Skan Magazine n.16

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Anno 2

N u me r o 1 6

S ka n

D ic e m b r e 2 0 1 3

La rivista multicanale di narrativa fantastica liofilizzata istantanea

Bright Side Gli Speciali ­ A tutto vapore! Kinetografo ­ Cinevapore Il personaggio ­ Capitan Acciaio Fantascienza profetica

AMAZING MAGAZINE

Troppo potere per un dio solo Ex

Ventiquattr'ore e un fallimento 170 ore Rome City Blues

Ogni dieci secondi N ASF ­ L e T re L une 7

I l f io r is ta

La Macelleria n.6

Maremma... Do d ic i

Fantasy postmoderno Il Silmarillon

Il lupo dei cieli Pianeta perduto L'uomo a un grado Kelvin Surface Detail

Il diamante di Kindanost Il Signore della Neve La memoria del sangue Hieronymus

d i J a c k ie d e R ip p e r

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Earth Spirit ­ Dolmen d i D I R A M A Z I ON I


N o n pe r d e t e i l n u m er o d i Gen n a i o 2 01 4

D i m en t i c a r e i l fu t u r o


Sommario

del

Hanno collaborato L'editoriale ............................. 5

Jackie de Ripper e

Max Gobbo Andrea Viscusi Roberto Bommarito Mirko Giacchetti Claudia Graziani Luigi Bonaro Franca Scapellato David Galligani Filippo Puddu Leonardo Boselli Andrea Atzori Massimo Luciani Riccardo Sartori DIRAMAZIONI

di Jackie de Ripper OLTREMONDO Gli Speciali A tutto vapore! di Max Gobbo .............. 6 Kinetografo Cinevapore ........................ 14 Personaggio a vapore Capitan Acciaio ............... 16 Fantascienza profetica di Max Gobbo .............. 19 Being Piscu "Troppo potere per un dio solo" .............. 20 di Andrea Viscusi Una voce da Malta "Ex" ..................................... 23 di Roberto Bommarito Guest Stars "Ventiquattr'ore e un fallimento"................. 24 di Mirko Giacchetti "170 ore" ............................. 25 di Claudia Graziani Poscritti di futuro ordinario "Rome City Blues" ........... 28 di Luigi Bonaro Oltre lo Skannatoio Le Tre Lune 7 "Il fiorista" ........................ 38 di Franca Scapellato La Macelleria n.6 "Maremma..." .................... 41 di David Galligani "Dodici" ............................. 44 di Filippo Puddu

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Bright Side

Cronache dal Multiverso "Ogni dieci secondi" di Leonardo Boselli ..... 47 Nella pancia del Drago "Fantasy postmoderno" di Andrea Atzori .......... 52 I libri da rileggere E. Hamilton, "Il lupo dei cieli"... 54 E. Hamilton, "Pianeta perduto"..56 P. Schiavo Campo, "L'uomo a un grado Kelvin".........................58 di Massimo Luciani Il libro da tradurre I.M. Banks, "Surface Detail" di Massimo Luciani ..... 60 Il venditore di pensieri usati J.R.R. Tolkien, "Il Silmarillon" (pensieri usati) ............. 62 Intervista a Marianna Balducci di Riccardo Sartori ...... 64 I libri sullo scaffale U. Moriano, "Il diamante di Kindanost" ................. 68 S. Ash, "Il Signore della Neve e delle Ombre" ................ 70 L'e足Book nell'e足Reader G. Nerozzi, "La memoria del sangue" ..................... 72 C. Salvatori, "Hieronymus" ................ 73 Narrativa interattiva di Leonardo Boselli ..... 74 Vale pi湛 di mille parole "Earth Spirit 足 Dolmen" ... 79 di DIRAMAZIONI DARK SIDE ........................... 80


Sommario

Hanno collaborato Il Lato Oscuro

Sol Weintraub anark2000 willow78 NOR

(Francesco Costabile)

del

Dark Side

"La danza" di Sol Weintraub .......... 80

Skannatoio edizione XXIV Shocking in my town Le specifiche ..................... 82 "Mondi perduti" di anark2000 ................. 83 "Incubi & Deliri" di willow78 ................... 89

Speciale ventiquattr'ore a scelta multipla "Negli occhi del lupo" di Francesco Costabile..92 "L'illusione dell'ImmortalitĂ " di willow78 ................... 96 Risultati e classifiche Skannatoio 5 e mezzo ...... 98

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S ka n AMAZING MAGAZINE

Shocking in my town

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S ka n

Gl i

Oltremondo

Speciali di Oltremondo

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Le foto dell'articolo sono di ArcadiaVixi, scattate presso il museo Gottard Park di Castelletto Ticino

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S ka n

Oltremondo

Kinetografo

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Max Gobbo

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S ka n

Oltremondo

Personaggio a Vapore SUPEREROE D’ITALIA

“Forte come una loco-

motiva, veloce come un proiettile, tenace come l’acciaio di cui si compone” (Da Capitan Acciaio supereroe d’Italia)

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S ka n Gli americani la chiamano science fiction, qui da noi in Italia si chiama fantascienza: un genere sempre in auge, che conta nutrite schiere d’appassionati, e che solletica la fantasia ad ogni età. Ecco allora, che abbiamo accolto con interesse e piacere, la trasmissione in otto episodi: Le Profezie della Fantascienza, in onda nelle scorse settimane e in prima serata su Focus. Il programma in questione, è stato prodotto e presentato da Ridley Scott (uno che di sci-fi se ne intende): dunque si tratta di una produzione americana. Il tema come dichiarato nel titolo, riguarda la lungimiranza dei grandi scrittori di fantascienza nell'immaginarsi i mondi del futuro (tecnologie, scienza, medicina, guerre, robotica ecc.). L'assunto della serie è (per dirla con Isaac Asimov), che la fantascienza anticipa le scoperte scientifiche, e che addirittura disvelerebbe agli occhi degli scienziati le possibilità del futuro, ispirandoli. Attraverso una formula documentaristica, il programma che vede l'intervento a mezzo di interviste tematiche di vari scrittori, scienziati, sce-

Oltremondo

Fantascienza Profetica

neggiatori ecc.; ha presentato nel corso degli otto episodi, altrettanti autori del genere: George Lucas, A. Clarke, H.G Wells, P.H. Dick, Robert Heinlein, Jules Verne, Mary Shelley, e Isaac Asimov. Il programma presenta inoltre per ciascun autore: la biografia, il pensiero, le idee e un panorama abbastanza accurato dell'epoca in cui è vissuto. Insomma un lavoro interessante (anche se declinato interamente all'americana), che vede i grandi della scienze fiction nelle vesti di moderni profeti. Ahimè, non si tratta d'una produzione nazionale. Ma poteva essere diversamente considerando la poca attenzione riservata in Italia alla fantascienza? Non v’è da stupirsi perciò, nell'apprendere, che nella trasmissione di cui sopra, neppure una parola è stata spesa per ricordare un solo autore italiano. In fondo non è certo colpa degli anglosassoni, se qui da noi s'osteggia da sempre un certo genere di narrativa. Esterofilia integralista e masochistica. Max Gobbo

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ON PERDETEVI NEL PROSSIMO NUMERO UN ENTUSIASMANTE TUFFO NEL FANTASY:

di

JOE ABERCROMBIE

INOLTRE

OLTREMONDO

OSPITERA’ UN PROTAGONISTA DEL FUMETTO ITALIANO

Lo sceneggiatore Walt Disney ADAMO D’AGOSTINO


S ka n Troppo potere per un dio solo Padre Thomas si soffermò davanti l'ingresso, prima di premere il campanello. Appoggiò a terra la valigia e sospirò, esausto per il viaggio di sei ore che lo aveva portato alla clinica. L'ultimo mese era stato stressante, e sembrava proseguire sempre peggio. Eppure era deciso a continuare, la sua Missione era troppo importante per essere messa da parte solo perché era stanco. Premette il pulsante di fianco alla porta, e un trillo metallico distorto, il lamento agonizzante di una cicala immersa nel piombo fuso, annunciò il suo arrivo all'interno. La porta si aprì subito, e un'infermiera gli venne incontro dalla reception. – Buonasera – lo salutò, con esitante deferenza. Sicuramente la ragazza sapeva chi stavano aspettando. Padre Thomas era abituato a quell'atteggiamento da parte degli scettici. – Salve – salutò a sua volta. – Sono qui per vedere il dottor Adams. – Certo, sapeva del suo arrivo. Lo chiamo subito. – Detto questo l'infermiera tornò nel suo box chiuso da spessi vetri antirumore. Chiuse a chiave la porticina, come a volersi estraniare da quanto sarebbe successo nel resto dell'edificio di lì a breve.

Being Piscu

An d r e a Vi s c u s i

Il direttore dell'ospedale psichiatrico arrivò nel giro di un minuto. Porse la mano al Padre, e seppure fosse chiaro che non era sicuro di quello che stava facendo, era altrettanto palese che fosse disperato. Era sempre così: solo la disperazione portava le persone a richiedere il suo intervento. – Vogliamo andare? – lo invitò Adams. Percorsero una serie di corridoi illuminati da una luce fredda e invadente, che feriva gli occhi. Durante il tragitto nelle viscere della clinica, il dottore spiegò a Padre Thomas quello che lui sapeva già. – È cominciato un paio di settimane fa. Il paziente alternava periodi di calma a improvvisi scatti di ira e violenza. Sono situazioni a cui siamo preparati, ma le cure che abbiamo somministrato non sembrano sortire effetti. I sedativi stessi non funzionano. Le crisi di isteria hanno poi iniziato a farsi più lunghe e frequenti, e non siamo più in grado di contenerle. Abbiamo fatto tutti gli esami del caso, confrontato le cartelle cliniche alla ricerca di patologie come... – Schizofrenia, Sindrome di Tourette – completò per lui il sacerdote. Poi rivolse all'altro un sorriso saputo: – Conosco

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bene come vengono trattati questi casi. Naturalmente non avete ottenuto risultati, immagino. – No, nessuna conferma. Ma si tratta di casistiche di difficile diagnosi, e non sempre i sintomi sono immediatamente riconoscibili. In ogni caso potevamo tenere il paziente sotto osservazione, almeno per qualche altra settimana. Non avremmo richiesto il suo intervento se... Non completò la frase. Si era fermato davanti alla porta della camera G66. – Se. . . ? – incalzò Padre Thomas. – Giudichi lei. – Il dottor Adams sbloccò la porta con il badge che portava appeso al collo, e gli fece cenno di entrare. Non sembrava intenzionato a seguirlo. Non c'era luce nella stanza. La finestra sigillata faceva penetrare solo qualche debole bagliore del cielo notturno coperto da uno strato uniforme di nubi grigio scuro. Al buio, il Padre poté scorgere solo le sagome di sei letti disposti sulle due pareti opposte. Poi Adams premette un interruttore, e i neon presero a bersagliare ogni angolo rischiarando l'ambiente in pochi secondi. Abbagliato, Padre Thomas


chiuse per un attimo gli occhi. Non li aveva ancora riaperti, che un urlo animale lo raggiunse, facendogli drizzare istintivamente i peli sulla nuca. Poi un altro. E ancora. Altri due. Quando tornò a guardare la stanza, vide i sei pazienti agitarsi nei loro letti, trattenuti dalle spesse cinghie di cuoio che li mantenevano imprigionati al loro posto. Sbavando e digrignando i denti, i quattro uomini e le due donne si voltarono verso di lui. – E così hanno mandato te, Vladimir? – ringhiarono in coro, per poi scoppiare in una risata gracchiante e stridula, che riecheggiò tra le pareti. Padre Thomas non si lasciò impressionare dal fatto che conoscessero il suo nome. Aveva assistito a trucchi molto più elaborati nel tentativo di spaventarlo. Ma il suo passo non era sicuro come al solito, mentre avanzava verso il centro della stanza. Non sapeva di dover affrontare sei indemoniati. – Non mi aveva detto che erano molti – rimproverò al dottor Adams, immobile sull'uscio. – È stato questo a preoccuparci. Un caso isolato era possibile, ma questo... – Nemmeno io ho mai visto niente di simile – confessò il sacerdote, e subito se ne pentì. Il Nemico avrebbe potuto pensare di averlo sconvolto. – Se ne vada, e chiuda la porta – aggiunse, rivolto al direttore. – Qui ci penso io. Adams lo accontentò subito, e

Padre Thomas si ritrovò a essere l'unico uomo circondato da sei mostri. Perché quelle non erano persone, non più, finché facevano da tramite al Male. – Sapevo che saresti venuto – disse il posseduto più vicino a lui, agitandosi nella stretta delle cinghie. Era un uomo sui cinquanta, pallido e sovrappeso, con pochi capelli. Tutta l'energia che dimostrava non sembrava affatto provenire da quel corpo. – Ti aspettavo – proseguì un altro dei pazienti, l'ultimo della fila. Poi continuarono a parlare, alternando brani di frasi da una persona all'altra, ma continuando a usare la prima persona, come se l'entità dentro di loro non facesse caso a quale delle sei bocche stava usando. – Quando mi hanno visto... – … pensavano di potermi... – … controllare, ma... – … hanno capito presto che... – … sono troppo forte... – … per loro. E... – … anche per te... – … Vladimir. – Il mio nome è Padre Thomas – si affrettò a specificare lui. Era importante mantenere le distanze tra la sua personalità umana e il suo ministero divino. L'essere doveva capire che non aveva di fronte un uomo, ma un Emissario di Dio. I sei posseduti continuarono a blaterare, minacciandolo e deridendolo, mentre lui, insensibile alle provocazioni, preparava la sua attrezzatura. Estrasse la Bibbia, l'aspersorio e il contenitore dell'acqua santa.

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Impartì un'ulteriore benedizione su tutti gli oggetti, poi invocò su di sé la protezione del Signore. Era pronto. Si rivolse all'indemoniato più vicino. Il Maligno era uno solo, non aveva importanza da quale avrebbe cominciato. Iniziò a recitare la formula di apertura, e subito l'uomo prese ad agitarsi, come se fosse percorso da una scarica elettrica. Contraeva i muscoli in spasmi scomposti, cercava di mordere l'aria con tanta forza che si scheggiò un incisivo. Il Padre sapeva che il corpo del posseduto avrebbe potuto riportare dei danni, e a volte Satana agiva di proposito in quel senso, ma non c'era altro modo per liberarlo. – Aspetta, prete! – gridò uno degli altri pazienti, calcando l'accento con disprezzo sull'ultima parola. Era una ragazza giovane, graziosa nonostante i capelli tagliati più corti dei suoi. – Ci combattiamo da troppo tempo, noi due. Non vuoi sapere... – … per chi ti stai battendo? Non ti... – … sei mai chiesto quale... – … dio tu stai servendo? – Conosco il mio Dio, e conosco il suo Nemico. – No, Vladimir, tu... – … non sai. Non sai... – … niente. Padre Thomas sapeva che non avrebbe dovuto ascoltarlo. Ma in tutti gli anni, ed erano davvero molti, in cui aveva praticato esorcismi, Satana non aveva mai tentato di comunicare con lui, se non per insultarlo.


Anche questa era una novità. – Hai due minuti – concesse, sollevando l'aspersorio come un'arma pronta a colpire. A parlare stavolta fu uno solo degli indemoniati, e lo fece in tono pacato, umano: – Eravamo uguali, io e lui, all'inizio. Le forze primeve di un universo ancora da plasmare. Lo abbiamo fatto insieme, unendo i nostri poteri, imparando a dominarli e indirizzarli secondo le nostre intenzioni. Abbiamo creato la materia, il tempo, la vita. Ma poi qualcosa è cambiato, si è spezzato. Una volta diventato abbastanza forte, lui mi ha scacciato, rinchiuso nel nucleo di un pianeta remoto, imprigionato per l'eternità. Non so se l'avesse progettato fin dall'inizio. Mi piace pensare che fossimo davvero amici, ma non ne sono sicuro. Indebolito e amareggiato, non ho potuto fare altro che farmi strada verso la superficie, cercare di toccare le menti delle creature che popolano il guscio della mia prigione. Sapevo che lui avrebbe cercato di fermarmi, che avrebbe mentito e manipolato le menti dei suoi schiavi, ma non avevo altri mezzi per raggiungerlo. Una pausa. Padre Thomas cercò di metabolizzare quanto aveva ascoltato. Avrebbe voluto chiedere... – Perché, ti stai chiedendo? Perché faccio questo? La mia non è una guerra, Vladimir. Io non voglio distruggerlo, nonostante lui abbia tentato di farlo con me. Io voglio solo che capisca. Voglio che si renda conto che il potere di dominare l'uni-

verso è troppo, per un dio solo. – Ma allora perché possedere queste persone? – ebbe la forza di domandare. – Sono solo un mezzo. Un modo per emergere, e farmi udire da lui. Spiacevole, ma necessario. Tu mi hai fermato tante volte, adesso è giusto che tu sappia. Ora che conosci la verità, che hai ascoltato entrambe le versioni, puoi decidere da quale parte stare. Mi credi, Vladimir? La luce dei neon tentennò un attimo, facendo danzare le ombre nella stanza. Padre Thomas era un uomo di fede. Era addestrato a credere. Ma a chi dare retta, ora? Aveva passato interi decenni nella sua Missione di annientare il Male. Possibile che per tutto quel tempo avesse combattuto sul fronte sbagliato? E come poteva essere sicuro che il Maligno non mentisse? Dopo tutto, come poteva essere sicuro che non fosse Dio a farlo? L'aspersorio era ancora sollevato verso il soffitto, l'arma impropria di una guerra tra due forze troppo antiche per poter essere comprese. Padre Thomas lo riabbassò, adagiandolo lentamente sul pavimento. Chiuse la Bibbia e la appoggiò su un tavolo, insieme agli altri strumenti. – Questa è la vostra guerra – affermò. – Combattetela da soli. Uscì dalla camera G66, mentre le luci si spegnevano dietro di lui e un ululato abominevole, il grido di minotauro decapitato, si levava in ogni stanza della clinica.

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S ka n Ex

La fine della fine iniziò con quella de Il paziente inglese, durante la proiezione in una sala cinematografica frequentata da radical chic nel cuore di Londra. Il film, divenuto interminabile, fece fuori ben sette giovani, stremandoli psicologicamente, prima che il resto del pubblico riuscisse a trovare la forza per abbandonare la sala. Era solo l'inizio. Mentre altre “fine” giungevano alla fine un po' in tutto il mondo, Francesca e io continuavamo a litigare. «Sti cazzi!» sbottammo entrambi all'unisono. Poi Fra aggiunse: «Senti, devi rassegnarti: non ti amo più, non ti voglio scopare, non voglio nemmeno vedere più il tuo fottuto nome lampeggiare sullo schermo del mio cellulare ogni volta che mi mandi i tuoi patetici SMS di merda.» Riuscì a completare la frase così velocemente che ebbi l'impressione le sue labbra avessero smesso di muoversi un istante prima di pronunciare l'ultima parola. Nel frattempo, una delle fini che finiva era quella di Adolf Hitler che all'età di centoventiquattro anni chiedeva scusa in diretta Tv per essersi fatto prendere un po'

Territori d'oltremare

Una voce da Malta

Ro b e r t o Bo mma r i t o

la mano. «Sti cazzi!» sbottò. «Potrò sbagliare anch'io, no?» Non fu l'unico a ritornare. Il mondo iniziava ad affollarsi. Io me ne fottevo. M'interessava solo di salvare la mia relazione. «Relazione inesistente!» proseguì lei. «Colpa tua». Fece un sospiro profondo. «Sei troppo gentile con me.» Questo era vero. «Sai che amo essere trattata male». Anche questo era vero, però il mio romanticismo innato mi aveva impedito di farlo. Così stetti lì, braccia incrociate, mentre lei continuava a sbraitare: «Non lo voglio uno come te. Voglio uno che sappia quando farmi male e quanto...». Poi accadde. Era la terza volta in tre giorni che mi sorbivo tutta la sua ira, ma sapevo che prima o poi sarebbe successo: finì anche la fine della nostra relazione. «Merda» disse, «credo d'amarti di nuovo». La presi per i polsi, la voltai con forza e la spinsi contro la parete. Non avrei ripetuto lo stesso sbaglio due volte. Le alzai la gonna. Lei tacque, lasciandomi fare. Quando entrai dentro di lei, spinsi così forte che mi sarei fatto

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male se lei non fosse stata tanto bagnata. Mi fermai. Si voltò. La leccai in mezzo alle gambe. Pungeva. Non si depilava da giorni. Poteva dire solo una cosa: non stava vedendo un altro. Non l'avevo mai davvero persa. «Merda» disse una seconda volta. «Lucio». Mi fermai. «Chi cazzo è Lucio?» «Marco. Federico. Giuseppe. Paolo. Claudio». Nel frattempo, anche l'estinzione dei tirannosauri era giunta alla fine. L'avessi saputo in quel momento, me ne sarei fregato pure di quello. Come la fine giunse alla propria fine nessuno lo sa. Forse era solo che tutto ciò che poteva finire era finito. Fatta eccezione appunto per la fine stessa. Ebbi paura a voltarmi, ma lo feci comunque. Lucio, Marco, Federico, Giuseppe, Paolo, Claudio e un'altra trentina di suoi ex ci circondavano. «Vi amo di nuovo tutti» esclamò lei. «'Sti cazzi» esclamammo noi all'unisono.


S k a n Gi a c c h e t t i ­ Gr a z i a n i Gu e s t S t a r s

Ventiquattro ore e un fallimento Lasciai che il caffè si raffreddasse, poi lo buttai giù con un sorso. Ecco la breve storia della mia quindicesima dose di caffeina. Come le precedenti, era doppia, nera e senza zucchero. Il tiepido gusto amaro mi riempì la bocca. Decisi di cancellarlo con una sigaretta; un altro tubetto di cancro al gusto tabacco era proprio quello che ci voleva. Mi accomodai sulla sedia della cucina, cercando di non controllare l’ora. Tic. Tac. Tic. Tac. L’orologio a muro compiva il suo dovere, sembrava urlare: resisti, Tic. le ventiquattro ore Tac. stanno Tic. per finire Tac. L’odore della nicotina bruciata si mescolava a quello del deodorante per ambienti all’arancia. Un micro menhir di plastica diffondeva l’aroma a intervalli regolari e sembrava ticchettare come tutto il resto. La notte era scesa da un pezzo; un velo pietoso che nascondeva il traffico nei garage e regalava un po’ di tranquillità alla città. Tic. Tac. Tic. Tac. Chiusi gli occhi, non dovevo guardare l’ora. Ero vicino al mio traguardo, sapere quanto mancava avrebbe solo aumentato la sofferenza. Tic. Tac. Tic. Tac. Li riaprii e lasciai che la mia attenzione sprofondasse nella tazzina davanti a me. Cercai di fondere la mia coscienza con la decorazione; una linea rossa che percorreva l’intero giro attorno al vuoto che contiene il liquido. Tic. Tac. Tic. Tac.

Con la mano destra la feci roteare piano, seguivo la linea e compivo il mio cammino. L’esercizio zen terminò quando vidi che una porzione infinitesimale di porcellana era saltata via, interrompendo per sempre quel cerchio infinito. Come poteva essere accaduto? Quando si era danneggiata? Perché la cucina arancione componibile non era riuscita a proteggerla? Forse la lavastoviglie l’aveva violentata? Tic. Tac. Tic. Tac. Il ticchettio era tornato. Volevo urlare, ruggire il mio dolore, strillare la mia disperazione, espirare l’angoscia, soffiare via l’ansia. Mi trattenni, non potevo svegliare mia moglie. Dormiva nella stanza accanto. Prima di lasciarmi solo, abbandonandomi per andare a letto, mi aveva chiesto più volte: perché lo fai? Tic. Tac. Tic. Tac. La mia vita si consumava per usura e per noia. La mia vita Tic. si consuma Tac. per usura Tic. e per noia Tac. Lo faccio perché voglio essere più forte della mia debolezza; un atto di coraggio, sacrificare me stesso per gli altri. Non è come gettarsi tra le fiamme e salvare una vita o strappare dall’abbraccio delle onde un’esistenza in balia del capriccio e del destino, ma io volevo essere un eroe piccolo piccolo. Tic Tac. Tic. Tac. Cedetti, non riuscii a resistere e guardai l’ora. Sullo sfondo bianco severi numeri romani dall’aspetto marziale, segnavano il passo di marcia delle lancette lungo il

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tempo sfinito. Osservando un orologio la vita si converte in ricordo. Mancavano dieci minuti. Solo dieci fottutissimi minuti. Uccisi la sigaretta nel posacenere. Tic. Tac. Tic. tac. Dovevo resistere ancora per poco, così per ventiquattro avrei liberato il mondo. Da cosa? Dallo scrivere inutili stronzate su ogni social network esistente. Presentarmi agli altri e infettarli con del protagonismo, vomitare opinioni, sprecare pixel per illudere qualcuno di essere uno scrittore. E voi? Riuscite a capire che il mondo non ha bisogno di voi? Il nostro “Io” non è nient’altro che una matrona puttana: sforna egoismo travestito da vita civile. Tic. Tac. Tic. Tac. Tutte le storie sono già state scritte, i nostri pensieri non valgono nulla, le nostre esperienze… quelle non servono mai: commettiamo sempre gli stessi errori. Tic. Tac. Tic. Tac. Sveglia: non sei nessuno! Risi di gusto sino a piangere. Il tempo vola quando le parole rimangono. Mi voltai e afferrai la moka. La svitai e gettai il caffè del filtro nel lavandino. Un’altra dose di caffeina era in arrivo. Il pacchetto di sigarette era ancora sul tavolo. Tic. Tac. Tic. Il tempo era scaduto. Per ventiquattro ore avevo reso il mondo un posto migliore. Sono stato eroe solo per un giorno, ma ora rieccomi: non sono quella tazzina. Spreco altre parole e molto tempo per scrivere il niente.


107 ore Lhiam ritrasse il coltello, pulì la lama sulla manica della camicia nera e la rinfoderò portando entrambe la mani dietro la schiena. Come angelo ci sapeva fare coi pugnali. Persino troppo. Il corpo stesso sul tetto la diceva lunga su quanto fosse bravo. Anche se il tipo disteso ai suoi piedi gli aveva dato non poco filo da torcere. Solo allora si accorse che stava sanguinando. Una ferita superficiale al fianco, che però gli aveva asportato una porzione di epidermide grande quanto un’unghia. Nel Purgatorio aveva imparato a tirare di box e a usare il serramanico. E’ dal Purgatorio che aveva preso l’aroma amaro della sua pelle, un misto inconfondibile di sandalo ed essenze rare. Non sono le ali, non sono il cuore: gli angeli si riconoscono dal profumo. Dal profumo di cielo che si portano addosso come un marchio. Un aroma destinato a svanire per ogni atto intenzionalmente violento. E quella sera Lhiam non aveva più nulla di angelico, tantomeno l’odore. Rincasò come un segugio agguerrito e nessun dannato senso di colpa. Anzi, ai suoi luridi panni bastò un lavaggio ed erano di nuovo limpidi. Recuperò in fretta anche il suo "divino" aspetto. Il giorno seguente se ne andò a spasso per la città, con il suo jeans nero, stivaletti dark e capelli che sparavano in tutte le direzioni. Che fosse bello si sapeva, o meglio, lo si intuiva da come le donne lo guardassero per strada. Angelo scaltro, determinato e con grandi ali invisibili. In Purgatorio avrebbe "riscattato"

il Paradiso, ma non prima di aver espiato le sue pene. A tal proposito fu esiliato sulla Terra. Non poteva fallire, rischiava di abbronzarsi tra le fiamme ardenti degli Inferi. Quella mattina camminò un bel po’, fischiettava di continuo, in barba alla compostezza che si conviene ad un angelo. Giunse nei pressi di un laghetto: molti alberi ed una sola palazzina fatiscente di due piani. Si avvicinò incuriosito, il portone era aperto e dal sudicio fondo scala strani rumori. La sberla si udì oltre le mura di quel tugurio. Era lì che il padrone di casa appagava le sue insaziabili voglie. -Sgualdrina… Adesso pretendi anche dei vestiti nuovi? Ti ho salvata dalla strada, non avevi neppure di che mangiare. Eri una disperata… Dovresti essermi grato. Invece non fai altro che comandare. Ti lamenti di vivere in uno scantinato e di farmi da sguattera. Prima cos’eri… una leader del Pentagono? -Ho solo chiesto un paio di abiti decenti… - Replicò Mara con voce tremula. -Allora non hai capito. Sono cazzi tuoi!- Altra sberla. Poi l’uomo uscì dal lurido sottoscala, i suoi i jeans ancora sbottonati. Lhiam si nascose. Spalle al muro, e teneva d’occhio il tizio mentre saliva le scale. Non reagì, ma prima di andar via volle vedere chi ci fosse nello scantinato. Entrò nella stanza. Sulle mura bolle giallastre di umidità e animali strani che marciavano sui battiscopa. Nell’angolo una ragazza rannicchiata che piangeva. - Tutto bene? - le chiese. Lei alzò il capo di scatto : -Chi cazzo sei? Vattene. Lhiam si ritrasse - che caratterino la tipetta! - Fece un ghigno arricciando il naso, e sparì. La donna

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uscì da quella palazzina, zoppicando. Percorse circa duecento metri poi si accasciò sul marciapiede. L’angelo scaltro si era nascosto di proposito per seguire i suoi movimenti. Intervenne subito: la prese in braccio e la portò a casa sua. Un ora dopo Mara rinvenne. - Ma … dove sono?- Lhiam le portò una tazza di thè verde: - Vogliamo conoscerci prima di litigare? - Ancora tu! Diamine! Perché non mi stai alla larga? Indeciso se torcerle il collo come ad una gallina o farle capire tutto quanto con calma. -Nervosetta oggi! Eri svenuta. Preferivi crepare a terra? Lei mosse il capo all’indietro: -Vorresti mica riconoscenza? Lhiam non rispose e si accinse a cucinare. Mara lo seguì : -Nessun uomo ha mai cucinato per me. -Fossi in te non mi illuderei- replicò Lhiam, mentre con sorriso beffardo mescolava il sugo. Mara era alle spalle di Lhiam, pochi millimetri dalla sua nuca e fu rapita dal gradevole profumo della sua pelle. Faticò ad allontanarsene. Appena fu pronto i due sedettero con calma per mangiare e si raccontarono. Mara non disse molto di sé. -Non hai mangiato quasi nulla esclamò la ragazza. -Non ho bisogno di tanto cibo. Tu però mangia… sei troppo magra, agli uomini non piacciono le strade senza curve- le rispose. In verità (nascosta) reputava Mara una donna estremamente sensuale. All’imbrunire del giorno gli occhi azzurri di Lhiam divennero grigi, come ai lupi quando la luna è piena. Era così che accadeva ogni volta fosse necessario il suo intervento. Una sorta di “reazione fisica” gli


indicava il momento più opportuno. Si alzò di scatto dalla sedia, doveva andar via. -Non muoverti Mara … aspettami qui. -Che è successo? Gli domandò impaurita. Lhiam uscì di casa in un lampo e corse forte sotto una pioggia incessante; decise di usare anche le sue ali invisibili. Non poteva tardare… Quando giunse sul posto era bagnato fradicio ma soprattutto nervoso. Ai suoi piedi una pozza di sangue, che mista a pioggia fluiva nel tombino di quella strada. Un torrido mulinello rossastro che marchiava di crimine la notte. Lhiam soccorse l’uomo ferito poi rincorse l’assassino tra i vicoli della città. Sapeva di possedere poteri sovraumani e gli fu agevole catturarlo. -Eccoti canaglia.- Gli sferzò un colpo di mano contro il petto e lo mise spalle al muro; estrasse il coltellino dalla tasca del jeans e glielo puntò alla gola. Mano decisa e sguardo fisso. Poi una voce: -Lhiaaaam …! -Mara! Ti avevo detto di rimanere a casa. L’assassino non indugiò, si liberò dalla presa, una gomitata in volto e mise a tappeto l’angelo. Lhiam si ritrovò addosso quell’uomo, così come il cielo e tutta la pioggia del mondo. Il pianto di Mara incalzava e a Lhiam urgeva un immediato ripristino delle funzioni. Un reset. La pioggia rallentava di molto le sue capacità, ma sapeva anche di non poter fallire la sua missione. Il suo corpo cominciò a vibrare, era avvolto da un aura chiara: energie appena visibili e luminose particelle ruotavano formando un moto vorticoso. Pochi secondi e le sue vene di-

vennero gonfie, la pelle più scura e nell’etere numerose onde elettromagnetiche. Poi tutto fu pronto per l’ennesima ed impeccabile prestazione. Lhiam rinvenne, sembrava rinvigorito e sfinì l’assassino a suon di pugni e coltellate in grembo. Sembrava una macchina da guerra impazzita. Un essere spietato. Sul volto di Mara si palesò il terrore. Mai vista ferocia simile. Quella macabra atmosfera fu interrotta dalla flebile voce della donna: - Era necessario ammazzarlo? -Si , dovevo essere certo che morisse, le rispose l’angelo. Mara era sconvolta e contrariata. Dopo pochi minuti si incamminarono verso casa di Lhiam, mentre la pioggia era cessata da un bel po’. Le strade ormai erano soffocate da un manto di nebbia fitta, più simile allo zucchero filato. L’angelo camminava a capo chino, era silenzioso, totalmente rapito dai suoi pensieri. I due non si guardarono neppure una volta negli occhi. Mancavano 107 ore alla fine del suo tempo, poi Lhiam sarebbe dovuto tornare in Purgatorio e di certo non a mani vuote! Più anime malvagie avrebbe fatto morire meglio sarebbe stato. Compito arduo. Gli umani non avrebbero mai compreso. Non era la prima volta che l’angelo uccideva ma ogni volta sembrava lo fosse. Le sue mani erano avvezze alla morte ma anche intrise di realtà amene, oltre l’umana conoscenza. Spiegare tutto questo e tanto altro a Mara non era cosa agevole. “Meglio che io ritorni nel mio lurido sottoscala. Non intendo più assistere a scempi simili. Addio Lhiam”, replicò la donna. “Aspetta… non è come credi, posso spiegarti”. Mara non esitò ad andar via. Voleva solo di-

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menticare quel maledetto giorno. Per tutta la notte Lhiam non chiuse occhio. Non grave, gli angeli possono fare a meno di dormire. Il mattino seguente pensò bene di andare a fare un giro in periferia, nei pressi di un vecchio palazzetto dello sport. Era lì che i fanciulli di quella zona malfamata si allenavano a calcio. Invece in uno di quei tanti sottoscala attigui ci dormiva Mara. Lhiam guardò per un po’ la partita ,poi da lontano scorse un uomo seduto che fumava. Era l’orco che molestava sempre Mara. - Forse l’angelo non era lì per caso? - Del resto Lhiam non era abituato a lasciare conti in sospeso . Non cercava altro che un pretesto per ridurlo a brandelli. Occasione offertagli su di un piatto d’argento quando, a fine primo tempo, apparve Mara sulle gratinate. Era in ritardo per la partita. L’orco le mollò un ceffone, forte. Lhiam non ebbe dubbi: quell’uomo meritava una lezione! E stavolta non esitò ad intervenire: lo scaraventò per aria, lo strapazzò ben bene come un uovo a zabaglione. Poi lo trascinò fuori e in angolo buio lo sgozzò. Mara rimase atterrita e a nulla valsero le sue grida miste a lacrime. Il cielo divenne cupo; nuvole gravide di polveri grigie, forse le ceneri di quel morto. Un'altra anima destinata al macero del Purgatorio. Mara si rincuorò al pensiero che l’orco non avesse più abusato di lei, ma era indecisa se denunciare l’accaduto alle autorità. Meditò a lungo. Volle confidarsi con suo fratello Molly, un idraulico di 32 anni, uscito da galera da uno. A sua sorella Mara però voleva un gran bene. Si incontrarono in un quartiere non lontano dal centro città , alle ventuno in punto. I due fratelli si salutarono con un


lungo abbraccio. - Che ti prende Molly? Era da un pezzo che non mi stringevi così. -Nulla… nulla… E’ che non ti vedo da un mese- rispose l’uomo. Mara gli chiese di raccontarsi e nel mentre si avvicinò uno strano Individuo dalla barba incolta, capelli lunghi e troppe borchie sugli stivali. - Ehi amico, ti ho portato la roba , è tagliata bene, puoi fidarti. Mentre Molly fece per pagare la merce Lhiam spuntò a sorpresa da un angolo della strada, si scaraventò sul pusher e gli tagliò la gola in una manciata di secondi. Poi si avvicinò al fratello di Mara, lo tirò per un braccio e lo mise al muro. -Ma che fai stronzo? Da dove spunti? Gli gridò Molly. Mara si sollevò sulle punte e intimò a Lhiam di fermarsi: - Prova a torcere un solo capello a mio fratello e stavolta ti ammazzo io! Gli gridò. Lhiam attivò le sue capacità extraumane, e velocizzò di tanto i suoi movimenti rendendoli imprevedibili. Prese il serramanico dalla tasca e in un baleno lo infilzò nel petto di Molly . Era la 43 esima ora, il suo tempo sulla Terra stava per scadere. Lhiam non ebbe mai una sensazione diversa dall’indifferenza. Quella sera invece provò un senso di colpa misto a rimorso, forse per le sofferenze arrecate a Mara. Di nuovo la pioggia, tanta… e il capo della donna ne fu cosparso. Goccioloni di acqua scivolavano fino alle punte dei suoi capelli e finivano sul volto gelido del fratello. -Maledetto ! Che tu sia maledetto Lhiam- Gridò la donna singhiozzando. L’angelo aveva gli occhi lucidi. Non era certo colpa sua se i cattivi della Terra dovevano morire per poi esse-

retrasportati sul Purgatorio. Era proprio lì che un essere supremo e perfetto li avrebbe resettati, liberati da ogni “vizio di forma e di essenza”. Le anime sarebbero rinate a vita nuova, divenute migliori e potenziate con straordinarie capacità. Insomma veri e propri angeli. Ogni 107 ore le anime “modificate” tornavano sulla Terra. Missione compiuta, espiazione ottenuta e Paradiso conquistato. Poi un altro angelo “pentito” avrebbe intrapreso una nuova missione. Mara era disperata, accecata dall’ira. Si diresse verso Lhiam, prese a volo il coltello da terra e lo pugnalò due volte. Il suo sangue pareva denso, scorreva lento sul petto e le sue ali divennero visibili. Il suo profumo di cielo si espanse nell’aere, forte. Mara aveva agito con poca lucidità. Si chinò sul corpo inerte di Lhiam e lo strinse a sé. Scoppiò in un pianto forte. Con ingenua curiosità toccò le sue ali e tra le mani ebbe setose piume rivestite di una patina grigia, perlata. La pioggia cessò e il cielo divenne scarlatto, come se tutto il sangue dell’angelo fosse riversato su di esso. L’angelo prese la mano della donna, quella in cui stringeva le piume, sollevò il capo come a volerle dire qualcosa. Lei ne intuì l’intento e si avvicinò alle sue labbra. -Mara… le mie piume hanno un codice e sono color grigio perla; se la mia missione andrà a buon fine diverranno bianche. Solo allora potrai andare in Purgatorio, sottoporle al supremo controllo e ottenere l’espiazione delle tue colpe. Intingi le mie piume nel tuo sangue, solo così potrai ereditare il mio destino. Non dovrai confidare questo segreto a nessuno. Io ho potuto farlo solo perché… sto morendo.

