IL LUOGO URBANO E LE RELAZIONI SOCIALI
Politecnico di Milano Prof. Matteo Vittorio Vegetti ESTETICA a.a 2013/2014 Serena Obino, Simone Bruni
Indice Spazio e disolcazione I.
Il pensiero della Jacobs
II.
Le relazioni in pubblico
III.
Il rituale dell’interazione
IV.
Relazioni sociali
V.
Le apparenze fisiche
VI.
Le Umwelt
VII.
Frameworks
VIII.
Keys and Keyings
IX.
Rappresentazioni
X.
Comportamento e ambito territoriale
XI.
Ambito locale
Conclusioni
IL LUOGO URBANO E LE RELAZIONI SOCIALI (parte I)
di Simone Bruni
Lo spazio nel quale viviamo, del quale siamo chiamati fuori da noi stessi, nel quale si svolge concretamente l’erosione della nostra vita, del nostro tempo e della nostra storia, è anch’esso uno spazio eterogeneo. Detto altrimenti, noi non viviamo all’interno di un vuoto che si colorerebbe di riflessi cangianti, viviamo all’interno di un insieme di relazioni che definiscono delle collocazioni irriducibili le une alle altre e che non sono assolutamente sovrapponibili. Michel Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Milano 2008
Lo spazio e la dislocazione Nella cultura occidentale del medioevo, lo spazio fisico poteva essere definito come un entità strutturata secondo degli schemi gerarchizzati di luoghi, in antitesi, tra il luogo sacro e il profano, luoghi protetti da quelli non protetti, il luogo chiuso da quello aperto, il luogo urbanizzato da quello rurale e così via1. Secondo la teoria cosmologica c’erano dei luoghi sovracelesti in opposizione a quelli celesti che a loro volta erano opposti a quelli terrestri. In questo senso lo spazio medievale poteva essere definito come lo spazio della localizzazione: Questo spazio della localizzazione si è aperto con Galilei; il vero scandalo dell’opera di Galilei, non consiste tanto nell’aver scoperto, o meglio riscoperto, che la terra girava intorno al sole, ma di aver costituito uno spazio infinito, e infinitamente aperto; in modo tale che la concezione del luogo del Medioevo veniva dissolta, il luogo di una cosa non era altro che un punto nel suo movimento, così come lo stato di quiete di una cosa 2 non era che il suo stesso movimento indefinitamente rallentato .
Oggi il concetto di spazio della dislocazione si antepone a quello della localizzazione. In questo senso ciò che definisce lo spazio non rientra più nel campo semantico connesso al concetto di luogo fisico in quanto tale, ma assume delle sfumature sempre più profonde e articolate connesse al tema della transitività, del movimento, degli spostamenti e della mobilità. Possiamo introdurre nuovi concetti che vanno dalle relazioni di prossimità, di circolazione viaria connessa al traffico sia esso pedonale che veicolare, di approvvigionamento e fruizione dei luoghi adibiti al pubblico, alle relazioni sociali che si instaurano tra spazi della residenza, del lavoro, delle zone di commercio e così via. La dislocazione in questo senso descrive una condizione per cui i luoghi tendono a moltiplicarsi, differenziarsi, segmentarsi e, in questo senso, è utile indagare come questi spazi intessono relazioni sempre più articolate con le pratiche del consumo e del tempo libero degli individui. Questi spazi costituiscono le metropoli cittadine nella loro eterogeneità e ne definiscono il loro carattere principale: il disordine che le caratterizza è solo apparente; al di sotto si 1 2
FOCAULT J., Spazi altri. I luoghi delle eterotropie , p. 20, Milano, 2008. Ibid.
cela un “meraviglioso ordine che al tempo stesso può rendere libera la città”3. È un ordine complesso dato dalla fitta mescolanza di elementi principali che costituiscono le fondamenta dalla città stessa. La strada, i marciapiedi, i quartieri e gli isolati urbani, gli edifici vecchi di interesse pubblico così come le attività commerciali dispiegate nel contesto urbano, la diversità degli edifici e dei quartieri nel loro insieme, la presenza di funzioni urbane primarie e secondarie sono tutti elementi che, messi a sistema, conferiscono alla città o al quartiere in particolare quella condizione di vivibilità e di qualità urbana che altrimenti non si avrebbe. I luoghi pubblici oggi sono luoghi percorsi da relazioni di tipo “comunitario”, sono i luoghi delle relazioni informalmente strutturate: un negozio, una strada, una via di un quartiere sono tutti esempi di luoghi intesi come ambienti sociali e per certi aspetti, possiamo dire che tali luoghi sono indeterminati e inafferrabili: la commistione tra spazi della residenza e luoghi di lavoro, il moltiplicarsi degli spazi flessibili interni delle abitazioni, i luoghi della quotidianità all’interno di spazi trascurati e in degrado - risultato della zonizzazione urbanistica - che divengono luoghi di incontro sociale, gli incroci stradali, i vicoli e i muretti usati come luoghi di ritrovo dai giovani o ancora i percorsi e i flussi autonomi e informali che disegnano una fitta rete di connessioni antitetiche rispetto a quelle già prestabilite dai grandi flussi di attraversamento. Il disegno di questi luoghi si poggia su uno stretto legame di interdipendenza che inevitabilmente si instaura tra le relazioni sociali degli individui e il luogo pubblico.
I. Il pensiero della Jacobs Ma come si può definire il luogo pubblico nella città contemporanea? Il filosofo Michel Foucault è stato uno dei primi pensatori a porre le basi per una analisi fisionomica della metropoli del XX secolo alla luce della crisi di identità a cui è stata soggetta. In questo senso egli ha offerto ed anche avuto un ruolo cruciale per l’evoluzione degli studi urbani affrontati nell’ultimo quarto di secolo, soprattutto in riferimento alle prospettive future della società del XXI secolo4. Secondo Foucault, la crisi del luogo della città contemporanea deve essere associata ad un “processo di decentramento e dislocazione perpetuo” dove il progressivo sgretolamento del luogo è strettamente connesso a una decisa inquietudine spaziale, il tutto aggravato da un aumento repentino della popolazione mondiale. Il declino della spazialità urbana diventa quindi moti3 4
JACOBS J., Vita e morte delle grandi città americane, p. 46, Torino, 2009. VEGETTI M.,Filosofie della metropoli, p. 75, Roma, 2009.
vo di riflessione per l’urbanistica. In questo ambito diviene molto interessante il pensiero adottato dalla Jacobs in merito alle strategie che propone come alternativa all’urbanistica ortodossa. Opponendosi in maniera radicale alle teorie della città giardino, dello zoning e della stessa “Città Radiosa”, sviluppata da Le Corbusier, apporta uno studio molto approfondito e analitico delle condizioni di degrado della città contemporanea e pone le basi per uno sviluppo teorico e pratico delle soluzioni da adottare, criticando apertamente quelli che sono i pensieri delle scuole tradizionali di architettura e urbanistica. Il pensiero della Jacobs può essere sicuramente inquadrato in un ambito sociologico oltre che urbanistico, dal momento che introduce nuovi concetti connessi alla condizione di vita sociale di un luogo urbano. Partendo da elementi caratterizzanti della città urbanizzata quali le strade e i marciapiedi, descrive quelle che sarebbero le condizioni di vita sociale nella sfera pubblica, qualora alcune condizioni fossero soddisfatte: la sicurezza nei marciapiedi in prima battuta costituisce il punto di partenza della sua analisi. Infatti se una strada urbana è sicura essa sarà automaticamente frequentata. In questo senso sarà possibile ottenere il controllo reciproco delle persone che la vivono: L’ordine pubblico nelle strade e sui marciapiedi della città non è mantenuto principalmente dalla polizia, per quanto possa essere necessaria: esso è mantenuto soprattutto da una complessa e quasi inconscia rete di controlli spontanei e di norme accette e fatte osservare dagli abitanti stessi5.
