Anno 3
N u me r o 3 1 -3 2
S ka n
M a r z o - A p r il e 2 0 1 5
La rivista multicanale di narrativa fantastica liofilizzata istantanea
Bright Side
AMAZING MAGAZINE
Intervista a... Armando Corridore Cagliostro EÂPress Saggio Ring novello Dracula Recensione Il dio del dolore No v itĂ Console Wars Siamo noi i marziani La terza (e ultima) vita di Aiace Pardon
Diego Cocco
A s im o v Dick / Egan / Sawyer / Tiptree / B r u s s o lo / S h u te Faz, "Blackstorm"
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Illustrazione di
Faz
N o n pe r d e t e i l n u m er o d i M a g g i o足 G i u g n o 2 01 5
Sh o u l d t h e s h ow g o on ?
Sommario Hanno collaborato
Max Gobbo Diego Cocco Riccardo Sartori Massimo Luciani Faz
del
Bright Side
OLTREMONDO Interviste 6 - Armando Corridore 8 - Cagliostro E-Press Saggio 11 - "Ring novello Dracula" di Francesco Brandoli Recensione 16 - Brandoli, "Il dio del dolore"
Letti e recensiti 26 - Dick, "VALIS" 28 - Egan, "The Eternal Flame" 30 - Sawyer, "Psico-Attentato" 32 - Tiptree, "La via delle stelle" 34 - Brussolo, "La notte del bombardiere" 36 - Shute, "L'ultima spiaggia"
NovitĂ 18 - Harris, "Console Wars" 19 - Bradbury, "Interviste" 20 - Selmi, "La terza (e ultima) vita di Aiace Pardon" Versi Horror 21 - Diego Cocco
Comics 38 - Faz, "Blackstorm"
Il venditore di Pensieri Usati 22 - Asimov, "Robot dell'alba" 23 - Asimov, "I robot e l'impero"
43 - Dark Side
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Sommario Hanno collaborato
del
Bloodfairy
Skannatoio XXXVI febbraio 2015
Incantatore Incompleto
43 - Le specifiche 44 - "Ali dal passato" di Laura Palmoni 52 - "SCREEN SAVER" di Paolo Spoto 59 - "La Guerra Santa" di Francesco Nucera 68 - "Gregory" di willow78
(Laura Palmoni)
(Paolo Spoto)
Ceranu
(Francesco Nucera)
willow78 Ilma197 Shanda
(Alexandra Fischer)
Skannatoio XXXVII marzo 2015 71 - Le specifiche 72 - "La prova" di willow78 77 - "Temporale" di Ilma197 81 - "L'ultimo pasto" di Laura Palmoni 86 - "Il cacciatore di leggins" di Francesco Nucera 93 - "Capitano, o mio capitano" di Incantatore Incompleto 98 - "Sughero" di Alexandra Fischer
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Dark Side
S ka n AMAZING MAGAZINE
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S ka n
Oltremondo
StarCon
A pochi giorni dall’inizio della StarCon 2015, la convention internazionale dedicata alla fantascienza e al fantastico che si terrà, come da tradizione, nella magnifica cornice marina di Bellaria, e che rappresenta uno dei maggiori appuntamenti per gli appassionati italiani dell’immaginario, vi proponiamo un’intervista esclusiva all’organizzatore dell’evento, l’editore Armando Corridore. Cos’è SarCon, perché nasce e cosa si propone?
StarCon è una convention che debutta quest’anno ma che ha già anni di esperienza. Sotto il nome comune StarCon infatti sono state raccolte le edizioni annuali delle più importanti convention
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del fantastico italiane che per alcuni anni hanno collaborato insieme in una unica Multicon. Durante la StarCon infatti si svolgono Sticcon, convegno organizzato ormai da molti anni dal fan club italiano di Star Trek, Yavincon, che raccoglie gli appassionati di Star Warse offre anche diversi interessanti contenuti su Il Signore degli Anelli e il mondo dei supereroi, il raduno degli appassionati del Doctor Who, un’ampia sezione di conferenze di divulgazione scientifica, molti club che si occupano di giochi e modellismo e persino un planetario. Alla Starcon è presente anche l’Italcon che ha una storia quarantennale, e che si occupa prevalentemente di fantascienza e fantastico nei loro aspetti letterari. Tanti ospiti eccezionali nel corso di questi anni, potrebbe farci qualche nome?
Intanto la presenza di tanti personaggi dell’editoria italiana, che nel corso delle varie edizioni hanno proposto tutte le novità in catalogo in merito alla narrativa di genere fantastico. Vi sono poi gli ospiti stranieri come: Paul di Filippo, David Gerrold sceneggiatore della serie classica di Star Trek nonché autore di grande rilievo, Micheal Bi-
shop, James Moran uno degli sceneggiatori del DoctorWho, ConnorTrinneer eJohn Billingsley del cast diStar Trek Enterprise, ma anche importanti ospiti di Star Wars.
fantascienza, quest’ultima
concepita da Lino Aldani e diretta assieme a Malaguti. Oggi stiamo pensando di riproporre le opere di queste collane in versione e-Book.
C’è un progetto ambizioso La scommessa per il domani cui tenete molto? di StarCon?
Comunicare al meglio a settori che sono stati fino a oggi refrattari al genere l’amore per il fantastico, che possiede dei valori archetipici importantissimi e riconoscibilissimi. Questo alle volte lo porta a essere ignorato poiché ha la forza di dire cose assai forti e magari un po’ scomode. Lei è un editore con una storia consolidata nel mondo della narrativa fantastica: potrebbe parlarci un poco di questo suo ruolo?
La casa editrice Elara ha una storia importante nell’editoria del fantastico. Il suo redattore capo è Ugo Malaguti, un personaggio che non ha bisogno di presentazioni. Elara prosegue la tradizione che fu prima della Libra, e poi della Perseo libri di cui detiene tutto il prestigioso catalogo storico. Desidero ricordare, a questo proposito, due collane in particolare: Futuro Europa e Narratori Europei di
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Il nostro progetto principale come Elara si concretizza nella rivista Fantasy and Science Fiction versione italiana di una delle riviste americane, di settore, di maggior prestigio che dal 1949 (anno della sua nascita) a oggi non ha mai smesso di raccogliere consensi da parte di intere generazioni di lettori. Essendo l’editor della sua versione italiana ho la possibilità, quando metto insieme un numero, di scegliere, nella massima libertà, all’interno d’un patrimonio editoriale lungo sessant’anni, dei tesori di inestimabile valore. In generale posso inserire tutto ciò che è fantastico in ogni sua declinazione, sia che si tratti di fantascienza, piuttosto che di horror, weird e quant’altro. La rivista qui in Italia è distribuita in edicola mensilmente. Max Gobbo
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Oltremondo
Intervista
Sull’onda del successo di Watson e Lovecraft, la serie dal sapore horror e weird che l’ha consacrata come una delle realtà editoriali più interessanti del panorama del fumetto italiano, la Cagliostro E-Press, la dinamica casa editrice indipendente che s’occupa preminentemente di genere fantastico, non finisce mai di stupire gli appassionati del mondo dei ballon proponendo storie e personaggi che fanno dell’originalità e della qualità i loro marchi di fabbrica. Per saperne di più su questo vero fenomeno editoriale abbiamo proposto la seguente intervista al suo direttore editoriale, Filippo Burighel. Potrebbe parlarci brevemente di Cagliostro E-Press? Cagliostro E-Press è un editore noprofit e una associazione culturale, quindi una ONLUS. Il nostro fine è quello di produrre fumetto indipendente italiano originale e di qualità, offrendo contemporaneamente l'opportunità a nuovi autori e artisti di mostrarsi al pubblico ed emergere. Oltre cento titoli pubblicati: qual è il segreto del vostro successo?
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Dipende dalla definizione che si dà di successo: se un autore pubblicato per la prima volta o comunque all'inizio della sua carriera da noi arriva dopo qualche anno a lavorare per Bonelli (es. Marco Perugini ora impegnato sul nuovo Morgan Lost) o Marvel (Mario Del Pennino che ha collaborato al volume Death of Wolverine: Life after Logan), dato che il nostro fine è promuovere le nuove leve del fumetto italiano, per noi è un successo. Quindi potrei rispondere che il nostro segreto è saper riconoscere e valorizzare dei talenti che altri non hanno saputo, voluto o potuto vedere e impegnarci per dare loro visibilità. Purtroppo però l'attuale mercato non è molto comprensivo verso criteri di successo diversi dal profitto e noi il profitto non lo abbiamo e non lo possiamo avere. Siamo una ONLUS, per davvero. Cagliostro E-Press s’occupa di tutti i generi del fantastico e, ci sembra di poter dire, delle varie contaminazioni possibili: una tendenza del momento o la strada che porta al futuro? Le contaminazioni non sono una novità di oggi. Autori come H.P. Lovecraft e Arthur Conan Doyle sono ognuno accreditati tra i primi autori di generi diversi. Se pensiamo al Solitario di Providence possiamo trovare nella sua produzione i semi di generi come il fantasy, l'horror cosmico, la sci-fi cospirativa che coesistono nel medesimo legendarium. Il mondo della cultura italiana ha sempre riservato poche attenzioni a generi come la fantascienza: presunzione accademica o mancanza di conoscenza specifica?
Entrambe: presunzione accademica PER mancanza di conoscenza specifica. Ricordo diversi anni addietro un'intervista a una giovane politica in un programma dedicato ai giovani "impegnati" condotto da un VJ che si atteggiava a fine intellettuale.
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Questi reagì quasi con ribrezzo quando l'intervistata rispose che il libro che più l'aveva ispirata era Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien. Fantasy, fantascienza, horror, in generale tutta la letteratura e produzione artistica di genere
fantastico sono considerate di serie B e disprezzate soprattutto da chi non le ha mai avvicinate per pregiudizio. Avete scelto di proporre i vostri prodotti soprattutto in formato elettronico: il segno dei tempi, o una necessità editoriale? Entrambe le cose. Già prima del mio arrivo il digitale è stata una scelta distintiva di Cagliostro EPress, come si può intuire dal nome. Con la mia direzione abbiamo scelto di puntare ancora di più sul web, sia per la distribuzione gratuita in formato PDF che per la vendita diretta dei nostri volumi, seguendo un modello di lavoro che abbiamo chiamato #KM0. Parliamo un po’ del mondo dei ballon : aveva ragione Pratt definendo i fumetti “letteratura disegnata”, oppure Eisner quando parlava di “arte sequenziale”? D'istinto rispondo Pratt per il mio amore per Corto Maltese e perché mi piace di più come definizione, ma di sicuroEisner non sbagliava. Volendo fare una sintesi: il fumetto è una sequenza disegnata che può essere arte e letteratura. Il fumetto o personaggio che più ha amato? Corto Maltese. Incredibile, vero? E Batman. Oltre il fumetto: Elric di Melniboné di Michael Moorcok. Un sogno che le piacerebbe realizzare?
Non sono tipo da grandi sogni. Vorrei poter continuare adare la possibilità a tanti nuovi autori di emergere. Watson e Lovecraft una serie horror dal respiro ucronico. Deve essere stato complesso e impegnativo approcciare con due personaggi di questo tipo. Voglio dire, c’era il pericolo concreto d’apparire velleitari, non è così? Come è nata l’idea di base? È nata da un'idea di Piero Viola, storico nostro collaboratore e autore fin dalla nascita di Cagliostro EPress. È un grande appassionato di "pastiche" e ucornia, quest'ultima una passione che anch'io condivido. Il rischio di essere vellitari c'era, per questo gli chiesi di lavorarci sopra e fare ricerche con degli esperti come Gianfranco de Turris, per trovare uno spunto credibile e un equilibri tra i due personaggi. Quell'idea elaborata è poi diventata il bando che abbiamo proposto. Le tavole da voi realizzate rammentano alle volte le strisce che comparivano sui quotidiani americani degli anni venti e trenta: una scelta precisa, delle citazioni, oppure semplice casualità? Tutto questo assieme. Alcuni disegnatori si presentavano già con una stile di questo tipo, per propria cifra stilistica o come loro proposta per il bando a cui partecipavano, con altri invece è stata una direzione che abbiamo impresso. Vi sono autori o scuole di pensie-
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ro cui vi siete ispirati nello sviluppo delle vostre opere? In realtà nessuno in particolare. Noi facciamo fumetto italiano, ma traiamo ispirazione dall'Italia, dall'Europa, dagli USA e anche dal Giappone. Non ci limitiamo. E’ recente la notizia che state lavorando a una nuova serie che promette meraviglie, Daryl Dark: potrebbe fare qualche anticipazione per i nostri lettori? Daryl Dark è un investigatore del "weird" nella Londra contemporanea, tris-nipote di Sherlock Holmes, ha per socio un istionico ex agente del FBI espatriato che ricorda Oliver Hardy ed è legato da un patto faustiano all'Angelo della Morte che gli appare nelle sembianze di Alice Liddell, la bambina che ispirò Alice nel Paese delle Meraviglie a Lewis Carroll. Le sue avventure sono inserite nello stesso universo narrativo, l'IrregularVerso, di Watson & Lovecraft e del seguito Lovecraft & Holmes a cui stiamo lavorando. A differenze di queste opere, dove abbiamo cercato di essere più puristi rispetto alle fonti d'ispirazione, con Daryl Dark vogliamo essere più liberi di affrontare temi e spunti diversi e di farli coesistere il più coerentemente possibile. Grazie per aver risposto alle nostre domande e speriamo d’averla di nuovo ospite. Grazie a voi e arrivederci. Max Gobbo
S ka n In questo numero vi presentiamo un interessante saggio di Francesco Brandoli il quale si cimenta in un inedito e ardito parallelismo tra il capolavoro di Bram Stoker e l’opera più famosa dello scrittore nipponico Koji Suzuki.
RING DRACULA NOVELLO
di FRANCESCO BRANDOLI In anni abbastanza recenti, un vasto successo nel campo del horror è stato raggiunto dal ciclo di Ring: un fenomeno di massa nato in Giappone, inizialmente come romanzo e successivamente come fortunata serie di pellicole cinematografiche, composta di ben tre episodi, a cui sono seguiti due remake hollywoodiani – il primo del celebre Gore Verbinsky – e di cui, anzi, è attualmente in fase di riprese anche un terzo capitolo (con regista F. Javier Gutiérrez). Le pellicole cinematografiche, come spesso accade, ancor più dei romanzi, hanno sancito la fortuna della storia e del suo autore a livello mondiale. Sono, infatti, ulteriormente seguite edizioni in tutto il mondo del romanzo, fino alla punta di un mi-
Oltremondo
SAGGI
lione di copie vendute: in Italia il primo libro della serie, pubblicato dalla Editrice Nord (Milano, 2003) ha esaurito in un solo mese la sua prima tiratura, richiedendo una ristampa immediata. È presto per sapere se l’incredibile successo di Ring sia soltanto un “fuoco di paglia”, un entusiasmo momentaneo destinato a essere dimenticato al più presto, oppure se resterà perpetuamente nell’immaginario horror, diventando addirittura un “classico”. Infatti, nell’arco di pochi anni l’entusiasmo iniziale per la serie si è assopito, salvo risvegliarsi anche in tempi recenti con, appunto, il progetto di un nuovo film; ciò nonostante, la serie in esame, insieme alla simile pellicola Grudge, ha sicuramente nutrito un interesse per il cinema horror nipponico che pare persistere negli anni e che una volta era sconosciuto, mentre alcune scene di the ring persistono ad apparire come “citazioni” in moltissime parodie e opere derivate, restando indelebilmente impresse nell’immaginario collettivo, almeno di genere. Tutti gli elementi sin qui elencati potrebbero far propendere per una risposta affermativa alla domanda posta poco sopra e il fatto stesso che la storia di Ring sottenda una sottile critica – nemmeno troppo velata – al mondo della comunicazione di massa, al modello di “controllo
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sociale” che gli strumenti dell’informazione hanno sull’opinione pubblica, potrebbe segnare un punto di forza di tale opera dell’ingegno. I mass media hanno contribuito a diffonderne il messaggio alle masse che, per suo tramite, sono state allarmate nei confronti di quello stesso strumento da cui avevano ricevuto il primo impulso, il tutto in un circolo vizioso di “attivazione” delle coscienze che è difficile bloccare. Il nucleo della storia ci spinge a riflettere e a ripeterci: “Stuzzicato dai mass media ho letto un libro che mi mette in guardia dal potere di controllo sulle coscienze che i mass media stessi hanno; il modo in cui tale problema mi si è rilevato è una dimostrazione della realtà e dell’efficacia di tale fenomeno .”
Questo potrebbe pensare un qualsiasi lettore di Ring: il risultato finale è a tutto vantaggio del romanzo – e della sua storia – che non sarà facilmente dimenticato. Ebbene una simile fortuna, nonché una fama tanto potente, porta a ripensare a quello che è il più grande capolavoro della letteratura gotica di tutti i tempi: Dracula di Bram Stoker. Quest’ultima opera – all’occhio di un osservatore attento ed esperto della materia – presenta più di un punto di contatto con Ring di Kenji Suzu-
ki. Vale dunque la pena esaminare questi aspetti peculiari delle due opere, con una fondamentale premessa: si sconsiglia la lettura a chi già non conosca le due opere – la loro trama – e volesse leggerle in un futuro prossimo, perché la suspense e la integrità della narrazione ne rimarrebbero irreversibilmente lese da una serie di spoiler inevitabili. In primo luogo si può esaminare la somiglianza tra le strutture narrative dei due romanzi: Dracula inizia con il giovane Jonathan Harker in viaggio su una carrozza; presto egli si trova catapultato – suo malgrado – in una storia tragica, ricca di morte e terrore sovrannaturale, nella quale svolgerà un ruolo non marginale. Egli è il solo a scoprire l’esistenza di un male pestilenziale capace di diffondersi su tutta la terra, personificato nella figura del conte Dracula. I personaggi di Dracula nulla potrebbero ottenere senza un lavoro di squadra, un continuo spostarsi fra luoghi e situazioni alla ricerca di ulteriori “tasselli” del misterioso “mosaico” che cercano di rivelare al mondo. Soprattutto tali personaggi sarebbero impotenti senza l’aiuto di un personaggio qualificato: un soggetto dotato di quella genialità e di quelle doti umane e intuitive necessarie per affrontare un essere demoniaco e mostruoso come il vampiro Dracula; tale è la figura di Abraham Van Helsing, medico esperto di occulto e caparbiamente ostinato a combattere il male nella sua forma incarnata. Dettagli ulteriori di non poco
momento sono l’inserimento nella trama di un fondamentale personaggio femminile e riluttante – la moglie di Harker, Nina – e la morte di uno dei personaggi della “task force” antivampiro, poco prima della conclusione del romanzo. Inoltre, si può sottolineare il paragone esistente tra la fobia per il vampirismo e quella per le malattie, i virus e le pestilenze, difficili da individuare e da fermare e capaci di diffondersi a macchia d’olio ovunque (il modello dell’epoca – XIX secolo – è chiaramente la sifilide). Vediamo ora la struttura di Ring: l’opera inizia quasi subito – non le primissime pagine, ma poco dopo – con il protagonista, Asakawa, che si trova su un taxi – la carrozza moderna potremmo dire – e che viene – come Harker – catapultato in una serie di morti e orrori sovrannaturali, quale unico conoscitore dell’esistenza di un male – anche qui – “pestilenziale” capace di diffondersi ovunque e sterminare le persone. La metafora del virus in Ring è esplicita fin dai primi capitoli e perdura fino alla conclusione del romanzo e non solo: nel seguito della storia – il romanzo Spiral, conosciuto in Italia sempre grazie alla Editrice Nord (Milano, 2004) – si viene a sapere, senza alcun margine di dubbio, che il “male”, protagonista negativo della storia
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– la causa di tutte quelle morti – è proprio un virus, simile ad una mutazione del vaiolo. Continuando coi parallelismi rispetto a Dracula, ritroviamo in Ring il lavoro di squadra di tutta una serie di personaggi, in continuo spostamento, alla ricerca di sempre maggiori informazioni che permettano di debellare il male; ed anche in Ring è necessaria la comparsa di un personaggio “qualificato”, caratterizzato da particolare caparbietà e intuito: l’amico di Asakawa, Riuji Takayama. La sua tenacia è immediatamente messa in risalto: l’uomo non teme minimamente di vedere la videocassetta “stregata o maledetta” – il veicolo di diffusione del virus ring – che porta alla morte dopo sette giorni esatti dall’istante in cui la si è guardata, bensì è entusiasta all’idea di esserne spettatore e di
affrontare la lotta contro il male. Riuji Takayama è, inoltre, un professore di Filosofia (di Logica, per la precisione) laureato anche in Medicina: insomma un medico/filosofo particolarmente intelligente, astuto ed intuitivo, proprio come Van Helsing. Tali caratteristiche saranno altrettanto evidenti nel protagonista di Spiral, Mitsuo: egli, infatti, è un medico legale Ring, poi, come in Dracula, alcune vittime innocenti sono colpite dal male – richiedendo una maggiore urgenza d’intervento al protagonista, che non deve più soltanto salvare sé stesso – e, in parallelismo evidente con Dracula, si tratta proprio della moglie e della figlia di Asakawa (Harker della situazione). Infine, poco prima della conclusione del romanzo, anche in Ring come in Dracula, muore uno dei personaggi: si tratta di Riuji Takayama (che però si scoprirà tornare in vita nel seguito del romanzo). All’origine del male c’è sempre un personaggio sovrannaturale che agisce dal “regno dei morti”: il vampiro è un nosferatu, un non morto; all’origine del virus ring c’è il rancore di una donna morta
In definitiva, si potrebbe dire che il segreto del successo di Dracula e di Ring sia la struttura comune della storia; anzi, essa
potrebbe essere il segreto per scrivere romanzi horror immortali come i mostri che li popolano… Si prenda un personaggio, trasportato da un qualche vetturino, lo si catapulti in un mondo minacciato da un male sovrannaturale di natura morbosa/patologica e lo si faccia interagire con una task force di personaggi accomunati dall’intento di debellare questo “nemico”; si inserisca un personaggio particolarmente sicuro di sé e intelligente (richiesta almeno una laurea, possibilmente in medicina); si facciano spostare i personaggi in ambienti e scenari vari alla ricerca di dettagli o informazioni utili a sconfiggere il loro avversario; si crei la minaccia per la moglie del protagonista e si faccia morire uno dei personaggi principali poco prima della conclusione; ricordarsi di far aleggiare un’ombra di panico e terrore sul destino dell’intera umanità e “lasciar cuocere il tutto a fuoco lento”. Ecco la ricetta del romanzo horror perfetto. Eppure, al di là delle banalità e della facile ironia, ci si potrebbe chiedere quanto Suzuki e il mondo siano coscienti del paragone evidenziato in queste pagine. Più in generale viene da domandarsi quale sia il fascino magnetico che l’orrore da sempre esercita su di noi, attraverso le
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arti più varie: H.P. Lovecraft sosteneva che la paura sia il sentimento più antico e forte dell’animo umano e la paura più grande sia quella dell’ignoto
gods) superiori all’uomo e sconosciuti ai più. C’è chi (si veda “La stirpe di Dracula” di Massimo Introvigne, Mondadori, 1996) sottolinea come le opere dell’orrore, creandoci paura e terrore, generino adrenalina e in generale vadano a sostituire l’assenza di quelle esperienze di caccia o sopravvivenza estrema che un tempo caratterizzavano la nostra esistenza (in quanto animali) e che il nostro evolverci (come esseri umani, ma anche come società e tecnologia)
ha lentamente eclissato: nei momenti in cui ci dilettiamo spaventandoci con l’orrore, sono ripristinate importantissime funzioni basilari del nostro organismo, altrimenti non sublimabili in altre forme Personalmente ritengo che nella quotidianità si incontrino persone false e grette, materiali e maliziose; si vivano situazioni scomode (liti; omicidi; violenze; soprusi di ogni genere; etc.) e si vedano orrori terrificanti (bambini del Terzo Mondo malati e denutriti; guerre; atti di terrorismo; etc.) completamente dovuti e causati dall’uomo e che continuano a perpetuarsi esclusivamente a causa sua. L’idea di un male esterno o alieno, personificabile in qualcosa di non-umano e possibilmente che può essere distrutto/ucciso dall’intervento eroico di un umano, è sicuramente un pensiero più consolante e catartico del doversi confrontare con una realtà che appare invece pullulare di devianze e orrori che alcuna logica spiegazione sembrano avere all’infuori della matrice umana. Un simile elemento di auto-riflessione e di catarsi è insito nelle emozioni che l’horror e la paura ci trasmettono ed è il suo reale potenziale, nonché il suo magnifico ruolo. Certamente una funzione così essenziale della letteratura horror è l’altro grande elemento di successo che è racchiuso in un qualsiasi romanzo del genere: per quanto riguarda Dracula e Ring non si creano dubbi in proposito.
Oltretutto, tanto in Ring, quanto nel seguito, Spiral, è proposta tutta una serie di riflessioni sulla società, l’uomo e il suo destino escatologico di rilevante suggestione. Ritornando invece agli aspetti complementari delle due storie, vorrei sottolineare ulteriormente l’importanza dei due protagonisti reciproci e principali: Harker e Asakawa. Entrambi rivestono un ruolo di spicco nell’ordito del rispettivo romanzo; la prima parte delle due opere è dedicata esclusivamente a loro. Inoltre, sul complesso del racconto, entrambi compaiono per un periodo quantitativamente o qualitativamente maggiore, ottenendo un posto d’onore non concesso ad altri personaggi (nonostante in Ring il distacco fra le figure di Asakawa e Riuji sia meno marcato, in quanto co-protagonisti a tutti gli effetti). Entrambi, inoltre, ricompaiono nel seguito del romanzo, dove si scopre che Riuji si è alleato con Sadako Yamamura; al secondo, quindi, sembra quasi essere riservata una maggiore centralità nell’ordito complessivo della trama, come articolata su i due romanzi: Ring e Spiral. Tuttavia, Riuji è una figura negativa, di cui frequentemente sono messi in luce aspetti nefandi – come l’essere egli probabile autore di alcuni stupri – che in generale fanno essere qualitativamente preminente la figura di Asakawa, vero eroe tragico della serie. Entrambi i romanzi, inoltre, si concludono con un lieto fine: in Dracula gli eroi hanno sconfitto
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il male e i coniugi Harker hanno avuto un figlio cui è attribuito il nome “Arthur”, lo stesso del personaggio morto combattendo contro Dracula, che va quasi a sostituirsi al defunto, volendo ricreare idealmente il gruppo al completo, come era all’inizio del romanzo, quasi che nessuno fosse realmente morto e il male non avesse avuto il minimo vantaggio. In Ring la conclusione è impregnata di una “minaccia apocalittica” incombente sull’umanità, ma lascia presagire che il protagonista riuscirà a salvare la moglie e il figlio, avendo compreso “l’esorcismo” necessario a debellare la maledizione letale della videocassetta, creando quindi una sensazione di soddisfazione nel lettore, una convinzione di vittoria del bene sul male. Tale speranza è, però, smentita nel secondo romanzo della serie, in cui si appura che i due innocenti familiari del protagonista sono morti. In generale Spiral segna un contrasto col modello classico: c’è una vittoria del male; persino Asakawa muore, mentre Riuji e Sadako si profilano come annientatori dell’umanità e futuri signori della terra – nonostante una piccola parentesi di speranza lasciata aperta per il lettore più sognatore e idealista. Tuttavia, questo è un altro problema, che non va a toccare le similitudini esistenti tra Ring e Dracula, essendo Spiral, di fatto, un romanzo autonomo, tra l’altro di minor successo rispetto al predecessore, quasi a dimostrare la va-
lidità della struttura degli altri romanzi come formula segreta del successo, che, se abbandonata, porta alla disfatta. Ad ulteriore conferma di quest’ultimo assunto, mi preme evidenziare come successivamente l’autore nipponico sia stato quasi costretto a scrivere un terzo capitolo della sua fortunata serie: Loop (Ed. Nord, Milano, 2004), il quale riapre interamente la trama della trilogia, ripristinando un ottimismo e una positività di fondo che si era abbondantemente smarrita nel secondo capitolo della saga. Un terzo libro che, peraltro, è opinione dello scrivente, potrebbe sempre prestarsi a un ulteriore seguito… Personalmente ritengo Dracula il massimo capolavoro letterario, non solo in ambito gotico; ho comunque trovato molto affascinante ed emozionante Ring, dovendo ammettere che Spiral è in buona parte ancor più suggestivo e accattivante del suo predecessore, ma rovinandosi nel finale che ne segna un tracollo e in definitiva lo lascia perennemente secondo (non solo cronologicamente, ma anche come “classifica”), se non addirittura terzo, dopo la pubblicazione di Loop. Quest’ultimo, tuttavia, è un romanzo di genere e ambientazione completamente diversa dai primi due: è pressoché assente l’atmosfera horror e, anzi, il romanzo si può pacificamente definire di fantascienza – e di alto livello!
Interessante è, inoltre, una comparazione tra lo stile dei due autori (Stoker e Suzuki). Dracula è indiscutibilmente un romanzo epistolare, per quanto parzialmente sui generis: nel testo si susseguono pagine di diario, lettere, articoli di quotidiani, dattiloscritti, etc. La trama si snoda, quindi, attraverso la percezione soggettiva e diretta dei protagonisti delle vicende (nonostante non sia, appunto, una prospettiva unitaria di un singolo individuo) e la cadenza delle vicende è puntualmente fissata nello spazio e nel tempo in base all’intestazione dei contributi dati dai personaggi: data, luogo, provenienza. Ring non è, al contrario, un romanzo epistolare: ciò nonostante è scritto con l’indicazione precisa delle date e dei luoghi (persino delle ore); inoltre, sono spesso inserite le riflessioni dei personaggi in prima persona (in corsivo, nel testo stesso del racconto, riecheggiando lo stile di Stephen King), cosicché è trasmessa tutta una serie di emozioni, sensazioni e percezioni soggettive che caratterizza anche lo stile di Stoker in Dracula e rende più coinvolgente la lettura e l’immedesimazione nelle vicende. Per concludere, non voglio affermare che le due opere siano identiche, né che Suzuki abbia imitato Stoker; sono certo che anche il lontano confronto tra le due opere potrebbe far trasalire i fanatici di una qua-
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lunque delle medesime (più probabilmente gli “elisabettiani” amanti di Dracula, mentre i fans di Ring potrebbero essere lusingati dal paragone). Eppure sono convinto di aver notato similitudini sfuggite ai più e di aver sollevato una tematica suggestiva e intrigante: se ho fortuna potrei aver colto il segreto del successo immortale di un’opera, almeno dell’orrore, individuando la ricetta del “perfetto” romanzo horror, come un sommelier che ne intuisca gli ingredienti gustandone i sapori. Sapori d’alta cucina, nel caso di Stoker, ricca di tradizione, ma che cede sempre il desiderio all’assaggio. Francesco Brandoli (1981), è da sempre un amante del fantastico. Avvocato civilista, esercita la professione forense a Bologna, dove vive. Al suo attivo vanta la pubblicazione di racconti fantastici in raccolte: I figli di Beowulf (Midgard, Perugia) a cura di Alberto Henriet; Futuro Europa (Elara, Bologna), oltre a un saggio letterario su H.P. Lovecraft per la rivista “Studi Lovecraftiani”. Recentemente è uscito per Tabula fati il suo primo romanzo, Il Dio del Dolore. Inoltre gestisce una Pagina a suo nome sul social network Facebook e un sito internet dedicato all’attività di scrittore www.francescobrandoli.eu
S ka n IL DIO DEL
Dolore
Oltremondo
Recensisce
Disperazione. Starà ad Ashioka capire perché il sole sia sparito e dove stia dormendo, ma anche cessare gli scontri e riportare la pace, ricomponendo un quadro antico e ancora valido, quello in cui la vita è un continuo susseguirsi di cicli e la morte non è la fine Esiste un dio creatore di tutte dove ma un nuovo inizio. le storie, di tutti gli altri dei e anche del giovane Ashioka, dio del dolore e della morte, Leggendo le pagine de Il dio da sempre tormentato sulla del dolore di Francesco natura del proprio ruolo Brandoli, edito da Tabula fati, nell’Universo. si ha subito l’impressione di Nel cosmo che Ashioka ha trovarsi di fronte una storia in il compito di sorvegliare stile sword and sorcery dello affinché l’equilibrio resti stesso tipo di quelle preinalterato, esiste un pianeta sentate a cavallo tra gli anni rosso, Amhambara, desertico venti e trenta sui pulp magae inospitale, dove il sole zines americani. Stiamo sembra essersi addormentato, parlando della così detta lasciando i suoi abitanti pe- fantasia eroica un sottogenere rennemente avvolti nell’oscu- del fantasy creato proprio in rità. quegli anni gloriosi dalla Questo fatto è all’origine penna immaginifica di R. E. di una guerra decennale tra le Howard, il geniale autore due etnie che ci vivono: i pa- statunitense padre di persocifici Zaffiri, coltivatori e naggi immortali come Conan artigiani, amanti della natura, il Barbaro e Solomon Kane. e i rozzi Sassosi, popolo di Questo tipo di storie conegromanti e minatori. nobbero un grande successo Le loro continue battaglie in America, e non solo, cogiovano al Dio della Guerra, struendo la fortuna di riviste che ha dato il proprio nome al specializzate in narrativa pianeta e che dai Sassosi vie- fantastica come la celebre ne adorato e rispettato insie- Weird Tales. Cosa c’entra con me ai propri figli: Violenza, questo discorso il romanzo di Distruzione, Crudeltà e Brandoli? Bé, c’entra eccoFrancesco Brandoli
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me! Il suo Il Dio del Dolore è senza dubbio un heroic fantasy, anche se, come vedremo, non privo di alcune peculiarità. Partiamo dalle similitudini con il genere di cui sopra. Sword and sorcery che può essere tradotto con spada e stregoneria, è un tipo di narrazione fantastica in sono ben presenti sia l’elemento guerresco, che quello magico e soprannaturale. Ora, il protagonista del romanzo,
Ashioka è nientemeno che un dio, anche se all’inizio della storia non ancora consapevole della sua missione e dei suoi poteri. Il suo è un pianeta cremisi (un chiaro riferimento al pianeta rosso) e desertico. Un luogo desolato che sembra fuoriuscito da uno dei racconti di Howard. Questa landa inospitale è abitata da due popoli in lotta mortale: i pacifici Zaffiri e i temibili e selvaggi Sassosi, stirpe dedita alla negromanzia (altro tema assai frequente nella fantasia eroica). Il cattivo di turno è il dio della guerra coadiuvato nella sua azione distruttiva, dai suoi degni figlioli dai nomi quanto mai appropriati per dei veri cavalieri dell’apocalisse. La vicenda, dai toni epici, prevede un percorso iniziatico per il suo protagonista il quale dovrà affrontare tutta una serie di peripezie, compresa una sorta di catabasi aliena, che lo condurranno alla consapevolezza della sua vera natura e, immancabilmente, alla vittoria finale. Fin qua i contenuti narrativi che come già detto aderiscono, in buona parte, al modello della fantasy eroica. Vi sono poi degli interessanti riferimenti (e qui s’intravede l’appartenenza geografica e il retaggio culturale dell’autore), alla mitologia classica. Brandoli, riesce a costruire cosa non da poco -, una topografia fantastica di luoghi
extraterrestri posti oltre le dimensioni del possibile, dando corpo narrativo e iconografico al suo lavoro. In più, tenta la creazione d’un Pantheon mitologico a immagine di quello greco e latino. Evidenti le somiglianze tra le figure divine e semidivine; basti pensare al su citato dio guerresco che fa il paro con il latino Marte. Altre similitudini con l’epica ellenistica si evidenziano nel ricorso a nomi tipici della Grecia antica, che però risulta un po’ artificioso. Dal punto di vista della tecnica narrativa il libro appare discretamente curato con una struttura abbastanza solida, anche se non mancano alcune ingenuità e un ricorso forse eccessivo a scene di guerra. Ma si tratta di difetti non gravi, che non inficiano il valore generale dell’opera. L’autore dimostra una certa abilità, e buona attenzione nella rappresentazione dei personaggi e soprattutto di alcune situazioni e scenari. La descrizione della Torre della Disperazione svettante su un deserto infocato, è un pezzo di bravura, che ricorda da vicino, l’immagini tetre e grottesche dei palazzi dell’era perduta in cui visse Conan il cimmero. Le scene di lotta sono ben orchestrate e narrate con un certo realismo. La prosa, dal ritmo piuttosto rapido, è adatta al tipo di storia e al sottogenere cui essa appartiene. La struttura fraseologica
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risulta curata e funzionale alla narrazione. Il linguaggio utilizzato e lo stile è assai efficace e in grado di generare le suggestioni volute. In definitiva, Il Dio del Dolore è un romanzo nel solco dell’heroic fantasy con elementi tipici della mitologia greco latina, che pur presentando qualche pecca di poco conto, si fa apprezzare per l’originalità del soggetto e l’efficacia dello stile. Max Gobbo
Il Dio del Dolore, Francesco Brandoli, Tabula fati pag. 176
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Novità
Blake J. Harris Nel 1990 Nintendo aveva il monopolio virtuale dell’industria dei videogiochi. Sega, invece, era solo una traballante compagnia di giochi arcade dalle grandi aspirazioni. Tutto, però, sarebbe cambiato con l’arrivo di Tom Kalinske, ex dirigente Mattel che non sapeva alcunché di videogiochi ma che era in grado di vincere battaglie impossibili. Le sue tattiche poco convenzionali, insieme al sudore e alle idee coraggiose dei suoi impiegati, trasformarono Sega in una compagnia capace di affrontare, come Davide contro Golia, la rivale Nintendo in una lotta
senza quartiere per il predominio del mercato. Kalinske non poteva immaginare, tuttavia, che il successo di Sega gli avrebbe procurato molti nuovi nemici e soprattutto che avrebbe finito per rendere Nintendo più forte che mai. Lo scontro fu spietato e senza tregua. Oltre gli altissimi profitti, generò anche una guerra corporativa globale che sarebbe stata combattuta su diversi fronti: dai salotti alle scuole, dagli uffici esecutivi al Congresso. Fu un conflitto unico e - 18 -
senza esclusione di colpi, che mise fratelli contro fratelli, ragazzi contro adulti, Sonic contro Mario e Stati Uniti contro Giappone. Console wars, Harris Blake J. Multiplayer.it Edizioni (2015), pag. 525
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Novità
di Ray Bradbury l’Archeometro, pagg. 300 Le esperienze letterarie e le avventure cinematografiche, gli incontri con i classici della letteratura e il pensiero politico dell’autore di Fahrenheit 451. Dodici interviste, realizzate nell’arco di più di cinquant’anni, dodici finestre aperte sulla vita di Ray Bradbury: dalle atmosfere sognanti de L’estate incantata al gelo siderale delle Cronache Marziane, fino alla difesa della libertà di parola dagli incendiari di libri di ieri e oggi. Un
percorso attraverso la narrativa e il pensiero di uno dei giganti della letteratura contemporanea. - 19 -
Ray Bradbury (1920-2012) è considerato tra i più importanti autori di fantascienza di sempre. Tutti i suoi romanzi e racconti sono pubblicati e continuamente ristampati per i tipi di Mondadori.