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Seguirono due colpi di tosse e schizzi di sangue. -Cosa devo espiare? Replicò la donna. -Di avere ucciso l’unico angelo in Terra. Le rispose Lhiam. Mara si era macchiata di un crimine orrendo. Ormai era nel novero delle anime cattive. Non c’era nessun “missionario” che avesse potuto trasportarla in Purgatorio. Mara aveva mille domande da fargli, ma sapeva di non avere più tanto tempo. -Come faranno le piume a diventare bianche? Dimmelo! Gli chiese. -Uccidi le anime ca… ttiiive.- Il petto di Lahiam componeva ritmi di respiro sempre più lenti. Era l’ultima volta in cui avrebbe visto il cielo dal basso. Fece un lungo sospiro e sorrise a Mara… Occhi azzurri e spalancati. Spirò. La donna raggelò tutta, e la Terra con le sue creature le parvero ostile. I suoi occhi rigonfi di pianto, anche per quanto appena confidatole. Il suo destino era chiaro: avrebbe dovuto uccidere. Pensò di rimanere accanto ad Lhiam ma intuì che sarebbe stato tutto inutile. Decise di allontanarsi, e in fretta, nonostante sentisse le gambe pesanti come zavorre, forse per il forte dispiacere. Nella breve colluttazione con Lhiam si era ferita e ora la sua mano destra sanguinava. Si ricordò del segreto e senza indugio intinse le piume nel suo sangue. Di lì a poco le si gonfiarono caviglie e vene e polsi. I suoni dannatamente amplificati e la vista carpiva i particolari, troppi. Lungo la strada si chiese più volte cosa stesse accadendo, ma non seppe darsi una risposta, o forse si. Stava “ereditando” la missione! Da quel momento esatto le rimanevano 75 ore e 15 minuti.


S ka n Rome City Blues

Poscritti di futuro ordinario

Lu i g i Bo n a r o

«. . . puoi restar morto solo Frank Scag-nozi, questa era la per un certo momento. Dove pri- pronuncia in inglese senza il ma c'era il nulla, i pezzi tornano brutto dittongo italico, la gn di a ricomporsi come nella ripresa gnomo, come diceva la mia dello scoppio di una granata pro- vecchia maestra. Consonante naiettata alla rovescia. I frammenti sale palatale, così mi riprendeva tornano indietro lentamente, sfre- eccitandosi quella gnocca della gandosi l'uno con l'altro come se Norma, docente di fonetica articolatoria, mentre facevamo sesso. ognuno cercasse quello che — Sono nato a L.A., al 307 di combacia e rivanno faticosamente a posto. (. . . ) C'è la memo- South Broadway, verificate se volete — esclamavo bluffando, ria che ti fa desiderare di strisciare indietro verso il nulla, ma mentre davo l'indirizzo del Million Dollar Theater di Los l'esistenza è troppo vitale per Angeles. lasciarti andare»

Così iniziava la mia storia. Pioveva, ero alla macchina da scrivere con il mio impermeabile grigio, lercio più di quello di Colombo. Il fumo di un sigaro lasciato a consumare sul portacenere, ispessito dal cono di una lampada, finiva su una stampa di John Coltrane, un ritratto bn, la copertina di A Love Supreme. Sul piatto, suonava Out of this world³ (John Coltrane 1962³). Non pensate che sia nero quel disco? Un vecchio telefono, Sip grigio topo, mi sarebbe bastato almeno Ero un maledetto bugiardo e, allo fino a quando sarei riuscito a pa(Mickey Spillane 1962 – stesso tempo, un duro, uno di gare la bolletta, un telefonino, in Cacciatori di donne) quelli che misura il vago tempo età avanzata e senza credito, era il sigaro ² (Andrea G. Pinketts – la causa di un bozzo sulla piega Mi ero procurato tutto, un putrido con Il vizio ²). del pantalone. monolocale affittato a Centocelle, Avevo dell’agnello fatto anche le prove delle giorno, stavo imprecando una Beretta 92, don Juan, un whi- espressioni allo specchio, indos- Quel come demone, una puzza di skey da discount. Un ventilatore sando le mie cravatte approssi- merdaunaveva invaso la mia topainfernale sferragliava querulo, mative, un misto tra Charles ia. Stavo già per andare fuori a l'elica lenta era una crosta chiti- Bronson, Fred Buscaglione, massacrare il kebbabbaro, nosa di resti d'insetto. Il bollitore, Marcellus Wallace, il commissa- mia fonte di sostentamentol'unica e uno intasato di calcare, era in attività. rio Lo Gatto. dei miei pochi amici oltre Vin, Sapevo che un detective che si ri- Non vivevo a Los Angeles ma a quando mi accorsi che avevo despettasse sorseggiava sempre e dalla mia finestra niente gli escrementi sotto la scarpa. Mi oscuri intrugli istantanei per poi Roma grattacieli di vetro ma secchioni tranquillizzai, calmo Frank, porta risputarli nella tazza, il tutto maleodoranti di un kebbabbaro bene. Squillò il telefono. Alzai il creato allo scopo di prorompere: del Cairo, appassionato di ricevitore. — Frank Scag-nozi. — Cribbio, il caffè è una vera stornelli romani. Mohammed, fiDall'altra parte, solo silenzio, poi ciofeca in questa topaia¹. (Cornell glio di un cane, che Allah ti Woolrich, Zucchero indigesto¹). fulmini. Cantava a squarciagola, il suono di una linea interrotta. Scelsi i Toscani Garibaldi, buoni il bastardo, con un accento sgrama economici, tabacco Kentucky, ziato dalle vocali aspirate, tipico Il macabro rituale*** si consumava non di Cynthiana ma di BeneAl Jizah, il suo fottuto quartiere ciclicamente. Il macellaio sepavento, sigari da dimenticare sul egiziano. Cosa mancava? Una rava con maestria le parti di un posacenere, ascoltando il cool donna fatale? Un assassino? grosso animale appeso al soffitto nella penombra.

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della cella frigorifera. Alberi di carne senza vita, una rossa foresta si spiegava fitta, dall'inizio del locale. In quel lugubre posto, dove il silenzio era rotto solo dal pofdella mannaia, si immolavano vittime agli dei della piramide alimentare. Il luccichio della mannaia, una luce fioca percorreva l'oscurità della cella. Era freddo ma il macellaio non se ne curava. Frammenti di animali senza vita continuavano a cadere giù dal tavolo di metallo. È un lavoro duro rimuginava. È necessaria fermezza. Sebbene nessuno apprezzasse il suo lavoro, il macellaio era consapevole della sua missione. Ascoltando il rumore sordo dell'ascia sacrificale, si perdeva in strane elucubrazioni sull'aldilà. Fu così che prese una matita e con soddisfazione scarabocchiò su un taccuino, dai fogli rosa lordati di nero. — Bene. Ho finito —. Borbottò. Uscì dalla gelida cella stringendo la busta con la carne e la pagina rosa, nel sottofondo gracchiante delle casse della radio del negozio: — So ifyou meet me, have some courtesy, have some sympathy, and some taste¹. (Sympathy for the devil-Rolling Stones¹) . — Quanto Le devo? — domandò altezzosa Madame G dall'altra parte del bancone. Cinquanta euro—. Replicò secco l'uomo, porgendole la busta, con un sorriso spettrale. Il macellaio accartocciò l'appunto e lo gettò nel cestino del negozio.

gic Shop. *** Si potevano scorgere, tra le Un vecchio orologio segnava macchie della vetrina, articoli di mezzanotte e trenta quando un bric-à-brac e oggetti magici di tavolo di legno si ammantò di ogni tipo, disposti in modo voluporpora. Il giallo del lume tamente casuale. squarciò il buio e dalla peMadame G esercitava lì da dinombra affiorarono lo scintillio di una lama aguzza, un pentacolo versi lustri, esperta com'era di dinero, feticci, piccoli macabri resti vinazione, incantesimo, tarocchi, essiccati. Mani artigliavano feti- negromanzia, astrologia e presade unghie su un vecchio libro, un gio. Insomma, la vecchia si arrabattava come poteva superata, cupo calderone evaporava una ormai, dai celeberrimi maghi tepoltiglia in ebollizione. Guanti levisivi e stregoni multimediali. gialli per stoviglie pendevano Sosteneva che il suo periodo era insanguinati da un mobile basso passato e raccontava di quando, mentre un gatto nero si cibava, tra i suoi clienti, c'erano persoavido, di piccoli avanzi. Nel cenaggi illustri della politica e dello stino della macelleria, vicino al spettacolo. bancone, c'era ancora la pagina L'arredamento interno non prerosa accartocciata. Si leggeva, tra le pieghe della carta, quanto sentava sorprese riguardo a il macellaio aveva scritto quella quanto anticipato in vetrina. Il posto era ingombro di articoli, mattina: “Pagherai per i tuoi dalla bacchetta Magica Orientale peccati”. 2. In quel quartiere c'era sempre un odore di muffa. Il bazar si trovava nella parte vecchia della città. Il palazzo che lo ospitava era antico. Le mura dell'edificio, segnate da vari strati d'intonaco, dal giallo al rosa sbiadito, racchiudevano un arco all'interno del quale si trovava la vetrina della bizzarra bottega, il vetro era sorretto da infissi di legno screpolati dal tempo, una mano di smalto rosso acceso intrisa di grumi di vernice e setole di pennello mal celava l'invecchiamento e le crepe del supporto. La vetrata stessa era segnata da un'incrinatura, fissata con nastro da pacchi. L'insegna adesiva, anch'essa di colore rosso, recitava a chiare lettere, Ma-

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al Fazzoletto del Diavolo marca Universo, Bastone da Apparizione e da Sparizione, Cofano a Mantello Magico, Ghigliottina e quanto non può mancare tra gli oggetti di un mago che si rispetti. Tutto era sistemato, rigorosamente impolverato e di ottima qualità, come ci teneva a sottolineare la proprietaria. Madame G, non passava giorno senza che si vantasse della sua passata bellezza e dei suoi illustri clienti, era una persona molto superba. La parete, dietro il bancone da maga, provvisto di tutto palla di vetro inclusa, era tutta occupata da un quadro su legno. Cinque medaglioni costituivano un circolo, al centro, il più grande rappresentava l'occhio di Dio, una grande iride centrale.


Intorno a quest'occhio, erano raffigurati i sette peccati capitali e nei quattro angoli, la Morte dell'uomo, il Giudizio Universale, l'Inferno e il Paradiso. La stampa che Madame acquistò in un asta di beneficenza, era la riproduzione di un dipinto di Hieronymus Bosh. Madame G era sotto quel quadro mentre forniva una consulenza a un cliente. Stava, infatti, disponendo i tarocchi di fronte a quest'ultimo, Il dieci di denari, la fine del ciclo corporeo. Il volto di Madame era sempre più preoccupato man mano che, vaticinando, allineava le carte. Seguì, l'eremita, un taglio con il passato. Il respiro della maga era affannoso, le mani erano sudate. Madame si fermò e bevve dell'acqua. Il cliente attendeva composto, aveva uno sguardo compassato mentre la osservava come un gatto che fissa una preda. Madame G, gli occhi sulle carte come se temesse di incontrare quelli del suo cliente, aveva iniziato a tremare. — Vedo tanto dolore e morte. Era l'Asso di Spade, capovolto davanti all'Eremita, l'inversione dell'aspirazione verso il divino, la morte dell'anima. Seguì una pausa silenziosa, la vecchia deglutì e aggiunse: —Avverto una presenza malvagia, il Male. Si fermò. Degli attimi, scanditi dal ticchettio della sua vecchia pendola a parete, passarono lenti. Madame ansimò e dispose l'ultima carta. Sul tarocco c'era un cavallo bianco, un soldato armato lo montava, aveva un'armatura, la bandiera nera e il volto da teschio. Sotto la figura,

la scritta Morte. 3. Eravamo forti quando eravamo in polizia. Da quella notte era cambiato tutto per lui, povero ragazzo. Era circa l'una, io e Vin avevamo lanciato quel fottuto catorcio della polizia a una velocità folle sulla tangenziale est all'inseguimento di quel porco assassino di prostitute. Avevamo affiancato il Suv di quel maiale quando ci speronò. Eravamo nei pressi di Tor Cervara. La nostra auto si scagliò sul guardrail e si spaccò in mille pezzi, un inferno di lamiere. Cademmo nel dirupo, venni scalzato fuori nell'impatto. Ero una torta di sangue e piscio ma non avevo perso conoscenza. Riuscii a tirare fuori Vin da quella bara di lamiera prima dell'esplosione. Malgrado Vin fosse rimasto in ospedale per tanto tempo e avesse perso l'uso delle gambe, non si era scoraggiato. Certo, non faceva orario d’ufficio. Non poteva per motivi di salute, faceva dei day hospital, era in cura da uno psichiatra molto bravo, un primario, il dottor Melandri. Almeno così dicevano. Lo avevo anche conosciuto quando ero andato a trovare Vin in ospedale. Per me era un pezzo di merda, uno di quei ricconi con la puzza sotto il naso e l’auto di lusso. Faceva consulenze, spesso lavorava a casa. Era stato promosso, frequentava corsi universitari. Il ragazzo aveva le palle. Io, vecchio bastardo, ero riuscito solo a iniziare a bere e a farmi cacciare dal Corpo.

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Pioveva, l'orologio faceva le due quando io e Vin entravamo nel bar all'angolo di via dei Ciclamini. Una grossa lampada pendente dall'arco centrale del locale illuminava malamente tutto l'ambiente, allungando ombre aguzze e sinistre sui tavoli neri. Sapevo che non avremmo mai preso quel bastardo del suv. Ma Vin si era accanito, il criminale doveva pagarla. Quel che era peggio era che tutti i criminali per lui dovevano morire. Cercava vendetta. Era difficile per lui superare il trauma, lo capivo e lo assecondavo. Lui continuava a passarmi dei casi insoluti. Da un poco di tempo si era accanito con un caso. — Vin, stai diventando un vecchio orso — Scherzai. Stava lì, in silenzio, la birra in mano, lo sguardo fisso nel vuoto e la carrozzina che luccicava nella penombra. Rimasi gelato dalla sua voce atona: — Devi fermarlo. — Non pensarci Vin, fatti 'sta birra in pace.— Minimizzai. — Non capisci, è un mostro Franco. — Non saprei da dove partire. — Guarda sotto il sedile della carrozzina, c'è un file. 4. Quella mattina ero ancora in pigiama quando squillò il telefono. Non avevo chiuso occhio per via di quei ritagli di giornale. La sera precedente, nel rincasare, li avevo trovati sotto la porta: cAVe CaVE, dOmInUS vIdET²


(Attento, il Signore ti guarda²). Avevo il tremendo sospetto che il bastardo a cui davo la caccia per conto di Vin avesse ammazzato ancora e avesse voluto farmelo sapere con un biglietto. Ma come sapeva che stavo indagando su di lui. Certo, avevo fatto delle domande in giro, mi era sembrato di esser stato discreto. Il telefono squillava impietoso. Alzai il ricevitore: — Frank. Dall'altra parte, silenzio, poi il suono di una linea interrotta. Imprecai. Il dossier di Vin parlava di impronte di una mano recisa, ritrovata davanti al commissariato. La mano era di Augusta Corlatti, nota già alla polizia per aver estorto, per una pozione magica, migliaia di euro a un cliente. L'accusa era per truffa aggravata. La signora, conosciuta nell'ambiente dei maghi come Madame G, aveva risarcito il cliente, le accuse erano state ritirate. Trovai sulle pagine gialle, Magic Shop S.n.c di Corlatti Augusta, via dell'Amba Aradam, 5, Roma. Mi avviai verso il quartiere San Giovanni.

spettegolare in modo esasperato: — Con tutte quelle sue cose e quel via vai di gente... Sa, detective, certe cose, noi gente anziana, le si nota... Superba, poi, con la puzza sotto il naso... Lasciai cadere la cosa con un laconico: — Capisco. Insomma, di puzza sotto il naso nei pressi del Magic Shop, ce n'era già un bel poco. Aprii la porta, la richiusi dietro di me, quasi sbattendola in faccia ai due vecchi impiccioni. Di fronte a me, una delle scene del crimine più bizzarre che io avessi mai visto, Madame G, di spalle all'ingresso, era collocata in modo che si potesse reggere in piedi di fronte all'anta di un armadio. Allo sportello del guardaroba era applicato uno specchio, riflesso in quest'ultimo, il volto della Corlatti truccato dopo la morte o, almeno, ciò era quanto facevano presumere l'eye liner e il kohl male applicati sulle palpebre rattrappite dal rigor mortis. La donna era stata vestita con degli abiti di scena del 1400 e portava un copricapo bianco. Nell'altra camera, sul bancone di Madame G, avevo trovato dei segni evidenti di colluttazione, 5. macchie ematiche, graffi al mobile, pezzi di unghia, tarocchi tinti Era da una settimana che, oltre di rosso. all'odore di muffa, in prossimità Un bastone da prestigiatore era del Magic Shop, si sentiva una stato utilizzato in modo brutale, puzza di animale morto. Madame deformato, mostrava sulla sua suG non apriva da diversi giorni. perficie alcune ciocche di capelli — Quella è un po' strana. — incollate da sangue coagulato. Commentarono i vecchietti, ve- Alzando gli occhi, notai un grosdendomi armeggiare con la so quadro, proprio al di sopra del serratura del negozio. Non so il bancone da maga. perché, ma il fatto che fossi un Il quadro rappresentava un diinvestigatore li aveva istigati a pinto di Bosh, un occhio con una

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scritta intorno: cave cave, Dominus videt. Mi sentii gelare. Intorno all'occhio erano rappresentati i sette peccati capitali, gola, avarizia, lussuria, ira, invidia, accidia, superbia. Osservai i meravigliosi dettagli del quadro. L'occhio mi cadde sulla parte del dipinto che raffigurava la Superbia: — Porca...— Proruppi ma l’imprecazione mi rimase in gola. La rappresentazione sul quadro era identica alla scena del crimine. Madame G aveva peccato di Superbia e aveva pagato con la vita. La conferma la ebbi dalle frasi sopra e sotto il quadro: È un popolo privo di discernimento e di senno, se fossero saggi e chiaroveggenti, si occuperebbero di ciò che li aspetta. . . Io nasconderò il mio volto davanti a loro e considererò quale sarà la loro fine.

Era pomeriggio inoltrato, uscii dal Magic Shop. La pioggia si abbatteva sui vecchi palazzi. Pioveva sempre nella mia città. 6. Era notte. Dovevo pensare. Misi un disco del Quintet. Posizionai la puntina sulla seconda traccia del vinile, le casse iniziarono ad amplificarne il fruscio, poi Blues by Five¹ (Coltrane¹) . Mi versai una tazza di caffè mentre mi grattavo sotto un'ascella. Pensai che avrei dovuto fare una doccia. Squillò il telefono. Alzai il ricevitore. Era una voce femminile ansimante e meravigliosa. — Sono Vanda Padula, avrei bi-


sogno di parlarle con urgenza. Posso venire da lei adesso? La voce era piuttosto preoccupata. Decisi comunque di fare il prezioso. — Aspetti signora, verifico i miei impegni—. Puntai il dito a caso su una pagina bianca di un'agenda vuota e lessi il nome del santo, con un poco di fortuna e le dovute preghiere, avrei potuto pagare l'affitto anche quel mese. — Sì, Vanda, può venire, si dà il caso che io abbia un momento libero — comunicai schiarendo la voce — L'aspetto. Posso chiederle di cosa si tratta? Sono in pericolo, qualcuno mi sta seguendo... Ho visto tutto. — Tutto cosa? — Divenni serio. — L’omicidio. — Perché non si è rivolta subito alla polizia? — Non so come dirglielo signor Scagnozzi, io... Io — Lei? — Faccio la prostituta. La polizia mi avrebbe trattenuto, avrebbero sicuramente fatto delle indagini e… Se la mia famiglia dovesse venire a saperlo... Insomma… — Stavo per ribadire che l'avrei aspettata, che le prostitute per me non erano affatto un problema, anzi, quando seguì il suono di una linea interrotta. Aveva attaccato. Quella notte, Vanda non venne più. Erano le tre di mattina, avevo appena preso sonno che squillò nuovamente il telefono, era Vincenzo. Mi diceva di recarmi immediatamente al Palazzo delle Esposizioni, che la polizia stava

arrivando. Mi precipitai, trovai che la porta del museo era forzata, leggermente socchiusa. Finsi di essere della polizia. Il custode notturno mi invitò a seguirlo. Il palazzo era oscuro e umido. All’interno di una sala rettangolare con uno sfondo grigio, illuminata per l’occasione. mi accolse uno spettacolo raccapricciante, c’era un forte odore di muffa e di formalina insieme, per terra, una mano recisa dall’avambraccio di colore livido, con delle incisioni. Le dita erano gonfie ed irregolari. Era disposta lungo l’enorme ingresso, quasi fosse in primo piano rispetto al resto della scena. Inoltre, lungo la linea della mano era poggiata una testa di donna,esangue, grigia, perfettamente conservata, puzzava di formalina. aveva gli occhi disposti sulla testa rasata a zero. Quello che era rimasto del collo era adagiato su un giornale arrotolato. Gli occhi erano stati estratti dalle orbite ed inseriti in delle aperture lungo la linea verticale del cranio, o meglio, uno verticalmente e l’altro orizzontalmente. Le orecchie erano scomparse ed al suo posto era stato applicato un cerone in modo da non far notare il taglio ed il padiglione mancante. In prossimità della sutura nasomaxillaris, il naso era stato ricacciato indentro quasi a replicare il vuoto della bocca aperta. Il collo era stretto e sottile quasi fosse stato lavorato per essere sproporzionato rispetto alla testa. Al di là del cadavere in primo piano, l'assassino aveva scelto quel salone sinistramente vuoto. C'era un motivo. Perchè una stanza vuota co-

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me scena? Perchè tutto quel grigio? Era un delitto quasi monocromatico. 7. Era freddo, decisi di andare a prendere la stufetta in cantina. Aprii la porta dell'ufficio e trovai un plico. Vi trovai una stampa del Guernica di Picasso con cerchiato un particolare, una mano con una testa mozzata, identica alla scena del crimine presente nel museo e un’altra figura di un quadro di Bosh, il titolo del dipinto era Estrazione della pietra della follia e rappresentava un coglione con un cappello di latta, in stile mago di OZ che armeggiava con un arnese metallico sulla testa di un vecchio con sotto una scritta: Meester snijt die keye ras, Myne name is lubbert das, la traduzione era la seguente. Maestro, cava fuori la pietra [della follia]» e «Il mio nome è sempliciotto —Bosh». Nel plico c'era anche una pagina di giornale. Quella mattina, Vanda Padula, prostituta di 35 anni, nativa di Olevano, un paesino nei pressi di Roma, era arrivata alla stazione di Milano Centrale. Il suo corpo senza vita era stato scoperto da un agente del presidio di Polizia ferroviaria di Piazza Duca d'Aosta, allertato dal controllore dell'intercity 7435, Roma Termini – Milano C.le. Era nella toilette. Chiamai Vin. — Ciao Franco. — Ti chiamo per un caso urgente, l'omicidio di questa notte. — Quello dell'Intercity di cui raccontano tutti i giornali?


— È stato l'uomo su cui stiamo investigando, ne sono sicuro. Mi serve il rapporto della Polizia di Milano. Riusciresti a procuratelo? — Certo Franco. Lo cerco nel database della polizia e te lo spedisco. — Ah, un'altra cosa. Potresti farmi rintracciare una telefonata pervenuta a casa mia verso l'una di ieri notte, tre ore prima che tu mi chiamassi? — Vedrò cosa posso fare. Dalle foto del rapporto, la donna presentava lesioni di tipo contusivo. Dalle evidenti lividi sul collo c'era stato un tentativo di strangolamento. Il colore dell'echimosi chiuse dovute alle infiltrazioni del sangue in seguito alla rottura dei vasi sanguigni sottocutanei erano di colore verdastro quasi giallo lasciavano intuire che l'aggressione risaliva a diverse ore prima del ritrovamento. L'aggressore aveva colpito in modo compulsivo, motivato da un fattore situazionale. Qualcosa era andato storto. Il delitto non faceva parte del suo solito rituale, omicidi a intervalli regolari separati da un periodo di raffreddamento. Per farla breve, l'omicidio non seguiva il suo solito modus operandi ma le ferite avevano sedi, direzioni e profondità, tra le più diverse. L'assassino aveva colpito in preda a una furia cieca e paura, come e dove poteva. La donna probabilmente si era rifugiata nella toilette del treno, ma era stata scoperta, aveva provato a difendersi come testimoniavano le unghie rotte con frammenti di pelle e le ferite da difesa agli arti superiori e da schivamento insie-

me alle lesioni di organi vitali, causa della morte. A proposito di quest'ultimo argomento, la maggior parte delle ferite erano costituite da fendenti. L'arma impiegata non poteva che essere una grossa lama pesante, provvista di uno spigolo affilato. Con ogni probabilità, dalla forma, dalle proprietà taglienti della lama a quelle contundenti della massa d'urto doveva essere stato un grosso coltello, uno di quelli impiegati in macelleria per il taglio delle carni. Vanda, poverina, ferita a morte, non era deceduta sul momento. La toilette imbrattata del suo sangue testimoniava che aveva provato a chiedere aiuto. L'ultima cosa che aveva fatto prima di morire era scrivere con il suo sangue sullo specchio del bagno, Mille 44. 8. Il giardino era solo una distesa di terra rossa, un odore di fertilizzante per piante ornamentali faceva pensare al fatto che Vanda stesse preparando le aiuole per accogliere i fiori. All'interno, invece, puzzava di chiuso, aprii la finestra. Una luce grigia di un pomeriggio inoltrato si posò su dei manuali di anatomia e fisiologia, sfogliandoli trovai un biglietto da visita: Vanda Padula, specialista in scienze motorie. L'appartamento della donna, in via delle Orchidee 15, era devastato. Erano passati prima di me. In camera da letto, qualcuno aveva rovistato negli armadi buttando a terra indumenti intimi, sexy toy, vestiti sgargianti, la metà di un badge di

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plastica su cui erano impresse delle lettere in maiuscolo disposte su due righe, la prima NICA e la seconda GELO. ***

A Pomezia, la serranda della macelleria era abbassata e sopra era comparso un biglietto scritto a pennarello, attaccato con dello scotch macchiato di grasso: Chiuso per approvvigionamento. Un 124 bianco del 1966 scorreva veloce sul finire di un tramonto uggioso. Il macellaio accese lo stereo: «Ancora senza un nome, i delitti del mostro di Roma». Sorrise grugnendo: «Dilettanti». Accese una sigaretta e affondò il piede sull'acceleratore. La strada era bagnata e lucida, l'aria penetrava dal finestrino ed era piacevole sul torpore del suo viso anestetizzato dalle medicine. E a proposito di Vanda, a Roma, all'obitorio di Centocelle, in via Filippo Parlatore, in quel momento, erano tutti davvero molto preoccupati. Il corpo della donna, non appena giunto da Milano quella mattina, era misteriosamente scomparso. Quell'auto, bianco sudicio, cofano ammaccato e bordi del baule pieni d'impronte e macchie di sangue era lanciata verso la sera, i fari posteriori erano rossi e larghi e, nel buio, per via della velocità, l'auto lasciava una demoniaca scia color fuoco lungo la via Pontina, in direzione Roma.

9. Ero in ufficio a mettere insieme i pezzi. Mi avvicinai alla finestra,


due mosche stavano copulando sul davanzale. Pioveva, primo pomeriggio a Centocelle. Blues for Elvis sul piatto e sigaro sul portacenere, macchina da scrivere e caffè nero. Da dove iniziare. Partii dalla traduzione della frase sulla stampa del tizio con il cappello di latta. Maestro, cava

della stazione. Feci un altro sorso di Whiskey. Guardai fuori, la scritta Dotner Kebab sui cartoni bagnati accanto a quei fetidi bidoni. Realizzai e mentre il bicchiere mi cadde per terra spaccandosi in mille pezzi, le tessere del mio puzzle iniziavano a combaciare e così come nello

Che si fosse reso conto della sua follia e volesse essere fermato da me? Una richiesta d'aiuto? Era forse il caso di qualcuno che dipendendo da una forte personalità, continuava a uccidere ma allo stesso tempo provava senso di colpa e voleva essere fermato. Certo, gli omicidi caratterizzati da simbologie religiose o artistiche, non escludevano affatto l'ipotesi che il mio uomo potesse non agire da solo ma dipendere dalla follia di un altro. Non avevo ancora considerato l'ipotesi della Folie à Deux, una sorta di disturbo psicotico condiviso caratterizzato dal transfert di sintomi psicotici, principalmente deliri paranoici e allucinazioni da un soggetto a un altro. Mi versai da bere e guardai le foto, la toilette dell'Intercity, Mille 44, un badge rotto, le scritte NICA e GELO. Feci un tiro al sigaro e mi soffermai ad ascoltare il vinile, ricordai quando lo avevo acquistato. Ero con Vin. Quel giorno festeggiammo, era stato dimesso dalla clinica dopo tanto tempo dal giorno dell’incidente. Andammo lì di fronte, da Millerecords, una discoteca che si chiamava così perchè si trovava in via dei Mille, una traversa

ty 7435, Millerecords, l'ospedale, via dei Mille, la prostituta fisioterapista, il badge. Guardai sull’elenco per sicurezza, CLINICA dell'AN-GELO, via dei Mille, 44 Roma. Vanda aveva scoperto tutto, era fuggita dalla clinica verso la Stazione, si era nascosta nella toilette di quel treno da dove mi aveva telefonato ma, era evidente, con tutta probabilità il suo inseguitore l’aveva trovata. Sì, era successo così, era sceso dal treno senza dare nell’occhio, dopo averla massacrata, prima partenza dell'intercity per Milano. Era sera. Conoscevo la clinica, era un centro di assistenza per ricchi anziani dimenticati dalle famiglie. Avevo già parlato con il primario, il dott. Melandri era originario di Frosinone ed era lo psichiatra di Vin e ci avevo parlato diverse volte per sapere come procedeva la guarigione del mio amico. Non mi piaceva per niente però era un noto professionista. Era specializzato in trattamenti psichiatrici per vecchietti o per lungodegenti affetti da forte depressione come Vin. Per me,

fuori la pietra [della follia]» e Il mio nome è sempliciotto o letteralmente: bassotto castrato.

scoppio di una granata proiettata alla rovescia. I frammenti tornavano indietro sfregandosi l'uno con l'altro come se ognuno cercasse quello che combaciava, la stazione, l'Interci-

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Melandri era solo un pezzo di merda che si dava un sacco di arie. Insomma, non mi piaceva per niente. E quel posto, con la reception piena di marmo e la fontana al centro, che sembrava la hall dell’Hilton, mi aveva sempre dato l'idea di un luogo dove giravano parecchi soldi. Feci qualche domanda. Be’, non ci crederete. Sembra cha Vanda facesse il turno di mattina, da infermiera, pagata a nero, proprio nella clinica del dottore. Era una cara ragazza, molto volenterosa, con la passione per l'anatomia umana. Sembrava, però, che questa sviscerata passione fosse divenuta motivo di colpa, allorché la giovane, per motivi economici, iniziò a esercitare la professione di prostituta. Immaginavo il mio macellaio mentre giudicava: — Peccato di Lussuria — mentre affilava la mannaia. Anche se Vanda era stata ammazzata per un altro motivo, nessuna scena del crimine pittorica, niente Bosh, anche se il fatto che il cadavere fosse misteriosamente sparito dall’obitorio, lasciava presagire un allestimento posticcio alla maniera del grande pittore fiammingo, o almeno, era ciò che mi aspettavo. Comunque, era qualche giorno che Vanda mancava dalla clinica. Nei reparti di degenza, girava voce che la ragazza avesse vinto una borsa di studio al Chester Hospital, nessuno si era accorto che era morta sebbene ne avessero parlato i giornali. Povera ragazza. Nel frattempo, al posto di Vanda, il dottore aveva assunto sempre a nero, Susy, un'energica biondina con la passione per i camici sti-


rati e i capelli raccolti sotto la cuffietta. Nella hall della clinica, erano seduti dei vecchietti, canottiera Cinderella e sguardo spento, sorseggiavano bevande isotoniche dopo la terapia serale. Quell'ambiente così bianco e asettico conferiva ai loro occupanti un insolito aspetto di cavie. Alle loro spalle, una riproduzione del dipinto, L'Inferno Musicale di Bosh, lo riconobbi subito, ormai mi ero fatto una cultura pure io. Lo guardai e tolsi d'istinto la sicura alla Beretta 92. Iniziai fare qualche domanda in giro e sembra che al piano di sopra, il tempo scorresse veloce, scandito da salubri terapie. La notte scorreva inesorabile al di sotto della casa di cura. Cunicoli insonorizzati correvano lungo tutto il perimetro della clinica, simili a catacombe. Pare che in questi oscuri stambugi fossero state allestite delle camere operatorie. In merito alle attività che lì sotto venivano svolte, vigeva nella clinica il più assoluto riserbo. Chiesi alla Susy di poter verificare il computer con i dati delle persone visitate negli ultimi mesi. Mi presentai come ispettore. Tirai fuori il vecchio distintivo che mi ero tenuto al momento dell'uscita dalla Polizia, dichiarando che lo avevo smarrito. Iniziai a scorrere la lista dei pazienti e, che strano. Notai che tra l’elenco dei pazienti visitati, vi era anche Augusta Ferrari, visitata dal primario della struttura, il Melandri. C'era forse un legame? Stavo meditando di andare a fare qualche domanda all’illustre dottore e mentre riflettevo chinato sul

computer, sentii un ago entrare nel mio fondoschiena, un momento dopo fu l'oblio. 10. Due giovani mistress del locale mi avevano trovato nell'oscurità, in un vicolo, appena fuori dal Latex Paradise, quel night nei pressi del Lungotevere. Ero a terra, bagnato, gonfio come una zampogna, i gorilla mi avevano pestato per bene. — Fatti li cazzi tua Scagnozz', fatti li cazzi tua — E giù legnate. Gli scimmioni blateravano un insolito slang con inflessioni ciociare. Il tipo più grosso, un energumeno balbuziente chiamato Mitraglia, aveva accozzato una manciata di consonanti, delle vocali in ordine casuale, accenti creativi ordinati in una sorta di trimetro giambico con anacoluto. In breve, non si capiva una mazza. Ma ero riuscito a leggere il labiale tra il luccichio delle protesi carie e acciaio che armavano la bocca artificiale del primate. Insomma, avevo fatto una stronzata, avevo ficcato il naso negli affari del dottor Melandri e sembrava che qualcuno, un tizio che alla Garbatella chiamavano er Menestrello, fosse un poco indispettito per la vicenda. — Ai menestrell' gl' rode molto i cule. — Aveva esclamato il Ramapitecus, mentre il molare cedeva sotto i pugni dell’arto in titanio. — Parla Scagnozz', dicc' chell che sai. Non dissi nulla. Mi buttarono in vecchio lupetto, l’interno adibito

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ad ambulanza, partirono sgommando. E indovinate, mi portarono proprio dal Menestrello, il Melandri in persona, non in clinica ma in un posto che loro chiamavano gl’ laboratorio, di fatto, un garage dell'Eve Sex Empire, il gigantesco grattacelo del piacere nei pressi della Garbatella. La serranda si aprì, Melandri, secco e occhialuto, bastone da passeggio e tuta verde ER, claudicò fino alla mia lettiga. — Il Dottorhouse, suppongo — Esclamai schernendolo e continuai: — Tu devi essere l'intellettuale del gruppo.— Proruppi in una risata. Il fatto che fossi legato a quella barella mi fece sentire come quei folli che sghignazzano mentre gli infermieri gli mettono la camicia di forza. Mi ignorò. — Non parlerà — . Pronunciò serio rivolgendosi alla gnocca con lo stetoscopio che gli era di fianco. Congedò gli scimmioni dandogli dei soldi e ordinò, serio, in perfetto italiano senza nessun accento particolare: — Flebo di salina per via endovenosa— . Le formose aiutanti, camice succinto e bavaglio antigermi, si attivarono all’istante. — Dottorhouse, allontana le tope da laboratorio — Intimai mentre mi dimenavo. Melandri, un espressione surreale, aprì un astuccio, vi erano due siringhe cromate e una fiala di liquido verde fluorescente, la prese e la espose alla luce di una lampada: — Parlerai, parlerai, con questa parlano tutti. E ti dirò quello che vuoi sapere, caro Scagnozzi, io e i miei ricchissimi adepti sparsi per il mondo, componiamo una


congrega spirituale che punisce i peccatori impedendogli di fare altro male, li redime dandogli l'immortalità attraverso l'arte. Quanto a te, caro Scagnozzi, morirai come tutti gli altri. Nessuno farà caso a uno stupido sbirro alcolizzato e impiccione che annega nel fiume. Persi conoscenza. Ultima immagine, il ghigno malvagio del dottore e la latteria prorompente delle tope tra le lacrime che scaturivano dal bruciore. Il buio. Mi risvegliai nel Tevere, mezzo drogato, la corrente mi stava trascinando verso morte certa ma riuscii, aggrappandomi a dei rami, a raggiungere la riva, proprio vicino al Latex. Stavo soffocando, avevo bevuto troppa acqua, svenni di nuovo. Le ragazze del Latex Paradise furono molto gentili. Venni svegliato da un suono metallico. Avevo dormito per due giorni. Ero solo, guardai dalla finestra del camerino di Carla RubberSoul Meretrix, un vaporetto con i turisti stava percorrendo le acque del biondo Tevere. Il tramonto rifletteva il colore rosso sui palazzi storici. Dovevo tornare nella clinica. Uscii dal locale, andai verso casa. La mia panda 30, era parcheggiata sul marciapiede lì vicino, da più di un mese, sopra un vaso spappolato di gerani. Le serrature degli sportelli erano rotte, tolsi le multe dal parabrezza mentre leggevo gli ultimi messaggi artistici, tra gli immancabili graffiti fallici sullo sporco del vetro, Frank Zappa wasH here, lavami ti prego non ne posso più, sei popo daa Lazio . Mi sarei attardato per completare

la lettura degli interessanti aggiornamenti ma dovevo sbrigarmi, ero braccato dalla vecchia. Entrai con destrezza nell'abitacolo e mi colse il sospetto che qualcuno vi avesse passato la notte, una maleodorante testimonianza, sul sedile del passeggero, me ne diede conferma. Imprecai. Purtroppo, la vecchia era in agguato dietro una siepe in prossimità del cancello: — A maledetto! M'hai rotto tutti li fiori. Mo me lì ripaghi—. Mi stava facendo la posta da giorni per battere cassa. Grattai la marcia indietro e poi inserii la prima di crudo per ripassare di nuovo su quel fottuto vaso rotto: — Tiè, vecchiaccia bastarda—. Proruppi soddisfatto. Mandai tosto affanculo l'odiosa cariatide e partii sgommando. Eh, vecchia del cazzo. . . Non lo sai? Happiness is a warm gun diceva il vecchio John.