Il pensiero della Jacobs si fonda principalmente sull’aspetto sociale, oltre che urbano. Per mantenere “in vita una società urbana è necessario potenziare tutti quei fattori “atti a mantenere la sicurezza e la convivenza civile nelle città”. Gli individui sono i principali attori. È necessario che le persone che vivono la città abbiano la possibilità di intessere quella rete di rapporti sociali legata alla “fiducia reciproca”. Fiducia e sicurezza sono due aspetti ambivalenti e strettamente correlati l’uno all’altro. La sorveglianza ottenuta tramite il controllo reciproco è il miglior modo per tenere d’occhio le strade. Il marciapiede diventa l’elemento chiave che, nella sua semplicità, riesce a riunire una serie di fattori sociali e di contatti sociali che appaiono in prima analisi del tutto informali e il risultato di questi “contatti pubblici occasionali” è la “formazione di una sensibilità per il carattere pubblico degli individui, di un tessuto connettivo di rispetto 5
JACOBS J., Vita e morte delle grandi città americane, p. 29, Torino, 2009.
e di fiducia che costituisce una risorsa nei momenti di bisogno individuale o collettivo”6: In una strada di città la fiducia nasce, col tempo, da una infinità di piccoli contatti che si svolgono in pubblico, sui marciapiedi: fermarsi a bere una birra, chiedere un consiglio al droghiere o darne uno al giornalaio, scambiare opinioni con gli altri clienti del panificio, fare un cenno di saluto a due ragazzi che se ne stanno sulla soglia di casa a bere una gazosa […] questi contatti appaiono per lo più assolutamente banali, ma nell’insieme non lo sono affatto7.
“Socievolezza” è un fattore che entra in gioco nelle dinamiche della città con quello che viene definito il rituale dell’interazione in pubblico8¸ fattori di movimento, e mutamento reciproco in cui gli individui entrano in relazione, come se fossero gli attori di una scena teatrale che va in atto sul palcoscenico costituito dalle strade, i marciapiedi e i luoghi di un quartiere. Così la Jacobs descrive il complicato spettacolo che entra in scena nella sua Hudson Street: La mia prima comparsa la faccio poco dopo le otto, mettendo fuori il bidone della spazzatura: anche se è una parte prosaica, mi piace lo stesso far suonare il mio piccolo “clang”, mentre il centro della scienza è attraversato da branchi di ragazzi della media che si lasciano dietro una scia di carte di caramelle. Assisto agli altri riti mattutini: i signor Halpert sposta il carretto della lavanderia, il genero di Joe Cornacchia accatasta le cassette vuote dinanzi al negozio di gastronomia, il barbiere mette fuori sul marciapiede la sua sedia pieghevole […] col passare delle ore il rito diventa sempre più complesso: gli scaricatori di porto liberi dal lavoro si riuniscono al White Horse, all’Ideal o all’International per conversare e bere birra, all’ora di colazione i funzionari e i clienti delle industrie vicine affollano il ristorante Dorgene e il caffè Lion’s Head […] il signor Lacey chiude un momento la sua bottega e va a fare due chiacchiere col tabaccaio signor Slube. Il sarto Koochgian innaffia la lussureggiante giungla che riempie la sua vetrina, esce per esaminarla con uno sguardo critico dal marciapiede, coglie al volo le congratulazioni dei suoi passanti, […] e in fine traversa la strada per andare a fare uno spuntino all’Ideal, da dove può sorvegliare l’arrivo di eventuali clienti e comunicare con loro con ampi gesti che sta per arrivare […] quando l’oscurità infittisce il signor Halpert ormeggia il carretto della lavanderia alla porta dello scantinato, lo spettacolo continua sotto i lampioni9.
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JACOBS J., Vita e morte delle grandi città americane, p. 52, Torino, 2009. Ibid. Termine definito da E. Goffman, Il rituale dell’interazione. JACOBS J., Vita e morte delle grandi città americane, pp. 47-48, Torino, 2009.
La Jacobs descrive in maniera minuziosa i luoghi delle interazioni sociali: la vita sociale che si svolge nei luoghi pubblici assume tutte quelle sfumature e quegli aspetti legati al “fattore individuo” contestualizzato nella sfera sociale delle relazioni in pubblico. I termine vita collettiva assume un aspetto importante qualora essa rappresenti la caratteristica permanente di un quartiere urbano. Quando una zona urbana vive di vita collettiva, le persone che vi abitano tendono ad intessere una fitta rete di rapporti sociali sulla base della “fiducia reciproca”. Questa infinità di contatti pubblici tende a svilupparsi nei marciapiedi, nelle strade, nei vicoli e nei luoghi e attività di servizio pubblico come bar, ristoranti, caffè e così via.
II. Le relazioni in pubblico I luoghi pubblici oggi sono luoghi percorsi da relazioni di tipo “comunitario”, sono i luoghi delle relazioni informalmente strutturate. Se affrontiamo il tema del luogo urbano in termini sociali, possiamo trovare uno stretto legame tra quello che teorizza Jacobs, dal punto di vista della sociologia urbana, e le teorie sociologiche di Ervin Goffman riguardo il comportamento dell’individuo nelle relazioni sociali in pubblico. In questo senso, è utile sviluppare in parallelo un’analisi critica. Gli stessi “luoghi urbani” di cui parla Jacobs, vengono citati anche da Goffman per descrivere il comportamento e le attitudini degli individui intesi come unità. Goffman, di fatto, nel descrivere il significato di individuo, sottolinea come questo termine possa assumere differenti sfumature di significato. In questo senso, nello studio sull’interazione in pubblico, “l’individuo può essere due cose diverse: un unità veicolare e un unità di partecipazione”10. Per descrivere l’unità veicolare G. sfrutta la teoria del codice del traffico: La condizione di ordine all’incrocio di affollate strade cittadine comporta innanzitutto l’assenza di collisioni tra uomini e veicoli che interferiscono tra loro. Non si può dire che vi sia ordine tra gente che si muove nella stessa direzione e allo stesso ritmo, perché non c’è interferenza11.
La nozione di ordine pubblico viene vista come una condizione in cui tutti gli elementi interferenti, uomini o veicoli, tendono in qualche modo a evitare la collisione. Non vi può essere ordine se uomini o veicoli non interferiscono tra loro. Così, quando una serie di persone che si incontrano o si sorpassano in strade 10 GOFFMAN E., Relazioni in pubblico, p. 14, Milano, 2008. 11 Ivi, p. 14.
affollate tendono ad evitare le collisioni, potremmo dire che la folla è ordinata. Allo stesso modo i membri di una comunità ordinata tendono a far sì che i loro percorsi e le loro occupazioni interferiscano di volta in volta, e a mano a mano che ciò accade, apportano gli adattamenti necessari a far sì che la collisione non avvenga, tutto ciò in base a una “qualche regola convenzionale”. In questo senso G. descrive quella che è una variabilità continua dei sistemi di riferimento in cui “cambiano allo stesso tempo le unità costitutive a cui si applicano i sistemi stessi”12. Così come esiste un codice del traffico, esiste anche un sistema di circolazione pedonale, dove appunto l’individuo, il pedone, costituisce l’unità veicolare. Questo sistema, nel campo dell’interazione in pubblico, definisce dei sistemi di comportamento informali che sono del tutto legittimi e istituzionalizzati finché rimangono nella sfera del traffico pedonale, appunto: Normalmente un contatto fisico può essere visto come un intimità, che può essere giustificata da un rapporto esistente o può essere ritenuta un offesa. […] Un uomo che supera una donna sul lato interno del marciapiede, passando tra lei e il muro di una casa, può gestire il proprio passaggio toccandole il braccio o la spalla per minimizzare il contatto o la collisione. E quanto più da vicino essa è accompagnata da chi può avanzare rivendicazioni nei suoi confronti, tanto più, pare, l’uomo può essere sicuro della lettura che verrà data dal suo atto e tanta più libertà egli si potrà prendere rispetto al contatto fisico13.