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Novità
Baldini & Castoldi
Fondendo la sagacia di Fred Vargas e l’umorismo di Malvaldi, Alessandra Selmi rinnova la tradizione italiana del giallo regalandoci una coppia di protagonisti irresistibili: l’erudita barbona Bianca e lo sbirro tamarro Alex, alle prese con la loro prima indagine congiunta. La nebbia autunnale circonda Milano quando Aiace Pardon, un mite senzatetto che vive e mendica presso la stazione Centrale inizia a ricevere strane donazioni: prima 5, poi 10, 20 e 50 euro. Il vecchio è quasi cieco e del misterioso benefattore vede solo la punta delle scarpe, eleganti e lu-
cide anche nei giorni di pioggia. Quando 100 euro cadono nel bicchiere dell’elemosina il gioco giunge al culmine e il barbone, poco dopo, sparisce. È stato ucciso dall’uomo con le scarpe lustre? Ne è convinta una senzatetto sua amica, che si reca alla Polizia a denunciarne la scomparsa. Il commissariato al completo si raduna ad ascoltare la deposizione della donna, tanto ripugnante nell’aspetto quanto colta e raffinata nei modi, ma proprio questa stranezza – un ossimoro, direbbe lei – fa sì che nessuno la prenda sul serio. Aiace Pardon sarebbe destinato a rimanere l’ennesimo clochard dimenticato, se le parole di «quella palla da bowling che ha mangiato un dizionario» non colpissero Alex Lotoro, un giovane sbirro che della vecchia è l’esatto opposto. Iniziano così le indagini che porteranno i due a scavare nel passato di Aiace, fino alla scoperta della verità.
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Alessandra Selmi è nata a Monza nel 1977. Ha esordito nell’editoria giornalistica come redattore per le testate «Vogue Sposa» e «Vogue Bambini». Collabora con diverse case editrici milanesi e scrive per il settimanale «Confidenze».
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Versi Horror
D i e g o Co c c o
Il ballo del prossimo mondo Un giorno in cui ero a puntino sbirciai nell'aldilà. C'era un tizio dietro la porta con una birra in mano, non aveva occhi ma sorrideva, mi chiese l'invito che non avevo. «Torna col biglietto» aggiunse aspirando un grosso verme che voleva uscirgli dal naso. Risposi «Non mancherò» anche se non sentivo tutta quell'urgenza. Salutai e non appena la porta fu richiusa udii una musica rock, rumori di passi scatenati su un pavimento di legno scricchiolante. Avevo le scarpe in una pozza di liquido rosso che si stava ingrandendo, mi allontanai convinto che quella festa non facesse per me. Doveva essere colpa della musica. Prometteva ballerini scadenti e strofe già sentite troppe volte in spettacoli di vita difficili da dimenticare.
L'incidente Camminavi sulla strada di casa zoppicando i capelli appiccicati sul viso insanguinato, rivoli rossi a disegnarti la follia e le mani a graffiare aria e dolore. Dov'era finita la tua bellezza? Riconobbi il vestito, mezzo bruciato, quello che ti toglieva una taglia, dicevi. Gocciolava, quasi volesse lasciare una traccia d'accordo con te affinché io potessi vedere il luogo in cui tutto era finito. L'auto rovesciata le fiamme i vetri sulla tua pelle. Ti accasciasti e cademmo in ginocchio, furono lacrime e sospiri a imprimere con un orrido pulsare la tua ultima agonia dentro la mia testa.
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IL venditore dI pensieri usati A cura di http://pensieriusati.wordpress.com/ Robot dell'alba di Isaac Asimov
Bentrovati, cari lettori! Questo è il quarto romanzo di Asimov di fila che leggo, e per la precisione il quinto di quest’anno, ma sapete… Asimov ha il potere di non stancare mai, per quanto è varia, geniale e ricca di contenuti la sua opera. Credo che dopo di questo farò una pausa, dato che il prossimo servirà da transizione fra questo ciclo e quello dell’impero, ma nel frattempo mi godo la lettura. Sono passati circa due anni dai fatti avvenuti ne “Il sole nudo”, e iniziamo col nostro buon Lije Baley che si trova all’esterno, sotto un albero, intento a guardare una moltitudine di persone che zappano la terra. Lije sta aspettando il momento buono per poter chiedere di andare su Aurora a chiedere aiuti tecnici: astronavi e robot, prima di tutto. La Terra non è abbastanza progredita, e Aurora è il più potente dei mondi esterni. Una volta ottenuta la sua approvazione, i terrestri sarebbero potuti ripartire per la colonizzazione di altri mondi. Sta chiacchierando col figlio, quando arriva un robot governativo apposta per lui a riferirgli di essere di essere desiderato, pur essendo il suo giorno libero, per una missione su Aurora. Per inciso, è pure il pianeta da cui proviene R. Daneel Olivaw, un robot che Lije considera come un amico, e che incontrerà già sull’astronave che lo porterà sul pianeta.
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Da notare che mentre nel romanzo precedente scopriamo le caratteristiche del pianeta a mano a mano che andiamo avanti con la storia, qui il nostro buon Asimov sfrutta il tempo che ci vuole per andare dalla Terra al pianeta Aurora per farcene conoscere la storia e gli usi, così che noi sappiamo già in anticipo che cosa aspettarci dagli Aurorani. Quanto meno, ci fa credere di saperlo. In ogni caso, una volta atterrati ci ritroviamo in casa del dott. Fastolfe, e Lije inizierà subito a indagare. E, a casa di Fastolfe, a Lije iniziano a girare vorticosamente… voi sapete cosa, in quanto il roboticista non smonta le accuse a proprio carico, anzi, le difende pure! E ciò non va per niente bene, dato che sono in gioco a) la carriera di Fastolfe; b) la carriera di Lije; c) il destino stesso della Terra, in senso diplomatico e d) la possibilità di farsi prestare astronavi auroriane per la seconda ondata di colonizzatori spaziali dalla Terra. Il nostro buon detective in borghese di livello C-7 (era C6 ne “Il sole nudo”), dicevo, dovrà dimostrare l’innocenza di Fastolfe. Per fare ciò, dovrà raccogliere molti indizi, e quindi recarsi all’esterno. La prima persona che incontra è l’ex proprietaria del robot “ucciso”, e, guarda caso, la conosciamo già. È una persona conosciuta
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su Solaria, trasferitasi su Aurora per motivi che già abbiamo avuto modo di approfondire durante la scorsa indagine. E se non li conoscete andate a leggerli. No, non all’interno della scorsa recensione, visto e considerato che non l’ho detto, ma all’interno del romanzo precedente! E attraverso Gladia, la solariana di cui sopra, siore e siori, il buon Asimov ci parla di sesso! E sti ca… pperi! Non me l’aspettavo, no! E non ho capito se ne abbia parlato con dolcezza o con indifferenza. Forse un buon misto di entrambe le cose. Ciò che ne consegue è che scopriremo, in questa sede, che lei non è colpevole di robocidio. Per ora, almeno in apparenza. Parlando di sesso e gelosia, Lije costruirà una sua teoria per smentire la colpevolezza di Fastolfe, ma, essendo qui a metà del romanzo, ed essendo passato un solo giorno dal suo arrivo sul pianeta, appare lampante che non può aver già indovinato. Il motivo risiede nella sua scarsa conoscenza degli usi e costumi di Aurora, esattamente come accadde su Solaria. Invero, non è che non abbia imparato niente dalla precedente esperienza, infatti vi ho già parlato di come, durante il viaggio attraverso lo Spazio, abbia studiato qualcosina sui costumi locali, ma evidentemente non gli sono state fornite tutte le informazioni necessarie per comprendere a fondo gli auroriani. A questo punto conoscerà la figlia di Fastolfe, che ha avuto una relazione molto particolare col padre (conosceremo la storia da entrambi i punti di vista), la quale getterà benzina sul fuoco; e sentiremo cos’ha da dire un altro curioso personaggio che vive all’interno del perimetro dell’istituto di robotica pur non essendo un roboticista. E poi avremo a che fare con un nemico astuto che proverà a togliere di mezzo Lije e i suoi robot, ci sarà un inseguimento sotto il temporale, un tentativo di rapimento usando altri robot, e il pericolo non sarà tanto per Lije, quanto per R. Daneel Olivaw, ma di tutto questo non parlerò, perché come al solito voglio lasciarvi un minimo di divertimento a
leggere il romanzo, senza svelarvi proprio tutto. All’improvviso avremo la soluzione del problema, il nostro detective si troverà a fare il suo show dinanzi al Presidente del pianeta, scagionerà Fastolfe e incastrerà il suo antagonista. Ma non è tutto: la soluzione del problema è solo la prima parte, avremo un ultimo colpo di scena che spalancherà le porte alla colonizzazione della galassia e ci introdurrà al successivo romanzo, che sarà di transizione fra il ciclo dei robot e quello dell’Impero. E Lije tornerà sulla Terra vincitore. Che dire… Ho notato che Asimov a volte tende a perdersi un po’ verso la metà del romanzo, ma non è questo il caso. La storia regge durante tutto il suo svolgimento, appassiona, regala indizi che portano a giuste osservazioni, tanto che anch’io, che non sono un giallista, avevo identificato il colpevole. Come il protagonista, c’era qualcosa che mi sfuggiva, e alla fine ho capito cos’era. L’ho capito quando Lije l’ha rivelato, e mi è caduta addosso la soluzione come un fulmine a ciel sereno. Certo, quello che accade alla fine è al di là di ogni sospetto, ma d’altra parte la sorpresa finale ci vuole! I robot e l'Impero di Isaac Asimov
In quest'altro romanzo, sono passati duecento anni da quando Lije baley è stato su Aurora. Oramai è morto, i terrestri hanno iniziato la colonizzazione di altri mondi, mentre quelli degli spaziali sono ormai in declino. Ci troviamo su Aurora, Fastolfe è morto da poco e Lady Gladia ha ereditato i due robot più importanti: Daneel l’umanoide e Giskard col potere di leggere la mente degli uomini. La prima cosa che succede è sentir parlare di Lije, e Lady Gladia avrà a che fare con un tirapiedi del
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dott. Amadiro, che, come nel precedente romanzo, porta avanti la sua politica antiterrestre, oramai non più ostacolata da Fastolfe. Detto tirapiedi sostiene di essere discendente di Lije Baley, e ciò gli starebbe rovinando la possibile carriera che potrebbe fare al servizio di Amadiro. Cosa comunque irrilevante, come scopriremo in seguito. Il tirapiedi del dott. Amadiro, comunque, sembrerebbe non essere figlio suo e di Lije, quantomeno Lady Gladia propone argomentazioni convincenti; in ogni caso lui è andato a casa sua a dirle che presto riceverà una visita da un colono che porta il cognome Baley. Quando se ne va, i due robot, Daneel e Giskard, si lasciano andare a un lieve flashback riguardo l’ultimo incontro tra Fastolfe e Lije e gli avvenimenti politici a proposito di Aurora e della Terra (e rispettivi coloni) degli ultimi duecento anni. D. G. Baley (D. G. sta per Daneel Giskard), il colono, capitano dell’astronave mercantile con cui è sbarcato su Aurora, prova di essere un reale discendente di Lije, e convince Lady Gladia a tornare su Solaria per motivi economici. Dovete sapere, cari lettori, che Solaria è un pianeta ormai disabitato, o presunto tale, dove già due navi mercantili sono state distrutte dopo essere atterrate. D. G. vuole con sé Lady Gladia per poter identificare un approdo sicuro, per esempio la sua antica residenza, dove lei avrebbe potuto riconoscere e dare ordini ai robot che furono stati di sua proprietà. Dico “furono stati” perché Gladia manca da Solaria da oltre duecento anni galattici standard (esattamente quelli terrestri). Le sorprese, però, non tardano ad arrivare:
la residenza che fu di Lady Gladia ha cambiato proprietari, i robot non devono fare avvicinare nessuno, e un robot umanoide femminile, molto più perfezionato di Daneel, tenta di uccidere Daneel stesso e D. G. perché non li considera umani. Daneel per ovvi motivi; D. G. perché sappiamo già che i solariani considerano i terrestri (e di conseguenza i coloni) una specie sub-umana. Scappiamo da Solaria fin che siamo ancora vivi e ci rechiamo su Baleyworld, il pianeta fondato dal figlio di Lije, dove Lije è una leggenda, un eroe del passato. Qui Lady Gladia terrà un discorso memorabile a proposito della fratellanza fra i popoli, finito il quale dovrà restare per un lungo periodo in un appartamento sotterraneo, sorvegliato a vista, per far sì che gli antispaziali non le possano nuocere.
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Scopriremo in un secondo momento che la corazzata auroriana, che stava inseguendo il mercantile, non lascerà più il suolo di Solaria. Tornando a noi, Aurora rivuole ufficialmente indietro Lady Gladia, per motivi che per ora restano ignoti, quindi i coloni sono costretti a rispedirla indietro. A comandare la nave che la riporterà sul pianeta sarà di nuovo Baley. La parte successiva ci presenta il dottor Amadiro, l’acerrimo nemico di Fastolfe, complottare con Mandamus per la distruzione della Terra attraverso l’uso dei robot umanoidi. Mandamus è il tirapiedi di cui sopra, e i fatti narrati risalgono a pochi anni prima, un flashback necessario che ci porterà a comprendere meglio gli eventi di cui si parla nel tempo corrente. Non vi svelo i particolari del piano, anche perché il buon Isaac non lascia dire nulla ai personaggi. Si sa che c’è un piano che viene portato avanti, e che sembra funzionare, ma noi lettori non possiamo fare altro che attendere che tutto si riveli. Quindi mettiamoci l’anima in pace e aspettiamo il momento cruciale. Nel frattempo, capiremo che non è Aurora che vuole indietro Lady Gladia, ma il dott. Amadiro che vuole per sé il robot Giskard, dopo aver scoperto che è in grado di leggere la mente umana. Lady Gladia si rivelerà quindi un mero diversivo. Solo che il robot gli sfuggirà per un soffio, e Giskard partirà per la Terra seguendo Lady Gladia e Daneel. Saltiamo un po’ di intrighi politici e atterriamo direttamente sul pianeta Terra. Qui Lady Gladia dovrà tenere un comizio di presentazione la sera stessa del suo arrivo, ma sarà il bersaglio di un attentato terroristico da parte di un robot umanoide. Si, avete letto bene: un robot umanoide, che non è Daneel, le punterà addosso un disintegratore e premerà il grilletto, mancandola per un soffio. Si scoprirà poi che il vero bersaglio non era lei,
ma poco importa: il robot era di Aurora, e mirava a rendere instabili i rapporti politici fra terrestri e spaziali. Intanto, Daneel e Giskard, dopo lunghe riflessioni, scoprono quale sia il piano del dott. Amadiro e, dopo altre riflessioni anche non inerenti la “crisi”, come viene definita, creano la legge Zero, più forte della prima e che mira a salvaguardare il bene dell’umanità prima del bene del singolo. In due parole, la legge zero è uguale alla prima legge, solo che applicata a tutti gli esseri umani. Giskard, poi, farà sapere a Daneel come modificare i suoi circuiti per riuscire a leggere il pensiero degli uomini. Appena in tempo, prima di lasciarci per sempre. E il piano? Beh, sicuramente il finale vi lascerà l’amaro in bocca. I lettori di Asimov, quando uscì questo romanzo, già sapevano come sarebbe finita, dato che “Fondazione e Terra” era già stato scritto, e comunque si intuisce già leggendo l’intero ciclo delle fondazioni; tuttavia se volete leggere la storia dell’Universo dall’inizio… beh, resterete con un palmo di naso. E qui ho già detto troppo, e voi avete capito tutto. Mi dispiace ma dovevo renderlo noto: me l’hanno detto le voci. Unico neo di questo romanzo? E’ un pochino più lento di come dovrebbe essere, si dilunga forse troppo con la politica, e lascia alcuni punti in sospeso. Invero, è fortemente caratterizzato dalla politica, ma alcune parti erano, a mio avviso, abbastanza superflue. Sempre che non servano da trampolino per ciò che accadrà nel ciclo dell’Impero, ma lo vedremo più avanti. Finisce qui l’era dei robot, con questa storia di transizione fra loro e l’Impero. La prossima volta vedremo come si espanderanno i nuovi Coloni, la nascita dell’Impero Galattico, la sua espansione e altre cose che or ora non conosco. Alla prossima, cari lettori!
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CLASSICI da rileggere VALIS d i P h ilip K . Dic k
VALIS
di Philip K. Dick
Il romanzo “VALIS” (“VALIS”) di Philip K. Dick è stato pubblicato per la prima volta nel 1981. In Italia è stato pubblicato da Interno Giallo / Mondadori all’interno de “La trilogia di Valis”, da Mondadori nel n. 232.1 di “Piccola Biblioteca Oscar” e da Fanucci nel n. 30 di “Collezione Dick” e all’interno de “La trilogia di Valis” nella traduzione di Delio Zinoni.
Horselover Fat ha avuto una stranissima esperienza quando un raggio di luce rosa secondo lui gli ha scaricato nel cervello un’enorme quantità di informazioni che non sa come interpretare. Chiede aiuto ai suoi amici Phil, Kevin e David ma per lui la situazione è resa più complicata dopo il suicidio della sua amica Gloria e a causa del cancro della sua amica Sherri. Per Horselover Fat, la sua esperienza è di tipo mistico / religioso, una ricerca di Dio. Le sue riflessioni lo portano a convincersi che la realtà non è quella che appare e che l’Impero Romano non è mai cessato. La natura di Dio sembra essere più complessa di quanto lui pensasse, connessa al sistema VALIS (Vast Active Living Intelligence System). Nel corso della sua carriera, Philip K. Dick ha scritto prevalentemente fantascienza. Il suo stile era molto personale e in alcuni casi le storie includevano elementi religiosi. Negli ultimi anni della sua vita, una serie di eventi lo aveva portato a interessarsi ancor di più alla religione e ciò si nota nei suoi ultimi romanzi. Nel 1974 qualcosa successe a Philip K. Dick. Lui lo descrisse come un raggio rosa che si accese nella sua mente. Qualcuno l’ha spiegato come un leggero ictus ma è impossibile dire quale sia la realtà, soprattutto con uno scrittore che ha fatto della frammentazione della realtà un suo marchio di fabbrica. Sta di fatto che negli anni successivi Philip K. Dick cominciò a interpretare alcuni eventi della sua vita in maniera mistico / religiosa. Lo spiega nel suo articolo “Come costruire un universo che non cada a pezzi dopo due giorni” (“How to Build a Uni-
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verse That Doesn’t Fall Apart Two Days Later”). Philip K. Dick e un sacerdote della chiesa episcopale videro similitudini tra una scena del suo romanzo “Scorrete lacrime, disse il poliziotto”, conosciuto anche come “Episodio temporale” (“Flow My Tears, The Policeman Said”) e una descritta negli “Atti degli apostoli”. Qualche tempo topo, Dick si trovò in una situazione che ritenne molto simile a quella scena. Un momento mistico per Philip K. Dick avvenne dopo che gli vennero rimossi due denti del giudizio. Ebbe la necessità di prendere antidolorifici, che gli vennero portati a casa da una ragazza che indossava una collana con un pesce color oro. Quando Dick le chiese il significato del pesce, la ragazza gli spiegò che era un simbolo usato dai primi cristiani. In quel momento, Philip K. Dick venne colpito da un riflesso di luce del pendente che generò un raggio rosa che gli provocò un’esperienza di anamnesis, letteralmente la perdita della dimenticanza. Per un momento, ricordò ciò che già da un po’ sospettava, cioè che l’Impero non è mai cessato, che in realtà l’anno era il 50 d.C. e la realtà in cui viveva era puramente illusoria. Quelle esperienze lo portarono a scrivere un romanzo intitolato “VALISystem A”, in cui l’elemento mistico / religioso era molto forte. Il suo editore gli chiese però di modificare pesantemente la storia e Dick finì per ristrutturarlo ottenendo “VALIS”. “VALISystem A” venne pubblicato postumo con il titolo “Radio libera Albemuth” (“Radio Free Albemuth”). Il risultato è particolare anche per gli standard di Philip K. Dick. “VALIS” viene a volte considerato fantascienza perché il suo autore viene considerato uno scrittore di fantascienza. Il romanzo effettivamente contiene elementi fantascientifici, tuttavia è fondamentalmente una storia filosofica / religiosa con un’importante componente autobiografica. Uno degli amici del protagonista, Phil, è Philip K. Dick stesso. Il protagonista, Horselover Fat, è però un alter-ego dell’autore e le sue esperienze mistiche rispecchiano fortemente quelle di Dick. Gli altri loro amici sono Kevin, basato sullo scrittore K.W. Jeter, e David, basato sullo scrittore Tim Powers. Il percorso mistico / religioso di Horselover Fat è basato sul cristianesimo gnostico ma è mescolato con varie idee filosofiche, con l’esperienza di
anamnesis di Philip K. Dick e altre idee ancora, come quella del sistema VALIS. La conseguenza è la formazione di un concetto di Dio molto personale. “VALIS” è anche la storia del percorso interiore di Horselover Fat / Philip K. Dick attraverso tragedie come il suicidio della sua amica Gloria e il cancro della sua amica Sherri. Anche lo sdoppiamento dell’autore in due personaggi diversi è un elemento che ha una sua importanza nella storia. Horselover Fat e i suoi amici incontrano vari personaggi, tra cui due ispirati a David Bowie e Brian Eno, nel corso della loro ricerca di Dio. Come avviene in molte storie di Philip K. Dick, la realtà non è necessariamente quella che appare. Alcuni eventi possono avere diverse interpretazioni, che dipendono anche dallo stato mentale di chi l ha vissuti. C’è chi vede in “VALIS” i sintomi della follia di Philip K. Dick. Se è così si tratta di una lucida follia perché l’autore creò una complessa cosmogonia mettendo assieme elementi davvero eterogenei. In quegli anni, Dick scrisse anche la sua esegesi, una sorta di giornale in cui includeva note sulle sue esperienze e sulle sue idee mistico / religiose. In “VALIS” sono incluse alcune di quelle note ma solo una piccolissima parte perché l’esegesi alla fine era lunga circa 8.000 pagine. Tutti questi elementi formano un romanzo davvero complesso dato che è molto orientato alla ricerca mistico / religioso / esistenziale di Horselover Fat / Philip K. Dick. C’è una prevalenza di dialoghi e gli eventi sono funzionali alla ricerca perciò il ritmo è lento. I personaggi servono soprattutto a supportare il protagonista e a offrirgli spunti di discussione. Secondo me “VALIS” è per certi versi un romanzo straordinario perché Philip K. Dick riesce a crearvi una cosmogonia coerente da elementi eterogenei. Credo che vada letto assolutamente da chi vuole davvero conoscere quest’autore ma allo stesso tempo credo che sia necessario conoscerlo già un po’ per evitare di esserne traumatizzati. Una volta che vi siete familiarizzati con i temi tipici delle sue storie e il suo stile, potete affrontare “VALIS” e gli altri romanzi pieni di temi mistico / religiosi scritti da Philip K. Dick negli ultimi anni della sua vita. Non a caso, questi formano quella che viene chiamata trilogia di VALIS, recentemente ristampata.
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IL Libro da Tradurre T h e E t e r n a l F l a me di Greg Egan
del suo equipaggio. Il vantaggio è che il tempo sull’astronave trascorre molto più lentamente che sul pianeta. Il problema è che non trasporta abbastanza propellente per il viaggio di ritorno e a peggiorare la situazione c’è il problema dei limiti delle risorse per la sopravvivenza dell’equipaggio. Mentre gli scienziati dell’equipaggio stanno cercando la soluzione ai loro problemi, l’astronoma Tamara scopre un oggetto nello spazio. Una spedizione potrebbe trovare nuovo propellente ma comporta parecchi rischi. Nel frattempo, nuovi studi biologici rischiano di creare una spaccatura nella piccola società che vive nella Peerless. “The Eternal Flame” è ambientato molti anni dopo “The Clockwork Rocket” perciò i personaggi sono completamente diversi ed è ambientato nello spazio, principalmente The Eternal Flame sull’astronave Peerless, invece che su un pianedi Greg Egan ta. La conseguenza è che la storia è autonoma rispetto al primo romanzo, tuttavia saltarlo vuol dire perdere tutte le basi della trilogia Orthogonal. Ciò è particolarmente dannoso perché essa è Il romanzo “The Eternal Flame” di Greg Egan è ambientata in un altro universo con leggi fisiche stato pubblicato per la prima volta nel 2012. È il diverse. In “The Clockwork Rocket”, Greg Egan ha cominciato a illustrare quelle leggi attraverso secondo libro della trilogia Orthogonal ed è il seguito di "The Clockwork Rocket". È inedito in le scoperte scientifiche di vari personaggi. L’autore ha messo on line una pagina del suo sito che Italia. spiega la fisica di quell’universo ma non è come L’astronave generazionale Peerless sta leggere il romanzo. viaggiando nello spazio alla ricerca di una Un altro problema è che i personaggi tecnologia in grado di salvare il mondo natale
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appartengono a una specie con anatomia e fisiologia completamente diverse da quelle umane. Anche in questo caso, in “The Clockwork Rocket” il lettore scopre pian piano le caratteristiche di questa specie, influenze fondamentali nella loro società e quindi anche nello sviluppo della storia in “The Eternal Flame”. Questo secondo romanzo della trilogia Orthogonal continua direttamente la storia iniziata in “The Clockwork Rocket” anche se salta avanti nel tempo. Greg Egan è uno dei più importanti autori di fantascienza “hard” e la trilogia Orthogonal è per molti versi l’esplorazione di quell’universo. Onestamente in certi momenti ci può essere l’impressione che la storia proceda proprio allo scopo di spiegare nei particolari la fisica dell’universo Orthogonal. Come in “The Clockwork Rocket”, Greg Egan usa parecchi grafici per accompagnare le scoperte dei protagonisti e le loro teorie. È quindi necessario avere un certo livello di conoscenza di fisica e matematica per non perdersi ma con quest’autore è normale. La storia è tuttavia molto più della fisica dell’universo Orthogonal. I problemi sociali del pianeta erano importanti nel primo libro, quelli sull’astronave Peerless lo sono altrettanto nel secondo libro. Le risorse sono limitate e le ricerche scientifiche servono anche a trovare nuovi modi per supportare l’equipaggio durante il lunghissimo viaggio. Tra i tanti problemi della piccola società esistente sulla Peerless, Greg Egan si concentra su quello dei diritti delle donne. La loro specie si riproduce per scissione perciò una donna muore quando nascono i suoi figli. Per questo motivo, sono gli uomini a prendersi cura dei bambini e sono loro ad avere l’equivalente dell’istinto materno umano.
Nella loro società tradizionale, le donne sono considerate incapaci di prendersi cura di un bambino, ovviamente altrui, proprio perché secondo lo stereotipo non hanno l’istinto necessario. Sulla Peerless le necessità e la presenza di persone progressiste hanno cominciato ad apportare cambiamenti alla loro società eppure ci sono ancora molte persone legate ai valori tradizionali. Anche nuove scoperte nel campo della biologia portano a scontri tra i progressisti, che accettano una parità tra i sessi, e i tradizionalisti, che vogliono continuare a controllare le donne soprattutto a livello riproduttivo. Come nel primo libro, in “The Eternal Flame” Greg Egan si ispira ai problemi sociali umani per raccontare la storia di una specie molto diversa. Proprio come sulla Terra, sulla Peerless ci sono persone che rifiutano le implicazioni sociali di nuove scoperte scientifiche ma sono pronte a sfruttarne i vantaggi pratici. Anche dal punto di vista emotivo, nonostante le profonde differenze questa specie prova le stesse emozioni degli umani e ciò aiuta notevolmente a comprendere le azioni dei personaggi. A causa delle sue caratteristiche, “The Eternal Flame” ha spesso un ritmo lento, con molte conversazioni tra i personaggi e le loro discussioni che spesso riguardano teorie scientifiche. In altre parti del romanzo c’è invece azione con un ritmo ben più elevato. I personaggi sono tanti e solo alcuni sono ben sviluppati ma secondo me Greg Egan ha fatto complessivamente un buon lavoro. Secondo me, “The Eternal Flame” è un buonissimo romanzo che continua ad alto livello la trilogia Orthogonal. Se vi è piaciuto il primo libro vi consiglio caldamente di procurarvi anche questo.
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Uscite U R A N I A Psico - Attentato di Robert J. Sawyer
un discorso a Washington DC. Viene immediatamente portato in un ospedale, dove viene sottoposto a un delicato intervento chirurgico. Nel corso dell’operazione, un nuovo attentato causa la distruzione della Casa Bianca e l’impulso elettromagnetico causato dalla bomba colpisce anche la rete elettrica. Nello stesso ospedale, il professor Ranjip Singh sta portando avanti un esperimento sulla memoria. Esso ha lo scopo di aiutare i soldati che soffrono di disturbo posttraumatico da stress eliminando le loro memorie più traumatiche. L’impulso elettromagnetico causato dall’attentato influenza pesantemente l’apparecchiatura, creando un collegamento tra le memorie di varie persone nell’ospedale. Avere accesso ai ricordi di un’altra persona può creare complicazioni, soprattutto perché c’è una persona che può accedere ai ricordi del presidente, compresi quelli top secret. Psico Attentato di Robert J. Sawyer “Psico – Attentato” inizia come una storia di fantapolitica in un futuro prossimo in cui gli attacchi terroristici contro gli USA sono aumentati. Nonostante le migliaia di miliardi spesi in guerre varie e in sistemi che in teoria dovrebbero assicurare la siIl romanzo “Psico – Attentato” curezza degli americani, la situazione sta (“Triggers”) di Robert J. Sawyer è stato peggiorando. pubblicato per la prima volta nel 2012. In Italia è stato pubblicato da Mondadori nel Nonostante tutto, il presidente degli USA Seth Jerrison intende tenere un discorso n. 1616 di “Urania”. ottimista ma viene interrotto quando Il presidente degli USA Seth Jerrison è qualcuno gli spara. È solo una fase di un vittima di un attentato mentre sta tenendo attacco più ampio che poco dopo porta alla
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distruzione della Casa Bianca. Fin qui il futuro descritto in “Psico – Attentato” è una possibile proiezione del presente ma ben presto viene introdotto l’altro elemento fondamentale del romanzo. Robert J. Sawyer è un autore che scrive romanzi in cui prende un paio di idee e ne esplora i possibili sviluppi e le possibili conseguenze. In “Psico – Attentato” una delle idee è un apparecchio in grado di modificare i ricordi delle persone il cui funzionamento viene alterato da un impulso elettromagnetico. La conseguenza è che in qualche modo l’apparecchiatura crea collegamenti tra le memorie delle persone che erano vicine ad essa. Ognuno di loro può accedere alle memorie di un’altra persona e questo è un grosso problema perché c’è una persona che può accedere ai ricordi del presidente, con tutti i problemi relativi alla sicurezza nazionale che ne possono conseguire. Robert J. Sawyer esplora le possibili conseguenze di questo collegamento mnemonico. Le persone coinvolte reagiscono in modi diversi al fenomeno, soprattutto inizialmente, quando non riescono a capire cosa stia succedendo. Le connessioni hanno conseguenze diverse perché alcune persone hanno ricordi traumatici mentre in altri casi il risultato è un rapporto più profondo tra le due persone connesse. L’intrigante tema delle memorie condivise viene sviluppato parallelamente a quello fantapolitico. I servizi segreti americani devono trovare tutti i responsabili dell’attentato di Washington e allo stesso tempo capire come funziona la connessione mnemonica per valutarne le conseguenze.
