura non esistono. È così che nel XIX secolo, con Monet, Renoir, Degas, si trama il vasto piano di liberazione del colore. La luce interiore è tutta colore. Se è vero che il mondo fisico è il riflesso o perfino la proiezione diretta del mondo spirituale, in questo caso allora, noi siamo davvero liberati da questi due aspetti, o stati. Ma comunque e sempre, le epoche di decadenza di tutte le grandi civiltà sono state epoche in cui la sensibilità, campo emozionale essenzialmente ed esclusivamente umano, è stata portata al massimo della raffinatezza e della precisione. Che cosa c’è di più piacevole oggi per il Nuovo Continente, che vive la sua potente, attiva e dominatrice epoca glaciale, che osservare la vecchia Europa che muore, immensamente ricca di sensibilità, sbarazzata di ogni materialità e spiritualità. Che grande ed immenso corpo umano essa rappresenta. L’Europa è proprio “carne” pura, imbevuta del sangue delle generazioni passate e muta di gioia interiore. Diventeremo rapidamente antropofagi. “Il pittore del futuro è un colorista come non ce ne sono ancora mai stati …” . Avverrà una generazione dopo. Van Gogh prevedeva la monocromia. Nell’opera di Van Gogh, il colore ha un valore plastico che rivela una nuova visione dello spazio, sappiamo che, per il geniale Olandese, proprio il colore era il linguaggio ed il simbolo diretto della sua sensibilità.

Di fronte a qualsiasi quadro che ha vita e che parla ho certo provato una sensazione d’imprigionamento nel vedere, dietro le sbarre rappresentate dal disegno del quadro, la vita di un mondo-colore, libero e vero. È in questo senso, credo, che Van Gogh, grazie all’alchimia della pittura, volesse essere liberato da “non so quale gabbia orribile”. Nella mia condizione fisica umana, quello che io posso sopportare è di abitare in una casa dalle finestre senza inferriate, allora la vita è sopportabile. Tutto ciò farà ben ridere coloro, troppo numerosi, che pensano che la soluzione si trovi nell’equilibrio. L’equilibrio è un grande sforzo che esige un’attenzione costante per non inciampare al minimo sbaglio. È una soluzione sbagliata, orribile, che mantiene la gente nella cecità, poiché, mentre con mille precauzioni cercano di pesare bene il pro e il contro di tutto, non vedono e mancano la vera vita. Ed è così che un nuovo diluvio ben presto si abbatterà sulla razza umana alla ricerca di un equilibrio che non troverà mai perché non ha da essere trovato: la possibilità di un destino per l’uomo, è la sua carne, la sua vita. Va notato che nell’arte, non appena gli avvenimenti si oscurano, c’è sempre un’invasione di linee sul quadro. Gli anni difficili in qualsiasi vita di una civiltà, oppure anche semplicemente nella scala di una vita umana individuale, sono immediatamente rigati ed oscurati da linee, nella loro arte pittorica. Per tornare all’equilibrio, è una posizione che non vale niente, è nel proprio elemento, nella propria razza, nel proprio sé e nella propria dominante che vanno cercate la vita e la pace: la dominante umana è il colore, il che è provato da tutta un’immensa evoluzione attraverso i tempi e tende alla scoperta del mistero del colore. Van Gogh, 1885: “Il colore in sé esprime qualcosa, non se ne può fare a meno, bisogna avvantaggiarsene: quello che è bello, veramente bello, è anche vero.” È una tendenza organica che viene da quanto c’è in noi di più profondo, e che oggi spinge noi tutti a riscoprire il colore, la nostra vita. Il disegno nella pittura, è scrittura su uno stato d’animo ! Questo scritto spiega e descrive assurdità e cose effimere, superficiali e senza valore intorno al cuore in fiamme dell’essere. Van Gogh a Théo (lettera 459): “ I quadri hanno la loro vita propria, che viene completamente dall’anima del pittore. Insomma, un pittore è un uomo che, consapevolmente o no, taglia la sua anima a pezzi estirpandone dei brandelli, con o senza dolore, o con gioia, per trasformarli, grazie all’alchimia della pittura (genio creatore), nella materia dell’anima effimera fisica e deperibile”. Il pittore, come Cristo, dipingendo celebra la messa e dà il suo corpo dell’anima in pasto agli altri uomini: con ogni quadro realizza nel suo piccolo il miracolo della Cena. Giovanni – VI – 53: “In verità, in verità vi dico, se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo o se non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita...” Durante tutto il balletto … aggiunta eventuale di grandi ventate, calde, fredde, o temperate. Odori.


Progetto di balletto in forma di fuga e corale

(scritto in collaborazione con Jean Pierre Mirouze, 1959) L’idea essenziale di questo balletto in tre movimenti è una forma di fuga musicale, coreografica, cromatica. Effettivamente, queste tre discipline sono legate da strette corrispondenze. Il movimento di un balletto formato da quattro gruppi di danzatori - ciascuno di un colore diverso e collegato a una delle voci e che la rappresenta nella sua evoluzione, a volte principale, a volte secondaria, - sarà subordinato con precisione e sincronizzato con la scrittura di una fuga in quattro parti. In modo analogo, una rappresentazione pittorica in quattro colori interverrà nella scenografia: all’entrata di ognuna delle parti sarà così associata su un ritmo comune l’entrata di un gruppo di danzatori e l’apparizione di un colore uguale a quello dei danzatori: cioè, al tema e allo sviluppo in divertimento di una voce corrisponderanno tre esposizioni parallele che, insieme a quelle delle altre voci, animeranno le suddivisioni più molteplici e più interiorizzate della fuga. Un suono mono-tono e teso, che si sentirà solo all’inizio e alla fine del balletto, è sostenuto senza interruzione durante la fuga e il corale. Questo suono mono-tono e teso sarà “in contrappunto” e lo sviluppo rigoroso basato sulle regole della fuga porteranno a uno sfavillante clima di tensione che troverà la sua liberazione solo nella viva purezza di un corale. I danzatori, grazie al loro impegno coraggioso e consapevole nella composizione in base a elementi semplici e primordiali, quando usciranno da questo complesso ingranaggio, si saranno guadagnati il diritto al corale della vita. La scenografia informale si organizza in paesaggio di conoscenza attraverso il quale evaderanno quattro danzatori. Per coloro che si saranno sottomessi senza consapevolezza, prostrati durante la corale, ci sarà un’unica soluzione: quella di seguire a ritroso l’irrimediabile processo che ha dato loro per un attimo la visione di ciò che avrebbero potuto essere. La stessa fuga allora, come se si invertisse il senso di marcia, entrerà nella sua fase di distruzione omotetica, seguendo una semplificazione inesorabile nella sua espressione musicale, coreografica e cromatica. Dettaglio. – Il sipario, alzandosi, scopre una scena semicircolare, con un’unica parete scintillante di bianco, quasi accecante, in modo che non si possa distinguere nessun angolo, né conoscere la profondità del palcoscenico, delle dimensioni, né quelle della scena. Suono mono-tono grave. Entrata della prima voce. Entrata lineare di quattro danzatori. Entrata risposta della seconda voce. Entrata di quattro danzatori blu. Esplosione di blu nella scenografia. Composizione blu – bianca in scena e nella scenografia.

Entrata della terza voce –fuga a due – secondo soggetto. La “testa” di questo soggetto ha lo stesso andamento di quella del primo ed entra in seguito al richiamo del primo soggetto. Entrata lineare dei quattro danzatori oro. Esplosione dell’oro nella scenografia. Breve fuga a tre, composizione bianca-blu-oro. Entrata risposta della quarta voce. Entrata lineare di quattro danzatori rosa. Esplosione del rosa, composizione bianca-bluoro-rosa. Fuga a quattro. La fuga diventa sempre più chiusa e stretta, viavia che si moltiplica e si sviluppa. Contrazione coreografica, pas-de-deux, solo, accuratezza nel rappresentare la musica con un formicolìo. Il ritmo della composizione cromatica raddoppia, effetto visivo vibrante. Seconda parte Interruzione della musica, tranne il suono grave mono-tono. Umane (sic). CoraleCrollo immobile dei danzatori, i quattro primi ballerini danzano soli la corale poi scompaiono nel paesaggio. I colori tremano e si organizzano in un paesaggio molto semplice, nel quale l’oggetto principale sarà del fogliame con quattro tronchi d’albero, quadrato, i cui rami si intrecciano in un nodo nella cupola della scena a quarto di sfera. Nel momento in cui i danzatori entrano nel quadrato vegetale, sulla scena scende l’oscurità totale, non si percepisce nessun suono. (Durata da determinarsi secondo le condizioni armoniche dell’insieme). Indicazioni . Musica: questo balletto mantiene nella sua scrittura soltanto la composizione formale della fuga: Esposizione, soggetto al 6° grado, risposta al 3° grado, 2° divertimento, soggetto al 4° grado, transizione, soggetto al 2° grado, 3° divertimento. Ma il soggetto è lungo e atonale, le alterazioni possono essere considerate come cromatiche. L’apertura di contrappunto del soggetto è in altezza principale ed i rapporti di questa figura con quelle delle risposte e degli altri soggetti saranno conformi, tranne evidentemente dal punto di vista della tonalità. D’altronde, le entrate della terza e della

quarta voce saranno ritardate in modo da esporre una fuga a due, a tre, poi a quattro voci. La coreografia: Trentasei danzatori suddivisi in quattro gruppi di nove, ciascuno con un costume classico (tutù e calzamaglia), i quattro gruppi sono di un colore diverso: bianco, blu, oro e rosa. Ogni danzatore appartenente allo stesso gruppo esegue passi simili e simultanei, coordinati rigorosamente con la voce corrispondente della fuga. Esempio: ogni volta che una voce imita il suo soggetto iniziale nella fuga, i danzatori collegati alla voce imitano le fasi del loro movimento d’entrata nella loro parte. Nel corale i passi saranno liberi, “vivi”. Lo stesso controllo della prima parte, si ritroverà nella ripresa e nella de-costruzione della fuga. Scenografia: All’entrata della prima voce, comparsa del bianco monocromo. All’entrata della seconda voce, esplode lo splendore blu, composizione del bianco e del blu. All’entrata della terza voce, esplode lo splendore dell’oro, composizione del blu e dell’oro. All’entrata della quarta voce, esplode lo splendore del rosa di robbia, composizione del bianco, del blu, dell’oro e del rosa. Queste composizioni saranno animate e ritmate. Il ritmo sarà lo stesso di quello della musica e del balletto e vi sarà sincronizzato. Si può realizzare tale effetto con proiezioni di fasci luminosi e cinematografici sulla superficie a semicerchio. Terza parte Ripresa della danza a struttura di fuga sull’accordo sul quale si era interrotta nella prima parte. Il processo di distruzione pittorico, coreografico e musicale corrisponde a quello della costruzione, nello stesso ordine, ma in senso inverso, cominciando dalla fine: cioè, le voci escono ad una ad una, nello stesso tempo in cui scompare il colore e il gruppo di danzatori corrispondente. In modo che resti soltanto una fila di danzatori bianchi, che escono lasciando una scena bianca, di uno splendore accecante, su un suono mono-tono grave. Fine dell’oscurità, suono mono-tono dei cantanti, i quattro danzatori riprendono la danza seguendo la fuga: riappare la scenografia, vibrante di luminosità, di bianco, di blu, d’oro e di rosa.

La statua

Il sonno

Rovesciamento

Quando sarò finalmente diventato come una statua grazie all’esasperazione del mio Io, che mi avrà portato all’ultima sclerosi…. Allora, allora soltanto, potrò installare questa statua ed uscire da me tra la folla per andar a vedere il mondo, finalmente. Nessuno si accorgerà di niente perché guarderanno tutti la statua ed io, io potrò andarmene a passeggio, finalmente libero…. E allora potrò realizzare il mio sogno di sempre: fare il giornalista-reporter !

Il sipario si apre su un palcoscenico dove c’è una camera da letto, un letto grande, e in quel letto c’è un uomo che dorme. L’attore che ogni sera avrà questo ruolo dovrà affaticarsi il più possibile tutto il giorno, per dormire davvero nel suo letto sulla scena quando si alza il sipario. Tutti lo vedono dormire così per dieci minuti circa, poi si chiude il sipario. Il tutto avverrà in silenzio e soprattutto senza applausi, per paura di svegliare l’attore che è molto stanco e ha bisogno di dormire.

Sarebbe forse interessante presentare una volta un’opera teatrale qualsiasi, a rovescio. Voglio dire che tutto il testo sarebbe recitato dagli attori a testa in giù, con i piedi in alto, sul soffitto. Oggi, con qualche trucco, la cosa deve essere possibile. Anche tutti i mobili starebbero sul soffitto, che in fin dei conti sarebbe il pavimento, e per terra, sul pavimento, si troverebbero gli oggetti scenici del soffitto, cioè per esempio: un lampadario agganciato solidamente, che leviterebbe statico nello spazio.


Il segno dell’immediato. Nel 1953, propongo ad un produttore cinematografico di Tokyo di girare un cortometraggio a colori su un viaggio mistico-realista e molto contemplativo, pur essendo il più dinamico possibile. Si tratta di mostrare la superficie delle diverse materie nella natura e nello stesso tempo anche la loro vita profonda immersa in apparenza nel sonno, ma in realtà ben sveglia. Voglio mostrare l’uomo nella natura attraverso le tracce e i segni che vi lascia involontariamente e che oggi sono di una meravigliosa grandezza, artificiale, effimera eppure per sempre indistruttibile. La macchina da presa sostituisce gli occhi di un uomo che va a passeggio e si siede un momento su una spiaggia, accompagnato da una bellissima giovane dalla carne vibrante, che si spoglia per sdraiarsi ai suoi piedi nel sole di un’estate torrida. L’uomo alza allora gli occhi alla verticale e contempla il cielo blu, terso e senza nuvole. Poi i suoi occhi scendono lentamente fino all’orizzonte percorrendo quella specie di superficie volumetrica, trasparente e tutta blu, per fermarsi infine un attimo sulla linea dell’orizzonte, fra i due elementi, l’aria e l’acqua blu. Dopo, percorrendo la superficie del mare fino alla riva, il suo sguardo si posa sulle onde al bordo della spiaggia. Poi i suoi occhi percorrono la spiaggia per ritrovare ai suoi piedi il corpo della bella giovane sdraiata pigramente sulla sabbia. Qui, evidentemente, ispezione in dettaglio del corpo della ragazza. In seguito, lo sguardo illuminato si ferma sulla pelle stessa. La pelle è allora vista da vicino, come al microscopio, con i peli sottili, i pori che espellono il sudore, simili a misteriosi piccoli vulcani, poi il fremito generale della pelle, l’ansimare, tutto questo è osservato molto da vicino. La tensione nervosa aumenta e diventa rapidamente una tensione sensuale, fa molto caldo. Lo sguardo cerca allora di respirare e vaga negli alberi tra le foglie. Vede le foglie molto da vicino

con le loro nervature, e si sente circolare la linfa sotto il verde calmo. Gli occhi scendono lungo il tronco dell’albero, vedono la corteccia molto da vicino, gli insetti microscopici, poi il suolo, le pietre, l’erba. Lo sguardo arriva adesso vicinissimo ai piedi dell’uomo. Lì, vede il suolo, i sassolini piccolissimi, la terra, il mozzicone della sua sigaretta che si spegne. Ispezione microscopica di questo suolo: è coperto di una specie di rugiada, come le foglie e il tronco dell’albero, d’altronde. Tutto sembra sudare, eppure l’aria è secca, fa sempre molto caldo. Improvvisamente, si alza il vento. Lo sguardo va di colpo verso il cielo, preoccupato, vede qualche nuvola. Lo sguardo ridiscende sul corpo della ragazza nuda, sdraiata. Il vento allora aumenta e solleva una nuvola di polvere. La polvere si incolla sul corpo sudato della bella ragazza e si mescola con il sudore. L’uomo allora tira fuori di tasca un gran fazzoletto bianco e lo applica con delicatezza sulla pelle della giovinetta per asciugare quel fango sottile che si è formato in un attimo a fior di pelle. Quando toglie il gran fazzoletto bianco, c’è un’impronta: l’impronta della carne ! La ragazza è nervosa e prende un asciugamano per asciugarsi ancora. Impronte in movimento sull’asciugamano bianco. L’uomo guarda il suo fazzoletto segnato poi lo getta per terra. La ragazza guarda il suo asciugamano segnato e lo getta per terra anche lei. L’uomo, interessato, tira fuori un gran fazzoletto e prende con cura l’impronta del suolo ai suoi piedi, perché la polvere si è depositata anche lì. Poi guarda l’impronta e va successivamente a prendere le impronte della corteccia dell’albero e di una foglia. Ogni volta guarda meravigliato il risultato che si è impresso sul suo fazzoletto bianco. Poi getta il fazzoletto, che va ad appendersi all’estremità dei

rami di un piccolo cespuglio. La ragazza si sente a disagio: si alza e corre a tuffarsi nel mare per fare il bagno. L’uomo vede allora l’impronta del bel corpo nella sabbia. La tensione sensuale sale di nuovo. Gli occhi guardano di colpo il cielo, ancora una volta, per cercar di distrarsi. Incontrano il sole di fronte, accecante. L’uomo sopporta un attimo la terribile luce, poi riporta lo sguardo sulla spiaggia: il mare, l’albero e i panni che adesso sono per terra. Di nuovo un colpo di vento. Nel paesaggio selvaggio che gli occhi dell’uomo vedono un po’ in negativo dopo essere stati accecati dal sole in faccia, i fazzoletti e l’asciugamano gettati per terra, così artificiali in mezzo alla grande natura, rotolano per terra e sono trascinati dal vento in una corsa folle, senza senso né direzione. La ragazza esce dall’acqua, grondante e bella, e ritorna verso l’uomo. Si abbracciano e si sdraiano sulla sabbia. Qui c’è un lampo di foga amorosa e di confusione dei due corpi in lotta. La ragazza domina e si ritrova a cavallo sull’uomo sdraiato, che vede di nuovo il cielo, adesso però con una piccola nuvola ed anche con un po’ di sole su un lato dell’immagine che gli si offre. A lungo, guarda meravigliato il cielo macchiato da una nuvola ed illuminato da un pezzo di sole. Poi il suo sguardo va verso l’orizzonte, infatti adesso l’uomo e la giovane sono alzati e si accingono ad andar via. L’uomo guarda dietro di sé nella sabbia: lì si trova l’impronta dei loro amplessi e del loro combattimento sensuale. Alza gli occhi al cielo, che è di nuovo blu, terso e senza nuvole, come all’inizio della passeggiata o del film.