Goffman da una nota conclusiva alla sua analisi sul traffico pedonale: Le strade delle città conferiscono un ambiente sociale nel quale gli individui “si mostrano abitualmente fiducia reciproca, […] si raggiunge un coordinamento volontario dell’agire in cui ognuna delle due parti ha un idea di come dovrebbero andare le cose tra loro”. Sussistono di fatto i requisiti per una “regola convenzionale”. La regola di comportamento è di fatti istituzionalizzata. Quando le due parti si avvicinano l’una all’altra, ognuna fornisce all’altra, un piccolo passo alla volta, prove sempre maggiori del fatto che ciascuna aderisce a un percorso appropriato e che si tratta del percorso che ciascuna ha indicato14.
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Ivi, p. 13. Ivi, pp. 22-23. GOFFMAN E., Relazioni in pubblico, p. 24, Milano, 2008.
In questo senso si sviluppano progressivamente delle condizioni di fiducia ma che espongono allo stesso tempo gli individui a manifestare sempre altrettanti nuovi motivi di dubbio. Come si può notare, il concetto di fiducia era stato esposto dalla stessa Jacobs nei riguardi della sicurezza delle strade. Mentre J. parla di fiducia reciproca come comportamento incondizionato che si svolge all’interno degli isolati dei quartieri per garantire un certo stato di reciproca osservazione da parte dei cittadini che li abitano, Goffman la studia come attitudine di un individuo come reciproca accettazione e progressiva presa di coscienza quando avviene un “contatto sociale”, come per esempio in un incontro per strada di due individui o gruppi di partecipazione. E ne parla in questi termini: Le strade delle città, anche in tempi in cui godono di cattiva fama, forniscono un ambiente nel quale degli individui estranei si mostrano abitualmente fiducia reciproca. Si raggiunge un coordinamento volontario dell’agire in cui ognuna delle due parti ha un’idea di come dovrebbero andare le cose tra loro […] in breve, ci sono i prerequisiti strutturali per una regola su base convenzionale15.
Parallelamente l’analisi di G. prosegue descrivendo le unità di partecipazione intese come unità fondamentali della struttura sociale della vita pubblica. Quando gli individui sono soggetti ad incontri ravvicinati, questi, nel momento in cui “attraversano strade e negozi, prendono parte ad occasioni sociali sia da soli che in compagnia, appaiono in pubblico sia come singoli sia come insieme”16. Quindi la condizione sociale che si presta può essere schematizzata secondo due figure cardine, una è quella in cui l’individuo costituisce una persona a sé e quindi un unità singola, l’altra è quella per cui si costituiscono gli insiemi, ossia parti composte da più singoli i cui membri sono percepiti essere “assieme”. Così come le definisce G. quindi le unità di partecipazione, sia essi singoli o gruppi di individui, ci testimoniano la condizione dell’individuo nei suoi spostamenti quotidiani, nei luoghi urbani, quelli della vita pubblica, che sono gli stessi luoghi che descrive Jacobs in merito alla condizione delle città americane contemporanee. Come scrive Goffman: È tipico di coloro che frequentano una strada il fatto che normalmente ci si rechino, ci camminino e la lascino senza modificare la loro unità di partecipazione, fatta eccezione per il fatto che l’unità può formarsi e sciogliersi in determinati momenti che richiedono una partecipazione come singoli. […] ci sono anche occasioni sociali in cui si viene
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Ivi, p. 23. Ivi, p. 24.
incoraggiati a cambiare il proprio stato di partecipazione: i singoli possono combinarsi tra loro o unirsi a un insieme, e gli insiemi possono fondersi, o ancora occasioni sociali in cui si favoriscono insiemi temporali17.
È evidente come ci sia un forte legame tra i sistemi associati ai gruppi di partecipazione e l’ambiente inteso come luogo pubblico di vita sociale. I gruppi sociali di partecipazione possono mutare la loro forma in funzione del proprio stato e possono assumere molteplici risvolti. Ciò che avviene nei luoghi urbani è quindi un “mondo di incontri sociali” che impegnano l’individuo in “un contatto sia diretto che mediato con altri interlocutori”18. L’aspetto interessante dal punto di vista delle relazioni sociali introdotto dai due autori è che entrambi fanno leva su un concetto univoco di base: quello che inevitabilmente avviene sui luoghi urbani sono una serie di contatti informali. La Jacobs dapprima descrive questo concetto: Per quanto limitati, insignificanti e casuali possano apparire, i contatti umani che si hanno nelle strade possono essere il punto di partenza di una ricca vita collettiva urbana19.
III. Il rituale dell’interazione Riguardo agli stessi contatti sociali G. invece riserva un approfondito studio su come gli individui interagiscono quando si rivolgono simultaneamente l’uno all’altro. Il risultato è quello di una interazione faccia a faccia che si verifica tra gli individui. Quello che G. descrive, nell’ottica dello scambio rituale, sono le varie “forme marginali e derivate di contatto sociale”20. Un esempio calzante, che si verifica spontaneamente lungo le strade e i marciapiedi, sono proprio gli sguardi ciechi, ossia quando “due persone si espongono l’una allo sguardo dell’altra”. Ma questi sguardi non per forza si materializzano in quello che viene definito come “il rituale del riconoscimento sociale”21. Sono infatti tutte condizioni informali dove si 17 18 19 20 21
Ivi, p. 27. GOFFMAN E., Il rituale dell’interazione, p. 7, Bologna, 1988. JACOBS J., Vita e morte delle grandi città americane, p. 67, Torino, 2009. GOFFMAN E., Relazioni in pubblico, p. 63, Milano, 2008. Ivi, p. 64.
assume “tacitamente” il riconoscimento sociale per cui, in un certo senso, si constata che il “contatto” ci sia stato. Per esempio nei contatti telematici (che sono pur sempre una forma di contatto sociale) quando non arriva una replica, il mittente può assumere che il messaggio sia stato implicitamente ricevuto. Viceversa, vi sono altre condizioni in cui il rituale del riconoscimento sociale avviene di fatto proprio come un “contatto sociale”. Tra queste vi sono le pratiche di movimento degli individui lungo le strade. In questo contesto, i contatti possono avvenire in maniera estremamente fortuita quando “le parti in relazione usano in modo indipendente ma contemporaneo le stesse strade, gli stessi servizi, trasporti pubblici e così via. […] gli individui possono casualmente incontrarsi, urtarsi o venirsi incontro”22.
IV. Relazioni sociali L’individuo è legato alla società da due vincoli: da un lato appartiene alla società collettiva, dall’altro è legato alle altre persone tramite le relazioni sociali. Sulla base di questi due concetti G. pone le basi per lo studio di un aspetto determinante nell’interazione faccia a faccia: quello delle relazioni sociali. Queste possono essere suddivise in due grandi categorie. Quelle ancorate, o anche “fissate”, dove gli individui constatano che tra loro si sia “stabilita irrevocabilmente una struttura di reciproca conoscenza che trattiene, organizza e applica le loro reciproche esperienze”23. Di contro la maggior parte delle società si basa anche su quelle che G. definisce “relazioni anonime” ossia quei “rapporti reciproci standard tra due persone che si conoscono soltanto per un identità sociale percepita all’istante, come quando una persona supera cortesemente un estraneo per strada”24. Anche in questo caso le relazioni che si verificano nei luoghi urbani possono essere inquadrate nella categoria delle relazioni anonime, le interazioni tra estranei di passaggio gettano le basi per un rapporto reciproco, fuggevole. Viceversa le relazioni ancorate hanno una loro storia, quella che G. definisce “carriera”, una propria evoluzione naturale. Le differenze primarie che si presentano tra i due tipi di relazioni stanno principalmente nelle dicotomie tra i concetti di distanza e intimità, piuttosto che personale e impersonale e sulla base di questi parametri si fonda e si definisce il grado della relazione. Il “termine” della relazione, 22 23 24
Ibid. GOFFMAN E., Relazioni in pubblico, p. 158, Milano, 2008. Ibid.
ossia “le condizioni per cui è valutata nei vari modi da coloro che hanno modo di dare giudizi su di essa”25, ha aspetti variabili in funzione del tipo di relazione, talvolta ancorata, altre volte anonima. Ecco quindi come il tipo di relazione entra fortemente in gioco per giustificare e descrivere quelli che sono i comportamenti informalmente strutturati che si verificano nei luoghi pubblici.