Dato il tipo di storia, inevitabilmente in “Psico – Attentato” ci sono parecchi personaggi. Robert J. Sawyer è bravo a dare a tutti un certo sviluppo, anche sfruttando le loro connessioni mnemoniche. Esse permettono di scoprire i segreti di un personaggio tramite quello connesso a lui. In “Psico – Attentato” c’è un elemento scientifico legato alle memorie condivise ma non può essere considerato un romanzo di fantascienza “hard”. Soprattutto nella parte iniziale succedono molte cose, tanto che descrive gli eventi di una giornata circa. La conseguenza è che il ritmo tende a essere molto elevato con parecchia azione e colpi di scena. Robert J. Sawyer è un autore che tende all’ottimismo, anche in un romanzo con un inizio così drammatico. Anche il finale di “Psico – Attentato” dovrebbe essere ottimista ma, senza aggiungere spoiler, secondo me riesce solo in parte a risolvere in maniera coerente la trama. Nonostante qualche dubbio sul finale, “Psico – Attentato” mi è parso complessivamente un buon romanzo che esamina in maniera interessante il futuro prossimo e un possibile sviluppo tecnologico. Per questi motivi ne consiglio la lettura.
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USCITE U R A N I A L a vi a d e lle s te lle di James Tiptree Jr.
Il pianeta Tyree ospita una civiltà avanzata di creature che vivono nella sua atmosfera. Simili a grandi mante, esse vivono in volo sfruttando i venti e sono dotate di notevoli poteri mentali. Nulla di tutto ciò sembra però utile quando il Distruttore si avvicina al loro pianeta. Questo strano essere sembra invincibile e ha già annientato molti mondi. Gli abitanti di Tyree possono solo usare le loro capacità mentali per cercare un nuovo mondo in un’altra parte della galassia. Sulla Terra, un gruppo di persone dotate di poteri psichici partecipa a un esperimento militare. I risultati sono inaspettati perché portano a un contatto mentale con gli abitanti di Tyree. Le enormi differenze tra le due specie causano confusione negli umani e su Tyree qualcuno decide che l’unica salvezza sta nel trasferire la propria mente nel corpo di un terrestre. La via delle stelle James Tiptree Jr. è il nome d’arte della di James Tiptree Jr. scrittrice Alice Sheldon, che per molti anni aveva nascosto di essere una donna. Aveva cominciato ad affermarsi nel campo della Fantascienza alla fine degli anni ’60 ma per parecchio tempo aveva scritto solo narrativa breve. “La via delle stelle” è il Il romanzo “La via delle stelle” (“Up the primo dei due soli romanzi che ha scritto. Walls of the World”) di James Tiptree Jr. è Scrittrice sofisticata ed eclettica, James stato pubblicato per la prima volta nel 1978. In Italia è stato pubblicato da Arme- Tiptree Jr. tendeva ai toni cupi. Sono uno specchio dell’oscurità che aveva dentro nia Editore nel n. 3 di “Fantascienza”, dall’Editrice Nord nel n. 156 di “Cosmo che alla fine la portò a commettere suiciOro” e da Mondadori nel n. 146 di “Urania dio. Ne “La via delle stelle” l’oscurità colpisce il pianeta Tyree e i suoi abitanti Collezione” nella traduzione di Marika nella forma di un misterioso essere chiaBoni Grandi.
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mato non a caso il Distruttore. Il breve capitolo iniziale del romanzo presenta il Distruttore con termini molto forti e intensi. Il capitolo successivo ci presenta invece i meravigliosi abitanti di Tyree e in particolare Tivonel. La loro magnifica civiltà è minacciata dal Distruttore e la loro unica speranza di salvezza consiste nel trasferirsi su un altro mondo sfruttando le loro grandi capacità mentali. Gli abitanti di Tyree scoprono che sul lontanissimo pianeta Terra esistono altre creature intelligenti ma ciò crea un nuovo problema. Essi potrebbero trasferire le loro menti in corpi umani ma per loro si tratta di un grave crimine. Tuttavia, la situazione è disperata perciò una fazione intende violare la legge pur di raggiungere la salvezza dal Distruttore. La descrizione della civiltà di Tyree è un punto forte de “La via delle stelle”. James Tiptree Jr. è brava non solo a descrivere creature realmente aliene ma anche a dare una credibile individualità agli abitanti di Tyree. Questi alieni molto affascinanti sono molto diversi dagli esseri umani non solo fisicamente ma anche mentalmente. Hanno anch’essi due sessi ma esistono comunque notevoli differenze rispetto agli equivalenti umani. L’incontro con gli umani è davvero difficile perché le due specie sono così aliene tra di loro da rendere difficile la reciproca comprensione. Anche nelle migliori circostanze, ci vorrebbe tempo per membri delle due specie per riuscire a superare incomprensioni dovute alla loro biologia e alla loro cultura, così diverse. In circostanze disperate e con l’interferenza del Distruttore, una collaborazione tra le due specie sembra quasi impossibile.
Date queste premesse, da James Tiptree Jr. ci aspetteremmo una storia di morte e distruzione. Certamente non è la storia di un picnic interstellare ma alla fine il tema fondamentale del romanzo è la comunicazione tra creature molto aliene tra loro. Una buona parte della storia è dedicata ai tentativi di alcuni dei personaggi, umani e alieni, di comprendersi tra loro andando oltre le barriere create dalle enormi differenze in biologia e cultura. La comunicazione con esseri molto diversi è una scelta individuale perciò solo alcuni dei personaggi delle varie specie ci provano realmente. Nella storia c’è anche azione ma ci sono soprattutto dialoghi tra vari personaggi, a volte della stessa specie e altre volte di specie diverse. La conseguenza è che spesso ne “La via delle stelle” il ritmo è lento. In questi casi, l’intensità della narrazione è spesso data dalle emozioni e dai sentimenti dei personaggi. Essi sono fondamentali nella storia e James Tiptree Jr. ne sviluppa alcuni di essi in maniera notevole. Perfino il Distruttore, che inizialmente sembra poco più di una gigantesca nube nera, diventa nel corso del romanzo un personaggio vero e proprio. A lungo i capitoli dedicati al Distruttore sono molto brevi ma nella seconda parte de “La via delle stelle” diventano più lunghi permettendoci di scoprire la verità su di esso. Il risultato di tutto ciò è un romanzo che non è semplice da leggere, soprattutto all’inizio, ma secondo me ne vale la pena. Penso che “La via delle stelle” sia davvero un bel romanzo con caratteristiche davvero interessanti. In particolare se vi piacciono storie introspettive, ve ne consiglio la lettura.
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Uscite U R A N I A L a n ot t e d e l bombardiere di Serge Brussolo
senza poter reagire in alcun modo. La donna rimane talmente traumatizzata da dover essere ricoverata in un ospedale psichiatrico. In assenza del padre, la nonna di David spedisce il ragazzo in un collegio senza tante cerimonie. Triviana è una cittadina decadente, ancora segnata da un evento risalente alla II Guerra Mondiale, quando un bombardiere, o almeno così dice la storia ufficiale, è precipitato su un luna park nell’area causando molti danni, morti e feriti. Non sembra il luogo più adatto a David per riprendersi e la situazione diventa peggiore quando comincia ad addentrarsi nei misteri riguardanti la notte del bombardiere. Serge Brussolo è un autore che nel corso della sua carriera ha scritto storie di vari generi mischiandone gli elementi in vari modi. Per questo motivo, “La notte del bombardiere” può essere considerato La notte del bombardiere fantascienza ma contiene anche elementi di Serge Brussolo horror. Brussolo non è interessato al lato scientifico della storia bensì a scavare nella psiche dei personaggi, uno dei tratti tipici delle sue opere. Fin dall’inizio del romanzo, si può notare come Serge Brussolo non vada per il sottiIl romanzo “La notte del bombardiere” (“La Nuit du bombardier”) di Serge Brus- le nella sua narrazione. Il protagonista Dasolo è stato pubblicato per la prima volta vid Sarella ha subito un forte trauma e per di più è finito in un collegio in una cittadinel 1989. In Italia è stato pubblicato da Mondadori nei nn. 1119 e 1617 di “Ura- na dall’atmosfera decadente e opprimente. nia” nella traduzione di Maurizio Vinelli. Le descrizioni delle emozioni e sentimenti provati da David sono molto intense e la David è appena adolescente quando si tro- narrazione è molto vivida. va ad assistere allo stupro di sua madre
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Lo stile di Serge Brussolo è piuttosto estremo perciò ogni momento vissuto da David include emozioni profonde e descrizioni crude degli eventi, anche nelle rappresentazioni fisiche di oggetti e persone. Tutto contribuisce a creare un’atmosfera pesante nella cittadina di Triviana, dai bizzarri insegnanti del collegio ai tanti abitanti con qualche menomazione. L’impatto con questa realtà è per David davvero brutale. Inizialmente, avverte un forte senso di solitudine trovandosi in un collegio che segue regole rigide. I compagni di scuola sembrano aspettarlo al varco o, ben che vada, ignorarlo, e l’unico contatto umano arriva da uno studente che è considerato un paria. Ben presto, David scopre che nella scuola esistono varie confraternite ma per entrare a far parte di una di esse può essere necessario superare prove tutt’altro che semplici. David si trova invischiato con un gruppo di ragazzi che hanno avuto esperienze perfino più estreme e traumatiche della sua, che vengono descritte anch’esse con crudezza e intensità. La vicenda nel collegio si mescola con quella nella città, dove David pian piano scopre la storia della notte del bombardiere. Dovrebbe essere una storia vecchia di decenni mantenuta viva solo dai segni ancora portati dalle persone rimaste ferite dall’esplosione. In città c’è chi pensa che la storia sia diversa dalle cronache ufficiali e pian piano per David comincia a diventare un’ossessione. Tra i suoi incubi che lo riportano al trauma subito a causa dell’aggressione di sua madre e il rapporto di malsano cameratismo con i membri di una confraternita, le energie di David vengono concentrate sempre di più sul mistero della notte del
bombardiere. Il concetto di fondo de “La notte del bombardiere” non è particolarmente originale ma Serge Brussolo lo usa in modo molto personale. Il ritmo della narrazione è spesso lento, soprattutto nella prima parte del romanzo, ma l’intensità di ciò che prova David anche in momenti che dovrebbero essere normali lo compensa ampiamente. David Sarella è il protagonista de “La notte del bombardiere” ed è il personaggio meglio sviluppato. Gli altri tendono a essere molto sopra le righe, a volte delle macchiette o comunque surreali. Ciò è inevitabile a causa dello stile di Serge Brussolo, che tende a sviluppare anche i personaggi in maniera estrema. Secondo me, “La notte del bombardiere” non è il miglior romanzo di Serge Brussolo ma è tutto sommato buono. È però difficile consigliarlo a causa dello stile particolare di questo autore. Se vi piacciono le storie senza mezze misure, questo romanzo potrebbe fare per voi.
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Il Super-classico L'ultima spiaggia di Nevil Shute
L'ultima spiaggia di Nevil Shute
Il romanzo “L’ultima spiaggia” (“On the Beach”) di Nevil Shute è stato pubblicato per la prima volta nel 1957, prima in quattro parti sul settimanale “Sunday Graphic” e successivamente come libro in una versione ampliata. In Italia è stato pubblicato da Sugar e da Mondadori nel n. 49 di “Oscar” e nel n. 147 di “Urania Collezione” nella traduzione di Bruno Tasso.
Dopo che una guerra atomica ha devastato il mondo, l’emisfero settentrionale è diventato inabitabile dopo che le aree non distrutte dalle bombe sono state colpite dal fallout radioattivo uccidendo chiunque fosse sopravvissuto agli attacchi. Alcune aree dell’emisfero meridionale sono ancora abitabili ma sembra solo questione di tempo prima che le correnti dei venti trasportino particelle radioattive dappertutto. Uno degli ultimi sottomarini nucleari americani, lo USS Scorpion, è stato messo a disposizione della marina australiana dal suo comandate, Dwight Towers. Quando in Australia viene captato un segnale radio in code Morse proveniente dalla città americana di Seattle, Towers viene inviato a indagare. Il tenente comandante Peter Holmes della marina australiana viene assegnato allo USS Scorpion per la missione ma è preoccupato per la moglie e la piccola figlia perché le notizie sui venti indicano che l’Australia non sarà abitabile ancora per molto tempo. “L’ultima spiaggia” è il romanzo più celebre di Nevil Shute. È un romanzo postapocalittico ambientato dopo una guerra atomica cominciata quasi accidentalmente in seguito a eventi iniziati in piccole nazioni. Le reazioni hanno finito per coinvolgere le superpotenze in una distruzione reciproca. Gli eventi che hanno portato all’apocalisse atomica vengono ricostruiti almeno in parte nel corso del romanzo ma il suo sco-
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po non è quello. La storia riguarda in particolare i sopravvissuti che vivono a Melbourne, uno dei pochi luoghi ancora abitabili ma non per molto perché le nubi radioattive si muovono con i venti e stanno arrivando anche in Australia. Fin dall’inizio, non vengono offerte speranze per il futuro, si tratta solo di capire quanto tempo hanno ancora da vivere gli abitanti di Melbourne. Nel romanzo non ci sono riferimenti a rifugi antiatomici anche se negli anni ’50 cominciavano già a essere costruiti. Oggi più che mai sembra una mancanza davvero bizzarra ma la loro presenza nella trama avrebbe reso ben più difficile scrivere una storia che distrugge ogni speranza. Il senso de “L’ultima spiaggia” è descrivere le reazioni di una delle poche comunità ancora esistenti in un mondo morente alla consapevolezza che la morte sta arrivando. Non è un romanzo di grandi drammi ma di storie di persone singole, anche comuni, che affrontano in vari modi ciò che sembra ormai inevitabile. Il comandante Dwight Towers della marina americana ha messo a disposizione di ciò che rimane della marina australiana il suo sottomarino, lo USS Scorpion, e il suo equipaggio. Quando viene captato un segnare radio dagli USA, viene mandato a investigare e gli viene assegnato il tenente comandante Peter Holmes. La storia della missione dello Scorpion è solo una parte relativamente breve del romanzo rispetto a quella degli abitanti di Melbourne. I marinai sono addestrati a missioni difficili ma navigare in un mondo morente è davvero difficile e le reazioni possono essere negative. Fin dall’inizio del romanzo c’è un senso di malinconia per i sopravvissuti che hanno ancora poco tempo da vivere. Le reazioni a quella prospettiva sono diverse ma per molti c’è la ricerca di un senso di normalità. La gente non si fa prendere dal panico ma per lo più cerca di tirare avanti, spesso continuando una routine quotidiana. Alcuni invece reagiscono alla prospettiva della morte facendo qualcosa di diverso. Ad esempio, John Osborne, uno scienziato che ha collaborato alla missione di Dwight Towers, riesce a procurarsi una Ferrari e abbastanza carburante per correre prendendosi enormi rischi spingendola ai limiti.
Molte parti del romanzo riguardano però attività che possono essere banali, tanto che a volte la storia mi è parsa perfino noiosa. D’altra parte, il senso de “L’ultima spiaggia” è proprio l’assenza di grandi drammi perché lo stile di Nevil Shute è molto asciutto e i personaggi cercano spesso di far finta che nulla di strano stia accadendo. È un modo per venire a patti con la prospettiva della morte. Raramente i personaggi si lasciano andare a forti emozioni ma per riuscirci devono accantonare l’idea che le nubi radioattive stanno arrivando. Dwight Towers aveva una famiglia negli USA che certamente è già morta ma, nonostante sia un uomo molto pragmatico, continua a dire che tornerà da loro. Per quel motivo, nonostante si leghi a Moira Davidson, una giovane australiana, il loro rapporto rimane assolutamente platonico. Nella seconda parte de “L’ultima spiaggia”, il progressivo senso di avvicinamento alla fine aumenta il senso di tristezza. Per i personaggi diventa sempre più difficile combattere l’angoscia per ciò che sta accadere ma c’è anche un forte senso di dignità nel modo in cui affrontano la morte che sta arrivando. È un romanzo degli anni ’50 perciò trattare esplicitamente l’eutanasia come possibilità è un elemento davvero forte. In questo romanzo l’azione è limitata e il ritmo è tendenzialmente lento. A causa dei toni mantenuti quasi sempre contenuti nella narrazione, l’influenza delle emozioni sul lettore è sottile ma alla fine si sente. Dei tanti personaggi, solo alcuni sono davvero sviluppati e la caratterizzazione di almeno qualche donna sembra oggi datata ma riescono comunque a far avvertire al lettore ciò che sta succedendo. “L’ultima spiaggia” è stato adattato per il cinema nel celebre film omonimo del 1959, che contribuì alla fama del romanzo. Nel 2000 è stato adattato per un film TV e nel 2008 per un dramma radiofonico prodotto dalla BBC. Secondo me, “L’ultima spiaggia” ha alcuni difetti ma complessivamente è un buon romanzo. Proprio per i suoi toni generalmente contenuti, finisce per avere un impatto emotivo notevole perciò se non avete tendenze alla depressione ve ne consiglio la lettura.
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COMICS Faz
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Tasha, una donna guerriera senza passato si aggira tra gli edifici fatiscenti di una città fantasma. E’ alla ricerca di un vecchio amico che potrebbe aiutarla a recuperare frammenti della sua memoria. Aloisious Grimm, detto il “Mastino”, un killer psicopatico la sta braccando, ossessionato dall’idea di ucciderla e a impossessarsi dei suoi poteri. Doc e Spot, una coppia di improbabili cacciatori di taglie a caccia di crediti, è in caccia senza sapere con chi ha a che fare. Pattuglie di soldati Governativi con l’ordine di catturarli tutti si aggirano come segugi in cerca della preda. Vite che si incrociano o si sono già incrociate, ciascuna intenta a raggiungere il proprio obbiettivo e destinata a scontrarsi inevitabilmente con le altre. Come ombre si inseguono tra le strade di una grigia metropoli nella quale sono rimasti solo polvere, feccia e rovine. Seguiremo Tasha alla ricerca delle proprie origini, attraversando un universo multirazziale in cui le guerre del passato hanno lasciato tracce profonde e la convivenza pacifica è ancora un miraggio lontano.
Questa la struttura di “Blackstorm”, numero zero di una saga fantascientifica che mescola stili e generi differenti. Immersi in un atmosfera Dark, fatta di luci e ombre fredde come il ghiaccio, seguiamo le vicende di Tasha, una donna dotata di poteri formidabili, di una resistenza fuori dal comune e uno spirito da guerriera indomabile; e allo stesso tempo una donna pervasa da un senso di solitudine assoluta, alla ricerca delle proprie radici e braccata da tutti. Una donna sola e dispersa. Cittadina di un universo intero ma straniera in ogni luogo.
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L'autore: Faz nasce a Milano 45 anni fa e fin dalla tenera età mostra una particolare attrazione per il disegno. A 4 anni decide che da grande diventerà fumettista. Svezzato con i fumetti Marvel, cresce passando da Pilot all’Eternauta e si forma con Autori come Pazienza, Moebius, Breccia, Mari e Bilal. Terminate le scuole dell’obbligo si iscrive a Grafica Pubblicitaria, deciso a sviluppare la tecnica con la quale vuole dare sfogo alla propria passione. Insoddisfatto dai metodi didattici, Faz scopre la Scuola del Fumetto e ci si iscrive di corsa. Diplomatosi nei primi anni ’90, comincia a disegnare qua e là facendosi le ossa col mestiere. Affina le proprie tecniche e sperimenta mescolando stili cercando il proprio. Dopo una serie di collaborazioni indipendenti, la creazione di una fanzine e la docenza di corsi di disegno, Faz trova posto nel mercato dei fumetti per adulti lavorando per Ediperiodici. Dopo qualche anno passato alla realizzazione di illustrazioni per videogiochi, ora tenta il salto per diventare Autore di Fumetti.
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AMAZING MAGAZINE S k a n n a to i o XXXV I Fe bbra io 2 0 1 5
LE SPECIFICHE Lunghezza (globale). Minima: 10'000 caratteri. Massima: 30'000 caratteri (spazi inclusi, escluso il titolo). Genere: Horror, giallo, fantastico e relativi sottogeneri. Particolarità: a) La storia narrata nel racconto dovrà ruotare attorno a una o più creature alate. Potranno essere normali uccelli, potranno essere fatine, potranno essere angeli, mosche, demoni, zanzare, pipistrelli, libellule e chi più ne ha più ne metta. Nessun limite, basta che abbiano appendici naturali (naturali per la loro specie/razza) assimilabili ad ali. Quindi sì, pinguini, galline, pavoni, pterodattili, petauri e consimili van bene anche se non è che propriamente volino. No escamotage tipo Icaro, né macchine volanti tipo aquiloni, elicotteri o altro (tutte cose che possono esserci, ma non valgono per soddisfare la specifica). La/le creatura/e alata/e non dovrà/anno essere per forza la/le protagonista/e della storia, basta la rilevanza.
b) All'interno del racconto, qualcuno dovrà morire per del fuoco. Non è necessario che il fuoco lo uccida direttamente, va bene anche qualche effetto secondario (come la mancanza di ossigeno, il calore, altro), basta che questo effetto secondario sia causato da del fuoco (le esplosioni valgono solo sono presenti anche delle fiamme). LE COCCARDE Questo mese saranno assegnate 3 coccarde: 1) La coccarda "presente" sarà assegnata al miglior racconto di genere urban fantasy di ambientazione attuale (diciamo tra il 2000 e il 2020). Valore: 2 punti. 2) La coccarda "passato" sarà assegnata al miglior racconto storico (tanto fantasy storico quanto storico realistico o giallo storico o altro), ambientato totalmente prima del 1900 d.C.. Valore: 2 punti. 3) La coccarda "futuro" sarà assegnata al miglior racconto di fantascienza ambientato totalmente dopo il 2100 d.C. Valore: 2 punti.
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S ka n Ali dal passato
Ben si aggiustò meglio lo zaino sulla spalla e tirò fuori dalla tasca un biglietto accartocciato. Nonostante la pessima scrittura di De Carli, l'indirizzo era abbastanza leggibile. Alzò la testa e scrutò l'area tutto in intorno. Non vedeva le vaste brughiere del Moorland da quando aveva dieci anni, i ricordi gli morsero lo stomaco risvegliandogli dentro un discreto appetito. Gli veniva sempre fame quando si emozionava. Le case e le fattorie di quel paesino sembravano tutte uguali, come se qualcuno ne avesse costruita una e, in mancanza di vena artistica e fantasia, avesse clonato via via tutte le altre. Sperava almeno di imbattersi in qualcuno a cui chiedere informazioni, non aveva molta voglia di mettersi a cercare la via. Ma quello era il suo giorno fortunato. Si schiarì la voce e raddrizzò la schiena quando una deliziosa creatura dai lunghi capelli neri e il viso angelico gli si fece incontro e a un tratto gli sorrise, schiudendo le labbra rosse e carnose, mostrando denti così bianchi da far morire
d'ulcera un dentista. Si ricordò in quel momento da quanto tempo non andava con una donna. «Buongiorno» lo salutò lei. Ben provò a ricambiare il saluto, ma gli uscì un suono strascicato. «Sta cercando qualcuno?» Fece sì con la testa. Si sentiva un idiota. «La fattoria... Bunnkhin.» Lei girò appena il busto, lasciando aprire leggermente la scollatura della camicetta. Il braccio esile indicò una costruzione a circa duecento metri da loro. «L'edificio col tetto verde.» «Ah... Grazie.» Lei salutò, sfoderando lo stesso sorriso incantevole. Ben s'impose di non girarsi a guardarla mentre si allontanava. Era lì per lavorare, non per pensare alle donne. Che poi alla fine erano tutte come la sua ex moglie. Si era già tolto dalla testa ogni pensiero sviante quando arrivò al cancello della fattoria di Frank Bunnkhin. Stava per cercare qualcosa che assomigliasse ad un campanello quando un uomo sui cinquant'anni gli si avvicinò, distinto ed elegante nel suo completo grigio topo. Gli tese la mano. «Lei deve essere Benjamin Covent.» «Per carità» lo corresse. «Solo mia moglie mi chiamava Benjamin. E la mia
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maestra delle elementari, in entrambi i casi è andata male, quindi mi chiami Ben.» L'uomo annuì. Aveva mani lisce e delicate. Ben ne dedusse che di certo agricoltore lui non era mai stato. «Sono Samuel Bunnkhin, la stavamo aspettando.» Sembrava imbarazzato. «Riguardo al... suo lavoro. Lei... cattura fantasmi, vero?» «No, no» alzò le mani Ben. «Io non colleziono fantasmi, la mia casa è troppo piccola e io sono un gran disordinato. Li analizzo.» L'uomo fece una smorfia. Ben soffocò una risata, non capiva se fosse più spiazzato da quell'osservazione o incazzato perché suo padre aveva deciso di buttar via tremila sterline ingaggiando un pazzo visionario. «Ah sì... Capisco.» Sì come no, pensò Ben, che cavolo vuoi capire con quelle mani da aristocratico?
«Mio padre è molto preoccupato per la situazione, non so se l'hanno avvertita.» «Sì, certo.» Ben si sentiva fremere. «Vorrei vedere i falchi.» «Sicuro. Venga con me.» Attraversarono un vialetto alberato, costeggiato da prati curati e fioriti. Diverse specie di volatili si muovevano tra le foglie degli
alberi, librandosi a tratti in lunghi, leggiadri voli. Ben aveva sempre amato le campagne inglesi, ma i suoi ricordi erano lontani e sbiaditi. Ora tutto pareva tornargli alla mente a quello spettacolo. Arrivarono ad un edificio di mattoni con una breve scalinata, si fermarono sul pianerottolo e Ben fu invitato ad entrare. «Questa è la nostra clinica veterinaria, qui portiamo gli animali malati. Ne sono morti sette in un mese, tutti peregrinus. Ne abbiamo altri diciotto ammalati e i sintomi sono sempre gli stessi.» Ben si lasciò condurre attraverso un corridoio bianco che sembrava quello di un ospedale. Samuel gli mostrò alcuni dei rapaci malati, quindi aprì un'altra porta e lo fece entrare. Due uomini con il camice bianco si voltarono al loro arrivo, uno di loro aveva appoggiato sul braccio uno splendido esemplare di falco. L'altro uomo si avvicinò a Ben, l'espressione preoccupata. «Sono Ben Covent.» «Sì, so chi è signor Covent. Sono Frank Bunnkhin, il padrone di questo allevamento» disse. «Spero davvero che possa aiutarci. Se vuole seguirmi...» Uscirono dallo studio medico e continuarono lungo il corridoio. Quel vecchio correva così tanto che quasi Ben faticava a stargli dietro.
Una volta fuori, si diressero verso una sorta di magazzino. C'erano attrezzi, secchi, arnesi da falconeria, alcuni buttati in un angolo, altri disordinatamente ammucchiati in cassoni di plastica. «Stanno morendo. Se li sta portando via quella maledetta.» Ben seguì con gli occhi la direzione che Frank gli indicava. Sembrava un normalissimo fienile come ce n'erano tanti, un piano rialzato disseminato di balle di fieno e granaglie. E una scaletta di legno scuro per arrivarci. «Cosa c'è lassù?» «Il diavolo» sussurrò Frank, gli occhi riflettevano pena e terrore. «No, la mia ex è a Boston» ribatté Ben. All'occhiata spaesata del vecchio rispose con un'alzata di spalle. «Lasci perdere, una battuta stupida. Quindi il suo demone sarebbe là sopra.» «Si fa vedere di notte, alle due in punto» la voce dell'anziano contadino era piena d'angoscia. «Il fienile si illumina, come se ci fossero delle fiamme. E compare lei. » Una lei? Ci avrebbe scommesso. Sempre le donne a capo di quei casini. «Dunque è una donna.» «Una bambina mostro» tuonò Frank. «Una maledetta mocciosa negra, assassina di falchi!» Ben represse l'istinto di dire
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a quel vecchio dove avrebbe fatto bene a ficcarselo il suo razzismo del cavolo, ma il pensiero di tante belle sterline una sopra l'altra lo rabbonì. «E che cosa dice il mostro? Qualcuno lo ha sentito parlare?» «Dice che vuole il suo falco e che li ucciderà tutti finché non lo troverà.» «Che tipo di falco?» «Lei pensa veramente che qualcuno si sia preso la briga di chiederglielo?» Domanda legittima, pensò Ben. Aprì lo zaino, controllò che ci fosse tutto quello che gli occorreva. «D'accordo. Io salgo là sopra, vediamo se la fanciulla si farà vedere.» «Le serve qualcosa? » «Un thermos di acqua bollente, per favore.» Il vecchio lo guardò per un attimo accigliato, quindi chiese: «...Per farne?» Ben lo fissò come si poteva guardare uno squilibrato. «Ha mai provato a farsi del tè con dell'acqua fredda? E portatemi qualcosa da mangiare, la cosa potrebbe andare per le lunghe.» Dopodiché si arrampicò su per la scala. Costernato, Frank gli urlò: «Non avrà mica intenzione di passare la notte là sopra!» Ben si affacciò. «Ha un'idea migliore?» Il vecchio fece per dire qualcosa ma poi decise che no, se avesse avuto un'idea
migliore per risolvere la questione di certo non avrebbe chiamato quello strano individuo. «Per nessuna ragione al mondo vi venga in mente di salire quassù. Qualunque cosa accada» finì Ben, prima di scomparire dalla sua vista. Frank alzò le spalle. Forse suo figlio aveva ragione, mettersi in casa quel tipo non era stata una bella trovata... Tutto era andato liscio fino alle due. Ben si era gustato piacevolmente la sua tazza di tè, mangiato un'intera torta di mele fatta in casa e letto quasi tutto ciò che c'era da sapere sulla falconeria. Non era un'attività a lui molto gradita, l'idea di usare volatili per la caccia era meno spietata della barbara usanza di girare per i boschi col fucile in spalla, ma ugualmente gli sembrava una cosa abbastanza stupida, degna di un essere umano. Non era ancora del tutto convinto che ci fosse davvero un fantasma dietro la morte di quei falchi, nonostante avesse letto le documentazioni dei tre veterinari che avevano preso in cura gli animali. Di una sola cosa erano sicuri, dall'autopsia non era emersa alcuna anomalia. La causa della morte si riassumeva in una sola parola: sconosciuta. I sintomi iniziavano con inappetenza e febbre e portavano rapidamente alla morte dell'animale. Ben allungò le braccia sopra la testa e sbadigliò. Diamine, ci fosse stato almeno un topo a fargli
compagnia... Una biscia, una lumaca, uno scarafaggio... «Ciao!» Di solito non si faceva sorprendere, tanto meno spaventare, ma quella vocina sottile lo fece rabbrividire. Detestava i fantasmi bambini, erano insopportabili, quasi più dei bambini in carne ed ossa. E aveva ragione quell'antipatico inglese, era nera, con una folta, lunga cascata di capelli ricci. «Ciao» le rispose, volutamente indifferente. Aveva grandi occhi adombrati da lunghe ciglia e un vestito bianco che Ben aveva visto indossare ad una delle bambole della sua bisnonna. Anche le scarpe che aveva ai piedi dovevano essere come minimo dell'ottocento. Se ne stava a librare sospesa quel tanto che bastava per farsi notare, aspettando che lui scappasse via in preda al terrore. Povera illusa! Gli venne da ridere quando, visto che non era riuscita ad ottenere il risultato sperato, lei iniziò a sparire e ricomparire a intermittenza, come un albero di Natale fuori stagione. Per un po' restò in silenzio e visto che neanche lei parlava, optò per un'altra tazza di tè. «Vuoi?» la invitò. La bimba spettro inarcò le sopracciglia, quindi alzò le braccia sopra la testa e lanciò un grido terrificante. Intorno a loro si sprigionò un bagliore accecante, sembrava che l'intero fienile stesse prendendo fuoco. Ben restò a guardarla senza scomporsi, aspettando che la smettesse di urlare, quindi aprì
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lo zaino ed estrasse una delle preziose scatolette di metallo. Armeggiò con la tazza e vi versò l'acqua ancora calda. Una leggera fragranza si diffuse tutto intorno, mentre il liquido si tingeva di rosso. La bimba era ammutolita. «Puoi raccontarmi la tua storia e dirmi cosa vuoi» le disse Ben. «Io posso aiutarti.» Non si attendeva collaborazione, quindi non si meravigliò quando la vide dissolversi nel nulla. Sospirò e bevve il suo tè, quindi si aggiustò il pagliericcio, dove era stata appoggiata una coperta. Non aveva una gran voglia di dormire, il fieno gli pungeva la schiena e il freddo della brughiera inglese gli gelava le ossa, eppure si addormentò dopo neanche un quarto d'ora, cullato dal vento che aveva incominciato il suo canto lamentoso. Si svegliò quando il sole era già alto. Si stropicciò gli occhi e sbadigliò, sentiva il corpo contratto per la posizione scomoda. Lo spettro non era tornato, ma l'aveva previsto. Scese la scala del fienile e uscì all'aperto. Poco più avanti alcuni uomini stavano addestrando i falchi alla caccia. «Salve, vuole qualche informazione sulla falconeria?» Ben si girò. Una ragazza sorridente si stava asciugando le mani con uno straccio. Riconobbe quelle labbra rosse e vellutate. E anche qualcos'altro. La donna gli tese la mano.