PROGRAMMA DEL FESTIVAL D’ARTE DI AVANGUARDIA Parigi, novembre-dicembre 1960 Informazioni e prenotazioni: Durand, Place de la Madeleine; Salle Gaveau; Padiglione Americano, Porta di Versailles; Museo delle Arti Decorative; Galerie des Quatre Saisons; Studio Ranelagh; Alliance Française, agenzie e S:V:P:. Mercoledì, 16 novembre: U.N.E.S.C.O:, ore 21, Teatro (in occasione dell’inizio dell’Assemblea Generale dell’U.N.E.S.C.O.: “Chitra”, regia:Sylvain Dhomme; architettura scenica: Claude Parent. Venerdì 18 Novembre: Padiglione Americano, Porta di Versailles, ore 18 - Arti Plastiche, vernissage-mostra: Scenografia per uno spettacolo immaginario: Fautrier, Rotraut, Soulages, Scneider-Bloc, Gilioli, Hajdu, KéMény, Kosice, Martin, Nevelson, Seuphor, StahlyAldins, Bellegarde, Bertrand, Guitet, Sato, Stein, Neubauer, Di Teana, Mathieu, Michaux, Brien. Nouveaux Réalistes: Anouj, Arman, César,Dufrène, Hains,Raysse, Rotella, Spoerri-Feinstein, Villegié, Y. Klein, Estivals, Ysou, Lemaitre - Arte e movimento: Agam, Bury, Kramer, Mack, Malina, Piene, Rot, Soto, Tinguely, Uecker - Architettura: Sermanoz, Gillet, Neutra, Van der Roche, Schein.

Giovedì 24 novembre: Galerie des Quatre Saisons, ore 21 - Poesia odierna: Artaud, Beckett, Michaux, Tardieu, Luca, Bonnefoi, Weingarten, Lambert.

Martedì 6 dicembre: Museo delle Arti Decorative, ore 21 - Cinema: films di fantascienza e films scientifici presentati da Pierre Kast.

Venerdì 25 novembre: Ranelagh, ore 21 - Teatro sperimentale (1): Balletto teatro meccanico di Kramer.

Giovedì 8 dicembre: Museo delle Arti Decorative, ore 21 - Danza: Israel Noa Eskol: Arte del movimento.

Sabato 26 Novembre: Galerie des Quatre Saisons, ore 21 - Nel vivo e nel cuore di una poesia in atto: Borne, Chaulot, Chedid, Depierris, Dumontet, Emmanuel, Follain, Guillevic, Humeau, Looten, Manoll, Ménard, Miatlev, Norge, Puel, Rousselot, Sabatier, de Sollier, Tourret.

Lunedì 12 dicembre: U.N.E.S.C.O., ore 21,30 - Musica sperimentale: Badings, Kotonski, Baron, Dufrène, Baronnet, Henry, Boucourechliev, Berio, Pousseur.

Domenica 27 novembre: Paris, ore 0 - 24 - Teatro del Vuoto: Yves Klein, il Monocromo presenta: La Domenica 27 novembre. Lunedì 28 novembre: Museo delle Arti Decorative, ore 21 - Conferenza: Richard-J. Neutra: Architettura e scenografia ( a proposito del Congresso di Berlino ) Martedì 29 novembre: Sala Gaveau, ore 21 - Concerto di musica contemporanea: Cardew, Berio, Werbern, Amy, Arrigo, Messiaen.

Lunedì 21 Novembre: Museo delle Arti Decorative: ore 21: Cinema*. films di forme animate: Retrospettiva Hy Hirsch.

Mercoledì 30 novembre: Museo delle Arti Decorative, ore 21: Teatro, Germania: Paul Portner: “Variazioni per due attori”.

Martedì 22 Novembre: Galerie des Quatre Saisons, ore 21 - Antologia della Poesia fonetica - Altagor, Artaud, Ball, Beauduin, Dryer, Dufrène, Hausmann, Heidsieck, Iliazb, Isou, Khlebnikov, Lemaitre, Montluc, Morgenstern, Pomerand, Schwitters, Seuphor, Wolman.

Giovedì 1 dicembre: Galerie des Quatre Saisons, ore 21 - Teatro sperimentale (II): Isou, Almuro, Estivals.

Mercoledì 23 novembre: Ranelagh, ore 21 - Cinema*, film recenti di pittori: Lapoujade, Viseux, Ian Hugo, Alechinsky, Kamler, Reutersward, Brissot.

Venerdì 2 dicembre: Galerie des Quatre Saisons, ore 21: Colloquio confronto “Arte e Scienza”: Le Lngs, Kotonsky, Baron, Dufrène, Baronnet, Henry, Boucourechliev, Berio, Pousseur.ionnais.

Martedì 13 dicembre: Alliance Française, ore 21 Mimo: Maximilien Decroux: Variations sans thème: Il Flagello, L’uomo e la Spiaggia, Zigzag. Mercoledì 14 dicembre: Galerie des Quatre Saisons, ore 21: Teatro Polonia: Miron Bialoszewski: Mimo e poesia. Giovedì 15 dicembre: Padiglione Americano, Porte de Versailles, ore 21: Teatro, Jacques Polieri: Dispositivo scenico mobile: Ritmi e immagini, Sculture di Brancusi, Adam, Jacobsen, Colvin, Pevsner. I programmi sono presentati con riserva di modifica. La mostra sarà aperta tutti i giorni dal 18 novembre al 15 dicembre 1960, dalle ore 11 alle 18. *I programmi cinematografici saranno presentati tutti i giorni alle ore 20 al “Ranelagh”, a partire dal 23 novembre 1960.


Realizzazione di una Antropometria. 1960 Fotografi : Harry Shunk-John Kender Copyright : Harry Shunk-John Kender


CORPO


Yves Klein fa da Uke in Francia.


Modelle pronte al lavoro. 1961


Antropometria dell’epoca blu Galerie Internationale d’art contemporain, Paris, France 1960 (9 marzo) Fotografi : Harry Shunk-John Kender Copyright : Harry Shunk-John Kender/Yves Klein



Antropometria dell’epoca blu Galerie Internationale d’art contemporain, Paris, France 1960 (9 marzo) Fotografi : Harry Shunk-John Kender Copyright : Harry Shunk-John Kender/Yves Klein


Yves Klein sul tatami in Francia


Yves Klein lavora con fuoco e acqua una tela, aiutato da una squadra di pompieri. 1961



Yves Klein, pratica Judo in Francia.


Modelle pronte al lavoro. 1961


Realizzazione di una Antropometria 14, rue Campagne-Première, Paris, France1960 Fotografi : Harry Shunk-John Kender Copyright : Harry Shunk-John Kender


L’immaginazione è il veicolo della sensibilità. Trasportati dall’immaginazione, raggiungiamo la vita, la vita stessa, la vita che è l’arte assoluta. Y.K.


SUPERAMENTO DELLA PROBLEMATICA DELL’ARTE

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Yves Klein nella Stanza del Vuoto Museum Haus Lange, Krefeld, Germania Gennaio 1961 Š Charles Wilp



Y.K.

La Terre en lévitation, 1960 Harry Shunk, John Kender © Roy Lichtenstein Foundation


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Non è sufficiente dire o scrivere: “Ho superato la problematica dell’arte”. Occorre averlo fatto. Io l’ho fatto. Per me, la pittura oggi non è più in funzione dell’occhio; essa è funzione della sola cosa in noi che non ci appartiene: la nostra VITA. Nel 1946 dipingevo o disegnavo sia sotto l’influenza di mio padre pittore figurativo, cavalli in un paesaggio o scene marine, sia sotto l’influenza di mia madre, pittrice astratta, composizioni di forme e colori. Nello stesso tempo il “COLORE”, lo spazio sensibile puro m’attirava, in modo incoerente, ma con ostinazione. Questa sensazione di totale libertà dello spazio sensibile puro, esercitava su di me un tale potere d’attrazione da spingermi a dipingere dei monocromi per vedere, VEDERE coi miei occhi, ciò che vi era di visibile nell’assoluto. Non consideravo questi tentativi come possibilità pittorica, a quel tempo, sino al giorno in cui, un anno più tardi, mi dissi: “perché no”. Il “PERCHE’ NO” nella vita di un uomo, è ciò che decide di tutto, il destino, è un segnale che indica al creatore in erba, che l’archetipo d’un nuovo stato di cose è pronto, che ha maturato, che può vedere la luce. Io non esposi subito, tuttavia. Attesi. Ho “STABILIZZATO” con la cosa. Io sono contro la linea e tutte le sue conseguenze: contorni, forme, composizioni. Tutti i dipinti, figurativi od astratti che siano, mi fanno pensare a finestre di prigione le cui linee ne sono, esattamente, le sbarre. Nel colore, nella sua dominante, la libertà! Il lettore d’un dipinto di linee, forme, composizioni, rimane prigioniero dei propri cinque sensi. Sono dunque sfociato nello spazio monocromo, nel tutto, nella incommensurabile sensibilità pittorica. Non vi sono sfociato rinchiuso nella mia personalità, no. Impregnandomi volumetricamente, mi sono sentito fuori da ogni proporzione e dimensione, nel TUTTO. Ho incontrato, o meglio, mi sono sentito afferrare dalla presenza di molti esseri dello spazio, nessuno però di natura umana: nessuno vi era giunto prima di me. Lo spazio mi ha perciò concesso il privilegio di essere “proprietario” o meglio “co-proprietario” con altri, certo, ma che nulla spartiscono con gli umani. E lo spazio ha acconsentito, nei miei quadri, a manifestare la sua presenza per renderli veri e propri atti notarili di proprietà, miei documenti, mie prove, miei diplomi di conquistador. Io

non soltanto sono il proprietario del blu, come oggi si potrebbe credere, no, io sono il proprietario del “COLORE” essendo esso la terminologia degli atti legali dello spazio. Naturalmente la mia incommensurabile proprietà non è ciò “che colora”, essa “è”, semplicemente. I miei dipinti esistono solo in quanto titoli di proprietà visibili. Se vi fosse già stato un altro uomo, quando giunsi, stupito, in questo mondo dello spazio totale, non vi avrei sentito questa inaudita sensazione di assoluta libertà che sognano, rinchiusi da sempre nel pittoresco certuni dei miei predecessori: così ricevetti i diritti di cui in seguito usai. Durante questo periodo di raccoglimento, creai verso il 1947-48 una sinfonia “monotòno” il cui tema è ciò che vorrei fosse la mia vita. Questa sinfonia, della durata di quaranta minuti (ma ciò non ha importanza, ne vedremo più avanti il perché) è composta di un solo ed unico “suono” continuo, teso, senza inizio né fine, che crea così una sensazione di vertigine, di bramosia di sensibilità fuori dal tempo. Questa sinfonia dunque non esiste, pur essendo là, fuori dalla fenomenologia del tempo, in quanto mai nata né morta, tuttavia, nel mondo delle nostre coscienti possibilità di percezione: è silenzio-presenza udibile. Nel 1955 espongo a Parigi una ventina di dipinti monocromi di diversi colori. In questa occasione m’accorgo di una cosa importante: il pubblico, di fronte alla parete su cui sono esposte tele di differenti colori, ricostruisce gli elementi di una policromia decorativa. Prigioniero dell’ottica acquisita, questo pubblico, per quanto scelto, non riesce a disporsi in presenza del “COLORE” d’un solo quadro: ciò ha provocato l’inizio della mia epoca Blu. Col Blu, il “grande COLORE”, io racchiudo di più in più “l’indefinibile” di cui Delacroix parla nel suo diario come il solo vero “MERITO DEL QUADRO”. Presentata nel 1957 a Parigi alla Galleria Iris Clert ed alla Galleria Colette Allendy, l’epoca Blu fu il mio esordio. Io m’accorsi che i miei quadri non sono che le “ceneri” della mia arte. L’autentica qualità del quadro, il suo “essere” stesso, una volta creato si trova aldilà del visibile, nella sensibilità pittorica allo stato di materia primaria. Fu allora che decisi di presentare da Iris Clert il “Blu immateriale”.


Yves Klein durante la mostra “Vision in Motion� al centro Hessenhuis di Anversa (Belgio), 1959


di sensibilità pittorica immateriale

Regole rituali di cessione delle zone

Le zone di sensibilità pittorica immateriale di Yves Klein il Monocromo sono cedute in cambio di un certo peso d’oro fino. Esistono sette serie numerate di zone pittoriche immateriali comprendenti ciascuna dieci zone altrettanto numerate. Per ogni zona ceduta viene rilasciata una ricevuta indicante il peso d’oro fino, valore immateriale dell’immateriale acquisito. Le zone sono trasferibili dai loro proprietari (vedi regola stabilita su ogni ricevuta). Ogni eventuale acquirente di una zona di sensibilità pittorica immateriale deve sapere che il semplice fatto di accettare una ricevuta per il prezzo che ha pagato lo priva di tutto l’autentico valore immateriale dell’opera, sebbene ne sia però il possessore. Affinché il valore fondamentale immateriale della zona gli appartenga definitivamente e faccia corpo con lui, deve bruciare solennemente la ricevuta, dopo che il suo nome, cognome, indirizzo e data di acquisto siano stati scritti sulla matrice del libretto delle ricevute. Nel caso in cui desideri compiere questo atto d’integrazione a sé dell’opera, Yves Klein il Monocromo deve, al cospetto di un Direttore di Museo, o di un gallerista conosciuto, o di un Critico d’Arte, più due testimoni, gettare la metà del peso d’oro ricevuto in mare, in un fiume o in un qualunque luogo della natura, dove quest’oro non possa essere più recuperato da nessuno. Da quel momento, la zona di sensibilità pittorica immateriale appartiene in modo assoluto e intrinseco all’acquirente. Le zone così cedute, una volta bruciata la ricevuta, non sono più trasferibili dai loro proprietari. Y. K.

P.S. È importante segnalare che, oltre ai riti di cessione di cui sopra, esistono, libere da qualsiasi regola e convenzione, delle cessionitrasferimenti di vuoto e di immateriale nell’anonimato più assoluto…


Y.K.

“Il sangue della sensibilità è blu”, dice Shelley ed è esattamente il mio parere. Il prezzo del sangue blu non può essere in nessun caso del denaro. Deve essere dell’oro.


Troverò allora del tutto naturale e normale venire a sapere un giorno che, da qualche parte nel mondo, uno dei membri di questo famoso patto ha firmato all’improvviso, spontaneamente, uno dei miei quadri, senza neppure parlare di me e della nostra impresa. Allo stesso modo, tutto quello che mi piacerà tra le opere degli altri membri del patto, mi affretterò a firmarlo senza preoccuparmi minimamente di segnalare che in realtà l’opera non è mia.

Y.K.


Yves Klein durante un rituale di cessione di una “Zone de sensibilité picturale immatérielle” sul Pont-au-Double a Parigi, 10 febbraio 1962 Fotografia su alluminio 40 x 30 x 2,5 cm Collezione privata


li i m i s e t tut , u l b e na u rom c e o m n o o m oc c e i t l s b si o b p e u o p r m l o p a c e d t a es tr te l u u a ’ i q l c l i s a d o a a n eo ico l’un l n r a a t o d n Ognun n a a o s t s s e is pa za, n e n o r e i o r z t a a a l p la p l m e a ’ m u L e q t . in ap a n è r co le i a ’alt l d l n a o o i d t z a a a t e, s s s t n s o e o s n p u s diver ù i e n le ep ai e r t n t i o i n c i z e a d d v n u ser e s l o ’ a deve e L r t zo . , z u l e o r b n p o o l g i d l e n nel mo irenti. Essi sc gano ciascuno ralmente. u a q p c atu a a n l i , l e i s g a r i e r de op div r i p t t a u l t o o ciascun E i prezzi son o. t s e i h c i r Y.K.