Dubitavo che l'anziana signora potesse sapere chi fosse Lennon e, di warm , oltre il torbido piacere della vendetta nei confronti dell'ottuagenaria, c'era solo l'escremento sul sedile. 11. Sul retro della clinica c'era un 124 bianco. Una scia di sangue descriveva un percorso dal cofano della vettura a un ingresso che dava al piano inferiore. Decisi di seguire la traccia. Impugnai la pistola. Feci le scale e trovai Vin in piedi che trascinava un sacco nero. — Che ci fai tu qui? Ma tu cammini — dissi sorpreso. — È evidente, sono guarito. Se ti dicessi che sono stato miracolato

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e sono qui per delle analisi, ci crederesti? — Rise, aveva dei graffi molto profondi sul viso e gli occhi sgranati. — Che ti sei fatto alla guancia? — Lo sai Franco, ho la barba molto dura. La sua battuta non mi fece ridere e non so il perché ma la cosa non mi piaceva per niente. Aveva un sorriso agghiacciante, gli occhi erano tristi. Notai l'orlo del suo pantalone, era sporco di terra rossa, somigliava alla stessa terra fertilizzata del giardino di Vanda. Ero sconvolto ma rimasi freddo. Puntai la pistola. — Dimmi che la pelle sotto le unghie di Vanda non è tua e inventati un motivo perché io ti creda. Scoppiò a piangere e tirò fuori il suo coltello da macellaio, riconobbi le caratteristiche della lama — Franco è finita per me. Sono io il mostro che cerchi. Ti prego, premi quel grilletto prima che arrivi il dottor Melandri, il maestro. — Conosco un bravo strizzacervelli, stai fermo lì e non ti preoccupare, risolveremo tutto. Si avvicinò ancora. — Vin per favore, resta lì. — Franco è troppo tardi, amico. Scusa di tutto, ti voglio bene — Si avventò su di me scaraventando il coltello di lato. Lo freddai d'istinto con un colpo di pistola tra gli occhi. C'era riuscito, si era fatto fermare da me. Un fitta al cuore mi strinse forte, si trasformò in odio. Trovai Melandri in una delle sale operatorie, provò pure a spararmi, il coglione. Mi prese di striscio su un fianco. La ferita


bruciava ma il dolore era nulla in confronto alla mia furia cieca. Gli buttai addosso il letto di metallo della sala operatoria con una violenza inaudita, la sua pistola finì sul corpo a cui immagino appartenesse il cuore che stava sulla bilancia. Recuperai il revolver, una S&W 629, una Stealth Hunter. Poi, fui su di lui. Iniziai a colpirlo, sentivo il crack della mascella e del setto nasale cedere sotto il peso dei miei pugni. Mi fermai e decisi di passare ad altro. Mi scrutò, era una maschera di sangue, quel bastardo. Come un verme, si trascinò a ritroso con le mani, gli avevo rotto le gambe, fino a un mobile basso sul cui lato poggiò la schiena. Rantolava. Lo guardai fisso, avevo l'inferno negli occhi. Provò ad affrontare il mio sguardo, non ci riuscì, si voltò di lato sputando un dente, rise in modo isterico mentre perdeva sangue dalla bocca. — Irriconoscente, ho riportato il tuo amico alla vita, era una larva, un vegetale depresso. — Certo, certo. Ho visto come sei stato bravo, dottore —. Melandri proruppe in una folle risata, cambiando tono della voce: — Lo avevo trasformato in un vero angelo sterminatore di peccatori. Non sai quanto è bravo con il coltello il tuo amichetto del cuore ma si comporta bene. Prende sempre le mie medicine che lo aiutano. Io e la mia congrega siamo fieri di lui. — Oh sì, ci credo. — Replicai. — Coraggio chiama i tuoi amici sbirri, coglione. A chi pensi che crederanno? La parola di un dottore ricco e affermato come me contro quella di uno stupido sbirro ubriacone e fallito come te

— Lo ignorai, stavo controllando il tamburo della 629. Corromperò tutti, ti renderò la vita maledetta, io e gli altri adepti siamo ricchissimi e molto potenti, ti faremo arrestare per omicidio, butteranno via la chiave. Mi accesi un sigaro mentre parlava, lo ascoltavo con attenzione. Lui aggiunse: — Com'è ovvio, io ne uscirò pulito come al solito. Non passerò un solo giorno dietro le sbarre. Coraggio, colpiscimi ancora e chiama pure i tuoi amici della polizia. — Rise ancora in modo sguaiato. Gli puntai con precisione il revolver in faccia e gli dissi con calma: — È il tuo giorno sfortunato, desolato ma io non ho amici. Vuoi sapere perché? Mi guardò: — Perché... — Sono un bastardo spietato — Replicai lapidario. Lo so, era una battuta di uno dei miei film preferiti, avevo sempre desiderato dirla e l’occasione mi sembrava propizia. In breve, gli scaricai addosso tutto il tamburo del suo revolver. La mia Beretta era sicura, aveva i codici limati, la pulii dalle impronte e la misi nella sua mano. Passai a salutare Vin. Era supino, con la faccia nel sangue. Piansi. — Vin, figlio di puttana, mi hai fregato, te ne sei andato senza di me e sei pure un mostro del cazzo ma ti voglio bene lo stesso. Presi il mio amico e lo posizionai sulla carrozzina, spinsi quella maledetta fottuta cariola per un'ultima volta fino alla sala operatoria e la posizionai nella traiettoria della pistola del dottore e, dopo aver cancellato ogni traccia dalla 629, misi il revolver

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in mano a Vin. Feci con calma, i sotterranei erano insonorizzati e avevo tutta la notte per inquinare per bene tutte le prove, fare delle accurate pulizie. 12. Lì sulla riva del Tevere, a guardare le papere che arrancavano nella melma, si stava bene. Il cielo era dipinto dal tramonto di un pomeriggio freddo, le nubi passavano rapide. Il giornale titolava: Roma. Un eroe nazionale, il poliziotto Vincenzo Castelli sgomina da solo una setta che faceva sacrifici umani. Lasciai il quoti-

diano su una pietra permettendo al vento di sfogliare le altre pagine mentre, dall'impermeabile, estraevo il coltello da macellaio. Il vento soffiava tra le falde del mio Borsalino tarlato. Osservai il coltello di Vin sparire nelle acque limacciose e mi alzai il bavero del pastrano. Mandai giù una pillola per il cuore con un sorso di whiskey, accesi sigaro e mangianastri, la tromba di Rava su My funny Valentine. Feci il punto della situazione. I soldi dell'anticipo per seguire la moglie di Pagano erano quasi finiti e la vecchia signora Costa era morta senza pagarmi per il ritrovamento del suo gattino, una bocca in più da sfamare. Avevo ancora qualche spicciolo per passare la serata. La mia grande possibilità stava arrivando, me lo sentivo, ma mi dovevo sbrigare, non sarei vissuto per sempre. Una cosa però mi consolava, ero una vecchia carogna, molto duro a morire.


Il fiorista

S ka n

OLTRE LO skannatoiO

NASF

Le TRE LUNE 7

pardanfs@gmail.com

Le Lady Hume Campbell avevano bisogno di acqua. Le foglie pendevano mosce; solo i fiori, di un intenso color lilla, erano ancora freschi e profumati. A malincuore estrassi dalla sacca alcuni sferoidi idratanti e li infilai nel terriccio, vicino alle radici. – Ragazze, fateveli bastare, ormai li sto finendo. Alzai di una tacca l’attività della tuta riscaldante e mi apprestai a trascorrere la mia giornata di lavoro. Mi sentivo l’unica cosa immobile dell’astroporto di Altair 47-b: intorno a me i passeggeri scendevano di corsa dai marciamobili dirigendosi al check-in, immensi container venivano trasportati su carrelli anti-g, la gente partiva e arrivava, persa nelle visioni degli occhiali tridimensionali o gridando istruzioni nei comunicatori direttamente impiantati nell’osso mastoideo. Vicino ai piloni portanti della cupola c’erano piccole zone fisse, isole in mezzo a quella tempesta di attività. Io stazionavo accanto al pilone

3, mentre Arturo, il suonatore di clarinetto, preferiva il 2, e Michelle e la sua marionetta non avevano un posto fisso: a volte si mettevano vicino alla mia bancarella, ma a fine mese, quando c’era il grande ricambio dei lavoratori turnisti, si posizionavano vicino al pilone 1. Michelle era simpatica, ma non potevamo scambiare molte parole, lei suonava il violino per quasi tutto il tempo. Controllai ancora una volta le violette in bella mostra sull’espositore portatile. Anche attraverso i filtri della tuta sentivo il loro profumo. Fanja mi aveva combinato un bello scherzo: due giorni prima era scappata col suo droide semisenziente, e mi aveva fregato tutti i crediti per pagarsi il passaggio fino a Titano. Così da oggi non avevo più accesso al cubicolo abitativo. Avrei dovuto dormire in strada. La notte artificiale era dura, molto dura da passare all’aperto: c’era l’abbassamento della temperatura, ma soprattutto c’erano le bande di giovani teppi-

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sti, strafatti di qualunque cosa. L’alternativa era chiedere aiuto al Servizio Indigenti, ma girava la voce che con la scusa di aiutarti ti caricassero su un’astronave diretta ai Mondi Esterni, dove c’era un gran bisogno di mano d’opera a buon mercato. – Cosa sono quelle? – disse una voce infantile. Mi sporsi a guardare: un piccoletto con un Superlollipop in mano fissava i vasi di fiori, curioso. – Sono violette. – E cosa fanno? – disse il bambino, diffidente. Il Superlollipop, trascurato, iniziò a ronzare petulante, finché il suo proprietario non gli diede un’altra leccata. – Sono belle, e poi, senti il profumo? – risposi, anche se la sua espressione annoiata non era incoraggiante. – Miki, vieni qui! Una donna elegante e costosamente ritoccata prese il bambino per mano trascinandolo via, mentre il lecca-lecca ronzava sempre più forte. – Non hai mica toccato la terra, no? Che ti prendi delle malattie...


Sarebbe stata una lunga giornata. Verso l’ora di pranzo avevo venduto qualche violetta, almeno la colazione era assicurata: c’erano ancora dei tradizionalisti, soprattutto tra i più anziani, che preferivano coltivare una pianta viva invece di scaricare il programma di proiezione interattiva. Mi stavo assopendo quando un rumore di tacchi sul pavimento metallico mi fece gelare il sangue. Anche di giorno, adesso, anche qui? Mi precipitai ad attivare l’anti-g della bancarella, ma prima di arrivare al marciapiede le ebbi addosso. Manager, giovanissime e pericolose. – Tu, stronzo! – mi apostrofò una biondina con occhiali dalla pesante montatura (finti: facevano parte del look): poteva avere 15 anni o anche meno, a giudicare dai seni acerbi che spuntavano dal tailleur gessato abbondantemente scollato. – Me ne sto andando, ho fretta – risposi, armeggiando col coperchio dell’espositore, che non chiudeva bene. – Sei nel nostro territorio – intervenne una ragazzina con la coda di cavallo e tacchi a stiletto. Cominciai a sudare. Non vedevo droidi della sicurezza, e non potevo sperare nell’aiuto dei passanti, che fingevano di non vedere: era pericoloso impicciarsi negli affari delle gang giovanili. – Ora dovremo disinfettare quello che hai contaminato con la tua terra di merda. Sono 20 crediti –disse la bionda. Anche lei aveva dei tacchi d’acciaio di 12 cm, come tutte le altre: le armi erano proibite sul pianeta, così le gang si

arrangiavano: i Big Batters avevano le mazze da baseball, le Manager i tacchi. – 20 crediti? – nonostante la paura scoppiai a ridere – Mi avete preso per un banchiere? Vi posso dare 2 crediti e 15 centesimi, non ho altro. – Questo brutto schifoso viene a sporcare con la sua merda organica e non paga? – urlò la bionda rivolta al suo gruppo. – Ragazze, ripuliamo questo posto! – le fece eco una piccola rossa. Iniziò il macello. Le Manager rovesciarono l’espositore, afferrarono le piantine, strappandole con le unghie laccate e schiacciandole sotto le scarpe. Io cercai di reagire, prendendole per i capelli, gettandole per terra, ma ero solo e loro erano troppe: dovetti ripararmi con le braccia dai colpi di micidiali ventiquattrore d’acciaio, venni preso a calci senza pietà dalle loro scarpe dalla punta metallica. Nel giro di pochi minuti ero a terra sanguinante in mezzo a vasi rotti, terriccio e quello che restava delle viole. Non mi avevano lasciato niente. Su tutto aleggiava un delicato profumo, che neanche le fragranze sintetiche riuscivano a coprire. – Droide di sicurezza matricola 47-X. Volete sporgere denuncia, signore? – Va’ all’inferno, scatola di latta! – risposi, tamponando il sangue che scorreva dal labbro spaccato – Non ci siete mai quando occorre! – Lei perde sangue. Vuole assistenza medica? – No, lascia perdere, non ho i crediti per pagarla – risposi, poi ancora carico di adrenalina mi ri-

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volsi alla piccola folla che si era radunata curiosa. – Piaciuto lo spettacolo? Sganciate qualche credito, allora, mi ripagherete di un po’ di danni. Naturalmente si affrettarono a salire sui marciamobili, e in pochi secondi il posto fu di nuovo deserto. Quasi deserto: era rimasta la genegatta di una signora anziana, una mia affezionata cliente. La riconobbi dal pelo rosso tigrato. – Molto dispiace – miagolò – Posso aiutare? – chiese, sgranando gli occhioni verdi. – A fare che? A suicidarmi? Faccio da solo, grazie. Non ho più lavoro, vedi? Niente casa, niente piante, niente lavoro e, ahi! Devo avere almeno due costole incrinate. Picchiano duro quelle stronzette. – Ho casa, vieni. Le genegatte sono modificate per renderle bipedi, dotate di parola e più intelligenti di un gatto comune, ma non proprio intelligenti come gli esseri umani: la loro scatola cranica è troppo piccola. Secondo alcuni gli AGP (Animali Geneticamente Potenziati) sono dei moderni schiavi, perché sono sotto la responsabilità dei proprietari e non possono vivere in modo autonomo. Ho sentito dire che esistono movimenti per la liberazione degli AGP. Quella gattina era gentile, ma poco sveglia. – Senti, bella, ti ringrazio, ma non si può. Torna dalla tua padrona, ti starà cercando. – No, vieni, padrona non c’è – miagolò lei. Sembrava agitata. – Cosa vuol dire “non c’è”? – É andata a Casa del Sonno, una settimana fa. – mi guardò con


timore – Tu... tu non dici a nessuno, eh? – Una settimana! e tu perché non sei stata ritirata? – Padrona furba, brava con computer, in-for-ma-ti-ca. – sillabò con difficoltà. – Ha truccato i dati? Annuì, mentre la coda saettava da una parte all’altra. – Lei non voleva che Vanessa, mio nome Vanessa, sai? Non voleva Vanessa in mano a gente non buona, non tratta bene, forse vende. Dice: Vanessa, io vado, non triste: tu trovi persona buona, porti casa, persona buona ti aiuta. Vieni. I robopulitori stavano aspirando quanto restava delle mie piante. Seguii Vanessa sul marciamobile est, verso la parte più elegante dell’insediamento. Entrammo in un vero appartamento, non in un cubicolo abitativo. Appena la porta si aprì fui avvolto da un profumo familiare: c’erano violette dappertutto! L’anziana signora non solo aveva comprato tante piantine, ma doveva averne fatto divisioni e propaggini: dagli scaffali pendevano ederacee ricadenti, sui tavoli c’erano ciotole di violette doppie di Parma, profumatissime, e vicino al divano riconobbi delle papilionacee. C’erano violette in tutte le stanze, perfino in bagno, un trionfo di vita vegetale. – Qui, vieni, guarda – disse Vanessa, interrompendo la mia ricognizione. Aveva attivato il proiettore tri-di. Al centro del soggiorno comparve la vecchia, uguale a come la ricordavo. Era seduta su una poltrona e sembrava

fissasse proprio me. Mi sentii a disagio, sporco e sanguinante com’ero. Poi mi diedi dell’idiota: era una registrazione, no? – Sei arrivato qui, quindi sei la persona giusta, perché il cuore di Vanessa non sbaglia – sorrise dolcemente, in direzione del suo immaginario interlocutore, e allargò le mani – Quello che vedi è tuo, ti basterà sostituire i tuoi dati ai miei e potrai gestire il mio patrimonio, che non è male, vedrai. Ti chiedo solo di badare a Vanessa e di lasciarle coltivare le sue viole: è una giardiniera nata. Buona fortuna a tutti e due. L’immagine sorrise di nuovo e svanì. Dopo un po’ mi ricordai di chiudere la bocca. Quando controllai il conto personale dell’anziana signora, che ora era il mio, scoprii che ero ricco,

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oscenamente, esageratamente ricco. – Come mai la tua padrona è sempre rimasta in questo buco? non poteva andarsene su un altro pianeta? – Padrona diceva: qui felice con mio marito, qui bei ricordi, qui resto. – Bene, ora invece sai cosa facciamo? Ci scegliamo un bel posto, di quelli dove vanno in vacanza i ricconi: spiagge di sabbia rosa, foreste, e un clima simpatico. Comprerò una tenuta dove coltiverò violette in grande stile, e tu ti arrampicherai sugli alberi. – Alberi? Alberi veri? – chiese Vanessa, mentre le scintillavano gli occhi – Dove? quando si parte? – Vieni qui, aiutami a scegliere il pianeta. E tieni ferma quella coda, mi fa il solletico.


S ka n ­Maremma...­ –Nonno nonno, portiamo anche lo schioppo?– chiese il ragazzino. –Ma no, Nèri, pe'fare i'che?– rispose suo nonno. –Ma nella foresta ci sono i briganti, e se ci fermano? –Eh si fa presto a dire ci sono i briganti... Se ci fermano che vói ci rubino se un s'ha nulla? Se invece vedono uno schioppo, ci sta anche che ci sparino... Sicché niente schioppo. –Attacco Vittorio Emanuele?– chiese Nèri. –No, i'ciuco no, se no un s'arriva più. Attacca i'cavallo, vien via, tanto un s'ha da prendere tanta roba in città... Era mattino presto, il sole ancora non era sorto, e nella tenue luce che precede l'alba il ragazzino eccitatissimo si dava un gran daffare per attaccare il cavallo da tiro al carro.

OLTRE LO skannatoiO

Macelleria n.6

Ad un tratto si udì la voce di una donna anziana. Era nonna Rosa che tutta trafelata entrava nella stalla. –O Mario! ma i'che tu fai? Tu ti porti anche Nèri? È piccino, lascialo stare! –Ma che piccino, se gli ha quasi quindic'anni, gli è un omo ormai! E sarà i'caso che veda un po' di mondo, invece di stare sempre attaccato alle sottane della su'nonna! –Ma ni'bosco e ci sono i briganti... e le guardie, e se gli sparano? –Oioi, e se gli sparano e fa come fanno tutti – rispose spazientito il vecchio – e móre! Maremma diavola, sempre con 'ste tragedie... Nèri si mise a ridere, mentre la nonna lo guardava con aria triste. –Via, allora vi preparo du'ose da portare via e ora torno– disse rassegnata nonna Rosa, e se ne andò. Quando tutto fu pronto per la partenza, l'anziana signora tornò con un fagotto annodato. –Ecco, Mario, qui tu c'hai i'filone di

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pane, una forma di pecorino, un po'di salame, du'pere e du'fichi. Un fiasco coll'acqua e i'fiasco di vino, ma a'i'bambino non fagnene bere eh, mi raccomando! –No, tranquilla tranquilla, e un lo fó bere... La donna si avvicino al ragazzino e gli accarezzò i capelli. –Tieni, questo gli era i crocifisso di' tu'babbo, portalo con te, tu vedrai ti protegge– disse la nonna porgendo a Nèri una collana con un crocifisso. –Si, ecco mettigli in testa 'ste cose. Infatti a' i'su babbo gli ha portato di molto bene. Poraccio. Andiamo su, maremma serpente, se no qui in città s'arriva di buio. Nonostante le rimostranze del nonno, Nèri prese con grande cura la collana dalle mani della nonna, che saluto con un bacio, e salì sul carro. Nonno Mario salutò Rosa, spronò il giovane baio, e, mentre facevano capolino i primi raggi del sole, si


misero finalmente in cammino alla volta della città. –Nonno, e andiamo al mercato? E vedremo le guardie? E... –Oggiù, sì, e te l'ho già detto… Ma tanto finché un s'arriva un tu vedi nulla, sicché stai bonino, via! Ma Nèri era troppo eccitato all'idea di vedere la città. C'era stato un paio di volte con suo padre quando era piccolo ma non si ricordava quasi niente. Già adesso tutto gli pareva diverso e interessante. Quando vedeva lungo la strada una pianta che conosceva, un arbusto di ramerino o un pianta di nipitella, saltava giù dal carro in corsa, la raccoglieva e montava di nuovo saltando sul carro. Non che mancassero nelle vicinanze della sua fattoria, anzi, ma il fatto che fossero state raccolte durante il viaggio le rendeva per lui in qualche modo speciali. E così passarono tre o quattro ore… nel mezzo della campagna, tra olivi e vigneti, in una tiepida giornata d'autunno. Il frinire di cicale e il canto dei grilli oramai erano solo ricordi, i rami degli olivi erano carichi e le foglie cadevano dagli alberi. D'un tratto, il paesaggio cambiò... i bassi filari di viti lasciarono il posto ad alti alberi di castagno, e il cielo divenne un tetto di foglie gialle, arancioni e rosse. Le ruote del carro smisero di sollevare polvere e di risuonare in modo secco sulle pietre della strada. Il rumore era attutito dal tappeto di foglie cadute che scricchiolavano al passaggio. Era il bosco, casa di lupi a due e quattro zampe. Pericoloso più che mai, per via del brigantaggio, era terreno di continue

rapine, omicidi e sparatorie tra le bande di briganti e le guardie dell'esercito regio. Ma il nonno sembrava non curarsi di tutto ciò. Continuava a fumare la pipa, a bere dal fiasco, a tenere le redini del cavallo e a bestemmiare di tanto in tanto. –Che silenzio eh nonno?– disse Nèri, un po' impressionato. –Troppo, maremma zoppa,– rispose il vecchio– ce n'è troppo, di silenzio... Subito ne scoprirono la ragione. Passata la prima curva, apparvero tre figure . Erano tre uomini, due in piedi, con gli schioppi spianati, e uno seduto su una roccia. I cappelli calati in testa, la barba lunga, le armi, l'aria spavalda e strafottente non lasciavano dubbi... –Briganti!– gridò Nèri. –Si, un succede nulla, sta'calmo… – disse nonno Mario, tirando le redini e facendo fermare il cavallo. –Te tu sei i'Renai se un mi sbaglio, vero?– domandò uno dei tre fuorilegge. –Per l'appunto– rispose il vecchio. –E 'ndo'tu vai, Renai? –E vò in città a comprare le provviste. I'che vu volete? Soldi se n'ha pochi.– disse il nonno. –Tranquillo, un si ruba ai poeri, noi. Un ci si chiama mica Savoia... Ci serve i'carro, vecchio– disse il brigante seduto. –Pe'fare i'che? I'carro va piano e si nota parecchio... –Perché uno di noi gli è ferito e c'ha la febbre... Bisogna che lo veda un dottore vero, se no ci tira le cuoia. Sicché ci serve i'carro per portallo in città. Anzi guarda, meglio se tu ce lo porti te, di sicuro vu date meno nell'occhio voi in caso di un controllo...– rispose il primo bri-

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gante. –...e tanto vu sapete chi siamo– concluse la frase Mario. –Ecco, t'ha capito! –Va bene via, maremma impestata e cane, però niente schioppi e pistole eh? Che se poi ci fermano le guardie succede un casino. Nèri, che aveva assistito a tutta la scena ammutolito e con la bocca aperta, non ci poteva credere, avrebbe viaggiato con un brigante vero! Era incerto se avere paura o gioire della cosa. L'uomo seduto sulla roccia si alzo, abbracciò i suoi compagni e prese posto sul retro del carro, e così nonno e nipote poterono di nuovo riprendere il loro cammino. Nèri non riusciva a staccare gli occhi di dosso dal nuovo arrivato. Il fuorilegge aveva la pelle olivastra, capelli neri e un fuoco negli occhi che non era dovuto solo alla febbre. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte, e dal fatto che evitasse di muovere il braccio sinistro il ragazzo intuì che fosse stato ferito lì o alla spalla. –I'che t'è successo?– ebbe alla fine il coraggio di chiedere. –Una schioppettata delle guardie… Oramai le son dappertutto – rispose l'uomo. –Ma perché tu fai i'brigante allora, se è così pericoloso? Potresti fare come i'nonno e coltivare la terra. –Quando avevo la tua età, io e la mi' famiglia si lavorava la terra, ma poi il Re colle tasse e le su'guerre ci portò alla rovina, e ora un c'ho più nulla... né famiglia né terre. La mi'casa è il bosco, e la vita me la guadagno con lo schioppo. Ma un credere che in questa situazione i criminali si sia noi... Noi si ruba solo a'ricchi. E a'preti.


Il ragazzo parve soddisfatto della risposta, e non fece altre domande, lasciando riposare l' uomo. Un' altra ora passò nel silenzio. Ognuno sembrava perso nei propri sogni o pensieri. –Gli è ora di mangiare quarcosa, Nèri apri i' fagotto, prendi i'cortello e taglia un po' di salame e pecorino pe' tutti, vai.– disse nonno Mario. Nèri ubbidi, e i tre si divisero un pasto frugale di pecorino e pere, e salame con i fichi. Poi il nonno passò il fiasco di vino a Nèri. –Tieni vai, dagni un sorso – disse. –Ma come? I' vino? Ma la nonna... –Eh si fa presto a dire la nonna, tu se'grande ormai, un po' di vino non ha mai ammazzato nessuno. Il ragazzo prese il fiasco e bevve, contento di essere considerato un adulto. Qualche chilometro dopo, l'attenzione dei tre fu catturata da delle grida di donna. Nèri vide che tanto il brigante quanto il nonno misero mano ai coltelli. Una ragazza di qualche anno più grande di Nèri, sanguinante dal naso e dalla bocca, correva inseguita da un giovane soldato. –Maremma assatanata, che diamine succede qui?– gridò il nonno. –Fatti i fattacci tua vecchio, e non t' impicciare o ti fo secco– gli rispose il soldato. –Ma io non sono vecchio e non me li fo, vigliacco di merda– disse il brigante saltando giù dal carro coltello in mano. Il soldato fece per levarsi lo schioppo che portava a tracolla per sparare, ma Nèri fu lesto a lanciare il fiasco che colpì in pieno l'arma facendola cadere , e al giovane non rimase altra scelta che estrarre anche lui un coltello dalla cintura.

Da una parte il brigante non era molto in forze per via della febbre ma dimostrava familiarità con questo tipo di duelli, dall'altra il soldato, che appariva più inesperto, era però in piena forma, per cui per un po' i duellanti si studiarono con finte e colpi non in profondità. Appena però il soldato tentò un affondo, il brigante cambiò mano del coltello, storse il braccio del soldato obbligandolo a chinarsi in avanti e affondò la sua la lama nella gola dell'avversario, uccidendolo. Poi prese il cadavere e lo buttò nella boscaglia, e salì con fare incerto sul carro. Tra tutti soltanto il ragazzo sembrava sconvolto dal recente avvenimento. –Ma l'hai ammazzato!– disse. –Si, l'ho ammazzato... Ma un ti sbagliare, io sarò un fuorilegge ma la canaglia l'era lui... E grazie. Senza il tu'aiuto c'è il caso che sarei morto– rispose l' uomo. –Ecco vedi, t'ho dato i'fiasco e t'hai buttato tutt' i'vino pe' terra! E ora siam senza!– disse il nonno sorridendo –Dai ragazza, salta su. Se tu vai in città ti si porta. E cosi tu ci racconti anche i'che gli è successo. La ragazza era giovane e carina e gli abiti succinti non lasciavano molti dubbi sul mestiere che svolgesse. –Beh, la storia è semplice... Io e altre ragazze eravamo a seguito dell'esercito regio, e mi ero allontanata con qui' soldato che però poi non ha voluto pagare la mercanzia e ha preferito cominciare a picchiarmi...– disse. –Poverina, e ora sei rimasta senza mercanzia?– chiese con innocenza Nèri. Tutti gli altri si misero a ridere. –Non ti preoccupare, mi pare che la signorina ne abbia in abbondanza– disse il brigante.

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La presenza della ragazza rallegrò il resto del viaggio, sopratutto per Nèri che ne era ammaliato e pareva aver dimenticato del tutto la presenza del brigante. Dopo alcune ore, quando si era ormai in vista della città, il fuorilegge ad un tratto saltò giù dal carro. –Io sono i'Magrini, Renai. Mi ricorderò di voi. Grazie– disse , e sparì. Nèri rimase un po' deluso dalla velocità dell' addio. Ma la delusione durò poco, presto entrarono in città e la sua attenzione fu catturata dalle mille novità. C'era una cattedrale in pietra, una piazza enorme con tantissima gente, cavalli, grida e risa e il ragazzo sembrava non sapere dove volgere la testa. Nonno Mario cercò e trovò una stalla per il cavallo e mentre stava pagando Nèri gli si avvicinò correndo. –Nonno nonno, la Lara m'ha chiesto se le do una mano con la mercanzia... L'aiuto e torno subito eh! Un ti preoccupare!– disse. Il nonno rise –Eh, si fa presto a dire torno subito. Vai vai bellino... E sorridendo il ragazzo si allontanò. FINE Molto buona la gestione del dialetto (qualcuno direbbe vernacolo). Il nonno è caratterizzato in maniera decisa ed efficace, così come il ragazzino (punti bonus: 1). Buoni anche i personaggi secondari, ben contestualizzati e gestiti. “per via dell’aggravarsi del problema del brigantaggio”: via via via: sembra preso da un tema scolastico. Qui è narrativa, parli della vita dei tuoi personaggi, usa la lingua della vita. Molto bello il finale. Il migliore della covata. Morgan Aarau


Dodici Le urla della mamma sono assordanti, come sempre. Babbo la batte tanto forte che i colpi rimbombano nel vuoto della stanza. Non voglio sentire. Mi premo forte il cuscino sulle orecchie; ma è tutto inutile. Lui non grida, non lo fa mai. Mio padre è quello che la gente considera una brava persona: è un lavoratore onesto, non beve, non fuma, la domenica mattina va in chiesa, la notte si diverte a picchiare la mamma. Non ce la faccio più. Un tempo avevo provato a cantare, prima di addormentarmi, cercando di coprire il suono delle botte. Non era servito e ho smesso. Soffoco; apro la finestra. La leggera brezza mitiga il caldo estivo. Ma sento ancora la sofferenza della mamma, è insopportabile. Vivere in campagna non mi piace. Magari, se fossimo in città, babbo non la picchierebbe; o forse, lo farebbe più piano. Mi avvicino al letto e raggruppo i pupazzi sotto il lenzuolo: chi sa se capirà che me ne sono andata. Non mi interessa. Scavalco la finestra; mi volto solo un attimo per vedere la sagoma sotto le coperte, illuminata a stento dal chiarore della luna. Mi metto a correre scalza e in vestaglia sull'erba; non mi fermerò finché avrò fiato. Scappo da quell'inferno, scappo da quelle urla, scappo da quel dolore. Il frutteto mi accoglie tra

le sue braccia: mi nasconde e mi protegge. Scendo per la valle e sono sempre più lontana da casa. Poi lo raggiungo: l'olivo sorge solitario in un avvallamento, circondato da erbe selvatiche, margherite e grilli chiassosi. Sospiro; lo abbraccio. *** Sogno di quando saremo libere, io e la mamma; viaggio nella notte sperando che la fantasia si trasformi in realtà. Lei mi rimbocca le coperte e mi dà un bacio sulla guancia. Ti voglio bene tesoro, mi dice. Le sorrido, serena sotto il tepore delle lenzuola. Poi si allontana, dà una carezza a mio padre e lui prende il suo posto. Ti va che ti racconti una favola? Mi chiede. Grazie babbo, oggi però il principe azzurro lo fai tu. Mi addormento cullata dal suono della sua voce, roca e calorosa. Il profumo del dopobarba mi accompagna per tutta la notte, mi avvolge nel sonno e mi protegge. Ma a circondarmi in realtà è il forte odore delle margherite, che presto si confonde con una penetrante puzza di fumo. I fiori iniziano a bruciare. Tutto prende fuoco. Brucio io e brucia il sogno, mio padre, mia madre, la casa e la campagna. Bruciano anche le fronde dell'olivo. Mi sveglio madida di sudore, il sole del mattino mi acceca; mi sollevo sulle ginocchia. Osservo la pianta magra e forte. Grazie, le dico; e non potrei

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aggiungere altro. Allungo la mano e colgo un bocciolo, lo stringo al petto. Mi pulisco la vestaglia. Non voglio più tornare a casa. Sento una macchina passare. Allora mi affretto, finché non raggiungo il ciglio di una stradina stretta e deserta. Mi siedo e attendo. Arriva prima il rombo del motore, poi vedo la polvere e infine l'auto. È nera e occupa quasi tutta la carreggiata. Mi alzo e quella rallenta. Mi affianca; lo specchietto si abbassa e mi si presenta un vecchio con il volto nascosto da spessi occhiali da sole. Ti sei persa, piccolina? Devo avere un'aria trasandata, cerco di darmi una sistemata ma non rispondo. Non saprei che dire. Lui alza gli occhiali e mostra freddi occhi grigi. Vai a fare colazione in città? Sì, rispondo, ecco vado in città. Può darmi un passaggio, gentile signore? L'auto sa di pelle e tabacco, eppure gli odori non son forti ma accoglienti e piacevoli. L'uomo mi ha detto di mettermi la cintura, per stare sicura. Io gli ho dato retta. Ha la voce da fumatore, mi ricorda quella di nonno. Mi rasserena, e non posso fare a meno di ascoltarlo mentre mi dice: non esiste momento migliore, nella vita intera di un uomo, che quello passato nella tranquillità della natura; sai, quand'ero bambino spesso scappavo da casa e camminavo per tutta la notte; tra l'erba alta e odorosa


mi sentivo libero. Ah, quanto vorrei tornare a quei tempi, quanta spensieratezza. Ero piccolo sai? Forse quanto te… quanti anni hai, a proposito? Dodici, gli rispondo. Dodici son gli apostoli, dodici le costellazioni e dodici le vite che vivremo prima di tornare al creatore. Stai vivendo l'età benedetta. Io sorrido, è più forte di me. Dovrei vergognarmi, lo so. Il riflesso del mio volto, sporcato da macchiette verdi, è quel che vedo fissando il finestrino. Ma se lui non gli dà peso, perché dovrei farlo io? Lo sguardo allora si spinge oltre il vetro: sui frutteti che colorano la mattina; sui greggi che pascolano disordinati; sugli uomini forti che già lavorano i campi. Ma non vedo la città, né il suo campanile. Sono sicura che dovrei scorgerla, me lo ricordo bene il colpo d'occhio dei tetti rossi lontani a valle. Invece il paesaggio non cambia come dovrebbe, ma torna a essere familiare, fin troppo. Il cancello del giardino è aperto. Il vecchio mi ha riportato a casa. Allunga la mano e mi accarezza la nuca, mi parla. Tuo padre era molto spaventato stamattina. È una brava persona, non portargli dispiacere. Va bene, piccolina? Lui è là, fuori dall'ingresso, braccia conserte. Sorride, sembra tranquillo. Eppure io lo so, stanotte verrà il mio turno. Stringe forte la mano del vecchio, ma i suoi occhi freddi sono rivolti su di me.