«Sono Cheryl Maxwell, ci siamo visti ieri per strada, si ricorda? Sono una delle addestratrici di falchi di questo allevamento.» Eccome se la ricordava! Lo sguardo di Ben scese alla scollatura aperta a mostrare il seno prosperoso. Ma in quel dannato posto non le allacciavano mai le camicette? «Certo che mi ricordo.» «Allora, come è andata la sua prima notte col fantasma?» «Abbastanza improduttiva, direi.» «Non si è fatto vedere?» «Sì, ma non era molto loquace.» Cheryl lo guardò sospettosa. Lanciò lo stracciò in un secchio. «Viene a fare colazione?» lo invitò. Lui ridacchiò. «Prima avrei bisogno del bagno.» Lei sorrise e gli fece strada. Pochi minuti più tardi, gli raccontò tutto quel che sapeva su quel fantasma. «Le apparizioni sono iniziate circa tre mesi fa. Non ne siamo sicuri, ma credo che sia stato dopo il ritrovamento di una cassa.» «Che tipo di cassa?» chiese Ben, mentre lasciava cadere nel piatto un'abbondante porzione di uova e bacon. «Un grosso baule, con un lucchetto. L'abbiamo trovato sotto le assi del pavimento del fienile. Non sapevamo cosa fosse e lo abbiamo tirato fuori.» «L'avete aperto.» Era una constatazione, non una do-
manda. «Certo!» «Molto male» rispose l'uomo, addentando il suo pane imburrato. Quindi tirò fuori dall'inseparabile zaino una scatoletta di metallo. Cheryl lo vide versare in una tazza parte del contenuto e versarci sopra l'acqua della teiera e un cucchiaino di zucchero. «Che cos'è?» chiese, divertita. «Tè» spiegò brevemente l'uomo, continuando a mescolare. «Ma ci sono i filtri per il tè» lo informò lei. L'uomo non l'ascoltò, invece prese un'altra tazza e ripeté la stessa operazione. «Bevi» le disse, porgendole la tazza. Lei esitò un attimo, quindi assaporò la bevanda calda. «Neanche alla casa reale hanno un tè così» le disse, fiero per l'espressione di puro piacere che colorò il volto di Cheryl. Lei alzò gli occhi languidi e profondi su di lui. «E' vero!» gli disse, affascinata. «E'... Non ho mai assaggiato nulla di così buono! Ma dove lo prendi?» Lui ricambiò l'occhiata languida. «Se vuoi, alla fine di questa storia ti faccio assaggiare qualcosa di più... esaltante.» Lei stava per rispondere, ma un urlo li fece sobbalzare entrambi. Uscirono di corsa. Un uomo stava correndo verso di loro, chiamava Cheryl con voce disperata. Teneva in mano il corpo inerme di un grosso falco. Le lunghe ali aperte si muovevano appena e la testa
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penzolava da una parte. Gli occhi erano semichiusi. «Laila!» gridò Cheryl, correndo incontro all'uomo. Con estrema delicatezza prese tra le braccia il volatile e gli accostò l'orecchio al petto. «Ha il battito rallentato, portiamolo in ambulatorio!» Ben li seguì fino alla clinica e osservò attento tutte le cure e attenzioni prestate all'animale. Non se ne intendeva affatto di veterinaria né di volatili, ma dall'agitazione generale capiva che la situazione era drammatica. Aveva urgenza di analizzare il contenuto della cassa ritrovata, il suo istinto gli suggeriva che parte della soluzione dell'enigma era chiusa lì. Uscì dalla clinica e si diresse verso il fienile. Trovò un uomo impegnato a caricare dei sacchi su un furgone, forse poteva avere qualche informazione utile. «Mi scusi» lo chiamò. Questi alzò lo sguardo nascosto dall'ampio cappello e lo scrutò con diffidenza. «Sì?» «Volevo chiederle... Sa per caso di una cassa trovata nel fienile? Dovrei darci un'occhiata.» «Ah, lei è il cacciatore di fantasmi» lo apostrofò l'uomo con sarcasmo. Ben fece una smorfia. «Io non vado a caccia di fantasmi, li analizzo.» «Ah beh, quel che è» gli fece eco lui. «Sì, so dov'è quella cassa. Nel fienile, non l'abbiamo mai spostata da lì. Venga.» Lo seguì all'interno. Addossato al muro, seminascosto da attrezzi, zappe e cassette
accatastate, un baule in legno e ferro mandava un forte richiamo. Ben vi si avvicinò spinto da una forza misteriosa. Non rispose all'uomo che gli chiedeva se avesse bisogno d'altro, né al suo saluto indispettito dalla mancata risposta. Si sedette a gambe incrociate sul pavimento di legno e tirò la pesante cassa verso di sé. Il lucchetto era aperto. Gente senza cervello... Si augurò che ogni cosa fosse al suo posto, come quando era stata aperta la prima volta. Sollevò il coperchio. No, di certo qualcuno vi aveva rovistato. Tirò fuori dei vestiti d'epoca buttati alla rinfusa, un pettine, delle bambole ingiallite dal tempo. E un diario da cui avevano tolto la polvere. Raggiunse il fondo prima di quanto si fosse atteso. Strano, visto dall'esterno sembrava più alto. Un doppio fondo! Con un piccolo grido di esultanza scoprì di avere ragione. Un gesto deciso e rimosse il divisorio, scoprendo dell'altro: un nastro rosso, un campanellino, un cappuccio per falchi e una chiave arrugginita. Niente di più. Ben richiuse il baule, si grattò la testa e aprì il diario. «Si chiamava Marie Bounelle.» Ben si voltò. Cheryl era dietro di lui, si stava togliendo i guanti. «Ah, salve. Il falco sta bene?» Cheryl annuì. «Ha avuto una crisi respiratoria, ma pare che l'abbia superata. Laila è... molto importante per noi.» «E' una femmina?» «Sì. Ha sette anni. E' come se
fosse mia, in un certo senso, l'ho salvata e addestrata, è un po' la mascotte di questa falconeria.» «Chi è Marie... Come hai detto che si chiama?» «Marie Bounelle. Sembra fosse la figlia adottiva di un allevatore, l'antico proprietario di questo posto. Un antenato di Frank.» «Ci sono notizie su di lei?» «Non molte, quello che sappiamo lo abbiamo appreso da quel diario. Sappiamo che Philip Bunnkhin visse qui nella prima metà del 1800 e che al posto di questo fienile c'era la stalla dove teneva i cavalli. Le pagine si interrompono il sette maggio del 1828, non so cosa sia successo poi a questa Marie.» «Aveva per caso un falco?» chiese Ben. «Non ho letto tutto il diario, ma mi sembra che si accenni ad un falco, un falco pellegrino, per la precisione. Della stessa specie di quelli che stanno morendo, sì» lo anticipò. «Senti, io non credo ai fantasmi, te lo devo dire.» Ben la fissò con attenzione e fece spallucce. «Non è un problema mio» commentò. Guardò l'orologio. Il giorno era ancora lungo. «Ascolta, vorrei restare solo. Devo leggere questo diario, chiudete con il lucchetto il fienile, non voglio essere disturbato per nessuna ragione al mondo.» «Cosa?» chiese la ragazza, attonita. «Avete un fornellino elettrico? Non darò fuoco al fienile, state
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tranquilli, ho solo bisogno di poter bere il mio tè. L'acqua non si mantiene abbastanza calda nel thermos.» La ragazza ci pensò un attimo. «Abbiamo un bollitore...» «Perfetto, lo appoggiamo qui, su questo tavolo» fece piazza pulita di attrezzi e cianfrusaglie che erano ammassati alla rinfusa sul tavolino, buttandoli semplicemente a terra. «Ho bisogno di concentrarmi.» La ragazza uscì dal fienile e si mise a dare ordini. Quando gli portarono tutto ciò che aveva chiesto, Ben era talmente immerso nella lettura che neanche si degnò di ringraziare. Il diario era scritto in francese, la calligrafia era a tratti sbiadita, ma perfettamente leggibile. Era entrato nel mondo misterioso di Marie Bounelle. “Sono nata in Francia nel 1820 ma ora vivo qui, nella contea di Davon. I miei genitori sono morti ma il Signore ha avuto misericordia di me e un buon uomo mi ha accolta nella sua casa e vestita come una principessa. Philip Corwell Bunnkhin è mio padre, adesso. E Gregor è mio fratello. . . ” “Gregor ha diciannove anni ed è già un uomo. Non vuole essere mio fratello, credo che in realtà lui provi odio per me, poiché gli sottraggo l'affetto di nostro padre. . . ” “Oggi mi è stato fatto un dono meraviglioso. Un falco. Mio padre ama la caccia e questa terra offre molte risorse. . . Vuole che lo cresca e lo nutra come un fratello. Oggi l'ho fatto vo-
lare per la prima volta. C'è qualcosa di umano in lui, quando mi guarda sento il cuore impazzire nel petto. Credo che diventerà il mio migliore amico. . . ” “Gregor è invidioso e geloso, perché il mio Parsifal è più abile nella caccia rispetto al suo falco. Oggi si è scagliato contro di me, insultandomi. Dice che sono una sporca negra, che il mio posto è tra i selvaggi e gli schiavi e che sono una ladra. Io gli ho risposto che non ho mai rubato niente e che se mio padre vuole più bene a me è perché io non sono arrogante come lui. Mi voleva picchiare. Ho paura. . . ”
Ben chiuse il diario. La lampada illuminava il tavolo, di lato trovò il bollitore elettrico, un piatto con del pollo freddo, una caraffa d'acqua e una tazza. Non gli occorreva nient'altro. Spiluccò qualche pezzo di pollo e mise a bollire l'acqua. “Stanotte ho fatto un sogno. C'era fuoco dappertutto, Gregor aveva ucciso Parsifal e le fiamme mi stavano divorando. . . ”
Alle due meno un quarto l'attesa diventò insostenibile. Seduto a gambe incrociate sulla coperta, Ben aspettava che il fantasma si mostrasse. Questa volta aveva qualcosa per lei. «Non potresti arrivare un po' prima? Sono un po' annoiato» disse, guardandosi intorno in attesa di un segnale. Macché... «Marie, ci sei?» chiamò. Cinque minuti alle due. Nessuna risposta.
Alla fine un bagliore. E lei era lì, nel suo ridicolo vestitino dell'ottocento. «Ti sei decisa.» «Che cosa vuoi?» «Tu cosa vuoi. Hai intenzione di portare i falchi all'estinzione?» «Voglio il mio falco.» Ben sospirò. «Parsifal» disse. «Credo che sia morto, ormai. Hai idea di quanto tempo è passato?» La bimba si sollevò in aria e iniziò a danzargli attorno. Ben le porse il primo degli oggetti trovati. «Questo appartiene al tuo falco, credo.» La bambina si arrestò di colpo. Le sue mani bianche e trasparenti afferrarono con emozione il nastro rosso e lo portarono alla bocca. Iniziò a cantare una nenia in francese. Qualche istante e si arrestò di colpo. «Dov'è Parsifal?» gridò. Ben scosse il capo. «Cosa vuoi che ne sappia? Questo è tutto ciò che abbiamo di lui» e le consegnò il cappuccio consumato dal tempo, il campanellino e la vecchia chiave. La bambina afferrò gli oggetti con un dolore straziante negli occhi e iniziò a urlare. Un vento caldo iniziò a buttare all'aria il fieno e tutto ciò che di leggero c'era in quello spazio. Ben tenne stretto il diario e cercò di ripararsi il viso dalle cose che gli piovevano addosso. «Smettila!» le ordinò. «Che cosa vuoi ottenere comportandoti come una marmocchia viziata? O pensi forse che uccidere tutti
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i falchi dell'allevamento riporterà in vita il tuo?» Aprì il diario e sfogliò alcune pagine, finché non trovò quella giusta. «“Allevare un falco è una
splendida lezione di umanità, in cui si ottiene qualcosa con umiltà, pazienza e comprensione, oltre ad un amore sconfinato per l'animale e tutti i suoi fratelli. Non si ottiene nulla con la forza. » Ben fu spinto
indietro da un colpo di vento più forte, fu costretto a tenersi al parapetto di legno per non cadere di sotto. «E chi alleva un falco deve imparare a dominare i propri istinti. ” Questo l'hai scritto tu, ragazzina!» Il vento cessò. Marie fluttuava davanti a lui, i suoi occhi erano carichi di rabbia feroce. Ben si raddrizzò. «Se adesso ti sei calmata, possiamo cercare una soluzione.» «Voglio il mio falco.» «Inizia col raccontarmi cosa è successo.» Il fienile scomparve, le pareti parvero accartocciarsi su sé stesse e ricomporsi in fredde mura di mattoni, il fieno lasciò il posto a vecchi mobili, un letto, una finestra, un vaso di fiori, un catino d'acqua, tappeti, un armadio, un pavimento di pietra. Marie era ancora davanti a lui. Una splendida bimba di colore dai capelli scuri arricciati. Sembrava spaventata. Ben si ritrovò spettatore e protagonista di quella scena che probabilmente la bimba era costretta a rivivere in eterno. Da lontano, due rintocchi di campana.
Il fuoco divampò. Stavolta non era soltanto una visione, quel fuoco era intenso e bruciava davvero, si attaccava ai mobili, ai tappeti ai piedi del letto, avvolgeva di fiamme le coperte e le tende alle finestre. Ben fece per muoversi verso Marie e solo allora si accorse di essere paralizzato. Vide il fuoco avvolgere il corpo della ragazzina, la guardò con orrore mentre si dibatteva cercando di fuggire e liberarsi da quella morte atroce che la stava divorando. Sentiva le sue urla disperate e l'odore di carne bruciata, mentre si trasformava in una torcia umana. Le fiamme si propagarono velocemente, fino a che anche Ben ne fu avvolto e il dolore gli penetrò dentro, trasmettendogli tutta la sofferenza che la malcapitata doveva aver provato. Quando tutto finì, l'uomo si ritrovò in ginocchio, ansimante, stremato dalla paura, rassicurato dalla consapevolezza di aver avuto solo una visione. Marie era ancora lì, ferma davanti lui. «Gregor ti ha fatto questo?» chiese, ansimando. Si rese conto vagamente di stare piangendo. «Ha preso Parsifal e lo ha trasformato in una bambola. Poi mi ha bruciata viva.» «Che vuol dire che lo ha trasformato in una bambola?» «Voglio il mio falco. Non avrò la sua anima se non ho il suo corpo. Trovalo. Hai un'ora di tempo.» Un'ora di tempo? Ma era assurdo. Per la prima volta Ben si
lasciò prendere dal panico, poi un'idea gli balenò in mente. Il diario... Ricominciò a sfogliare le pagine, ossessionato da poche righe che forse racchiudevano la soluzione a quel mistero. Finalmente le trovò.
“Gregor è un essere orribile, ho scoperto una cosa che mi ha profondamente ferita e disgustata. Cattura animali vivi e li riduce ad involucri privi di vita. L'ho visto uccidere quelle povere bestie per il solo gusto di farlo e trasformarle in bambole prive d'anima. Mio padre dice che non c'è nulla di male ma io lo trovo crudele. . . ”
Imbalsamato! Il falco poteva essere stato imbalsamato! E poi sepolto con le altre cose della bambina! Ben richiuse il diario e si precipitò giù per la scaletta. Aveva bisogno di un attrezzo per tirar via le assi di legno. Probabile che chi aveva trovato il baule avesse esaminato anche il resto del pavimento, ma non ne era tanto sicuro, meglio controllare di persona. Trovò un piede di porco e lo infilò in una fessura, tirò con forza. La prima asse venne via facilmente, con la seconda dovette faticare un po' di più; i chiodi erano stati fissati bene. Continuò nel suo lavoro per un po', poi le braccia iniziarono a dolergli. Gettò un'occhiata sotto le assi e si aiutò con la torcia per vedere meglio. Negli spazi tra le travi che sorreggevano il pavimento non pareva esserci nulla. Guardò l'orologio. Neanche venti minuti. Riprese il lavoro. Stavolta avrebbe
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chiesto un'extra a De Carli e rimpianse di essersi fatto chiudere dentro. Una mano da qualcuno poteva anche pretenderla! Non ci teneva a scoprire cosa sarebbe accaduto se non avesse trovato quel che cercava. A dieci minuti dallo scadere dell'ora, la sua fatica venne premiata. Allungò un braccio verso una scatola di metallo, afferrò una piccola maniglia e la tirò su con uno strattone. «Eureka» mormorò, ma quando fece per aprirla, lo bloccò l'ennesimo lucchetto. Merda. «Hai trovato il mio falco?» Ben smise di armeggiare e si girò verso la bambina. «Eh, senti, io non sono un fabbro. Forse il tuo amato falco è qui dentro, ma non so come aprirla.» La bambina reclinò il capo da un lato. «Come mai tutto il pavimento è sottosopra?» L'uomo la fissò con un sorriso tutt'altro che divertito. «Forse per trovare il punto esatto dove era questa cassetta? Ho passato un'ora a fare a pezzi questo pavimento di legno, adesso mi preparo una tazza di tè e tu mi dici come aprire questo forziere.» «Vuoi provare con questa?» La maledetta chiave trovata nel doppiofondo! Ben gliela strappò dalle mani. Se non fosse stato consapevole che era già morta, l'avrebbe strozzata lui. «Sai qual è il problema di voi umani? E' che non parlate con noi. Se qualcuno si degnasse di ascoltarci, non ci sarebbero co-
sì tanti problemi.» Ben la guardò negli occhi lucenti e profondi mentre le diceva: «Ma se non riusciamo a comunicare tra di noi, come pensi che possiamo riuscirci con i fantasmi?» Il forziere venne aperto ma Ben non trovò esattamente ciò che si era aspettato di trovare. Quelli erano certo i resti di un rapace impagliato, ma il tempo non era stato clemente e la carcassa si era malamente conservata. Le piume erano di color grigio ardesia e sul petto si allargava qualche macchia giallastra. Le zampe e il becco erano ben conservati ma Ben temeva che non appena avesse toccato il corpo gli si sarebbe sbriciolato tra le dita. Quando Marie allungò le braccia minute verso l'animale accadde il miracolo. Una luce abbagliante avvolse le dita della ragazzina e il corpo dell'uccello, che prese vita. La testa scura si sollevò, gli occhi grandi si mossero vividi e le ali lunghe e appuntite si spiegarono in volo. Le zampe gialle e robuste si sollevarono per atterrare sulla spalla della giovane padrona. Avvolti in una nuvola di luce, restarono a guardarsi per un tempo che a Ben parve interminabile. C'era un gran senso di pace in quel battito d'ali che aveva sfidato e vinto la morte. Marie si girò a guardare l'uomo, i suoi occhi erano pieni di gratitudine. «Grazie per avermi restituito
il mio Parsifal.» Sorrise. Ben tossicchiò. Era felice di averla scampata ancora una volta. «Una cosa non ho capito... Perché se ami tanto i falchi eri disposta a farli morire finché non ritrovavi il tuo? Non mi sembra un bel comportamento da animalista.» Alla sua espressione perplessa, mormorò: «Ah, lascia perdere. Piuttosto dimmi... che cosa avresti fatto se non avessi trovato Parsifal entro l'ora stabilita?» Marie sbatté le lunghe ciglia, prima di dissolversi definitivamente nell'aria. «Avrei aspettato un'altra ora.» La sua voce risuonò come un'eco, poi ogni segno della sua presenza svanì definitivamente. Ben sospirò e si guardò intorno. Ora serviva una spiegazione per tutto quel disastro che aveva lasciato in giro. «Beh, prima di tutto ci vuole una tazza di buon tè.» Accese il bollitore. «Me lo sono meritato.» Una settimana dopo, Ben aveva scritto il suo rapporto, incassato l'assegno e informato i Bunnkhin su ciò che era accaduto nel fienile. I falchi erano tornati tutti in salute e le notti successive trascorsero senza grida e in pace. Gli scettici rimasero comunque scettici, ma con una punta di incredulità in meno. Tra i diffidenti con la tendenza a ricredersi, Cheryl era in prima fila. Ben
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assistette al primo volo di Laila dopo la malattia. «Adesso che ci penso.» La ragazza gli rivolse un'occhiata maliziosa. Il sole stava tramontando. «Non mi avevi promesso qualcosa di... molto esaltante?» Ben ricambiò lo sguardo malizioso e non si ritrasse quando lei posò la mano calda sulla sua. Aspirò profondamente il dolce profumo dei suoi capelli, misto a quello della brughiera. «Sai che non ricordo?» le disse, fissando le dolci curve del seno morbido. «Cosa ti avevo promesso?» Lei avvicinò le labbra rosse alle sue. «Vediamo se riesco a rinfrescarle la memoria, signor Covent.» Una scintilla illuminò gli occhi grigi di Ben. Si tirò davanti lo zaino e vi frugò ansioso, sotto lo sguardo stupito della donna. Estrasse una piccola scatoletta rossa che le mostrò con aria di trionfo. «Queste foglie di tè sono davvero speciali, mi devi credere. Hai dell'acqua?» Lei scoppiò a ridere e si prese il viso tra le mani. Il paesaggio sembrava incendiato dal fuoco. Un grido si levò nell'aria e la sagoma di un falco si stagliò come un'ombra davanti al sole morente.
S ka n SCREEN SAVER
Andrea afferrò la bottiglia di whisky dal tavolo della sala e, dopo tre passi barcollanti, si lasciò cadere sul divano. Con piccole avide sorsate ne bevve metà, poi gettò uno sguardo distratto al pendolo di fronte a lui. Erano le dieci e trenta del mattino. Un rigurgito acidulo e un capogiro che lo assalirono appena cercò di alzarsi lo costrinsero a pensare a quanto fosse caduto in basso. Era passato, in un solo un anno, da impiegato modello a patetico ubriacone. Di solito passava le serate e i fine settimana a ubriacarsi senza ritegno. Non che gliene importasse molto ormai. Lo stile di vita che aveva adottato l'avrebbe portato presto a godersi una lunga vacanza sotto due palmi di terra. In ogni caso aveva un disperato bisogno di bere. Stava cercando di annegare i suoi ricordi senza riuscirci. Lo seguivano ovunque senza abbandonarlo mai. “Maura, amore mio, mi manchi. Mi manchi da morire” borbottò, e i suoi pensieri andarono subito a quel caldo giorno di luglio, in cui aveva visitato la casa con sua moglie. “Lo ammetto, tesoro, l'arredamento è un po' eccentrico, ma questo appartamentino
è...stupendo!” disse Maura, esibendo uno dei suoi soliti sorrisi radiosi. “Con un po' di lavoretti, la renderemo una casa meravigliosa” disse convinta al marito. Andrea la guardò e la trovò incantevole. Il tailleur nero indossato per l'occasione, che la faceva apparire ancora più esile di quanto non fosse, dava risalto ai suoi splendidi capelli color rame. I suoi meravigliosi occhi grigi erano spalancati per l'emozione e le lentiggini, che spuntavano impertinenti sul naso e sugli zigomi, donavano al suo viso un'espressione da eterna bambina. L'uomo si guardò intorno sospirando. La parola “eccentrico” non era il termine adatto per descrivere il caos che li circondava. Sembrava di trovarsi sul set di un film dedicato all'occultismo: libri dai titoli inquietanti sparsi ovunque, teschi (finti?) troneggianti su tavoli o su mensole zeppe di vecchi tomi, pentacoli e altri strani segni tracciati su muri e pareti. Altro che lavoretti: per rendere di nuovo abitabile quel posto, avrebbero dovuto chiamare un esorcista. “Bene, il tour è finito” disse l'agente immobiliare fissando la coppia e sorridendo sornione. Ad Andrea venne in mente lo sguardo del gatto che sta per mangiarsi un topolino e, sentendosi a disagio, cinse con un braccio la vita della moglie. “A questo prezzo e in questa zona, signori miei, non riusci-
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reste a comprarvi nemmeno un trilocale”. “Appunto” disse Andrea sulla difensiva. “Penultimo piano, sei vani con terrazzino annesso e a un prezzo ridicolo. Dove sta la fregatura?” “Nessuna fregatura cari signori, a meno che... non siate superstiziosi!” “Cosa significa?” rispose incuriosita Maura incrociando istintivamente le braccia. “Si spieghi meglio” “Sarà meglio che vi avvisi io prima che veniate avvertiti dal vicinato” cominciò l'agente, congiungendo le mani come un prete in preghiera, “Questo arredamento un po' insolito è frutto del precedente proprietario, il signor Longo. Un tipo mezzo matto che, a detta dei vicini, aveva dei passatempi abbastanza strani ed inquietanti, tra cui sedute spiritiche e riti di evocazione di entità soprannaturali”. “E svendete l'appartamento perché il precedente proprietario era fuori di testa?” “No, mio caro signore. Un giorno il signor Longo sparì nel nulla senza lasciare traccia. I suoi amici, i suoi parenti cercarono ovunque ma invano. Volatilizzato! I condomini del palazzo dicono che la casa sia maledetta, che l'appartamento sia abitato da spettri, che tra queste mura aleggi ancora l'entità che ha rapito e ucciso il loro sventurato vicino.” Andrea non credeva a quello che stava sentendo. Spettri,
entità assassine? Ma come si faceva a credere a certe idiozie nel terzo millennio? Per un attimo temette di essere la vittima inconsapevole di qualche “Candid Camera Show”. L'agente notò lo sguardo incredulo del suo interlocutore, così decise di rivolgersi a Maura. “La gente ha paura di venire ad abitare qui, signora! Il prezzo basso è conseguenza della nostra difficoltà a vendere l'immobile.” La giovane donna guardò il marito rivolgendogli uno dei suoi meravigliosi sorrisi. Ad Andrea bastò quello sguardo per fargli capire tutto. Conosceva quell'espressione. Sua moglie aveva già deciso. Per tutti e due. Nei due mesi seguenti i due coniugi avevano già acquistato l'appartamento e iniziato i lavori di ristrutturazione. Il brutto è che dopo poco sua moglie se ne andò... “Amore non mi sento bene. Forse non ho digerito.” ...lasciandolo solo. Solo, in compagnia di un dolore atroce... “Amore aiutami! Sto malissimo... Mi fa tanto male il petto.” ...che non lo mollava mai, né di giorno né di notte... “Un infarto dovuto a una malformazione congenita del cuore. Ci spiace. Non siamo riusciti a salvarla.” ...e che gli faceva invocare la morte ogni giorno della sua vita. Un groppo in gola gli tolse il respiro. Quando riprese il controllo della respirazione, si
rese conto che due grosse lacrime gli stavano rigando il volto. Le lacrime. Non pensava che un uomo potesse versarne così tante. “Maledetto destino! Maledetta vita! Maledetti tutti!” gridò scagliando contro una parete la bottiglia che teneva in mano. Poi, dopo aver pianto amaramente per una decina di minuti, si addormentò perseguitato da incubi in cui riviveva la morte della sua sposa. Si svegliò di soprassalto, cercando di scacciare gli ultimi istanti di un sogno tormentoso. L'ora di pranzo era passata già da un pezzo e una rapida ispezione del frigo gli riservò una brutta sorpresa. Nell'elettrodomestico erano presenti solo tre mele mezze marce e una costa di sedano rinsecchita. Andrea imprecò sottovoce, poi andò a vedere se nel ripostiglio era rimasto qualcosa da mangiare. Anche qui lo spettacolo fu sconfortante: cianfrusaglie inutili e un grosso zaino appoggiato alla parete destra. “Ma questo zaino non è mio. Chissà cosa…?” La curiosità ebbe il sopravvento e Andrea lo aprì, con lo stesso entusiasmo di un bambino di fronte al suo regalo la notte di Natale. Lo zaino conteneva un vecchio computer: un Macintosh Classic Color, un vecchio modello con il monitor e la macchina assemblati in un unico pezzo, più una piccola scatola di scarpe. Aprendola scoprì che era piena zeppa di floppy disc da 3,5 pollici. Ognuno era dili-
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gentemente etichettato, con il titolo scritto in un ordinato corsivo minuscolo. “Un regalo del vecchio proprietario. Vediamo se questa anticaglia funziona ancora” disse fra sé e sé dirigendosi verso la cucina. Tirando fuori dallo zaino il computer, Andrea fece un'altra sconcertante scoperta. Lo chassis della macchina era pieno zeppo di incisioni, raffiguranti simboli esoterici e frasi in una lingua sconosciuta. Solo il vetro del monitor e la tastiera erano stati risparmiati da quello scempio. Dopo aver collegato tastiera e mouse alla macchina, attaccò il cavo di alimentazione ad una presa di corrente e premette il pulsante d’accensione. Il monitor sfarfallò per un attimo, poi apparve la consueta mascherina bianca con le icone delle applicazioni, pronte per l'utilizzo. Andrea passò in rassegna i titoli dei dischetti ereditati dal vecchio inquilino: Manic Mansion, Monkey Island, Star Wars. Bene: al signor Longo non piacevano solo le sedute spiritiche e l'evocazione di entità extraterrene. Improvvisamente lo schermo divenne nero e partì lo screen saver, raffigurante una specie di angelo caricaturale, con la testa più grossa rispetto al corpo, che svolazzava avanti e indietro da una parte all'altra dello schermo. L'esserino indossava una lunga tunica bianca, aveva due alette ricoperte di candide piume e i proverbiali capelli lunghi e biondi. L'unica cosa che lo distingueva dagli angeli
tradizionali era il suo aspetto. Era molto magro ed aveva il viso sofferente ed emaciato, come se stesse morendo di fame. “Ti hanno disegnato proprio male” esordì Andrea, soffocando una risatina. “Chiunque ti abbia creato, quel giorno ce l'aveva proprio con te” disse con tono compassionevole all'angioletto. Un sordo brontolio proveniente dallo stomaco riscosse l’uomo dai suoi pensieri, facendogli capire che sarebbe stato meglio mangiare. Purtroppo non aveva nessuna intenzione di uscire né tantomeno di comprare qualcosa. Stava piovendo incessantemente e se c’era qualcosa che Andrea odiava era fare la spesa con la pioggia. “Quanto vorrei che il mio frigo fosse pieno di roba buona e appetitosa” esclamò ad alta voce, cercando di scacciare il senso di noia che gli provocava il pensiero di prepararsi e uscire di casa. Si alzò controvoglia e di pessimo umore; aprì il frigo per buttare nella spazzatura gli alimenti marciti e rimase impietrito per lo stupore. Il frigo era pieno zeppo di ogni ben di dio. C’erano perfino una bottiglia di vino rosso e una vodka alla menta. “Ma è impossibile. Questa roba fino a dieci minuti fa non c’era.” Allungò la mano per toccare la roba che era in frigo e prese in mano un pezzo di scamorza per saggiarne la consistenza. Non stava sognando. Era tutto vero. “L’alcool mi sta giocando brutti scherzi. Il frigo vuoto me lo sono immaginato. Ho le allucinazio-
ni!” pensò, cercando disperatamente una spiegazione razionale per giustificare quello che gli era capitato. Poi la fame ebbe la meglio sulla ragione e l'uomo iniziò a cucinare senza porsi ulteriori domande. Fu al momento di togliere il computer per apparecchiare la tavola, che ebbe la seconda sorpresa della giornata. Lo screen saver aveva come protagonista lo stesso angioletto di prima, ma qualcosa era cambiato. La creatura non era più magra, non aveva più un aspetto sofferente: era seduta per terra e aveva le mani poggiate su una pancia enorme. Aveva l'espressione beata di chi ha appena finito di mangiare un banchetto pantagruelico. O un frigo pieno di roba. Andrea, non trovando risposta a questo ulteriore fatto insolito, archiviò tutto sotto il titolo di “bizzarra coincidenza” e si mise a mangiare di gusto. Erano mesi che mangiava per sopravvivere e non per il piacere di assaporare qualcosa. Il cibo gli sembrò ottimo e il vino eccellente. Il resto della giornata lo passò a mettere a posto la roba ancora sigillata nei cartoni del trasloco di quattro mesi prima. Non ce l'aveva più fatta a continuare a vivere nella vecchia dimora dove aveva vissuto tanti anni felici insieme a Maura. Troppi ricordi dolorosi, troppi i fantasmi di un passato bellissimo che non sarebbe più tornato. Credeva che il cambiare casa l'avrebbe aiutato a dimenticare più in fretta, invece era passato più di un anno dalla morte della moglie e nulla era mutato. Era
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perseguitato dagli stessi ricordi. Lacerato dallo stesso identico dolore. Arrivata l'ora di cena si preparò due panini col prosciutto e, nel togliere dal frigo gli insaccati, lo sguardo gli cadde sulla bottiglia di vodka ghiacciata. Decise di bere un bicchierino, giusto per aiutare la digestione. Un'ora dopo dormiva profondamente, ancora vestito, con la testa sprofondata nel cuscino e una bottiglia di vodka vuota poggiata sul comodino. Si svegliò di soprassalto, maledicendo la sveglia che lo aveva destato e il mal di testa che gli stava spaccando il cranio in due. Dopo venti minuti uscì di casa di corsa, mangiucchiando una brioche, e si avviò correndo verso l’ufficio. La giornata di lavoro scorse via lenta e stressante e Andrea tornò a casa attrezzato per la serata, portando in un sacchetto una bottiglia di vodka e una di gin. Alle sette di sera, la bottiglia di Vodka era già un ricordo e, dopo il secondo bicchierino di gin, il giovane vedovo comincio, come al solito, a parlare da solo. “Hai visto, Maura? Ti ho dimenticata. Stanotte non ti ho sognata. Tutto finito tra di noi! Bum.” Fissò con occhi inespressivi il monitor del computer (quando l’aveva acceso? Non ricordava di averlo fatto) su cui l’angioletto svolazzava, salutandolo con la mano. “In verità, amico mio” disse rivolto alla creatura raffigurata sul monitor “mia moglie mi manca da morire. Come vorrei sentire
ancora la sua voce, come mi piacerebbe che entrasse dalla porta di casa come se non fosse mai morta!” Non aveva neanche finito di pronunciare quella frase che sentì scattare la serratura della porta e quello che vide successivamente lo sconvolse talmente tanto da fargli dubitare di essere sano di mente. La porta si aprì e sulla soglia apparve una bellissima donna, dai capelli ramati e dallo splendido sorriso. Una donna che Andrea aveva rimpianto per un anno intero. “Ciao tesoro. Scusa se ho fatto tardi, ma ho incontrato un traffico…” “Maura… sei tu!” rispose l’uomo pensando seriamente di aver perso la testa. “Certo che sono io, amore. Ma stai bene? Hai una faccia che non mi piace. Vediamo se con un bacio passa tutto.” Andrea rimase impietrito mentre la donna si chinava su di lui con l’intento di baciarlo. “Non è possibile è tutto un sogno, un’allucinazione. Non può essere! Lei è…” Il contatto delle labbra morbide di Maura sulle sue gli fece capire che non poteva trattarsi di un sogno. “Ora vado di là a cambiarmi e poi ti preparo la cena. Ho intenzione di farti una carbonara coi fiocchi”. Andrea guardò inebetito sua moglie che spariva dalla sua vista infilandosi nella camera da letto. “Ma non può essere vero, Maura è qui! Cosa mi sta succedendo?” Sua moglie era morta, l’aveva
seppellita, l’aveva pianta per un anno e ora era entrata dalla porta di casa tranquilla come se non fosse mai… Andrea trasalì. Si stava realizzando esattamente quello che aveva desiderato poco prima. Gettò uno sguardo sul monitor. L’angioletto si tolse la tunica e al suo posto apparve la caricatura di una donna. Coi capelli rossi e due stupende ali da angelo. In quel momento Andrea capì che forse il sig. Longo gli aveva fatto un regalo più grande di quanto avesse creduto. Decise di confermare i suoi sospetti. “Vorrei diventare sobrio, come se non avessi mai bevuto” disse alla piccola donna alata, che rispose con un sorriso. Sentì improvvisamente che il senso di stordimento e la sottile inquietudine che lo avevano accompagnato sino a quel momento lo stavano abbandonando. Quando riprese completamente il controllo di sé, notò che la sua piccola amica aveva subito altre due trasformazioni. Aveva gli occhi rossi ed era diventata più grossa, più alta. Più reale. Andrea in quel momento non aveva voglia di pensare ai fatti inspiegabili che gli stavano capitando: voleva sapere se sua moglie c’era ancora o se era sparita di nuovo per sempre. La raggiunse in camera e la trovò mentre stava indossando una tuta. La cinse da dietro, stringendola forte come se non la volesse lasciare andare mai più. La moglie fraintese il gesto e dolcemente disse: “Più tardi amore; ora devo fare da mangiare. Più tardi sarò