V. Le apparenze fisiche Abbiamo detto che l’individuo è al tempo stesso ancorato alla società in quanto membro di una comunità. Questo significa che sarà propenso a percepire dei segnali provenienti da un “mondo immediatamente circostante” a lui, il suo ambiente appunto. L’individuo per natura è, di fatto, portato a percepire una serie di impulsi e stimoli che provengono da tutto ciò che lo circonda: “odori, suoni, percezioni visive e tattili, pressioni, diversamente combinate a seconda della specie”26. Esso infatti ha sviluppato con l’esperienza fisica un certo grado di sensibilità nei confronti degli “indizi di pericolo” che gli consente di percepire tutti questi “allarmi” dall’ambiente che lo circonda. Secondo Goffman allora, l’individuo avrà la sensazione che le apparenze siano “normali”, o naturali, quando gli impulsi e le percezioni scaturite dall’ambiente nei confronti dell’individuo non provocano nulla di particolarmente allarmante tanto da consentirgli una normale continuazione della propria routine. Viceversa quando l’uomo sente che sta accadendo qualcosa di anormale, qualcosa che non va, egli percepirà un’improvvisa minaccia. Quindi l’ambiente circostante per un individuo può rappresentare due cose: un luogo sicuro, dove si mantiene un facile controllo della situazione, oppure un luogo dove l’individuo sia spinto da una “forza” di autoconservazione in relazione ad una minaccia o ad un evento particolarmente allarmante. G. sostiene che, di fatto, è proprio l’esperienza naturale di ogni giorno che consente all’individuo di acquisire quei comportamenti autonomi e spontanei di “autoconservazione” che permettono di percepire ciò che è allarmante: Camminare, attraversare la strada, enunciare una frase complessa, indossare i pantaloni, allacciarsi le scarpe, fare una somma, tutte queste attività di routine che l’individuo svolge in modo competente senza pensarci, sono state raggiunte attraverso
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Ivi, p. 160. Ivi, p. 201.
un processo di acquisizione i cui primi stadi sono stati negoziati sudando freddo. […] La tranquillità di un individuo in una situazione presuppone che egli si sia costruita un’esperienza nel far fronte alle minacce e alle opportunità che si presentano in quella situazione. Egli acquisisce un tempo di reazione abbastanza breve da garantirgli la sopravvivenza, costituito dal periodo necessario a percepire un allarme […] e il risultato non è tanto che viene a conoscere il mondo circostante quanto che acquisisce esperienza e pratica nell’affrontarlo27.
Inoltre bisogna considerare che il mondo circostante l’individuo ha un “carattere profondamente sociale”. Cosi come gli animali, gli uomini devono captare in continuazione dei “segni allarmanti”. Ciò che fa di un precipizio un precipizio è il limite fisico che esso presenta per percorrerlo incolumi a piedi e la tendenza degli organismi a sfracellarsi cadendo dall’alto28.
VI. La Umwelt Cosi come nel mondo animale tra preda e predatore vi è quella che si può chiamare “distanza critica”, allo stesso modo un individuo nel suo ambiente sociale tende a mantenere un margine di separazione entro il quale egli riesce a considerare quegli eventi “che possono o potrebbero diventare per lui una fonte di immediata preoccupazione”29. Vi è una sfera, un aura attorno all’individuo entro la quale si trovano tutte queste potenziali fonti di allarme, questa sfera viene definita da Goffman “Umwelt”30. Per l’individuo, probabilmente tale contorno può essere misurato solo nel raggio di pochi metri. G. descrive questa aura come fosse “una bolla in movimento” che costantemente segue l’individuo lungo il suo percorso in relazione all’ambiente circostante. In realtà quello che cambia non è la posizione relativa degli eventi rispetto all’individuo, ma piuttosto il “loro essere a portata di mano rispetto a quest’ultimo”, per esempio: Sui marciapiedi l’individuo ha un’attenzione di tipo veicolare per evitare scontri, e questa implica generalmente un’attenzione verso la cerchia di persone immediatamente
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GOFFMAN E., Relazioni in pubblico, p. 210, Milano, 2008. Ivi, p. 211. Ivi, p. 212. Ibid.
intorno a lui; quelle lontane, poche o tante, non lo interessano molto31.
Questo significa che la distanza critica è misurata sempre in senso relativo alla percezione che un individuo ha in relazione al raggio effettivo entro il quale rimangono compresi i potenziali segni allarmanti. All’interno della Umwelt, all’interno di questa “distanza critica” si istituisce quello che G. chiama frame fisico o arredato. Questo corrisponde all’ambiente fisico che a tutti gli effetti avvolge l’individuo: L’uomo deve limitarsi a camminare su un pavimento, sia esso terra oppure una superficie artificiale di qualsiasi genere. Quasi sempre sarà vicino a pareti di qualche tipo, nessuna, ovviamente, in un parco o una strada di campagna, ma una o due nelle strade di città, e quattro nelle stanze. […] In breve l’individuo passa il suo tempo in una frame arredato o fisico32.
Il limite esteriore, o perimetro, definisce il contorno, un limite entro il quale si delimita un margine di confine tra interno ed esterno. Le pareti, i soffitti e i pavimenti sono elementi fisici che costituiscono il frame e ne circoscrivono lo spazio al confine. Oltre a costituire un limite fisico, il frame mantiene a distanza i segnali di allarme che un individuo potrebbe percepire. Quindi in funzione del suo frame, un individuo sarà portato a percepire potenzialmente determinati fattori di allarme dovuti al contesto, o cornice in cui si trova. In una strada delimitata da due “pareti continue”, costituite dagli edifici allineati lungo essa, l’individuo avrà una Umwelt differente da quella che avrebbe in una stanza di un’abitazione residenziale. E in funzione di questa condizione egli sarà automaticamente portato a percepire differenti “segnali di allarme” proprio in virtù del fatto che ogni frame fisico costituisce al tempo stesso una barriera che tiene lontano questi potenziali fattori di allarme. Il carattere protettivo che ha il frame fisico quindi è variabile in base al contesto, alla sua essenza, sia esso un parco, una strada o una stanza in un’abitazione. In funzione ad esso l’individuo assumerà una Umwelt ogni volta differente e misurata in rapporto allo spazio che lo circonda. Un’altra caratteristica “allarmante” di questo frame fisico è data proprio dal carattere che esso ha di delimitare e proteggere chi vi si trova dentro. Tale condizione potrebbe ritorcersi contro l’individuo 31 32
Ivi, p. 215. Ivi, p. 237.
perché “qualsiasi cosa che lo separi dalle fonti di allarme può anche isolarlo insieme ad esse”33. Cosi come la Umwelt ha dei punti di chiusura, essa ha al tempo stesso dei “punti abituali di accesso e di interferenza”34. Per esempio, per strada le persone posso entrare in contatto sul piano conversazionale con gli estranei e questo avviene tramite dei segnali di richiesta e di ascolto che comunque sono tenuti a riconoscere. Goffman spiega come i punti di accesso fanno comunque parte di quei costrutti che seguono una regola uniforme e convenzionale, dove un uso scorretto verrebbe chiaramente percepito dalle persone: Se gettare uno sguardo dentro le finestre è permesso, guardare fisso al loro interno è in genere considerato scorretto, così come lo è, naturalmente, passare attraverso una finestra aperta […] gli estranei che per strada chiedono di essere ascoltati devono trovare alla svelta un motivo accettabile per la loro intrusione35.
Al tempo stesso queste norme implicite convenzionali possono automaticamente ribaltarsi, i punti di accesso possono facilmente diventare punti di allarme. I punti di accesso rendono le persone chiaramente vulnerabili: Quando il campanello suona a mezzogiorno, una casalinga può provare un leggero senso di allarme se non aspetta nessuno. In orari fuori dal normale, lo squillo del telefono può causare allarme. In certi quartieri di alcune città, durante certe ore, ogni incontro tra pedoni di pelle diversa e che non si conoscano può allarmare uno dei due o entrambi36.