Grazie commissario, io e mia moglie eravamo terrorizzati.

coglioni! Urla. Forse è la prima volta che lo sento gridare e dire parolacce. *** Tu e quella zoccola di tua madre. Goditi il viaggio, perché Non ti permetterò di farlo! non vedrai più la luce del sole. Taci, donna. Mi batte di nuovo. Tremo sotto il lenzuolo. La Lasciami stare! chiave della camera non c'è più, Non ti azzardare a fiatare! non ho difese, non posso più Mi colpisce ancora e ancora. scappare. Lo schiaffo che babbo Guarda la strada! rifila alla mamma riecheggia Sbanda e riprende il controllo. forte nel corridoio. È qui. Io mi copro la faccia, ma lo veEntra sbattendo l'uscio. do. Ha gli occhi lucidi. Sobbalzo mettendomi seduta. Perché piangi, babbo? Lui getta una grossa valigia Si volta verso di me, accelera. aperta sul letto. Mi minaccia. Non dovrebbe. Hai finito di rovinarci la vita, Dio mi perdoni per averti messo solo il convento ti può salvare! al mondo. Guardo disperatamente la Fermati babbo, ora! Frena! mamma, è accovacciata a terra e non solleva lo sguardo. Lui apre *** i cassetti dell'armadio e getta tutta la roba alla rinfusa. E ancora mi ritrovo qui, nel Quando si scoccia, chiude con cuore di una notte d'estate. La uno scatto la valigia. Mi getta brezza mi dà sollievo, muove i una maglia in faccia. miei capelli, liberi al vento coVestiti. me le fronde dell'olivo. Eccoci di nuovo soli, noi due. La macchina corre forte sullo Abbraccio il fusto. La sua forza sterrato. Posso vedere la polvere mi tranquillizza ora come che ci lasciamo dietro. Non sempre. Mi siedo ai suoi piedi, piango e non sono nemmeno tri- tra margherite e grilli. Le mani ste. Non so come stare, né cosa affondano nell'erba fresca. pensare. Guardo senza interesse Guardo la luna: piena, chiara, sempre lo stesso panorama. luminosa, amica. Da qui riesco a Forse adesso in città ci arrivo vedere tutto. Attorno a me non per davvero. Babbo non parla; ci sono più i monti che mi costringe forte il volante, tanto che prono la vista, ma paesi, stati, le nocche sono completamente persone, animali e cose. Questo bianche. Poi arriva il primo è il mio posto, qui posso colpo. Mi dà una manata sulla viaggiare e scappare da tutto. testa; non me l'aspettavo e Fuggire da quella casa, da mio sbatto contro lo sportello. Sono padre e sì, anche da mia madre. senza cintura. Non tornerò più da loro, mai Adesso mi avete davvero rotto i più. Sopra le radici dell'olivo

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posso dormire, posso sognare e vivere davvero per la prima volta. Adesso ho uno scopo. Dodici anni, dodici apostoli, dodici costellazioni, dodici vite. Sorrido al ricordo del commissario. Ogni tanto mi capita di ripensare a quella mattina, a cosa sarebbe successo se non mi avessero ritrovata. Ora so cosa passava nella testa di mio padre in quei momenti: lo strascico di un'infanzia malata e priva d'affetti; fu colto dalla paura che diventassi come lui. Ma ancora stento a capire perché, da quell'ammasso di lamiere, ne uscì vivo solo uno di noi. Quando sento la macchina, saluto l'albero con un'ultima carezza e mi allontano. Salgo agile tra la roccia e il sentiero tracciato dalle capre. Arrivo sul ciglio della strada appena in tempo per vedere la luce dei fari. Mi vedono, inchiodano. Esce un ragazzo, è alto e barcolla; lo segue la ragazza. È lei a parlare. Bambina, stai bene? Ti sei persa? Mi date un passaggio? Vai in città? Annuisco. Lei invece guarda diffidente il suo compagno; in un attimo di esitazione si morde il labbro. Ma poi si decide. Sali allora. Lui non è d'accordo: ma che cazzo me ne frega a me di 'sta qua! Strascica le parole, rutta. Rientra in macchina e sbatte la portiera. Lascialo perdere, ha bevuto un po'. Mi dice lei, mentre mi fa salire dietro.

L'auto va; confabulano vivamente mentre lui a stento guarda la strada buia. Sta zitta! Le urla, mentre le dà una manata. Sei uno stronzo! Buona samaritana dei miei coglioni. Ma non lo vedi che è una bambina? Coglione! Ci poteva pensare il padre. Lui ci ha già pensato, gli dico. Ma a te chi ti ha chiesto niente? Ne vuoi anche tu? Lei mi difende, urla: sei un animale! Continuano a litigare e a non capire; lui a stento riesce a tenere la strada. Mi dispiace per la ragazza, vorrei spiegarle tutto; ma ormai non c'è più tempo. Devo agire. Manuel devi stare attento. Gli dico. Manuel... come fai a sapere il mio nome? Sei troppo veloce, rallenta. Fanculo, mocciosa! So guidare. Arianna, ferma il tuo ragazzo! Lei si gira, mi guarda e impallidisce. La macchina sbanda. Frena! Glielo ordino, ma non capiscono. Frena che qui sono morta io!

Allora Call, un gran bel racconto, la storia è avvincente e terribile. Mi piace anche la scelta narrativa che hai operato, usando un parlato adatto (quasi sempre) a una dodicenne. Se ci lavori un po' potresti farmi togliere quel "quasi sempre"! Purtroppo ci rimangono dei dubbi sulla follia del padre, che lo porterà al gesto estremo di uccidersi e uccidere la piccola. Ma è anche vero che una dodicenne non può parlare di squilibri mentali come se nulla fosse. Per lei quel babbo è l'orco cattivo che vorrebbe tanto veder diventare un principe, perché magari un tempo lo era anche stato. Forse potresti darci qualche ragguaglio quando a parlare è il fantasma, che come entità superiore sa, cosa frullava nella mente del padre. Ma è solo un idea. Sulla scelta stilistica dei dialoghi, che dire. A me non piace, ma io sono una fan delle caporali! però devi lavorarci un po' di più, ancora, in alcuni punti, si fa confusione. Polly Russell

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S ka n Ogni dieci secondi

Mike Wilson era seduto al tavolo della cucina e stava pulendo la sua pistola d’ordinanza, una Beretta 90two. Dopo averla smontata, lubrificò con cura le guide di scorrimento e le sedi delle parti mobili del carrello; poi versò qualche goccia di solvente e passò più volte uno scovolo nell’anima della canna. «Sembri mamma quando lava le orecchie a Tommy» disse Jennifer ridendo. Mike si voltò e vide sua figlia che lo stava osservando. «Jenny, credevo che fossi in camera tua». «È quasi ora di cena e devo preparare». «Allora tolgo subito il disturbo» disse, e rimontò in fretta l’arma: sua moglie non voleva che maneggiasse la pistola quando c’erano i figli in giro. Terminato l’assemblaggio, inserì i proiettili nel caricatore. Jennifer, che aveva osservato con attenzione tutti i pezzi sparsi sul tavolo, chiese: «Papà, perché quella pallottola ha la punta rossa?» «Questa? Perché è a salve; vuol dire che fa solo tanto rumore». «So cosa significa, ma se non è pericolosa, a che ti serve?» chiese ancora più incuriosita. «A fare tanto rumore» ripeté Mike sorridendo, e inserì quell’ultimo proiettile nel caricatore. «Dai, prepara la tavola. Tra poco la mamma sarà qui», e le scompigliò

Cronache dal Multiverso

Le o n a r d o Bo s e l l i

la frangetta bionda con una mano. Lei si ritrasse e protestò: «Papà, smettila! Non trattarmi come una bambina, non la sono più da un pezzo», ma per lui era inconcepibile che la sua Jenny avesse già quindici anni. * * *

Jim Daniels era seduto a gambe incrociate sul suo letto. Stava tentando di studiare storia da un’ora, ma capì che non avrebbe mai superato il test fissato per il giorno dopo, così scagliò il libro sul pavimento; quindi prese un fagotto che aveva nascosto nel cassetto del comodino e lo aprì. Di fronte a lui, sul fazzoletto disteso, era appoggiata una pistola, una Beretta 92, con due caricatori da dieci colpi. Era bellissima, a parte l’abrasione del numero di serie. Passò le dita sul calcio, poi lo impugnò, inserì con decisione uno dei caricatori e fece scorrere il carrello, come gli aveva mostrato il tizio che gliel’aveva venduta. In quell’acquisto aveva investito il computer che gli era costato le mance di un’estate. Si alzò dal letto e si guardò allo specchio. Si vide in calzoncini e tshirt; un ragazzo come tanti altri

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di cui notava soltanto i difetti: le gambe lunghe e secche, e quella testa di capelli sopra le spalle strette. Quindi iniziò una pantomima che aveva provato tante volte. «Ehi, tu, stronzo!» si disse. «Dici a me? No, dico... dici a me? Eh, sì; non ci sono che io qui» si rispose, quindi di scatto tese il braccio e puntò la pistola all’immagine nello specchio. «Vaffanculo figlio di puttana. Che fai? Non parli più? Ti sparo in quella testa del...» «Jim, stupido incapace! Dove sei? È pronto da mezz’ora!» sentì gridare dal piano di sotto. Abbassò il braccio. Lo aspettavano per la cena. Intorno al tavolo poteva immaginare sua madre che taceva in un angolo, la sorellastra che lo avrebbe provocato per tutta


la durata del pasto, e il patrigno che, con disprezzo, gli ricordava in ogni momento quanto fosse stupido e debole. Non aveva mai avuto il coraggio di affrontarli, ma in quel momento non si sentiva né stupido, né debole. * * * Quella mattina Mike si stava recando a un sopralluogo. Robert, il detective con cui indagava, era alla guida dell’auto e lo stava ragguagliando sugli ultimi sviluppi del loro caso. A un certo punto la radio annunciò: “A tutte le unità nei

pressi della Jefferson High School. Sparatoria in corso. Un agente ferito. Convergere sull’edificio scolastico ”.

«Non è la scuola di tua figlia?» chiese Robert allarmato. Mike, che aveva già messo il lampeggiante sul tetto, disse: «Presto, torna indietro!» L’auto, al suono della sirena, fece un’inversione a “U” nel traffico. Erano lontani e non sarebbe stato loro compito intervenire, ma questa volta era diverso. Per tutto il tragitto, Mike tentò più volte di chiamare Jennifer al cellulare, ma non ottenne risposta. Suonava a vuoto. Quando giunsero alla scuola, la trovarono già circondata e parcheggiarono tra due volanti con i lampeggianti accesi. Il terreno intorno all’edificio era deserto; si poteva notare solo un corpo disteso sulle scale dell’ingresso, in apparenza senza vita. Allora Mike chiese ragguagli

all’ufficiale di polizia che dirigeva le operazioni. «C’è stata una sparatoria. Molti studenti sono fuggiti, ma alcuni di loro, forse una decina, sono ancora in ostaggio all’interno. Sembra che il responsabile sia un solo studente. Ora sto aspettando la squadra del negoziatore». «Le perdite?» «Uno dei primi agenti accorsi ha provato a entrare, ma è stato colpito non gravemente all’ingresso. Comunque, è riuscito ad accertare che il ragazzo steso sulle scale è morto. Tra gli evacuati c’è un altro ferito leggero, lo trovi laggiù», e indicò un’ambulanza poco lontano. Mike riconobbe l’insegnante di scienze di sua figlia, al quale un paramedico stava medicando una ferita al braccio, mentre un agente lo interrogava. «Sono il padre di Jennifer Wilson; mi può spiegare che cosa è successo?» Il professore, visibilmente scosso, si guardava il braccio e ripeteva: «È stato Jim... l’ha presa male... è colpa mia». L’agente intervenne: «È in stato di choc, ma la ferita non è grave. Ha riferito di uno studente, Jim Daniels, che si è presentato a scuola con un’arma e ha fatto fuoco più volte. A quanto sembra, non tirava nel mucchio, ma selezionava con cura i suoi bersagli». L’insegnante continuava a farfugliare: «È colpa mia... quel “D” nel test... l’ha presa male». «Cosa ne è stato di mia figlia? Ha visto Jennifer Wilson?» gli chiese Mike, mentre continuava a chiamare col cellulare senza ottenere risposta.

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«Jennifer Wilson? Jennifer e Jim frequentano entrambi il mio corso... non so dov’è ora». Il paramedico li interruppe: l’ambulanza doveva partire. Mike cercò di ricordare chi fosse quel Jim di cui parlava l’insegnante. Non conosceva bene i compagni della figlia, ma gli venne in mente, due o tre mesi prima, un ragazzo strano, con problemi negli studi e in famiglia. Jenny aveva cercato di aiutarlo, ma lui in poco tempo aveva maturato un attaccamento eccessivo, e lei aveva preferito ridurre sempre più i contatti. Però le telefonate a casa si erano fatte insistenti e Mike a un certo punto si era intromesso. Non ricordava più con quali argomenti, ma intervenne in modo molto deciso perché quella persecuzione cessasse. Da quel giorno il ragazzo non si era più fatto sentire, e anche a scuola si teneva a distanza. Intanto, sul posto era arrivato Tom Scalise, il negoziatore del distretto, con la squadra d’assalto. Sembravano tutti ansiosi di risolvere la faccenda in fretta, prima che intervenissero i federali, e la cosa non piaceva per nulla a Mike, perché non aveva ancora scoperto dov’era Jennifer e se stava bene. «Ancora nulla?» chiese Robert. «Non risponde. Potrebbe aver perso il cellulare, però non è a casa, mi avrebbero già avvertito». Il quel momento squillò il telefonino. La suoneria corrispondeva a Jennifer e il display lo confermava. «Pronto, Jenny! Dove sei?» Silenzio.


«Jenny? Come stai?» Ancora silenzio. Poi una voce maschile disse: «Signor Wilson, Jennifer è qui con me e sta bene». «Chi parla? Sei Jim? Dove siete?» Ci fu una lunga pausa. Tom Scalise, che si trovava nei pressi, intuì la situazione e cercò di farsi consegnare il cellulare; diceva che Mike non era qualificato e, se davvero la figlia era in ostaggio, avrebbe potuto causare dei danni. Poi la voce riprese: «Se sono Jim? Non so più chi è Jim, ma so chi è Mike Wilson: il grande detective, l’idolo di Jenny; inarrivabile, perfetto, nessun uomo è alla sua altezza, tanto meno un ragazzo». Detto questo, la comunicazione si interruppe. «Jim, Jim! Fammi parlare con Jenny», ma ottenne come risposta solo il segnale della linea interrotta. Tom insistette: «Mike, sei troppo coinvolto. Ti devo chiedere il cellulare. Se dovesse richiamare risponderò io. Lo sai, la procedura è questa. È anche per il bene di tua figlia». «Non so neppure se è davvero viva» disse Mike senza reagire, e Tom gli prese il telefonino. Il mondo gli crollava addosso: nella migliore delle ipotesi la sua bambina era nelle mani di uno squilibrato armato; nella peggiore... ma scacciò dalla mente quel pensiero.

credibilità che man mano si conquistava, affinava quel profilo. In alcuni casi, era riuscito a ottenere la liberazione degli ostaggi e la resa dei sequestratori dopo aver promesso l’impossibile, ma senza aver concesso nulla di concreto. Ora osservava la scena su cui si stava consumando quel crimine. L’edificio della Jefferson High School era a forma di “H” e disposto su due piani. Lungo tutto il perimetro si aprivano ampie vetrate, alcune delle quali oscurate da tende. La palestra e i campi da gioco erano sul retro, mentre il terreno di fronte alla facciata era occupato da un prato ben tenuto. Di fianco all’ingresso, in cima a una lunga asta, sventolava la bandiera, mentre sui gradini giaceva ancora il corpo del ragazzo morto. Intorno all’edificio, a distanza di sicurezza, erano parcheggiate le auto della polizia, al riparo delle quali numerosi poliziotti ad armi spianate stavano attendendo ordini, mentre ancora più indietro l’assedio era sostenuto dalle troupe televisive. Tom aveva tentato più volte di comunicare con Jim utilizzando il cellulare, ma non c’era riuscito. Neppure le sollecitazioni col megafono avevano suscitato qualche risposta. Questo lo preoccupava, perché doveva assolutamente stabilire un contatto per fare progressi e sperare di migliorare una situazione già molto compromessa. * * * Il profilo che aveva ottenuto dal preside non faceva presagire nulla di Tom Scalise era arrivato a buono; inoltre, aveva saputo che quell’incarico da negoziatore a fine quel ragazzo assassinato all’ingresso carriera, ma lo sentiva suo da era noto per i suoi atteggiamenti da sempre. Metteva a punto con rapidi- bullo e di certo Jim ne aveva subito i tà un profilo sommario dei soggetti soprusi. con cui aveva a che fare e, coSembrava che tutte le uccisioni ristruendo un rapporto basato sulla ferite dai testimoni fossero mirate e

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che si stesse consumando una vendetta che covava da mesi. Sapeva come finivano queste faccende: con un suicidio al termine di una carneficina. Un agente si avvicinò e disse: «Tenente, aveva chiesto di rintracciare i genitori del...» «Sì, la madre può esserci d’aiuto». «Ho una brutta notizia: a casa del ragazzo hanno trovato tre cadaveri». Doveva immaginarlo, la vendetta era iniziata molto prima e ora stava giungendo all’epilogo. In quel momento suonò il cellulare sequestrato a Mike e Tom rispose: «Pronto!» Silenzio. «Jim, sono il tenente Scalise della polizia di Los Angeles. Qualunque cosa ti serva puoi chiedere a me». Ancora silenzio. «Jim, ascoltami. Io ho l’autorità per trattare. L’importante è che tu non faccia del male ad altre persone. So che hai degli ostaggi. Come stanno? Avete bisogno di...» «Io voglio parlare con Mike». «Certo, potrai parlare con Mike. Ti posso concedere tutto quello che desideri, ma tu devi venirmi incontro. Basta un po’ di buona volontà». «Passami Mike! Passamelo, o ammazzo un ostaggio, uno a caso. Ho già ucciso tante persone, una in più non fa differenza». Nel frattempo, un tecnico della squadra d’assalto fece capire a Tom che la posizione del cellulare di Jennifer era stata individuata; sulla planimetria della scuola, indicò un’aula che si trovava al secondo piano. «D’accordo, ti lascio parlare con Mike, però mantieni la calma. Va tutto bene». Mike prese il cellulare dalle mani


di Tom, che si raccomandò con uno sguardo eloquente. «Jim, sono il padre di Jennifer». «Signor Wilson, ora voglio che entri nella scuola». «Tutto quello che chiedi, ma prima libera Jennifer». Tom si mise le mani sulla testa rasata: era un gesto di disapprovazione nei confronti di Mike, perché avrebbe dovuto chiedere tutti gli ostaggi, per poi trattare. Il ragazzo rispose: «Credi che io sia stupido, ma ti sbagli di grosso. Se vuoi rivedere Jennifer, devi venire qui». «Ti prego, fammi prima parlare con lei». Dopo un lungo silenzio Mike sentì la voce di sua figlia: «Papà, sto bene. Non preoccuparti, Jim non vuole farmi del male». «Jenny! Stai tranquilla, ti libereremo». «Non preoccuparti per me. Qui ci sono cinque ragazzini e sono terrorizzati, li minaccia con una pistola, una come la tua...» Si sentì del trambusto, poi Mike udì nuovamente la voce di Jim: «Vuoi uno scambio? Tu entri e i cinque cacasotto escono, ma se vuoi Jenny devi venire a prendertela». «Mandali fuori e io entro. Ti do la mia parola». * * * Jennifer si trovava seduta sul pavimento dell’aula, con le caviglie e i polsi legati da lacci di plastica. Fino a poco prima, accanto a lei c’erano cinque ragazzini del primo anno che piangevano e frignavano; adesso era sola con Jim. Lui percorreva la stanza a grandi passi e faceva la spola tra la finestra e la porta; all’andata

sbirciava tra le lamine orizzontali della tenda, mentre al ritorno guardava il corridoio attraverso il vetro della porta. «Jim, l’unica via d’uscita è arrendersi». Disse quella frase con una calma che la sorprese. Credeva di non aver nulla da temere da quel ragazzo; sapeva che le voleva bene, perché le aveva confidato che era l’unica persona che si fosse accorta di lui da quando era nato. «Jim, hai bisogno d’aiuto. Non eri in te quando hai sparato». «Sta’ zitta! Tu non sai nulla di me. Ho pianificato tutto e non ho ancora terminato». Quell’ultima frase gelò il sangue di Jennifer che non osò aggiungere altro. Pensò a suo padre, alla mamma, a Tommy. Pensò a tutte le cose che non aveva ancora fatto, ma sognava di fare. In quel momento le sue certezze crollarono e la vita ora sembrava poter finire; quella fine così evanescente, che prima non esisteva, adesso era talmente reale da potersi toccare. «Siamo troppo giovani per morire!» Il ragazzo non rispose, era perso nei suoi pensieri, nel suo piano. «Jim, mio padre ti può davvero aiutare». Quella frase fece effetto. La spola tra la finestra e la porta cessò. Il ragazzo la guardò e poi, brandendo la pistola nell’aria, disse: «Tuo padre! Sono tutti uguali, egoisti, pensano solo a loro stessi. Ha temuto che ti portassi via da lui e mi ha minacciato. Allora ho avuto paura e mi sono tirato indietro, ma ora non ho più paura, è sparita, e ti mostrerò chi è davvero tuo padre. Solo io tengo a te veramente».

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Jennifer finalmente riuscì a piangere. Si era detta che doveva essere forte, che era necessario mantenere la calma, ma era crollata: pretendeva di essere più grande di quello che era, ma voleva ancora essere una bambina. Suonò il cellulare. Era Tom Scalise che ringraziava per gli ostaggi rilasciati e chiedeva se lui e Jennifer avevano bisogno di cibo e acqua. «Non prendermi in giro. Ho un accordo con il signor Wilson». Poi, mentre guardava sconsolato la sua arma, aggiunse: «A proposito, non deve venire disarmato. Voglio che entri con la sua pistola». * * * Mike aveva discusso a lungo con Tom. Dopo il rilascio dei ragazzini, doveva consegnarsi al più presto, ma il negoziatore non era d’accordo. Sosteneva che la squadra d’assalto era ormai posizionata e bisognava solo attendere il momento propizio. Infatti, sul tetto dell’edificio, quattro agenti con elmetti e fucili d’assalto stavano fissando le corde per calarsi, mentre altri sei si radunavano nei pressi dell’ingresso. Allora Mike, piantato in asso Tom, scavalcò le transenne e corse verso la scuola. Passò accanto ai componenti della squadra d’assalto accovacciati all’ingresso e, senza guardare il corpo steso sulle scale, aprì quel che rimaneva della porta, un telaio dai vetri infranti. All’interno, lungo il corridoio, c’erano altri due cadaveri e vide cinque bossoli sparsi. Si chiese quanti proiettili fossero rimasti nella pistola del ragazzo. Contò almeno tre colpi a casa di Jim e qui altri


cinque sicuri: aveva quasi svuotato un caricatore. Giunse alle scale e cominciò a salire. La squadra d’assalto lo seguiva discreta come un’ombra; le teste di cuoio strisciavano lungo le pareti e controllavano col fucile spianato ogni aula. «Jim, dove sei? Sono Mike. Sto salendo!» Al piano superiore gli si presentò un nuovo corridoio, con altri corpi stesi sul pavimento. Ormai era chiaro che era stato utilizzato un secondo caricatore. Non poteva rischiare, quel ragazzo doveva avere ancora molte munizioni. Chiamò ancora. «Jim!» Una porta si socchiuse a metà corridoio, ma non era la stanza che i tiratori scelti stavano tenendo d’occhio. Si doveva essere spostato. Il sergente della squadra si accorse dell’errore e lo comunicò sottovoce, per radio, ai commilitoni sul tetto. Mike estrasse la sua pistola e la impugnò per la canna, tenendola bene in vista, e giunse di fronte alla porta aperta di una stanza semibuia. «Finalmente sei arrivato» disse Jim, nascosto all’interno. Il sergente, la schiena alla parete, si accovacciò di fianco alla porta, seguito a breve distanza dal resto della squadra. La voce continuò: «Appoggia la pistola per terra e spingila dentro con un calcio, poi togliti il giubbotto antiproiettili e fai un giro su te stesso». Mike si chiedeva perché volesse la pistola. Forse aveva esaurito i proiettili e se gliel’avesse consegnata l’avrebbe riarmato, ma non vedeva alternative. «Prima voglio sentire se Jennifer sta bene».

«È qui. Le ho messo del nastro adesivo sulla bocca. Mi dava noia e ora deve solo ascoltare». Fece quello che gli aveva detto il ragazzo, mentre a gesti il sergente cercava di dissuaderlo, ed entrò nella stanza semibuia. La sua pistola era sparita. «Inginocchiati, le mani sulla testa», e Mike eseguì. Poi Jim continuò: «Hai una bella pistola, è come la mia. Sai, avevo esaurito i colpi. Non sono molto bravo, avevo calcolato che due caricatori potessero bastare, ma ho dovuto sparare più volte su ogni bersaglio. Purtroppo l’insegnante di scienze mi è sfuggito, ma con un proiettile in più anche lui avrebbe avuto ciò che si meritava». «Jennifer non c’entra nulla, lasciala andare, ti prego» disse Mike supplicando. «Ti ricordi cosa mi hai detto al telefono due mesi fa?» Mike non rispose. «Che se avessi importunato ancora tua figlia mi avresti sistemato, che tu lavoravi in polizia e conoscevi tanti metodi per togliermi di mezzo. Ma soprattutto mi hai detto che ero un incapace e che tua figlia non doveva perdere tempo con uno come me. Allora ti ho creduto, ma poi ho capito: non volevi che te la portassi via e lei ti vuole troppo bene per contrariarti». Durante quel discorso, Mike aveva lentamente voltato la testa e poteva vedere, a pochi metri da lui, il ragazzo che gli puntava la pistola. Un po’ più in là c’era Jennifer, stesa sul pavimento e immobilizzata dai lacci, dal nastro adesivo e dalla paura. Jim riprese fiato, poi continuò: «Vedi, io ti ammiravo. Jenny mi raccontava tutto di te, di quello che sapeva del tuo lavoro, della tua pi-

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stola d’ordinanza, tutto. Ma ora dimmi, chi è l’incapace? Chi non ha saputo difendere sua figlia?» Mike rispose: «Io, Jim. Io». «Chi ha il potere? Chi può toglierti di mezzo?» «Tu, Jim. Tu hai il potere». «Sì, ora ho un caricatore intero, ma nel piano originale mi sarebbero bastati tre colpi: uno per te, uno per Jenny e uno per me». Seguì un silenzio che sembrò eterno. Mike pensò che, se il sergente aveva intenzione di fare qualcosa, quello era il momento. In quell’istante una specie di barattolo rotolò sul pavimento verso di lui. Istintivamente chiuse gli occhi e abbassò le mani sulle orecchie. Jim allarmato fece in tempo a esplodere un colpo e lo sbuffo caldo del proiettile a salve investì la testa di Mike, mentre la granata a stordimento esplodeva con un fragore assordante e un lampo accecante illuminava l’aula. Subito dopo le finestre andarono in frantumi e la squadra fece irruzione nella stanza urlando. Jim, cieco e disorientato, tentò di sparare ancora, ma cadde crivellato da una raffica. Dopo aver tastato il collo del ragazzo, il sergente disse: «Il locale è sicuro ora. È tutto finito». Negli Stati Uniti ogni dieci secondi viene prodotta una pistola e ogni cinque minuti qualcuno viene ferito o ucciso a colpi d’arma da fuoco.

FINE


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Nella pancia del Drago http://www.sulromanzo.it/redazione/andrea-atzori

dievale, moderno e… – hold your breath – contemporaneo. È da questa ingenuità concettuale – che causerà tic al sopracciglio ai critici di professione, sia difensori che detrattori del postmodernismo – che mi sono permesso di portare l’argomento all’attenzione gastrica del nostro drago. Fantasy e postmoderno, un ossimoro? Chi parla di fantasy nella blogsfera contemporanea è solitamente allergico agli sproloqui critici sul valore simbolico-stilistico-acusmatico-urbanistico di questo o quell’altro autore o corrente letteraria. Di solito si preferisce parlare della conditio sine qua non che rende un’opera attribuibile al fantasy degna di essere letta: lo stile. La ragione è che il fantasy, Fantasy Postmoderno: essendo una letteratura che mira a narrare di mondi secondari in completa mimesi, affida la percezione u n o s s im o r o ? della coerenza degli stessi alla continuità del Fictional Dream che, tramite uno stile ridondante o barocco, crollerebbe scaraventando il lettore indieSi sa, tutto può essere postmoderno: un’epoca, un racconto, un intero genere letterario; una lampada, tro sulla poltrona di casa sua o, peggio, tra le pagine di un dizionario. una balaustra, una cassapanca, un elfo, etc. etc. Ci sono cascato, sto parlando di postmodernismo. Ebbene sì, anche soltanto per questo motivo la Mi ero ripromesso di non farlo, mai, nella mia vita. letteratura fantasy come tutta la letteratura “di Non era neanche nella scaletta di questa rubrica. È genere” si potrebbe definire la quintessenza del saltato fuori con forza autonoma, volontà cosciente, postmoderno. Lo so, lo so, è un brutto colpo per postmoderna, oserei dire. Perché vedete, io faccio voi. Mettetevi comodi, fatevi una cioccolata, preparte dei molti – come voi lì, che leggete con quel notate lo psicanalista, iscrivetevi a kick-boxing. La piglio postmoderno – che quando leggono o sento- supererete, vi do la mia parola di redattore, insieme possiamo farcela. Postmodernisti anonimi, Sul Rono postmoderno soffrono di un pericoloso tic nervoso al sopracciglio e balbettano. P-p-p-p-post manzo, ogni mese presso Nella pancia del drago, ore 12:00 giù di lì. Dopo un mesetto ricomincerete c-cosa? a visualizzare gli elfi senza la bandana e gli occhiaSarà che vengo da comunissimi studi di Storia ma, letti di Foster Wallace. da letterato ignorante quale mi reputo (se non altro per assicurarmi discreti margini di miglioramento), Ma il postmodernismo non era quella cosa tutta sticontinuo per deformazione professionale a pensare le e niente contenuti, tutta nuvolezze e sfarfallii e il continuum storico in un dato modo: antico, me- irriverenza saccente? Tipo un Futurismo senza

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punteggiatura e con le onomatopee “Burp!” – fece il drago. Molti ancora lo credono. Torniamo però a monte sia del fantasy che del postmoderno: il Modernismo. Nella prima metà del Novecento, mentre la letteratura riceveva il terremoto dei vari Joyce ed Eliot, dalle crepe si affacciavano lavori seminali quali The King ofElfland’s Daughter di Lord Dunsany (1924), precursori di quello che sarebbe stato, circa un ventennio dopo, “l’aureo Trecento” del fantasy, con Howard, Lewis e Tolkien. Seppure Modernismo e Fantasy condividessero la stessa repulsione per le costrizioni narratologiche imposte dal Realismo, nonché uno dei tecnicismi fondamentali del fantasy contemporaneo – la parallassi (i cambi di PoV, per voi blogger-critici-facili), la critica modernista fu assolutamente impreparata a decifrare i pilastri del genere fantastico. Prima di tutto, il fantasy non rifiutava affatto la soggettività introspettiva del Romanticismo, e a questo univa l’anacronistico recupero della tradizione, dell’epica, del mito e del folklore. Questa estetica contribuì per la maggiore a farlo passare da subito come letteratura di intrattenimento e, perciò, bassa nel senso “popolare” del temine (per i lord modernisti). Il fantasy, bistrattato sia dal Realismo che dal Modernismo, pur non nascendo in sé come letteratura postmoderna ne incarnava così le istanze di rottura verso il gusto dominante. Nelle precedenti puntate si è visto come proprio tramite la maschera dell’intrattenimento il fantasy miri in realtà a trascendere il reale per mettere in contatto il lettore con degli archetipi di verità essenziali riguardo se stesso-essere umano. Questo ricorda molto la definizione che Jean-Francois Lyotard diede del postmoderno: «postmodern works stress the incommensurability of human existence» (The Postmodern Condition, 1984). In altre parole, come il postmodernismo anche il fantasy si colloca verso l’essere umano non più come letteratura epistemologica, che cerca cioè di svelare de facto l’episteme della condizione umana, ma ontologica, letteratura dell’essere punto e basta (McHale, Postmodernist Fiction , 1987), che tenta di congelare la particella uomo in uno dei suoi infinitesimali moti perché serva da lampo di comprensione sui restanti, destinati a rimanere ignoti. Esso è il what if dei maestri della fantascienza, è la meta-esistenza del Cyberpunk. Ciò che Fantasy e postmodernismo condividono è una

quest epica per salvare la realtà da se stessa. Diceva Foster Wallace: […] many of the writers I admire […] are interested in using postmodern techniques, postmodern aesthetic but being able, by using that, to discuss or represent very old, traditional human varieties that have to do with spirituality and emotion, and community […] Wallace, che non scriveva fantasy, parlava di fantasy. Parlava di tutta la letteratura di intrattenimento di “genere” che tenta di salvare il reale dal baratro dell’ironia. Quel senso di impotenza nel non poter più prendere nessuna storia sul serio, il diktat dell’intrattenimento televisivo trincerato dietro il sarcasmo e «impermeabile ai tentativi di disarmo della letteratura» (Carlotta Susca, David Foster Wallace, nella Casa Stregata, 2012). Una lotta impari, che per essere sostenuta doveva mettere a servizio dei propri contenuti le stesse armi del nemico. Ecco così il Re, l’altra faccia del postmoderno, quello Stephen King che svanisce dentro le proprie opere, lo stile che si lima al punto di divenire ciò che narra per non spezzare il Fictional Dream e mostrare, non raccontare (sounds familiar?), come e meglio di una televisione. Aramostre e mondi paralleli capaci con le loro serissime assurdità di dire al lettore di se stesso più di qualsiasi morale contemporanea. Fantasy e postmoderno non sono un ossimoro. C’è chi tra le schiere di illustri critici si azzarda a definire l’intera letteratura contemporanea come al servizio dell’autenticità in un intellettualmente sobrio New Realism lontano dalle «evasioni di genere» (E.Docx). Personalmente credo che la contemporaneità letteraria, grazie anche alla rivoluzione dei serial TV e al mondo del fumetto, danzi ai fuochi e ululi alla luna invocando il Grande Cthulhu mai come in passato, e nel farlo si prenda intellettualmente e moralmente molto molto sul serio. Per i Grandi Antichi come per il postmoderno: «having no beginning, will have no end» (Clive Barker, Weaveworld, 1987). Ci ritroviamo con la puntata n. 9 e tre quarti della rubrica Nella pancia del drago: Contenuto invisibile alla comunità non-magica.