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tutta per te!” Alle quattro di mattina Andrea era ancora sveglio, nel letto matrimoniale con sua moglie. Aveva cenato amabilmente e poi aveva fatto l’amore con lei, con un trasporto che credeva sopito da tempo. Guardò ancora Maura che dormiva al suo fianco e si costrinse a rimanere sveglio. Aveva paura che potesse sparire da un momento all’altro, come in un sogno. Si rimise a pensare allo strano meccanismo che regolava l’avverarsi dei suoi desideri e le trasformazioni dello screen saver. I simboli sul Macintosh probabilmente lo mettevano in contatto con qualche forza misteriosa, qualche creatura ultraterrena capace di piegare la realtà ai suoi voleri. Una sorta di lampada di Aladino in versione ultramoderna. Quello che non capiva era perché l’avatar si trasformasse in qualcosa di sempre meno angelico e più bestiale. Ma non aveva importanza, avrebbe usato il suo genio della lampada per rendersi la vita più semplice. Ovviamente Maura non doveva saperne niente, non avrebbe capito e avrebbe cercato di dividerlo dal PC. Doveva agire con cautela. Si addormentò sorridendo abbracciato a sua moglie. I giorni seguenti furono costellati da un uso insensato del “genio”. I desideri venivano eseguiti alla lettera. Maura era entrata dalla porta di casa come se non fosse mai morta. Di conseguenza nessuno ricordava che nell’ultimo anno Maura fosse deceduta. I desideri, quindi, non avevano limiti. Andrea divenne capriccioso e
volubile come un antico dio greco. Decise di diventare più muscoloso, attraente, ottenne il posto di vicedirettore della società in cui lavorava, fece trasferire colleghi antipatici in altre sedi fuori città. Ad ogni desiderio corrispondeva una trasformazione della creatura angelica: ali da pipistrello al posto di quelle di piume, artigli al posto delle unghie, una coda da leone, zanne aguzze. Qualcosa dentro di lui lo avvertiva che le trasformazioni dello screen-saver, erano un’allegoria della realizzazione dei suoi desideri, ma non se ne curava. Il suo angelo si trasformò rapidamente in una creatura simile ad un demone. Un giorno sua moglie ritornò a casa con un piccolo regalo per S. Valentino. Andrea rimase di sasso. Per lui quel giorno era un giorno come gli altri, si era scordato della ricorrenza e non le aveva nemmeno comprato un pensiero. Maura non capì la dimenticanza da parte del marito e andò su tutte le furie. Andrea le mentì. Le disse di andarsi a fare bella per andare a cena fuori: il suo regalo sarebbe arrivato da lì a poco. Tranquillamente si diresse verso il computer: aveva il suo asso nella manica. Era il padrone del genio della lampada. “Desidero che le vengano recapitate subito venticinque rose rosse, tramite corriere.” Fu in quel momento che lo sentì. Un ringhio basso, gutturale, emesso dalla creatura, mentre schioccava le dita e si ricopriva di spine aguzze. Ormai era cre-
sciuta tanto da occupare tutto lo schermo. Ancora un desiderio esaudito e sarebbe diventata così grossa da oltrepassare le dimensioni del monitor. Il campanello squillò e Maura si trovò davanti un corriere con un mazzo enorme di rose rosse. Corse incontro al marito e lo ricoprì di baci, poi si voltò sorridendo e andò a finire di cambiarsi. “Due anni fa ero tornato con undici rose rosse, comprate con i miei soldi. Undici rose regalate da me. Quest’anno il mazzo glielo ha regalato il Macintosh. Che cosa sono diventato…” pensò amaramente spegnendo il computer. Decise da quel momento di eliminare per sempre il genio dalla sua vita. La mattina dopo aveva già deciso di seppellire il PC in aperta campagna. Lo prese e andò in cucina per metterlo in un sacchetto di plastica. Lo aveva appena posato sul tavolo quando Maura entrò all’improvviso in cucina, fece sedere il marito su una sedia e montandogli a cavalcioni lo baciò con passione. “Cos’ho fatto stamattina per meritarmi questo meraviglioso premio?” disse Andrea fissando gli stupendi occhi grigi della moglie. “Niente mio caro” rispose Maura. “Questo è solo un assaggio di quello che ti farò stasera.” “Aspetterò con impazienza. Conterò i minuti. Sei straordinaria, amore” “Sai, ci ho pensato a lungo in questi giorni e spero tanto che tu sia d’accordo con me. Io vorrei…”
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Andrea notò con orrore che il monitor, poggiato sul tavolo alle spalle di Maura, si era acceso da solo. La donna-demone aspettava impaziente, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo carico di furia pronta a esplodere. “…vorrei un figlio nostro. Lo voglio con tutto il cuore” finì Maura, baciando dolcemente il marito. Con gli occhi spalancati dal terrore, Andrea vide la creatura oltrepassare i bordi dello schermo. Una risata bestiale e feroce gli rimbombò nella testa, cancellando tutti i rumori del mondo circostante. “Non darmi una risposta subito tesoro. Pensaci. Ne riparliamo stasera. Ti amo.” E, raccolta la borsetta dal tavolo, Maura si allontanò, ondeggiando sensualmente sui tacchi. Andrea era terrorizzato. Non sapeva che fare. La creatura lo fissò con disprezzo, poi cominciò a tirare pugni sul video. Non ottenendo nessun risultato, passò a colpire la parte superiore dello schermo, ringhiando terribilmente. Il genio si era stufato di servire. Voleva uscire dalla lampada. E voleva farla pagare al suo padrone. Improvvisamente Andrea capì con sgomento, il motivo per cui il signor Longo era sparito misteriosamente. Doveva armarsi prima che la creatura riuscisse a giungere sino a lui. Mentre valutava le possibili alternative a sua disposizione, gli si palesò davanti uno scenario da incubo: se il demone dopo averlo ucciso, si fosse fermato in casa ad aspettare
l’arrivo di Maura? Era un’eventualità orrenda, non voleva nemmeno pensarci. Improvvisamente gli venne in mente il fuoco. Il fuoco distrugge ogni cosa e Andrea pensò che la creatura, nonostante l’aspetto, non fosse un demone immune alle fiamme. Un demone, creatura potente e pericolosa, non si sarebbe fatta imprigionare da un signor Longo qualsiasi. Si rammentò del capanno degli attrezzi della loro casetta in campagna. Lì avrebbe trovato degli utensili utili per fermare il mostro. O per morire difendendosi. Afferrò il PC e lo trovo caldo al contatto, mentre la furia del mostro all’interno cresceva attimo dopo attimo. Caricò il PC sulla macchina, salì sull’auto e guidò come un pazzo verso la campagna, tra ringhi feroci e rumore di colpi in rapida successione. “Siamo giunti a destinazione. A noi due bastarda!” esclamò fermando la macchina davanti alla casetta che utilizzava per le vacanze. Prese il computer e lo posò sull’erba del giardino antistante la casa. La plastica che ricopriva il PC era diventata molto calda, quasi surriscaldata, mentre la bastarda al suo interno continuava a colpire in ogni dove nel tentativo di uscire, emettendo ad ogni colpo un ringhio di collera misto a frustrazione. Andrea si girò e corse verso il capanno degli attrezzi. Doveva sbrigarsi. Afferrò freneticamente una tanica di carburante, un secchio e il suo vecchio forcone e tornò sui suoi passi. Percorse la distanza che lo
separava dal computer quasi in apnea, come un maratoneta sfinito a pochi passi dal traguardo. Arrivato sul posto, vide la creatura, ormai passata dal disegno in due dimensioni ad un aspetto quasi tridimensionale, tirare un pugno fortissimo al monitor. Il colpo creò due sottili crepe che scesero a zig zag lungo il vetro, simili a rivoli di inchiostro. Questa volta il ruggito fu più forte e spaventoso: il ruggito di un animale folle di rabbia intento a sfondare la gabbia indebolita che lo conteneva. Andrea versò la benzina sul Mac, ormai diventato molle e deformato, e gli venne in mente di non aver portato con sé nulla di utile per accendere il fuoco. Imprecando contro la sua stupidità, corse verso la casa, mentre dietro di lui i ruggiti crescevano d'intensità e ferocia. Le mani gli tremavano e quasi le chiavi gli caddero nel tentativo di aprire la porta. Afferrati vicino al camino un accendino e un vecchio quotidiano, si fiondò fuori dall'abitazione col cuore in gola, pregando di giungere in tempo. Il computer era diventato un ammasso irriconoscibile di plastica fusa, simile a un grembo materno dal quale una creatura stava cercando di venire al mondo, uscire per sfogare la sua ferocia su chiunque le capitasse a tiro. Andrea era assolutamente certo che, qualunque cosa fosse uscita, non si sarebbe certamente trattata di una creatura concepita da Dio. Accese il pezzo di carta quasi con gioia e diede fuoco alla benzina. Il computer fu avvolto dalle fiamme. Quasi istantaneamente
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l'aria si riempì di fumo e guaiti di preoccupazione. “Non ti piace arrostire là dentro vero?” disse a mezza voce Andrea versando quel che rimaneva del carburante dalla tanica al secchio. “Fai ancora un piccolo sforzo e vieni da papà. Ho una calorosa sorpresa per te!” Improvvisamente si sentì un forte rumore, simile a quello di un lenzuolo strappato. Da una gobba informe di quel che rimaneva del PC si aprì uno squarcio, dal quale spuntò un braccio femminile, dalle dita affusolate terminanti con lunghi artigli. Velocemente dall'apertura uscì un altro braccio e, dopo qualche secondo di esitazione, uscirono anche la testa e il busto della creatura, che si era aperta ormai un varco tra la sua dimensione e la nostra. Il grido bestiale di trionfo che emise fece gelare il sangue di Andrea e mancò poco che l'uomo non si desse alla fuga urlando come un bambino. L'aspetto dell'essere non era dei più rassicuranti. La faccia era quella di una bellissima donna, resa spaventosa da una dentatura composta da robuste zanne ricurve e da una chioma composta da tentacoli. La pelle verdastra era ricoperta da decine di aculei tozzi e ricurvi, come le spine di una rosa. Due maestose ali nere da pipistrello spuntavano dalla schiena e i suoi occhi crudeli e gelidi al tempo stesso erano di color rosso opaco, come rubini adagiati su un drappo di velluto nero. La creatura lanciò uno sguardo di puro odio all'indirizzo di Andrea e, facendo forza con le
braccia sul terreno, cercò di uscire del tutto. “Brucia bastarda!” disse il giovane uomo, gettando una secchiata di benzina addosso alla creatura, sperando che le fiamme ormai basse potessero prendere nuovo vigore. Per fortuna le lingue di fuoco, a contatto con il carburante, si ravvivarono con energia, trasformando l'essere mostruoso in una torcia ardente. L'aria si riempì di guaiti di sofferenza: la creatura temeva le fiamme. “Se le fiamme ti fanno male, vediamo cosa ti fa questo!” disse Andrea sollevando il forcone sopra la testa e calandolo con forza nel petto del mostro. Il ruggito di dolore che ne che seguì fu agghiacciante: la bestia stava soffrendo terribilmente e, nonostante fosse preda delle fiamme, cercava di estrarre con entrambe le mani la punta del forcone dal suo petto. Andrea, dal canto suo, spingeva in direzione opposta, animato da una furia animalesca, tenendola inchiodata a mezz'aria. La silenziosa lotta proseguì per lunghi, interminabili secondi durante i quali Andrea incominciò ad accusare la stanchezza. “Non ce la faccio più, ho le braccia di piombo. Perchè non muori bruciata, bastarda?” Con un ultimo debole guaito e il corpo devastato dal fuoco, la creatura smise di opporre resistenza. Abbandonò la presa e reclinò la testa all'indietro, scivolando nel buco dalla quale era emersa. Si udì un rumore di risucchio che iniziò come un rantolo per poi trasformarsi in una sorta di sibilo sinistro. Poi il buco
si ribaltò e spari, come se non fosse mai esistito. Andrea si alzò faticosamente da terra e andò a ispezionare i resti del PC, per essere sicuro che nulla di pericoloso fosse rimasto in agguato. Il Mac era diventato un informe grumo di plastica fusa dall’aria del tutto inoffensiva, situato all’interno di una zona circolare completamente carbonizzata. Andrea si guardò intorno, respirando a pieni polmoni la frizzante aria novembrina: nessuno in vista. Solo i castagni che circondavano la casetta erano stati testimoni del combattimento. Tornato a casa si sdraiò sul divano dell’ingresso, ripensando a quello che aveva passato. Aveva sventato una minaccia, sconfitto un avversario bestiale e feroce, avrebbe dovuto sentirsi un eroe. Invece l’unica frase che riuscì a pronunciare nel silenzio della sua casa fu: “Sono stato fortunato. Molto fortunato.” Andò in camera da letto, si spogliò completamente e si concesse il piacere di una doccia. Indugiò a lungo sotto l’acqua calda. Voleva che l’acqua lavasse via la stanchezza e cancellasse dalla sua mente tutta quella brutta avventura. Passò, vestito del solo accappatoio, in ingresso e incontrò sua moglie che era appena rientrata dal lavoro. Senza parlare la afferrò per i fianchi, la attirò a sé e la baciò con trasporto. La fissò negli occhi e vide riflesso nello sguardo di Maura lo stesso desiderio che ardeva nel suo cuore. Senza perdere altro tempo la sollevò da terra e la portò in
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camera da letto. “Forza tesoro respira! Respira profondamente, ecco brava così…” “Signora prenda un bel respiro e poi spinga con tutte le sue forze: vedo spuntare la testa!” Andrea era teso e raggiante allo stesso tempo. Erano passati nove mesi dalla sua battaglia con la creatura ed erano stati mesi bellissimi: di speranza, di riscoperte, ma soprattutto di attesa. Ora l’attesa era finita e stavano coronando il sogno di diventare una vera famiglia. Un ultimo grido da parte di Maura e in sala parto risuonarono i pianti della nuova nata: Gabriella. “Sei stata bravissima, tesoro. Ti amo” disse Andrea con gli occhi lucidi di emozione e felicità. Maura sorrise: uno dei suoi splendidi sorrisi dolci e rassicuranti. Con la bambina poggiata sul petto sembrava ancora più bella. Quando arrivò il suo turno, il padre prese la bambina in braccio. Tre chili e cento grammi di morbidezza e tenerezza. Andrea era al settimo cielo. “Forza Gabry, apri gli occhi. Guarda com’è brutto il tuo papà” disse guardando sua figlia con gli occhi colmi di amore. L’espressione affettuosa del padre si trasformò improvvisamente in una maschera di orrore. La bambina aveva aperto gli occhi e lo stava osservando. Con gli occhi rosso cupo come rubini adagiati su un drappo di velluto nero e un sorriso maligno disegnato sul volto.
S ka n La Guerra Santa
Nonostante il buio, Stefano si spostò sicuro nella cameretta di Ettore. Delicatamente, poggiò la punta nuda dei piedi sulla moquette, e avanzò schivando i giochi sparpagliati. Si sedette sulla sponda del letto e ascoltò il respiro del ragazzo. Adorava quel rumore, l'aria entrava e usciva a ritmo regolare dai polmoni fragili, riportandogli alla memoria giorni lontani. Allungò la mano per scoprirlo, ma si bloccò. Un'ombra nera si mosse fulminea sul letto, soffiò nella sua direzione e fuggì attraverso la porta accostata della cameretta. Stefano istintivamente portò la mano all'impugnatura del gladio che pendeva dal Balteus e la sfiorò affettuosamente, odiava i felini e la loro innata capacità di vedere nei due mondi. «Come stai Ettore?» chiese a bassa voce carezzandosi la barba incolta. «Non riesci a dormire?» Ettore si voltò sorridendo. Stefano sobbalzò sorpreso. Lo sapeva: lui poteva vederlo. Strinse le ali imponenti, cercando di nasconderle dietro la schiena, e si sporse in avanti perplesso. «Sono qui per rispondere alle tue preghiere» disse imbarazzato. Un click, che proveniva da oltre il letto, illuminò la
stanza. Ettore, poggiato sopra il piumone di Ben 10, si allungò verso la porta e parlò con il gatto nascosto nella penombra. Il ragazzino aveva le gambe incrociate, i piedi nascosti sotto le cosce e il pigiama leggero che non riusciva a nascondere il corpo gracile. Aveva il viso raggrinzito dalla stanchezza, ma gli occhi vispi e pieni di vita. «Anche io non riesco a prendere sonno.» Guardò la sveglia e scosse la testa. Stefano, deluso, si abbandonò sul pavimento. Era in quella casa perché una volta gli era parso che il ragazzo l'avesse visto, ma erano circostanze diverse; c'era di mezzo un lutto e tante ovazioni nei suoi confronti. «No, non possiamo giocare. Se si sveglia la mamma si arrabbia.» Il gatto rimase immobile con i muscoli tesi e la coda che si muoveva a scatti. «Non fare così» disse il bambino combattuto. «Se fai il bravo un giorno di questi ti lascio fare un giretto.» Guardingo, l'animale fece per rientrare nella stanza senza perdere mai di vista l'ospite inaspettato. «Bravissimo. Ora mettiti a dormire.» Il ragazzo sorrise, afferrò il gatto che emise un miagolio di protesta e l'appoggiò sul cuscino. Spense la luce e l'abbracciò. «Buonanotte Fritz.» Stefano rimase immobile per un tempo indefinito, domandandosi cosa potesse vedere quell'animale che continuava a fissarlo nell'oscurità.
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Il respiro di Ettore si fece pesante fin quasi a diventare un soffuso russare; poi, di colpo, iniziò a singhiozzare. La luce del corridoio si accese, dei passi pesanti si avvicinarono, Agata entrò nella stanza. «Amore, che succede?» La donna abbracciò il ragazzo. In dormiveglia, e con gli occhi gonfi di lacrime, Ettore guardò la madre. «Non riesco a dormire.» «Perché?» «Mi manca papà.» I singhiozzi divennero pianto. «Lo so amore, manca tanto anche a me.» «Mamma...» Ettore tirò su con il naso. «Papà è in Paradiso?» «Certo amore. Tutti gli uomini buoni vanno lì.» «E se invece non ci fosse nulla dopo la morte?.» «C'è sicuramente il paradiso» disse la madre fuggendo con lo sguardo. Ettore sorrise felice. «Lo spero tanto» Agata abbassò il mento e stampò un bacio sonoro sulla fronte del figlio. «Ora mettiti a dormire.» Obbediente, il ragazzo poggiò la testa sul cuscino, ma prima di chiudere gli occhi riprese a parlare: «Il paradiso è in cielo?» «Sì» rispose pazientemente la madre. «Tra le stelle?» «Sì amore.» «Quando penso alle stelle e allo spazio ho paura e mi si stringe il cuore.» Poggiò le
mani sul volto di Ben 10, proprio all'altezza del suo petto, troppo grande per essere quello di un bambino, ma ancora piccolo per poterlo definire da uomo. Gli occhi di Agata divennero rossi, con il palmo gli arruffò i capelli. «Sei estremamente intelligente, lo sai?» Ettore arrossì e serrò gli occhi. «Ti voglio bene mamma.» Si voltò per fuggire da quell'affermazione. «Ti voglio bene anch'io tesoro.» Nella stanza tornò la quiete. La luce del corridoio si spense; al buio Ettore diede sfogo al suo dolore incolmabile, ma questa volta fece attenzione a non emettere nemmeno un suono. Nel locale le persone chiacchieravano allegre. Stefano, seduto a un tavolino appartato, osservava raggiante tutta quella gente. Indossava una voluminosa felpa del Manchester United e un paio di Jeans scuro che lo rendevano anonimo. Nella forma umana aveva capelli corti e il volto glabro. Una ragazza, con un grembiule scuro, gli si parò davanti. Scostò una lunga ciocca di capelli neri dagli occhi e gli rivolse un sorriso caloroso. I loro sguardi si incrociarono e Stefano fu assalito da un flusso di
immagini. «Vuole ordinare qualcosa?» chiese lei cordialmente. L'uomo si guardò attorno alla ricerca di un'ispirazione. Su un tavolo vicino vide un bicchiere ricolmo di un liquido verde da cui usciva del fumo. Lo indicò con l'indice «Miriam, portami quello.» La cameriera rimase inebetita qualche istante, con lo sguardo indagatore di chi cerca nel volto del suo interlocutore un indizio per sbloccare la memoria. «Ci conosciamo?» trovò il coraggio di chiedere. «Certo, facciamo insieme il corso di teatro, ma ci sta che non ti ricordi di me, sono stato molto a casa.» Più perplessa che imbarazzata Miriam prese nota dell'ordinazione e si allontanò. Stefano riprese a studiare le persone che lo circondavano. C'era gente di ogni genere: professionisti, operai, commercianti. Ognuno con una storia e con un modesto carico di sofferenze: quanta povera gente abitava la terra. La ragazza tornò pochi minuti dopo. In una mano stringeva il bicchiere verde e nell'altra una caraffa di birra. Poggiò entrambe sul tavolo: «Offre il tuo amico.» disse facendo un cenno verso il bancone. Stefano annuì simulando consapevolezza e seguì lo sguardo della ragazza. Gi-
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rolamo avanzava verso di loro aiutandosi con un bastone. Era anziano e zoppicava leggermente, indossava pantaloni scuri e una camicia nera. «Accomodati, stavo iniziando a bere» disse Stefano indicando la sedia. «Cosa ci fai qui?» chiese l'anziano sedendosi. «Avevo bisogno di “vivere”.» Girolamo si guardò attorno accigliato. «Cambiano i vestiti e le lingue, passano i secoli e la tecnologia avanza, ma gli uomini rimangono sempre uguali. C'è poco da vedere.» Stefano non prestò attenzione alle parole del vecchio amico. Prese in mano il bicchiere fumante e l'osservò attentamente. «Vedi, anche quello sembra uscito dal laboratorio di un eretico del Medioevo.» Stefano sorrise «Sei il solito ottuso. Potresti vivere altri duemila anni, ma seguiresti sempre a testa bassa i dogmi di Pietro.» Girolamo afferrò il braccio dell'amico e lo strattonò. «Non sono quelli di Pietro, e tu lo sai benissimo.» La spinta fece rovesciare il bicchiere che Stefano teneva in mano; il liquido verde invase il tavolo. Due cubetti di ghiaccio fumanti navigarono sullo strato scivoloso fino al bordo e si persero oltre l'orizzonte. «È buffo vero?» Girolamo alzò il sopracci-
glio, perplesso. «Cosa?» «Se non fosse stato per alcuni di noi credereste ancora che il mondo sia come questo tavolo. Per secoli avete negato anche quello che potevate vedere con i vostri occhi.» «Sai benissimo che noi dobbiamo difendere la fede. E dovreste farlo anche voi. Sono altri i nostri nemici.» Stefano sbuffò irrequieto. «Sei venuto qui per farmi la ramanzina? Ne abbiamo già parlato più volte, e lo sai come la penso.» Girolamo scosse la testa rassegnato. «Posso portarvi qualcos'altro?» chiese la cameriera che stava già pulendo. «Sì, mi porti un calice di vino. Ne avete di benedetto?» La giovane abbozzò un sorriso imbarazzato, non aveva capito la battuta di Stefano. «Non essere blasfemo.» Girolamo era furioso. «Allora muoviti e dimmi cosa ci fai qui.» Il vecchio si guardò ancora intorno. Sembrava cercasse qualcosa in particolare. «Lo senti anche tu?» chiese spaventato. «Fratello, è troppo che non stacchi gli occhi dai tuoi libri. Ormai lui è ovunque, dovresti uscire più spesso dai tuoi monasteri.» L'anziano, per nulla rassicurato, strinse ancora più forte il bastone da pas-
seggio. Stefano ringraziò con un cenno la cameriera che gli portò il bicchiere di vino. «Se non ti senti al sicuro muoviti a dirmi quello che devi e tornatene alle tue traduzioni.» «È arrivato il grande momento, le quattro virtù si sono incarnate.» Stefano strabuzzò gli occhi, da anni sentiva che c'era qualcosa nell'aria. «Dobbiamo trovarli prima che cerchino di corrompergli l'anima.» disse Girolamo preoccupato. «Perché ora? Siamo vicini al Suo ritorno?» «Non lo sappiamo.» «Come fate a non saperlo? Sono duemila anni che Lo pregate, che leggete le sacre scritture, che cercate di convincere il mondo a seguirLo. Siete voi a dire cosa pensa e cosa vorrebbe, voi scegliete chi lo rappresenta in terra. E ora, nel momento più importante, mi dici che non lo sai.» Stefano stava per mettersi a urlare, sollevò gli occhi al cielo, afferrò il bicchiere e lo svuotò in un solo sorso. «Smettila di bestemmiare, sai benissimo che fu Lui a dire a Pietro cosa doveva fare.» «Non è quello che sostiene Tommaso» «Tommaso...» Girolamo sollevò il labbro disgusto «È colpa sua se siamo a questo punto.» «Sua, di Filippo, Bartolo-
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meo, Mattia, e Taddeo. Tutte persone che c'erano, che gli sono state vicine anche nel momento del pericolo. Nessuno di loro l'ha tradito, nessuno l'ha rinnegato.» Il pugno di Girolamo si scontrò contro il tavolo crepandolo. Il rumore sovrastò qualsiasi vociare nella stanza. «Non sono venuto a sentire le tue farneticazioni, ma per dirti che c'è dell'altro: qualcuno ha rubato la “Lancia di Longino”.» Stefano deglutì a fatica, aveva la bocca asciutta e improvvisamente sentì mancargli il mondo sotto i piedi. «Come hanno fatto?» «Non sappiamo nemmeno chi.» «Cosa vorresti dire?» Il tono di Stefano divenne grave. «Ci stai forse accusando?» «Penso che quello sarebbe un bel modo per attaccare la Santa Sede.» «Mi dispiace, ma tutti i traditori sono con voi.» Girolamo, scuro in volto, cercò il bastone «Io ho fatto quello che dovevo. Contavo su di te, pensavo fossi il più ragionevole, ma forse dovevo andare a cercare Francesco.» Si alzò e si allontanò senza degnarlo di uno sguardo. Stefano, gli occhi fissi sul boccale di birra, rimase immobile a fissare il vuoto.
Le parole del vecchio continuavano a ronzargli in testa. Le quattro virtù non erano uno scherzo, da quando calcava il mondo non si erano mai incarnate tutte insieme. In duemila anni ne aveva incontrata una sola di persona: “la Prudenza” era comparsa intorno al 1200 per evitare una grande scissione. Già a quei tempi lui e Girolamo erano di idee differenti, ma la virtù era riuscita a scongiurare una guerra fratricida. Pensieroso, si alzò e lasciò dei soldi sul tavolo, tanti da coprire il costo del vino e la mancia che la cameriera si era meritata con il numero infinito di sorrisi che stava dispensando. Uscì dal locare e fissò la luna che splendeva nel cielo troppo chiaro perché potessero vedersi le stelle. L'aria era fresca, o almeno così immaginò vedendo alcuni ragazzi stringersi nelle giacche. Lui, nonostante la sola felpa, non sentiva freddo, non sentiva nulla. Si incamminò sul marciapiede sconnesso e andò verso un vicolo poco illuminato. Guardò i due palazzi che si perdevano nell'oscurità, le finestre erano chiuse. Si concentrò sulle auto parcheggiate: erano vuote. Meditò cercando di prepararsi al dolore che stava per aggredirlo. Non erano più molti
quelli che lo pregavano, ma nonostante ciò, durante il passaggio, poteva sentire il male che attanagliava il cuore di miliardi di persone che vivevano in un mondo senza speranza. Inspirò e chiuse gli occhi. Un fruscio alle sue spalle lo bloccò. Istintivamente si acquattò e portò la mano alla cintura. Contrasse il volto contrariato: nelle vesti umane non aveva il gladio. «Vieni fuori» era dietro una macchina parcheggiata, ne sentiva la presenza. «Stefano, perdi i copi.» Una figura scura venne allo scoperto, sembrava minuta e soprattutto: umana. Fece due passi lateralmente, in modo che la luce potesse illuminarla. «Miriam» disse vedendo la cameriera che l'aveva servito fino a poco prima. «Sei taccagno, lo sai?» Il ghigno che uscì dalla sua gola non aveva nulla a che vedere con la risata argentina della ragazza. «Quella me la chiami mancia?» «Fammi indovinare...» Stefano si carezzò una guancia. «Hai scelto una ragazza giovane e affascinante... fai battute scadenti... sei Labal.» Una mano gli serrò il collo, facendo sparire l'espressione sarcastica dal volto di Stefano. Miriam aveva percorso una ventina di metri in un battito di ciglia. L'uomo ora riusciva a vede-
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re gli occhi del demone che la stava possedendo. La sclera si era ridotta a una mezzaluna grigia e l'iride era sparita lasciando il posto a due cerchi neri. «Vedo che il tuo spirito invece è rimasto intatto.» Altrettanto rapido Stefano estrasse un crocifisso dalla manica e glielo poggiò sulla fronte. «Esci da questo corpo, demonio.» Stefano, spinto dal demone, si ritrovò a volare verso il fondo della strada. Chiuse gli occhi, giunse i palmi e inspirò: “Padre nostro, che sei nei cieli...” Il dolore arrivò, milioni di volte più forte rispetto all'impatto che stava evitando. Due fitte alla schiena lo spinsero in avanti. Le ossa gli attraversarono la carne tra le scapole squarciandogli anche la pelle. Le budella gli si contorsero, si raggomitolò ed esplose in un urlo straziante. Un bagliore illuminò a giorno il vicolo, il demone portò le mani al volto per ripararsi la vista. Immediatamente tornò la notte per gli umani; ma non per Labal che, protetto e indebolito dalle spoglie mortali di Miriam, non riusciva a vedere. Stefano fluttuava a tre metri da terra, due luminose ali bianche si muovevano dolcemente alle sue spalle, un alone luminoso lo circondava facendo brillare
il Balteus borchiato d'oro che cingeva la tunica bianca e sosteneva il gladio da una parte e un pugnale dall'altra. «Abbandona la ragazza e combatti.» La voce del Santo riecheggiò potente nel vicolo. «Non sono qui per combattere» disse Labal mostrando un sorriso contorto. «Devo solo riferirti un messaggio. Non ti schierare, lascia che tutto segua il suo corso e vedrai che verrai ricompensato.» «Non cederò mai alle menzogne del tuo padrone.» Il demone digrignò i denti contorcendosi, persino la voce di Stefano gli procurava dolore. «Non devi cedere, devi solo continuare a fare quello che hai sempre fatto... nulla!» Il corpo della ragazza si inarcò portando il petto in avanti, rimase sospesa in aria un secondo e una nube nera la circondò. Ricadde a terra inerte: Labal non c'era più. Stefano piegò le ali e planò piano verso la giovane. Poggiò i calzari di cuoio sull'asfalto e si inginocchiò. Respirava ancora. Chiuse gli occhi e impose il palmo sulla fronte con impresso il crocifisso. Stava per morire. Il Santo si concentrò, ma non riuscì a capire dove stesse sbagliando, sentiva l'influsso di Labal, ma
sembrava molto più potente di quello che emanava il demone. Trafelato, si spostò di qualche passo, si accasciò e puntò l'indice a terra. Girò su se stesso tracciando una circonferenza su cui disegnò dei segni muovendo tutte e dieci le dita. I polpastrelli non toccavano nemmeno la superficie scura, eppure al loro passaggio comparivano dei simboli luminosi. Si alzò e giunse nuovamente le mani. Prima che potesse iniziare l'evocazione un calore tremendo scaturì dalla ragazza. Stefano le si gettò addosso, pregò che le fiamme si spegnessero, ma dalla bocca di Miriam uscivano dei lapilli incandescenti. Le afferrò la mano, ma questa si trasformò in cenere che gli scivolò tra le dita. Affranto, fece un passo indietro e rimase a osservarla mentre le fiamme, che scaturivano dall'interno del suo corpo, l'avvolsero. I capelli scuri avvamparono in un secondo. Divenne cenere. Miriam morì, lasciando due genitori che non le avevano mai fatto mancare nulla, un fidanzato che l'amava e tanti sogni che non si sarebbero mai realizzati. Ventidue ragazzi in pantaloncini attendevano il gesto dell'arbitro per correre verso il centro del campo. Ettore saltellava sulle
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punte, la maglia numero otto e lo sguardo risoluto. Il tempo era dei migliori: il sole era alto nel cielo terso e una leggera brezza smorzava il caldo dei primi giorni di primavera. Appollaiato su un albero, a distanza di sicurezza dalle bestemmie della tribuna, Stefano aspettava trepidante di vedere all'opera il ragazzo. Ma l'attesa maggiore riguardava l'arcangelo, evocato mentre le ceneri di Miriam non erano ancora volate via, che gli aveva detto che l'avrebbe annunciato quel giorno. Un corvo planò leggero e si appoggiò sul ramo affianco al suo. Stefano lo guardò torvo e questi rispose gracchiando una richiesta di cibo. «Vai a cercare Francesco, è lui che parla con voi.» Il fischio dell'arbitro diede inizio all'incontro. Il numero nove toccò la palla, l'undici la passò all'indietro verso Ettore, che con una finta sbilanciò un avversario. Alzò lo sguardo e vide un compagno che scattava sulla fascia. Il pallone volò preciso in quella direzione. L'otto avversario, incurante del fatto che il gioco fosse lontano, lo travolse facendolo volare all'indietro. L'impatto improvviso colse di sorpresa Ettore che non si riparò neppure e picchiò la testa sul terreno.
Stefano scattò in piedi e volò verso di lui, una decina di corvi seguirono il suo esempio e planarono in cerchio sul ragazzo svenuto. Da lontano si alzò il canto soave dei cherubini. Stefano si bloccò, emozionato, atterrò accanto alla porta e si poggiò contro il palo. La musica crebbe di volume, il cielo si illuminò di una luce intensa che potevano vedere solo lui ed Ettore che in quel momento si risvegliò. Il mondo intero era immobile. Una figura con ali nere discese dal centro di un cono luminoso che sembrava partire dal cielo. Era coperto da una leggera tunica azzurra che copriva il corpo scultoreo dell'arcangelo, entrambe le braccia nude mostravano i bicipiti scuri su cui erano impressi dei segni antichi. Alla vita portava una lunga spada argentata, sorretta da una cinghia di cuoio; ai piedi due sandali da cui partivano dei lacci che si intrecciavano fin sotto il ginocchio. «Ettore!» tuonò la voce dell'arcangelo. Il ragazzo si schiacciò contro il terreno. «In te scorre la grazia di Dio, egli confida nella tua saggezza e nel tuo coraggio. Una guida ti sarà inviata, e in esso dovrai riporre la tua fiducia.» Ci fu un bagliore accecante.
Ettore serrò gli occhi; quando li riaprì attorno c'erano decine di volti preoccupati. La testa gli girò, era confuso. Provò ad alzarsi ma gli mancarono le forze, svenne poco prima che la madre potesse raggiungerlo. «Soddisfatto?» L'arcangelo comparve accanto a Stefano. «Certo» rispose raggiante il Santo. «Ora devo fare la mia parte.» «Sai che così stai compromettendo il libero arbitrio del ragazzo?» «Non obbligherò nessuno a fare nulla. Starà a lui scegliere da che parte stare.» «Bene, anche perché quello è l'unico vincolo che avete. L'uomo dev'essere libero di peccare.» «E lo sarà.» Stefano abbassò lo sguardo, sapeva che quella scenetta l'avrebbe leggermente avvantaggiato, ma non si sentiva in colpa.«Uriel, Girolamo sostiene che la Lancia di Longino sia sparita.» L'arcangelo annuì. «Chi può essere stato?» «Non lo sappiamo, ma al Vaticano hanno le idee ben chiare.» «È stato Satana?» «Può essere, ma nei corridoi della Santa Sede dicono che potrebbe essere stato qualcun altro.» Stefano serrò il pugno. Temeva di sentire quelle parole. «Non possono accusare
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noi!» «E infatti non lo faranno.» «Eppure credete che sia così.» Uriel non rispose, ma era una cosa normale per gli arcangeli, anzi, lui dei sette era uno dei più loquaci. Un tuono fece vibrare la terra. Questa volta l'udirono persino gli uomini che si protessero la testa come se stesse cadendo il cielo. Uriel era sparito. «Sì mamma, se dovessi svenire ti avviso.» Ettore entrò in cameretta e, ancora vestito, si gettò sul letto. Chiuse la porta, ma le urla della madre lo raggiunsero lo stesso. «Sei uno stupido!» Il ragazzo sorrise, guardò l'ora, si sdraiò a pancia in su e giunse le mani. «Padre nostro...» iniziò a recitare. In un angolo della stanza Stefano aspettava il momento giusto per palesarsi. Per l'occasione aveva nascosto il gladio cercando di somigliare il più possibile all'iconografia classica. Era la prima volta che appariva a qualcuno e non aveva la minima idea della reazione che avrebbe avuto il ragazzo. «Santo Stefano, ti prego» disse il ragazzo dopo aver terminato la preghiera. «Fa che mio papà stia bene. Digli che gli voglio bene e che mi manca tanto.»