La vulnerabilità è un concetto chiave che descrive la relazione che si instaura tra gli individui appartenenti ad una rete sociale. G. afferma che “quando un individuo si trova apertamente in presenza di altri individui (e viceversa), egli diventa necessariamente vulnerabile nei loro confronti”. Egli sarà soggetto a quella che G. definisce informazione sociale, ossia un flusso di “dati sociali” che vengono trasmessi dall’individuo a quelli che sono nella sua immediata vicinanza. Informazioni riguardo “l’identità sociale e per33 34 35 36
GOFFMAN E., Relazioni in pubblico, p. 239, Milano, 2008. Ivi, p. 249. Ibid. Ivi, pp. 249-250.
sonale, l’informazione sulle sue intenzioni e sui suoi progetti di azione e sui suoi rapporti sociali con gli altri presenti della rete sociale”. In questo senso, l’individuo sarà costantemente “allarmato” rispetto alla quantità di informazione sociale che riceve dall’insieme di persone sotto il raggio d’azione della sua visuale immediata, appunto la sua “rete sociale”. In questo modo l’individuo “ottiene normalmente ciò di cui ha bisogno per orientarsi nei confronti di coloro che gli stanno intorno, e lo ottiene proprio da essi”37.
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GOFFMAN E., Relazioni in pubblico, p. 251, Milano, 2008.
IL LUOGO URBANO E LE RELAZIONI SOCIALI (parte II)
di Serena Obino
VII. Frameworks Nel 1974 Erving Goffman, sociologo canadese studioso dell’organizzazione della società, scrive Frame Analysis, la sua opera più ambiziosa che segna una svolta negli studi riguardanti la realtà sociale. Si tratta di un attento esame dell’organizzazione dell’esperienza. Il tutto prende inizio con William James quando si domanda nel suo saggio del 1869 La percezione della realtà, cosa sia reale. Egli rispondeva sostenendo che esistono diversi mondi che la nostra attenzione e il nostro interesse possono rendere reali; esistono cioè diversi sotto-universi, in ognuno dei quali un oggetto di un determinato tipo può avere il suo proprio essere. In altre parole William James avanza la possibilità che vi siano “diversi ordini di realtà”, ognuno dei quali ha il suo separato e specifico stile di esistenza ed ogni mondo, nel momento in cui gli si presta attenzione, è reale a modo suo, solo che questa realtà decade insieme all’attenzione. Goffman, partendo dal saggio di James, sostiene che, per poter capire cosa sia reale, è necessario isolare un numero finito e ricorrente di contesti di comprensione, che lui chiama frames, che hanno il compito di incorniciare le varie situazioni dando loro un senso. I contesti di comprensione ci permettono di esperire il mondo che ci circonda e gli eventi e le attività che intraprendiamo, a cui prendiamo parte e che osserviamo. Per tanto G. si pone in una prospettiva situazionale, che sta a significare un interesse per ciò di cui un individuo può essere consapevole in un particolare momento, questo implica spesso altri particolari individui e non è necessariamente ristretto all’arena reciprocamente controllata dell’incontro faccia a faccia. Quando gli individui si trovano in una qualunque situazione affrontano la questione “che cosa sta succendo qui?” e proprio a partire da questa domanda, il volume tenta di descrivere una struttura (framework) a cui si potrebbe ricorrere per la risposta, per quanto possano variare da situzione in situazione i punti di vista degli individui partecipi, i confini temporali della parola “attuale” e i confini spaziali della parola “qui”. Il fine è isolare alcune delle strutture basilari della comprensione disponibili nella nostra società per dar un senso agli eventi, e analizzare le particolari vulnerabilità a cui questi frames di riferimento sono soggetti. I frames di G. non sono rigidi, bensì mobili ed incerti e imparare a maneggiarli è un’arte decisiva per la nostra esistenza, proprio perchè facendolo riusciamo a “muoverci” nella quotidianità organizzando di conseguenza la nostra esperienza. L’applicazione del frame è un lavoro d’inquadramento che automaticamente compiamo, non è una capacità innata ma è reso possibile solo grazie all’applicazione di quei sistemi
di regole decisionali che acquisiamo nel corso della nostra crescita, della nostra educazione, del nostro addestramento e che impariamo attraverso l’esperienza. Probabilmente l’individuo è inconsapevole delle caratteristiche organizzative che la struttura possiede, e se richiesto non è in grado di descriverla; questi limiti tuttavia non costituiscono un ostacolo alla sua semplice e piena applicazione. Dal concetto di frame a quello di frameworks il passo è breve, e Goffman descrive il concetto di strutture primare o frameworks primari: Quando l’individuo della nostra società occidentale riconosce un particolare evento, tende […] a implicare in questa risposta una o più strutture o schemi d’interpretazione di un certo tipo che può essere definito primario. Dico primario perché l’applicazione di tale struttura o prospettiva interpretativa è vista da quelli che la applicano come non dipendente da o riferibile ad alcuna interpretazione precedente o “originale”; infatti una struttura primaria è considerata capace di tradurre ciò che altrimenti rappresenterebbe un aspetto senza significato della situazione, in qualcosa di significativo1.
I frameworks primari quindi rappresentano il primo passo per “capire” una situazione e, di conseguenza, poterci destreggiare con cognizione al suo interno; rappresentano per Goffman il principio organizzatore tramite il quale il mondo della “realtà quotidiana” è sostenuto dalla comprensione intersoggettiva. Le strutture primarie variano nel grado di organizzazione; nella vita di tutti i giorni della nostra società è scandita una chiara distinzione tra due ampie classi di strutture primarie: naturali e sociali. Partendo dal presupposto che il presente studio interessa le struttture sociali, che contemplano le relazioni tra gli individui, si dà una breve definizione di entrambe. Le strutture naturali identificano gli eventi “puramente fisici”, cioè dovuti interamente a determinanti “naturali”, nessuna forza di volontà interferisce, nessun attore può guidarne il risultato. Nelle scienze fisiche e biologiche si trovano versioni eleganti d’interpretazione di queste strutture, un esempio ordinario è dato dalle condizioni del tempo nel bollettino metereologico. Le strutture sociali forniscono una comprensione per gli eventi che includono l’intelligenza, la volontà, lo sforzo di controllo di una entità agente viva, di cui la più importante è l’essere umano. 1 GOFFMAN E., Frame Analysis, p. 65, Roma, 2006.
VIII. Keys e keyings Il framework, oltre che consentirci d’inquadrare la situazione, fornisce una “chiave” di lettura adeguata alla circostanza: il concetto di key infatti, è per G. di fondamentale importanza nella comprensione della realtà: … il key (chiave) è quell’insieme di convenzioni sulla base delle quali una data attività, già significativa in termini di una qualche struttura primaria, viene trasformata in qualcosa modellato su questa attività, ma visto dai partecipanti come qualcos’altro. Il processo di trascrizione può essere chiamato keying (messsa in chiave)1.