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I Libri da rileggere I l Lu p o d e i Ci e li

di Edmond Moore Hamilton

Il lupo dei cieli

di Edmond Moore Hamilton

Il romanzo “Il lupo dei cieli”, conosciuto anche come “Il fuggiasco della Galassia” (“The Weapon from Beyond”) di Edmond Moore Hamilton è stato pubblicato per la prima volta nel 1967. È il primo libro della trilogia di Morgan Chane. In Italia è stato pubblicato con il titolo “Il fuggiasco della Galassia”

dalla Libra Editrice all’interno del n. 29 de “I Classici della Fantascienza”, da Fanucci all’interno del n. 4 de “I Classici della Fantascienza e della Fantasy” e dall’Editrice Nord all’interno del n. 178 di “Cosmo Oro” nella traduzione di Ugo Malaguti e con il titolo “Il lupo dei cieli” nel n. 481 di “Urania”, all’interno del “Millemondinverno 1976″ e all’interno del n. 130 di “Urania collezione” nella traduzione di Mario Galli. Morgan Chane è un Lupo dei Cieli cresciuto su Varna, un pianeta ad alta gravità i cui abitanti sviluppano una forza enorme, ma è di origine terrestre. In una rissa uccide un altro Lupo dei Cieli e a quel punto viene braccato dai suoi ex compagni, che lo vogliono uccidere. Ferito, non gli resta che sperare nell’aiuto della prima astronave di passaggio ma si tratta di mercenari. Il comandante dei mercenari capisce che Morgan Chane è un Lupo dei Cieli ma accetta di mentenere segreta la sua identità in cambio del suo aiuto in un lavoro. Il gruppo di mercenari riceve l’incarico di salvare un pianeta da un nemico che pare abbia trovato un’arma di una potenza distruttiva mai vista. Edmond Hamilton è stato un maestro della space opera più classica, quella in cui il lato avventuroso era il più importante e offriva molto sense-of-wonder con viaggi tra le stelle e su pianeti esotici. Il ciclo di Morgan Chane appartiene all’ultima fase della carriera di Hamilton, quella più matura in cui l’autore aveva perfezionato il suo stile.

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“Il lupo dei cieli” è ambientato in un universo narrativo in cui esistono molte specie umanoidi. Una di queste specie vive sul pianeta Varna, dove la gravità è molto elevata perciò gli abitanti sviluppano capacità fisiche molto maggiori di quella dei terrestri. I genitori di Morgan Chane erano missionari terrestri che vanno su Varna per cercare di convertire i nativi ma soccombono alla gravità del pianeta. Il loro figlio è abbastanza giovane da riuscire ad adattarsi e diventa un Lupo dei Cieli, un pirata come tutti i varniani. Il romanzo comincia con Morgan Chane in fuga dai Lupi dei Cieli. In seguito ad un disaccordo sulla divisione del bottino di una razzia, ha ucciso un altro Lupo e improvvisamente tutti lo considerano un alieno da uccidere senza pietà. Per sua fortuna, viene salvato da un’astronave di passaggio il cui equipaggio è composto da mercenari ma deve nascondere la sua identità perché il resto della galassia dichiara un giorno di festa quando un Lupo dei Cieli viene ucciso. L’unico a conoscere il segreto di Morgan Chane è John Dilullo, un terrestre che per la precisione viene da Brindisi al comando di un gruppo di mercenari. Il suo istinto è quello di uccidere Chane ma si rende conto che un uomo con le sue capacità può essere utile come membro del suo equipaggio. I due finiscono per fare un patto per aiutarsi a vicenda anche se non si fidano l’uno dell’altro. La space opera dell’epoca era basata sulla narrazione di viaggi spaziali con grandi avventure e un interesse limitato per lo sviluppo dei personaggi. A differenza di altre space opera dell’epoca, Edmond Hamilton mostra anche poco interesse per il lato tecnologico per cui non ci sono spiegazioni per la propulsione delle astronavi interstellari o per i vari prodotti di tecnologie aliene incontrati nel corso del romanzo.

Anche Edmond Hamilton si concentra particolarmente sulla fuga di Morgan Chane dai Lupi dei Cieli e sul suo “lavoro” con i mercenari ma cerca almeno di creare un personaggio che vada oltre gli stereotipi, anche nella sua contrapposizione a John Dilullo. Morgan Chane è per molti versi un anti-eroe e nonostante sia figlio di missionari è fondamentalmente amorale come gli altri Lupi dei Cieli. Tuttavia, all’inizio di “Il lupo dei cieli” quello che lui considerava il suo popolo vuole ucciderlo: questo fa di lui un alieno dovunque vada e lo costringe a pensare per la prima volta nella sua vita alla sua situazione. John Dilullo è un comandante che gode di grande considerazione tra i mercenari ma sta cominciando a invecchiare. Nella sua posizione, non riuscire a portare a termine un lavoro vuol dire perdere la fiducia degli altri mercenari. Se i suoi colleghi cominciassero a pensare che non è più quello di una volta, per lui sarebbe la fine e non è solo un problema economico ma anche una prospettiva di cui ha una grande paura perché per lui la sua reputazione è importantissima. Queste particolari circostanze portano Morgan Chane e John Dilullo ad affrontare assieme varie avventure. Il loro rapporto è strano perché almeno inizialmente non si fidano l’uno dell’altro e la loro collaborazione è forzata ma pian piano i due imparano a rispettarsi a vicenda. “Il lupo dei cieli” è uno dei migliori esempi di space opera avventurosa. Non è certo sofisticato come certe space opera odierne ma il sense-of-wonder creato da Edmond Hamilton è davvero notevole in una storia che scorre molto bene con un ritmo elevato. Per questi motivi è secondo me un romanzo da leggere.

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I Libri da Rileggere Pianeta Perduto di Edmond Moore Hamilton

“Pianeta perduto” dalla Libra Editrice nel n. 91 di “Galassia”, all’interno del n. 4 di “Bigalassia” e all’interno del n. 29 de “I Classici della Fantascienza”, da Fanucci all’interno del n. 4 de “I Classici della Fantascienza e della Fantasy”, dall’Editrice Nord all’interno del n. 178 di “Cosmo Oro” e da Mondadori all’interno del n. 43 di “Millemondi” nella traduzione di Ugo Malaguti e con il titolo “I mondi chiusi” all’interno del n. 130 di “Urania collezione” nella traduzione di Giuseppe Lippi. Morgan Chane, il Lupo dei Cieli inseguito dai suoi ex compagni predoni, ha scelto di continuare a lavorare come mercenario assieme al comandante John Dilullo. Sulla Terra, mentre è in attesa di un nuovo incarico, decide di fare un viaggio in Galles, la patria da dove partirono i suoi genitori. Dilullo riceve l’incarico da un miliardario di cercare suo fratello, di cui non ha più notizie dopo che è partito per una spediPianeta perduto zione sul pianeta Arkuu. Guidando un di Edmond Moore Hamilton gruppo di mercenari che include Morgan Chane, deve affrontare un ambiente decisamente ostile, non solo per gli abitanti senzienti ma anche per la terribile giungla che nasconde creature letali. Il romanzo “I mondi chiusi”, conosciuto “I mondi chiusi” è la seconda avventura di anche come “Pianeta perduto” (“The Clo- Morgan Chane, il Lupo dei Cieli costretto sed Worlds”) di Edmond Moore Hamilton a scappare dai suoi compagni di saccheggi è stato pubblicato per la prima volta nel dopo aver ucciso uno di loro. Nel primo 1968. È il secondo libro della trilogia di romanzo della trilogia aveva incontrato Morgan Chane e segue “Il lupo dei cieli. John Dilullo, un comandante mercenario In Italia è stato pubblicato con il titolo che l’aveva salvato solo per poterlo

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sfruttare come membro del suo equipaggio. Morgan Chane è cresciuto sul pianeta Varna, dove la gravità è molto elevata perciò i suoi abitanti sviluppano capacità fisiche molto superiori a quelle dei terrestri e sono i pirati più feroci dello spazio. Di conseguenza, Dilullo pensa che Chane possa essere un ottimo mercenario ma almeno inizialmente non si fida di lui. Edmond Hamilton scriveva space opera del tipo classico, molto avventuroso in cui i personaggi erano spesso secondari. Tuttavia, ne “I mondi chiusi” c’è almeno un discreto sviluppo dei protagonisti perché le esperienze vissute da Morgan Chane l’hanno cambiato e il suo rapporto con John Dilullo è migliorato nel tempo. Morgan Chane si è sempre considerato un Lupo dei Cieli ma è originario della Terra. A causa della sua particolare situazione è un alieno dovunque, anche perché la sua identità deve rimanere segreta. John Dilullo si è preso un rischio nel salvarlo sapendo chi era mentre chiunque altro lo avrebbe ucciso perché i Lupi dei Cieli sono pirati. Per cercare di ritrovare se stesso, all’inizio di “I mondi chiusi” Morgan Chane approfitta del fatto che il gruppo di mercenari comandato da John Dilullo è andato sulla Terra per un possibile nuovo lavoro per fare un viaggio in Galles, la patria dei suoi genitori. In qualche modo, passando un po’ di tempo assieme ai gallesi e trovando qualche suo parente, riesce a sentirsi meno alieno. Nonostante questo sviluppo, “I mondi chiusi” è fondamentalmente un romanzo di fantascienza avventurosa. I mercenari comandati da John Dilullo viaggiano verso un gruppo di pianeti i cui abitanti sono iso-

lazionisti e perfino i Lupi dei Cieli li lasciano in pace. Il loro compito è ritrovare un miliardario partito per una spedizione che da tempo non dà più notizie. “I mondi chiusi” non è un’avventura tra le stelle come il primo romanzo della trilogia: stavolta i pericoli arrivano su un pianeta dai suoi vari abitanti. Si tratta di umanoidi senzienti che non vogliono stranieri tra di loro ma anche di una giungla che nasconde vari pericoli letali. Durante la loro ricerca, i mercenari incontrano anche Vreya, una ragazza del pianeta Arkuu. Tra lei e Morgan Chane nasce qualcosa ma non si può dire che ci sia una storia d’amore. Nelle opere fantascientifiche di quell’epoca c’era poco spazio per il romanticismo e questo è un elemento più tipico di Leigh Brackett, la moglie di Edmond Hamilton. Anche se ufficialmente i due autori raramente lavoravano assieme, in realtà spesso collaboravano e ne “I mondi chiusi” l’influenza della Brackett sul marito è più evidente del solito. “I mondi chiusi” è un esempio di fantascienza avventurosa di una volta. La storia ha un ritmo elevato con tanti colpi di scena e una trama lineare. Se cercate sense-ofwonder senza troppe complicazioni ve ne consiglio la lettura.

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I libri da rileggere L'Uomo a un grado kelvin di Piero Schiavo Campo

stico è ad un punto cruciale ma il professor Jan De Ruiter, uno degli scienziati che ci hanno lavorato. viene trovato morto. Trattandosi di un progetto europeo viene coinvolta la Polizia Europea, che però deve collaborare con la Polizia Lombarda nelle indagini attorno al laboratorio di Milano del CEPS, l’organizzazione che ha sviluppato l’apparecchiatura. L’agente Richard Watson della Polizia Europea è stato inviato a Milano per l’indagine. Una pista della Polizia Lombarda porta ad un coinvolgimento di una banda di cetnici che probabilmente ha contatti russi ma allora perché le indagini di Watson lo portano rapidamente verso una pista cinese? Spesso gli autori italiani inseriscono elementi noir anche in romanzi di fantascienza e questo si è visto in alcune delle opere che negli anni scorsi hanno vinto il premio Urania. Forse perché Piero Schiavo Campo ha una formaL'uomo a un zione più scientifica rispetto a quella dei suoi grado Kelvin colleghi, che generalmente è umanistica, ha di Piero Schiavo Campo scritto un romanzo che è per molti versi un giallo fantascientifico ma più “normale” come giallo e più “hard” come fantascienza. “L’uomo a un grado Kelvin” è ambientato nel 2061, principalmente in una Milano futura che rispecchia un’Italia che sta ancora facendo i Il romanzo “L’uomo a un grado Kelvin” di Piero Schiavo Campo è stato pubblicato per la conti con le conseguenze degli anni bui della recessione economica e sta cercando di prima volta nel 2012 da Mondadori nel n. rientrare nell’area Euro. La città è di fatto di1600 di “Urania”. È il vincitore del premio visa in aree abitate da diverse etnie che si sono Urania 2012. rinchiuse in vere e proprie enclavi. Il progetto di realizzare il teletrasporto quanti-

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La situazione politica, sociale ed economica in questo futuro è delineata solo attraverso descrizioni connesse alla trama e dettagli sparsi qua e là nella storia. Il maggiore approfondimento di questi temi, originariamente previsto da Piero Schiavo Campo è stato ridotto per rientrare nei limiti di lunghezza previsti dalle regole del premio Urania. Personalmente, mi va bene così. La storia è già abbastanza complessa così com’è stata pubblicata, aggiungervi altre parti dedicate ai problemi della Milano del futuro poteva essere in teoria interessante ma probabilmente avrebbe finito per appesantire il romanzo. Alla fine, “L’uomo a un grado Kelvin” è un romanzo decisamente più orientato agli elementi scientifici e tecnologici, un approfondimento di temi così diversi avrebbe rischiato di renderlo né carne né pesce. Il teletrasporto quantistico è al centro della vicenda dopo che un celebre scienziato che vi lavora viene ucciso. Ci sono un po’ di descrizioni tecnico-scientifiche che riguardano anche i computer quantistici ma non sono particolarmente pesanti e servono perché le indagini fanno pensare che ci sia dietro un caso spionaggio internazionale. Il detective Richard Watson della Polizia Europea arriva a Milano per coordinare le indagini con la Polizia Lombarda ma portando avanti da sé quel ramo dell’inchiesta le sue deduzioni cominciano a divergere da quelle degli investigatori locali. Watson tende a indagare in maniera poco ortodossa ma riesce a ottenere risultati. Per seguire una pista non necessariamente ufficiale, Richard Watson ricorre anche ai servigi di alcuni hacker. Nel futuro, l’uso della realtà virtuale nell’utilizzo di una versione avanzata di Internet è normale. Gli hacker, ma non solo loro, utilizzano veri e propri ambienti

virtuali in cui le loro vere identità sono accuratamente nascoste. Questi elementi sono importanti in questo romanzo ma non li chiamerei cyberpunk. L’informatica e in particolare gli spazi virtuali non sono usati per esaminare il rapporto tra gli esseri umani e queste tecnologie. Gli hacker sono ribelli ma generalmente sono un’allegra combriccola e cercano di entrare nei sistemi per il gusto della sfida, senza velleità rivoluzionarie. In generale, “L’uomo a un grado Kelvin” è più orientato alle idee e alla trama che ai personaggi. Il loro sviluppo è discreto ma nulla di più. Secondo me è un po’ sacrificato dalla scelta narrativa ibrida di raccontare parte della storia in prima persona dal punto di vista di Richard Watson, che fa un resoconto della sua indagine con l’idea specifica che qualcuno lo legga, e parte in terza persona quando sono coinvolti altri personaggi. Inevitabilmente, Watson finisce per essere il personaggio più sviluppato. Secondo me, il risultato è comunque buono. Soprattutto se stavate aspettando un romanzo italiano con elementi di fantascienza un po’ più “hard” di quelli che vengono genearlmente pubblicati, vi consiglio “L’uomo a un grado Kelvin”.

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IL libro da tradurre Surface Detail di Iain M. Banks

d’ira. La sua mente viene però trasmessa all’astronave della Cultura più vicina, dove viene trasferita in un nuovo corpo. Il suo unico pensiero è quello di tornare sul suo pianeta per vendicarsi ma Veppers è l’uomo più potente della loro civiltà e ciò vuol dire tra le altre cose che è sempre circondato di guardie del corpo. Una guerra virtuale è in atto da molti anni in una sofisticatissima simulazione tra due fazioni che rappresentano molte civiltà galattiche. La contesa è tra chi vuole mantenere gli inferni virtuali esistenti in varie civiltà e chi invece li ritiene un’aberrazione e ne chiede la chiusura. Quando alcuni dei combattenti decidono di cambiare le regole della guerra, Joiler Veppers diventa una persona di notevole importanza strategica per il suo esito. I temi di fondo di “Surface Detail” sono la morte e l’aldilà ma vengono trattato in maniera tutt’altro che soprannaturale. Infatti, nelle Surface Detail civiltà di elevato livello tecnologico che abitadi Iain M. Banks no nella galassia l’aldilà è costituito da simulazioni in cui la mente degli esseri senzienti organici può essere trasferita. Tra le moltissime civiltà di vari livelli esistenti nell’universo narrativo della Cultura, una parte Il romanzo “Surface Detail” di Iain M. Banks ha creato anche inferni virtuali. Altre invece è stato pubblicato per la prima volta nel 2010. ritengono che quella sia un’applicazione Fa parte del ciclo della Cultura. È al momento barbarica delle tecnologie che permettono di trasferire una mente senziente in una forma inedito in Italia. avanzatissima di ciberspazio. Lededje Y’breq è una schiava di Joiler Due fazioni, una favorevole agli inferni e una Veppers. Quando tenta ancora una volta di contraria, finiscono per decidere il futuro di fuggire ma viene di nuovo ripresa, lei gli queste versioni dell’aldilà virtuale in una morde il naso e lui la uccide in uno scatto

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guerra. Visto lo scopo, risulta logico che anche quella guerra sia combattuta in un ambiente virtuale in cui i soldati possono avere un’esperienza completa ma dove la morte sia solo uno stato momentaneo. La Cultura è decisamente contraria agli inferni ma per motivi politici si astiene dal partecipare alla guerra, almeno ufficialmente. Questa guerra è però solo uno dei temi di “Surface Detail”, che è diviso in varie sottotrame, in parte ambientate in vari luoghi nell’universo fisico e in parte in vari universi virtuali. Non è un caso che un romanzo di questo tipo cominci con un omicidio, quello di Lededje Y’breq. Inizialmente, la sua storia può sembrare marginale, la storia triste di un crimine che purtroppo rimane impunito, ma ben presto si comincia a comprendere l’importanza. Joiler Veppers, padrone e assassino di Lededje, è l’uomo più potente della sua civiltà e le sue attività hanno un’importanza strategica nella guerra che viene pienamente rivelata solo nel corso del romanzo. Le loro storie si intrecciano con quelle di altri personaggi e altre sottotrame con un risultato davvero complesso perfino per gli standard di Iain M. Banks. “Surface Detail” ha davvero tanti personaggi, fisici e virtuali appartenenti a varie specie diverse, di origine biologica ma anche intelligenze artificiali. Nei romanzi della Cultura non possono mancare le astronavi senzienti e in questo caso ci sono anche astronavi da guerra, un elemento importante quando la guerra virtuale comincia ad espandersi anche nella galassia fisica. Inevitabilmente, non tutti i personaggi, anche importanti, sono adeguatamente sviluppati. Non è facile seguire un romanzo come “Surface Detail” e non aiuta il fatto che molto spesso Banks passi ad un altro personaggio specifi-

candone il nome solo dopo una pagina o qualcosa del genere. Il lettore si trova quindi in una sorta di montagna russa che viaggia tra l’universo reale, quello virtuale in cui si combatte la guerra e inferni virtuali. Nonostante le molteplici ambientazioni e i tanti personaggi, Iain M. Banks si dilunga spesso in descrizioni dettagliate di specifiche situazioni. Può trattarsi di Lededje che scopre il funzionamento di una sorta di tuta spaziale intelligente ma in altri casi ci sono dettagli crudi e a volte truculenti di quello che può accadere in un inferno virtuale o il senso della morte in una guerra virtuale. Queste caratteristiche fanno di “Surface Detail” un romanzo i cui contenuti vanno dalla space opera alla riflessione filosofico-religiosa. Come spesso è successo negli ultimi romanzi di Iain M. Banks, questa vastità di contenuti è sia un punto di forza che di debolezza nel romanzo perché lo rende molto ricco ma anche per vari versi dispersivo. I romanzi della Cultura hanno ovviamente in comune l’universo narrativo ma generalmente sono del tutto indipendenti. Anche “Surface Detail” può essere letto in maniera autonoma ma l’epilogo contiene un colpo di scena finale legato ad un precedente romanzo della serie. Esso sarà privo di significato per chi non ne comprende il riferimento mentre potrà lasciare a bocca aperta chi ha già letto il romanzo della Cultura collegato a questo. Secondo me, in “Surface Detail” i meriti sono complessivamente molto maggiori dei difetti e il risultato finale, pur pesante da leggere, è molto buono. Per chi non conosce l’universo della Cultura potrebbe essere un romanzo troppo difficile per cominciare la serie ma per chi ha già letto almeno qualcuno degli altri romanzi consiglio anche questo.

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IL venditore dI pensieri usati I l S i l m a r i l l on di J.R.R. Tolkien

“Esisteva Eru, l’unico, che in Arda è chiamato Ilùvatar; ed egli creò per primi gli Ainur, Coloro che sono santi, progenie del proprio pensiero, ed essi erano con lui prima che ogni altra cosa fosse creata.”

Cosa si può dire di questo… libro? Che, diciamocelo, non è un libro, è qualcosa che va oltre. Ci sono delle considerazioni da fare: leggere Il Silmarillion è come leggere la Bibbia. E’ un testo “sacro”, e va capito. Al di là di chi dice che sia difficile o che sia un mero elenco di nomi, va detto che sì, i personaggi sono tantissimi, e, ripeto, va capito perché non è così facile da affrontare, ma… ecco, io l’ho divorato, rapito dalle parole, dai luoghi, dai personaggi e dagli eventi in esso contenuti. Per capirci, potrei darvi una specie di ricetta: mescolate insieme un testo sacro, un libro di storia, uno di poesia, una grande voglia di raccontare un mondo fantastico inventato da zero e una grande mente in grado di dosare sapientemente pace, guerra, bellezza, orrore, vita, morte e tutto ciò che di umano, divino e mostruoso si cela nell’anima, e otterrete il volume di cui sopra. Di cosa parla? Di tante cose, invero, ma

possiamo suddividerlo in quattro grandi parti, e io ve lo racconterò così, perché andrebbe fatta una recensione per ogni pagina, ma verrebbe troppo lungo e vi annoierei mortalmente. Non me ne vogliano i Tolkeniani puri. Dicevo, le quattro parti. Parte prima – della creazione di tutto.

Questa parte è di una bellezza così pura che andrà a modificare il modo di percepire tutte le cose che avete letto finora, o che ancora dovete leggere, cari lettori! Che esisteva Eru ve l’ho già svelato là in alto, sotto il nome dell’autore, e quello è l’incipit del libro. Ilùvatar, con l’aiuto degli Ainur, intonò dei canti che descrissero il mondo prima che tutto

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venisse creato, e le storie che si sarebbero succedute in esso. Capita che uno di questi, Melkor (poi Morgoth, Bauglir, l’Oscuro signore ecc…) si discosti dal canto principale, e inizi a comportarsi un po’ come Lucifero. Invero, come lui verrà allontanato dagli altri, e si creerà il suo regno di tenebra. Inutile dire che verrà sconfitto, prima della fine, ma lascerà il suo prediletto, il più noto Sauron, sulla terra di mezzo… ma di questo parlerò in seguito. Si verrà poi a conoscere la vita degli Ainur prima che i figli di Ilùvatar (elfi e uomini) arrivino a popolare Arda, la Terra, e di come verranno creati i nani, per la fretta di uno di loro di capire quale potesse essere il volto degli uomini. E di come verranno creati orchi sfigurando elfi. Parte seconda – della storia degli Elfi

Qui si narra la storia degli elfi, delle loro guerre più o meno fratricide, delle loro scissioni, di alleanze o di chiusura totale agli altri… e di come Morgoth (il Lucifero di prima) irretisce i cuori più deboli, seminando zizzania fra i popoli e le famiglie. Nel frattempo arriveranno i nani e i primi uomini, e conosceremo le imprese degli uni e degli altri.

La parte finale, l’ultimo capitolo della storia, dove sapremo da chi verranno forgiati gli Anelli del Potere, perché, cari lettori, non è stato il buon Sauron a farli. Sauron produrrà, da solo e in segreto, l’Unico Anello, col quale corromperà i portatori degli altri, a parte quelli degli elfi, che da furbi non li indosseranno. E verremo a sapere di come sono arrivati i maghi, del perché sono lì, e cos’è successo prima degli eventi narrati nel Signore degli Anelli e poi di ciò che è accaduto in tempi successivi. Nel mezzo, un breve riassunto del SdA: “Si

dice infatti che Frodo il mezzuomo abbia assunto su di sé il fardello dietro esortazione di Mithrandir e che da solo con il proprio servitore, attraversò il pericolo e l’oscurità, giungendo alla fine, a dispetto di Sauron, sul monte Fato; e qui egli gettò, nel fuoco stesso in cui era stato forgiato, il Grande Anello del Potere, che così venne finalmente distrutto e la sua malvagità consumata. Allora Sauron crollò, venne completamente sconfitto e fuggì come un’ombra maligna; e le torri di Baraddur si sbriciolarono e molte terre tremarono al frastuono della loro caduta.”

No, cari lettori, non vi ho raccontato tutto. Diciamo piuttosto che non vi ho raccontato nulla, vi ho solo detto com’è strutturata la cosa, a grandi linee… anzi, proprio a solchi, come le tracce di un aratro trainato da buoi. Parte terza – degli uomini Bisogna leggerlo per capire. Io purtroppo non a spiegarvelo dettagliatamente, perché è O, più precisamente, la storia della stirpe dei riesco un’opera così gigantesca che… bisogna Numenoreani, la loro nascita, l’apice della leggerla, appunto. loro forza e grandezza e la loro caduta a causa Che, ripeto, di ogni pagina bisognerebbe fare dei consigli di Sauron, che li manderà a sfidare un’analisi, uno studio, star lì a ricordare le i Signori dell’Ovest (e che a causa di ciò cadrà discendenze di questo o di quel personaggio, lui stesso), non prima di averci parlato capire le storie dei padri per comprendere dell’Ovestfalda, la loro Terra. Che sarà l’epilogo dei figli… anch’essa distrutta. Insomma, dovrò rileggerlo. Fra un paio d’anni, Parte Quarta – di Sauron e degli Anelli del magari. potere

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S ka n Il venditore di pensieri usati intervista

Arianna Balducci

Cari lettori, ho il piacere di intrattenere (e intrattenervi) con Marianna, un’illustratrice riminese che cura un blog godibilissimo http://marymarycomics.wordpress.com! Grazie Riccardo, ci sono voluti anni di godibilitudine applicata molto seriamente perciò ringrazio la commissione e accolgo tutti a braccia aperte. Quale commissione? Qui ci sono solo io, signore incontrastato del mio antro, quindi eventualmente puoi abbracciare Me, ok? (patpat – pacche amichevoli) Ma bando alle ciance, cominciamo. Consapevole che le stesse domande qui presentate saranno proposte, con le opportune modifiche, anche ad altri artisti, blogger e figure retoriche di vario genere, accetti di rispondere a tutte in maniera sincera ed esaustiva? Sìsssignore. Ne sei sicura? Non sono nata per vivere nel pericolo, ma credo che questa volta rischierò. EEEEEEEH! Esageraaaata! Allora giuralo su… vediamo…

Ecco! Giuralo sul cadavere di quella mosca là per terra! Affinché il suo nobile sacrificio non vada sprecato, lo giuro! Non era un nobile sacrificio, è morta di fame anni fa. Qui la signora delle pulizie non passa spesso, sai, la faccio venire due o tre volte ogni eone. Troppa pulizia nuoce ai ricordi, si rischia sempre di spazzare via qualcosa di importante. Come la mosca, per esempio.

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Pace all’anima sua. Amen, sorella. Prima di cominciare (anche se in realtà stiamo già cominciando) ti chiedo: perché ti sei presentata con quel misto di foto e immagine? E non dire che è perché sei illustratrice e ci metti la faccia, che è banale! Perché è uno di quei progetti con i quali riesco a raccontare in modo immediato una buona componente del mio lavoro: da qui ho iniziato ad usare l’hashtag #chidisegna e a costruire una sorta di piccolo manifesto programmatico coerente con il mio approccio a questo mestiere che è anche una passione, che è anche una terapia, che… che… che… In ogni caso “Chi disegna ci mette la faccia” è questo: io mi espongo, personalmente e professionalmente; come in ogni lavoro che si rispetti, sono responsabile di quello che produco e comunico. Quando lo faccio per me e non su commissione, posso permettermi di essere anche sfacciatamente sincera Sapevo che lo avresti detto nonostante l’avvertimento. Ma vabbè, qui non si butta via niente, facciamo un polpettone con il tutto alla fine. No, non “il tutto” in senso buddistico! Comunque, un mestiere che è una passione l’ho sentito. Ho sentito pure il contrario, invero (una passione che è un mestiere), ma un mestiere usato come terapia proprio mai. Andrò a trovare il tuo analista, gli chiederò lumi. Ne uscirò sicuramente con qualche candela. Il mio terapista è attualmente impegnato a srotolare la spirale di vergogna in cui mi sono rintanata dopo averti dato una risposta così prevedibile. Ma c’è uno splendido laboratorio di candele artigianali a San Marino, un tiro di schioppo da dove sono io. Ottimo, dai. Innanzitutto, saluta a modo tuo gli amici che ci stanno leggendo.

Hahahahaha! Dai, questo è il miglior saluto che i miei lettori abbiano avuto, finora! Fa ridere il giusto, e ti presenta pure. E’ la dimostrazione che #chidisegna #sapuredivertirsi Non sono pratico di #hashtag, quindi qui mi alleno e ne userò a profusione, ok? #seiilbenvenutofinchècontinuiafarmituttiquestibeicomplimenti Come mai hai scelto di titolare il blog col tuo nome anziché scegliere un titolo a casaccio tipo “venditore di pensieri usati” o altre amenità del genere? Il blog è nato in un periodo in cui avevo bisogno di smuovere un po’ le cose, di espormi di più e mettere alla prova quello che speravo sarebbe diventato il mio lavoro. Il nome perciò è rimasto quello adolescenziale e divertito di quando avevo troppa paura per prendermi sul serio. Ora, dopo un sano confronto, molta applicazione e continua ricerca, sono arrivata a poter iniziare a parlare del disegno come parte importante del mio lavoro, ma il blog rimane impostato come qualcosa di fresco e leggero, senza la pretesa di essere un portfolio professionale e per ora va bene così. Con “il nome è rimasto quello adolescenziale” intendi dire che il nome infantile e il nome adulto sono diversi da quello lì? Cioè, dai, non ti sei spiegata bene, oppure magari intendevi proprio quello… è ambigua sta cosa, ma mi piace. #oraperòspiega. Intendevo marymarycomics che compare nell’url, ma ora che il mio saggio template fa troneggiare il mio nome e cognome in testa sono donna felice e realizzata in effetti.

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Contenta tu… E quando ti è venuto il pallino di disegnare? La mia mamma è una pittrice e fin da piccola mi coinvolgeva in giochi ed esperimenti in cui la manualità faceva da padrona. È sempre stata anche molto attenta a mantenere quel sano equilibrio tra affetto e lucidità critica che mi ha consentito di comprendere quanto il disegno fosse importante per me e quale fosse la strada che autonomamente dovevo coltivare. Quindi direi che disegno da sempre (ohdddio, come quei cantanti che ai provini dicono “Io canto da quando avevo 3 anni, facevo pianobar con il mio papà”… ops). Il sano equilibrio fra affetto materno e lucidità critica è una cosa difficilissima da coniugare. Complimenti alla mamma, allora! Abbiamo capito che è colpa sua se io ti sto interrogando, adesso! Ma l’adesso è recente, e io voglio conoscere qualcosa di prima, qualcosa di meno attuale, quindi ora ti chiederò della tua prima volta, perché #laprimavolta #nonsiscordamai. Cos’hai pensato la prima volta che hai presentato al pubblico le tue opere? (paura, eh?) Mmmmh… Di sicuro ero in preda a un turbinio di ansie, slanci di vanità, desiderio di comprensione, tic nervosi. Eh sì, sono un goccino emotiva e forse anche un po’ nevrotica, ma nulla di grave per ora (disse picchiandosi la testa con un pollo di gomma). Ah, con un pollo. Un pollo… E dove vai a pescare la tua ispirazione? In quello che leggo, in quello che faccio (affianco il disegno ad altre attività e progetti di comunicazione), in quello che ho studiato (ho scelto di fare studi di moda proprio perché era lì che vedevo il massimo livello di creatività e contaminazione innovativa e, per quanto i miei lavori abbiano un loro percorso, mi ha aiutato molto familiarizzare con linguaggi come questo. Molto viene dalle persone che frequento. Ho la fortuna di avere intorno alcune persone che amano giocare con me e quando si crea la giusta complicità ne possono uscire risultati interessanti,vedi questo per esempio: http://marymarycomics.wordpress.com/2013/09/12/c hiacchiere-da-bar-il-mare-e-negli-occhi-dikegguaggua/ Heh, Kegguàggua… l’avevo già letto e ne avevo già riso. Attenta, però, che se mi lasci le parentesi aperte poi fa corrente e ti raffreddi. Vedi di chiuderle!

Chiedo infinitamente perdono. Odio i refusi, sono il male e mi fanno sembrare una cattiva persona, lo so. Se deciderai di non richiudere la parentesi per ricordare il mio misfatto alla pubblica piazza accetterò a testa china (e no, non disegnerò quest’ultima cosa che ho detto nonostante la tentazione sia fortissima e la china stia già facendo capolino dal cestino da cucito… sì, tengo chine e matite in un cestino da cucito e sai che è vero). No, la tengo aperta, così cambiamo l’aria. E oggi, con più esperienza e molto lavoro alle spalle, quale reputi essere la tua “Opera Magna”? Di esperienza c’è da farne ancora tanta e ci sono ancora molti territori da esplorare. Di sicuro ci sono un paio di lavori che rappresentano due parti importanti di me: il primo è il videoclip realizzato in stopmotion per Dominic Miller (noto per essere il chitarrista di fiducia di Sting, ha una sua produzione solista ed è stato molto bello mettere le mani su uno dei suoi pezzi), la stopmotion fotografica e illustrata è una delle cifre con cui mi piace molto sperimentare e questo è stato un progetto di rilievo internazionale che senza la rete non sarebbe certamente mai arrivato; l’altro è un progetto in uscita proprio in questi giorni, “La Saraghina in gita”, un libro-gioco che racconta la mia città (Rimini) ai bambini e con il quale ho potuto dare un piccolo segnale di affetto al mio territorio che amo moltissimo e che mi ispira continuamente. “Catalan”:

http://marymarycomics.wordpress.com/2012/06/29 /dominic-miller-catalan-official-video/ “La Saraghina in gita”:

http://marymarycomics.wordpress.com/2013/12/01 /la-saraghina-in-gita-passeggiando-per-una-riminitutta-la-colorare/ Oh, mamma! La stop motion è fantastica, e mi ha riportato alla mente un mio vecchio personaggio che… Ma non stiamo parlando di me. E la saraghina è un’ottima iniziativa! Ecco, ora che mi sono disipnotizzato da quel filmato posso riprendere a farti domande. A parte il lavoro notturno (perché le cose migliori quasi sempre vengono di notte) una cosa che influenza la creatività è la musica. Cosa ascolti mentre ti dedichi alle tue creazioni? Quando l’idea deve prendere forma ho bisogno di silenzio, a volte anche altre persone nella stanza rischiano di distrarmi. È un momento in cui ho bisogno di molta concentrazione e di brutale isolamento. La musica mi piace moltissimo e mi coinvolge a dis-

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misura perciò devo calibrare bene quando e come ascoltarla mentre lavoro. Spesso certe canzoni sono la causa scatenante di alcuni progetti illustrati. I generi sono i più disparati comunque: dal rock al cantautorato italiano ai polpettoni da musical fino ad arrivare a un repertorio di musica vintage (varietà italiano dei decenni passati, gruppi vocali americani anni ’30-’40) che mi diverte da morire e trovo spesso molto in linea con i mio modo di filtrare la realtà. Mmm… a parte il rock, il resto è una musica con cui non mi rapporto molto bene, preferisco roba più moderna e aggressiva. Avremo modo di scambiarci le compilation se credi. Il credo ha poco a che fare con la musica, ma sì, avremo tempo e modo. Non qui, non ora. E, dato che anche l’ambiente ha la sua importanza, com’è fatta la stanza in cui ti metti a disegnare? È decisamente piena. Troppo piena. Piena di libri, di oggettini, di fogli, di foto, di cd, di cose che non c’entrano niente e dovrei mettere a posto. Nei periodi di “gestazione” di un progetto sono un disastro perché ho bisogno di averlo bello disteso sotto gli occhi e di lasciarlo lì anche per diversi giorni a volte. Poi c’è ovviamente il computer (disegno a mano ma spesso coloro in digitale e comunque anche per altri progetti mi è fido compagno). C’è anche una finestra che è molto molto importante. Che sia piena di libri è un punto a tuo favore. Il venditore fa grossi sconti a #chilegge. Aggiungiamo un pizzico di nonsense a questa cosa: attiriamo persone a caso ma con criterio. Questo blog (il mio, intendo) vive di libri e racconti. In un massimo di 30 parole scrivi una storiella contenente una o più parole chiave da inserire come tag per la ricerca su Google. A piacere. Una cosa che parla di te, che so, un aneddoto, oppure qualcosa che ti viene in mente… Puoi anche farmi una pernacchia e dirmi che non ne hai voglia, mandarmi una cartolina da quel paese od onorarmi con un disegno fatto per l’occasione… insomma, vedi un po’ tu! Il Venditore di pensieri usati mi vedeva piluccare tra la sua merce e appuntare sul blocco schizzi: “Marianna Balducci, lei lo sa che #chidisegna consuma un sacco di pensieri?”