Stefano si alzò, strinse il più possibile le ali, che gli sbucavano comunque da dietro la schiena come due spade piumate, e andò verso il letto. «Proteggi la mamma e fa che io sia buono.» Il ragazzo alzò lo sguardo verso il Santo. Non era la prima volta che lo faceva, ma stavolta si interruppe. «Allora sei tu quello dell'apparizione?» Stefano rimase basito, non sapeva se essere contrariato per l'arroganza del ragazzo o contento per la conferma che aveva avuto in quel momento. Lui non era ancora visibile. «So che puoi parlare. Ti ho sentito altre volte, solo che non sapevo se ero pazzo o cosa.» Stefano si scosse, i suoi piani erano svaniti. Non avrebbe dovuto usare né il fumo né la luce, né tanto meno i cori angelici. «Sì, sono io colui che ha preannunciato l'arcangelo Uriel» disse con fare regale. «E chi è Uriel? Io conoscevo solo Gabriele e Michele.» Il Santo subì il colpo, non si aspettava tanta sfacciataggine. «Certo, quelli sono i maggiori, e non dimenticarti Raffaele, lui ci tiene molto; ma ce ne sono altri e ti assicuro che sono tutti e sette molto permalosi e altrettanto pericolosi.»
«Va bene, se dovessi rivederlo mi ricorderò il suo nome. Ma tu chi sei, e perché non hai più la spada?» Quel ragazzo era impertinente e diretto, addirittura troppo sicuro di se. «Io sono Santo Stefano, il Protomartire. E tu sei stato scelto per servire Dio nostro Signore, nel nome della Santa Trinità.» Ettore abbassò lo sguardo davanti alla solennità dell'annuncio. «Ho scelto di apparire così perché tu non ti spaventassi dinanzi allo splendore del Signore, che parla e ti comanda attraverso me.» Il ragazzo cominciò a singhiozzare, cadde sulle ginocchia e si fletté fino a toccare il pavimento con la fronte. Stefano pensò che forse aveva esagerato, gli si fece incontro poggiandogli la mano sulla schiena. «Alzati, non è davanti a me che ti devi prostrare» disse con un tono più “umano”. Ettore coprì gli occhi con i palmi e asciugò le lacrime. «Chiedo scusa per come ti ho trattato.» Stefano inarcò un sopracciglio, era mortificato. «È che temevo fossi la solita visione. È da un anno che ti vedo nella mia stanza e ormai sei quasi uno...» Si bloccò rendendosi conto che stava esagerando. «Cosa posso fare per servirVi?» «Verrai con me, sarai istrui-
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to al cattolicesimo e diventerai uno dei pilastri della nostra religione.» Il ragazzino barcollò. «Non credo di essere all'altezza, non voglio fare il prete, e comunque mia mamma non acconsentirà mai. Era papà quello religioso» disse Ettore senza avere il coraggio di alzare lo sguardo. Stefano si sedette sul letto, dovette aprire le ali per farlo e queste sfiorarono il ragazzo che si ritrasse sorridendo. «Penserò io a tua madre. Tu dovrai pensare solo all'addestramento. Non sarai un prete. Imparerai i dogmi e come difenderti dal Maligno.» Gli occhi di Ettore si illuminarono. «Sarà un campo di addestramento come quello di Percy Jackson?» chiese speranzoso. Stefano trattenne a stento un sorriso, durante le migliaia di trasmigrazioni dei pensieri era incappato in alcuni fanatici della serie. «No, dovrai studiare, e ci saranno regole ferree» rispose cercando di rimanere serio. Gli piaceva quel ragazzo. «Ho capito, una cosa tipo Harry Potter» ribatté deluso Ettore. Davanti a tanta ingenuità il Santo non poté trattenersi. Scoppiò in una risata come non faceva da secoli, e come non aveva mai fatto con un mortale.
Il ragazzo lo guardò perplesso «Posso farti un'altra domanda?» chiese fissandosi la punta traballante dei piedi. «Certo.» «Cos'è un protomartire?» Stefano rise ancora, non se ne rese nemmeno conto, ma ogni volta che lo faceva emanava una luce calorosa. «Ragazzo, hai veramente tante cose da studiare, ma...» Il Santo si accasciò, la mano corse alla spada e le ali si distesero arrivando a toccare il soffitto. Tese le orecchie, chiuse gli occhi e si concentrò: «Labal» sussurrò. «Ettore, nasconditi.» Il ragazzo si rifugiò dietro le ali candide, era impallidito, le mani gli sudavano e non riusciva a farle stare ferme. «Vieni fuori Labal» ordinò Stefano. Le foto alla parete, le ante dell'armadio, persino il letto iniziò a tremare. Fritz, il gatto nero di casa, schiacciato sotto il letto aveva la bocca spalancata ed emetteva un suono non udibile all'orecchio umano. La forza oscura che opprimeva la stanza era decisamente quella del demone, ma notevolmente più potente dell'ultima volta. La spada del Santo disegnò un semicerchio dorato in aria e si poggiò di punta sul pavimento. La porta si spalancò e apparve Agata, la madre di
Ettore. «Mamma» piagnucolò il ragazzo. Era nuda con un coltello in mano e il torace cosparso di incisioni autoinflitte che continuavano a sanguinare. Aveva gli occhi completamente neri. «Non preoccuparti, questa volta non fuggirò» La voce cavernosa del demone uscì dalla bocca della donna. «Lascia quel corpo Labal!» «Sei sicuro, vuoi che lo faccia?» Stefano vacillò, Agata non doveva morire. «Che strano, come mai sei così titubante?» lo canzonò il demone. «Dov'è finita la tua fede?» Stefano si alzò, sollevò il mento e camminò impettito verso il suo nemico. «Quella donna sarà martire e verrà accolta da Dio. Credi veramente di insinuare il dubbio in me?.» La luce che emanava crebbe di intensità, cancellando parte del buio che aveva portato Labal. «Forse in te no, ma il ragazzo cosa ne pensa?» Ettore, rannicchiato in un angolo, era scosso dai singulti causati dal pianto. «Chiediamo a lui se vuole che la madre muoia o se preferisce venire con noi da suo padre Stefano.» Il ragazzo si alzò di scatto e fece due passi in avanti, ma vedendo la madre si ritrasse inorridito
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«Nemmeno lui cederà alle tue menzogne.» Stefano si voltò e abbracciò il ragazzo. «Non credergli, tuo padre era un uomo buono.» Ettore sembrò acquisire un po' di coraggio, eppure non riuscì ad alzare lo sguardo verso il corpo della madre. «Sei sicuro che non vuoi venire con noi?» Il coltello si conficcò nella spalla della donna che urlo, con la sua voce. I pugni serrati di Ettore impallidirono. «Lasciala stare!» strillò. Il demone rise sguaiato interrompendo le urla. «Perché altrimenti?» digrignò i denti deformando il volto della madre. «Se mi uccidi tua madre muore, se me ne vado tua madre muore, hai solo una possibilità.» «Non dargli ascolto» intervenne Stefano. Ma il ragazzo aveva già perso la speranza, le braccia pendevano molli lungo il corpo gracile, lo sguardo era fisso sul pavimento. «Va bene.» «Ettore...» «Non ho altra scelta.» Dagli occhi del ragazzo scorreva tutta la sua disperazione. Andò verso il Santo e tese le braccia. Stefano si chinò e lo cinse, prima con le braccia, poi con le ali. «Verrò a riprendervi» sussurrò. «E per allora troverai un grande guerriero. Dobbia-
mo solo scegliere quale peccato più gli si addice. Sette peccati per quattro virtù, è solo una questione di obbiettivi.» L'abbraccio si sciolse. «Sono pronto» disse Ettore. A testa bassa raggiunse la madre, guardò la mano tesa verso di lui e storse il naso. Finalmente riuscì a guardarla in faccia. Le lacrime aumentarono, e non smise di piangere un istante, nemmeno quando con il coltello le trafisse il petto. Il demone urlò, Agata urlò, erano due entità separate. Santo Stefano ne approfittò e volò su Labal, con il gladio tese un fendente e gli staccò di netto la testa che cadde a terra senza emettere alcun rumore. Ma la vittoria fu effimera, a un passo da lui Ettore, inginocchiato sulla madre, le reggeva la testa e continuava a chiamarla. «Mamma» Agata non rispose. «Ti prego, fa qualcosa, salvala. Ti prego.» Stefano scosse la testa. Chiuse gli occhi e impose le mani sulla ferita al petto della donna. Lentamente i lembi frastagliati si avvicinarono, un attimo dopo non c'era nemmeno la cicatrice a ricordare l'accaduto. Percepì un sussulto alle sue spalle, Ettore ci credeva. «Ora viene il difficile» disse laconico il Santo. La sua attenzione si spostò sulla testa della donna, non voleva vederle fare la stessa fine di Miriam. Si concentrò e percepì nuovamente lo stesso blocco. Era potente, e in esso c'era il male di tutto il mondo, di un intera ge-
nerazione. “La Lancia di Longino, ecco da dove arriva questo potere” pensò. «Santo Stefano, io ti prego. Proteggi la mia famiglia...» La preghiera del ragazzo gli diede nuova forza, la luce che irradiava aumentò, ma nello stesso moento dalla bocca della donna uscì un lapillo, le fiamme stavano per sgorgare da dentro di lei. «Ti prego Signore, guida la mano Santo Stefano, donagli la forza.» La stanza divenne bianca, non c'erano pareti a delinearla. Il fuoco non avvampò la donna che si alzò lasciando a terra le proprie spoglie mortali. Ettore riprese a piangere, ma non di dolore; al fianco della madre c'era suo papà, sorridente. I genitori lo guardarono felici. «Sei il nostro orgoglio» dissero all'unisono. Le pareti tornarono e con esse lo scempio compiuto sulla madre. Ettore andò in camera e tornò con un lenzuolo per coprirla. Lasciò fuori solo la fronte della madre su cui si chinò. «Ti voglio bene mamma.» Santo Stefano, commosso, guardò il ragazzo. Aveva trovato una delle quattro virtù e sapeva che fine aveva fatto la Lancia di Longino. Avrebbe voluto esultare, ma sapeva che all'orizzonte c'erano nuvole molto più cupe di quelle che si erano appena diradate.
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S ka n Gregory
La nuda lampadina oscillava lenta, dando vita a ombre sinistre lungo le pareti della soffitta impolverata. «Forte!» disse Sergio, mentre con rapidi colpi della mano toglieva un manto di polvere vecchio almeno cinquant’anni dal coperchio di un baule di legno scuro. «Secondo te cosa ci sarà qui dentro?» Laura si accovacciò vicino al fratello, guardandosi intorno per evitare di toccare qualcosa che potesse sporcarle i jeans. «Secondo me, un sacco di vecchi vestiti puzzolenti di naftalina» pronosticò. «Invece io dico che c’è qualcosa di fichissimo!» «Tipo? Una mappa del tesoro? Un sacchetto di diamanti? L’ingresso a Narnia?» Sergio le mostrò la lingua, mentre infilava le dita sotto il coperchio e lo sollevava, spandendo nel contempo una nuvola grigiastra di polvere. «Tu non hai fantasia, sei troppo vecchia. Razza di guastafeste… Oh, guarda!» Laura si sporse in avanti con un paio di colpi di tosse. «Caspita!» esclamò. «Niente meno che un mucchio di cartacce ingiallite…» «Non capisci niente. Ma come fai ad avere la media del nove? Secondo me fai gli occhi dolci al maestro, ecco
cosa…» «Mollala, scemo». «Sì, non c’è altra spiegazione. Sei troppo ignorante…» «Ti ho detto piantala, nanetto. Hai otto anni…» «Quasi nove!» «…otto anni, e ti credi chissà chi...» «E guarda che tu ne hai solo uno più di me, genio». «Ne ho le scatole piene. Io me ne torno di sotto, la nonna ha detto che ci avrebbe dato latte e biscotti». «No, aspetta! Sai che non vuole che io stia qui da solo… Dai, fammi vedere cosa c’è qui dentro…» «Cinque minuti, okay?» «Va bene! Allora, vediamo… ehi, questi sono i diari di guerra del bisnonno!» «Davvero? Da' qua» Laura prese un quaderno ingiallito dalle mani del fratellino e iniziò a sfogliarlo. Le pagine erano dense di scrittura, una calligrafia curata e svolazzante che lei stentava a decifrare; qua e là, fotografie di soldati e cartoline dei luoghi dei combattimenti. «Ehi, meno male che non te ne fregava niente» si lamentò Sergio, e continuò la sua perlustrazione. «No! Non ci credo… guarda qui!». Alzò le braccia e si poggiò sulla testa un elmetto di ferro che, decisamente troppo grande per lui, scese a coprirgli del tutto gli occhi. «Dai, fa’ vedere» disse Laura, e si sporse per prenderlo. «No, questo è mio! Tu leggi i diari, una cosa per ciascuno».
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«Ma dai, fammi solo vedere!» «No, no e no». Sergio spinse ancora più in giù l’elmetto con le manine, deciso a tenerselo a dispetto delle brame della sorella. «Cavoli, Sergio, dai! Lo dico alla mamma!» «La mamma lavora, oca!» «E allora alla nonna!» «L’ho preso prima io!» «Ma io sono più grande, decido io!» «Molla!» Sergio si alzò in piedi, pronto a fuggire con il suo bottino, ma Laura gli fu subito addosso; lui allora diede uno spintone alla sorella, che scivolò sul quaderno del bisnonno, rimasto a terra, e cadde all’indietro, trascinando con sé l’elmetto e scaraventandolo verso la parete alle sue spalle. Ci fu un rumore forte di metallo contro metallo, e l’elmetto rotolò verso un angolo buio della soffitta. «Ecco, guarda che l’hai rotto, stupida…» si lamentò Sergio. «Ma non dire scemate, quei cosi riparavano dai proiettili... figurati cosa può avergli fatto un voletto come quello… piuttosto, ti conviene correre perché appena mi alzo da qui sarai tu a romperti…» «Hiii, guarda! Forte!» disse Sergio, ignorando le minacce della sorella. Laura si alzò, le braccia già protese verso il collo inerme del fratellino; ma guardando a terra si bloccò con una
smorfia di disgusto. «Bleah! Ma che schifo!» Mi sono perso. Non ce la farò mai. Contano su di me, ma io li deluderò, lo so. Che dolore. Sono stato ferito, perdo sangue. Maledetti tedeschi. Non posso fermarmi… ma no, devo. Devo riposare, forse se riprenderò fiato riuscirò a ritrovare la strada. Ecco, laggiù. Atterrerò laggiù. E che il cielo mi assista.
«Addirittura che schifo? Ma dai! È solo un uccello». «Sì, ma è stecchito! Mi fa un senso ‘sto scheletrino, è inquietante…» «Forte!» ripeté Sergio. Si guardò intorno, raccolse da terra un pezzo di legno e iniziò a pungolare il cadavere. «Piantala, lascialo lì. Chissà che malattie porta…» «Ma che malattie, se è morto cosa vuoi che faccia. Però io prima non lo avevo mica visto…» «Neanche io. Mi sa che era lassù». Laura indicò un tubo di metallo che si perdeva tra le travi del soffitto. «Cos’è?» «Credo sia il tubo del caminetto. Sai quello murato che c’è nel salotto? Vedi, qui c’è questo buco tappato, probabilmente una volta il tubo scendeva fino sotto. Si vede che quell’affare era incastrato là e l'elmetto del bisnonno picchiando contro il tubo lo ha fatto cadere». «Forte!»
«Ma a scuola ti insegnano qualche altra parola oltre a “forte”?» Sergio le rispose con una pernacchia. «Chissà da quanto tempo stava lì?» le chiese poi. «Non ne ho idea. Su, lascialo dov’è. Vado a dirlo alla nonna, ché lo butti via». «Aspetta! Guarda qui. Secondo te questo cos’è?» Ho freddo. Sto tremando. Laggiù c’è un comignolo, vedo del fumo. Forse potrò trovare un po’ di calore in attesa di ripartire. Che male. . .
«Cos’è cosa?» «Questo affare rosso… No! Non ci credo! Sai cos’è questo? È un piccione viaggiatore! Come nel film di Valiant, ti ricordi?» Sergio allungò una mano e prese da una delle zampette del volatile un piccolo cilindro color mattone. «Che…» «..schifo, lo so. Sembri un disco rotto, Laura. Questo invece, è troppo…» «…forte, anche tu sembri un disco rotto, piattola. Su, già che l’hai preso, adesso aprilo». Sergio tirò via il tappo con le manine tremanti di emozione. «Ci mettevano i messaggi cifrati, qua dentro» le spiegò. «Lo so, ho visto anche io il film…» «Questo piccione qui dev’essersi perso e non ha mai conse-
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gnato il suo messaggio. Pensa, forse la guerra sarebbe finita in maniera diversa se ce l’avesse fatta. Chissà che piani di battaglia contiene…» Il bambino estrasse con cautela un foglietto arrotolato. Lo spiegò e lo appoggiò al pavimento. La carta scricchiolava minacciando di spaccarsi ma lui la teneva con delicatezza. «È in inglese» commentò Laura. «Per forza, erano gli inglesi che usavano i piccioni…» «Lo so, voglio dire che non è cifrato. È un testo normale» «Che c’è scritto?» «Non so… a parte qualche parola qua e là non ci capisco niente». «Ignorante… continuo a non capire la tua media del nove…» «Senti, a parte che sono in quarta elementare, mica puoi pretendere miracoli. Ma poi voglio dire che non riesco proprio a leggere. È una calligrafia strana, un po’ come quella del bisnonno. Ci sono tutti ‘sti ghirigori, guarda qui. Questa credo sia una D maiuscola, ma con tutti quegli svolazzi mica ne sono sicura». «Portiamola alla nonna, magari lei ci riesce». Il fumo è fastidioso, ma almeno sento un po’ di calore. Sono tanto, tanto stanco. Ho percorso tanti chilometri, e poi. . . quel campo di battaglia. . . così tanti uomini sdraiati sull'erba, così tanto rosso sotto di loro. . . e i proiettili. . . sono stato fortunato, mi hanno colpi-
to alla zampa. Poteva essere l'ala, e allora. . . Coraggio, Gregory. Ce la puoi fare. Con un po’ di riposo potrai ripartire. Anche se non so se riuscirò a ritrovare la rotta. L’ho persa tempo fa, e sento di essere così lontano…
«Tu lo sai l’inglese, vero nonna?» «Sì. La mamma è più brava, ma credo di potermela cavare. Però, è incredibile quello che avete trovato. Chi l'avrebbe detto... Intanto volete latte e biscotti, tesori?» «No, dopo! Prima leggi, dai» la incalzò Sergio, saltellando davanti al tavolo della cucina. «D’accordo, fammi cercare gli occhiali. Allora» disse, dopo essersi seduta. «Comincia con Dear John … Caro John. È una lettera. Allora, fatemi dare prima una lettura veloce». Sono qui da un po’. Ora devo trovare la forza di ripartire, prima che faccia buio. Un momento… cos’è quello?
Gli occhi della nonna erano lucidi. «Che c’è, nonna?» chiese Laura. «Allora, è un piano di battaglia? Tattiche di guerra, obiettivi da attaccare? Cosa?» «Non c’entra nulla con la guerra» disse la nonna. «O meglio, la guerra c’entra, ma non è un messaggio bellico. È solo… un messaggio». «Uffa… speravo in qualcosa di più fico…» si lamentò Sergio.
No! Un falco… spero non mi veda… dannazione, mi ha visto. Devo volare subito via di qua! No! Lasciami andare, ho una missione da compiere, non posso essere il tuo pasto! L’ala, no! Prima la zampa, ora l’ala destra… dannato uccello… sto cadendo… devo farcela… il camino, sto cadendo nel maledetto camino… è così buio qui… e così stretto… sono incastrato, non posso muovere l’ala sana… come potrò uscire… oh no… il fumo… no, il fumo mi sta soffocando, non riesco a respirare… non riesco… Lucy… no…
«”Caro John”» lesse la nonna, «”dove sei? Mi hanno detto che sei stato dichiarato disperso in Italia… la mamma dice che equivale ad affermare che sei morto, di non vivere di inutili false speranze. Ma io so che non è così. Ho preso Gregory. Ricordi, quando addestravamo i nostri piccioni lui ti trovava sempre, ovunque fossi. Era il nostro gioco, ma ora è l’unica speranza di farti giungere le mie parole. Se papà o il colonnello Foster lo sapessero finirei in grossi guai, centinaia dei nostri uccelli sono stati abbattuti in missione, non avrei mai dovuto usarne uno, e uno dei migliori, per scopi personali. Ma quello che devo dirti è troppo importante. Ricordi la sera prima della tua partenza? Io non la dimenticherò mai. Non ti dimenticherò mai… anche se fosse vero che tu… ma no, non voglio crederci, non devo crederci, per il
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bene del nostro bambino. Sì, John. È questo che ti voglio dire. Sarai padre, amore mio. Ora capisci perché ho dovuto usare Gregory? Perché è così importante che lui ti trovi e ti consegni questo messaggio? Se sei vivo, e io so che tu lo sei, sono certa che Gregory ti troverà. Ti amo. Ricorda che ti aspettiamo. Lucy”». «Uh, che roba sdolcinata» disse Sergio. «Va là, a questo punto fai che darmi latte e biscotti». Scese dalla sedia e andò in bagno per lavarsi le mani prima della merenda. Laura invece aveva perso l’appetito. Guardava la lettera e sentiva nel petto una strana sensazione mai provata; un vuoto dolceamaro, un senso di nostalgia che le vibrava nell'anima. Anche la nonna lo sentiva, lo capiva dai suoi occhi. Pensò a Lucy. Al suo piccolo. Chissà se era ancora vivo? Chissà se avrebbe potuto trovarlo, magari con internet sarebbe persino stato possibile. Avrebbe chiesto aiuto a mamma e papà. Poi pensò a John e una lacrima solitaria le scese lungo la guancia. Chissà se era comunque ritornato a casa. Se aveva avuto la sorpresa di un bambino, o una bambina, che aveva gli occhi del suo stesso colore. O se invece Gregory era morto invano, portando un messaggio di speranza a un uomo a cui ormai ogni speranza era stata per sempre negata.
S ka n
AMAZING MAGAZINE S k a n n a to i o XXXV I I M a r zo 2 0 1 5
LE SPECIFICHE Lunghezza (globale). Minima: 5'000 caratteri. Massima: 25'000 caratteri (spazi inclusi, escluso il titolo). Genere: Horror, giallo, fantastico e relativi sottogeneri. Particolarità: a) Questo mese dovrete scegliere uno di questi due temi: 1) Quello che amo di più... 2) Quello che odio di più... La libertà di interpretazione è massima, prendete uno di questi due spunti e fatene ciò che vi pare, basta che ne facciate il tema portante del vostro racconto e che la frase "quello che amo di più" oppure "quello che odio di più" (a seconda di quale scegliete) compaia nel brano (potete modificarla a livello di tempi verbali o persona del narratore a seconda della vostra narrazione, ma la frase dev'essere questa e mantenere il proprio senso).
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S ka n La prova
«Ecco, ci siamo persi…» «Ma va', stai tranquilla. Guarda là in fondo, la vedi la torre?» Stefania cercò di aguzzare la vista, ma tutto ciò che riusciva a vedere erano ettari di campi ricoperti d’acqua. «Sarà» disse, prendendo un CD dal cruscotto e infilandolo nella fessura dell’autoradio, «ma io te l’avevo detto di usare il navigatore. A cosa serve avere lo smartphone se poi lo usi solo per telefonare?» «E per farti le foto, amore mio» disse Pietro, lanciandole un’occhiata maliziosa. «Guarda la strada, non me, salame» rise lei. «E di quelle foto non voglio parlarne più. Le hai cancellate, vero?» «Ma sì, tranquilla, se ti dico che faccio una cosa…» «Mi voglio fidare» disse Stefania, pensando però che avrebbe controllato alla prima occasione. «Se almeno il mio non fosse in riparazione, uffa…» Posò una mano sulla borsa che portava a tracolla; si sentiva persa senza il suo cellulare. Le dita sfiorarono attraverso la stoffa il contorno del tablet che Pietro le aveva regalato per Natale. Una
meraviglia, era rimasta senza fiato quando aveva aperto il pacchetto; ma ora era inutile. Figurarsi se lì, in mezzo al nulla, c’era uno straccio di hotspot Wi-Fi… «Cacchio… se avessi qui il mio S3 magari ora non saremmo a, aspetta, c’è un cartello… San Gervasio, frazione di… boh, non ho fatto in tempo a leggere». «Oh, quante storie! Per una gita fuori porta a cinquanta chilometri da casa dovevo portarmi dietro l’armamentario da esploratore? Dai, te l’ho detto, so benissimo dove siamo e non…» «Attento!» La donna era sbucata come dal nulla. Stefania vide i suoi occhi diventare immensi alla vista della loro auto sempre più vicina. Pietro sterzò con foga, imprecando, e riuscì a frenare appena prima che il muso della Opel sbattesse contro un albero. «Cazzo!» urlò, e scese dalla vettura. Stefania lo seguì a ruota, si voltò e vide la donnina in piedi, tremante di paura ma incolume. Dio ti ringrazio… «Signora, si sente bene?» «Ma cosa cazzo le salta in mente?» stava sbraitando Pietro. «Si sbuca così di botto su una strada, vecchia idiota?» «Pietro, lascia stare…» «Lascia stare un paio di palle! Sai se la tiravo sotto, in che casini finivo? Quando basta controllare
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prima di attraversare. Cazzo, passeranno due macchine al mese per questa strada di merda, vuoi dirmi che non te ne accorgi se arriva qualcuno...?» «Pietro, basta! Non vedi che è terrorizzata?» disse lei, poi si rivolse alla donna. «Signora, non lo ascolti, è solo che si è spaventato. Insomma, in effetti lei è sbucata in mezzo alla strada… comunque mi dispiace, ha bisogno di qualcosa? Devo chiamare qualcuno?» La donna la stupì con un sorriso. «Cara, ti ringrazio. Ma vorrei solo andare a casa e sedermi…» «Ma certo. Vuole che l’accompagni?» «Oh, no, tesoro, stai tranquilla. Abito solo laggiù, vedi?» «Ma è sicura?» «Certo. E, figliolo, hai ragione, ho sbagliato. Mi dispiace tanto… Oh, ma come sono maleducata. Anche voi vi siete spaventati. Non volete un caffè o un bicchiere d’acqua?» «No, grazie» tagliò corto Pietro. «Io ho un po’ sete» disse Stefania. «E dovrei anche andare in bagno» aggiunse sottovoce. Lui la guardò irritato. «Okay, cinque minuti». «Grazie, amore» gli disse, e aggiunse a mezza voce «voglio solo controllare che stia davvero bene. Non mi
va di avere una vecchietta sulla coscienza…» «Tu sei troppo buona, io te l’ho sempre detto». La casa era graziosa, la tipica abitazione di una donna sola di una certa età. Porcellane, centrini di pizzo su ogni superficie; Stefania pensò che era come essere a casa di sua nonna, non fosse stato per due volpi impagliate poste su una cassapanca. «Mio marito faceva il cacciatore» disse la donna, notando forse la direzione del suo sguardo. «A me non sono mai piaciute molto quelle… cose, mi incutono un certo timore. Ma sono un suo ricordo, sapete. Lui è mancato tanti anni fa, Dio l’abbia in gloria. Ecco i caffè. Sono fatti con la moka, mi dispiace». «Andranno benissimo, signora» disse Stefania, e mise una zolletta nella tazzina. Mentre beveva un caffè con un retrogusto un po’ troppo metallico, continuò l’esplorazione del salotto e notò alcune fotografie di scolaresche dentro una vetrinetta. «Facevo l’insegnante, una volta» spiegò la donna. «Mi piaceva così tanto. Non c’è niente che io reputi importante come una sana istruzione». Il suo volto si rabbuiò. «Poi ci sono stati problemi burocratici e ho dovuto smettere…». Le mani si strinsero a pugno. «La cosa che odio di più
è… oh, figliolo, non ci ho pensato, vuoi un amaro per mandar giù il caffè?» Pietro scosse la testa. «No, grazie. Sa, devo guidare. Anzi, Stefi, sarebbe meglio andare». Lei fece per alzarsi, ma la donna le posò con delicatezza una mano sul braccio. «Di già? Non volete fermarvi ancora un po’?» «Beh, ecco, veramente noi…» «Avete ragione, vi chiedo scusa. Dovete andare, certo. Siete stati fin troppo gentili. È che, sapete, vivo qui da sola, non posso mai chiacchierare con nessuno…» «Certo il paesino è davvero piccolo» ammise Stefania, «ci saranno quattro o cinque case in croce. Quanti abitanti fa?» «In pratica ci vivo solo io». «Davvero?» «Sì. Fino a qualche anno fa avevo due vicini, qui, nella casa accanto. Ma se ne sono andati. Ora restiamo solo io e il vecchio Basetti, nella cascina là in fondo. È lui che ogni tanto, quando va in paese, mi porta la spesa. Sapete, detersivi, medicine… caffè. Tutto quello che non posso produrmi da sola». «Ma non le viene voglia di trasferirsi?» «No, sto bene qui. Ho il mio orto, le mie galline, la mia mucca. Me la cavo. Solo ogni tanto mi prende un
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po’ di solitudine. Col Basetti non ci parlo, se non per necessità. È un po’ strano… girano certe voci, sapete? Sono spariti dei ragazzi da queste parti, negli ultimi anni. Gente foresta, che passava di qua. All’inizio si sospettava di lui, ma non si sono mai trovate prove. Chi lo sa? Comunque, finché mi fa la spesa, mi accontento». «Da brividi…» disse Stefania. «E voi, invece? Ditemi un po’, che fate di bello nella vita?» Stefania sentì Pietro sbuffare. In effetti aveva ragione, dovevano andare. Anche lei un po’ si sentiva a disagio, ma quella poverina le faceva pena. Cinque minuti, pensò, guardando il suo moroso negli occhi e sperando che il messaggio gli arrivasse. Lui alzò le spalle e sorrise rassegnato, tirando fuori dalla tasca il cellulare. Lo sentì lamentarsi sottovoce di non avere campo "in questo buco di merda". «Studiamo all’università» disse lei, sperando che la donna non lo avesse udito. «Davvero? Bravi, ragazzi. E cosa studiate?» «Lui informatica, io scienze della comunicazione». «Mi fa piacere. E andate bene?» «Beh, direi di sì…» «Bene, bene. Allora dovreste essere facilitati. Sarà una passeggiata per voi».
La donna si alzò e si avvicinò a una credenza. «Intende… il nostro futuro? Sì, studiando dovremmo avere più possibilità, anche se al giorno d’oggi…». «No, mia cara. Intendo la prova. Se siete studiosi sarà facile per voi. Anzi, solo per te. Lui mi sembra poco collaborativo». Così dicendo si voltò. Nella mano destra aveva una grosso bastone di legno. Stefania rimase bloccata a quella vista. Aprì la bocca per urlare, ma la donna fu più veloce. Un istante dopo il randello colpì la nuca di Pietro che, distratto dal telefonino, non aveva ascoltato l’ultimo brandello di conversazione. Il suo volto sbatté con violenza sul marmo del tavolo e il telefono scivolò sul ripiano, finendo a terra. Troppo tardi, Stefania riuscì finalmente a gridare. Si alzò dalla sedia e fece per correre, ma il bastone le arrivò tra le caviglie facendola inciampare. Cadde a terra e fu solo per un miracolo se non andò a sbattere la testa contro il termosifone sotto la finestra. «Coraggio, cara» disse la donna, «vieni con me». La prese per un braccio e la condusse lungo il corridoio. La stanza era piccola e soffocante. L’unica finestra era sbarrata e tutte le pareti erano invase da scaffali stracolmi di libri, cianfrusaglie e altri animali impagliati. Al centro della stanza campeggiava un tavolo di legno scuro e spesso, con sopra alcuni fogli, un portapenne e una piccola lampada.
«Siediti, mia cara». La donna la fece accomodare su una sedia che accostò al tavolo, poi le si mise di fronte. Stefania si rese conto che non era così vecchia come le era sembrata. Ora teneva la schiena ben dritta e anche gli occhi apparivano più aperti e svegli. «A proposito, mi sono resa conto che pur con tutte le chiacchiere non ci siamo presentate. Il mio nome è Rosa. E tu, cara? Come ti chiami?» «Stefania» sussurrò lei. Non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di Pietro che stramazzava sul tavolo. Chissà come stava? Aveva ripreso i sensi? Ma soprattutto, perché questa Rosa lo aveva colpito? Tutte domande cui anelava ma di cui temeva la risposta. «Ti starai chiedendo perché ti ho portata qui. Niente di cui preoccuparti, tesoro. Voglio solo verificare che la tua istruzione sia adeguata. Da quando ho dovuto abbandonare l’insegnamento mi sono sentita piuttosto inutile. Sai, prima formavo giovani menti, ma poi… mi hanno sbattuta in quell’orrido buco per due anni, solo perché ho cercato di imporre un minimo di disciplina. Hai idea di quanto siano pigri i ragazzi? Di quanta fatica ci voglia per insegnar loro a imparare? Hai capito bene, insegnare a imparare. Non basta snocciolare nozioni e far sì che loro le recepiscano. Devono capire le regole del gioco, o non saranno mai in grado di farsi strada nella vita. «Ma sto divagando, scusami. Ti stavo spiegando perché sei qui. È semplice. Dovrai solo dimostrarmi di aver studiato, tutto qua.
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Vedi» disse, prese i fogli e li capovolse, «qui ci sono cinquanta domande di cultura generale; ne troverai in particolar modo di storia e letteratura, perché erano quelle le mie materie. Ma anche di geografia, chimica, matematica… La regola è semplice. Se risponderai correttamente alle domande, tu e il tuo fidanzato sarete liberi di andare». È pazza… Stefania continuava a ripetersi quelle due parole all’infinito. Due anni in quell’orrido buco … quindi era stata in prigione. Dio mio aiutami. Il terrore le attanagliava le membra e il cervello. E questa pazza furiosa pretendeva davvero che lei si sottoponesse a un test in quelle condizioni? «E se… se non ce la facessi?» chiese con le lacrime agli occhi. Rosa le sorrise e uscì dalla stanza. «Hai un’ora» le disse, poi si chiuse la porta alle spalle. Stefania si alzò dalla sedia e corse alla finestra, con l’inutile speranza di riuscire ad aprirla. Sentì allora un peso sulla spalla sinistra e si rese conto di avere ancora la borsetta a tracolla. La pazza non gliel’aveva tolta. Per un istante il cuore le si gonfiò di speranza, salvo accasciarsi subito dopo al ricordo del suo cellulare fermo in assistenza. E comunque Pietro aveva detto di non trovare segnale, quindi sarebbe forse stato inutile in ogni caso. Cercò comunque di staccare le assi dalla finestra, perché in fondo ci doveva pur provare. Ma rinunciò presto. Tornò al tavolo. Prese i fogli con le domande e iniziò a dare una
scorsa. Le prime erano piuttosto facili. La data dello scoppio della Rivoluzione Francese, l’enunciazione del Teorema di Pitagora, la capitale del Massachussets. Prese una penna e iniziò a stilare le risposte corrette. Se non c’era una via d’uscita, tanto valeva stare al gioco. E pregare. Arrivata alla seconda pagina, però, le cose iniziarono a farsi più complesse. Elencare almeno quattro esponenti del Verismo italiano.