Yves Klein e Dino Buzzati durante un rituale di cessione di una “Zone de sensibilité picturale immatérielle” sulla Senna, Parigi Gennaio 1962


Il corpo della modella, impregnato di blu, si trasformava allora chiaramente in energia vitale materializzata: mi sembrava che diventasse un mezzo per il flusso del

Elena Palumbo Mosca

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Una traccia di Bellezza Testimonianze di Elena Palumbo Mosca


*)

Testo scritto in occasione della mostra Yves Klein – judo e teatro – corpo e visioni

ELENA PALUMBO MOSCA*)

Ho rivisto qualche tempo fa a Parigi (prima che partisse per un’asta a New York) un’ Antropometrìa straordinaria, una delle ultime - se non addirittura l’ultima - realizzata nei capannoni immensi del „Gaz de France”. Questa, contiene tutto: il blu, il rosa, l’oro, l’acqua, il fuoco, l’impronta primordiale di vite umane. La sua intensità mi ha commosso all’improvviso. Allora, sembrava tutto così semplice: Yves aveva l’intelligenza e la gentilezza di non appesantirci il lavoro concreto con spiegazioni teoriche. Semplicemente, sentivo di collaborare alla creazione di una forma di Bellezza, e sapevo che per riuscire ci voleva il massimo rigore e impegno da parte di tutti, ma non mi preoccupavo di cercare altri signi�icati. Era già abbastanza esaltante così. Intanto, cinquant’anni sono passati da quel gelido pomeriggio, cinquant’anni di vita e di percorsi mentali, pronti a dissolversi nel nulla quando morirò, ed ecco invece di fronte a me una traccia concreta di questa mia labile esistenza umana, una traccia di Bellezza! E un’associazione mentale mi travolge, rivedo improvvisamente l’icona della Trinità di Andrej Roublev, il monaco ortodosso del 15° secolo: i colori del Divino, l’oro, il rosa, il blu dei personaggi dell’icona antica ammantano qui le due �igure umane che nell’Antropometrìa sembrano scaturire dall’oro del fuoco e rivivere danzando… Ecco forse quello che voleva dire Yves, allora?

Elena Palumbo Mosca in kimono


*) Pubblicato su B. Corà, G. Perlein, YVES KLEIN La vita, la vita stessa che è l’arte assoluta, catalogo della mostra (Musée d’Art Moderne et d’Art Contemporain di Nizza, 2000 – Museo Pecci di Prato, 2000-2001 ) Gentilmente concesso da Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci.

ELENA PALUMBO MOSCA

Quando mi chiedono…

*)

Quando mi chiedono di parlare della mia trascorsa esperienza come “modella” di Yves, mi è difficile riassumere in poche parole situazioni ed emozioni che allora mi sembravano momenti di vita normali, quasi inevitabili. Eravamo amici, Rotraut ed io come due sorelle: sovente si passava la serata insieme a chiacchierare e a parlare delle nostre idee e sentimenti. Quindi, era abbastanza naturale che Yves mi chiedesse di partecipare al suo lavoro (sia le Antropometrie blu, sia le impronte d’acqua e di fuoco): sapeva che avrei cercato di capire quello che lui cercava, e che per di più mi piaceva vivere il mio corpo e la mia energia. Così, che dire adesso? Forse semplicemente questo: che, grazie al genio e al coraggio di Yves, ho vissuto un’esperienza della realtà intensa e gioiosa, e che mi è stata data la possibilità di lasciare una traccia del passaggio dell’energia cosmica attraverso il mio corpo vivente. Soprattutto quando si lavorava in “atelier”, creare le Antropometrie era chiaramente una specie di cerimonia: l’impregnazione fisica della modella con il Blu di Yves (YKB) avveniva in silenzio, in un’atmosfera di grande intensità: Yves, quasi memore di sacerdoti antichi, indicava solo dove applicare il colore. Il corpo della modella, impregnato di blu, si trasformava allora chiaramente in energia vitale materializzata: mi sembrava che diventasse un mezzo per il flusso del “ki”. Certo, allora ero molto giovane e non mi rendevo ben conto di tutto quanto era implicito da un punto di vista filosofico. Riuscivo però a percepire d’essere coinvolta in un rito iniziatico. Sentimento ancora più forte durante le esperienze nei locali del “Gaz de France”: un atelier freddo, immenso, attraversato da spifferi di gelo, nel crudo inverno di Parigi. Condizioni fisiche dure, in contatto diretto con gli elementi primigeni - l’acqua e il fuoco -, trasformavano il momento in un vero e proprio rito di iniziazione. Credo che, in un certo senso, queste esperienze siano state decisive per la maturazione della mia creatività personale. Bruxelles, febbraio 1997


La mia opera non è una “ricerca”, è la mia scia.


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Realizzazione del calco di Arman, 1962



Viaggio in Italia Caro Papà, Cara Mamma, Ecco il racconto del tanto atteso Viaggio! Mancano mille particolari ancora, ma… è finita la Carta! Partenza - Martedì 3 agosto ore 10 Mi trovo nel porto di Nizza sul bordo della strada per Menton. Faccio segno a diverse macchine, una jeep mi raccoglie e mi porta fino al confine. Passo la frontiera a piedi e fatto vistare il mio passaporto mi posiziono di nuovo sul bordo della strada. Parto con un camioncino fino a Ventimiglia. Qui salgo su una Buick che mi conduce fino a San Remo. Parlando con le persone che si trovavano a bordo, racconto loro che sono uno studente all’Accademia di Belle Arti e che ho quindicimila lire in tasca per un viaggio di un mese. Attonito l’americano al volante mi infila in tasca un pacchetto di sigarette e mille lire. Gli restituisco tutto in tasca rifiutando. Insomma il solito tira e molla / rissa… Accetto! Mando giù un paio di drink a San Remo, poi riprendo la mia strada per Genova. Volevo assolutamente essere a Genova in serata. Sono le cinque, faccio segno alle macchine che passano, niente sempre niente… fino alle dieci. Mi sono proprio scocciato di essere ancora qui da quasi cinque ore. Ormai non faccio neanche più segno, e, per consolarmi prendo un panino, lo addento… ed ecco, succede sempre così, una macchina si ferma e mi viene chiesta la “strada per Genova”. Con la bocca piena rispondo che pure io ci vado e che se c’è un posto libero ci penso io a trovare Genova come un ago in un pagliaio. D’accordo, ed eccomi partito, arrivo alle tre del mattino, ma arrivo!! Dormo nella sala d’attesa della stazione e alle 7 parto su un camion. Quindici chilometri, stop, segue un’altra piccola attesa di due ore. Una Buick si ferma di nuovo e il tipo al quale chiedo in inglese un passaggio a Pisa mi risponde in inglese che è un delitto andare a Pisa direttamente senza passare per Rapallo, che sì la strada è un po’ più lunga ma vale proprio la pena darci un’occhiata ecc. All’improvviso, vedendo che ho qualche difficoltà con l’Inglese, mi propone di parlare in Francese. Gli chiedo di che nazionalità è: Italiano… Parlava l’inglese come un inglese e il francese come un francese. Gli rifilo riempio la testa con la storiella dello studente di Belle Arti e lui, entusiasta, mi porta a casa sua, dopo avermi fatto visitare una quantità inverosimile di luoghi curiosi e di angoli splendidi, raccontandomi che adora la pittura e che ha una bella collezione di quadri di Matisse, Picasso, Braque ecc.… Vedo la collezione, mi congratulo con lui, si pranza e si discute, mentre una schiera di bimbi strepita e litiga a tavola. Il pomeriggio, si scusa di essere impegnato e di non poter continuare a portarmi in giro in macchina. Però, se voglio posso prendere la moto e visitare tutto da solo, ma in moto. Vado dunque a Rapallo, Santa Margherita e Portofino, le spiagge più eleganti d’Italia. La sera ceno a casa sua e il giorno dopo parto per Pisa Passando per “La Spezia”. Arrivo a Pisa nel pomeriggio - con due macchine. A Pisa affitto per la prima volta una stanza in albergo. Vado a vedere la Torre, il Battistero, il camposanto, insomma tutti i posti famosi, compreso il museo. La città è molto bella ma un po’ danneggiata dai bombardamenti. Il giorno dopo, nel pomeriggio, parto per Firenze, una sola macchina su una strada splendida.

Viaggio in Italia, Firenze, 1948 (agosto)



A Firenze mi sistemo di nuovo in albergo, un piccolo albergo non troppo caro (trecento lire soltanto). Verso sera vado a spasso e mi corico molto presto perché sono stanchissimo. Il mattino seguente: visita. Vedo la chiesa sulla piazza principale, di cui non ricordo più il nome. Pure qui, di nuovo, c’è un Battistero con questa volta delle porte in “oro” massiccio, poi visito Palazzo Medici, gli Uffizi, Palazzo Pitti, il tutto ricolmo di quadri di Raffaello, Michelangelo, Tiziano, Botticelli, Giotto, Filippino Lippi ecc… Poi, altre chiese ancora. E tutte queste chiese, così come numerosi palazzi e edifici, sono in marmo intarsiato di marmi di vari colori, una specie di intarsio di marmo insomma! Infine vedo Fiesole, un piccolo villaggio vicino a Firenze pieno zeppo di vestigia romane. L’impressione generale di Firenze è fantastica, perché tutto vi è armonioso e fine. Mi trovo qui da quattro giorni, ho speso poco: trecento lire per l’albergo, duecento lire al massimo al ristorante (Ristorante Popolare). Parto il quarto giorno verso sera con due belgi che ho incontrato e che viaggiano come me. Un camion ci porta a Roma. Faccio il viaggio di notte, e attraverso Siena senza poter fermarmi né vedere alcunché. Arrivo a Roma la mattina alle sei. Insieme ai belgi abbiamo deciso di chiedere ospitalità in un convento per evitare le spese dell’Albergo. Mentre visitiamo il cortile del Vaticano chiediamo a tutti i religiosi che incontriamo se non conoscono un convento dove potremmo passare la notte. Incappiamo su un piccolo religioso che parla benissimo il francese. Alla fine ci dice che è Belga, anzi che è nientemeno che vescovo di Anversa, e ci scrive un bigliettino per un convento che conosce e ci manda lì. Quando arriviamo siamo accolti benissimo e ci viene persino offerto, oltre l’alloggio, di mangiare gratis. Il convento è splendido. È una costruzione moderna, abbiamo delle camere da veri signori, con grandi finestre con vista su tutta Roma, giacché il monastero si trova su una collina. C’è un bagno, la doccia vicino ad ogni camera, il cibo è ottimo. Siamo ospitati dai Benedettini che ci lavano le mani assai cerimoniosamente con l’acqua santa prima di ogni pasto! Visita di Roma: per scoprire la città, un giorno sì e un giorno no ci appioppano come guida un monaco eruditissimo, e visitiamo da cima a fondo Basiliche, chiese, e ovviamente le catacombe. Per il resto del tempo passeggiamo per la città antica. Foro Romano, con Basilica di Massenzio, arco di Severo, arco di Tito, il Palatino, il Tempio di Cesare, l’arco di Costantino vicino al Colosseo, le terme di Caracalla, il Tempio di Vesta, il Pantheon, Santa Maria Maggiore, Santa Cecilia, il Quirinale, San Paolo Fuori le mura sulla via Appia, le catacombe, la tomba di Cecilia Metella, tutta tonda come Castel Sant’Angelo, la villa Doria Pamphili, il Vaticano, i Musei Vaticani, che sono una meraviglia, un gioiello di valore inestimabile, con i seguenti dipinti: - primo: tutta l’arte Bizantina e i Primitivi, la scuola Senese, - Fra Angelico, Bellini - Raffaello, pitture e arazzi con la cappella Sistina e qualche stanza di venti trenta metri di lunghezza ognuna decorata a fresco da Raffaello; secondo - tutte le celebri Sculture, il Discobolo, tutte le Veneri, Giunone, ed Ercole con Giove Olimpico; terzo - le sale dei vasi greci, questi meravigliosi vasi rossi a vernice nera, a migliaia! - quarto - le sale egizie - che meraviglie - i sarcofagi in legno dipinto con colori incredibili, statue, tombe - insomma, meraviglie a non finire. Quando lascio Roma dopo cinque giorni di assiduo visitare sono sfinito e incapace di dire una parola su quanto ho visto. Solo ora comincio a distinguere meglio le cose. È la volta del viaggio da Roma a Napoli. È splendido, siamo riusciti a salire su un camion e questo camion trasporta dei materassi. Facciamo tutto il viaggio distesi su questi materassi,

Viaggio in Italia, Rome(?), 1951



osservando distrattamente il paesaggio. Giunti a Napoli, mangiamo con i camionisti, poi proseguiamo fino a Pompei per fermarci due giorni in albergo. Pompei è la più fantastica evocazione del prestigioso passato latino. Passeggiamo per la città antica tutto il giorno e anche di sera al chiaro di luna. Si ha l’impressione di passeggiare in una città moderna (eccetto qualche dettaglio) che sarebbe stata bombardata la sera prima e abbandonata oggi da tutti i suoi abitanti. È davvero impressionante, e poi ci sono gli affreschi, così celebri, splendidi, e i cadaveri pietrificati con espressioni del viso tuttora toccanti. Vediamo pure Ercolano, che, salvo pochi dettagli, è identica a Pompei. Ci arrampichiamo sul Vesuvio due volte di seguito - la prima di notte, la seconda di giorno. Visitiamo Pozzuoli. Qui la lava è liquida e ribollente. Scopriamo Napoli, naturalmente, e ci imbarchiamo per Capri a Sorrento, dopo aver visto Amalfi. Finalmente arrivo a Capri, lo scopo che mi ero prefisso per questo viaggio! Qui potrò finalmente trascorrere delle vacanze rilassanti, senza essere stordito dalla visita obbligatoria di qualche meraviglia da non perdere pena farsi dare dell’Americano. Siccome abbiamo tutti l’intenzione di fermarci a Capri per un po’, si tratta di trovare ora un altro convento per evitare le spese dell’albergo. Sulla nave ci siamo informati: ci sono dei Certosini. Arrivo a Capri: un paesaggio dai mille colori e nello stesso tempo molto dolce, immense rocce che si tuffano nell’acqua, e quest’acqua non è più mare, perché per un speciale effetto di luce essa dà l’impressione di un miscuglio di toni differenti che di tanto in tanto si disgregano e formano delle spiagge verdi, rosse, blu, grigie, qui e là. Si approda sul molo di un incantevole piccolo porto che si chiama Marina Grande. Qui si possono vedere alcune case di pescatori e all’inizio si pensa che si tratti di Capri, ma niente affatto. Per andare a Capri bisogna prendere una piccola Funicolare e dieci minuti più tardi ci si ritrova sulla Piazzetta!! La Piazzetta è la vita stessa di Capri, è una meravigliosa piccola piazza dove tutto è bello, i negozi, i caffè, il campanile e la chiesa, l’insieme ha un fascino che ti accattiva subito e non ti lascia più, come vi avevo scritto, è una sorta di Cagnes-sur-Mer in miniatura con dei vicoli strettissimi che convergono tutti verso questa famosa piazzetta che è chiaramente il centro dell’isola. La sera tutto il villaggio è illuminato dagli elegantissimi negozi di abbigliamento e di ninnoli, e le vie brulicano di gente, gente stranissima e variatissima. Il mondo intero, tutte le nazioni sono presenti. Troviamo la Certosa e i monaci (che sono qui soltanto per fare il loro liquore). Sono d’accordo e ci alloggiano in una piccola cappella sconsacrata. Solo che non possiamo mangiare lì tutti i giorni, hanno scorte soltanto per loro! Ci inviteranno solo tre o quattro volte al massimo. In compenso, tutte le sere un monaco in stato di ubriachezza avanzata ci porterà una bottiglia di liquore, e in tre, nonostante tutto, ce la scoliamo. Tutte le sere anche (per riposarci) si va a ballare nelle sale più raffinate della città, sempre con la nostra bottiglia di liquore sottobraccio. Cominciamo a non passare inosservati! Inoltre ho sempre la camicia con le impronte dei piedi e delle mani, il che fa sempre effetto, anche se a Capri (un luogo molto eccentrico) ho parecchi concorrenti. Durante la giornata: bagno, passeggiate in mare, giro dell’isola in barca e visita delle grotte a volontà. Queste

Viaggio in Italia, Pisa, 1948 (agosto)



grotte sono il mistero più meraviglioso dell’isola. Come sono nate? Inutile chiederselo, basta contemplare. È il più fantastico gioco di colori che abbia visto nella natura. Del resto, in generale Capri è un vero sfavillare di colori, mai troppo accesi però, anzi piuttosto tenui e in ogni caso tutti gradevoli. Capri - Anacapri - grotta azzurra - grotta meravigliosa ecc. A Capri, dopo 7 giorni di delizie, incontriamo per caso un Belga che possiede un piccolo veliero di otto metri. Si annoia tutto solo. Non osa avventurarsi in mare né fare lunghe gite. Lo convinciamo, e salpiamo!! Questa volta è un viaggio per mare, un po’ più impegnativo, in effetti. Rimaniamo aggrappati tutto il giorno a un lato della barca mentre l’albero e la vela pendono verso l’altro - e così viaggiamo per quattro giorni vedendo: Ischia, la costa del golfo di Napoli, fino a Reggio Calabria, punta estrema dell’Italia, Messina, Palermo, Stromboli, e le isole circostanti, finalmente una spedizione come si deve!! Di ritorno a Capri, mi riposo una notte e via per Venezia - Napoli- Roma - Roma - Firenze - Firenze - Bologna - Venezia con una sola macchina!! E il tipo dice di avere fretta - eccomi dunque a Venezia dopo un giorno e mezzo di viaggio. Qui a Venezia trovo ancora delle meraviglie artistiche sbalorditive, quadri e architettura. Mi fermo due giorni in albergo, per trecento lire ancora (mentre tutti mi parlavano di cinque o seicento), e visito: in traghetto, ovviamente, perché qui è tutto sull’acqua come ad Amsterdam! Mi concedo anche un giro in gondola, ma poi mi ricordo (pagando 400 lire per mezz’ora) che devo pensare al viaggio di ritorno. Ne ho le tasche piene di fare l’autostop e decido di prendere il treno per il ritorno. Acquisto il biglietto e mi accorgo che mi restano soltanto cinquanta lire. Mi faccio rimborsare il prezzo della camera dove ho già trascorso una notte. Faccio un pranzo colossale e parto a mezzanotte, dopo aver trascorso due giorni nell’indimenticabile Venezia, con il suo gioiello Piazza San Marco. Salgo sul treno per Nizza! Con due lire in tasca. Mi sento quindi piuttosto squattrinato e sento il bisogno di parlarne nello scompartimento - e tanto basta per essere travolto da panini, vini, e sigarette. E così, eccomi a Nizza senza avere più fame, né sete, né voglia di fumare - un po’ stanco, ma soddisfatto della mia piccola gita - fine della Storia!!!! È scritto malissimo, ma spero che capirete che non riuscivo più concludere, e quando m’innervosisco, faccio degli errori, delle correzioni, e scrivo male! Tante scuse e Tanti Bei Bacioni Yves

Nota: la punteggiatura e l’ortografia sono stati rivisti per agevolare la lettura di questo testo redatto in circostanze che hanno spinto l’autore a dire: “Faccio degli errori, delle correzioni, e scrivo male!”.