Piluccare! Che lemma affascinante, mi piace un sacco! E mi hai regalato un’immagine mica da ridere, che diventerà header del blog, poi, ritagliando me pure avatar per tutto, poi l’ho già impostata come sfondo del telefono, del desktop, pure quello del PC di lavoro… E sei la prima che risponde a questa domanda con un disegno, e la prima che ha dato forma alla mia mercanzia! Cioè… c’è proprio tutto: vecchi album di fotografie, qualche libro, alcune teste importanti, ovvero quelle che sono rimaste qui dopo essersi fatte intervistare e, appesi al soffitto, i pensieri già usati da altre persone… e qualche ombra nascosta! Insomma, grazie! Sorpresa meritata, venditore. Felice sia stato apprezzato. E, per ultima cosa, qual è la domanda che nessuno ti ha ancora posto ma che vorresti sentirti chiedere? Lo staff di Jim Henson sta ampliando la sua gamma di personaggi. Vuoi essere uno dei Muppet? E la risposta è… ? Ti prego facciamolo, ADESSO. Facciamolo… cosa? Bah, affari tuoi. Quando accanto a Kermit la rana ci sarà il pupazzo di una disegnatrice dalla chioma rossa allora tutti capiranno… muahahah Mi sa che tutti hanno già capito… Bene, grazie per il tempo che mi hai dedicato. Saluta gli habitué di questo blog. Grazie a Riccardo e ai suoi acquirenti, fornitori, pusher, addicted di pensieri usati. Grazie a te, Marianna, di averci (plurale majestatis) regalato un bel po’ del tuo tempo, l’articolo più prezioso del mio negozio. E con questo è tutto. Alla prossima, cari lettori! Vi ricordo che potete cercare Marianna con l’hashtag #chidisegna o andare a trovarla direttamente sul blog, così potrete vedere altre illustrazioni. Ora vediamo di chiudere quella parentesi, va’, che c’è un brutto spiffero. ). Ecco. Alla prossima, cari lettori!

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Il libro sullo scaffale I L d i a m a n te d i ki n d a n os t di Ugo Moriano

Un mago coinvolgerà il Capitano Eugenio in un viaggio in luoghi remoti e straordinari per riportare un diamante e un amuleto in pietra, in cui la gemma dovrà essere incastonata, in una grotta sotto un’antica fortezza dei nani. Solo così si richiuderà un antico portale. Lo aiuteranno un nano saggio, una sofisticata fata, una strega pasticciona, una piccola cleptomane, un esperto topo e un drago dalle capacità particolari. Sulle loro tracce vi sono un capo-orco e la sua compagna che lotteranno disperatamente per salvare il loro popolo da una vita di stenti. “Il diamante di Kindanost” è un romanzo in cui umani, elfi, nani e razze minori lottano, per la propria sopravvivenza, contro orchi e goblin. Il procedere e le motivazioni di questo conflitto però verranno prese in considerazione anche dal punto di vista di questi ultimi che si battono per ritornare nelle terre che un tempo gli appartenevano e da cui furono scacciati con l’inganno. Molti sono gli spunti umoristici che traspaiono nel racconto, senza però andare a intaccarne il respiro epico e avventuroso.

Fantasy di impianto classico che si può avvicinare al genere di Tolkien o Terry Brooks in cui umani, elfi, nani e razze minori lottano, per la propria sopravvivenza, contro orchi e goblin. Il procedere e le motivazioni di questo conflitto però verranno prese in considerazione anche dal punto di vista di questi ultimi che si battono per ritornare nelle terre che un tempo gli appartenevano e da cui furono scacciati con l’inganno. Molti sono gli spunti umoristici che traspaiono nel racconto, senza andare a intaccare il respiro epico, tipico dei fantasy classici.

La storia Eugenio è il personaggio principale. Egli si ritroverà a dover riportare un diamante e un amuleto in pietra, in cui la gemma dovrà essere incastonata, in una grotta sotto un’antica fortezza dei nani. Solo allora, posizionandoli su un supporto roccioso, avrà la possibilità di richiudere il portale attraverso il quale orchi e goblin si stanno riversando in massa nelle terre delle altre razze. La storia si svolge quasi interamente nella penisola di Dorur, terra che fa parte di ciò che resta di un mondo molto più vasto ed ora, invece, ridotto alla penisola ed a una certa estensione di terre retrostanti (continente di SinyaEstel dove risiedono i regni degli uomini, elfi, nani e razze minori). Kindanost è la città in cui si svolgono gli eventi iniziali. Assediata da decine d’anni è allo stremo, ma non può cedere perché essa è un punto strategico troppo importante in quanto è la porta d’accesso a tutte le terre retrostanti. Da Kindanost Eugenio si metterà in viaggio per raggiungere, sul lato opposto della penisola, il Baluardo di Margol (antica fortezza dei nani sui monti delle Zanne del Drago) e richiudere il passaggio con il mondo degli orchi. Affronterà una serie di prove (battaglie e scontri personali, infortuni di percorso e “sbagli” fatti da altri) fino a che non riuscirà a raggiungere il suo obiettivo e qui si troverà davanti ad una difficile scelta. Solo grazie alla

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sua saggezza riuscirà a risolvere nel migliore dei modi il problema a cui si trova di fronte. Sulle sue tracce vi sono, principalmente, un capo-orco e la sua compagna che, per tutto il racconto, lotteranno per impedire la chiusura del portale, salvando così il loro popolo da una vita di stenti. Intorno ai personaggi del romanzo si svolge una guerra in cui tutte le razze, di ambedue i fronti, lottano per la sopravvivenza. Personaggi Eugenio: Capitano delle Guardie del Principe di Kindanost, portatore del diamante e dell’amuleto di cui, suo malgrado, è venuto in possesso dopo diverse peripezie. Personaggio burbero e alle volte manesco, ma con una profonda vena di saggezza e di umanità. Coinvolto negli eventi contro la sua volontà, lotterà prima per comprendere ciò che lo circonda e poi per portare a termine la missione che, seppur non richiesta, gli è stata affidata. Ljndys: Giovane drago femmina con la capacità di trasformarsi in donna. Spesso avrà contrasti con Eugenio e metterà in mostra il lato più irascibile e permaloso della sua personalità. Insieme alla sorellastra Ardara contribuirà, nonostante molte incomprensioni, alla riuscita della missione assegnata a Eugenio. Ardara: Strega sbadata incapace di gestire la propria magia. Tutti temono la sua arte perché frequentemente sortisce effetti opposti a quelli che lei si era prefissata. Sempre stupita della diffidenza che la circonda, insieme alla sorellastra Ljndys, tra mille difficoltà farà anche lei la sua parte per aiutare il Capitano di Kindanost. Myriam: fata molto sofisticata ed elegante. Veste con molte gonne sovrapposte e non indossa mai scarpe con tacchi inferiori ai 12 cm. Viene coinvolta nella storia perché, una volta visto il diamante, decide di non abbandonarlo più (un diamante è il miglior amico di una donna) e pertanto è costretta a seguire Eugenio che è colui che porta la gemma. Keligor: nano, maestro d’armi e mago. Accompagna Eugenio fornendogli sempre tutto l’aiuto possibile. Gizha: appartiene ad una razza minore (le nahila) ed è un turbine di iperattività che scompiglierà costantemente la vita dei propri compagni di viaggio. Sir Alkard: topo, Signore di tutti i roditori della penisola di Dorur e consigliere del Principe di Kindanost. Parteciperà all’avventura controvoglia e cercherà di offrire i propri servigi e consigli agli altri. Si troverà però spesso inascoltato o snobbato per via della scarsissima reputazione che gli viene attribuita essendo un roditore parlante. Kelgut: Orco e cugino del Signore degli Orchi. Combatterà per impedire che il portale venga richiuso. Spesso lottando anche con gli appartenenti alla propria

specie, mostrerà una saggezza, una lungimiranza e una profondità insolita per gli orchi nei fantasy classici. Affronterà Eugenio e la sua compagnia in un ultimo disperato tentativo di bloccarlo. Ilashar: Compagna di Kelgut. Lo affiancherà, sempre fedele, in ogni vicissitudine, offrendogli consiglio e spalleggiandolo durante i combattimenti. Personaggi minori Ve ne sono molti, ma tre si segnalano maggiormente: Belak: nano millenario e leggendario che governa sul deserto della Piana Sabbiosa. Conduce i viaggiatori alla propria oasi dove non troveranno più la volontà di abbandonarla invecchiandovi in pace e senza affanni, scomparendo per sempre dal mondo che li circonda. Alchala: gnoma che ha stregato un’intera foresta. Tutti gli esseri viventi sono stati imprigionati all’interno di sassi di fiume e solo la fata riuscirà a liberare la nahila dalla sua magia e permetterle di attraversare la foresta.

Antainiell: Elfa e Principessa della città di Tarksis assediata dagli orchi. Innamorata di Eugenio fin dai tempi in cui lo conobbe in un lontano passato. Contribuisce alla riuscita dell’impresa anche se non nasconde la sua avversione verso Ardara che, durante una delle sue magie, aveva fatto perdere la memoria a Eugenio, facendogli dimenticare anche l’amore che egli provava per lei. L’autore Ugo Moriano è nato a Imperia nel 1959 e dal 1984 vive con la propria famiglia a Diano Marina in provincia di Imperia. Dopo aver lavorato per 12 anni nelle Ferrovie dello Stato, dal 1993 è un impiegato amministrativo del Comando dei Vigili del Fuoco di Imperia. L’amore per la lettura e l’interesse per la storia lo accompagnano fin dalla più giovane età. Dopo essersi cimentato per hobby, negli scorsi anni, in racconti pubblicati su comunità virtuali sul Web, nel 2008 esordisce nel mondo della carta stampata con il romanzo giallo: “Il ricordo ti può uccidere” a cui fanno seguito “L’Alpino disperso” (2009), “A Sanremo si gioca sporco” (2010), “Sospetti dal passato” (2011) e “L’arte del delitto” (2012) tutti editi dalla Fratelli Frilli Editori. Nel 2011 è stato pubblicato “Arnisan il longobardo” Nel 2012 “L’ultimo sogno longobardo” vincitore del 61° premio Selezione Bancarella 2013. Nel dicembre del 2009 vede la luce anche il suo racconto gotico “Il Ritorno” e nella primavera del 2010, sul sito della biblioteca di Diano Marina, viene pubblicato il link ad un suo racconto umoristico intitolato La vera storia della scoperta del fuoco.

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Il libro sullo scaffale

propria del fantasy più classico, e in cui la magia si incastra impeccabilmente con la tecnologia. Scritto con stile chiaro e asciutto, Il Signore della Neve e delle Ombre poggia su un intreccio ben congegnato ed essenziale, che non cede troppo al dettaglio né si disperde in sottotrame e rivoli narrativi, a vantaggio IN UN MONDO SCOSSO DA INTRIGHI, PASSIO- del coinvolgimento e dell’empatia del lettore, che non NI E MAGIA, LA LOTTA DI UN GIOVANE UOMO può non condividere il travaglio interiore di Gavril Andar, fatto di paura, rabbia, vendetta, pietas e voglia PER NON RINUNCIARE A SE STESSO di amare. A differenza di molti fantasy che vanno per la maggioTutto ciò che Gavril Andar conosce della vita è il clima soleggiato e pieno di calore della Smarna – l’ame- re, trovano spazio figure femminili di grande coraggio no principato sito a sud di quello che un tempo è stato come Elisia, la madre di Gavril, che, per non soccombere alla ferocia intravista nel consorte, se ne l’impero di Rossya –, la casa accogliente che divide allontana portando con sé il figlio e la Duchessina con la bella e protettiva madre, la passione per la pittura. L’arrivo di uno spietato manipolo di guerrieri Astasia Orlova che, pur tra mille veti e difficoltà, tiene provenienti dal Nord infrange tale armonia, segnando fede a un sentimento puro e incontaminato per Gavril. per sempre il destino del ragazzo. I soldati vengono ad Traendo ispirazione dalla mitologia e dal folklore annunciare che Lord Volkh, il signore del gelido regno nord-europei e asiatici, che riecheggiano a tratti le atmosfere della Russia zarista, l’autrice scrive un di Azhkendir, uomo nelle cui vene scorre il sangue ardente del guerriero-dragone noto come Drakhoul, è avvincente bildungroman all’insegna di un sapiente stato assassinato. La vendetta è ineluttabile e soltanto mix di suspense, magia, horror e romanticismo gotico.

IL Signore della Neve e delle Ombre di Sarah Ash

Gavril può compierla dal momento che Volkh era suo Autrice di otto romanzi e diverse raccolte di racconti, padre, malgrado il ragazzo ne è stato finora all’oscuSarah Ash si è diplomata in Musica e Drammaturgia ro. Ferito e frastornato da quanto saputo, il giovane presso il Murray Edwards, College femminile viene condotto contro la sua volontà nella fredda e dell’Università di Cambridge. La sua formazione la innevata Azhkendir, la sua terra natìa dove vigono porta a rivestire ruoli di dirigenza e insegnamento leggi, consuetudini e alleanze tribali e cruente assai diverse da quelli cui è abituato. Rinchiuso nel castello nella scuola, dove valorizza con passione giovani talenti anche nella veste di autrice e produttrice di musidel Drakhaon, Gavril è controllato a vista dai suoi cal. Contemporaneamente scrive: all’inizio degli anni carcerieri; frattanto la notizia del suo arrivo si Novanta, la sua short story «The Mabinogion Midiffonde nei principati vicini, intenzionati a studiarne ce»(mai pubblicata in volume) entra nella classifica le mosse per anticiparle attaccando a sorpresa Azhkendir. Al centro di mille pressioni, mentre il suo popo- dei dieci migliori racconti per l’infanzia del quotidiano Guardian , e nel 1992 la nota rivista Interzone pubblica lo reclama guida e vendetta, il giovane dà inizio alla il racconto «Moth Music». Il successo arriva nel 2003 battaglia più importante della sua vita, quella per con l’uscita del romanzo Il Signore della Neve e delle salvaguardare la sua parte umana, seriamente miTenebre, primo episodio della trilogia Le lacrime di nacciata dal suo sangue Drakhoul: Gavril sta diventando, infatti, una creatura che non vuole diventa- Artamon, che le fa ottenere una grande popolarità sia tra i lettori anglosassoni sia francesi. Da allora Sarah re, una creatura dal potere incommensurabile. . . assecondarne la forza vuol dire cedere alla barbarie e Ash si dedica completamente alla narrativa. Vive nel Kent con il marito e i due figli. a orribili crudeltà.

Dopo tanti e apprezzati racconti, Sarah Ash spicca il salto nella narrativa lunga e firma un romanzo di ottima fattura in cui il filone cappa e spada armonizza con il protagonismo della figura prodigiosa del dragone,

Da Il Signore della Neve e delle Tenebre: «Voi siete il Drakhaon. Il sangue che scorre nelle vostre vene non è normale sangue umano». «È quello che mi hai ripetuto centinaia di volte. Ma che cos’è un Drakhaon?» «Guardate». Kostya alzò il braccio e indi-

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cò la randa della nave. Sulla tela bianca era dipinto, in nero e argento, un simbolo […], un’enorme creatura dalle ali adunche che sembrava librarsi in aria a ogni soffio di vento che gonfiava la vela. «Un drago ?», sussurrò Gavril sgomento. «Ma di sicuro… dev’essere una metafora, un titolo, una…» «Voi siete il Drakhaon, signore», ripeté Kostya ostinato. «Ma mio padre come poteva essere un uomo… e un… un…» Gavril non riusciva a dirla quella parola; la sola idea era assolutamente ridicola. I draghi erano leggende da libri di favole per bambini. «Drakhaon non è semplicemente un drago, signore. Drakhaon è un drago guerriero. Un uomo che può distruggere i suoi nemici con il respiro, che infiamma i combattenti del suo clan con il potere del suo sangue ardente». Hanno detto: «Un appassionante fantasy dalle atmosfere cupe e dal ritmo serrato sul fascino del male e la difficoltà delle scelte» Booklist

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L' -book nell' -reader Memoria d e l s a n gu e di Gianfranco Nerozzi

Memoria del sangue è un thriller paranormale con un

intreccio mozzafiato che si rifà ai grandi classici del genere. Un omaggio a The Shining di Stephen King, che nello stesso tempo affronta un problema sociale: la condizione dei malati di emofilia. Il romanzo è stato pubblicato in cartaceo per Carrocci editore nel 2007, in edizione limitata, come omaggio a illustri primari ematologi italiani. Questa pubblicazione ebook, rivista e aggiornata, contiene una prefazione di Alan D. Altieri. L'illustrazione di copertina è stata realizzata da Vincent Chong, fresco vincitore del World Fantasy Award 2013 come Best Artist

Il Libro: La ragazza è riversa sul letto, esangue, con le mani le-

gate alla spalliera. Sul comodino, sono allineate decine di provette piene di sangue. Tutto appare pulito e in ordine. L’assassino ha dissanguato la vittima con fredda precisione senza versare una goccia di fuori. Sulla parete, una scritta enigmatica: VUOTA, con la data del giorno corrente a fianco. Il commissario Salvo Michelis osserva la scena del delitto con sgomento: è la stessa scena descritta da suo figlio Alessio, undici anni, malato di emofilia, quella stessa notte, in preda ad un incubo, durante una forte crisi emorragica. Il bambino ha visto l’omicidio come se i suoi occhi fossero quelli del killer. Così comincia l’incubo. In una frenetica corsa contro il tempo, Michelis dovrà affrontare i fantasmi del proprio passato per salvare il figlio e catturare l’assassino. In un hotel abbandonato sull’Appennino tosco-emiliano, il confronto decisivo. Dentro un antico labirinto rituale, il piccolo Alessio dovrà sconfiggere la propria fragilità per affrontare il Mostro che lo perseguita. Una cupa ossessione che si nasconde dentro la memoria del sangue .

Dalla Prefazione di Alan D. Altieri

(...) L’esistenza di un emofilico è un incubo senza sonno e senza scampo. È un infinito Golgota di non-morte, fatto di cautele quotidiane altrettanto infinite, eppure mai realmente sufficienti, sempre e comunque intollerabili. Ed è precisamente questo il Golgota con il quale il piccolo Alessio Michelis è costretto a coesistere dall’istante stesso in cui, undici anni prima, ha fatto ingresso nel cosiddetto mondo dei vivi. Ma poi, un giorno maledetto, il fragilissimo equilibrio si spezza, il Golgota comincia a sgretolarsi e i due mondi, quello dei non-morti e quello dei vivi, entrano brutali in collisione. In quel giorno maledetto, gl’incubi di Alessio si tramutano nella realtà speculare di una serie di spaventosi omicidi ematici al limite del vampirico. (...) Attingendo

da un lato alla tenebra della mente dell’indiscusso maestro Stephen King, dall’altro agl’incubi visuali del genio inquietante di Francis Bacon, Memoria del sangue - che Mezzotints/Prisma presenta per la prima volta in forma del tutto inedita nell’editoria digitale - emerge come un agghiacciante apologo della follia nichilista e della sopravvivenza disperata. Con Memoria del sangue, Gianfranco Nerozzi... alza ulteriormente il livello dello scontro. Ma non aspettiamoci che questa sia l’ultima trincea: gl’inferi concepiti da questo formidabile maestro del lato oscuro non hanno confini.

L’Autore

Gianfranco Nerozzi ha pubblicato numerosi racconti e romanzi per diverse serie: Trilogia Cry Fly: L'urlo della mosca (Addictions, 1999), Prima dell'urlo (Addictions, 2000), (Addictions, 2003), Cry Fly Trilogy (Mondadori, in Urania Horror, 2008) Ciclo Genia: Cuori perduti (Mondadori, Il giallo Mondadori, 2001, vincitore del Premio Tedeschi) Genia (Flaccovio Editore 2004), Resurrectum (Flaccovio, 2006). Ciclo Hydra Crisis, con lo pseudonimo Jo Lancaster Reno: L'occhio della tenebra (2003), La coda dello scorpione (2004), Lo spettro corre nell'acqua (2007), Nel cuore del diavolo (2013). Tutti questi titoli sono stati pubblicati nella collana Segretissimo di Mondadori. Altri romanzi: Ultima pelle (Edizioni Eden, 1991, pubblicato con lo pseudonimo F.J. Crawford), Le bocche del buio (Polistampa, 1993), Ogni respiro che fai (AdnKronos, 2000), Memoria del sangue (Carrocci, 2007), Il cerchio muto (Editrice Nord, 2009), Continuum (Tre60, 2012). Nel 2003 ha curato l'antologia di racconti horror italiani In fondo al nero (Mondadori, Urania). Alcune sue novelle sono presenti anche nelle raccolte Anime nere e Bad Prisma (Mondadori) e Incubi , (Baldini Castoldi Dalai Editore).

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L' -book nell' -reader Hieronymus di Claudia Salvatori

Hieronymus - Una vita immaginata è una biografia romanzata

della vita del grande pittore Hieronymus Bosch, un titolo inedito scritto da una delle più grandi e versatili autrici italiane, Claudia Salvatori. Il libro contiene una prefazione di Alan D. Altieri e una illustrazione di copertina realizzata da Ben Baldwin.

Il Libro

Una notte dell'agosto 1516, Jeroen van Aken, conosciuto come il libero maestro Hieronymus Bosch, muore immerso nei colori che hanno forgiato la sua essenza vitale, sotto lo sguardo di Dio, e forse anche sotto lo sguardo del Diavolo. Qualcuno, al suo funerale, sostiene siano il medesimo occhio. Attorno alla bara di Jeroen van Aken sono raccolti tutti i notabili della città di s’Hertogenbosch. Qualcuno soffre veramente per il trapasso dell’insigne pittore detto Hieronymus Bosch: la maggior parte di loro, comunque, prova i più vari e contraddittori sentimenti. Questo perché lui ha saputo ritrarre sulla tela le pieghe recondite delle loro anime. Come ci è riuscito? La vita romanzata di un grande artista, tra pittura, amore, delirio, tormenti, delusione e consapevolezze, la continua scoperta delle sottigliezze e delle alchimie che separano il Bene dal Male.

L’Autrice

Claudia Salvatori: scrittrice e sceneggiatrice italiana, ha pubblicato diversi romanzi, racconti, sceneggiature per fumetti. Vincitrice del premio Tedeschi e del premio Scerbanenco. Tra i suoi romanzi: Serie Walkiria Nera: Walkiria Nera: La genesi del male , (Mondadori, SegretissiDalla Prefazione di Alan D. Altieri mo Mondadori, 2007), Walkiria Nera: Golden Dawn (Segretissimo Un vero e proprio confronto diretto con i meandri della mente, Mondadori, 2008), Walkiria Nera: Progetto Lebensborn (Segretisdella coscienza, dell’etica e dell’immaginario di un genio simo Mondadori, 2012). Altri romanzi: Più tardi da Amelia (Il Giallo incommensurabile. Un genio la cui ha arte ha lasciato, e contiMondadori, 1985), La donna senza testa (Alacrán Edizioni, 1990 e nua a lasciare tutt’oggi, un segno indelebile nelle menti, nelle co- 2005), Columbus Day (Il Giallo Mondadori,1992), Superman non scienze e nell’etica dell’intera cultura e dell’intera ragione umana. muore mai (Il Giallo Mondadori 1994), Mistero a Castel Rundegg Hieronymus è al tempo stesso biografia romanzata, affresco (Il Giallo Mondadori, 1994) scritto con lo pseudonimo Anna dell'Isola, storico, analisi politica, concezione pittorica ma, prima e al di Schiavo e padrona (Marco Tropea Editore, 1996), La canzone di sopra di ogni altra cosa, esplorazione psicologica fino ai meandri Iolanda (Marco Tropea Editore, 1998), Sublime anima di donna più inaccessibili del livello limbico. Lo Hieronymus Bosch di (Marco Tropea Editore, 2000), Ildegarda. Badessa, visionaria, Hieronymus non è solamente un artista più grande del suo esorcista (Mondadori, 2004) Il sorriso di Anthony Perkins (Alacrán tempo e, forse, di qualsiasi altro tempo. Lo Hieronymus Edizioni e Il Giallo Mondadori Presenta, 2005), Nessuno piange per Bosch di Hieronymus è prima di tutto un uomo, con il suo coil diavolo (Hobby & Work, 2006), Sexy thriller (Aliberti editore 2006) raggio e le sua incertezza, la sua visione e la sua battaglia, la sua - scritto con Sabina Marchesi, La donna che gioca con i gatti interiorità e la sua profezia. Da Platone a Leonardo Da Vinci, da (Morganti Editori, 2007), Abel (Epix Mondadori, 2009), Il mago e Pitagora a Nikolai Tesla, da Isaac Newton ad Albert Einstein l'imperatrice (Mondadori, 2010), Il sole invincibile. Eliogabalo, il abbiamo molti validi scritti, di molti validi Autori, focalizzati regno della libertà (Mondadori, 2011), Il cavaliere d'Islanda sulle figure che rappresentano pilastri della scienza, della filoso- (Mondadori, 2012). Ha pubblicato diversi racconti per Monda-

fia, della storia umana. Eppure, prima di Claudia Salvatori, nessun Autore aveva mai nemmeno concepito di mettere a fuoco l’immane pilastro dell’arte figurativa che è Hieronymus Bosch. Potrebbe quindi non essere affatto impensabile che anche Hieronymus possa diventare un pilastro dell’arte narrativa.

dori, Morganti, Tropea, Alacrán, Sperling & Kupfer, Piemme. Ha sceneggiato diversi numeri di Topolino (Disney Italia), Nick Raider e Julia (Sergio Bonelli Editore) e altri fumetti per Skorpio, Lanciostory e Oltretomba.

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Narrativa Interattiva

n on è u n a avventura di Leonardo Boselli

gli ultimi ad incontrare certe difficoltà e, quindi, è molto probabile che un certo comportamento sia già stato programmato da qualche altro autore e sarebbe uno spreco di risorse se ogni autore si tenesse tutto per sé, costringendo gli altri a reinventare l'acqua calda. Il bello della comunità dell'IF consiste anche in questo: chi risolve un problema fornisce la soluzione agli altri e, per giunta, gratis! Inform7 facilita la distribuzione di codice personalizzato grazie alla gestione delle estensioni e all'archivio http://inform7.com/write/extensions in cui vengono memorizzate. In questo tutorial viene mostrato come includere ed utilizzare una serie di estensioni piuttosto comuni che ho tradotto in italiano.

Questo tutorial mostra come utilizzare alcune delle più comuni estensioni di Inform7 - il moderno editor per creare avventure testuali - tradotte in italiano (si tratta delle estensioni "Italian, Creative

Commons Public License IT, Numbered Disambiguation Choices IT, Title Page IT, Basic Help Menu IT, Automap IT, Trinity Inventory IT, Remembering IT, Underside IT, Rideable Vehicles IT, Notepad IT, Telephones IT").

1. Introduzione Scrivere un'avventura testuale non è un'attività semplicissima perché richiede allo stesso tempo capacità di scrittura e di programmazione. Anche se l'approccio in "linguaggio naturale" proposto da Inform7 può aiutare inizialmente i principianti, dopo qualche tempo ci si accorge che molte funzionalità utili non sono include nel pacchetto base e devono essere programmate da zero. Naturalmente non siamo i primi né saremo Se vi state appassionando alla scrittura delle avventure testuali e alla narrativa interattiva, non perdete il videocorso di Inform7 per principianti (in italiano) disponibile su YouTube

2. L'avventura Al contrario di altri tutorial della serie, in questo caso non c'è una trama ben definita, ma le azioni vengono proposte al giocatore nelle descrizioni affinché possa verificarne il funzionamento. 3. Un possibile sviluppo

Il canale si può raggiungere dal sito

http://milleuna.sf.net

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Ecco alcuni comandi che possono essere impartiti nelle varie stanze e le risposte che ne derivano.


Copyright © 2009 Leonardo Boselli Quest'opera è fornita SENZA ALCUNA GARANZIA e può essere ridistribuita rispettando determinate condizioni: per i dettagli scrivi garanzia o licenza.

>prendi soldi

Hai preso i soldi. >i

Hai dei soldi, una giacca e un cappello in mano. Stai indossando un orologio e hai una carta di credito e delle caramelle nelle tasche.

"NON avventura" di Leonardo Boselli NON avventura un semplice dimostrativo by Leonardo Boselli Release 2 / Serial number 090722 / Inform 7 build 5Z71 (I6/v6.31 lib 6/12N) SD

>indossa cappello

stanza dell'inventario In questa stanza puoi verificare come funziona l'inventario alla Trinity (estensione "Trinity Inventory"). Richiamalo con "inventario" o semplicemente "i". ESAMINA (X) le tasche, PRENDI oggetti dalle tasche, TOGLI l'orologio, il cappello e la giacca, LASCIA gli oggetti per terra, PRENDI gli oggetti da terra, INDOSSA il cappello, l'orologio e la giacca, METTI gli oggetti nelle tasche, verifica di volta in volta l'inventario ecc.

stanza del ricordo In questa stanza puoi verificare come funziona l'estensione "Remembering". Se non l'hai già fatto, torna nella stanza precedente (S) e LASCIA qualche oggetto, poi torna qui e ESAMINA (X) quell'oggetto: ti ricorderai dove l'hai visto l'ultima volta

La prossima stanza è a sud (S).

stanza dell'inventario In questa stanza puoi verificare come funziona l'inventario alla Trinity (estensione "Trinity Inventory"). Richiamalo con "inventario" o semplicemente "i". ESAMINA (X) le tasche, PRENDI oggetti dalle tasche, TOGLI l'orologio, il cappello e la giacca, LASCIA gli oggetti per terra, PRENDI gli oggetti da terra, INDOSSA il cappello, l'orologio e la giacca, METTI gli oggetti nelle tasche, verifica di volta in volta l'inventario ecc.

Indossi il cappello. >s

>i

Non hai nulla in mano, ma stai indossando una giacca, un cappello e un orologio. Hai anche una carta di credito, delle caramelle e dei soldi nelle tasche. >x tasche

Dentro le tasche puoi vedere una carta di credito, delle caramelle e dei soldi. >togli il cappello

La prossima stanza è a ovest (O), quella precedente a nord (N). >n

Ti togli il cappello.

La prossima stanza è a sud (S).

>lascia giacca

>lascia orologio

>i

>s

(prima togli l'orologio) Lasci l'orologio per terra.

(prima togli la giacca) Lasci la giacca per terra. Hai un cappello in mano. Stai indossando un orologio. >prendi giacca

Hai preso la giacca. >i

Hai una giacca e un cappello in mano. Stai indossando un orologio e hai una carta di credito, delle caramelle e dei soldi nelle tasche.

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stanza del ricordo In questa stanza puoi verificare come funziona l'estensione "Remembering". Se non l'hai già fatto, torna nella stanza precedente (S) e LASCIA qualche oggetto, poi torna qui e ESAMINA (X) quell'oggetto: ti ricorderai dove l'hai visto l'ultima volta La prossima stanza è a ovest (O), quella precedente a nord


(N).

nelle tasche.

>x orologio

>l

L'ultima volta che l'hai visto, l'orologio era nella stanza dell'inventario. >o

stanza delle cose nascoste Qui puoi verificare il funzionamento dell'estensione "Underside". In questa piccola stanza ci sono solo un letto e una sedia. PRENDI e LASCIA il pallone rosso, GUARDA SOTTO il letto e PRENDI la sedia, poi METTI qualcosa SOTTO il letto. La prossima stanza è a ovest (O), quella precedente a est (E).

stanza delle cose nascoste Qui puoi verificare il funzionamento dell'estensione "Underside". In questa piccola stanza ci sono solo un letto e una sedia. PRENDI e LASCIA il pallone rosso, GUARDA SOTTO il letto e PRENDI la sedia, poi METTI qualcosa SOTTO il letto. La prossima stanza è a ovest (O), quella precedente a est (E). Qui puoi vedere una sedia (su cui c'è un calzino rosso) e un libro di cucina. >o

Qui puoi vedere un pallone rosso e una sedia (su cui c'è un calzino rosso). >prendi pallone

Hai preso il pallone rosso. >lascia pallone

Il pallone rosso rimbalza sul pavimento e rotola sotto il letto. >guarda sotto il letto

Sotto il letto ci sono un pallone rosso e un calzino spaiato. >prendi calzino

stanza delle capacità limitate Qui puoi verificare l'estensione che limita le capacità dei contenitori (estensione "Bulk Limiter"). PRENDI gli oggetti per terra e METTI gli oggetti nel cestino. La prossima stanza è a ovest (O), quella precedente a est (E). Sopra il tavolo ci sono un cucchiaino e un cestino (vuoto). Qui puoi anche vedere un grande scatolone, un lingotto, una pepita e un cavolo.

Quale intendi, il 1) calzino spaiato o il 2) calzino rosso?

>prendi lingotto

>1

>metti lingotto nel cestino

>prendi sedia

>metti cavolo nel cestino

>lascia sedia

>metti scatolone nel cestino

Hai preso il calzino spaiato.

Hai preso il lingotto. Hai messo il lingotto dentro il cestino.

Prendendo la sedia scopri un libro di cucina e una sciarpa. Lasci la sedia per terra.

(prima prendi il cavolo) Hai messo il cavolo dentro il cestino. (prima prendi il grande scatolone) Il grande scatolone è troppo pesante per te.

>indossa sciarpa

(prima prendi la sciarpa) Indossi la sciarpa.

>metti pepita nel cestino

>i

Hai un calzino spaiato, dei soldi e una giacca in mano. Stai indossando una sciarpa e un cappello. Hai anche una carta di credito e delle caramelle

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(prima prendi la pepita) Non c'è abbastanza spazio nel cestino per la pepita. >prendi lingotto

Non puoi sollevare il lingotto.


>i

Hai una pepita, un calzino spaiato, dei soldi e una giacca in mano. Stai indossando una sciarpa e un cappello. Hai anche una carta di credito e delle caramelle nelle tasche. >prendi cavolo

Non puoi sollevare il cavolo.

coli su cui si può montare, come motociclette e cavalli (estensione "Rideable Vehicles"). Prova ad andare all'oasi che si trova ad est (E). La stanza del prossimo test è a nordest (NE), quella del test precedente a est (E). A sud (S) c'è l'oasi. >scendi

Scendi dal cammello.

>o

deserto dei veicoli cavalcabili Qui puoi verificare l'estensione che fornisce veicoli su cui si può montare, come motociclette e cavalli (estensione "Rideable Vehicles"). Prova ad andare all'oasi che si trova ad est (E). La stanza del prossimo test è a nordest (NE), quella del test precedente a est (E). A sud (S) c'è l'oasi. C'è un dattero per terra. Solo uno! Fanne buon uso. C'è un cammello molto vecchio, probabilmente abbandonato. Sembra molto stanco, ma potresti provare a cavalcarlo. >s

E' troppo lontano. Moriresti di sete. Devi procurarti una cavalcatura. >prendi dattero

Hai preso il dattero. >dai dattero a cammello

Il cammello lecca avidamente il dattero con la lunga lingua e grugnisce riconoscente.

deserto dei veicoli cavalcabili Qui puoi verificare l'estensione che fornisce veicoli su cui si può montare, come motociclette e cavalli (estensione "Rideable Vehicles"). Prova ad andare all'oasi che si trova ad est (E). La stanza del prossimo test è a nordest (NE), quella del test precedente a est (E). A sud (S) c'è l'oasi. C'è un cammello molto vecchio, probabilmente abbandonato. Sembra molto stanco, ma potresti provare a cavalcarlo. >ne

aula scolastica Qui puoi verificare l'estensione che simula gli oggetti su cui si può scrivere, copiare, leggere e cancellare (estensione "Notepad"). SCRIVI sulla lavagna (ricorda che serve il gesso!) e sul quaderno (serve la matita!), LEGGI o ESAMINA (X) la lavagna e il quaderno, RICOPIA ciò che hai scritto sulla lavagna sul quaderno, AGGIUNGI del testo sulla lavagna, CANCELLA la lavagna o parti del testo. La prossima stanza è a est (E), quella precedente a sudovest (SO).

>sali su cammello

Monti il cammello. >s

Il cammello trotta nella direzione che gli hai ordinato. oasi (sopra il cammello) Ti ristori al fresco dell'oasi, ma il tempo passa presto ed è già ora di tornare. Ad nord (N) vedi in lontananza le dune del deserto dei veicoli cavalcabili. >n

Il cammello trotta nella direzione che gli hai ordinato. deserto dei veicoli cavalcabili (sopra il cammello) Qui puoi verificare l'estensione che fornisce vei-

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Qui puoi vedere una cattedra (su cui ci sono una matita, un gesso e un quaderno) e una lavagna. >scrivi w la scuola sulla lavagna

Non hai nulla con cui poter scrivere. >prendi gesso

Hai preso il gesso. >scrivi w la scuola sulla lavagna

Hai scritto "w la scuola" sulla lavagna. >prendi matita

Hai preso la matita. >ricopia lavagna su quaderno

Hai copiato il contenuto della lavagna sul quaderno e quindi il testo sul quaderno ora è: "w la scuola."


>cancella scuola da lavagna

La cancellatura lascia sulla lavagna il testo: "w la."

cappello, l'orologio e la giacca, METTI gli oggetti nelle tasche, verifica di volta in volta l'inventario ecc.

>aggiungi squola su lavagna

La prossima stanza è a sud (S).

Hai aggiunto al testo sulla lavagna. Il testo ora è: "w la squola."