Certo, lo aveva studiato. Ma in quel momento le saltavano alla mente solo i nomi di Verga e De Roberto. Chi altri c’era? Doveva scriverne almeno quattro, due non sarebbero certo stati sufficienti. Rosa l’avrebbe considerato un errore vero e proprio? E se sì, qual era la sua tolleranza? Cosa intendeva di preciso con "rispondere correttamente"? Stefania andò nel panico. Più si sforzava di ricordare, più la sua mente si chiudeva. Passò alle altre domande, ma le sembrava di non riuscire nemmeno a coglierne il significato. Poi si ricordò della borsa. Il suo cellulare non c’era, ma il tablet sì. Internet e un possibile contatto con l’esterno erano fuori discussione, certo, ma forse avrebbe avuto modo di rispondere correttamente a tutte le domande. Prese il tablet, lo accese e fece scorrere il dito fino a trovare l’applicazione di Wikipedia offline; l’aveva scaricata tempo fa e non l’aveva mai usata. Aveva persino pensato di disinstallarla, ma alla fine se n’era sempre
scordata. Per fortuna. Digitò Verismo nel campo di ricerca ed ecco l’elenco completo. Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Emilio De Marchi, Matilde Serao, Grazia Deledda.
Ne volevi quattro, brutta stronza, eccotene sei.
Proseguì così per tutte le altre domande, anche per quelle a cui in realtà avrebbe saputo rispondere da sola. Scrisse l’ultima risposta, posò la penna e ripose il tablet nella borsa. Restò seduta, guardandosi intorno. Un gufo, una donnola e un altro rapace, forse un falco, la osservavano dagli scaffali di fronte. Si ricordò di una lezione di critica cinematografica, l’anno prima, sulla sequenza di Psycho in cui compaiono gli uccelli impagliati, anticipazione della condizione della madre di Norman e indizio sul carattere predatorio del protagonista. Con un brivido si rese conto di essere finita in una versione differente ma altrettanto minacciosa del Bates Motel. In quel mentre la porta si aprì e Rosa comparve sull’uscio, il bastone stretto in una mano. «L’ora è passata. Hai finito?» Stefania annuì. «Molto bene. Prendi i fogli e vieni con me». Era di nuovo nel salotto. Stavolta, però, una corda le imprigionava le braccia contro lo schienale della sedia. Pietro, ancora privo di sensi, era sdraiato su un piccolo divano, legato mani e piedi. Il suo petto, pur impercettibilmente,
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si muoveva. Rosa sedeva al tavolo. Aveva inforcato un paio di occhiali e teneva in mano una matita bicolore, da un lato blu, dall’altro rossa. Stefania non ne vedeva una da anni, da quando frequentava le elementari. La donna scorreva il testo sui fogli annuendo piano. Finalmente giunse al termine, tolse gli occhiali e guardò Stefania con aria soddisfatta. «Devo farti i miei complimenti. Nemmeno un errore. Brava». Stefania guardò il divano con un briciolo di speranza nel cuore. «Allora… possiamo andare?» «Ancora un istante. Hai passato la parte teorica, ora devo controllare quella pratica». «Cosa…?» Rosa prese un telecomando e accese il televisore. Era un piccolo schermo piatto, niente di eclatante ma piuttosto moderno. Per una manciata di secondi il salotto si riempì della voce di Giorgio Mastrota che consigliava l’acquisto di una favolosa batteria di pentole. Poi lo schermo mostrò la libreria in cui lei aveva affrontato il test di Rosa. Il tavolo era vuoto. Stefania vide se stessa cercare di togliere le assi dalla finestra e tornare a sedersi. «Ci dovevi provare, vero?» commentò Rosa con un sorriso al cianuro. «Comunque, in prigione si scoprono cose interessanti, sai? La mia compagna di cella gestiva con il figlio un’azienda di impianti di videosorveglianza». Gli animali… pensò Stefania, mentre il suo doppio in televisione aveva iniziato a rispondere alle prime domande.
«Per ora mi piace quello che vedo» commentò Rosa. «Intanto possiamo chiacchierare un po’, se ti va. Per esempio, vuoi sapere qual è la cosa che odio di più al mondo? L’ignoranza, diresti tu, vero? Ma sbaglieresti. Avevo anche io i miei studenti preferiti. Molti insegnanti lo negano, ma dai, capisci anche tu che l’essere umano è fatto per amare qualcuno più di altri. I sentimenti che proviamo non possono essere uguali per tutti. Comunque, c’era questo ragazzo. Si chiamava Luciano. Era davvero bravo, media dell’otto in tutte le materie. Io ormai quasi non gli correggevo più i compiti in classe, tanto sapevo che sarebbero stati ben fatti. Poi un giorno… mi sono resa conto che mi aveva preso in giro per anni. Copiava, il disgraziato, sai? E dire che mi ero sempre tanto prodigata per far capire loro quanto fosse stupido e inutile imbrogliare. L’ho visto io. Teneva il libro sotto il banco e copiava. Non so come avesse fatto a prendermi per il naso tutto quel tempo. È stato questo a farmi saltare i nervi. Io mi ero sempre fidata delle sue capacità, lo avevo portato in palmo di mano. E lui invece si era preso gioco di me. Sempre. Non ci ho più visto. Mi sono avvicinata al suo banco e l’ho colpito. Forte. Gli ho fatto sbattere quel suo muso bugiardo contro il banco. Ho sentito il rumore del naso che si
spaccava. I suoi compagni si sono messi in mezzo ma ho ancora fatto in tempo a sollevargli il viso per i capelli e schiaffeggiarlo un paio di volte. E ho goduto nel farlo, perché se lo è meritato. Mi è costato due anni di galera e la radiazione dal corpo insegnanti, ma lo rifarei. Perché quello che odio di più è la disonestà, il sotterfugio. Il tradimento ». Proprio mentre pronunciava quelle parole, la Stefania del video prese il tablet dalla borsa, trasformando le gambe di quella in salotto in gelatina. «Oh, cara… male, molto male. Alla fine ci sei cascata anche tu». Rosa si alzò, continuando a guardare il televisore con aria di disapprovazione. «Io… mi dispiace… senta, me ne faccia fare un altro, giuro che questa volta non…» «Balle!» urlò Rosa. «Parole al vento, stupide e inutili. Lo faresti di nuovo, e ancora e ancora. Quelli come voi godono a farsi strada nel mondo con l’imbroglio, massacrano la gente onesta e la denigrano e la distruggono e la calunniano perché non sopportano di vederla lottare anima e corpo per la verità. Mi fate schifo, voi e la vostra saccenteria. Ti ho lasciato la borsa perché sapevo che se dentro ci fosse stato uno di quei vostri aggeggi ne avresti approfittato. E avevo ragione. Bugiarda disonesta!». Stefania sentì dei mugugni e si voltò verso il divano. Pietro si stava svegliando. «Pietro!» gridò con quanto
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fiato aveva in gola. Cercò di alzarsi dalla sedia ma Rosa la spinse all’indietro così forte da farla schiantare a terra gambe all’aria. Sentì Pietro urlare. Il tavolo le bloccava la visuale e non le permetteva di capire cosa stesse succedendo. Chiamò più volte il nome del suo ragazzo, mentre le lacrime e la paura le ottenebravano vista e pensieri. Poi Pietro smise di gridare. Stefania vide qualcosa muoversi sul pavimento, qualcosa di rosso. Una macchia che si allargava sempre più. La comprensione la devastò. Sentì l’impulso di urlare ma dalla sua gola uscì solo un verso strozzato. Un altro movimento. Una scarpa nera passò sopra la macchia sul pavimento sangue… il sangue di Pietro… lasciando impronte cremisi che si avvicinavano sempre più. Stefania alzò lo sguardo. Rosa incombeva su di lei. Schizzi di sangue le costellavano il viso come efelidi. Gli occhi rilucevano di follia mentre le mani si alzavano sopra la testa, reggendo il bastone, lo stesso di prima. Solo che adesso era rosso. Mentre il bastone calava verso il suo viso, finalmente Stefania riuscì a urlare. Ma nessuno poteva sentirla.
S ka n Temporale
Il rombo del tuono fece scoppiare a piangere la piccola Lisa, di appena due anni. A pochi metri di distanza, suo fratello Devin scrutava il cielo dalla finestra. La loro casa si trovava in collina, un po' isolata dal resto del villaggio. Dalla finestra della sala si poteva scorgere la valle, la sconfinata distesa di case e edifici che era Namirka, capitale dell'impero e, alle spalle della città, le Montagne Blu. E, sopra le montagne, nubi scure attraversate da fulmini. Non era ancora metà pomeriggio, ma il cielo era scuro come se il sole fosse già tramontato. Con un sospiro, la nonna prese in braccio Lisa e cercò di consolarla. “Anch'io ero così stupido da piccolo?” chiese Devin. La nonna gli lanciò un'occhiataccia. “Credi che sette anni ti bastino per considerarti grande? E comunque, non vedo cosa ci sia di stupido nel comportamento di tua sorella.” “Ha paura del temporale” rispose Devin, continuando a guardare fuori dalla finestra. “Ma i fulmini sono lontani, sulle Montagne Blu.”
“Le Montagne Blu sono la dimora degli dei!” sbottò la nonna. “E quando scoppiano temporali improvvisi proprio lì sopra c'è sempre da avere paura, perché è segno che Leida sta litigando con Umut.” Cominciò a rivolgersi a Lisa, con il tono in cui si racconta una fiaba. “Vedi, piccola, Leida è la Signora delle Tenebre; secondo alcuni, è anche la più bella di tutte le divinità, più ancora di Ygra dalla Pelle Splendente. I suoi capelli sono lunghi e neri come la notte, i suoi occhi blu scuro, la pelle perfettamente bianca, e indosso ha sempre un lungo vestito scuro. Pensa che basterebbe un piccolo frammento del suo vestito, o un suo capello, per portare l'oscurità più totale in tutta la nostra casa. Ma lassù, in cima al Monte del Cielo, non c'è l'oscurità totale, perché a contrastare i poteri di Leida c'è suo fratello Umut, Signore della Luce. I suoi capelli brillano come il sole, il suo aspetto è stupendo al punto che, quando scende tra i mortali, nessuna donna può fare a meno di innamorarsi di lui. Tra i due non c'è mai stato un buon rapporto, ma ogni tanto capita che Leida si infuri in maniera particolare con Umut e chiami le nuvole a portare l'oscurità; e allora Umut chiama i fulmini a illuminare il cielo, ed è così che si formano
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i temporali sulle Montagne Blu...” Questa volta, Leida era davvero furiosa. “Ascoltami bene!” urlò, mentre le nubi si addensavano sempre più scure intorno a lei. “Sono più di due secoli che i tuoi seguaci hanno iniziato con questa storia delle processioni del tramonto, e li ho sempre tollerati, sempre, non importa se passano davanti ai miei tempi inneggiando alla sconfitta delle Tenebre! Ma questo è troppo!” Umut scoppiò a ridere, e il suono della sua risata si confuse con quello dei tuoni. “Oh, andiamo!” esclamò. “Tante storie per un piccolo cambiamento nel rituale!” “Di' ai tuoi sacerdoti di eliminarlo subito, questo piccolo cambiamento! O, per lo meno, di evitare che la processione passi davanti ai miei tempi!” “Le processioni passeranno in ogni singola via della città, come è sempre stato” rise Umut. “E tu farai meglio a fartene una ragione.” “Me ne sono sempre fatta una ragione, finché quegli imbecilli non hanno pensato bene di inserire dei suonatori di derghèl! Non mi capaciterò mai di come gli umani possano aver inventato strumenti dal suono tanto fastidioso!” Umut sorrise. “Ma come? Un suono così
armonioso e cristallino? Le campane dell'alba!” “Lo odio! Quindi, farai meglio a dire ai tuoi sacerdoti di evitare di suonare derghèl davanti ai miei tempi ogni volta che tramonta il sole.” “Guarda che le processioni sono solo una volta al mese.” “Una volta al mese, ogni giorno, fa differenza?” “Per gli umani, molta.” “Per me no! Ammettilo, non è nemmeno stata un'idea dei tuoi sacerdoti, sei stato tu a suggerirlo per farmi un dispetto!” Umut rise ancora, mentre in cielo risuonava un tuono più potente degli altri. “Ah, sorellina, non cambierai mai! Sempre a pensare che il mondo complotti contro di te. No, non sono stato io a suggerire di inserire i derghèl nelle processioni. Ma questo non toglie che è sempre divertente vederti infuriata per cose tanto sciocche.” Il temporale era passato, il sole tramontato da diverse ore. Un velo di nuvole copriva le stelle, ma l'oscurità della notte era spezzata dalle innumerevoli luci che brillavano nelle case e nelle vie di Namirka. Dalle stanze del suo palazzo di pietra nera sulla cima del Monte del Cielo, Leida scrutava quella macchia luminosa, meditando vendetta. Percepì la presenza di Ahanamirk non appena il Protettore entrò nel palazzo, prima ancora che apparisse alla sua presenza. La stanza era completamente buia, ma nessuno dei due aveva
bisogno della luce per vedere. Nonostante tutto, l'aspetto di Ahanamirk continuava a essere quello di uno Spirito Protettore, le forme umanoidi dai contorni un po' sfocate, la testa calva e gli occhi violetti privi di pupille. Dall'inizio dei tempi, gli spiriti minori avevano sempre vissuto lontano dalle Montagne Blu, a contatto con gli umani; negli ultimi secoli, però, il villaggio di Namirka si era trasformato nella più grande città mai costruita dal genere umano, capitale di un impero sconfinato, e il suo Spirito Protettore aveva cominciato a diventare sempre più potente, al punto che ormai molti umani lo veneravano quasi quanto una divinità maggiore. E così, Ahanamirk aveva cominciato a frequentare il Monte del Cielo. Leida si rifiutava di considerarlo un suo pari, ma era sempre più difficile evitare di doversi comportare come se lo fosse. “So a cosa stai pensando” disse il Protettore. “Ma non puoi far soffrire la gente di Namirka per un tuo stupido litigio con Umut.” Leida fece una smorfia. “Non sta a te dirmi cosa posso o non posso fare. I miei sacerdoti hanno preso dei voti e faranno ciò che io ordino loro.” “Le tensioni sociali a Namirka sono forti” disse Ahanamirk. “L'anno scorso i raccolti sono stati cattivi in molte regioni dell'impero, negli ultimi mesi sono arrivate migliaia di profughi che hanno trovato solo una miseria peggiore di quella che
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si sono lasciati alle spalle. E molti di questi seguono il tuo culto, mentre quelli che partecipano alle processioni di Umut sono per lo più namirkani da diverse generazioni. Aizzare i tuoi sacerdoti contro i suoi finirebbe per scatenare grossi disordini, forse addirittura una guerra civile.” Leida alzò le spalle. “E perché mai dovrebbe importarmene qualcosa? Sono umani, in ogni caso avranno una vita miserabile e moriranno nel giro di pochi decenni.” Attraverso l'oscurità, Leida vide i contorni di Ahanamirk farsi tremolanti per l'ira. “Come potete voi altri essere così insensibili? Stai progettando di giocare con delle vite umane e per cosa? Perché ti dà fastidio che i sacerdoti di Umut suonino i derghèl durante le loro processioni!” “È una questione di principio. Il suono di quelle campanelle è la cosa che odio più di ogni altra.” “Ma è solo un suono! Un suono che, per giunta, nessuno ti obbliga ad ascoltare.” “Non mi importa la tua opinione al riguardo. Non lo sopporto, non sopporto l'idea che quegli strumenti vengano suonati di fronte ai miei tempi!” “Ti rendi conto di quanto sia infantile tutto questo? Hai idea delle difficoltà contro cui devono lottare ogni giorno gli abitanti di quella città? E tu vuoi usarli così, distruggere le loro vite per un capriccio!” “Sono umani! Umani! Si può
sapere qual è il problema con voi Spiriti, perché parlate di loro come se fossero da trattare come nostri pari?” Un sorriso amaro increspò le labbra sottili di Ahanamirk. “Forse perché, a differenza di voi altri che vivete isolati su un ammasso di roccia, noi li conosciamo davvero.” Ebil aveva cominciato ad avere brutte sensazione già da quella mattina, ben prima dell'inizio della processione. La situazione in città si stava facendo sempre più tesa. Figlio di un ricco mercante di vino, Ebil non aveva sofferto in prima persona la carestia, ma mentre accendeva la sua fiaccola rivolse comunque una preghiera per la città e per l'impero. Partecipava alle processioni in onore di Umut da quando era bambino, ma nel corso degli anni si era sempre più avvicinato alle idee dei filosofi unicisti. D'altra parte, come si faceva a credere che divinità immortali fossero come si raccontava nelle vecchie storie, così piene di difetti tanto umani? Non era più sensato ritenere che fossero tutte espressioni distorte di un'unica entità soprannaturale, benigna e perfetta, che aveva creato il mondo e che ora se ne prendeva cura? La processione del tramonto era solo un modo come qualsiasi altro per pregare, ma Ebil continuava a partecipare per abitudine a quella del suo quartiere, anche se spesso i discorsi della gente presente lo facevano sorridere.
“Hai visto il temporale della settimana scorsa?” stava dicendo una vecchia a una sua amica. “Non ricordo l'ultima volta che c'è ne stato uno così intenso. Brutto segno. La Signora delle Tenebre è arrabbiata.” “I capricci delle divinità sono la disgrazia dei mortali” rispose l'altra. Ebil avrebbe voluto spiegare loro quanto erano stupidi i loro vecchi proverbi e le loro paure, ma sapeva che non avrebbero capito. Purtroppo, la maggior parte del genere umano non era ancora in grado di concepire qualcosa di così diverso dalla loro piccola e imperfetta realtà di tutti i giorni come la vera essenza dell'Unica Divinità. Si rese conto di quanto era fortunato, di come la ricchezza di suo padre non l'avesse protetto solo dalla fame e dalla carestia, ma, attraverso l'educazione che aveva ricevuto, anche dalla superstizione e dalle paura che essa portava. Eppure, osservando come la città stessa sembrasse trattenere il respiro in attesa dell'inizio della processione, Ebil non riusciva a sentirsi tranquillo. Surmo Kalbo, Gran Sacerdote di Umut, aveva cominciato ad avere cattivi presentimenti una settimana prima, quando era scoppiato quel temporale sul Monte del Cielo. I suoi timori furono confermati quando la processione giunse davanti a un piccolo tempio di Leida che si affacciava su una stradina secondaria. Davanti al suo ingresso, erano riuniti alcuni sacerdoti
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dalla tunica nera, circondanti da diverse decine di seguaci. “Non avete nessun rispetto?” disse il più anziano dei sacerdoti. Surmo lo conosceva di vista. Il suo nome era Gheior e, da quel che ricordava, era sempre stato un uomo di preghiera, più interessato a cercare il contatto con la sua divinità che alle faccende mondane. “Perché non vi limitate alle vie principali?” proseguì il sacerdote di Leida con un tono che non piacque per niente a Surmo. “Perché portare i vostri inni alla luce proprio qui, davanti al tempio della Signora delle Tenebre?” “Perché l'abbiamo sempre fatto!” sbottò Uro, con il suo faccione che si faceva rosso i stizza. Anche se non aveva mai preso i voti da sacerdote, il grasso oste era un assiduo frequentatore del tempio di Umut e si dava sempre molto da fare per l'organizzazione delle processioni. Surmo gli lanciò un'occhiataccia, ma prima che potesse dire qualcosa di più diplomatico per smorzare la tensione Gheior parlò di nuovo. “Il tempo della tolleranza è finito! Non avete visto il temporale della scorsa settimana? La Signora delle Tenebre è irata! Irata per la continua mancanza di rispetto che voi seguaci di Umut perpetuate ogni mese nei Suoi confronti. E ora non vi si può nemmeno ignorare, perché accompagnate i vostri riti con il suono dei derghèl!” “Non vorrei dire, ma non è che prima le processioni fossero silenziose” tentò di far notare
Surmo. “I canti in onore di Umut ci sono sempre stati, anche prima che li accompagnassimo con le campane dell'alba.” “Non ha importanza” rispose Gheior. “La nostra Signora mi ha parlato e ha detto che non è più disposta a tollerare il fatto che le vostre processioni passino davanti ai Suoi tempi.” Surmo esitò. Era questo il risultato del litigio divino della settimana precedente? “Siamo sempre passati per ogni singola strada della città!” esclamò Uro. “E sempre continueremo a farlo, sia noi che i nostri fratelli degli altri quartieri!” “Calma, calma” disse Surmo, ma sbiancò quando vide alcuni degli uomini intorno a Gheior sfoderare lunghi pugnali dentellati, di quelli tipici delle terre dell'Ovest. Fece un respiro profondo. Era un sacerdote di Umut. Per quanto fosse preoccupato dalla situazione, i suoi voti gli impedivano di far deviare la processione. Sentì un movimento nella folla alle sue spalle e in un attimo si trovò accanto un giovane alto dai capelli rossi. “Per favore, cerchiamo di essere ragionevoli” disse il ragazzo, rivolto ai fedeli di Leida. Gli uomini con i pugnali in mano lanciarono subito occhiate ostili ai suoi vestiti di tessuto pregiato e al suo aspetto curato. Surmo non ricordava il nome del giovane, ma sapeva che era figlio di un ricco mercante e l'aveva sentito fare discorsi da unicista. “Per favore, siamo tutti persone civili e razionali” continuò il ragazzo. “Ragionate, davvero pensate che le divinità, eterne e
perfette, vogliano questo? Davvero credete che una dea possa sentirsi offesa dalle azione di dei mortali? Ascoltat...” Un pugnale gli si era conficcato nel petto; sotto la luce del tramonto, la bella veste bianca cominciò a diventare rossa di sangue mentre il ragazzo si accasciava al suolo. Surmo si voltò, mentre un coro di voci urlava insulti contro la Signora delle Tenebre e i profughi dell'ovest. Vide Uro sfoderare a sua volta un pugnale e solo in quel momento si rese conto che diversi fedeli erano venuti alla processione armati. Le violenze duravano già da alcune settimane quando Umut venne a parlarle. “Ah” disse Leida, con un sorriso. “Com'era la storia che a Namirka i tuoi fedeli sono molto più numerosi dei miei?” “L'imperatore sta per dare ordine alle sue truppe di agire contro chiunque alimenti le violenze, che sia dei miei o dei tuoi. Rischiamo di ritrovarci entrambi con tempi distrutti e sacerdoti condannati a morte, se non stringiamo una tregua.” Leida fece una smorfia. “L'imperatore. È deprimente come un uomo così potente debba essere in mano a uno spirito minore. O, se è per questo, che un mortale possa essere tanto potente.” Umut rise. “Possiamo creare i nostri piccoli disordini civili e illuderci quanto vogliamo, ma il vero controllo di Namirka lo ha Ahanamirk. Non è solo questione dell'imperatore, o qualcuno di noi altri avrebbe già
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trovato il modo di rimpiazzarlo con un suo fedele. Il punto è che, a prescindere dalla divinità maggiore che vanno a venerare nei tempi, quasi tutti i namirkani ascoltano poi per prime le parole che Ahanamirk mormora alle loro orecchie.” “Mormorare alle orecchie di tutti!” esclamò Leida. “Davvero non so come si possa avere una simile mancanza di stile! Non ha nemmeno un clero, solo il suo imbarazzante rapporto diretto coi mortali!” “Per una volta sono perfettamente d'accordo con te, ma questo non cambia le cose. Dobbiamo far cessare le violenze.” “La questione è molto semplice: niente più processioni davanti ai miei tempi.” “Cosa?!” esclamò Umut. “Credevo che il problema fosse solo il suono dei derghèl.” “Quella era una cosa che non riuscivo in nessun modo a tollerare. Ma questo non vuol dire che mi facesse piacere vedere le tue processioni passare davanti ai miei tempi.” “No, non se ne parla. Posso dire ai miei sacerdoti di eliminare i derghèl, ma le processioni devono passare per ogni via della città.” Leida sospirò. “D'accordo. Però voglio anche che tu ammetta che questa volta ho vinto io.” Una smorfia di indecisione contrasse i lineamenti di Umut. “E sia” disse infine. “Questa volta hai vinto tu. Ma il prossimo temporale sarà una storia diversa.”
S ka n
bacio. L ' u l t i m o p a s t o un «Il mio gelosone» bisbigliò,
Max odiava i gatti, in modo particolare quello di casa sua. La mattina, quando si apprestava ad uscire di casa per andare al lavoro, la creatura pareva quasi deriderlo. Sprofondato in quella che avrebbe dovuto essere la poltrona del capofamiglia e che invece da anni l'animale aveva eletto a suo personale giaciglio, lo esaminava con i suoi perfidi occhi verdi. Lo osservava allungare le zampe e sbadigliare indolente, per poi raggomitolarsi su sé stesso e tornare a dormire. Maledetto bastardo, non solo mangiava e beveva a sbafo in casa sua, ma gli rubava anche l'affetto della sua famiglia e la poltrona! Mentre finiva rabbiosamente di vestirsi, Max sentì improvviso e travolgente il desiderio di strangolare quel gatto del cazzo. «Dusty!» Si girò alla voce di sua figlia, la guardò raggiungere la bestia e strofinarle il viso contro il muso. Gli venne da vomitare e divenne ancor più furibondo. «Potresti anche venire prima ad abbracciare tuo padre!» La rimbrottò. La bimba si girò verso di lui, spaventata da quel tono di rimprovero e sgranò i grandi occhi chiari. Sua moglie gli portò la giacca e la ventiquattrore, abbozzando un sorriso e sfiorandogli le labbra con
sfiorandogli la pancia prominente. Max era consapevole di essere un po' diverso dall’uomo che aveva sposato dieci anni prima. Da ingegnere di belle speranze e dal fisico atletico era passato ad impiegato frustrato e scontento; il suo peso viaggiava già sui centoventi chili, aveva perso gran parte della chioma fulva che a lei era tanto piaciuta in passato ed era sempre più scontroso e svogliato. La sera era stanco, ormai facevano l’amore a settimane alterne e non avevano più una vita sociale. Il fatto che lei lo amasse ugualmente e continuasse a sperare di farlo tornare l'uomo di un tempo da una parte lo spronava, dall'altra lo faceva sentire sotto pressione. «Stasera c’è la recita di Sara alle sette. Pensi di riuscire a venire?» L’uomo fece spallucce. «Non lo so, vedremo.» Gettò uno sguardo alla figlia, che continuava a fissarlo con la solita aria di rimprovero. Avrebbe voluto chiederle cosa pretendesse da lui, visto che gli unici a cui rivolgeva la parola erano sua madre e quel dannato gatto. Si era sempre reputato un uomo razionale, ma a volte aveva la sensazione che quell'animale l'avesse stregata. Avevano lo stesso lampo demoniaco negli occhi. «Vado al lavoro, voi restate pure a lisciare il vostro gatto» sbottò l’uomo, liberandosi con uno strattone dall’abbraccio della moglie. Sara teneva Dusty
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in grembo. Lo accarezzava e intanto osservava con insistenza il punto dove suo padre era sparito, senza che le sfuggisse mai una sola parola. A Max occorsero più di venti minuti per raggiungere l’ufficio. Di solito ne impiegava dieci, ma quella mattina sembrava che tutto il traffico del mondo confluisse nella sua stessa direzione. Era visibilmente irritato mentre attraversava il corridoio e gettava un secco saluto alla segretaria. Lo aspettava uno dei lavori più noiosi, la gestione degli ordini e il controllo dei relativi documenti di trasporto. Lo avevano assunto come addetto alla logistica, nessuna possibilità di avanzamento di carriera o prospettiva futura, se non quella di dare un taglio netto alla questione prendendo un po’ di coraggio e dando le dimissioni una volta per tutte. Gli venne da sorridere. Così gliela avrebbe fatta vedere lui a quegli stronzi dei suoi capi! E sua moglie e sua figlia avrebbero capito cosa voleva dire non aver più uno che sgobba dalla mattina alla sera per dar loro da mangiare! Quel gatto ripugnante sarebbe stato il primo a morire di fame. Bestiaccia immonda... Gli pisciava nelle pantofole, lasciava ciuffi di peli solo sul suo cuscino, si affilava gli artigli sullo stipite della porta e lo guardava con un ghigno che sembrava voler dire “Sono io il padrone di casa, tu esisti perché io esisto” E i bocconcini freschi di macelleria, le visite dal veteri-
nario, l’antipulci, tonnellate di sabbia per gatti... Avrebbe voluto chiedere a qualcuno di quelli che si proclamavano protettori dei gatti, se fossero al corrente di quanto venisse a costare tenere in casa una di quelle terribili bestiacce! Un giorno o l’altro avrebbe schiacciato la sua sotto le ruote della macchina. Un miagolio sinistro lo fece sobbalzare dalla sedia. Si guardò intorno terrorizzato, alla ricerca del gatto. Lo aveva sentito miagolare. Non se lo era immaginato, ma continuava a guardarsi intorno e non c’era nessuno. Tentò di calmarsi. L’immaginazione a volte giocava brutti scherzi, comunque per qualche ora abbandonò i suoi sadici pensieri. Lo spavento della mattina fu presto dimenticato e le ore passarono insolitamente veloci per Max. Alla mensa aziendale, mentre si avvicinava con il vassoio al banco, l’uomo si divertì all’idea di un bel piatto a base di ciccia di gatto. Con tutta la carne scelta che mangiava doveva essere proprio un pasto sostanzioso. Invece optò per la solita pasta scotta, con pollo fritto e verdure in pastella, il menù più appetibile del giorno. Prese anche il dolce, alla faccia dei suoi chili in più. Disdegnando di ritrovarsi con i colleghi, cercava sempre di arrivare per ultimo, cosicché i tavoli fossero ormai quasi tutti occupati e a
nessuno venisse in mente di fargli compagnia. Ma quello era un giorno sfortunato; l’unico tavolo rimasto aveva due sedie libere e il capo magazziniere, un uomo sui cinquant’anni grasso, calvo e sudaticcio, prese subito posto davanti a lui. «Ma te ne stai sempre da solo?» gli disse, con finta aria di rimprovero. Max bofonchiò qualcosa mentre continuava a mangiare. E questi iniziò a blaterare di prodotti abbandonati senza criterio in magazzino, di merce buona mescolata a merce difettosa, del lavoro di loro poveri magazzinieri mal pagati e sottomessi a superiori che non capivano un cazzo di niente e continuavano a comandare, prendendosi gioco degli operai. Ma quel ciccione superò ogni limite di sopportazione, quando iniziò a raccontargli del suo nuovo acquisto. Un gatto. Mancò poco che lo uccidesse lì davanti a tutti. Rimase a sentire per un po’ i suoi vaneggiamenti sul pelo bianco e morbido, su come giocava con la palla, col gomitolo, con le scarpe e chissà quali altri cazzi, finché non esplose. Balzò in piedi senza neanche finire il suo pollo fritto e lo mandò tranquillamente a fare in culo, prima di tornarsene al suo ufficio. In un modo o nell’altro, l’orario di lavorò passò. Max era stato tentato dallo scendere in
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magazzino e scusarsi con il magazziniere, ma poi si era detto che non gliene fregava niente se non gli rivolgeva più il saluto e andava a dire in giro che era uno psicopatico maleducato. Il traffico delle cinque e mezza lo innervosiva non più del pensiero di rientrare a casa e di trovare sua moglie con i capelli tirati in testa e il grembiule da cucina, la figlia che gli rivolgeva appena la parola e quel gatto demoniaco. Pensò a quando Anna aveva portato a casa quella mostruosa palla di pulci. Si era sentito pervadere da un brivido. L’idea che l’animale lo odiasse aveva preso corpo nel suo cervello, nell’istante stesso in cui si erano fissati. Lui era il padrone di casa, ma quel gatto aveva impresso nello sguardo un risoluto desiderio di prenderne il posto. «Meow» La Twingo sbandò paurosamente e per poco travolse un pedone sulle strisce. Max accostò sul ciglio della strada, si girò verso il sedile posteriore. Di nuovo il miagolio di Dusty, stavolta l'aveva sentito bene! Cercò affannosamente in giro, a terra, sui tappetini puliti e profumati di pino silvestre. Niente. Un altro scherzo della sua immaginazione? Riportò gli occhi davanti a sé e urlò. Un volto bieco e grinzoso lo fissava dal parabrezza. Con rapido movimento, il vecchio si spostò a ridosso del finestrino
semiaperto. La sua età era indefinibile, così come il suo sguardo. Dalle labbra screpolate dal sole scendeva un rigagnolo di saliva trasparente, aveva gli occhi verde opaco iniettati di sangue, la cornea giallognola. Peli ispidi coprivano il mento ossuto e un puzzo di sporcizia e sudore si mischiava orribilmente al profumo del deodorante per auto, creando un contrasto rivoltante. Max rimase pietrificato, mentre un brivido freddo gli gelava le ossa. Il vecchio aprì la bocca per parlare. Una zaffata di alito pestilenziale inondò l’abitacolo. «Tu lo ucciderai» aveva gli incisivi marci «ma ciò che disprezzi sarà causa della tua morte!» La collana di ossi che portava sopra la camicia lercia, tintinnò contro il vetro del finestrino. Max fu preso dal terrore. Inserì la marcia e partì a razzo, incurante della strombazzata di clacson di un’automobilista inferocito. Evitò di guardarsi indietro. Deglutì, tentando di recuperare il controllo di sé. Con mano tremante si allentava il colletto della camicia e poi cercava, frenetico, una sigaretta. Si era solo spaventato. Era un vecchio pazzo, un mendicante. Calmo. Era finita. Il battito era tornato pressoché normale quando girò nel vialetto di casa. Parcheggiò l’auto nel garage e rimase un attimo con la testa appoggiata
al sedile, quindi uscì. L’utilitaria di sua moglie non c’era. Ah sì... La recita della figlia, non sarebbero tornati prima delle otto. Avrebbe dovuto andare anche lui. Giusto quello gli occorreva, rompersi le palle ad una stupida, noiosissima recita, non ci pensava proprio. Mosse un piede in direzione della saracinesca quando pestò qualcosa di molliccio. Abbassò lo sguardo. I resti mangiucchiati di un grosso ratto formavano un nauseabonda pozza di carne e sangue. Una poltiglia disgustosa ora ben stampata sotto la suola della sua scarpa. Meow. Max sollevò lo sguardo. Dusty era lì, con i suoi occhi fiammeggianti d'odio. Lo aveva fatto apposta, si prendeva gioco di lui! Fuori di sé, si avvicinò all’animale che ora lo fissava con aria di sfida. «Vieni qua» avvicinò la mano alla testa del gatto. Questi si ritrasse un attimo ma si lasciò accarezzare. Con un gesto rapido, Max lo afferrò per la collottola e, ignorando completamente le sue proteste feline, lo trasportò verso l’angolo degli attrezzi. «Hai fatto il tuo ultimo pasto, bestiaccia, spero te lo sia goduto! Ti faccio vedere chi è che comanda qui. Hai passato il segno» afferrò un grosso sacco di iuta ripiegato da una parte (chissà se Anna si sarebbe accorta di quell’appropriazione indebita di sacchi
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da giardinaggio), lo aprì faticando un po’ con una sola mano e vi gettò dentro il gatto, stringendo quindi il laccio con rapidità e decisione. Il suo cuore sembrava impazzito per l’eccitazione, mentre assicurava meglio il nodo e sentiva il gatto infuriarsi e miagolare selvaggiamente. «Mi odi, vero?» Meow. . . Meooow… Caricò il sacco in macchina e con esso la sua mazza da baseball preferita. Aveva avuto un attimo di esitazione, ma alla fine era un sacrificio nobile. Gettò uno sguardo all’orologio. Appena le sei, aveva tutto il tempo. Varcò la soglia di casa e lo accolse un dolce profumo di arrosto. Max respirò a fondo, stuzzicato da quel buon odore. Nessun senso di colpa. Mentre con la sua mazza di legno si accaniva sul quel lurido felino, si era sentito eccitato e felice come mai in vita sua. I colpi erano stati così violenti che i disperati miagolii della bestia si erano confusi con l’eco terrificante di ossa frantumate. Incurante del fatto che qualcuno avesse potuto accorgersi della sua furia inarrestabile, Max aveva continuato ad infierire fino a che una macchia rossa si era diffusa sul sacco di iuta, una massa schiacciata e informe giaceva ormai silenziosa e priva di vita. Aveva spinto il sacco nell’acqua, insieme alla mazza da baseball, quindi si
era sciacquato le mani nell’acqua fredda del fiume e aveva atteso che il cuore decelerasse i battiti. Come si era sentito felice mentre il sacco veniva lentamente trascinato dalla corrente! Era così di buon umore che neanche se la prese troppo, quando la moglie lo rimproverò per essere mancato alla recita della scuola. Riuscì perfino a mostrare una sorta di comprensivo stupore alla notizia che Dusty era improvvisamente sparito. E’ carne morta in mezzo al fiume, pensava Max. Non si accorse dei lucciconi in fondo agli occhi della sua piccolina, né del lampo di rabbia con cui lo guardava, mentre sembrava cercare di leggergli in faccia ciò che aveva fatto. Si svegliò all’una di notte, sudato e col fiato corto. In un incubo tanto terrificante quanto reale, si era visto disteso sul suo letto, paralizzato dal collo in giù. Poteva solo muovere la testa e roteare gli occhi, tutt'intorno era avvolto nell’ombra di un’aria afosa e maleodorante. Un lamento sottile, impercettibile lo aveva gettato nel terrore. Qualcosa gli era saltato sulle gambe, piccole pressioni leggere e quel gemito diventava un miagolio, sempre più prossimo, sempre più minaccioso. Artigli acuminati erano penetrati nella sua carne, Meow. . . Meooow. . . finché Dusty non gli si era fermato sul petto e
lo aveva fissato con occhi che erano diventati gialli. Aveva l’alito fetido, i denti affilati, la bava che gli colava dal mento e gocciolava sul volto atterrito dell’uomo. Poi un ruggito rabbioso, violento e nel sogno Max aveva un’ultima volta tentato di muoversi, di svegliarsi, di gridare. Inutilmente. Il gatto si era avventato su di lui e gli aveva piantato i denti nel collo. E Max aveva sentito il sangue sgorgargli via e la vita abbandonarlo. Ma adesso era sveglio. Anna dormiva accanto a lui. La stanza era avvolta nell’oscurità, una debole luce filtrava dalla finestra. C’era la luna piena. Non che volesse dire qualcosa. «Tu lo ucciderai e ciò che disprezzi sarà causa della tua morte» Era solo un vecchio pazzo. Deglutì nervosamente. Meow. . . Max tese l’orecchio. Il respiro leggero di sua moglie, una civetta lontana, il latrato di qualche cane che vagabondava per le strade. No, non sentiva nessun... Meoooooow. . . Ma era impossibile! Stava ancora sognando, non poteva essere Dusty! Quel miagolio lagnoso sembrava proprio il suo, ma.... Dio Santo! L’aveva ammazzato. Era morto affogato, se non l’aveva ucciso a bastonate! Controllò che sua moglie dormisse ancora, quindi scese lentamente dal letto e cercò freneticamente
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le pantofole. Si mosse a tentoni nel buio, trovò la porta, l’aprì il più silenziosamente possibile e uscì, richiudendosi l’uscio alle spalle. Sara si affacciò dalla sua stanza e con lo sguardo seguì il genitore scendere al piano di sotto. Strinse convulsamente il suo gatto di peluche, mormorò qualcosa di incomprensibile e sorrise. Perlustrò ogni angolo della cucina e del soggiorno ma Max non trovò nulla. Forse stava diventando pazzo. Poi lo sentì di nuovo. Un lamento sinistro, più forte. Veniva dal basso. Iniziò a riordinare le idee, a pensare. Magari era ancora vivo, si era liberato dal sacco che lo imprigionava e aveva fatto in tempo a raggiungere l’auto prima che lui partisse. Era decisamente improbabile, ma non poteva che essere l’unica spiegazione. Continuò a pensarci mentre scendeva in garage, seguendo il lamento del felino. Probabilmente era ridotto male, sarebbe bastato un colpo di cric per mettere fine alla questione. Arrivato ai piedi della scala, l’uomo scoprì con sorpresa che non c’era nessun garage. Non come lo ricordava, almeno. Gli parve di riconoscere dall’odore le pareti impregnate di muffa, gli attrezzi da giardinaggio ammucchiati nell’angolo, la ruota di scorta da riparare, la bicicletta di Sara, ma il buio era spezzato unicamente dalla
luce della luna che entrava dalle finestre, permettendogli di scorgere solo forme indistinte. Si muoveva rapido, volgeva il capo tutt’intorno per cercare di orizzontarsi ma non riusciva a capire cosa stesse succedendo e perché aveva la netta impressione di trovarsi in una stanza molto grande. Cercò di guardare verso l’alto. Nient’altro che buio. Meooow… Prima che potesse rendersene conto, si trovò imprigionato da qualcosa. Tirava e zampettava, piccoli guaiti gli uscivano dalla gola, piuttosto che l’urlo di paura che si era aspettato. Ma che stava succedendo? Di colpo si accese la luce. Finalmente poté vedere la lampadina, ma era in alto, molto in alto, più di quanto ricordasse. Il suo disprezzo... La causa della sua morte... La macchina all’improvviso era lì, enorme, riusciva a malapena a vederne le ruote. Le finestre erano troppo alte perché potesse raggiungerle. Le chiavi, le chiavi della macchina... Qualcosa gli impediva di muoversi, ma cosa? Si trovò all’improvviso libero, riuscì a scattare sotto l’auto ma qualcuno lo riagguantò subito. Gemette, pianse, gridò ripetutamente con quegli strani suoni che non sapeva cosa fossero, finché qualcosa di caldo lo agguantò per il collo e lo tenne stretto, abbastanza da imprigionarlo ma non troppo da ucciderlo. Sentiva gli occhi sbarrati, il terrore nella gola, mentre il suo aggressore lo tra-
scinava di nuovo fuori, allo scoperto, sotto la luce della lampadina. Si ritrovò a terra e tentò nuovamente di scappare, ma un essere grosso e peloso, con le fauci spalancate e gli occhi iniettati di diabolica malvagità gli sbarrò la strada. Dusty. Dietro di lui, sua figlia lo fissava in silenzio. Entrambi erano enormi, lo sovrastavano. Max capì, nell’esatto momento in cui Dusty si avventava su di lui per divorarlo, quale significato avessero le parole del vecchio. La causa della sua morte. Riuscì quasi a sentire il sapore del suo sangue e delle sue viscere mentre i denti affilati del gatto gli dilaniavano la carne. Dusty masticò soddisfatto il suo facile pasto. Poco sostanzioso, in verità, ma si sarebbe rifatto presto. La sua padroncina non mostrò alcuna reazione, neanche quando il rumore delle ossa spezzate e masticate riecheggiò fra le quattro mura corrose dall’umidità. Dusty si leccò i baffi, liberando i canini dai rimasugli di carne di ratto, la lingua passò ripetutamente attorno alla bocca per degustare le ultime gocce di quel sangue delizioso. Sara sorrise e lo accarezzò, Dusty le miagolò dolcemente in risposta. «Vieni piccolo, ti sei meritato la pappa.» Certo che se l’era meritata. Andare a caccia d’uomo non era cosa di tutti i giorni!