Attraverso il key abbiamo la possibilità di trasformare l’attività che stiamo esperendo in un altro tipo di attività dalle implicazioni differenti: ad esempio quando ci travestiamo o usiamo la mimica per fare di una sequenza innocua una sequenza minacciosa, o di un combattimento un gioco. Pensiamo ai bambini: quando giocano a fare gli “indiani” basta un urlo o un particolare tipo di abbigliamento perché entrambi si sentano essere realmente nell’antico West a dare la caccia ai bisonti. Sappiamo benissimo che non è la realtà ma si tratta semplicemente di un gioco, eppure, quando partecipiamo ai loro giochi, prestandoci ad essere loro “prigionieri” o “compagni”, altro non facciamo che applicare il loro stesso key a quella situazione. Il key, è bene sottolinearlo, è un elemento del framework: mentre la struttura primaria ci permette d’incorniciare la situazione, di capire dove ci troviamo, il key ci permette di “entrare dentro” la situazione e cogliere le implicazioni e le sfumature implicite in essa. Il key allora gioca un ruolo cruciale nel determinare cos’è che pensiamo stia realmente accadendo, tuttavia attraverso un’operazione di “messa in chiave” possiamo tradurre solo ciò che è già dotato di senso in termini di un framework primario. È possibile ora definire un altro tipo di approccio ai termini della realtà che Goffman descrive; le azioni incorniciate interamente nei termini di una struttura primaria si definiscono reali o effettive, poichè stanno realmente, effettivamente accadendo. Un keying di queste azioni messe in scena, o per meglio dire rappresentate, ci fornisce qualcosa che non è reale. Dunque, la rappresentazione di queste azioni accade realmente ed è percepita all’interno di una prospettiva primaria, ed a questo reale “letterale” si deve aggiungere quello retrospettivo; la “messa in chiave” o keying di queste azioni ci indica qualcosa che non è reale allo stesso modo. 1
GOFFMAN E., Frame Analysis, p. 85, Roma, 2006.
IX. Rappresentazioni Si è parlato di “azioni messe in scena”. Cosa intende dire Goffman con questa espressione? I frames incorniciano delle situazioni che, a livello di interazione sociale (quindi chiaramente inquadrate entro l’ambito delle frameworks sociali), non sono altro che performance degli altri individui, ovvero delle autentiche realtà, nel senso di fatti che stanno realmente accadendo, guidate da azioni rappresentate da uno o più individui che ci circondano sulla base della loro volontà; tali azioni costituiscono delle rappresentazioni poichè sono finzioni messe in scena. Chiaramente parlare di finzione può apparire confusionario, tuttavia il fatto che un evento stia accadendo realmente non esclude che l’individuo dinnanzi a noi non stia semplicemente fingendo di essere qualcosa che non è. È interessante studiare quindi l’incrocio della teoria Goffmaniana sulle relazioni sociali in cui avviene l’incontro tra la percezione della realtà ad opera di un individuo, sulla base della quale esso organizza la propria esperienza, e la rappresentazione di quella stessa realtà ad opera di altri individui. Ne “La vita quotidiana come rappresentazione” G. illustra una prospettiva sociologica attraverso cui studia la vita sociale, in particolare quella che si svolge entro i confini fisici di un edificio; la prospettiva è appunto quella della rappresentazione teatrale da cui derivano dei principi di tipo drammaturgico; G. non cela le carenze di questo modello tuttavia le applica sulla base della logica con cui interpreta la società definendo a livello microsociologico uno schema che costituisce un complesso sistema coerente in cui ricompone frammenti di esperienze vissute da individui. Ogni qual volta ci troviamo in presenza di altre persone siamo tutti degli attori e in quanto tali ci esprimiamo affinchè gli altri riportino un’impressione sul nostro conto. L’espressività gioca su due tipi di attività, quella intenzionale, ovvero la comunicazione nel senso ampio e ristretto del termine, e quella “lasciata trasparire”, ovvero sintomatica dell’attore. Ad ogni modo le azioni dell’individuo di fronte ad altri influenzano la definizione che questi danno della situazione che stanno vivendo. All’interno di ogni situazione, creata per interazione, tutti sono partecipi e raggiungono assieme una sorta di modus vivendi; Ad esempio, due amici che fanno colazione assieme mantengono un atteggiamento di reciproco affetto, rispetto e interesse. D’altra parte lo specialista, nell’esercizio della sua
professione, offre spesso un’immagine di partecipazione disinteressata ai problemi del cliente; questi a sua volta, reagisce con una dimostrazione di rispetto per la competenza e la capacità dello specialista. Trascurando queste differenze di contenuto, tuttavia, la forma generale di queste combinazioni operative è la stessa2.
La società si basa sul principio che qualsiasi individuo possiede delle caratteristiche sociali, quindi esso dichiarerà chi pretende di essere proiettando una definizione della situazione, creata per dare un’impressione della realtà agli altri. Prima di entrare nel merito della definizione di rappresentazione, e quindi successivamente alla regionalizzazione dell’attività dell’uomo, è bene chiarire alcuni importanti aspetti che sono fondamentali sia per capire l’ottica dell’autore sia per capire che nonostante, l’analisi di Goffman sia rivolta per lo più a dei contesti analitici chiusi, quindi definiti nello spazio e socialmente costruiti, i meccanismi dell’interazione hanno una componente aspaziale; non perchè fuori dallo spazio fisico ma perchè, a prescindere dal dove si trova l’individuo, se in presenza di altre persone, comunicherà delle informazioni sul proprio conto che in genere gli altri cercano di captare per quanto è possibile, e allo tempo stesso farà altrettanto con chi gli sta intorno. Di cruciale importanza sarà dunque la prima impressione, sulla base della quale i vari partecipanti accettano le dichiarazioni definitorie degli altri presenti ed impostano la linea di reazione. I presenti possono ricavare informazioni da diverse fonti e molti indicatori ( o “strumenti segnici” ) sono disponibili a questo scopo. Se non conoscono affatto l’individuo, gli osservatori possono raccogliere indizi dalla sua condotta e dalla sua apparenza, così da potersi servire di precedenti esperienze fatte con persone abbastanza smili all’individuo presente, o, cosa più importante, applicare ad esso stereotipi non controllati in precedenza3.
La rappresentazione è tutta quella attività di un individuo che si svolge durante un periodo caratterizzato dalla sua continua presenta dinnanzi ad un particolare gruppo di individui, tale da avere una certa influenza su di essi. Infatti, egli chiede al pubblico di credere al suo personaggio e qualora fosse stato convincente, soltanto un sociologo o uno scettico metterebbe in dubbio la veridicità di quanto viene presentato; poichè tutto il mondo è un palcoscenico e tutti siamo degli attori che portan delle maschere, 2 3
GOFFMAN E., La vita quotidiana come rappresentazione, p. 20, Bologna, 1969. GOFFMAN E., La vita quotidiana come rappresentazione, p. 11, Bologna, 1969.
questo vuole la metafora teatrale di Goffman. Come attori possiamo essere cinici o sinceri, sulla base della convinzione che abbiamo nella capacità delle nostre azioni di essere credibili agli occhi degli altri, pur partendo dal presupposto comune e costante che stiamo fingendo. Ognuno col proprio equipaggiamento espressivo, la cosiddetta “facciata”, costituita innanzitutto dall’ “ambientazione”, ovvero lo sfondo fisico che caratterizza le parti sceniche. L’ambientazione sta alla base della rappresentazione costituendone il presupposto stesso, o per meglio dire, in alcune situazioni l’attore costruisce il suo ruolo sociale, al di là della sua routine, esattamente sulla base del luogo in cui si trova sottostando a delle particolari “regole” (laddove le regole saranno differenti per grado e specificità in ogni sistema chiuso). L’equipaggiamento espressivo che identifichiamo strettamente con l’attore costituisce la sua “facciata personale”: sesso, rango, vestiario, età, caratteristiche razziali, taglia, aspetto, portamento, modo di parlare, ecc. Se ci si addentra nell’attività della rappresentazione, G. evidenzia un dilemma che interessa le qualità teatrali della realizzazione, ovvero la resa effettiva dell’azione dell’individuo al di là dell’apparenza. Per alcuni status essa coincide strumentalmente con la funzione principale inerente ad essi, cioè trasmettere e comunicare, la qualità e gli attributi affermati da colui che agisce coincide esattamente con il proprio ruolo. Per esempio il pugile, il violinista, il chirurgo, e il poliziotto. In altri casi si deve affrontare il dilemma: espressione o azione. … anche una modella di “Vogue”, con il suo modo di vestire, l’atteggiamento e l’e spressione del volto, è capace di esprimere un colto interessamento per il libro con cui sta posando, ma quanti si danno la pena di esprimersi in modo così appropriato, hanno poi molto poco tempo da dedicare alla lettura. Come dice Sartre: “L’ allievo attento che vuol essere attento, l’occhio fisso sul maestro, le orecchie bene aperte in ascolto, si esaurisce a tal punto rappresentando la parte dell’attento, che finisce per non ascoltare nulla”4.