Qui puoi vedere un orologio. >indossa orologio

>e

stanza dei telefoni Qui puoi verificare l'estensione che simula telefoni fissi e cellulari (estensione "Telephones"). Il telefono fisso è in fondo alla stanza. CHIAMA 1234 per parlare con il tuo amico Aldo. Poi CHIEDI A Aldo DI calcio, lavoro, progetto, supervisore e capo. Per terminare la conversazione AGGANCIA. La prossima stanza è a est (E), quella precedente a ovest (O). Qui puoi vedere una scrivania (su cui c'è un cellulare). >chiama 1234

(sul cellulare)

(prima prendi l'orologio) Non puoi sollevare l'orologio. >i

Hai una matita, un gesso, un dattero, una pepita, un calzino spaiato, dei soldi e una giacca in mano. Stai indossando una sciarpa e un cappello. Hai anche una carta di credito e delle caramelle nelle tasche. >lascia matita, gesso, dattero, pepita, calzino, soldi

matita: Lasci la matita per terra. gesso: Lasci il gesso per terra. dattero: Lasci il dattero per terra. pepita: Lasci la pepita per terra. calzino spaiato: Lasci il calzino spaiato per terra. soldi: Lasci i soldi per terra. >indossa orologio

"Pronto?" dice Aldo dall'altro capo della linea.

(prima prendi l'orologio) Indossi l'orologio.

>chiedi a aldo di lavoro

Questo è un argomento scottante. "Odio questo progetto," dice Giovanni. "Dopo giorni e giorni non riesco a cavarne nulla."

>indossa giacca

>chiedi a aldo di progetto

Non hai nulla in mano, ma stai indossando un orologio, una sciarpa, una giacca e un cappello. Hai anche una carta di credito e delle caramelle nelle tasche.

"Se vuoi sapere il mio parere," dice Giovanni, "penso che produrre acqua disidratata sia folle. Ma... beh! Il capo, Rossi, ha detto che è possibile ed il supervisore, Bianchi, è sempre pronto ad approvare. Chi sono io per dissentire?" >chiedi a aldo di supervisore

"In vita mia non ho mai visto uno così pronto a baciare... sai cosa intendo... al capo." >chiedi a aldo di capo

"E' un pazzo. Acqua disidratata! Mah!?" >e

(prima interrompi la comunicazione con l'Aldo) stanza dell'inventario In questa stanza puoi verificare come funziona l'inventario alla Trinity (estensione "Trinity Inventory"). Richiamalo con "inventario" o semplicemente "i". ESAMINA (X) le tasche, PRENDI oggetti dalle tasche, TOGLI l'orologio, il cappello e la giacca, LASCIA gli oggetti per terra, PRENDI gli oggetti da terra, INDOSSA il

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Indossi la giacca. >i

>l

stanza dell'inventario In questa stanza puoi verificare come funziona l'inventario alla Trinity (estensione "Trinity Inventory"). Richiamalo con "inventario" o semplicemente "i". ESAMINA (X) le tasche, PRENDI oggetti dalle tasche, TOGLI l'orologio, il cappello e la giacca, LASCIA gli oggetti per terra, PRENDI gli oggetti da terra, INDOSSA il cappello, l'orologio e la giacca, METTI gli oggetti nelle tasche, verifica di volta in volta l'inventario ecc. La prossima stanza è a sud (S). Qui puoi vedere dei soldi, un calzino spaiato, una pepita, un dattero, un gesso e una matita.

FINE


S ka n

VALE PIU' di mille parole Earth Spirit - Dolmen

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S ka n

Il Lato Oscuro

Sol Weintraub

La danza

Perché il mio amore affonda in questa vita, nudo, mistico, affamato. Perché ho un destino oscuro e non paura avendo aperto il cuore al mio infinito. [Faust'O, Perché il mio amore]

URLICHT Le note degli archi mi penetrano, squarci di realtà a lacerare il sonno. Mi aggrappo all'oblio mentre ottoni lontani aprono un sentiero sinuoso in questa nebbia. Piango, perché vorrei restare. Apro gli occhi e li vedo, i serpenti. L'uomo prima della bestia. La poltrona lo avvolge; cuoio nero e nero il suo vestito. Un caprichos di Goya fa da sfondo a quest'incubo. Mi aspettavo uno yogi dallo sguardo assente o uno scarno sadhu, sereno nella mukti; ma non c'è vuoto in quegli occhi da esicasta folle. Per quanto ho sperato di incontrarti, di essere liberata. L'allegro maestoso si innalza, accompagnando le voci di un coro lontano. O ròschen roth! Der mensch liegt in gròsster noth! Der mensch liegt in gròsster pein! Lieber mòcht'ich in

folgore. La roccia. Il vento. Sulla pelle lucida giochi di ombre accarezzano le spire. Il fiume. La fiamma. Lentamente sorge. Mi osserva ondeggiando sui flauti. Da kam ich aufeinem breitem Solleva la testa mostrandomi il weg; da kam ein engelein und manto regale. wollt mich abweisen; La lingua mi assaggia nell'aria. Ach nein! Ich liess mich nicht Siamo figli della stessa terra. abweisen. Ushiro sugata ga waratte iru, Ma il suo volto resta immobile, Yangjing Wang Se. e nell'infrangersi dell'illusione La tua ombra sta ridendo, re dei vedo il rettile che mi sta di serpenti. fronte. - Speranza. E mi chiedo se sia reale o la ve- Sentirlo pronunciare il mio nora forma della sua anima. me è come un colpo in pieno Le squame color bronzo rico- petto. prono il corpo, massiccio come Alzo il volto, cercando i suoi un tronco, rapido come la occhi. himmel sein!

Ora sono qui davanti a te; vestita da troia, il trucco sbavato. Vuoi che ti implori, Maestro? Vuoi che ti preghi di stuprarmi ancora con le tue parole di verita, di violentarmi l'anima?

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La bestia ruggisce; un soffio pieno, profondo, vibrante come un mantra. - È speranza ciò che cerchi? Non esiste speranza senza trasformazione, né cambiamento senza comprensione, né comprensione senza dolore. Il coro si fonde con l'ultimo sibilo. Ich bin von Gott und will wieder zu Gott! Der liebe Gott wird mir ein lichtchen geben, wird leuchten mir bis in das ewig selig leben!

- Danza per me.

nuovo. mia vita, e la voglio ballare con Vorrei piangere. te, mio schiavo e mio maestro. Una mano si muove rapida, Tu sei ogni donna in cui ho afferrando la coda. cercato me stessa. Le fauci si chiudono, mordendo Ogni uomo in cui ho voluto l'aria. rinnegarmi. Mi sento sollevare. La simmetria dei numeri in cui L'incantatore muove il giho trovato ordine. nocchio al ritmo della musica. Sei il disprezzo e Mia madre mi stringe al petto. l'incomprensione. L'ultima volta che ricordi. O glaube, mein Herz, O glaube: es geht dir nichts verloren! Was entstanden ist, das muss Dein ist, dein, ja dein, was du vergehen! Was vergangen, au- gesehnt! Dein, was du geliebt, fersteh'n! was du gestritten! Hòr' aufzu beben! Bereite dich zu leben! Ormai siamo un tutt'uno,

Afferro la coda della bestia mentre la sua bocca mi cerca. Mi ritraggo al suo bacio quel tanto che basta, poi avanzo di nuovo. - Grazia! Il cuore si ferma. Aufersteh'n, ja aufersteh'n - Con più grazia! wirst du, mein staub, nach La sua voce, cullata dalle arpe. kurzer ruh! Inizio a muovermi, inseguendo Unsterblich leben! Unsterblich le note. leben wird der dich rief, dir ge- La coda è calda e liscia, scivola ben. sulla pelle cingendomi il E in quell'attimo prima della fi- braccio, stringendolo. ne ecco riaffiorare un ricordo. Ondeggiamo assieme. DIE AUFERSTEHUNG I timpani percuotono l'aria, come il mio grido. Il coro riprende, seguendo il crescendo.

C'è un uomo nella piazza, proprio sotto la statua di Park Chung-Hee; davanti a lui ondeggia un serpente. Mia cugina e io ci stringiamo la mano, impaurite e incantate. Il flauto suona una nenia. Qualcuno spinge tra la folla assiepata. Cado a terra. Polvere sul pizzo bianco del vestito. La testa del cobra scatta verso di me. La mamma si arrabbierà di

O Schmerz! Du alldurchdringer! Dir bin ich entrungen! O Tod! Du allbezwinger! Nun bist du bezwungen! Mit Flugeln die ich mir errungen. In liebesstreben werd' ich entschweben. Zum Licht zu dem kein Aug' gedrungen.

sincresi di pelle e scaglie, persi dello stesso ritmo, nel battito di un cuore. Mi chino e gli bacio il capo con infinito amore. Mi amo. E mi perdono. La testa scatta in avanti, affondando le zanne. Ancora, e ancora. Cado a terra, immobile. Lo sento stringere. Mit Flugeln die ich mir errungen, werd ich entschweben! Aufersteh'n, ja aufersteh'n wirst du mein Herz, in einem Nu!

Suona il silenzio. Mi alzo, tremando. La vecchia pelle giace ai miei piedi, già secca e fragile come Mi lascio andare provocandolo, il passato. per poi ritrarmi. Speranza, grazia, resurrezione. Mi prometto, senza concedermi. È la mia danza, la storia della

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S ka n

AMAZING MAGAZINE

S k a n n a t o i o e d i z i o n e XXI V S ho c k i ng i n m y to w n

&

Ormai è assodato: lo Skannatoio, la gara criticoletteraria de La Tela Nera, si chiama in questo modo non a causa del particolare format che vede gli autori confrontarsi a suon di racconti e critiche incrociate, ma perché ogni due mesi circa il moderatore di turno, per un motivo o per un altro, dà forfait. Infatti, dopo Sol Weintraub, anche La Vic ha abbandonato la competizione al suo destino. La gestione è tornata nella capaci mani di Jackie de Ripper, ma già un nuovo moderatore si profila all'orizzonte. Riuscirà a resistere agli strali dello Skannatoio più dei predecessori? Dopo questa domanda a cui è difficile dare una risposta senza una sfera di cristallo sottomano, diamo un'occhiata alle specifiche della gara di novembre. La XXIV edizione regolare dettava queste richieste: Lunghezza. Minima: 5000 caratteri. Massima: 50.000 caratteri (spazi inclusi, escluso il titolo ed eventuale liberatoria). Genere: horror, giallo, fantastico e relativi sottogeneri. Particolarità: a) Un evento dovrà sconvolgere la quotidianità di una città (piccola o grande che sia) e cambiare in maniera consistente il modo di vivere o di pensare dei suoi abitanti. Emblematico potrebbe essere l'11 Settembre in America, ma di esempi ce ne sono moltissimi: pensate a "La tempesta del secolo" di King, ma

S k a n n a t o i o s p e c i a l e XXI V V e n t i qu a t t r ' o r e a s c e l ta m u l ti p l a

anche al "Popolo dell'autunno" di Bradbury; potrebbe anche trattarsi di un evento positivo, che scuota le coscienze. A voi la scelta. b) Il racconto dovrà contenere minimo due punti di vista differenti (due personaggi che osservano autonomamente lo svolgersi degli eventi, per capirci).

La coccarda prevista, del valore di 15 punti per il Campionato, doveva essere assegnata al racconto con i "personaggi più credibili." In realtà non è stata assegnata, così come non si è tenuto il tanto agognato, quanto temuto, Giorno del Giudizio. Invece per lo speciale di ventiquattr'ore sono stati selezionati più temi a scelta. Gli autori dovranno scrivere un racconto tra i 1.500 e i 15.000 caratteri (spazi inclusi, estremi inclusi) di genere horror, giallo, fantastico (fantasy, fantascienza e tutti i relativi sottogeneri) Dato il numero esiguo di proposte e lo scarto minimo di punteggio si potrà, per questa edizione, scegliere tra due temi e due elementi. I temi sono: "Negligenza occultata" (specifica di shanda06) oppure "Divinità mitologiche" (specifica di anark2000) Libera interpretazione da parte degli autori. Nel racconto dovranno comparire degli animali (specifica di willow78) oppure un altare (specifica di anark2000).

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S ka n

così la tonalità fluo- occhi scuri e le folte sopracciglia M o n d i p e r d u t i raggiungendo rescente dei suoi simili. brizzolate lasciavano trapelare

È passato molto tempo da quando sono giunta in questo limbo sconosciuto, incrocio tra i quadri di Picasso e le ambientazioni di Lovecraft. Non c'è paura, non c'è amore. I sentimenti di una vita normale sono sfumati, da qualche parte, lontano, forse ai confini dell'universo stesso. Che giorno è oggi? Qui non lo sa nessuno. È la quarta volta che viaggio su questa specie di sommergibile e di una cosa sono quindi sicura: vogliono farmi sognare. Mi sta bene. La camera onirica è l'unico luogo di questo mondo in cui si riaccendono i sensi e la vita riprende a scorrere in un torrente di raggiante energia mistica. Dobbiamo essere abbastanza vicini, sento i brividi scendere lungo la schiena; anche gli altri passeggeri sembrano rinascere dal loro stato catatonico. Guardando fuori, attraverso l'oblò e nell'oscurità di un liquido che potrebbe essere acqua, vedo l'hotel: ha cambiato insegna per l'ennesima volta e le parole ricordano l'inglese. La scritta al neon dice “RENT FOR JAWL”. Le sagome di enormi e gialle code di pesce escono a penzoloni dalle fessure del complesso fatto di torri nere rettangolari. Un nuovo cliente spunta da dietro l'edificio: quello è uno squalo che brilla come il sole, ma non vengo accecata; ne osservo i fluidi movimenti serpentini finché non entra nel suo alloggio e si spegne,

Il sommergibile aggira l'hotel, come di consueto. Una gigantesca figura umanoide raggiunge le torri: anch'essa è gialla, ha le sembianze di una robusta signora il cui altro particolare che la contraddistingue dai selaci è la folta criniera crepuscolare. Si avvicina con passo calmo alle pinne caudali, le bacia come se dovesse augurare la buona notte e ogni volta un cuoricino scarlatto appare per poi risalire in superficie... se mai dovesse esisterne una. Ho la sensazione di assistere a un cartone animato. Questo mondo è strano, celato chissà dove e a quale profondità. Osservo le macchiette rosse perdersi nell'abisso, sempre più piccole. Il brusio emesso dal sommergibile si sta attenuando, a breve ci sarà l'attraccaggio. Ritrovo l'ansia perduta. Quel martedì mattino, il cielo di New York era azzurro e l'aria, satura di inquinamento e pesante da inalare, attanagliava i cittadini con gli ultimi barlumi estivi. Nel distretto del Queens si respirava meglio. Il traffico, meno caotico, era concentrato sulla superstrada che conduceva dritto al cuore di Manhattan, attraverso il ponte di Ed Koch Queensboro. La berlina nera della Lexus avanzava con regolarità, ormai prossima ai primi semafori della grande mela. Il suo conducente, Robert Oliva, trent'anni, iniziava il turno alle 8:00 come poliziotto del 23° al Patrol Borough Manhattan South. La carnagione chiara, gli

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possibili origini italiane. Al suo fianco sedeva la sua compagna, Debra Mannetta, 31 anni, i cui lunghi capelli castani scendevano a caschetto fino al colletto della camicia bianca. Era intenta a controllarsi il trucco nello specchietto del parasole. Lui la guardò e sorrise. - Che hai da ridere? - chiese lei, sospettosa. - Niente, è che ti trovo già bene così, sei bellissima. - ...Uomini. Non capirete mai quanto una donna ci tenga a queste cose. Passarono alcuni minuti di religioso silenzio, Robert intento a guidare e Debra presa dall'agenda elettronica del cellulare. - Eccoci. La prima fermata è tua, disse l'uomo - buon lavoro, amore. Ci vediamo stasera. - Ciao tesoro, - continuò lei, accompagnando un bacio furtivo a stasera. La ragazza scese dalla macchina e si diresse verso l'ingresso del World Trade Center. Robert la seguì con lo sguardo mentre lei si accendeva una sigaretta, poi un colpo di clacson distolse la sua attenzione. Diede un'occhiata al retrovisore e alzò la mano in segno di scusa al tassista che lo seguiva. Poi ripartì, Debra era sparita tra la folla del gran marciapiede. Il vantaggio di un poliziotto che lavorava a Manhattan era la possibilità di usufruire del parcheggio comunale. Questo rendeva il viaggio verso il Distretto meno stressante e più piacevole. Pochi isolati e Robert arrivò a de-


stinazione. Stava ancora aprendo la portiera, quando la voce dell'amico e collega più anziano lo raggiunse senza preavviso: - Ehi, Bobby! Ma non eri fuori servizio, oggi? - Buongiorno a te, Jason. La tranquillità nella voce di Robert spiazzò l'altro, che riuscì a malapena a balbettare un saluto: Buongiorno... Inserito l'antifurto, il giovane riprese il discorso: - Ero fuori servizio... Ma Eric si è ammalato e sono stato chiamato stamane, d'urgenza. - Che scalogna! Per Eric, intendo. Dai, non te la prendere. Significa che oggi farai coppia con me. Andiamo! Più tardi ti offro il caffè. Robert sorrise e lo seguì. I due poliziotti erano già in divisa, dovevano solo andare in ufficio a firmare il registro degli orari per poi scendere giù, in strada.

guerra mondiale. I ricordi riaffiorano da soli, senza sforzare la mente. Come le altre volte. Siamo invitati a raggiungere il boccaporto, saremo all'incirca una ventina. Aspetto il mio turno, nessuno ha fretta. Un lungo tunnel pulsante è il passaggio che condurrà alla stanza dei sogni. È in discesa e il colore luminescente non permette la visuale esterna. Ai lati, statue di visi rettangolari rilasciano un roseo liquido cristallino dal loro naso a forma di tubo; gli occhi a sfera che fuoriescono sono inquietanti e ricordano molto lo stile delle fontane nel labirinto di Joan Mirò. Sono scalza, ma non scivolo. Ho la tunica, nera, e mi sento in un certo modo protetta, poiché il cappuccio nasconde altrettanto bene anche me e non ho nessuna voglia di guardare in viso i partner di viaggio. La meta è prossima. All'ingresso ci sono altri accompaL'inclinazione del sommergibile gnatori, uno di loro mi raggiunge permette di avere una panoramica e tende il braccio indicando la via. del luogo di destinazione. Andiamo insieme. Osservo, impressionata come la Il corridoio è fiancheggiato da prima volta, l'immenso muscolo porte raffiguranti, all'interno, pulsante del quale non si vedono qualcosa... di vivo: mani rile estremità e le cui arterie si pro- cercatrici e visi in agonia pagano verso l'alto per perdersi, osteggiano il passante ma, ogni anch'esse, nel buio. volta che una tunica grigia si fa La luce intermittente ricorda le avanti, i rilievi si ritraggono, sfumature del magma vulcanico, soggiogati, e l'entrata si apre. linfa energetica della Madre Terra. Esito, la mia attenzione è rivolta Gli esseri che ci hanno accompa- all'ultima porta centrale situata in gnato si alzano, nascosti sotto i fondo: è molto più grande e, dicappucci delle tuniche grigie; versamente dalle altre, raffigura il l'improvviso silenzio coincide con rilievo di una giovane donna sedul'arresto del mezzo subacqueo. ta su un trono di teschi; le mani Già attraccati ci sono altri sono poggiate sul grembo gravido sommergibili: assomigliano tutti e il volto sereno sembra aspettare, ad aerostati risalenti alla seconda paziente.

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L'essere al mio fianco percepisce i pensieri e, prima ancora che io possa proferir parola, mi scava nella mente con i suoi prodigiosi poteri, come altri fecero nei precedenti viaggi. - È una delle porte di Iside. Solo l'eletto potrà varcare la soglia e acquisire il potere assoluto. Sogna. E anche tu avrai la tua occasione.

Non serve aggiungere altro. Oltrepasso la piattabanda organica. Poco più avanti, noto che uno dei due giacigli è occupato. Tenui bagliori purpurei negano i dettagli all'occhio nudo. Così è da questa distanza. La porta sbatte alle mie spalle e lo spavento mi fa perdere l'equilibrio. Sgomento. Ho pensato fuori misura e non sono riuscita a gestire le sensazioni, ritrovate troppo in fretta. Pochi passi maldestri e cado sul ventre dell'altro ospite. Lo guardo costernata. Una voce stanca sgorga da quel giovane viso: - Ah... Come un soffio di vento, il volto del ragazzo si trasforma in maschera di morte e un teschio spoglio ne prende il posto. Spero di non aver fatto qualche casino. Attendo un attimo. Non arriva nessuno. Vado a prendere il mio posto. Tutto tace. Aspetto che arrivi il sonno, devo solo chiudere gli occhi... e ricordare. L'ufficio di Debra si trovava all'82° piano della Torre Nord ed era situato in maniera che si po-


so. - Non dire cretinate, se vuoi farti perdonare hai solo che da far leggere anche me. Robert chiuse il cellulare per tutta risposta, ma, prima che Jason potesse aggiungere altro, qualcosa attirò la loro attenzione. Dapprima videro un'ombra, concretizzata poi da un aereo che volava su Manhattan a un'altitudine troppo bassa rispetto alla norma. Il rombo assordante dei motori li investì subito. Non ci fu tempo per dire qualcosa. Seguirono impotenti il volo, con lo sguardo, finché non sparì dietro l'edificio. Jason si voltò verso il collega e parve voler dire qualcosa, ma una Jason lasciò di corsa lo Starbucks grande esplosione li fece trasalire. con i caffè e raggiunse il collega La terra tremò. - No... - iniziò a ripetere Robert all'angolo tra River Terrace e mentre aumentava il passo verso Murray Street. sud-est per avere una miglior vi- Attento, scotta. Robert annuì e prese il bicchiere. suale. E più si avvicinava, Un attimo dopo si accorse che il maggiore era lo sconforto. Nec stava vibrando. Lo sfilò dal Jason lo seguiva, radio alla mano, taschino: una notifica indicava che pronto a comunicare qualsiasi cosa. aveva ricevuto un messaggio. Quando il fumo portò gli occhi Alzò la conchiglia e sorrise. alla fonte, i poliziotti restarono baJason sbuffò: - Non volermene, amico, ma dovresti far capire alla siti dinanzi alla torre in fiamme. tua donna che non è bene cercarti Debra aveva girato la poltrona quando sei in servizio. verso la vetrata. Osservava il - Scusa boss, hai ragione. Dimentico sempre che potremmo es- cellulare in attesa di una risposta sere in procinto di smantellare un che non arrivava. Forse aveva sbacartello o di infiltrarci dentro chis- gliato a cercarlo in servizio, ma si sà quale organizzazione criminale. disse che, se lui avesse avuto il viLa seconda volta, Jason, replicò bra attivato, allora l'avrebbe senticon un grugnito: - Davvero spiri- to e, alla prima occasione opportutoso... il fatto di essere un sempli- na, risposto. ce addetto al traffico cittadino non Si alzò, giusto in tempo per accorgersi di una gigantesca dovrebbe mai essere denigrato. Anche noi possiamo trovarci in si- ombra furtiva che ricopriva gli edifici inferiori. tuazioni poco piacevoli. - Lo so, lo so. Scusa se ti ho offe- Ci fu un boato terribile, la torre tesse godere di un'ottima vista verso Central Park. Il lavoro alla Carr Futures le permetteva di mantenere un tenore di vita dignitoso. L'idea che in questi giorni le balenava per la testa era che, se avesse venduto abbastanza pacchetti, avrebbe presto ricevuto una promozione e, con essa, la possibilità di cercare casa verso la verde contea di Huntington, dove avrebbe pensato a mettere su famiglia con il suo compagno. Erano le 8:44 e il primo appuntamento era fissato per le 9:00. Aveva preparato già tutto, quindi pensò che poteva scrivere qualcosa di carino a Robert, nell'attesa.

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tremò, e lei cadde a terra come se le gambe non esistessero più. La testa sembrava scoppiarle, aveva l'impressione che molte persone gridassero da qualche parte lontano, come se fossero su qualche attrazione mozzafiato del luna park. Quando riuscì a sollevarsi, oggetti in fiamme stavano precipitando rasenti il fianco della torre. Fece qualche passo indietro, finché non urtò la scrivania, e solo allora si accorse che le urla giungevano dalla sala fuori dell'ufficio. Si buttò sulla moquette a cercare il telefonino: non era caduto molto lontano, ma camminare a carponi era un'impresa ardua, tanto il corpo le tremava. Lo raggiunse, infine, e si accorse che Robert la stava chiamando. Il Nokia era un modello da lei scelto in quanto semplice da utilizzare, eppure, in quel momento, il tasto verde sembrava irraggiungibile. Quando riuscì a premerlo, provò a parlare e la cosa risultò alquanto complicata a causa dell'iperventilazione polmonare. Fu l'interlocutore a pronunciarsi per primo: - Debbie stai bene? Cristo Santo, Debbie, dimmi qualcosa! Riusciva appena a respirare. Calmarsi, al momento, le era impossibile. Passò qualche secondo, ma le sembrò che fossero passati minuti. Balbettò qualcosa: - Bobby... aiuto... - Debbie! Devi uscire di lì! Scappa! - ...Cosa è successo? - Non fare domande e scendi, sto arrivando!


Il tono usato da Robert le faceva paura, non lo aveva mai sentito gridare così. Cercò di regolarizzare la respirazione. Tutto sembrava tremare. - Va bene Bobby, ci vediamo dove mi hai lasciato stamattina... Debra si accorse che era da molto tempo che non chiamava più il suo compagno per nome, le sembrò un'affermazione bizzarra. - Ti prego, Debbie, sbrigati... Questa volta percepiva in lui una nota di disperazione, quasi di rassegnazione. - Debbie, ti amo... - ...Ti amo. Mentre concludeva la conversazione, la ragazza trattenne le lacrime, invano. Si fece coraggio e uscì dall'ufficio. Doveva attraversare tutta la sala dello spazio Call Center prima di raggiungere l'ascensore; il piano era quasi interamente dedicato alla Carr Futures. Il personale, in preda al panico, era ammassato contro le porte in attesa che si aprissero. Pugni e calci venivano sprecati contro il solido metallo e i pulsanti. Cercò di farsi strada tra una scrivania e l'altra; c'erano documenti sparsi ovunque. Una ragazza era nascosta sotto un tavolo e Debra si sentì in dovere di aiutarla a uscire da quella tana. Le porse una mano. Avrebbe voluto parlarle, incoraggiarla, ma qualcuno la urtò con violenza nella noncuranza della corsa e lei scivolò in avanti. Urtò la testa contro lo spigolo del mobile.

no. Il traffico bloccato gli aveva precluso l'uso della vettura di servizio. Jason era rimasto indietro, non aveva più l'età per quel genere di corse e decise di limitarsi a gestire la zona, restando in contatto con il Distretto. Ormai riusciva a vedere gli ingressi del World Trade Center, mancava poco. Un'altra ombra lo eclissò portandolo a guardare su. L'esplosione fu così improvvisa e immediata che Robert perse l'equilibrio, investito dallo spostamento d'aria, e fu costretto ad aggrapparsi a una cabina telefonica. Gli era sembrato di scorgere la sagoma di un aereo prima dell'impatto, si chiese cosa stesse accadendo al mondo. La normalità che conosceva da sempre era stata appena incrinata in un modo che mai avrebbe immaginato. Robert sentiva le gambe tremare, ma doveva raggiungere al più presto il luogo dell'appuntamento. Trovò la forza di proseguire. La sua radio sembrava impazzita; arrivavano troppi messaggi ed era complicato fare un quadro della situazione. Giunto a destinazione, si accorse che della sua compagna non c'era ancora traccia. Guardò impaziente verso ogni direzione dalla quale sarebbe potuta arrivare. Il tempo scorreva, ma si accorse presto che qualcosa non stava andando per il verso giusto: c'erano molti poliziotti e vigili del fuoRobert correva dando sfogo a tutte co che entravano in continuazione le proprie energie; non era poi co- nel centro, ma di civili in fuga se sì lontano, ma nemmeno così vici- ne contavano pochi.

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L'idea che gli ascensori potessero aver cessato di funzionare affiorò nella mente del ragazzo, che prese quindi la decisione di introdursi nell'edificio. Raggiunse con facilità l'androne e in poco tempo incontrò un gruppo di colleghi che sembravano persi nelle decisioni da prendere. - Ragazzi! Che sta succedendo qui? - urlò Robert dando subito uno sguardo agli ascensori. - Non funzionano, cazzo! - rispose qualcuno. - Cercate i civili sul piano! - gridò un altro - Le scale! Le scale! Incapace di ascoltare le parole dei colleghi, rifiutò quella realtà e provò comunque a premere i pulsanti di chiamata. Nulla. Mancava la corrente. Un gruppo di pompieri era alla porta che dava sulle scale antincendio, non esitò un solo attimo e si precipitò da loro. Quando provò a passare, un uomo sulla quarantina lo intercettò: Fermo! Qui è tutto bloccato. Non si va da nessuna parte! - Non è possibile! - rispose Robert, spingendo via il pompiere . Cosa vuol dire che è tutto bloccato? - La struttura ha ceduto. Si riesce a salire a malapena di qualche piano. E là, ce ne stiamo occupando noi. Vai ad aiutare con gli altri laggiù, ragazzo. L'uomo aveva capito le buone intenzioni di Robert, ci sapeva fare nel suo mestiere. Per lui ognuno doveva compiere il proprio dovere, ma nel posto giusto. Prima che i due potessero aggiungere altro, una forte scossa simile a un terremoto li destabilizzò. Tutti caddero a terra; il fra-


stuono era tale da occultare ogni altro rumore. Le persone non riuscivano a farsi sentire nemmeno parlando a pochi centimetri, l'un l'altro, dal naso. L'attimo sembrò eterno. Una fitta coltre di polvere riempì il piano terra e respirare diventò quasi impossibile. Tra i colpi di tosse e le richieste d'aiuto, un messaggio ben definito trapelò dalle radio dei poliziotti: - Gesù! La Torre Sud è crollata... la Torre Sud è crollata... Robert sentì il sangue raggelarsi, restò bloccato il tempo che la polvere si diramasse un po'. Qualcuno riuscì a trovare le forze per urlare: - Dannazione, andate tutti via, che restino solo i pompieri! Il ragazzo venne aiutato a rialzarsi e si accorse che, oltre a lui, anche tutti i suoi colleghi erano impreparati a questo tipo di avversità, a differenza dei pompieri. Il gruppo di poliziotti si era riunito e si fece sostegno per recarsi all'uscita; uno di essi piangeva per la disperazione. Si sentiva un debole, non era riuscito a salvare il suo amore. Debra aprì gli occhi. Si tirò su a fatica, la testa era pesante come la roccia. Si toccò la fronte e vide subito le tracce di sangue sulle dita. Le ci volle un attimo prima di ricordarsi dell'accaduto. Qualcosa era cambiato. Non c'era più nessuno a quel piano e pensò di esser stata abbandonata lì.

La calma regnava sovrana e il silenzio era interrotto solo dal suo respiro. Si avvicinò agli ascensori, provò a chiamarli tutti, ma si accorse subito che erano fuori servizio. Una corrente d'aria le scostò i capelli, attirando la sua attenzione sulle vetrate. Alcune di esse erano rotte. Si avvicinò per guardare meglio. A un tratto, una figura passò veloce verso l'alto, come se stesse volando. Si chiese se fosse impazzita, ma non ci fu il tempo per le domande: altre figure passarono giungendo da ogni direzione, alcune di esse cingevano un passeggero. Cercò di mettere a fuoco la vista per fare luce su quel misterioso prodigio, quando qualcuno si fermò a mezz'aria, a pochi metri da lei, facendola trasalire. Fu solo un attimo di paura, perché si rese subito conto di conoscere l'uomo in uniforme che le stava sorridendo. - Bobby? Lui si avvicinò e la prese in braccio: - Tieniti forte, ti porto via da questo inferno. Debra prese alla lettera quanto le venne detto e in un attimo si ritrovò a volare con lui. La ragazza era stupefatta. Osservò la città sotto i piedi pendolanti. In poco tempo raggiunsero il suolo, lontano dalle torri. Lei lo baciò, ma si accorse subito che lui non si lasciava andare come avrebbe dovuto, sembrava freddo. Iniziò a guardarsi intorno e si rese conto che altre persone sta-

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vano scendendo dal cielo, mentre altre si trovavano già a terra. Tutti guardavano verso la torre e tutti avevano il volto di Robert. Debra non riusciva a capire. Poi, un terremoto iniziò a scuoterla con aggressività. Scivolò a terra, ogni cosa stava cadendo a pezzi. I Robert in uniforme restavano impassibili, con le braccia conserte. Dopo qualche battito di ciglia, Debra si accorse di essere ancora vicino a dove aveva sbattuto la testa; la ragazza che prima si era nascosta sotto il tavolo le stringeva forte la mano e piangeva. Il soffitto crollò, insieme al pavimento. Tutto stava collassando rovinosamente su se stesso. Per un po' Debra si sentì leggera, nel vuoto; purtroppo non sentiva più la presa della collega. Ci furono polvere e bagliori di luce che passavano a tratti in una caduta che sembrava non potesse finire mai. Era l'inferno. Tuttavia, in quel maelstrom di macerie, le parve di sentire il telefonino vibrare nel taschino dei pantaloni. Seguì il silenzio. Sto sognando? Sì, è sicuramente così. Per la quarta volta consecutiva mi ritrovo a vedere le stesse cose. Ma quanto tempo sarà passato tra i ricordi ritrovati, il sonno e l'arrivo al Memorial? Sono circondata da molte perso-


ne sospese, come me, a qualche metro dall'acqua. Poco lontano, tra la folla giunta a contemplarci in silenzio, c'è lui. Non mi è ancora ben chiaro chi sia, ma la sua uniforme da poliziotto brilla come un faro di speranza nel buio. Osserva in questa direzione; sembra non vedermi. So che è stata una persona speciale, eppure non riesco a rievocarlo. Ho rammentato parecchie cose, grazie a queste visioni, e oggi ho preso coscienza di come sono morta. Però, mi chiedo, perché ogni volta torno qui? È forse questo una specie di rituale che dovrebbe aiutarmi a svelare l'enigma di Iside? Ci sono altri posti che vorrei visitare, invece... La quiete è interrotta dai rintocchi della campana. Il tempo sfugge e lui è sempre lì. Piange, mentre lascia un mazzo di rose bianche sopra il mio nome. Non vedo le scritte, ma so che è così. Partono tutti, il poliziotto è tra gli ultimi. Quando porta via la sua luce, come ogni volta, il sogno si fa scuro e svanisce nell'abisso onirico. Apro gli occhi, ignara di quanto tempo abbia dormito. Il posto accanto è vuoto e il neon non lampeggia più. Spero che l'altro non abbia avuto problemi o, peggio ancora, protestato contro la mia sbadataggine.

È tempo di andare. L'accompagnatore attende sull'uscio, pronto a invadere la mia mente: - Hai sognato, pensa fiducioso - hai acquisito il diritto di provare. Seguo la fila che prosegue lungo il corridoio. Laggiù c'è la promessa di Iside. Sarò così speciale da riuscire dove io per prima ho già fallito in passato? Ognuno prova ad aprire la porta, ma nessuno ci riesce. In breve tempo arriva il mio turno. Il rilievo della donna sembra alzare il capo, o forse è solo un gioco di ombre sinistre? Il pomello ha la forma di un bocciolo di rosa. Quando lo tocco, rami di spine sgorgano dai petali e mi avvolgono il polso; le punte trafiggono la carne. Non sento dolore, né agonia. Prendo coraggio. Provo ad aprire, ma non accade nulla. È come se le emozioni acquisite iniziassero a sgretolarsi lungo il corpo deluso, calpestate dai piedi nudi. Proseguo, affranta, lungo il cammino che mi riporterà al sommergibile, per tornare chissà dove e chissà quando. Sono gli ultimi passi in cui posso assaporare ricordi e sensazioni... almeno per ora.

del buco dove convergeva l'acqua del monumento: le lacrime che nascevano dal fallimento. Non era riuscito a salvare Debra, sconfitto dalla crudeltà dell'uomo. Se ne andò, la cerimonia era terminata. La vita della città riprese a scorrere caotica e giunse in fretta la sera. Una folata di vento investì i fiori che, nonostante avessero mostrato una certa resistenza a restarsene lì, furono spostati quanto bastava per leggere la scritta “Mannetta”. Come dopo ogni tempesta, arrivò la quiete. Fu breve. La forma di una mano nacque tra i nomi delle vittime: spinse, deformando tutto per qualche secondo, come se volesse girare qualcosa. Poi svanì nel nulla. Il mazzo scivolò a terra.