Viaggio in Italia, Piazza Pitti, Firenze, 1948 (agosto)


La casa di Haut de Cagnes-sur-Mer, anni di guerra


Biografia

Yves Klein (1928-1962)

Fred Klein nel suo atelier, verso il 1958

1928 Yves Klein è nato a Nizza il 28 aprile, rue Verdi, nella casa dei suoi nonni materni. Suo padre, Fred Klein, olandese di origine indonesiana, è un pittore figurativo. Sua madre, nata Marie Raymond, originaria delle Alpes-Maritimes, è conosciuta come pittrice astratta.

1928-1946 Yves Klein segue i genitori nelle loro varie residenze. La famiglia Klein vive a Parigi, ma soggiorna ogni estate a Cagnes-sur-Mer dove abita Rose Raymond, la sorella di Marie Raymond. Costantemente circondato, aiutato, sostenuto da sua zia, Yves le è molto affezionato. A partire dall’estate 1939 e fino nel 1943, i Klein rimangono a Cagnessur-Mer, all’epoca zona non occupata.

1947 Durante l’estate, iscrivendosi a Nizza al club di judo del quartiere generale della Polizia, Yves Klein incontra Claude Pascal e Armand Fernandez. Uniti da una grande passione per l’esercizio fisico, la loro aspirazione è l’Avventura, il viaggio, la creazione, la spiritualità. Il judo fu per Yves la prima esperienza dello spazio “spirituale”.

Marie Raymond nel suo atelier, verso il 1958

Sulla spiaggia di Nizza, i tre amici scelgono di “dividersi il mondo”: Armand avrà la terra e le sue ricchezze, Claude Pascal l’aria, e Yves il cielo e il suo infinito: Mentre ero ancora un adolescente, nel 1946, andavo a firmare il mio nome sull’altra parte del cielo durante un viaggio fantastico realisticoimmaginario. Quel giorno, mentre ero disteso sulla spiaggia di Nizza, cominciai ad odiare gli uccelli che svolazzavano nel mio bel cielo azzurro senza nuvole, perché cercavano di fare dei buchi nella più bella e la più grande delle mie opere. YVES KLEIN Manifeste de l’Hôtel Chelsea, New York, 1961

1947-1948 Yves Klein elabora il progetto di una Symphonie monotonSilence, composizione musicale ad un solo tono, seguita da un lungo silenzio, equivalente sonoro della monocromia nella pittura. Durante quel periodo di condensazione, creò, verso il 1947-1948, una sinfonia – Monotono – il cui tema è come volevo che fosse la mia vita. YVES KLEIN Le Dépassement de la problématique de l’art, Editions de Montbliard, La Louvière, Belgio, 1959


Yves Klein e Claude Pascal, nelle strade di Nizza, circa 1948


1948 Un giorno, (alla fine del 1947 o all’inizio del 1948), dice Claude Pascal, Yves arrivò dicendo – guardate, ho trovato. Mi mostrò la Cosmogonie des Rose-Croix. Abbiamo cercato di leggere il libro e abbiamo scoperto che, senza maestro, non l’avremmo capito. Alla fine, i due giovani trovano in Louis Cadeaux, vecchio astrologo, un iniziatore alla dottrina ermetica della RosaCroce.

CLAUDE PASCAL Citato in Yves Klein, Centre Georges Pompidou, Parigi, 1983

La Cosmogonie des Rose-Croix, di Max Heindel, diventa un punto di riferimento e di studio quotidiano per Klein per quattro o cinque anni. In giugno, Yves Klein e Claude Pascal si iscrivono alla Société des Rose-Croix di Oceanside in California.

1948-1954 Durante l’estate 1948, visita l’Italia (Genova, Portofino, Pisa, Roma, Capri, Napoli…). Nel Novembre 1948, parte per undici mesi di servizio militare in Germania. Alla fine del 1949, Claude Pascal e Yves Klein si trasferiscono provvisoriamente a Londra dove continuano le loro attività di judo. Yves trova un lavoro presso il corniciaio Robert Savage, che aveva preparato la mostra di Fred Klein a Londra nel 1946. In quel periodo, Yves crea alcuni monocromi su carte e su cartone usando il pastello e gli acquerelli. Il soggiorno presso Savage sarà per lui un apprendimento del rigore nel lavoro. Yves fa pratica allora con la doratura a foglia d’oro.

rientravo la sera in camera mia, eseguivo acquerelli monocromi su pezzi di cartone bianco e sempre più usavo molto il pastello. Mi piaceva molto la tonalità pastello! Mi sembrava che, nella materia pastello, ogni grano di pigmento rimanesse libero e unico senza essere ucciso dal medium di fissazione, e ne realizzavo di molto grandi, ma purtroppo, fissati col vaporizzatore, perdevano tutta la loro vivacità e la tonalità diminuiva, oppure se non erano fissati, si rovinavano irrimediabilmente e diventavano polvere a poco a poco, e la bellezza del colore rimaneva lì, ma senza forza pittorica. Non mi piacevano i colori macinati ad olio. Mi sembravano morti; quello che mi piaceva più di tutto, erano i pigmenti puri in polvere come li vedevo spesso nei negozi di colore all’ingrosso. Avevano una vivacità e una vita propria e autonoma straordinaria. Era veramente il colore. La materia colore viva e tangibile.[…] Attirato irresistibilmente da questa materia nuova monocroma, decisi di intraprendere le ricerche tecniche necessarie per trovare un legante capace di fissare il pigmento puro al supporto senza alterarlo. Il valore colore sarebbe allora rappresentato in modo pittorico. Evidentemente, la possibilità di lasciare i grani di pigmento in totale libertà, come si trovano in polvere, mischiati forse, ma indipendenti, pur essendo tutti simili, mi piaceva abbastanza. L’arte è libertà totale, è la vita; non appena c’è costrizione in qualsiasi modo, c’è attentato alla libertà, e la vita diminuisce in funzione del livello di costrizione. YVES KLEIN L’aventure monochrome (antologia di testi di Yves Klein, realizzata nel 1958 e rimasta in parte inedita)

1950 Il 4 aprile, Yves Klein e Claude Pascal lasciano Londra per andare in Irlanda dove rimangono fino alla fine del mese di agosto, in un club di equitazione, il Jockey Hall. Klein scriverà le sue attività e le sue riflessioni sulla pittura in un diario.

[…] L’illuminazione della materia nella sua qualità fisica, io l’ho ricevuta lì, durante quell’anno presso “Savage”. A casa, quando

La scuola di judo a Nizza, circa 1948:

Yves Klein, foto d’identità, verso il 1950


giapponesi. Durante quel soggiorno, prepara un libro sul judo allo scopo di portare in Europa lo spirito e la tecnica dei Kata giapponesi. Durante l’anno 1953, Yves annulla la sua iscrizione alla Société des Rose-Croix di Oceanside. Poco prima del suo ritorno, ottiene il 4° dan di judo e arriva così al miglior livello europeo.

1954

Yves Klein, viaggio in Irlanda, al Jockey Hall, aprile-maggio 1950

1951 Il 3 febbraio, Yves Klein parte per Madrid per studiare lo spagnolo. All’inizio, Claude Pascal e Yves avevano progettato un giro del mondo iniziatico. Problemi di salute impedirono a Pascal di partire. In Spagna, iscritto in un club di judo, Klein sostituisce un istruttore e continua regolarmente questa attività. Diventa amico del direttore della scuola, Fernando Paco de Sarabia, il cui padre è editore.

1952 Durante l’estate, prende contatti in Giappone e, grazie all’aiuto della zia, si imbarca per Yokohama dove arriva il 23 settembre. Poco dopo, si trasferisce a Tokyo e il 9 ottobre si iscrive all’Istituto Kodokan, il più prestigioso centro di judo. Vive in Giappone per quindici mesi, dividendo il suo tempo fra l’Istituto e le lezioni di francese a studenti americani e Yves Klein a Singapore, viaggio in Asia, settembre 1952

Ritornato a Parigi, si scontra con la diffidenza degli ambienti professionali e istituzionali del judo. Le sue speranze di dirigere, col tempo, la Federazione Francese di Judo si rivelano un fallimento, malgrado la pubblicazione in novembre del suo libro Les Fondements du Judo presso le Edizioni Grasset. (Questo manuale di judo è illustrato da fotografie che mostrano Yves Klein mentre effettua dei Katas con altri judoka). Yves decide allora di lasciare la Francia per la Spagna dove lo chiama l’editore Fernando Franco de Sarabia. Maggio: Yves Klein pubblica Yves Peintures et Haguenault Peintures. Queste due raccolte di monocromi sono realizzate e edite dal laboratorio di incisione di Fernando Franco de Sarabia, a Jaen, vicino a Madrid. La prefazione, firmata Pascal Claude, è formata da righe nere al posto del testo. Le dieci tavole a colori sono costituite da rettangoli a colore unico ritagliati nella carta e accompagnate da dimensioni in millimetri. Ogni tavola indica un luogo diverso di creazione, Madrid, Nizza, Tokyo, Parigi. Haguenault Peintures porta indicazioni di collezioni. Queste due opere costituiscono il primo gesto pubblico di Yves. Yves Peintures et Haguenault Peintures sono opere d’arte con le quali Yves Klein pone il problema dell’illusione nell’arte. Ieri sera, mercoledì, siamo andati in un caffè di astratti […], alcuni astratti erano lì. Erano facilmente riconoscibili perché emanano un’atmosfera da quadri astratti e poi si vedono i loro quadri nei loro occhi. Forse ho delle illusioni, ma ho l’impressione di vedere tutto ciò. Comunque, ci siamo seduti con loro […]. Poi, abbiamo cominciato a parlare del libro Yves Peintures. Più tardi, sono andato a prenderlo in macchina e l’ho lanciato sul tavolo. Già alle prime pagine, gli occhi degli astratti cambiarono. I loro occhi si illuminarono e sul fondo apparivano colori uniti, puri e belli. Diario parigino in data 13 gennaio 1955.

1955 Alla fine del 1954, Klein lascia la Spagna per tornare a Parigi. Nella primavera del 1955, propone un monocromo arancione intitolato Expression de l’univers de la couleur mine orange al Salon des Réalités Nouvelles riservato agli artisti astratti. Questa tavola di legno, di forma rettangolare, è coperta in modo uniforme da pittura arancione opaca. E’ firmata dal monogramma YK e datata maggio 1955.


Il monocromo viene rifiutato dalla giuria che spiega a Marie Raymond le ragioni di questa scelta: Lei capisce, non è veramente sufficiente; se Yves accettasse almeno di aggiungere una piccola riga, o un punto, o anche semplicemente una macchia di un altro colore, potremmo metterlo in mostra, ma un unico colore unito, no, no, veramente non è abbastanza, è impossibile! YVES KLEIN L’aventure monochrome, prima parte, op. cit.

Settembre: Yves Klein apre una scuola di judo al 104, boulevard de Clichy, a Parigi. Nella sala egli appende diversi monocromi.

15 Ottobre: prima mostra pubblica Yves Peintures, al Club des Solitaires, nei saloni privati delle Edizioni Lacoste. Yves espone monocromi di diversi colori. Confida i suoi propositi in un testo per i visitatori della mostra: Dopo essere passato attraverso diversi periodi, le mie ricerche mi hanno portato a dipingere dei quadri uniti monocromi. Le mie tele sono quindi ricoperte da uno o più strati di un solo colore unito, dopo una certa preparazione del supporto e con diversi procedimenti tecnici. Non appare nessun disegno, nessuna variazione di tonalità; c’è soltanto un colore ben UNITO. In qualche modo, la dominante invade tutto il quadro. Cerco così di individualizzare il colore, perché sono arrivato a pensare che c’è un mondo vivente di ogni colore ed esprimo questi mondi. I miei quadri rappresentano ancora un’idea di unità assoluta in una perfetta serenità; idea astratta rappresentata in modo astratto, e questo mi ha condotto ai pittori astratti. Segnalo subito che gli astratti non lo vedono così e mi rimproverano, tra l’altro, di rifiutare di provocare rapporti di colori. Penso che il colore “giallo”, ad esempio, sia sufficiente da solo a rendere un’atmosfera e un clima “oltre il pensabile”; inoltre, le sfumature del giallo sono infinite e questo dà la possibilità di interpretarlo in molti modi. Per me, ogni sfumatura di un colore è in qualche modo un individuo, un essere che appartiene soltanto alla stessa razza del colore base, ma che possiede un carattere e un’anima personale diversa. Ci sono sfumature dolci, cattive, violente, maestose, volgari, calme, ecc. Insomma, ogni sfumatura di ogni colore è proprio una “presenza”, un essere vivente, una forza attiva che nasce e che muore dopo avere vissuto una specie di dramma della vita dei colori. Il pensiero teorico di Yves Klein è già evidente nel corso di questa prima mostra. L’incontro essenziale con Pierre Restany al Club des Solitaires sarà un elemento determinante nella carriera artistica di Yves Klein come in quella di Pierre Restany.

Yves Klein vestito da cavaliere dell’Ordine degli Arcieri di San Sebastiano, 1956

1956 21 febbraio – 7 marzo. Mostra Yves, Propositions Monochromes, presso la Galleria Colette Allendy, al 67 rue de l’Assomption, a Parigi. Pierre Restany scrive un testo radicale e provocatorio per il biglietto d’invito.