La coerenza espressiva, soprattutto quella che richiede corrispondenza tra azione ed espressione, è sostanzialmente opposta alla nostra natura umana, ovvero esiste una netta dissonanza tra il nostro “io” umano e il nostro “io” socializzato, pertanto sarà difficile mantenere la conservazione del controllo dell’espressione, con tutto ciò che ne può conseguire. 4
Ivi, p. 45.
X. Comportamento e ambito territoriale Come già accennato in precedenza, per Goffman l’attività dell’uomo è regionalizzata, egli si serve del termine “ribalta” per indicare il luogo dove si svolge la rappresentazione, caratterizzato da un proprio equipaggiamento fisso (la “scena”). La rappresentazione di un individuo sulla ribaltà mostra che l’attività entro quel territorio segue determinate norme, riconducibili a due vaste categorie. La prima è la “ cortesia”, legata al modo in cui l’attore si comporta con il pubblico nel momento in cui è impegnato con questo in modo diretto, dalla comunicazione verbale allo scambio dei gesti; la seconda è il “decoro”, legato al comportamento che ha l’attore nel momento in cui sa di poter essere visto o udito dal pubblico. Spesso e volentieri l’analisi di G. interessa le istituzioni sociali (che saranno poi definite secondo l’ottica dell’autore), in ognuna delle quali vi sono delle specifiche norme di decoro; a differenza delle regole di cortesia che devono essere rispettate solo nel momento dell’interazione, le regole di decoro sono costrittive per tutto il territorio della ribalta. Ad ogni modo alle luci della ribalta gli aspetti e i fatti, che potrebbero screditare l’impressione voluta dall’individuo sono soppressi; il territorio in cui questi fanno comparsa è la “retroscena”, ovvero il luogo dove l’attore può rilassarsi e abbandonare la sua facciata, smettere di recitare la sua parte e uscire dal proprio ruolo. Nei confronti di una data rappresentazione il retroscena può essere definito come il luogo dove l’impressione voluta dalla rappresentazione stessa è coscientemente e sistematicamente negata. Davanti all’uomo, la donna recita sempre; essa mente fingendo di accettarsi come l’altro inessenziale, mente presentandogli attraverso mimiche, vestiti, parole concertate un personaggio immaginario; questa commedia esige una costante tensione; vicino al ma-rito, all’amante, ogni donna pensa più o meno: << non sono me stessa >>; il mondo maschile è duro, ha degli spigoli taglienti, in esso le voci sono troppo sonore, le luci troppo crude, i contatti violenti. Vicino ad altre donne, la donna è dietro le scene; prepara le armi, non combatte; pensa a un vestito, inventa un trucco, prepara i suoi stratagemmi:si aggira in pantofole e accappatoio tra le quinte prima di entrare in scena; ama questa atmosfera tiepida, dolce, distesa... Per certe donne, questa intimità frivola e calda è più preziosa delle relazioni con gli uomini5.
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GOFFMAN E., La vita quotidiana come rappresentazione, p. 134, Bologna, 1969.
In genere il retroscena di una rappresentazione si trova, fisicamente parlando, ad un estremo del luogo in cui si presenta lo spettacolo e naturalmente costituisce per l’attore un luogo sicuro nel senso che nessuno del pubbico può entrarvi. Tuttavia in molti casi possono esservi dei problemi nel controllo del proprio retroscena, diversi sono gli esempi che fa l’autore (considerando tra l’altro che tutto il suo lavoro è sempre ben accompagnato da frammenti di racconti che argomentano le proprie tesi): muri che separano solo visivamente le abitazioni, semplici pareti divisorie che permettono di giungere sin nell’abitazione adiacente i rumori prodotti dalle attività di ribalta e retroscena di una famiglia, per cui i vicini, che personalmente si conoscono molto poco, si trovano nell’imbarazzante condizione di sapere sin troppo l’uno dell’altro; la camera da bagno, ovvero il luogo che coinvolge l’individuo in un attività che sempre contrasta gli standard di pulizia e purezza della nostra società, per cui egli perde necessariamente la maschera espressiva che porta nell’interazione faccia a faccia, ed è letteralmente “fuori giuoco”, motivo per cui le porte dei gabinetti si possono chiudere a chiave. Il momento in cui l’attore lascia il retroscena ed entra nel luogo in cui è a contatto con il pubblico si può bene intendere osservando un cameriere che muta il proprio atteggiamento e portamento nel varcare la sala da pranzo all’uscita dalla cucina, un passaggio molto delicato a livello di controllo delle impressioni in cui è più facile sorprenderlo. Insieme a questi due territori Goffman ne analizza in conclusione un terzo “che comprende tutti i luoghi all’infuori di quelli già indicati”: l’esterno. Gli individui che vi si trovano, generalmente coincidenti in quest’analisi con coloro che si trovano all’esterno dell’edificio, sono chiamati “estranei”. È interessante notare che G. spiega di utilizzare con cautela tale nozione di esterno poichè esso è tale rispetto ad una particolare rappresentazione, con la propria ribalta e il proprio retroscena, per tanto sarà definito soltanto sulla base di uno specifico punto di riferimento costituito da quella particolare rappresentazione. Il punto di vista situazionale, il punto di vista soggettivo, sta chiaramente alla base di tutto questo sistema analitico sociologico, per cui in funzione della prospettiva dell’individuo, dell’ equipe, del contesto analitico, è tutto un continuo scambiarsi di ruoli, maschere e regole. G. è particolarmente interessato ai micro-rituali che danno un senso alle attività umane. La sua analisi si concentra su quei micro-rituali apparentamente banali, quei gesti, quelli accorgimenti, quelle abitudini che caratterizzano la vita quotidiana e che danno il senso della ritualità viva delle “società urbane e secolari”. Gli schemi di riferimento alla base delle interazioni sociali, che hanno luogo nelle ambientazioni naturali della società anglo-americana, sono astratti, formali. Possono essere in qualche modo applicati ad
ogni istituzione sociale, hanno di per se una natura dinamica che pur tuttavia si adatta ad una concreta connessione spazio-temporale con la metafora teatrale a cui, con tutti i limiti che ne derivano da G. ammessi e chiariti, riduce l’analisi della vita sociale. Le istituzioni sociali sono state trattate come dei sistemi relativamente chiusi nel senso che costituiscono un campo di studio differente, pur nel potervi chiaramente applicare gli schemi “situazionali”. Una chiusura che Goffman definisce, o meglio caratterizza principalmente in termini di: tecnica, politica, struttura e cultura. Quattro prospettive a cui si aggiunge, sullo stesso piano, quella drammaturgica.
XI. Ambito locale La sociologia teorica mostra un interesse più sistematico nei confronti delle questioni della localizzazione dei fatti sociali e dello spazio. Giddens Anthony, uno dei più importanti ed eminenti critici della sociologia contemporanea, definisce nel 1984, il concetto di “ambito locale”, nella sua teoria relativa a come le azioni umane si collegano alle strutture sociali. Il punto di partenza della sua analisi è ciò che chiama “dualità della struttura”, cioè l’idea che le strutture sociali siano al tempo stesso la condizione e il risultato finale delle pratiche e delle condotte individuali. Per cui le persone non sono “semplici espressioni passive di un determinato modo di produzione”, ma definiscono la propria posizione nel loro ambiente sociale e spaziale e usano il contesto per progettare la loro vita e i sistemi sociali di cui fanno parte. Per ciò che riguarda questo studio, il modo per riassumere le argomentazioni di G. consiste nell’affermare che la società non è fuori dallo spazio, non può esserci dunque una sociologia aspaziale. Le relazioni e i processi sociali si svolgono nello spazio che non è dunque un accessorio nell’analisi sociale. Chiaramente G. in merito a tale assunzione non è che una tappa importante dello sviluppo della teoria sociale a cui ci siamo interessati. Secondo la sua accezzione il termine “ambito locale” si riferisce a “una regione fisica coinvolta come parte dell’ambiente nell’interazione, dotata di confini definiti che contribuiscono in qualche modo a concentrare l’interazione”; dunque in senso stretto egli si riferisce allo spazio fisico in cui l’interazione tra le persone prende forma. Si tratta di uno spazio, socialmente definito e destinato ad usi differenti, che può essere a sua volta suddiviso in piccole zone socialmente definite. Per Giddens: Gli ambiti locali possono essere stanze di una casa, angoli di strada, reparti di fabbrica, città grandi e piccole, fino alle aree, demarcate territorialmente, occupate dagli stati
nazionali; normalmente hanno una regionalizzazione interna, e le loro regioni hanno un’importanza cruciale per la costituzione dei concetti d’interzione6.