Nota: "Iside", in egiziano, significa anche "Trono" Secondo il mito raccontato nei Testi delle Piramidi e da Plutarco nel suo Iside ed Osiride, Iside, con l'aiuto della sorella Nefti, recuperò e assemblò le parti del corpo di Osiride, riportandolo alla vita. Per questo era considerata una divinità associata alla magia e l'oltretomba. Aiutò a civilizzare il mondo e Robert posò le rose sulla grigia inventò il sistro; istituì il matrimonio e insegnò alle pietra perimetrale. Aveva pianto per molte ragioni, donne le arti domestiche. in quei quattro anni, ma c'era un solo pensiero pronto ad angosciarlo ogni volta, al cospetto

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sinistra lo schedario con le I n c u b i & D e l i r i sua pratiche degli ultimi sei mesi crollò a terra con uno schianto. Sentì rumore di vetri infranti e Pochi secondi prima che la terra un forte clangore metallico. iniziasse a tremare, Silvia Gia- La vetrina. chetti stava litigando con un Il giorno prima aveva cliente. aggiornato l'espositore con le «Lei ha perfettamente ragione, offerte last minute per il ponte signor Borale» disse forse per la di Halloween; ora quel bestione settima o ottava volta da quando di acciaio si era schiantato aveva risposto al telefono, «ma contro il vetro, frantumandolo. con il personale di terra in scio- Pur nel panico, si trovò a sperapero il volo non può partire. re che in quel momento nessuno Non dipende dalla compagnia si fosse trovato sul marciapiede aerea, né tanto meno da noi». di fronte. «E invece lei deve fare in modo «Oh Dio!» gemette Giulia, di trovarmi un'alternativa» disse «Dio... Dio....» Borale, furente. «Sa benissimo L'ufficio tremò ancora per che ho un meeting molto quella che sembrò un'eternità. importante a cui non posso Poi, finalmente, tornò la calma. mancare. Mi trovi un altro volo. Silvia attese alcuni secondi, poi E magari stavolta con una si rialzò piano. compagnia aerea un po' più se- Lo spettacolo che le si parò daria.» vanti era di totale devastazione. Silvia si morse il labbro inferio- Entrambe le vetrine erano re per frenare un insulto che sta- distrutte. L'ufficio era invaso va per eruttare dalla sua bocca dalla polvere alzata da grossi come lava da un vulcano. pezzi di soffitto caduti a terra. I «Non è questione di alternative. cataloghi erano sparsi ovunque. Nessun volo parte se il persona- Il ficus benjamin si era rovele di terra...» sciato, inondando di terriccio il Non finì la frase, perché la sua pavimento e bloccando l'entrata. sedia si mosse. Silvia si voltò Giulia raggiunse Silvia e la sbigottita, perché le era cinse in un abbraccio. Aveva la sembrato che qualcuno la stesse faccia sporca di polvere, le scuotendo tenendola per lo guance rigate di lacrime. schienale. «I bambini! Marco!» disse subiMa poi l'intero ufficio prese a to Silvia. Si staccò vibrare con forza. dall'abbraccio di Giulia e corse «Silvia!» la chiamò la collega, al telefono. che stava giusto uscendo dalla Muto. toilette. «Che succede?» Sperò che la sua borsetta si fos«È un terremoto, Giulia! Mettiti se salvata. Andò all'appendiabiti al riparo!» e la trovò ancora lì, un po' Silvia lasciò cadere la cornetta e sporca ma apparentemente sana. si buttò sotto la scrivania. Alla Frugò dentro con foga e proprio

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mentre stava per prendere in mano il cellulare questo iniziò a squillare. Guardò il display e vide la foto di suo marito, sorridente con un bicchiere di Mojito in mano. «Marco!» gracchiò. Quando sentì la voce amata dall'altra parte, scoppiò in lacrime. «Silvia, stai bene?» chiese Marco. «Sì, io sto bene. Tu... i bambini? Mio Dio, sai qualcosa dei bambini?» «No. Ho appena provato a chiamare la scuola ma non riesco a prendere la linea». Quella frase, con le sue implicazioni inespresse, la colmò di un terrore accecante. «Ci vado subito» disse. «Ti chiamo quando so qualcosa». Senza nemmeno aspettare che Marco rispondesse, Silvia chiuse la comunicazione. Prese le chiavi dell'auto e corse in strada, oltrepassando il tronco del ficus con un balzo. La scuola elementare era a soli cinque minuti da lì. Pochi secondi prima che la terra iniziasse a tremare, Paolo Stolfi stava registrando un video-messaggio da inserire nel suo blog, il terzo dall'inizio della settimana. «Eppure non capiscono» diceva, sottolineando ogni verbo con un pugno sul tavolo, «da vent'anni lo dico e lo ripeto, busso alle loro porte con il mio messaggio di Verità, e loro che fanno? Nemmeno si prendono la briga di rispondermi, o se lo fanno è per coprirmi di insulti. Se solo si sforzassero di capire che la fine


è prossima e aprissero il loro cuore alla Verità! Invece gli empi popolano la terra, vi strisciano come serpi e portano ovunque la loro....» Non finì la frase, perché la stanza intorno a lui prese d'un tratto a tremare con violenza. Il vecchio sgabello su cui era seduto perse il proprio baricentro e Paolo cadde a terra, picchiando la spalla contro lo spigolo della cassettiera dietro di lui. Il dolore fu lancinante, ma tale era la sua esaltazione che il suo cervello quasi non lo registrò. «Eccolo! L'ho sempre detto, dicevo che sarebbe arrivato! L'Armageddon è qui!» Tentò di alzarsi in piedi, ma non c'era verso. Il pavimento vibrava e si scuoteva e lui stentava a restare in equilibrio. Era come trovarsi su una barca a remi in mezzo a un oceano in tempesta. Calcinacci cadevano a terra, i bicchieri nella vecchia vetrinetta di sua nonna si frantumarono sul parquet rigato in un boato cristallino. Paolo rimase carponi, con lacrime di gioia che gli irroravano le guance coperte dalla barba ispida. Quando il mondo ridiventò calmo, si alzò e si guardò intorno. In preda all'euforia, corse fuori dalla palazzina. Lo spettacolo che gli si parò davanti era sbalorditivo. Le strade erano coperte di detriti. Un angolo del campanile della chiesetta dei Martiri era crollato e i mattoni avevano schiacciato un'auto parcheggiata sotto. Sentiva grida, gente isterica che piangeva, allarmi anti-

furto impazziti e, dopo alcuni momenti, le immancabili sirene in avvicinamento. Quello che lui aveva sempre previsto si stava avverando. Ora gli avrebbero creduto, finalmente. Si incamminò verso il centro cittadino con il cuore gonfio di soddisfazione. Era arrivato il suo momento. Avrebbe parlato e, questa volta, la gente lo avrebbe ascoltato.

muri crollati sui banchi, di maestre che scuotevano la testa in lacrime... Silvia si concentrava su quei due nomi così cari; sapeva che se si fosse fatta sopraffare da simili immagini sarebbe potuta impazzire. Passò in quel momento di fronte al Municipio. La scuola era nella piazzetta subito dietro. Con un ultimo sprint riuscì ad accelerare il passo e compì gli ultimi metri che la separavano dalla sua meta con una velocità Silvia percorse meno di un chi- impensabile. lometro, poi si rese conto che Quando superò l'angolo della procedere in auto era impensa- stazione dei vigili urbani, il fabile. migliare edificio le si stagliò Le strade erano piene di mattoni all'improvviso di fronte. e detriti, alcuni dei quali aveva- Scuola Elementare Alessandro no danneggiato le auto in sosta. Manzoni. La via era troppo stretta per Tutte le mura erano crollate cotentare di infilarsi tra le macerie me se il fabbricato fosse implocon la sua Punto, quindi decise so. Della scuola elementare ridi proseguire a piedi. C'erano maneva solo un cumulo di altri due chilometri fino alla macerie. scuola, ma non le importava. Si Silvia rovinò sulle ginocchia mise subito a correre. Dopo po- con un urlo che lacerò le sue co iniziò a mancarle il fiato e stesse orecchie. maledisse la sua pigrizia; non aveva mai messo piede in una Paolo Stolfi sentì un grido strapalestra e che la ginnastica più ziante. Era una voce femminile intensa che faceva era giocare a e sembrava provenire da dietro nascondino o a palla avvelenata l'edificio comunale. Gli si con i suoi figli. Ma continuò a accapponò la pelle. Chissà cosa correre. Ignorò il sapore metalli- le era successo. co che le aveva invaso la bocca, Poco importa, pensò. Nulla ha così come la fitta sempre più più importanza, ormai. Il mondo insistente al fianco sinistro. ha le ore contate. Presto anche L'unica cosa che le passava per lei dimenticherà, qualunque cola mente erano i nomi dei suoi sa le sia accaduta. bambini. Si arrampicò sul piedistallo Ginevra, Stefano. . . Ginevra, della statua di Garibaldi, miraStefano. . . Ginevrastefanoginecolosamente rimasta in piedi. La vrastefano. . . gente sfrecciava per la piazza, I suoi nervi scossi cercavano di molti con il telefonino incollato mostrarle immagini infernali di all'orecchio.

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Sentì tanti dire le stesse, identiche parole. Sì, io sto bene... Dove sei? Sei ferito?... Ho chiamato i vigili del fuoco... e così via. Paolo scosse la testa con aria di superiorità. Si schiarì la gola e gridò con quanto fiato aveva in corpo. «Avete visto? Quello da cui vi ho sempre messo in guardia si è avverato! Come vi sentite ora, ad aver ignorato parole di saggezza che vi avrebbero salvato?» Si era aspettato che tutti si radunassero intorno a lui per ascoltare finalmente la Verità. Invece, fu ricoperto dai soliti insulti. Una donna arrivò addirittura a raccogliere un frammento di mattone e a tirarglielo contro. «Vai all'inferno, stupido pazzo!» Paolo sentì la rabbia corrodergli le interiora come acido. Provò una forte fitta al petto, quasi un'incudine vi si fosse posata sopra. «Nemmeno di fronte all'evidenza, empi malfattori? Io..» Il dolore al petto si intensificò. Cercò di parlare ancora ma si ritrovò completamente senza fiato. Le voci intorno a lui si amalgamarono in un brusio senza senso e la piazza prese a vorticare intorno a lui. Sentì le gambe cedere e con la mano stretta all'altezza dello sterno scivolò giù dal piedistallo. Sdraiato sull'acciottolato, la vista annebbiata, scorse alcune ombre sopra di lui e udì voci, parole impastate e senza senso. Le palpebre si fecero pesanti e intorno a lui fu solo buio e si-

lenzio.

no tanti bambini, tutti con il grembiulino nero sembravano «Silvia! Silvia!» quasi indistinguibili. La testa ovattata, il cuore un Poi però li vide. grumo acre. La voce sembrava E loro videro lei. giungere da lontano. La cono- «Mamma!» urlarono, e corsero sceva, ma non riusciva a foca- ad abbracciarla. Erano entrambi lizzare. spaventati, in lacrime e sporchi «Io sono all'inferno...» sussurrò. di polvere. Stefano aveva un «Chiunque tu sia, dimmi che so- piccolo graffio su una guancia e no morta e che sono Ginevra un taglio sulla manina. all'inferno... Ti prego, non può Ma stavano bene. essere la realtà...» Stavano tutti bene. «Silvia, stanno bene! Sono salvi, tesoro». Dodici ore dopo che la terra «Non può...» Il suo cervello aveva iniziato a tremare, il impiegò qualche istante per de- sindaco Rosa Destati controllacifrare le parole appena va il suo profilo Facebook dalla ascoltate. «Sono... sono salvi?» stanza di hotel che divideva con Silvia alzò il volto e vide una il marito Guglielmo. faccia che subito non riconobbe. «Questo terremoto è stato una Poi notò gli occhiali tondi e la manna» disse battendo le mani. frangetta e capì. Era Luna, la «Ma sei impazzita?» disse Gumamma dell'amichetta del cuore glielmo, seduto sul pacchiano di Ginevra. Stava piangendo piumino a fiori azzurri. «Tu non anche lei, ma nel contempo sei a posto. La nostra casa è inasorrideva. gibile, come quella di tre quarti «Erano tutti in palestra. C'era, della popolazione cittadina. Mia non ricordo... una riunione sulla sorella oggi per poco non ci risicurezza stradale forse... Ho la mane per lo spavento quando ha testa incasinata, scusami...» Lu- visto le macerie della scuola. Ci na si asciugò le lacrime con la sono feriti e senzatetto ovunque, manica della giacca. «Ma i e tu parli di manna?» bambini e le maestre erano tutti «Feriti, sì. Ma nemmeno un lì. E la palestra è integra. morto». Qualche calcinaccio qua e là, «E allora? Ben venga, certo. Ma ma i piccoli sono sani e salvi». non mi sembra un motivo per «Oh mio Dio!» urlò Silvia, ringraziare il cielo di averci sentendo le forze colmarle di mandato questa sventura». nuovo ogni muscolo e organo «Tu parli di sventura, io parlo di vitale. «Dove sono?» opportunità. È tutta questione di «In cortile, laggiù. Sono appena punti di vista». Rosa sedette sul arrivata anche io. Poi ho sentito letto a gambe incrociate, come un urlo e... Dio, Silvia, mi per iniziare una sessione di yodispiace che tu abbia pensato...» ga. «L'assessore Martino ha un «Ginevra! Stefano!» urlò amico sismologo. Ha detto che correndo verso il cortile. C'era- con un terremoto di questa ma-

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gnitudo le probabilità di non avere alcuna vittima sono praticamente nulle. La nostra città ha già fatto il giro del web. I cattolici parlano di miracolo, anche perché la parrocchia è praticamente integra. E anche alla chiesetta dei Martiri si è danneggiato solo il campanile, una cosa che ha dell'incredibile. Qualunque architetto ti direbbe che è impossibile, e invece... Pensa che c'è addirittura un gruppo di fanatici new age che parla di una proprietà magica nell'acqua del fiume... follia pura, ma chi se ne frega?» «Sarà, ma non pensi alla ricostruzione? Hai idea di quanti soldi ci vorranno per rimettere tutto com'era prima?» «Stai scherzando? Se giochiamo bene le nostre carte, non solo potremo ricostruire; diventeremo ricchi. Saremo meta di pellegrinaggi, il nome della nostra città sarà inserito nelle guide turistiche, passeremo alla storia!» Rosa si mise carponi e si mosse lenta verso il marito con sguardo felino. «Saremo la città del miracolo. E io sarò il sindaco del miracolo. Dimmi, non ti eccita questa'idea?» Guglielmo evitò di rispondere; più che eccitarlo, il comportamento della moglie lo stava spaventando. «A parte che mi sembra tu sia un po' troppo ottimista» le disse, «ma poi a quanto ne so una vittima c'è stata». «Cosa? Oh, aspetta. Ti riferisci a Stolfi. Lui non conta: sembra che gli sia venuto un infarto durante l'ennesimo sermone. E in ogni caso, credo proprio che

non mancherà a nessuno. Anzi, un motivo in più per essere felici, lui e le sue manie sull'Armageddon... Ma basta parlare di Stolfi, adesso» disse, spingendo delicatamente il marito sul letto e mettendosi a cavalcioni su di lui. «Mi sembri agitato, tesoro. Lascia che ci pensi la tua Rosa. Stasera mi sento particolarmente in forma...» Guglielmo restò fermo in balia delle abili carezze della moglie. Ma per la prima volta da quando l'aveva conosciuta, avrebbe preferito girarsi dall'altra parte e dormire. Quegli occhi lo mettevano a disagio. Si chiese per un istante, con un brivido di disgusto, se quella fosse ancora la donna cui un tempo aveva giurato eterno amore; o se invece il terremoto avesse distrutto non solo gli edifici della città, ma anche l'anima del suo primo cittadino.

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S ka n Negli occhi del lupo

Fuoco. Gunnar amava il fuoco. Se lo sentiva dentro. Nel cuore che batteva forte. Nelle vene. Nelle ossa. Nelle ossa gelide. Nevicava quella notte su VikHvarn. I fiocchi non scendevano dal cielo. Fluttuavano a mezz’ aria. Imprigionati tra terra e nubi. Più che fiocchi sembravano un patina vetrosa, una nebbia bianchiccia e densa, come i resti del latte acido lungo i bordi di un secchio di legno in quercia. Un velo. Ecco cos’ era quel mucchio di neve. Il lago di Ankalner era ghiacciato. Le acque scure offrivano rifugio alle più grandi paure dell’ uomo. Un orrore intrappolato sotto lastre spesse e solide. Era ben visibile, il lago, sulla collinetta – un tempo erbosa – che dominava la valle di Hvarn. Sorgeva di fianco alle case dei pastori. Casupole in legno e dai tetti a spioventi. Scure, malaticce, in quel mondo da brivido. In quel mondo che dava i brividi. . . per il freddo. La casa dello Jarl era più grande, più solida, più maestosa. Era il centro di VikHvarn. L’ edificio più grande. La casupola più bella tra tutte quelle case che. . . stavano bruciando. Le mani di Gunnar erano un tutt’ uno con il manico dell’ ascia. Amava quell’ ascia, più del fuoco, più di quanto avesse mai amato la sua prima moglie. Il mastro ferraio glie l’ aveva fatta su misura con il legno più pregiato

Ventiquattr'ore A

Scelta Multipla

e il ferro dei nemici sconfitti. La lama era così affilata che entrava nella carne come un coltello nel burro di vacca. Il simbolo dello Jarl di NorKrol luccicava sulla penna sporca di ghiaccio e di sangue. Un sole rosso nei tramonti magici del mare del Nord. Gunnar sorrise. Era stato proprio quel capolavoro a togliere la vita al mastro ferraio. Gli aveva spaccato il cranio in due facendogli schizzare gli occhi nel ghiaccio. Se lo ricordava benissimo. Il fabbro gli aveva dato l’ ascia, in cambio pensava di avere il diritto di fottersi sua moglie. Li aveva trovati uno sull’ altro. Rientrava dalla battuta di caccia e le zampe di una dozzina di conigli sbucavano dal sacco di pelle d’ alce. Loro erano nudi. Nudi come vermi. Sudati. Grugnivano come due maiali. Maiali. Sorrise di nuovo al pensiero di come aveva sgozzato la sua prima moglie. Prima aveva spaccato la testa del fabbro. Lì. Su due piedi. Lui si era accasciato in avanti. Era caduto su Hilde con il pene che ancora le fremeva nella vagina. Una buona morte. Si disse. Hilde si era messa a urlare. Il peso del corpo morto le era di impaccio. Lui aveva preso il coltello da caccia. Aveva staccato il pene del mastro ferraio e poi le aveva tagliato la gola.

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Come si fa con i maiali. Hilde aveva gridato inutilmente. Smise di pensare. La penna della sua ascia affondava ancora nella schiena dello Jarl di VikHvarn. La tirò a se imbrattando la neve di sangue e budella. Odore di ruggine. Durò poco, quell’ odore. Il puzzo del fumo e della carne bruciata coprì il tanfo di sangue, urina e feci. Le case bruciavano. La paglia dei tetti era diventata di un rosso quasi arancione. E scoppiettava in quei colori tiepidi, pieni di calore. A Gunnar piaceva tutto quello. I colori, il caldo. La puzza di fumo. Lo Jarl di VikHvarn non aveva pagato il suo tributo per l’ inverno. A NorKroll tutti si erano messi a mormorare, a sbraitare. A battere le asce contro le sedie della locanda. “E quindi prendiamoci ciò che ci spetta. Con il fuoco. Con la forza!” Aveva detto Staffan, lo Jarl, supremo tra i nobili del Nord. La gente si era zittita. In cento anni nessuno si era preso la briga di fare la guerra nella valle di Hvarn. Il lago Ankalner era buio. Lì, gli uomini, crescevano cupi e sporchi e le genti dei Vik vicini non amavano avventurarsi da quelle parti. Un velo, come il velo di neve, come una maledizione, aleggiava sul lago e sul villaggio che sorgeva sulle sue sponde. E Gunnar la avvertiva, quella maledizione. Gli entrò nelle ossa. Ma il fuoco spazzava via tutto. Bruciava ogni cosa. Ogni cattivo


pensiero. “Come la mettiamo con la magia nera?” Gli aveva chiesto Ragnar. Gunnar aveva scosso la testa. Si era versato un altro bicchiere di acquavite e gli aveva risposto. “Non c’ è una strega nel Hvarn. Sono leggende e storie per bambini. Nel dubbio. . . le daremo fuoco.” “Certo che c’ è! La strega ha grandi poteri. Perché pensi che lo Jarl Staffan non abbia ancora raso al suolo il villaggio?” “Perché è una femminuccia del Sud. Una bambina che crede a storie di spiriti e animali a tre teste.” “Buurp! . . Odio quando parli così. Gli occhi di Odino ci osservano. Sempre. I corvi hanno gracchiato la notte scorsa. Un oscuro presagio.” Ragnar si infilò un dito nel naso e poggiò i piedi sulla tavola imbandita. “E i lupi si sono messi a ululare.” “E quindi?” “E quindi Hvarn è la casa del lupo. Sai cosa dicono? Dicono che nell’ Ankalner, proprio in quel buco nero, dorma Fenrir, il lupo gigante. E’ stato il Dio Tyr a legarlo lì sotto. Ma la catena dei nani è stata strappata e la veggente, la strega, lo tiene al guinzaglio con i suoi grandi poteri.” “Un lupo in un lago? Sarebbe già morto affogato. Tsk!” Gunnar tracannò l’ acquavite e il liquido trasparente gli corse ai lati della bocca. Giù lungo la barba. Lungo la pelliccia d’ orso. Ragnar colpì il tavolo con i talloni sporchi di fango. “Non prenderti gioco degli Dei, amico mio. Noi siamo solo uomini. Guerrieri

pronti a combattere per Asgard. Non dimenticarlo. La veggente senza occhi, la strega, vede attraverso i corvi di Odino. Gli occhi dei corvi, sono i suoi occhi. I denti del lupo sono al suo servizio. Credimi. Corriamo un grosso pericolo a invadere il Hvarn.” Gunnar non disse niente. Immaginò il lago e il lupo nero la cui bocca aperta oscurava il sole. Loki si era accoppiato con i giganti. La prole che ne era fuoriuscita, era stata dannata dagli Dei. Il lupo era suo figlio. E ora, una puttana nel Hvarn usava quella storia per non pagare i giusti tributi a NorKroll. Gunnar sollevò la testa. Oltre i bicchieri, vide gli occhi impauriti di Ragnar. “Tu credi troppo a queste storie, giovane guerriero. Domani saranno le asce a parlare e il fuoco brucerà la vecchia strega.”

tutto quel caos. La guerra era il suo mestiere. Ragnar. . no. Lui era un damerino in confronto. Un pappamolle con la testa piena di idiozie e favole per bambini. Proprio mentre ci pensava, vide Ragnar corrergli incontro. La barba giallastra era piena di grumi rossicci. Un occhio era nero. E zoppicava quasi fosse stato bastonato. La faccia era arrossata per il freddo e per la corsa. Una maschera di paura in totale contrasto con la quiete di Gunnar. “Ti hanno picchiato per bene.” Gli disse. Ragnar stette zitto per un po’. Poi rispose. “L’ abbiamo trovata.” “Chi?” “La strega!” “Per il cavallo a sei zampe di Odino, Ragnar! Non costringermi a spaccarti la testa in due. Se è bella e in forze mettila in fila con le Le asce avevano parlato. altre donne. Altrimenti legala e Con lo Jarl di VikHvarn, il gettala in un capanno in fiamme.” discorso era durato ben poco. E “Gli altri non hanno voluto.” Raadesso il suo corpo giaceva nella gnar sudava vistosamente. neve. Mutilato. “Significa che dovrò occuparmene Gli occhi di Gunnar corsero al la- di persona. Dov’ è?” go. Niente corvi, niente lupi. Gli uomini erano stati ammazzati. Ragnar lo condusse a un piccolo I bambini. . anche. capanno. Gli uomini non l’ avevaLe donne, al contrario, erano tutte no bruciato e, davanti all’ ingresin fila pronte per essere deportate so, si ammucchiavano penne di a NorKroll. corvo e statuette raffiguranti gli Gunnar passò la lama dell’ ascia dei del Nord. Gli uomini stavano lungo le pellicce e la pulì dal parlottando a bassa voce. Quando sangue del suo nemico. Gunnar passò, smisero di bisbiLe case stavano bruciando. gliare zittendosi all’ improvviso. Un tetto era appena crollato solle- “Dentro.” Gli disse Ragnar. vando uno spesso strato di polvere Gunnar allungò le mani spintoche gli si era appiccicato ai peli nandolo. Poi scostò le piume e i del naso. drappi dell’ ingresso. Non fece una piega. Era abituato a Entrò.

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Lei era al centro di uno spazio angusto. Due bracieri penzolavano dal soffitto di legno. Le piume dei corvi erano cosparse sul pavimento, sulle pareti. Anche sul soffitto. Era vecchia. Due voragini al posto degli occhi. Due buchi neri spalancati sul mondo. Due buchi. Punto. Magra. La faccia scavata e i capelli bianchi che scorrevano sulle spalle lungo una veste nera e sdrucita. Sorrise e sollevò il suo sguardo senza occhi. Sorrise. Le labbra nere, screpolate. I denti gialli che brillavano nella luce arancione dei bracieri. “E’ giunto da NorKroll. L’ uomo del fuoco. Odino lo reclama poiché è una pedina nella grande guerra che spazzerà via Midgard e i regni di sopra e di sotto. L’ albero dell’ universo, Yggdrasil, trema dinanzi al suo furore. Il fuoco gli brucia il petto e, quelle stesse fiamme, attizzeranno gli occhi bianchi del lupo. Così rosse, così accese, da illuminarne lo sguardo e sciogliere i ghiacci dell’ Ankalner. Perché, quando il suo destino sarà compiuto, il lupo verrà a prenderselo e ne farà un solo boccone.” “Taci scrofa!” Urlò Gunnar in tutta risposta. Liberò l’ ascia dalla cintola e la sollevò a mezz’ aria. Lei, neanche lo avesse visto, arretrò di un passo. “No! Ti prego non uccidermi. Non farlo. . . Non volevo essere penetrata dal Mastro ferraio. E’ stato lui. E’ stato lui. Mi ha violentata.” Era la voce di Hilde.

Scostò i drappi del capanno e uscì. Le case bruciavano e il calore gli entrò nel petto. L’ ascia gocciolava di sangue scuro. Puzzava, quel sangue, di carne andata a male. Di roba vecchia e marcia. Quando fu fuori dalla tenda, vide gli uomini che fuggivano in tutte le direzioni. Tra questi c’ era Ragnar che saltellava a destra e a sinistra come un coniglio impazzito. Non poté fare a meno di allungare uno sguardo sulle sponde del lago. Prima vide un’ ombra. Un’ ombra scura e gigantesca che si fondeva alle nubi notturne. Un fiato gelido veniva fuori da una massa informe e terrificante. Ma il fuoco era vicino. I capanni bruciavano e Gunnar non ebbe freddo. La massa gli fu più chiara dopo qualche secondo. Era un lupo nero e alto quanto una montagna. Dalle lastre di ghiaccio smosse, comprese che doveva essere sbucato fuori dal lago. La strega aveva ragione. E’ il nostro destino. Non si tirò indietro . . . nemmeno quando Fenrir, il lupo, allungò le fauci per prenderlo. Il suo fiato era freddo. La saliva gelida. I denti affilati masticarono il fuoco di Gunnar e il sangue caldo gocciolò sui capanni e sulle fiamme. AAAUUUUUUU! amava il fuoco. Lastre di ghiaccio che si spaccava- Gunnar Se lo sentiva nelle ossa. no. Ora il suo fuoco Un lupo aveva ululato. E’ il nostro occhi del lupo. bruciava negli destino. Gli uomini si misero a urlare e Gunnar sentì i loro passi. Passi veloci. Di chi corre. Di chi fugge. Gunnar si pietrificò. L’ ira gli arrossò le gote e quelle diventarono dello stesso colore della sua barba rossiccia. “Strega! Le disse. “Sì. Strega!” Gli rispose lei. “Proprio come un maiale. Vero Gunnar?” Conosceva il suo nome. Sapeva di Hilde, di come l’ aveva sgozzata. “Io non temo i tuoi trucchi. Non ci saranno più stregonerie, né lupi, né corvi, quando la tua testa rotolerà sul pavimento.” “E’ il nostro destino” E la vecchia avanzò di un passo sogghignando su una faccia orribile e decrepita. Lo stemma dello Jarl di NorKroll roteò in avanti. La penna dell’ ascia luccicò e l’ aria l’ accolse fischiando. La gola della veggente. . . si strappò in due. Le corde vocali emisero un gemito prima che il sangue schizzasse sulla faccia di Gunnar e la testa rotolasse tra le piume di corvo. Il corpo le si afflosciò come un sacco di patate. Il cranio ruzzolò ticchettando sul legno e un sorriso comparve su quella faccia ormai senza vita. Stava sorridendo e Gunnar sentì che la pelle gli si accapponava. Un brivido. Un brivido gelido che non gli piaceva affatto.

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primordiale che lo indusse a menti che ne seguono. Le ferite L'illusione le braccia intorno subite sul campo si rimarginano d e l l ' I m m o r t a l i t à stringersi al corpo, come in cerca di piano mentre fiumi di birra «Papà! Vieni, presto!» Cesare Rinaldi arrivò trafelato accanto al figlio Luca, che stava immobile davanti al recinto. «Cosa c'è, Luca? Perché hai...» Le parole gli morirono tra le labbra quando seguì lo sguardo del figlio. «Porca put...» iniziò a dire, ma poi le mani premute sulla bocca zittirono anche quella esclamazione di sgomento. Tutte le vacche erano stese a terra. I loro nomi – Bettina, Lucilla, Stella...- iniziarono a scorrere nella sua mente e lui si sentì mancare, e non solo per l'immenso danno economico che quell'ecatombe significava. «Oh mio Dio!». L'esclamazione giunse dalle sue spalle. Cesare non si mosse, incapace di distogliere lo sguardo dal disastro davanti a sé, ma riconobbe la voce del suo secondogenito, Marco. Vide con la coda dell'occhio Luca trascinare il fratello al suo fianco e indicare gli animali con la mano tesa. «Hai visto l'addome? E' assurdo...» Ed era davvero assurdo. Ogni capo aveva una voragine nell'addome, un foro quasi perfettamente rotondo, grande forse come un pallone da calcio, dai bordi nitidi e perfetti. Un buco simile, solo un po' più slabbrato, si trovava sul dorso, più o meno in linea retta con il primo. Cesare sentì un brivido percorrergli la spina dorsale. Una strana sensazione lo pervase, un timore

protezione. «Sembra...» iniziò Luca «Non è possibile» disse Marco, evidentemente intuendo quello che passava per la mente del fratello. «Ma dai, guarda» insistette l'altro, «bordi precisi, morìa inspiegabile. Torna tutto. E' folle, sono il primo a dirlo. Però...» «Senti, Luca. Io capisco tutto, ma gli alieni? Ti pare? A 'sto punto scomodiamo anche il Chubacabra...» «Basta voi due!» tuonò Cesare. «Non vedete cosa c'è lì? Non vi sembra una tragedia? Non concepisco che in un momento simile tiriate fuori stronzate inutili come queste. Ve l'ho detto altre volte, dovreste smetterla di guardare quella trasmissione idiota...» Luca si posizionò davanti al padre con aria di sfida. «Ok, d'accordo. Ma allora dammela tu una spiegazione. Secondo te cos'è successo?» Cesare guardò il figlio sforzandosi di sostenerne lo sguardo, ma perse la sfida. Abbassò gli occhi a terra, le viscere ancora legate nella morsa di quell'arcano senso di inquietudine. «Non lo so» ammise, incapace di trattenere un fremito nella voce. Voci vigorose e festanti riempiono poco a poco il silenzio che regna nel grande salone. Gli uomini che si riversano nell'immenso spazio sormontato d'oro sono stanchi per la dura battaglia, ma felici e pronti a godere dei quotidiani festeggia-

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annaffiano le loro gole riarse dalla fatica e dalle grida di guerra. Una donna dai capelli dorati e lo sguardo fiero attraversa la sala recando una grande coppa tra le mani, diretta verso l'imponente trono aureo e il possente Dio che lo sovrasta. «Per voi» dice la donna porgendo la coppa con riverenza. «Ti ringrazio, Hildr» dice Odino con un'ombra di sorriso, poi porta il calice alle labbra e lascia che il vino, così speciale perché riservato a lui e a lui soltanto, scorra nella sua gola come nettare. Dopo aver ridato la coppa a Hildr, abbassa la mano con cui non tiene la lancia per accarezzare Geki, seduto a schiena ritta accanto al trono. Il lupo risponde alla carezza con un guaito, come fosse un cucciolo; poi alza di scatto la testa, rivolgendo la propria attenzione verso l'ingresso della sala. Anche l'altro lupo, Freki, solleva il muso nella stessa direzione, mentre i due corvi appollaiati alle spalle del Dio richiamano gracchiando la sua attenzione. Odino gioisce vedendo suo figlio Thor avvicinarsi a lui. Il suo cuore però si fa piccolo quando nota sul suo volto rabbia e sofferenza. «Dove sei stato, figlio?» Thor si inginocchia davanti al trono del padre, lo sguardo abbassato, e resta in silenzio. «Ti ho chiesto dove sei stato» ripete Odino. Thor non risponde subito, lascia che il tempo scorra ancora per qualche istante, come per soppesare meglio le parole. Poi confessa.


«Ci sono andato, padre». «Cosa?» tuona Odino, alzandosi in piedi. I guerrieri cessano di festeggiare. Tutti gli occhi sono rivolti ai due Dei. Odino si accorge di aver attirato l'attenzione e con un gesto imperioso invita gli astanti a rivolgere altrove i loro sguardi. Si accomoda di nuovo sul suo trono, in silenzio. Presto la birra riprende a scorrere come se nulla fosse successo, tra le risate e le urla di guerrieri e Valchirie. «Perché sei andato nel mondo umano? Sai bene che non è permesso». «Lo so, padre. Ma volevo vedere. Volevo capire» «Cosa? Che cosa volevi capire?» «Perché non siamo più noi. Un tempo le persone ci temevano e ci adoravano. Ora siamo confinati qui, senza uno scopo, a combattere e gozzovigliare senza...» «Come osi denigrare il Valhalla?» lo interruppe il padre. «Il Ragnarök ci attende, per questo noi...» «Non capisci, padre. Il Ragnarök non conta nulla. Sei convinto di essere ancora un Dio? No, non è così. Tu, io, Loki... tutti noi siamo niente». Odino sente la rabbia montargli dentro. «Sono stato nel mondo degli umani e loro... non credono più in nulla». «Non è vero. Il mondo è solo mutato. Certo che siamo ancora Dei, ma gli uomini si sono votati a divinità differenti. Ora c'è l'Uomo in Croce». «No, padre. Quell'Uomo è esistito, e in molti lo adorano e seguono la sua dottrina. Ma la maggior parte

dell'umanità non crede più in niente e non ha timore del divino. Sono andato anche nelle regioni un tempo appartenute a Giove e alla sua stirpe e anche lì è lo stesso. Anzi, proprio in quelle zone ora c'è il tempio più grande dell'Uomo in Croce, eppure questo non fa differenza. Sento che un giorno scompariremo. L'immortalità è un'illusione, padre. Quando il mondo avrà completamente perso il senso del divino, svaniremo come fumo». Odino guarda suo figlio. Il suo prediletto. Lo conosce bene, quasi più di se stesso. E intuisce che c'è ancora in lui qualcosa di non detto. «Figlio, hai fatto qualcosa, mentre eri nel mondo umano?» Thor resta di nuovo in silenzio. Sembra un bambino colto nel mezzo di una malefatta, un'espressione così in contrasto con la sua figura massiccia e battagliera. «Mjöllnir» «Hai usato il Martello? Tu hai... hai ucciso qualcuno?» «No, padre. Io... ero appena fuori dalle mura della città che custodisce il tempio dell'Uomo in Croce e... ho ceduto alla rabbia e alla frustrazione... ma il fulmini hanno colpito solo alcuni animali, delle vacche chiuse in un recinto. Nessun umano ha dovuto pagare per la mia ira. Ti chiedo perdono». Odino è ribollente di collera. Non devono esserci contatti con il mondo umano, non da quando il loro regno sulla terra è terminato. Sta per riversare sul figlio la sua ira, quando Geri e Freki iniziano a guaire. Anche i due corvi, Huginn e Muninn, si posano sulle sue spalle con la testa leggermente

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piegata, come a chiedere misericordia. Il comportamento degli animali ha il potere di calmarlo. Volge lo sguardo su Thor. Se ciò che suo figlio ha detto è vero, il suo errore potrebbe non essere stato del tutto negativo. Se davvero il mondo sta perdendo la fede nel divino, la morte di diversi capi di bestiame a opera di Mjöllnir potrebbe essere un balsamo utile a rinvigorire negli umani il timore degli dei. Un tempo era così, può funzionare anche ora. «Vai a festeggiare con gli altri guerrieri, figlio» dice, improvvisamente sereno e con il bocciolo di un progetto nel cuore. Thor si alza e segue con animo più leggero il consiglio paterno. Odino accarezza i suoi lupi, mentre un sorriso sardonico gli si disegna sul volto barbuto.


S ka n

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autore

XXII

anark2000 51 willow78 21 shanda06 1 4 Albertine 38 Slash1 588 GDN76 kaipirissima mother95A cristiano r. Callagan Rovignon White Pretorian NOR David G. 7

risultati e classifiche

XXII½ XXIII XXIII½ XXIV XXIV½ TOT

35 29 36 33 15 17 31 28 -

13 15 6 17 14 -

16 16 14 6 19 18 -

24 21 12 23 12 15 -

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1 48 84 83 74 50 48 43 31 28 21 19 18 12 7


N o n pe r d e t e i l n u m er o d i Gen n a i o 2 01 4

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D ic e m b r e 2 0 1 3

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