IL MINUTO DELLA VERITÀ • A tutti gli intossicati della macchina e della grande città, i frenetici del ritmo e i masturbati del reale, YVES propone una cura del silenzio astenico fruttuoso • Ben al di là dei dipanamenti dei mondi degli altri, già così poco percettibili al nostro senso comune del ragionevole, accanto probabilmente a quello che si è soliti chiamare “l’arte di dipingere”, comunque a livello delle più pure e essenziali risonanze affettive, si trovano queste proposte rigorosamente monocromatiche: ognuna di esse delimita un campo visivo, uno spazio colorato, liberato da qualunque trascrizione grafica e sfuggente in tal modo alla durata, dedicate all’espressione uniforme di una certa tonalità • Oltre il pubblico - pubblico, comodo specchio per le allodole, i vecchi habitués dell’informale si metteranno d’accordo sulla definizione di un “niente”, tentativo insensato di volere elevare alla potenza + la drammatica (e ormai classica) avventura del quadrato di Malévitch • Ma qui non c’è né quadrato nero né sfondo bianco, e siamo nel


cuore del problema. L’aggressività di queste diverse proposte di colore proiettate fuori dalla galleria è solo apparente • L’autore richiede qui allo spettatore quell’intenso e fondamentale minuto di verità, senza il quale qualsiasi poesia sarebbe incomunicabile, le sue presentazioni sono strettamente oggettive, ha rifiutato il più piccolo pretesto di integrazione architettonica degli spazi di colore. Non lo si può sospettare di nessun tentativo di decorazione murale • L’occhio del lettore, così terribilmente contaminato dall’oggetto esterno, sfuggendo da poco alla tirannia della rappresentazione, cercherà invano l’instabile ed elementare vibrazione, segno al quale è abituato a riconoscere la vita, essenza e fine di ogni creazione… Come se la vita non fosse che movimento • E’ obbligato a cogliere l’universale senza l’aiuto del gesto o della traccia scritta, e allora pongo questa domanda: dove, a quale livello di evidenza sensibile si situa lo spirituale nell’arte? • L’onniscienza dialettica ha fatto di noi dei meccanismi di pensiero, incapaci di qualsiasi sincero accomodamento? In presenza di questi fenomeni di pura contemplazione, la risposta vi sarà data da alcuni uomini di buona volontà, ancora sopravvissuti. • Pierre Restany • Durante il vernissage, Klein incontra Marcel Barillon di Murat, cavaliere dell’Ordine degli Arcieri di San Sebastiano, che gli propone di unirsi a loro. L’11 marzo, Yves viene armato cavaliere dell’Ordine degli Arcieri di San Sebastiano nella chiesa di Saint-Nicolas-des-Champs, a Parigi. Prende come motto: Per il colore! Contro la linea e il disegno! Durante la mia seconda mostra parigina presso Colette Allendy, ho mostrato nel 1956 una scelta di PROPOSITIONS di colori e di formati diversi. Mi aspettavo dal grande pubblico quel “minuto di verità” di cui parlava Pierre Restany nel suo testo per la mia mostra. Prendendo la libertà di fare tabula rasa di tutto questo strato di impurità esterna e cercando di raggiungere questo livello di contemplazione nel quale – il colore diventa piena e pura sensibilità. Purtroppo, accadde che nel corso di manifestazioni che ebbero luogo in quella occasione, che molti spettatori fossero schiavi del loro modo di vedere abituale e che fossero molto più sensibili alla relazione delle PROPOSITIONS tra di loro e si ricreassero elementi decorativi e architettonici di un motivo a più colori.

YVES KLEIN Le Vrai devient réalité – Zero 3 – Düsseldorf, luglio 1961

Nel 1956, Yves Klein incontra Iris Clert, che animava una piccola galleria di 20 m2, 3 rue des Beaux-Arts, a Parigi. Iris Clert racconta questo primo incontro: Un giorno, durante la mostra di Tsingos, vidi entrare un uomo giovane, sportivo, con un bel sorriso sincero e grandi occhi neri che vi guardavano diritto negli occhi. - Sono Yves Klein, mi disse, Le ho portato una proposta monocroma. Teneva in mano un piccolo quadro arancione tutto unito, liscio, come un pezzo di muro. - Non è un quadro! - Si, è una proposta monocroma. Gliela lascio qualche giorno, mi dirà cosa ne pensa. Misi questa “cosa” per terra in un angolo e non ci pensai più. Tutte

le mattine, entrando nella mia galleria, questa macchia arancione mi saltava agli occhi; in mezzo a tutti quei Tsingos multicolori, questa presenza arancione mi affascinava. Ebbi l’idea di metterla su un piccolo cavalletto nella mia vetrina. L’effetto fu immediato. Gli studenti delle Belle Arti, passando per andare Chez Tintin, non smettevano di ricoprirmi dei loro sarcasmi. Presto, tutta la strada seppe che una pazza esponeva un quadro unito e di un solo colore. La mia vetrina divenne il “clou” della Rive Gauche. Quando Yves ritornò, accettai di andare a vedere il suo atelier. Era a Pigalle, accanto al Moulin Rouge. Entrai in un immenso atelier dava lezione di judo. Sui muri vidi la sua opera, grandi pannelli monocromi di tutti i colori. Credevo che rappresentassero le cinture di judo. - Cosa pensa dei miei quadri ? - Penso che è una bella scenografia per il judo. - Ma no, è un percorso metafisico. - Mi spieghi… A partire da quel giorno, Yves ed io, diventeremo inseparabili.

IRIS CLERT Iris-Time (l’Artventure), Editions Denoël, Parigi, 1978.

[Vernissage della mostra Proposte monocrome, epoca blu. Galleria Apollinaire, Milano, 2 gennaio 1957: Yves Klein, Adriano e Ada Parisot, Pierre Restany, Lutka Pink]

1957 2-12 gennaio: inizio dell’epoca blu Mostra Yves Klein: Proposte monocrome, epoca blu, alla Galleria Apollinaire di Milano. Undici opere di formato identico (78 x 56 cm), dipinte uniformemente di blu oltremare, sono sospese con un sistema di squadre ad una distanza di 20 cm dal muro, saturando lo spazio ristretto della galleria di piccole dimensioni. Poiché i pannelli blu non avevano cornici, il colore ricopriva i bordi esterni del telaio. Per la prima volta, Klein presentava un’intera sala di monocromi blu, uno di questi fu acquistato da Lucio Fontana. Questa prima apparizione dell’Epoca Blu fu l’occasione per Yves di valutare l’accoglienza della sua opera: Tutte queste proposte blu, tutte apparentemente simili, furono tuttavia riconosciute dal pubblico come ben diverse le une dalle altre. L’intenditore passava da una all’altra come era necessario e penetrava in uno stato di contemplazione istantanea nei mondi del blu. Ma ogni mondo blu di ogni quadro, anche se dello stesso blu e trattato allo stesso modo, si presentava con tutt’altra essenza e atmosfera, nessuno assomigliava all’altro; come né i momenti pittorici né i momenti poetici si assomigliano. Benché tutti della stessa natura, superiore e sottile (localizzazione dell’immateriale). L’osservazione più sensazionale fu quella dei “compratori”. Scelsero fra gli undici quadri esposti, ognuno il proprio e lo pagarono ognuno il prezzo richiesto. I prezzi erano ovviamente tutti diversi. Questo fatto dimostra che la qualità pittorica di ogni quadro era percettibile tramite qualcos’altro che l’apparenza materiale e fisica da una parte, e dall’altra ovviamente che coloro che sceglievano, riconoscevano questo stato di cose che io chiamo la “sensibilità pittorica”.

YVES KLEIN

L’aventure monochrome, op. cit.


Vernissage della mostra Proposte monocrome, epoca blu. Galleria Apollinaire, Milano, 2 gennaio 1957: Yves Klein, Adriano e Ada Parisot, Pierre Restany, Lutka Pink

Nel maggio 1957, Yves presenta una mostra congiunta, Propositions monochromes, presso Iris Clert (10-15 maggio) e Colette Allendy (14-23 maggio).

questo elemento Ultra Vivo. Se tutto ciò che cambia lentamente si spiega con la vita, tutto ciò che cambia velocemente si spiega con il fuoco… La durata visibile: un minuto.

Da Iris Clert, Yves sceglie di presentare le sue Propositions monochromes come aveva fatto a Milano. L’inizio dell’Epoca Blu viene celebrata con il lancio di 1001 palloni blu nel cielo di Parigi nel corso dell’inaugurazione. Klein qualificherà questo gesto di Sculpture aérostatique.

Il lettore illuminato visualmente, portava con sé la sua visione nel ricordo – ma non nel passato – perché l’impressione affezione, l’immagine sensuale della piastra di Fuoco diventava sempre più presente e crescente nella memoria visiva. Come dire che la durata di un minuto, più la sensazione della velocità immobile del Fuoco, eliminava la fenomenologia del tempo.

Da Colette Allendy, Yves presenta un insieme di opere che annunciano i suoi sviluppi futuri: sculture, ambiente, vasche di pigmenti puri, paravento, il primo dipinto del fuoco, Feux de Bengale-tableau de feu bleu d’une minute (M 41) e il primo Immatériel: una sala è stata lasciata interamente vuoto come testimonianza della presenza della sensibilità pittorica allo stato di materia prima. Nel Dépassement de la problématique de l’art (1959), Yves Klein commenta l’importanza di questi due eventi: Presentata nel 1957 a Parigi, nella Galleria Clert e nella galleria Colette Allendy, l’Epoca Blu fa la mia iniziazione. Mi accorgo che i quadri non sono che le “ceneri” della mia arte. La qualità autentica del quadro, il suo stesso “essere”, una volta creato, si trova oltre il visibile, nella sensibilità pittorica allo stato di materia prima. Montato su un cavalletto di studio, un pannello di legno dipinto in blu sul quale erano fissate delle quantità di razzi Bengala ad effetto blu… ho subito potuto constatare le immense possibilità di

YVES KLEIN

Il quadro è energia poetica concentrata, più esattamente contratta dal punto di vista psicologico, a colori, prima medium che si carica e si satura meglio con questo stato di cose sottile: e poi le linee, il disegno, la forma e la composizione creano un discorso di ricercatezza per scusare quasi l’intrusione della libertà solidificata nella costrizione della tradizione. Ho quindi pensato che la tappa dopo l’Epoca blu fosse la presentazione al pubblico di questa sensibilità pittorica, di questa “energia poetica”, di questa materia libertà impalpabile allo stato non concentrato, non contratto. Sarebbe un quadro realmente informale come è e come deve essere. Ho quindi, nella mia ultima mostra doppia a Parigi, da Iris Clert e Colette Allendy nel 1957, presentato in una sala al primo piano da Colette Allendy, una serie di superfici di sensibilità pittorica invisibile ad occhio nudo, ovviamente, ma ben presente.

YVES KLEIN L’Aventure monochrome, op. cit.


1958 Gennaio: Yves Klein ottiene un ordine importante per la decorazione del nuovo teatro dell’Opera di Gelsenkirchen. I lavori di costruzione dureranno quaranta mesi. Vi ritroverà Norbert Kricke, Paul Dierkes, Robert Adams, Jean Tinguely, sotto la guida dell’architetto Werner Ruhnau. In primavera, si sistema a Parigi al 14 rue Campagne-Première. Aprile: primo pellegrinaggio al monastero di Santa Rita a Cascia in Italia. 26 aprile: alle ore 23 ha luogo una prova di illuminazione in blu dell’Obelisco di Piazza della Concorde, in presenza di Iris Clert, di Yves Klein e del capo dell’illuminazione della Città di Parigi. Lo scopo di Klein è di completare l’inaugurazione della sua futura mostra da Iris Clert, prevista due giorni dopo, con l’illuminazione del monumento. L’autorizzazione sarà rifiutata dal Prefetto. Parigi, 29 aprile 1958

Yves Klein nel giardino di Colette Allendy, accanto al quadro Feux de Bengale-tableau de feu bleu d’une minute (M 41) al quale dà fuoco la sera del vernissage della mostra Yves. Propositions monochromes. Galleria Colette Allendy, 1957

L’invito comune alle due mostre riporta un testo di Pierre Restany ed è affrancato con un francobollo blu realizzato da Yves Klein.

LETTERA APERTA Sig. Prefetto della Senna, Palazzo Comunale, PARIGI Signor Prefetto,

Si tratta per Lei di un atto amministrativo senza importanza. Ma questa manifestazione aveva per me un significato ben diverso. Consacrava la conclusione di una serie di sforzi e di ricerche, condotte senza tregua da cinque anni e che voleva dimostrare le immense possibilità del colore e delle sue risonanze affettive sulla sensibilità umana. Trovava posto nel calendario delle manifestazioni che organizzo in questo momento nella Galleria Iris Clert, Rive Gauche. Non c’era nessuna intenzione di turbare l’ordine pubblico, ma la volontà di affermare davanti a tutti la mia convinzione spirituale più profonda. Nel corso delle prove tecniche, ho avuto l’immensa gioia di cogliere la mia visione dell’obelisco blu: ne sono molto soddisfatto. Mi dispiace questo divieto per gli altri, per tutti gli spettatori eventuali di questo minuto indimenticabile.

YVES KLEIN Copia manoscritta della lettera indirizzata al Prefetto della Senna, a seguito del rifiuto dell’illuminazione in blu dell’Obelisco della Place de la Concorde a Parigi.

Busta spedita da Yves Klein a se stesso per la mostra. “La spécialisation de la sensibilité à l’état de matière première en sensibilité picturale stabilisée”, 22 aprile 1958.

La Galleria Schmela di Düsseldorf apre le sue porte con la mostra Yves. Propositions monochromes, il 31 maggio 1957. Yves Klein pone la sua candidatura per la decorazione dell’Opera di Gelsenkirchen, nella Ruhr, in Germania. 24 giugno – 13 luglio: mostra Monochrome Propositions of Yves Klein alla Gallery One di Londra. Il 26 giugno, nel corso di un dibattito organizzato con Klein all’Institute of Contemporary Arts, una polemica prende proporzioni impreviste. La stampa inglese parla ampiamente dello scandalo provocato dalla mostra. A Nizza, durante l’estate, Yves incontra Rotraut Uecker, giovane artista tedesca, che diventerà la sua assistente, poi sua moglie.

28 aprile: vernissage della mostra La spécialisation de la sensibilité à l’état matière première en sensibilité picturale stabilisée, Le Vide (époque pneumatique), nella Galleria Iris Clert. Arriviamo ora, risalendo prudentemente e progressivamente nel tempo, nell’aprile 1958 ed è la preparazione e la presentazione da Iris Clert a Parigi, della mostra della Sensibilité Picturale à l’état matière première spécialisée en Sensibilité Picturale stabilisée. Questa è stata chiamata la mia “Epoca pneumatica”. Desidero con questo tentativo, creare, stabilire e presentare al pubblico, uno stato sensibile pittorico nei limiti di una sala di esposizione di pittura ordinaria. In altri termini, creare un’atmosfera, un clima pittorico invisibile ma presente nello spirito di quello che Delacroix chiama nel suo diario “l’indefinibile” che considera come l’essenza stessa della pittura. Questo stato pittorico invisibile nello spazio della galleria, deve essere in tutto quello che è stato presentato di meglio fino ad ora come definizione della


pittura in generale, cioè, un irradiamento invisibile ed intangibile, questa immaterializzazione del quadro deve agire, se l’operazione di creazione riesce, sui veicoli o corpi sensibili dei visitatori della mostra con molta più efficacia dei quadri visibili, ordinari e rappresentativi abituali, che siano figurativi o non figurativi o anche monocromi. Ovviamente, nel caso in cui sono buoni quadri, sono anche dotati di questa essenza particolare pittorica, di questa presenza affettiva, in una parola di sensibilità, ma trasmessa dalla suggestione di ogni apparenza fisica e psicologica del quadro, linee, forme, composizione, opposizioni di colori, ecc. Non ci dovrebbero essere oggi intermediari, ci si dovrebbe trovare letteralmente impregnati da questa atmosfera pittorica specializzata e stabilizzata dal pittore nello spazio considerato. Si deve trattare quindi di una percezione assimilazione diretta ed immediata, senza più nessun effetto, né trucco, né frode per i cinque sensi, nel campo comune dell’uomo e dello spazio, della sensibilità. Come realizzare questo? Mi rinchiudo da solo per 48 ore prima del vernissage nella galleria, per ridipingerla interamente di bianco, questo da una parte, per pulirla dalle impregnazione delle mostre precedenti, dall’altra per la mia azione di dipingere i muri di bianco, il non colore, farne momentaneamente il mio spazio di lavoro e di creazione, in una parola, farne il mio atelier. Così, penso che lo spazio pittorico che ho già stabilizzato davanti e intorno ai miei quadri monocromi degli anni precedenti, sarà, allora, ben stabilito nello spazio della galleria. La mia presenza in azione nello spazio dato creerà il clima e l’atmosfera irradiante pittorica che regna abitualmente in qualsiasi atelier dell’artista dotato di un potere reale. Una densità sensibile astratta, ma reale, esisterà e vivrà da se stessa e per se stessa nei luoghi vuoti soltanto apparentemente. Non voglio parlare ancora di questa mostra, devo semplicemente dire ancora che l’esperienza fu importante, mi fece capire in profondità che la pittura non è in funzione dell’occhio. […] Fantasmi e strani personaggi che non appartengono a nessuno sono usciti da questo vuoto, pieno di sensibilità, come quelle spugne-sculture pittoriche e ritratti dei lettori dei miei monocromi, ma risalendo nel tempo all’Epoca blu del 1957, mi fa scoprire che i miei quadri sono solo la cenere della mia arte.