Con riferimento allo spazio fisico definito dunque come ambito locale, bisogna tener conto del fatto che i luoghi, o per meglio dire “regioni” determinate, tendono ad essere associate a determinati tipi di interazioni e attività, il lavoro di Goffman da questo punto di vista costiuisce il punto di partenza poichè mette in luce l’ordine espressivo e le sue implicazioni spaziali.
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GIDDENS A., The Constitution of Society, p. 117, Einaudi, 1990.
Conclusioni In questa breve trattazione è stato sviluppato un percorso critico in cui sono state messe a confronto le forme di contatto sociale con i luoghi dello spazio pubblico. Partendo dalle analisi di Jacobs riguardo a quello che è un ambito sociologico e urbanistico, è stato visto come la vita sociale che si sviluppa nei luoghi urbani assume un carattere collettivo e assicura un certo grado di relazioni sociali tra gli individui fondate sulla fiducia reciproca. La vita che si svolge negli spazi pubblici è quella delle relazioni sociali tra le persone, delle relazioni informalmente strutturate e spontanee; esssa offre, di fatto, l’opportunità di relazionarsi con gli altri in modo disinvolto e semplice: un corto scambio di parole tra due individui, una breve discussione con la persona che siede nella panchina accanto a noi e così via. Sono tutte forme di contatto informale. Tutto ciò avviene sempre in connessione con le attività che si svolgono lungo l’arco di una giornata nello spazio urbano della città, del proprio quartiere o vicinato, vicino alla propria casa o al luogo di lavoro. I contatti sociali sono sempre più frequenti laddove le attività sono maggiormente sviluppate. I servizi secondari e primari come i bar, i caffè, i ristoranti e i negozi presenti nel quartiere, piuttosto che le biblioteche, i muei e centri di interesse pubblico di vario genere, tanto più sono integrati e fiorenti nel quartiere e tanto più saranno apprezzabili e intrecciate le relazioni sociali che in esso si sviluppano. In questo senso l’ambito locale, come spazio fisico e sociale, è messo in stretta relazione con le attività che vi si svolgono. L’ambiente sociale che ci circonda è stato descritto da Goffman come un luogo a tutti gli effetti fisico che circoscrivee l’individuo. Esso definisce uno spazio di contorno, di delimitazione. Le “pareti”, gli elementi che racchiudono il frame fisico costituiscono la linea di demarcazione di un ambiente spaziale con il quale l’individuo è costantemente in relazione. In questo ambiente esso è soggetto ad una serie di interazioni sociali che costantemente lo pongono in contatto con gli altri individui della sua stessa rete sociale. L’individuo, facente parte di questa rete sociale, è influenzato dunque dagli altri individui presenti sotto il suo raggio d’azione e scambia continuamente informazioni sociali con essi. Attraverso il punto di vista di G. ci si è adentrati inoltre in una sorprendente e minuziosa analisi di quella che è l’organizzazione dell’ esperienza in funzione delle frames cognitive e dei meccanismi della vita sociale all’interno di contesti analitici ancor più specifici e definiti, ovvero edifici e fabbriche con specifiche funzioni; considerati dei sistemi chiusi in cui le relazioni sociali sono per certi versi impostate sulla base di
norme di decoro, cortesia, ruoli ed immagini sociali, e possono fisicamente dividersi in luoghi di ribalta e retroscena seppur in prospettiva variabile e situazionale. Le “regioni”, definite in seguito da Giddens, ovvero le zone specifiche in cui hanno luogo determinati tipi di attività, costituiscono due elementi che possono essere combinati con dei processi di regolazione, per cui, in linea di principio, è possibile in qualche modo regolare e controllare le relazioni tra individui e gruppi sociali. Secondo questo punto di vista è chiaro che gli architetti e i pianificatori occupano un ruolo centrale per quanto riguarda la possibilità di influenzare le esistenze degli abitanti della città. Un’attenta progettazione dello spazio operata da autorità nell’interesse generale può avere l’effetto di modificare e favorire la crescita dell’ordine sociale. Parallelamente anche la Jacobs descrive quelli che sono i luoghi delle interazioni sociali, le strade, i marciapiedi, le piazze, gli edifici pubblici di particolare interesse, tutti questi sono elementi costituenti la città e acquisiscono un valore collettivo nel momento in cui il criterio con cui vengono progettati tiene conto del valore sociale e collettivo che l’individuo ha nel suo ambiente urbano. Secondo la J., la progettazione e la pianificazione devono discostarsi da quelli che sono i pensieri tradizionali di progettazione delle scuole di architettura che sostengono lo zoning e la suddivisione per categorie funzionali, piuttosto che la pianificazione delle città giardino o di coloro che sostengono le teorie urbanistiche di Le Corbusier e della “Ville Radieuse”. L’idea sostenuta dalla Jacobs è che la pianificazione delle città, il risanamento e gli interventi sui quartieri degradati devono essere supportati da ideali più forti che tengano conto dell’ambito sociologico oltre che di quello urbanistico, ed in questo senso, incarnare nuovi intenti progettuali. Una serie di studi oggi hanno messo in luce quanto l’uomo sia portato a preferire il contatto sociale piuttosto che l’isolamento. Se ci viene data la scelta se camminare in una strada deserta o una piena di vita, la maggior parte delle persone quasi sempre preferisce quella ricca di vita sociale. Così, in maniera simile, i bambini preferiscono maggiormente giocare nei luoghi della città dove si sviluppano un più intenso numero di attività, o dove vi è una grande opportunità che si verifichi qualcosa di interessante. Ma quali sono i processi e i metodi di pianificazione e progettazione che possono essere presi in considerazione oggi alla luce di questa riflessione? Quali relazioni sussistono tra l’ambiente fisico, il luogo pubblico, e le attività che in esso si sviluppano? In che modo questo mix di funzioni può essere concepito in ambito socio-urbanistico per favorire le attività sociali della comunità? La vita attraverso gli spazi pubblici, come detto, è potenzialmente un processo di auto-rigenerante e
continuativo. Quando qualcuno comincia a svolgere una qualsiasi azione, vi è una chiara tendenza da parte del prossimo di partecipare alla stessa. Se dei bambini cominciano a giocare per strada è molto probabile che altri bambini nei paraggi assistano progressivamente al gioco e siano indotti a parteciparvi. Tutto questo è connaturato alla natura dell’uomo, allo spirito di instaurare rapporti sociali con il prossimo. In quest’ottica quindi la supposizione di base è che l’idea progettuale, la struttura fisica del progetto, sia dal punto formale che funzionale, possa supportare e incarnare la desiderata struttura sociale dell’area del luogo urbano in questione, tenendo conto degli spazi interni ed esterni e di quelli comuni, dei percorsi, dei luoghi pubblici, del traffico pedonale e carrabile, delle piccole stazioni di sosta, delle zone ricreative del quartiere e delle attività che in esso sono presenti o si intendo inserire e così via, il tutto assumendo un approccio alla progettazione che tenga conto della vita sociale che vi si manifesta.
Bibliografia
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Goffman E., La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Mulino, 1969. Goffman E., Relazioni in pubbico, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008. Jacobs J., Vita e morte delle grandi cittĂ , Torino, 2009. Vegetti M., Filosofie della metropoli, Carocci, Roma, 2009.