YVES KLEIN Conférence de la Sorbonne, 3 juin 1959 Editions Galerie Montaigne, Parigi, 1992

5 giugno: prima sperimentazione della tecnica dei “pennelli viventi”, nell’appartamento di Robert Godet, nell’Ile SaintLouis a Parigi. Grande amico di Yves Klein con il quale condivide una vera complicità intellettuale, Robert Godet fu discepolo di Gurdjieff, professore di judo e filosofo occultista. Nel corso di quella serata, Yves ricopre di pittura blu il corpo nudo di una giovane donna che, con una serie di movimenti di rotazione, depone le sue impronte corporee su una carta posta al suolo, fino a saturazione del supporto. Ne risulta un monocromo blu. In autunno, Yves si reca per la seconda volta a Cascia, con sua zia Rose, per ringraziare Santa Rita di avere ottenuto per lui l’ordine di Gelsenkirchen. Dona un monocromo blu al

monastero. Ottobre: con Rotraut, Yves lavora sul cantiere di Gelsenkirchen. E’ in quel periodo che prende pienamente coscienza del potenziale sensibile delle sue spugne impregnate di pigmento blu. Già nel 1957, durante la mostra presso Colette Allendy, aveva presentato alcune spugne impregnate e aveva commentato lo scopo del procedimento nel modo seguente: Le sculture-spugne E’ in quell’occasione che ho scoperto la spugna. Lavorando sui miei quadri nel mio atelier, usavo talvolta delle spugne. Diventavano blu rapidamente! Un giorno, mi sono accorto della bellezza del blu nella spugna; questo strumento di lavoro è diventato per me all’improvviso materia prima. E’ questa straordinaria facoltà della spugna di impregnarsi di qualsiasi cosa fluida che mi ha sedotto. Grazie alle spugne materia selvaggia vivente, potevo fare i ritratti dei lettori dei miei monocromi, i quali, dopo avere visto, dopo avere viaggiato nel blu dei miei quadri, ritornano totalmente impregnati di sensibilità come delle spugne.

YVES KLEIN

Nel teatro dell’Opera, concepito e decorato da una squadra internazionale di artisti e architetti, Klein crea sei opere monumentali di primissimo ordine nella sua opera: quattro Reliefs-éponges blu lunghi dieci metri (due per il lungo muro del foyer principale e due per il guardaroba al piano inferiore) e due monocromi blu lunghi circa 7 metri per 20 metri destinati ai muri laterali del foyer principale. Queste opere sono rilievi di gesso armato di filo di ferro, ricoperti di spugne naturali e dipinti con la pistola in blu IKB. 17 novembre: vernissage della mostra in collaborazione con Jean Tinguely, Vitesse pure et stabilité monochrome, alla Galleria Iris Clert. I due artisti concepiscono opere composte da dischi metallici ricoperti di blu IKB e animati da un motore che gira a grande velocità.

1959 17 marzo: Klein partecipa alla mostra Vision in Motion al Hessenhuis di Anversa. Appena due mesi fa, invitato ad esporre con un gruppo di artisti formato da Bury, Tinguely, Rot, Breer, Mack, Munari, Spoerri, Piene, Soto, mi reco ad Anversa e al momento del vernissage, al posto che mi era stato riservato nella sala di Hessenhuis, invece di mettere un qualsiasi quadro o un oggetto tangibile e visibile, pronuncio a voce alta davanti al pubblico queste parole prese da Gaston Bachelard: prima, non c’è niente, poi c’è un niente profondo, infine una profondità blu. L’organizzatore belga di quella mostra mi chiede dove si trova la mia opera. Rispondo: - Lì, lì dove parlo in questo momento. - E qual è il prezzo di questa opera? - un chilo d’oro, un lingotto d’oro puro di un chilo sarà sufficiente.


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Perché queste stravaganti condizioni invece di un prezzo normale rappresentato semplicemente da una somma di denaro? Perché, per la sensibilità pittorica allo stato materia prima nello spazio specializzato e stabilizzato da me, pronunciando queste poche parole al mio arrivo e che hanno fatto scorrere il sangue di questa sensibilità spaziale, non si può chiedere denaro. Il sangue della sensibilità è blu dice Shelley ed è esattamente il mio parere. Il prezzo del sangue blu non può in nessun caso essere il denaro, bisogna che sia oro.

YVES KLEIN Conférence de la Sorbonne, 3 juin 1959 Editions Galerie Montaigne, Parigi, 1992

I miei muri di fuoco, i miei muri d’acqua, sono, con i tetti d’aria, dei materiali per costruire una nuova architettura. Con questi tre elementi classici, fuoco, aria ed acqua, la città di domani sarà costruita, sarà finalmente flessibile, spirituale ed immateriale. Conférence de la Sorbonne, 3 juin 1959 Editions Galerie Montaigne, Parigi, 1992 15-30 giugno: mostra Bas-reliefs dans une forêt d’éponges. Galleria Iris Clert, Parigi. 2-25 ottobre: durante la prima Biennale di Parigi, Pierre Restany presenta un monocromo di grande formato nella selezione delle opere proposte dalla giuria dei giovani critici. Jean Tinguely, Raymond Hains, Jacques Mahé de la Villeglé e François Dufrêne fanno parte della selezione. E’ una tappa essenziale per la formazione del gruppo dei Nuovi Realisti. 16 ottobre-22 novembre: Yves Klein partecipa a due mostre in Germania Kunstsammler am Rhein und Ruhr: Malerei 1900-1959 al Städtisches Museum di Leverkusen e Dynamo 1 alla Galleria Renate Boukes, a Wiesbaden. 18 novembre: Yves Klein vende la sua prima Zone de Sensibilité Picturale Immatérielle a Peppino Palazzoli.

La Vague, IKB 160 a (bozzetto per i muri del teatro dell’Opera di Gelsenkirchen), 1957. 78 x 56 cm / 30,7 x 22”

In primavera, Yves lavora con l’architetto Claude Parent sul suo progetto di Fontane di acqua e di fuoco; disegna un progetto di scultura aeromagnetica. 29 maggio: Iris Clert presenta una mostra intitolata Collaboration internationale entre artistes et architectes dans la réalisation du nouvel Opéra de Gelsenkirchen e mostra nella sua galleria i bozzetti del gruppo che ha concepito quel teatro: Werner Ruhnau, Norbert Kricke, Jean Tinguely, Paul Dierkes, Robert Adams e Yves Klein. 3 e 5 giugno: Yves Klein fa una conferenza alla Sorbona dal titolo L’évolution de l’art vers l’immatériel. Questo intervento è seguito da quello di Werner Ruhnau. Dovevo arrivare nella mia evoluzione ad un’architettura dell’aria perché soltanto lì posso finalmente produrre e stabilizzare la sensibilità pittorica allo stato materia prima. Fino ad ora, nello spazio architettonico ancora molto definito, dipingo dei quadri monocromi nel modo più illuminato possibile; la sensibilità colore ancora molto materiale deve essere ridotta ad una sensibilità immateriale più pneumatica. Werner Ruhnau è sicuro che l’architettura di oggi sia sulla via dell’immaterializzazione delle città di domani. I tetti sospesi e le costruzioni-tende di Frei Otto e di altri sono passi importanti fatti in quella direzione. Usando l’aria ed i gas e il suono come elementi di architettura, questo sviluppo può avanzare ancora.

Il 7 dicembre, ne vende un’altra a Jacques Kugel e a Paride Accetti, e l’8 dicembre a Alain Lemée. Regole rituali della cessione delle Zones de Sensibilité Immatérielle


Le zone di sensibilità pittorica immateriale di Yves Klein il Monocromo sono cedute contro un certo peso di oro fine. Esistono sette serie numerate di zone pittoriche immateriali che comprendono ognuna dieci zone anch’esse numerate. Viene rilasciata per ogni zona ceduta una ricevuta che indica il peso in oro fine, valore materiale dell’immateriale acquistato. Le zone sono trasferibili dai loro proprietari (vedi regola stabilita su ogni ricevuta). Ogni acquirente eventuale di una zona di sensibilità pittorica immateriale deve sapere che il semplice fatto che accetti una ricevuta per il prezzo che ha pagato gli toglie tutta l’autentico valore immateriale dell’opera, benché ne sia tuttavia il possessore. Affinché il valore fondamentale della zona gli appartenga definitivamente e faccia corpo con lui, deve bruciare solennemente la sua ricevuta, dopo che il suo nome, cognome, indirizzo e data di acquisto siano stati scritti sulla matrice del libretto delle ricevute. Nel caso in cui egli desideri compiere questo atto di integrazione con se stesso con l’opera, Yves Klein il Monocromo deve, in presenza di un direttore di museo d’arte o di un mercante d’arte conosciuto o di un critico d’arte, con due testimoni, gettare la metà del peso dell’oro ricevuto in mare, in un fiume o in un qualsiasi posto dove quest’oro non possa più essere recuperato da nessuno. A partire da quel momento, la zona di sensibilità pittorica immateriale appartiene in modo assoluto e intrinseco all’acquirente. Le zone così cedute, dopo che l’acquirente abbia bruciato la sua ricevuta, non sono più trasferibili dai loro proprietari. Y.K. P.S. – E’ importante segnalare che, oltre i riti di cessione suddetti, esistono, libere da ogni regola e convenzione, delle cessioni trasferimento di vuoto e di immateriali nell’anonimato più assoluto.

YVES KLEIN

Nota: eccetto le Cessioni-trasferimenti di Vide et di Immatériels nell’anonimato più assoluto, Yves Klein ha ceduto in tutto, otto Zones de sensibilité picturale immatérielle. 15 dicembre; Yves Klein pubblica in Belgio Le dépassement de la problématique de l’art, Edizioni di Montbliart, La Louvière Yves Klein dietro ad una installazione di becchi Bunsen, da Kupperbusch, Gelsenkirchen, 1959

Yves Klein, Conferenza della Sorbona, 3 giugno 1959 Yves Klein controlla la proiezione del suo film durante la Conferenza della Sorbona, 3 giugno 1959


1960 4 gennaio-1 febbraio: Klein partecipa alla mostra La nouvelle conception artistique alla Galleria Azimut di Milano con Breier, Castellani, Holweck, Mack, Manzoni e Mavignier. Febbraio: nella mostra Antagonismes organizzata dal Musée des Arts décoratifs a Parigi, presenta un Monogold frémissant e due Zones de sensibilité picturale immatérielle. ********************* I Monogold sono stati realizzati tra il 1960 e il 1961, con l’intervento di oro fine nella loro composizione, materiale prezioso quanto simbolico. Alcuni Monogold riuniscono serie de rettangoli assemblati in reticolati; altri sono composti da foglie d’oro mobile fissate su un pannello ricoperto da oro brunito e che fremono al più piccolo soffio; infine, alcuni sono dei rilievi concavi nei quali le foglie d’oro sono state accuratamente lucidate fino ad acquistare un vero potere riflettente. [Rotraut, Iris Clert e Yves Klein, vernissage della mostra Bas-reliefs dans une forêt d’éponges, Galleria Iris Clert, 15 giugno 1959

23 febbraio: a casa sua, Yves Klein realizza le impronte di Rotraut e di Jacqueline che lasciano le tracce blu del loro corpo su un grande foglio di carta bianca fissato al muro in presenza di Pierre Restany. L’opera viene chiamata dai partecipanti Célébration d’une nouvelle Ère anthropométrique. Con queste tracce iscritte sul supporto, Klein vuole fissare nella loro fugacità i segni degli “Stati-momenti della carne”. […] Ho quindi preso delle modelle. Ho provato. Era molto bello. La carne: la delicatezza della pelle viva; il suo straordinario colore ma difatti così incolore, mi affascinava. Le mie modelle ridevano molto di vedermi eseguire dopo di loro splendidi monocromi blu uniti! Ridevano, ma amavano sempre più il blu. Un giorno, ho capito che le mie mani, i miei attrezzi di lavoro per maneggiare il colore non bastavano più. Era con il modello stesso che dovevo dipingere la tela monocroma blu. No, non era follia erotica. Era bellissimo. Ho gettato una grande tela bianca per terra. Ho svuotato venti chili di blu in mezzo e la ragazza si è precipitata dentro e ha dipinto il mio quadro rotolandosi sulla superficie della tela in tutti i sensi. Dirigevo, girando rapidamente attorno a questa fantastica superficie, tutti i movimenti e spostamenti della modella che, tra l’altro, presa dall’azione e dal blu così vicino e a contatto con la sua pelle, non mi sentiva nemmeno più urlarle “ancora un po’ a destra!”, “lì! Ritorna girando sul ventre e sulla schiena”, “da quella parte!”, “schiaccia il tuo seno destro soltanto in quel posto preciso”… ecco fatto.

YVES KLEIN

Mostra Bas-reliefs dans une forêt d’éponges, Galleria Iris Clert, giugno 1959

9 marzo: Anthropométries de l’Époque bleue alla Galerie Internationale d’Art Contemporain, 253 rue Saint-Honoré, a Parigi. Sotto la direzione di Yves Klein e durante l’esecuzione della Symphonie monoton, tre modelle nude si ricoprono di vernice blu e depongono le loro impronte sui muri e sul suolo della galleria. Una gestualità complessa, messa in scena da Klein, anima le figure di uno strano balletto nel quale le attrici si rotolano o si trascinano sulle mani per terra, sotto gli occhi del pubblico. Il pubblico, in vestito da sera, è numeroso, composto da artisti, collezionisti, critici e dopo la performance, comincia un dibattito con la partecipazione di Georges Mathieu e di Pierre Restany.


La Symphonie monoton-Silence viene suonata da un orchestra da camera di 6 musicisti e 3 coristi. Questa sinfonia di una durata di 40 minuti (difatti 20 minuti seguiti da 20 minuti di silenzio) è costituita da un unico “suono” continuo, allungato, privo di inizio e di fine, e questo crea una sensazione di vertigine, di aspirazione della sensibilità fuori dal tempo. Questa sinfonia non esiste pur essendo presente, esce dalla fenomenologia del tempo perché non è mai nata né mai morta, dopo esistenza, tuttavia nel mondo delle nostre possibilità di percezione cosciente: è un silenzio-presenza udibile.

YVES KLEIN Le dépassement de la problématique de l’art Edizioni di Montbliart, La Louvière, Belgio, 1959

Aprile: Klein partecipa alla mostra Les Nouveaux Réalistes alla Galleria Apollinaire a Milano con Arman, Hains, Dufrêne, Villeglé e Tinguely. Nella prefazione del catalogo, Pierre Restany usa per la prima volta il termine “Nuovo realismo”: Cosa ci viene proposto? L’avventura appassionante del reale percepito in sé e non attraverso il prisma della trascrizione concettuale ed immaginativa. Qual è il segno? L’introduzione di un passaggio sociologico allo stato essenziale della comunicazione. La sociologia viene in aiuto alla coscienza e al caso, che sia a livello della scelta o della lacerazione del manifesto, dell’apparenza di un oggetto, di un rifiuto domestico o da salotto, dello scatenamento dell’affettività meccanica, della diffusione della sensibilità oltre i limiti logici della sua percezione… Allo stadio, più essenziale della sua urgenza, della piena espressione affettiva e del messa fuori di sé dell’individuo creatore, e attraverso le apparenze naturalmente barocche di alcune esperienze, ci incamminiamo verso un nuovo realismo della pura sensibilità. Ecco almeno una delle vie del futuro.

19 maggio: Klein registra la formula del blu che ha messo a punto sotto il nome International Klein Blue (IKB). La formula depositata da Yves Klein, comprende una certa dose di “Rhodopas MA”, di alcool etilico e di acetato di etile. Variando la concentrazione del pigmento e il tipo di solvente, la vernice può essere applicata con il pennello, con il rullo o la pistola. Estate: Yves Klein realizza le prime Cosmogonies a Cagnes-surMer, segni di Stati-momenti della natura. Una tela spalmata di vernice blu, fissata sul tetto della sua Citroën, durante il viaggio da Parigi a Cagnes-sur-Mer, è sottoposta agli effetti del vento, della pioggia, della polvere. Dopo qualche ora di viaggio, l’opera ha subito l’erosione del tempo e degli elementi. Yves moltiplica le opere di questo tipo usando le tracce delle ginestre (?) dell’imboccatura del fiume Loup, le immersioni nell’acqua resa blu del fiume, ecc.

PIERRE RESTANY 16 aprile 1960 prefazione per la mostra Les Nouveaux Réalistes. Galleria Apollinaire, Milano, maggio 1960

Yves Klein accanto a SE 167, 14 rue Campagne-Première, 1960

19 ottobre: Yves Klein realizza Le Saut dans le vide, 3 rue Gentil-Bernard a Fontenay-aux-Roses, fotografato da Harry Shunk e John Kender. Diverse foto vengono fatte. Una prova del Saut dans le vide aveva già avuto luogo il 12 gennaio dello stesso anno presso Colette Allendy rue de l’Assomption, a Parigi. 27 ottobre: dichiarazione di costituzione del gruppo dei Nuovi Realisti a casa di Yves Klein, 14 rue Campagne-Première, Parigi. I firmatari sono: Arman, Dufrêne, Hains, Yves Klein (Yves il Monocromo), Raysse, Spoerri, Tinguely e Villeglé. Sono assenti César e Rotella. Nove copie manoscritte da Restany sono firmate dagli artisti presenti e distribuite ad ognuno (sette su carta monocroma blu, una su carta monocroma rosa e una su carta dorata, i fondi sono preparati da Yves Klein). Anthropométries de l’Époque Bleue. Galerie internationale d’Art Contemporain, Parigi, 9 marzo 1960

28 ottobre: Klein riunisce Arman, Hains, Raysse, Restany e Tinguely per realizzare una Anthropométrie suaire collettiva. Con questo gesto, Klein integra i Nuovi Realisti nella sua opera.


27 novembre: in occasione del “Festival di Arte d’Avanguardia” a Parigi, Yves Klein pubblica Dimanche, quattro pagine presentate con il formato dell’edizione della domenica del quotidiano parigino France-Soir. In prima pagina, la fotografia del Saut dans le vide con il titolo Un homme dans l’espace! Le peintre de l’espace se jette dans le vide. Presentando (?) domenica 27 novembre 1960, dalle ore 00 alle ore 24, presento quindi una giornata di festa, un vero spettacolo del vuoto, al punto culminante delle mie teorie. Tuttavia, qualsiasi altro giorno della settimana avrebbe potuto essere usato. Il teatro delle operazioni di questa concezione del teatro che propongo non è soltanto la città, Parigi, ma anche la campagna, il deserto, la montagna, il cielo stesso, e tutto l’universo, perché no?

1961 14 gennaio-26 febbraio: Mostra Yves Klein: Monochrome und Feuer, al Museum Haus Lange di Krefeld in Germania, su iniziativa del Dott. Paul Wember, direttore del museo di Krefeld. Klein realizza la sua più importante retrospettiva. Espone monocromi blu, rosa e oro, i Disegni-architettura, Le Mur de Feu, uno spazio immateriale Raum der Leere che da allora fa parte della collezione permanente del museo. Le Mur de Feu all’esterno è formato da 50 bruciatori allineati in 5 file di 10. L’accensione degli elementi, nell’oscurità, è spettacolare. I rosoni a forma di margherite mostrano, se ci si avvicina, i colori decomposti della fiamma: blu, oro e rosa. Non lontano dal Muro, schizza la fiamma della Sculpture de feu. Il 26 febbraio, data di chiusura della mostra, Klein realizza le prime Peintures de feu. Un largo foglio di carta o di cartone viene offerto alle fiamme dei becchi Bunsen e porta il marchio delle sole rosette o delle rosette accompagnate dalla traccia della Sculpture de feu.

Dichiarazione di costituzione dei Nuovi Realisti

Festival d’Arte d’Avanguardia, padiglione americano della Porte de Versailles, Parigi. Commentando questa foto, Yvez Klein scrive: “L’attentato! Il sudario dei Nuovi Realisti strappato e la tomba Ci-gît l’espace rovinata (le rose artificiali strappate)”

la riunione del 27 ottobre a casa di Yves Klein. Da sinistra a destra: Arman, Tinguely, Rotraut Uecker, Spoerri, Villeglé, Restany

Febbraio: Yves Klein si reca a Cascia in Italia, per deporre un ex voto al monastero di Santa Rita. L’oggetto verrà ritrovato nel 1980 nel magazzino delle offerte del monastero.


Sotto la protezione terrestre di Santa Rita da Cascia: la sensibilità pittorica, i monocromi, gli IKB, le sculture-spugne, l’immateriale, le impronte antropometriche statiche, positive, negative e in movimento, i sudari, le Fontane di Fuoco, d’acqua e di fuoco – l’architettura dell’aria, l’urbanistica dell’aria; la climatizzazione degli spazi geografici trasformati così in costanti Eden ritrovati… la superficie del nostro globo – il Vuoto. Il teatro del Vuoto – tutte le variazioni particolari a margine della mia opera – le Cosmogonie – il mio cielo Blu – tutte le mie teorie in generale – Che i miei nemici diventino amici e se è impossibile che tutto quello che potrebbero tentare contro di me non dia mai niente e non mia raggiunga mai – rendimi, me e tutte le mie opere, totalmente invulnerabile, e così sia.

YVES KLEIN Preghiera a Santa Rita, presentata con l’ex voto al monastero nel febbraio 1961.

Marzo: Klein realizza la sua prima grande serie di Pitture di fuoco al Centre d’Essais du Gaz de France, La Plaine SaintDenis, vicino a Parigi. Continuazione delle Cosmogonies e delle Anthropométries, le Peintures de feu rappresentano il segno degli “Stati-momenti del fuoco”. Klein usa un cartone svedese rinforzato che ha la particolarità di bruciare più lentamente del materiale usato abitualmente. Inoltre, sovrappone all’azione della fiamma quella dell’acqua che scivola lungo il supporto in modo tale che l’impronta del fuoco si inserisca lasciando tracce dello scorrere (?). 11-29 aprile: mostra Yves Klein le Monochrome alla Galleria Leo Castelli, a New York. Yves e Rotraut si installano per due mesi all’Hotel Chelsea. A seguito dell’incomprensione del pubblico e degli artisti, Yves scrive Le Manifeste de l’Hôtel Chelsea: Hotel Chelsea, New York 1961. 17 maggio-10 giugno: Yves Klein partecipa alla prima mostra della Galleria J, a Parigi, organizzata da Pierre Restany: A quarante degrés au-dessus de Dada, i Nuovi Realisti, con Arman, César, Hains, Tinguely, Villeglé, Dufrêne, Rotella e Spoerri. Restany pubblica un testo che verrà disapprovato da Klein.

Dimanche 27 novembre 1960. Quattro pagine su carta giornale

29 maggio – 24 giugno: Mostra Yves Klein le Monochrome alla Dwan Gallery, a Los Angeles. Ho incontrato Yves Klein per la prima volta venti anni fa. Era venuto con Rotraut, la sua fidanzata, a Malibu, in California, per preparare una mostra per la Dwan Gallery che doveva circoscrivere tutte le direzioni prese dalla sua arte fino a quel momento. L’anno: 1961. L’anno prima, durante l’estate, mi ero ritrovata a passare davanti alla vetrina, Faubourg Saint-Honoré, della Galleria Rive Droite. Quello che vidi era un rilievo di una tale intensità di blu e di energia che fui travolta. Tutta l’idea della storia dell’arte o del suo significato, veniva dimenticato. Lo shock fu immediato, vero. Chi avrei scoperto dietro questi paesaggi muti, questi blu insondabili?… L’ambiente artistico californiano rimase perplesso davanti a Klein e alla sua opera. Alcuni collezionisti risposero al suo entusiasmo. Altri ebbero scatti d’ira, furono offesi e disorientati. Confrontati

Un’edicola di Parigi e i lettori di Dimanche 27 novembre. Le journal d’un jour, 1960

alla sua convinzione, certi si sentirono a disagio. Mostra Yves totale Klein le Monochrome, Leo Castelli Gallery, New York, 1961

(…)


La mia reazione alla mostra nella galleria fu strana in un certo senso. Straordinarie forme blu abitavano lo spazio nella sua totalità. C’erano i monocromi blu, piatti, i rilievi blu, un obelisco blu, le sculture spugne, anch’esse blu, le “piogge blu”, le impronte blu dei corpi di “Anthropométries” e una vasca di pigmento blu. Il tutto punteggiato qua e là con un pezzo rosso o oro. Questo blu stupendo, anche per occhi di californiani del sud, sembrava invadermi. Non era questa un’opera che potevo assimilare – ero io ad essere assorbita. Ora, se ripenso alla mia carriera, al mio mestiere, vedo che quello che mi ha più impressionato e continua ad influenzarmi in un artista, è una qualità di integrità, una unità nella visione e la necessità. Una specie di ossessione che dirige l’azione. C’è un impegno dell’essere stesso dell’individuo. La fotografia del salto di Klein nel vuoto, ora celebre, riassume tutto questo. Questo artista, i cui colori stessi erano ispirati dalla fiamma, bruciava se stesso con la sua propria visione. Era una specie di cometa la cui traccia si misura dallo spazio vuoto che ha lasciato dietro di lui.

Nel contesto attuale, i ready-made di Marcel Duchamp e anche gli oggetti a funzionamento di Camille Bryen prendono un senso nuovo. Traducono il diritto all’espressione diretta di tutto un settore organico dell’attività moderna, quello della città, della strada, della fabbrica, della produzione in serie. Questo battesimo artistico dell’oggetto comune costituisce ormai il fatto “Dada” per eccellenza. Dopo il NO e lo ZERO, ecco una terza posizione del mito, il gesto anti-arte di Duchamp se trasforma in positività. Lo spirito Dada si identifica con un modo di appropriazione della realtà esterna del mondo moderno. Il readymade non è più il colmo della negatività o della polemica, ma l’elemento base di un nuovo repertorio espressivo. Questo è il Nuovo Realismo, un modo piuttosto diretto di rimettere i piedi per terra, ma a 40° al di sopra dello zero dada, e a quel preciso livello in cui l’uomo, se riesce a reintegrarsi al reale, l’identifica con la sua propria trascendenza, che è emozione, sentimento e infine poesia, ancora. Prefazione per la mostra A 40° degrés au-dessus de Dada. Galleria J, Parigi, 17 maggio – 10 giugno 1961. Secondo manifesto di Pierre Restany.

Il 30 giugno, alla Galleria J, ha luogo il vernissage della mostra di Niki de Saint-Phalle, Feu à volonté.

21 novembre: mostra Yves Klein le Monochrome: il nuovo realismo del colore, Galleria Apollinaire, Milano.

13-14 luglio: Premier Festival du Nouveau Réalisme a Nizza alla Galleria Muratore ed all’Abbazia di Roseland. Il festival dura fino a settembre.

1962

VIRGINIA DWAN Impressions d’Yves Klein, Yves Klein entre Georges Pompidou, Parigi 1983

17-18 luglio: Yves Klein mette in scena a Parigi per il cameraman Paolo Cavera delle sedute di antropometrie destinate al film Mondo Cane di Gualtiero Jacopetti, l’anno successivo, al Festival di Cannes. 18-19 luglio: Klein realizza diverse Peintures de feu al Centre d’Essais du Gaz de France. 8 ottobre: Klein, Raysse e Hains dichiarano lo scioglimento del gruppo dei Nuovi Realisti, a seguito del manifesto pubblicato da Pierre Restany in occasione della mostra A quarante degrés au-dessus de Dada.

Mostra Yves Klein le Monochrome, Leo Castelli Gallery, New York, 1961

Domenica 21 gennaio: Yves Klein e Rotraut Uecker si sposano nella chiesa Saint-Nicolas des Champs a Parigi. Tutta la cerimonia è stata organizzata meticolosamente e orchestrata dall’artista, con una vera cura per il rito. Lo stemma di Yves Klein (blasone su campo blu, strisce orizzontali con rosa e ape, simbolo della vita attraverso l’amore e il lavoro) è stampato sul biglietto d’invito Il Galleria Apollinaire, Milano, 20 novembre 1961, vernissage della mostra Yves Klein le Monochrome, il nuovo realismo del colore


26 gennaio: al museo d’Arte moderna della Città di Parigi, una sala viene completamente liberata dalle tele per creare uno spazio di Vuoto. Per presentare questa Zone de sensibilité picturale immatérielle all’inizio dell’anno, una foto della sala dedicata al Nuovo Realismo fu realizzata vuota, poi con opere dei Nuovi Realisti che erano depositate alla Galleria J; Harry Shunk ne fece un reportage. Per “materializzare” nel catalogo del salone Comparaisons la Zone de sensibilité picturale immatérielle di Yves Klein, quest’ultimo, aiutato da François Dufrêne, Jacques Villeglé, Niki de Saint-Phalle e Spoerri, aveva staccato i quadri dalla sala dove dovevano esporre i Nuovi Realisti tre mesi dopo.

Realizzazioni di Peintures de feu al Centre d’Essais du Gaz de France, La Plaine Saint-Denis, febbraio e luglio 1961

Matrimonio di Yves Klein e Rotraut Uecker, chiesa SaintNicolas-des-Champs, Parigi, 21 gennaio 1962

Harry Shunk era incaricato delle fotografie. La prima e l’ultima pagina del catalogo avrebbero mostrato da una parte l’appendere (?) del gruppo, d’altra parte la sala vuota con la menzione d’Yves Klein. Questo appendere fu effettuato, con l’autorizzazione del presidente del salone “Violet” il 26 gennaio 1962 alle 8:30. In François Dufrêne, museo dell’Abbazia Sainte-Croix. Les Sables-d’Olonne, 1988, n.p.

Realizzazioni di Peintures de feu al Centre d’Essais du Gaz de France, 1961

testo è stampato nei tre colori, blu, oro e rosa. Durante la cerimonia, un diadema blu cinge i capelli di Rotraut. La Symphonie monoton-Silence viene diffusa nella navata. Un’ala d’onore composta dai cavalieri dell’Ordine di San Sebastiano li accoglie all’uscita dalla chiesa. La cerimonia è seguita da un ricevimento alla Coupole dove viene servito un cocktail blu agli invitati, poi nell’atelier di Larry Rivers. Christo Javacheff comincia lo stesso giorno l’immortalizzazione dell’evento su tela, ma il quadro, al quale partecipa Yves Klein, rimane fino ad oggi incompiuto. Manca sempre la spugna blu prevista.

Gennaio-febbraio: Klein comincia i calchi in gesso di Arman, di Martial Raysse e di Claude Pascal, allo scopo di realizzare i Portraits-Réliefs des Nouveaux Réalistes. Yves Klein procede con i calco del corpo fino alle ginocchia. Progetta poi di colare queste sculture in bronzo e di polverizzare del pigmento blu sulla totalità dell’opera. Solo il Portrait-relief di Arman verrà terminato. 1 marzo: Klein realizza una Anthropométrie suaire, le Store poème, con Arman, Claude Pascal e Pierre Restany a casa sua. L’opera riunisce Allures d’objets di Arman, delle Anthropométries di Klein, un poema in prosa di Claude Pascal e un testo di Pierre Restany.


Realizzazione dei calchi dei corpi di Martial Raysse e di Claude Pascal per i Portraits reliefs, 14 rue Campagne-Première, Parigi, 1962


Cessione di una Zone de Sensibilité Picturale Immatérielle a Claude Pascal in presenza di Pierre Larcade. Ile de la Cité, Parigi, il 7 febbraio 1962.

6 giugno alle 18: Yves Klein muore a casa sua, 14 rue Campagne-Première a Parigi. Suo figlio Yves nasce il 6 agosto, a Nizza. 7 marzo: alla mostra Antagonismes II: l’objet al museo delle Arti Decorative di Parigi, Klein presenta dei bozzetti di Architecture de l’air e di Rocket pneumatique. Si tratta di una collaborazione tra arte e industria come la concepisce Yves Klein. Roger Tallon aiuta Yves per il plastico del tetto d’aria. Al di sopra di un diorama dove si muovono personaggi nudi, degli ugelli proiettano una vera e propria lama d’aria che allontana la pioggia simulata. Il bozzetto di Rocket pneumatique è quello di un oggetto mosso dalle pulsazioni dell’aria, è un apparecchio senza ritorno per i consumatori di immateriale decisi a scomparire un giorno nel vuoto.

Yves Klein riposa nel piccolo cimitero di La Colle-sur-Loup (Alpes-Maritimes), accanto a Marie et Rose Raymond.

12 maggio: al Festival di Cannes, Klein assiste alla proiezione di Mondo cane. Esce umiliato dal suo ritratto che snatura il suo modo di procedere e la sua opera. A sua insaputa, la sequenza che doveva durare 20 minuti, è stata ridotta a circa 5 minuti. La Symphonie monoton-Silence inizia come previsto su un accordo in re maggiore, poi continua molto velocemente con la colonna sonora di una qualsiasi melodia. Le modelle spalmate di blu vengono riprese con una gestualità lasciva piuttosto ridicola, senza nessun rapporto con la seduta di Anthropométries realizzata da Klein. Yves presenta, la sera stessa, i sintomi del suo primo infarto. 15 maggio: vernissage della mostra Donner à voir alla Galleria Creuze, a Parigi per la quale Pierre Restany ha organizzato una sala dei Nuovi Realisti. Il Portrait-relief di Arman vi è esposto. Klein ha di nuovo un attacco di cuore.

Biografia redatta da Michèle Brun e dagli Archivi Yves Klein, 1999.


Yves Klein Disegni, appunti, quaderni, acquarelli, ex voto, bozze di copertine per i Fondamenti del Judo, l’unico olio dedicato al Judo, biglietti da visita, la camicia con le impronte delle sue mani, schizzi, scenari e lettere: lettere di presentazione al Kodokan di Tokyo, lettere di congratulazioni firmate da Risei Kano, fi glio del creatore del judo Jigoro Kano e presidente del Kodokan ai tempi in cui Klein era in Giappone, lettere di duro confronto con il presidente della Federazione Francese di Judo che non gli riconosceva il 4° dan ottentuto a Tokyo… Il tutto costituisce una sorta di reliquiario del mito Klein. Pezzi di carta che ha avuto tra le mani, vergati da matite, penne, tasti di macchine da scrivere, testimonianze di un pensiero acceso, che non s’arrende, che non tralascia un giorno senza viverlo totalmente, proiettato sempre in avanti. Sulla terra resta la sua scia.

Carte de visite d'Yves Klein Madrid, Espagne (judo) 1954 6,0 x 10,0 cm/2,3 x 3,9 in. Carta stampata Collezione privata

Carte de visite d'Yves Klein Madrid, Espagne (judo) 1954 6,0 x 10,0 cm/2,3 x 3,9 in. Carta stampata Collezione privata

Carte de visite d'Yves Klein Madrid, Espagne (judo) 1954 5,5 x 9,3 cm/2,1 x 3,6 in. Carta stampata Collezione privata

Carte de visite d'Yves Klein, Paris (judo) 1955 ca. 8,0 x 11,8 cm/3,1 x 4,6 in. Carta stampata Collezione privata

Carte de visite d'Yves Klein, Paris (judo) 1955 ca. 7,4 x 12,0 cm/2,9 x 4,7 in. Carta stampata Collezione privata

Carte de visite d'Yves Klein, Paris (judo)

1954 13,3 x 21,0 cm/5,2 x 8,2 in. Acquerello e matita su carta in un quaderno a spirale collezione privata

Monochrome rouge (scène de théâtre) 1954 13,3 x 21,0 cm/5,2 x 8,2 in. Acquerello e matita su carta in un quaderno a spirale collezione privata

"Esquisse de scénario" (Combat de la ligne et de la couleur) 1954 (1957) 27,0 x 21,0 cm/10,6 x 8,2 in. Note scritte a mano e dattiloscritto su carta (13 fogli) collezione privata

Dessin sans titre (judo) 1949 ca. 39,5 x 29,5 cm/15,5 x 11,6 in. Acquerello su carta collezione privata

1956 ca. 10,5 x 13,5 cm/4,1 x 5,3 in. Carta stampata Collezione privata

Dessin sans titre (judo)

Carte de visite d'Yves Klein Madrid, Espagne (judo)

Dessin sans titre (judo)

1954 ca. 5,8 x 9,5 cm/2,2 x 3,7 in. Carta stampata Collezione privata

1952 ca. 20,0 x 27,0 cm/7,8 x 10,6 in. Pastello su carta collezione privata

Voyage en Italie 1948 27,3 x 21,5 cm/10,7 x 8,4 in. Inchiostro su carta Collezione privata

1952 ca. 20,5 x 26,5 cm/8,0 x 10,4 in. Acquerello e pastello su carta collezione privata

Dessin sans titre (judo) 1952 ca. 13,0 x 21,0 cm/5,1 x 8,2 in. Pastello su carta collezione privata

Dessin sans titre (judo) Lettre de Risei Kano (Kodokan Judo)

S.M.

Monochromes jaune, rouge et vert (scène de théâtre)

1953 (19 décembre) 28,5 x 20,3 cm/11,2 x 7,9 in. Inchiostro su carta Collezione privata

1949 ca. 39,5 x 24,3 cm/15,5 x 9,5 in. Matita su carta collezione privata

Dessin sans titre (judo) Lettre de l'université de judo (Madrid, Espagne) 1953 (12 décembre) 15,6 x 21,3 cm/6,1 x 8,3 in. Inchiostro su carta Collezione privata

Dessin de perspective pour l'Opéra-théâtre de Gelsenkirchen 1958 32,0 x 119,0 cm/12,5 x 46,8 in. Inchiostro e guazzo su carta Collezione privata

1949 ca. 24,5 x 39,5 cm/9,6 x 15,5 in. Crayon sur papier Collection particulière

Maquette des "Fondements du judo" 1954 21,0 x 14,0 cm/8,2 x 5,5 in. Guazzo su carta collezione privata


Maquette des "Fondements du judo"

Grades de judo

1954 18,8 x 13,5 cm/7,4 x 5,3 in. Acquerello e inchiostro su carta applicata su carta collezione privata

1947-1952 12,0 x 8,0 cm/4,7 x 3,1 in. Carta stampata e inchiostro collezione privata

Maquette des "Fondements du judo" 1954 24,0 x 17,0 cm/9,4 x 6,6 in. Stampa, fotografia, inchiostro e matita su carta collezione privata

Grades de judo 1947-1952 12,0 x 8,0 cm/4,7 x 3,1 in. Inchiostro su carta (fotocopia) collezione privata

"Licence fédérale de ceinture noire" (judo) "Les fondements du judo" (affiche-annonce) 1954 46,5 x 28,7 cm/18,3 x 11,2 in. carta stampata collezione privata

1953 12,5 x 16,0 cm/4,9 x 6,2 in. Carta stampata e inchiostro collezione privata

Diplôme du Kodokan quatrième Dan (judo) 1953 (18 décembre) 35,0 x 26,5 cm/13,7 x 10,4 in. Inchiostro su carta collezione privata

Judo 1950 ca. 72,0 x 60,0 cm/28,3 x 23,6 in. Olio su tela collezione privata

"Esquisse de scénario n°1 Judo" 1954 26,7 x 20,9 cm/10,5 x 8,2 in. Dattiloscritto e inchiostro su carta collezione privata

Chemise avec les empreintes des mains et des pieds d'Yves Klein 1948 77,0 x 88,0 cm/30,3 x 34,6 in. Stampe su tessuti collezione privata

"Fin 1 Maintenant je veux aller au-delà de l'art..." 1960 ca. 29,5 x 21,0 cm/11,6 x 8,2 in. Penna a sfera su carta (due pagine) collezione privata

Carnet de reçus pour les Zones de sensibilité picturale immatérielle Série n°0 8,7 x 29,8 cm/3,4 x 11,7 in. carta stampata Collezione privata

"Dimanche 27 novembre 1960 (Le journal d'un seul jour)" 1960 (27 novembre) 55,5 x 38,0 cm/21,8 x 14,9 in. Stampa tipografica fronte-retro nero, doppio foglio Collezione privata

Plaquette publicitaire pour les films de judo

"Judo académie de Paris, 104 boul. de Clichy..." 1955 37,0 x 29,0 cm/14,5 x 11,4 in. Stampato su carta collezione privata

1954 20,0 x 26,5 cm/7,8 x 10,4 in. Carta stampata Collezione privata

"Les fondements du judo" (Éd. Bernard Grasset) 1954 22,8 x 15,0 cm/8,9 x 5,9 in. Carta stampata Collezione privata

Soeur Andreina avec l'Ex-voto d'Yves Klein (Cascia, photo David Bordes) 1999 60,0 x 80,0 cm/23,6 x 31,4 in. Foto di David Bordes nel 1999 a Cascia collezione privata

"Yves Peintures" 1954 (18 novembre) 24,5 x 19,0 cm/9,6 x 7,4 in. Fogli stampati di collage di carta su carta Collezione privata


Fred Klein, Marie Raymond, Rotraut La mostra si sofferma su premesse e nondimeno su conseguenze della vocazione alla pittura di Yves Klein, offrendo di essa una sola traccia nel deposito di pigmento IBK approntato nella cappella del Palazzo Ducale come vasca dove immergere idealmente, se non tutto il nostro corpo, almeno il puro sguardo. Diverso è il criterio con cui è stato costruito lo sviluppo del percorso biografico di Klein, tenuto conto di quelle persone così intimamente a lui legate come i genitori, la madre Marie Raymond e il padre Fred Klein, entrambi pittori che certamente contribuirono in modo profondo e determinato a trasmettere il germe visionario e di mestiere al giovane figlio Yves, destinato a divenire Yves Le Monochrome. Medesima appare, successivamente, l’essenza ispiratrice, e complice nel suo destino d’arte, di Rotraut Uecker, divenuta prima compagna d’arte, poi consorte, infine madre di suo figlio. Oggi la sua opera è ovunque autonomamente riconosciuta. E’ in tale ottica che di questi tre artisti si sono volute offrire alcune opere coeve e, in alcuni casi simultanee, alle prime esperienze artistiche di Klein. Peraltro, in talune esposizioni a carattere museale, si è già accompagnata al tracciato biografico di Klein la presenza di queste o analoghe opere. Ciò nella volontà di fornire al pubblico, insieme ai reperti di documenti autografi e fotografici dell’artista, altre significative componenti dell’ambito in cui ha preso corpo la sua tensione poetica e la sua inconfondibile parabola immaginaria. B.C.

Fred Klein Sans titre

1945 ca. 27,5 x 22,5 cm/10,8 x 8,8 in. Olio su pannello Firmato in basso a destra Collezione privata

Marie Raymond Sans titre

1945 40,0 x 52,0 cm/15,7 x 20,4 in. Olio su cartone Firmato e datato in basso a destra Collezione privata

“L’oeil bleu du lointain” Portrait de Marie Raymond et d’Yves Klein 1929 61,0 x 46,0 cm/24,0 x 18,1 in. Olio su tela Firmato e datato in alto a sinistra Collezione privata

1950 65,0 x 174,0 cm/25,5 x 68,5 in. Guazzo su carta montata su tela Firmato in basso a destra Collezione privata

“Arabesques ou Variations sur la Volute” 1948 91,0 x 72,5 cm/35,8 x 28,5 in. Olio su tela Firmato in basso a destra e titolo sul retro “Arabeschi” Collezione privata

Sans titre 1945 ca. 42,0 x 38,5 cm/16,5 x 15,1 in. Olio su pannello Firmato in basso a destra Collezione privata

Sans titre 1943 ca. 46,0 x 55,0 cm/18,1 x 21,6 in. Guazzo su carta montata su tela Firmato in basso a destra Collezione privata

Sans titre 1943 45,0 x 62,0 cm/17,7 x 24,4 in. Guazzo su carta montata su tela Firmato in basso a destra Collezione privata


“Paysage abstrait” 1943 ca. 61,0 x 50,0 cm/24,0 x 19,6 in. Olio su pannello Firmato in basso a destra Collezione privata

Sans titre

1959 . /29,1 x 21,2 in su tela 74,0 x 54,0 cm rta applicata ca su a in ch Inchiostro di tato sul retro Firmato e da

Sans titre

1961 ,9 in. cm/55,1 x 27 icata su tela 140,0 x 71,0 su carta appl a in ch di o ut 1961” Inchiostr ra ot “R : tato sul retro Firmato e da

Sans titre 1948 ca. 64,5 x 81,0 cm/25,3 x 31,8 in. Olio su tela Firmato e datato in alto a destra Collezione privata

Green

Music Note

Rotraut

. 2011 x 33,0 x 8,6 in x 22,0 cm/53,9 137,0 x 84,0 pinto Alluminio di

Vol de sensibilité d'après Paolo Uccello "Bataille de San Romano" 1963 51,0 x 85,0 cm/20,0 x 33,4 in. Olio su tela Firmato in basso a destra

Fossile 1959 80,0 x 23,7 cm/31,4 x 9,3 in. Farine e legante sul pannello Firmato e datato sul retro: "Rotraut 1959"

Empreinte de torchons 1959 54,0 x 75,2 cm/21,2 x 29,6 in. Inchiostro su carta Firmato in basso a destra: “Rotraut 1959”

.

,5 in 2010 ,5 x 60,2 x 18 x 47,0 cm/142 362,0 x 153,0 pinto Alluminio di


Ora voglio superare l’arte – superare la sensibilità superare la vita – voglio raggiungere il vuoto. La mia vita deve essere come la mia sinfonia

del 1949, un suono continuo liberato da un inizio e

da una fine, limitata ed eterna al tempo stesso, non avendo appunto né inizio né fine. Una durata appare e vive improvvisamente, per un certo tempo, una durata che vive eternamente nei nostri sensi, e nel nostro corpo fisico… che se ne infischia per sempre dello psicologico.

Voglio morire e voglio che venga detto di me: ha vissuto, e allora vive. Yves Klein

L'editore è a disposizione degli eventuali detentori di diritti che non sia stato possibile rintracciare. Finito di stampare il 30 Aprile 2012 in Cracovia (Polonia) presso la tipografia: PASAZ


Bruno Corà

Critico e storico d’arte. Docente presso l’Accademia di Belle Arti di Perugia (1979-1999), l’Università di Cassino (1999-2005) e di Firenze (2005-2008). Fondatore e direttore della rivista AEIUO (19801988) e del periodico MOZ ART (2012) di imminente pubblicazione. Direttore del Museo Pecci di Prato (1995-2002), di Palazzo Fabroni di Pistoia (1993-2001), del CAMeC della Spezia (2003-2007), del Museo d’Arte e del Polo culturale di Lugano (2008-2010). Direttore delle Biennali di Carrara (2006) e della Spezia (2004 e 2006) e Commissario per l’Italia della Biennale di Dakar (2002). Curatore di numerose mostre internazionali e autore di pubblicazioni su: Alberto Burri, Lucio Fontana, Antoni Tápies, Piero Manzoni, Enrico Castellani, Daniel Buren, Gerhard Richter, Georg Baselitz, Anselm Kiefer, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini, Alighiero Boetti, Sol Lewitt, Robert Morris, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Gilbert & George, Antony Gormley, Francesco Lo Savio, Jan Dibbets, Bizhan Bassiri, Ettore Spalletti e altri. E’ attualmente membro del Comitato esecutivo della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri di Città di Castello.

Sergio Maifredi

Regista, direttore artistico di TeARTo, Teatri Possibili Liguria, Teatro Curci di Barletta, è artista residente al Teatr Nowy di Poznan (Polonia), direttore organizzativo del Teatro Vittoria di Roma; consigliere di amministrazione della Fondazione lirica Carlo Felice di Genova e membro della Commissione Nazionale Unesco. E’ cintura nera 2° dan.

Pino Tesini

Cintura nera 7° dan. Maestro Benemerito della Fijlkam, Stella di bronzo al Merito Sportivo del Coni; Responsabile del Progetto HA dell’Ado Uisp Nazionale e componente dell’Ufficio di Presidenza; Componente della Commissione HA della Fijlkam e per 12 anni allenatore della Nazionale Giovanile Fijlkam.

TeARTo

TeARTo è stato creato da Sergio Maifredi, Corrado d’Elia e Lucia Lombardo per sviluppare un’attività di ricerca verso situazioni in equilibrio tra teatro e altre arti. Tra i lavori più significativi, la mostra Tutto il Teatro in un Manifesto – Polonia 1989/2009, realizzata nel 2009 a Genova insieme alla Fondazione Palazzo Ducale e nel 2010 a Roma alla Casa dei Teatri in Villa Doria Pamphilj per il Comune di Roma. Un modo per decifrare un periodo storico ed una cultura attraverso un’arte figurativa legata al teatro: il manifesto d’arte.


visi Yves che oni è u Klein, ,s n ju la m econdo ’indagi do e t n ia o l e p eatro a st p dall e im era non essa d er indiz – cor pro i. Se po e è un efini si n la tr può ris te lasc a ricer zione d è vero ca al ac iK ia ha g cia, e p ire al co te dal , è la m lein, s i ha g uidato oi anco rpo ch uo pas a scia, e ha sa g ene il co ra a E g r Jud nel pr ato il m rpo, fin l movim impres io inci o si s o o o e inqu ritrov pio, p viment al pens nto che e i o a e i r e r n la Y t o Gia ppo o che lo sua fis ves, c’è el princ che ne, i i i pio c c l o ità Ju n al K odo duce a e il su do. Ne . o kan l s di T tudiare spirito Ma o fi k n y mo mae il Judo ndi o, il te o in ale mpi non stri ch vero, del rapp è co e Kle quel Jud o mba in in lo tr r o. e s è te a e atro ntazio ttimen contra dizion ale ne to. .D in No. irettam di prin E’, prim Giapp dei c J ent ipi e a d one, igo di e nip quell’a ro Kan deriv tici e c i tutto, pon a o ico rte che , il cre nte da osmici: d l a t (i pa secolo ei sam raghe tore d Teatro e t u r , l t a r r a Qui J ndi digmi d acchiud ai vers il med udo, o il e ne Kle e i o l J in s udo lle fo vent evo i ) e e sp ritrova i suoi i rme de simo iritu i Ka Q ua imm nseg ta n alità n e il Ju do rito , tra rso tra amenti . rne do Jud fi o e sicità arte , la via rà dal T e G d , fir atro ma ella c iappo . co “lev n il su ndo il edevole ne, tra mon o or itar sfer zza ca e” o ir , d un p dute d , lo scr , con il o con nella s à ua il su suo alco i Jud ive l ob ui fu scen o ico e sogn stesso oco. Sa lu, e di , a rest di pre grazie prà Poc ar vi sen al a de sosp tarsi le imp ll’art s e m e ig etri so a d u una liare i di Klei di a nu n ltez ue tr za . è st accia-s na tela si è pot è il ata im indone , in un uta fe mat teat ; tan a sc rmar e r u spe happen o. Le su riale, c ta dell ltura, e, ttac o a in e i m s n racc oli. I s g, i su confere e imm ua arte oi v a hius uoi teri ern nze s af e in a uno orismi issage ono sta le s , t s o l scat pezzo e sue no st e to f a oto ne di fi intuizi ti oni grafi lm, i co, son n uno o ar te. serg io m aifr edi

Yve sK

Figl io in E d’arte, il gr uropa dopo Kod ado di e in G moltep (1928 -19 i ap p lici cint oka 6 a Pa n di To ura ne one, d esperie 2). per r o r n k a v i yo ze g e 4 di ju former i, diven , nel 1 ° dan d ottien , 9 e e d i t 5 n j o e udo 5 si Kle do oric . Es i p p s obb n rapp onent o del te ittore tabilis al r , liga c e to d esenta dei N atro, i scultu e pos ell’art un pu oveau nsegna re, xR to le e n n bas contem to di ri éalist te i di f e e p un n orane rimen s, a t uov o lin , avend o o g ua ggio .

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