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S ka n
la testa e partì in «Secondo me sei alla riI l c a c c i a t o r e abbassò direzione della futura cerca di un'esperienza di leggins conquista. La coda arancio- forte.» Diego incrociò le
«E quella?» esclamò Diego dando di gomito all'amico, che portava il carrello. Filippo si voltò nella direzione dei surgelati. Un paio di ballerine nere, dalle quali sbucavano dei leggins dello stesso colore, erano protese in avanti. Il resto della proprietaria navigava tra i bastoncini di pesce e il fritto misto. «Non c'è nulla che ami più dei leggins!» insisté il ragazzo mordicchiandosi il labbro inferiore. Filippo abbozzò un sorriso compiaciuto, alle volte anche il suo amico aveva qualche buona intuizione. «Se il buongiorno si vede dal mattino...» Diego socchiuse l'occhio sinistro nel tentativo di ammiccare, ma la palpebra opposta fece altrettanto. Ci riprovò sempre più velocemente. Sembrava in preda a un attacco epilettico. Filippo portò la mano alla bocca cercando di bloccare una risata. Ci riuscì, ma in compenso dal naso uscì un grugnito che fece voltare mezzo supermercato. Per fortuna loro, la ragazza navigava ancora nel suo personale mare di ghiaccio. «Guarda e impara.» Per nulla scoraggiato, Diego
ne del ragazzo oscillava tra una scapola e l'altra in quello che sembrava un moto perpetuo. All'improvviso, come un pendolo impazzito, sobbalzò a pochi passi dall'arrivo. Diego, per non finire a terra, si dovette aggrappare al carrello della proprietaria dei leggins. La ragazza sobbalzò spaventata. «Ti sei fatto male?» chiese protraendosi in avanti. Era bellissima. Lunghi capelli corvini le scivolavano sulle spalle, facendo risaltare i sottili occhi verdi. Una maglietta grigia seguiva la linea del suo corpo, allargandosi e restringendosi nei punti giusti. Il resto l'aveva fatto il freddo del frigorifero. «No, figurati. Quelli come me non si fanno mai male. Stavo solo facendo un po' d'esercizio.» disse Diego, baldanzoso. L'espressione preoccupata della ragazza si trasformò in un sorriso plastico. «Meglio così» disse appoggiando nel carrello il risultato della caccia sottozero. «Che ci fai da queste parti?» Il volto della ragazza mutò ancora. Inclinò la fronte in avanti, storse il labbro superiore e sollevò la spalla destra. «Secondo te?»
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braccia glabre in una poco convincente dimostrazione di forza. «Ti ringrazio, ma quelle non mi mancano.» «Pensaci bene, non hai idea di cosa ti perderesti.» Filippo, inebetito, osservava la dimostrazione di coraggio dell'amico. Doveva ammettere che nonostante la differenza di categoria Diego non sembrava per nulla scoraggiato. Era un giocatore con le palle. Poteva farcela. Una signora passò accanto a Filippo e lo urtò con una spallata. «Ti sei incantato? Barlafus!» lo apostrofò. Riscosso dalla delicatezza della donna, il ragazzo si rese conto d'essere rimasto impietrito a fissare la scena. In mano teneva ancora il melone che, prima dell'avvento dei leggins, stava facendo analizzare all'amico. Poggiò il frutto e, con passo felpato, si trascinò in un lato della corsia. Senza guardare afferrò qualcosa di morbido e tese l'orecchio verso quella che sarebbe potuta diventare l'impresa della vita del suo amico. «Fidati di me, non giocare con il fuoco» la voce della ragazza si fece grave. «Sei fidanzata?» chiese Diego guardandosi attorno. «No.» «Non dirmi che sei inna-
morata!» «Nemmeno quello.» Corrucciò il naso. Sembrava nauseata dall'idea. «Peccato, speravo d'aver fatto breccia» disse scuotendo i lunghi capelli color carota. A quella affermazione Filippo, le cui speranze si stavano affievolendo, barcollò. L'amico si era giocato la carta vincente. Poteva farcela. La ragazza rimase immobile per una frazione di secondo, poi scoppiò a ridere. Diego, compiaciuto, accavallò i piedi e si poggiò col gomito sul carrello. Le ruote di quell'insensibile arnese si spostarono. Il corpo del ragazzo si inclinò pericolosamente, il suo peso lo trascinò verso l'infrangersi dei sogni. Filippo chiuse gli occhi pronto al tonfo dell'umiliazione. Era finita. Attese di sentire le risate delle persone attorno, o magari le urla delle donne più sensibili. Invece la filodiffusione rimase invariata. Timoroso, riaprì gli occhi, che per poco non gli schizzarono fuori dalle orbite per lo stupore. Le ballerine, ancora una volta, erano protese sulle punte. La ragazza stava reggendo Diego con una mano. Sembrava impossibile che un corpo così fine potesse sostenere il suo peso. «Grazie» balbettò lui fissandole il seno. «Ma non avrai creduto che stessi per cadere?» «Certo che no, ti stavi solo allenando, vero?»
Lui sorrise, lei fece lo stesso. Filippo smise di respirare. «Mi chiamo Diego.» disse recuperando l'equilibrio. «Io sono Luna.» «Luna, che bel nome. Ti si addice.» «Me lo dicono in molti, soprattutto quando mi conoscono meglio.» «Pensa, per i miei amici io sono “il Cacciatore”.» «Posso sapere perché?» «Come, non si capisce?» «Posso immaginarlo, ma se lo dici tu è tutta un'altra cosa.» Filippo era nuovamente in apnea. Sapeva che da quella risposta dipendevano le sorti dell'incontro. Era come nel tie-break del tennis. Quinto set, sette pari, servizio in mano e un fallo alle spalle. Le soluzioni erano due, o forzava la battuta, rischiando di commettere il secondo fallo, oppure concedeva una palla facile all'avversario. La tensione era alle stelle. «Perché caccio licantropi.» Gli occhi della ragazza brillarono. Scoppiò a ridere. Era fatta. Filippo serrò il pugno per contenere l'entusiasmo. Il tomino, che stringeva in mano, schizzò da ogni parte imbrattando due signore che protestarono immediatamente. «Mi scusi signora.» Goffo, fece per pulire la macchia sulla camicetta di una donna di forse cinquantanni. Le spalmò il formaggio sulla scollatura ricevendo in risposta un manrovescio che lo
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catapultò a terra. Lui aveva perso la partita. «Maniaco!» esclamò la donna pronta a finirlo. «Ci sono problemi?» In aiuto di Filippo intervenne l'arbitro di linea nelle sembianze di una guardia paffuta. Il ragazzo strisciò dietro le gambe dell'autorità. Si rannicchiò cercando di evitare un calcio che altrimenti l'avrebbe costretto alla castità eterna. Purtroppo la ritirata non l'aveva messo in salvo dalla seconda furia che, approfittando della confusione, lo colpì alla nuca con l'ombrello. Filippo e la guardia si trovarono tra due fuochi. Ci volle l'intervento di alcuni passanti per sedare il linciaggio. Alla fine della rissa il ragazzo riportò un trauma cranico, la minaccia di una denuncia e il furto del portafogli. Qualche buon samaritano l'aveva scippato. Con una busta di piselli surgelati poggiati sulla testa, attese in disparte che il suo amico e Luna finissero di parlare. Sembrava che i due non si fossero accorti di nulla. Dalla nuova postazione non riusciva a sentirli, ma, quando Diego estrasse il cellulare dalla tasca per segnare qualcosa, un brivido gli percorse l'intero corpo. Era stato testimone di un evento unico: Diego aveva conquistato quei fantastici leggins neri. «Allora?» chiese Filippo
quando il suo amico tornò col sorriso stampato sulle labbra. «C'è bisogno di chiederlo?» rispose l'altro con aria saccente. «Quando la vedi?» «Voleva che andassi da lei già ora.» Filippo lo guardò di sottecchi. Andava bene la sospensione dell'incredulità, ma a tutto c'era un limite. «Alla fine abbiamo optato per un'uscita a quattro stasera.» I due amici si abbracciarono e iniziarono a saltare in cerchio. Era incredibile, quell'impresa stava riscrivendo la storia dell'umanità. «Fanculo Armstrong. Stanotte la pianto io la bandiera sulla Luna» gridò Diego. Una mano si poggiò sulla spalla di Filippo. L'arbitro di linea era tornato; era il momento di lasciare il campo di gioco. Filippo picchiettava le nocche sul voltante. «La musica ce l'ho nel sangue.» disse al suo riflesso nello specchietto retrovisore. Sollevò il polsino della camicia. Erano le sette, Diego si stava facendo aspettare. Sospirò pensando a cosa gli era successo a casa. Alle 16:00 aveva mandato a quel paese Bruno, suo fratello. Lo stronzo non credeva che quella sera lui potesse avere un appuntamento. «Chi cazzo ti caga con quella testa arruffata» gli aveva detto. Filippo si era infilato una ma-
no tra i capelli, e con quella libera gli aveva mostrato il dito medio. Alle 16:52 era toccato alla madre. «Dove vai con tutto quel gel in testa?» Con lei l'approccio era stato necessariamente diverso. Filippo aveva bofonchiato qualcosa, aveva sorriso e si era chiuso in camera. Lì era rimasto tranquillo fino alle 17:10, ora in cui suo padre aveva fatto irruzione con una scusa bieca. «Penso che il mese prossimo dovremo imbiancare» aveva detto fissando il poster di Spiderman. «Va bene papà» «Sai, alla tua età io avevo una ragazza...» «Papà, cosa vuoi?» l'aveva interrotto bruscamente Filippo «La mamma vuole che ti parli» aveva detto dopo un attimo di riflessione. «Però a me sembra una cosa talmente stupida. Tu hai già avuto una ragazza.» «Certo, più di una. Ci sta a quasi ventidue anni.» «E...» «Sì, e...» L'uomo aveva tirato un sospiro di sollievo. «Sai, per un periodo io e la mamma avevamo paura che tu fossi...» si era bloccato alla ricerca della parola giusta. Filippo non capiva. Inebetito, aveva guardato il padre che gesticolava mimando qualcosa di incomprensibile. «Sai, tu e Diego giocate
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sempre insieme. Chattate continuamente, guardate i cartoni animati.» Il ragazzo aveva fatto spallucce. Non capiva dove voleva andare a parare. «Insomma, temevo che voi...» aveva abbassato lo sguardo. Dopo un respiro profondo aveva trovato il coraggio «Temevo che voi foste nerd» «Papà, io e Diego siamo felici di essere nerd!» aveva ribattuto. Il padre era rimasto un attimo in silenzio, poi l'aveva stretto in un abbraccio. «Ti voglio bene lo stesso.» Filippo, più perplesso che mai, gli aveva picchiettato la mano sulla spalla. Sapeva che in famiglia lo reputavano strano, ma non aveva mai capito che fosse quello il “problema”. «Grazie papà» L'uomo si era alzato e gli aveva carezzato il viso imberbe. «Non vorrai uscire con quel cappello, vero!» aveva detto ed era uscito dalla stanza. Finalmente il portone di casa di Diego si aprì, il ragazzo uscì all'aria aperta e si guardò attorno. Sollevò la mano destra e salutò la madre che lo fissava dal balcone. Il ragazzo indossava un completo grigio topo, ai piedi aveva un paio di scarpe marroni, una borsa a tracolla e, incredibile ma vero, la coda dei capelli era liscia e ordinata. «Mi hanno tempestato di do-
mande» disse Diego sistemandosi la giacca. «Non hai idea di cosa ho passato io» rispose Filippo. «Beh, fanculo. Oggi...» Il ragazzo si bloccò. Aveva la mascella ancora spalancata e gli occhi strabuzzati. «Filo, i tuoi capelli...» disse deglutendo. Filippo arrossì, portò la mano alla nuca e si carezzò la testa rasata. «Sai, non sapevo come pettinarmi» disse fissando il volante. Era già abbastanza in imbarazzo senza che l'amico infierisse. «Però non stai male» provò a rincuorarlo Diego. «Già. Ma ora non pensiamoci. Punta il navigatore e andiamo, tanto a me toccherà il catorcio.» Filippo mise in moto l'auto, sfregò le mani e partì verso quell'avventura. «Sei sicuro che la strada sia quella giusta?» Filippo titubò, il navigatore gli stava indicando di svoltare su una strada sterrata. «E che ne so, tu vai.» «Non è il caso di telefonare?» «E fare la figura degli idioti? No grazie. Diego, il cacciatore di licantropi, può contare solo sul suo fiuto.» Si sfiorò la punta del naso col pollice e abbozzò un mezzo sorriso. «Va beh, ma la macchina non è del cacciatore di licantropi, e mio padre mi fa il culo se rimango impantanato.» «Smettila di frignare e vai. Penso di aver visto una luce là in fondo.» Filippo, poco convinto,
imboccò lo sterrato. L'auto si inclinò in avanti e grattò sul fondo sconnesso. «Cazzo» imprecò frenando. «E ora?» «E ora vai avanti. Da qui la strada scorre liscia.» «E tu che ne sai?» «Sono Diego, il cacciatore di licantropi. E sento la presenza dei leggins lì davanti.» I due scoppiarono a ridere. La strada si inerpicò su una collina alberata, ma effettivamente era leggermente meno sconnessa. Grattarono il fondo altre due o tre volte e dopo un paio di chilometri le insicurezze di Filippo tornarono a galla. «Ci siamo persi.» disse rallentando. «So benissimo dove stiamo andando. Guarda là. Vedi la macchina?» Filippo osservò la strada; l'auto nera sembrava più abbandonata che parcheggiata. «Vuoi veramente scendere qui?» chiese all'amico. «Bello, fidati di me. Io sento il loro odore da chilometri di distanza.» Aprì la portiera e scese. «E poi guarda» pestò il piede per terra «qui il terreno è battuto, vuol dire che c'è un continuo passaggio.» «Se lo dici tu» disse poco convinto Filippo scendendo dalla vettura ancora accesa. L'aria fresca, che muoveva la vegetazione attorno a loro, si intrufolò sotto la camicia facendogli accapponare la pelle. Non si sentiva al sicuro. Si guardò indietro; la strada da cui erano arrivati
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sembrava essere stata ingoiata dalla vegetazione. «Dai, torniamocene a casa. Sappiamo come vanno queste cose. Ci hanno uno scherzo?» «Smettila di fare il pessimista. Vieni qui, credo di aver visto qualcosa nella macchina.» Con il gomito Diego spostò una spessa patina di terra dal lunotto posteriore dell'auto parcheggiata. «Sembra quasi.» I due si sporsero in avanti per guardare meglio, tesero i muscoli e trattennero il fiato. Un scricchiolio alla loro sinistra li fece saltare in aria. Filippo si gettò oltre un cespuglio, Diego serrò i pugni e si mise in posizione di guardia. «Eccovi qui. Iniziavo a preoccuparmi.» Luna sbucò da dietro un albero dall'altro lato della strada. Non aveva più i leggins, ma un paio di jeans attillati che non le rendevano giustizia. «Cosa sta cercando il tuo amico tra i cespugli?» chiese, ilare. «Non badare a lui, è un tipo un po' strano.» Diego le andò incontro, le tese la mano e si esibì in un baciamano. «Dai seguitemi, Selvaggia ci sta aspettando.» «E lascio la macchina qui?» chiese stupito Filippo. «Certo che la lasci qui.» Diego si voltò verso l'amico digrignando i denti. «Però prima devo prendere la mia borsa.» «Non preoccuparti, da me c'è tutto quello che serve.» La ragazza ammiccò. «Fidati di me, in questi bo-
schi ci sono pericoli che non puoi nemmeno immaginare» insistette Diego. Filippo era già nauseato, sapeva come sarebbe andata quella serata. Diego avrebbe concluso e a lui sarebbe toccato stare in sala con Selvaggia, l'amica brutta di Luna. A tutto questo avrebbe aggiunto la preoccupazione per la macchina. “Bella serata di merda”. «E finalmente ecco casa mia.» I ragazzi sbucarono su uno spiazzo con l'erba tagliata all'inglese. Il sole stava tramontando e si rifletteva sulla facciata della grossa casa in stile coloniale. L'abitazione aveva rosicchiato spazio agli alberi che la isolavano dal resto del mondo. Era enorme e ben curata. Il portico bianco era circondato dal gelsomino che stava iniziando la fioritura. La prima cosa che notò Filippo fu l'assenza di macchine parcheggiate. Doveva dirlo a Diego. La cosa non era normale. Quella abitava in un posto dimenticato da Dio e non aveva un'auto con cui raggiungerla. Fu ancora più sbalordito quando si rese conto che la casa non aveva un vialetto d'ingresso. «Die, queste come cavolo ci sono arrivate qui? Non c'è nemmeno una macchina.» L'amico aprì la bocca per rispondere, ma riuscì solo a estrarre la lingua e ansimare. Il completo grigio era
completamente pezzato di sudore e da parecchio tempo si limitava a trascinare la borsa, che sembrava parecchio pesante. «Si può sapere cosa ci hai messo lì dentro?» «Gli attrezzi del mestiere» riuscì a rispondere Diego. Filippo ormai ne era convinto, stava per fare una figura di merda colossale; sapeva cosa conteneva la borsa. Rabbrividì al ricordo di quel Kit da sfigati che avevano comprato su Amazon. In quel momento ne ebbe la certezza, loro due sarebbero morti vergini. «Tutto bene voi due?» chiese Luna che nel frattempo era arrivata sul portico. Accanto a lei c'era Selvaggia. Filippo rimase a bocca aperta per lo stupore. La ragazza aveva voluminosi capelli infuocati, la pelle bianca come le vette innevate e gli occhi color dell'acero. La canottiera bianca lasciava intravedere i seni sodi. Aveva la vita sottile, da cui partiva un paio di shorts rossi. Se possibile l'amica era ancora più bella della padrona di casa. «Piacere io sono Selvaggia.» Allargò le labbra mostrando i denti splendenti. «Filippo» biascicò. All'improvviso gli si era seccata la bocca. «E io sono Diego. Ma sicuramente Luna ti avrà parlato di me.» Incredibilmente gli erano tornate le forze. «Bene, ora che abbiamo fatto le presentazioni possiamo
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entrare in casa e iniziare a mangiare.» disse la padrona di casa rivolgendo un occhiata d'intesa all'amica. «Ma se non vi scoccia prima avrei preparato un piccolo aperitivo.» «Veramente io» provò a dire Filippo, ma la gomitata che gli rifilò l'amico lo bloccò. «Tu?» «Io non ho parole per ringraziarvi» terminò la frase Diego. L'interno della casa seguiva alla perfezione la facciata. I soffitti bianchi erano a quasi quattro metri d'altezza. Le pareti erano arricchite da decine di quadri che, a un primo sguardo, non sembravano le cianfrusaglie che avevano loro a casa. Era tutto in perfetto ordine. Tappeti immacolati, sedie sistemate al loro posto. Centrotavola spolverati. Insomma, la casa che poteva essere di chiunque tranne che di due ragazze così giovani. «Queste non mi convincono» protestò a bassa voce Filippo. «Non preoccuparti, la tua è ansia da prestazione. Non ti senti all'altezza, ma tranquillo, loro lo sanno che non lo sei.» Diego ghignò compiaciuto. «Lo sapete che è cattiva educazione parlare a bassa voce?» Luna si voltò e fulminò Filippo con lo sguardo. «Sì scusaci, è che il mio amico non si capacita della vostra bellezza.» Le due ragazze sorrisero. I quattro si sedettero su un divano, gli amici separati
dalla padrona di casa e Selvaggia affianco a Filippo. «Posso proporre un brindisi?» chiese Luna porgendo i calici ricolmi di spumante. Gli altri annuirono. «Alle persone speciali, quelle che nascondono molte cose dietro l'apparenza.» Le ragazze risero di gusto, i due amici si lanciarono un'espressione interrogativa. «Salute.» «Ora che abbiamo fatto gli onori di casa, andremmo a finire di preparare la cena.» Luna si alzò, carezzò la guancia di Diego e usci dalla stanza sculettando vistosamente. «Qualcosa non mi torna» esordì Filippo quando fu sicuro di essere solo. «Hai sentito il brindisi» «Nascondono qualcosa. Pensi anche tu la stessa cosa che penso io?» chiese Diego. «Quelle due non sono quello che dicono di essere.» «Certo, ma se sotto ci fosse stato altro me ne sarei accorto. I leggins non mentono. E invece ora... Maledetti jeans» «Ma che stai dicendo? Secondo me queste due sono delle pazze.» «Certo, e lo spumante era avvelenato.» Diego sbadigliò. «Non so che cosa vogliano da noi, ma non mi convincono.» «L'ho già detto, non ti senti all'altezza.» «Non è quello. 'Sta storia non ha senso.» «Smettila di farti paranoie e per una volta goditi la fortu-
na.» «Questa non è fortuna.» «Lo so, e infatti dovresti ringraziare i miei modi affascinanti.» Filippo rimase senza parole, era impossibile parlare con Diego. Si era talmente montato che sembrava credere alle sue stesse cazzate. «Venite, è pronto» disse Luna dall'altra stanza. «Andiamocene, per favore.» «Tu devi essere scemo. Vammi a prendere il borsone mentre io scaldo la serata.» Filippo abbassò il capo. Forse era vero che erano fortunati, ma aveva visto troppi film per crederci. Tornò all'ingresso e fissò la porta. Non poteva andarsene. Si abbassò sulla borsa e l'aprì. Era troppo curioso di vedere se la sua intuizione fosse giusta. Fece scorrere la cerniera, i lembi di cuoio si allargarono mostrando ciò che temeva. Sospirò e iniziò a frugare. C'era tutto: due pugnali d'argento e un'accetta dello stesso materiale, un ampolla d'acqua santa, tre paletti di frassino, un martello e altra roba che non ricordava. Quello era il loro Kit antimostro. Consapevole del fatto che quella serata non poteva riservargli nulla di positivo mise nuovamente mano alla cerniera. Ci pensò un attimo, afferrò il pugnale e lo infilò nella tasca interna della giacca. In fondo aveva poco da perdere. Nella sala da pranzo Diego
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era intento a chiacchierare con le due ragazze. «Appoggia la borsa e vieni qui.» disse vedendo il suo amico. Filippo obbedì. La tavola era apparecchiata, ma non c'era ancora traccia di cibo, e a pensarci bene non ce n'era nemmeno l'odore. «Cosa c'è in quella valigia?» chiese curiosa Selvaggia. «I miei attrezzi del mestiere.» «E che lavoro fai?» «Scusami, mi sono dimenticata di avvisarti. Lui è un cacciatore di licantropi.» Luna scoppiò a ridere. Dopo un primo instante di titubanza l'amica fece lo stesso. In quell'attimo di impasse Filippo trovò le conferme alle sue idee strampalate. «Allora, che fai imbambolato lì? Vieniti a sedere.» Diego alzò il tono della voce. Filippo rimase immobile. In fondo era una vita che andava in bianco. In tutta quella situazione aveva solo da perdere. «No, io vado a casa» disse tutto d'un fiato. «Che cazzo stai dicendo?» Diego si alzò e gli andò incontro. «Noi rimaniamo qui!» «Veramente, non mi sembra il caso.» «Smettila di dire cazzate. Noi ora facciamo compagnia a queste fantastiche ragazze.» Si voltarono simultaneamente verso il tavolo, ma solo Selvaggia era rimasta al suo posto. Diego aprì la bocca per chie-
dere che fine avesse fatto Luna, ma il rumore della serratura che scattava gli diede la risposta. La ragazza era in piedi davanti alla porta. Mostrò la chiave e la mise in tasca. «Che gioco è questo?» chiese Diego. «Nessun gioco. Ma non credo sia il caso che ci roviniate la cena.» «È solo un po' spaventato. Sai, non esce spesso con le ragazze.» «Oppure ha intuito cose che il tuo uccello non ti permette di capire.» Luna guardò fuori, sorrise e si chinò in avanti. Filippo si voltò verso Selvaggia e la vide nella stessa posizione. Ginocchi e palmi poggiati per terra e lo sguardo rivolto al cielo luminoso. «O cazzo, c'è la luna piena» imprecò Diego che finalmente sembrò capire. Si abbassò per raccogliere la borsa, ma qualcosa lo urtò impedendoglielo. Il ragazzo volò dall'altra parte della stanza. Filippo si trovò davanti Selvaggia, o almeno la sua parte più animalesca. I capelli rossi non c'erano più, al suo posto c'era un fitto pelo dello stesso colore. Solo gli occhi erano gli stessi, il volto si era deformato diventando quello di un lupo. Il mostro digrignò i denti ed emise un verso simile al ringhio dei cani. «State indietro.» Il ragazzo portò la mano alla schiena ed estrasse il pugnale. «Questo è
d'argento, posso uccidervi.» I due licantropi si misero a ululare. Terrorizzato, terrorizzato barcollò all'indietro. La mano gli tremava. Sentiva le gambe pronte a cedere. I due lupi ora avanzavano spalla a spalla. Avevano il pelo ritto sulla schiena e la lunga coda continuava ad agitarsi. Fu Luna a fare la prima mossa, si piegò sulle zampe davanti e spiccò un salto verso di lui. Filippo vide solo la bocca scura che si spalancava mostrando i lunghi denti aguzzi. Portò il braccio a protezione e chiuse gli occhi. Sentì uno sparo, rumore dei vetri infranti. Il corpo del mostro gli piombò addosso facendolo rovinare a terra. Senza capire cosa stesse succedendo gattonò il più lontano possibile dal corpo ansimante che gli schiacciava le gambe. Vide Diego svenuto in un angolo e si diresse verso di lui. Altri vetri caddero sul pavimento di marmo, arrivarono diverse voci, altri spari e un guaito. Poi il silenzio. Filippo raggiunse il suo amico. Respirava ancora. Lo prese per la giacca e lo trascinò verso la porta, ma in quel momento qualcosa l'afferrò per il collo. Non sarebbe morto così. Si voltò e sferrò un colpo con il pugnale. Una mano gli bloccò il polso. Filippo non poteva credere ai suoi occhi, aveva davanti la donna del supermercato, quella a cui aveva spalmato
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addosso il formaggio. Era completamente vestita di nero, aveva due pistole in altrettante fondine e una piccola falce stretta in pugno. «Cosa pensi di fare con questo?» chiese torcendogli leggermente il polso. La mano di Filippo si aprì facendo cadere il pugnale. La donna lo raccolse e si mise a ridere. «Con questo è già buono se ci tagli il burro. La prossima volta compra roba che non sia made in China.» La stanza era piena. A parte la donna del supermercato c'era un altra decina di persone indaffarate a recuperare i cadaveri delle due donne, che erano tornate al loro aspetto umano. Filippo non ci capiva più nulla, non sapeva cosa stesse succedendo. Come poteva essere tutto vero? «Ti hanno ferito?» gli chiese una voce femminile decisamente più giovane della prima. Lui si voltò e vide una ragazza di circa vent'anni, non molto appariscente, ma dal fascino magnetico. Filippo abbassò lo sguardo sulle gambe di lei. Indossava dei Leggins. Sorrise pensando a quanto avrebbero fatto girare la testa a Diego. Lei ricambiò, o almeno così pensò lui. La stanza girò, divenne tutto buio e si spensero i rumori. Tutto quello era troppo per il ragazzo; non era mica un cacciatore di Leggins lui.
S ka n
colorandolo C a p i t a n o , o nell'oceano d'oro e di splendide m i o c a p i t a n o mature rosso-arancio.sfu-Ma,
Una piacevole brezza estiva mi scompiglia i capelli increspando lievemente le onde del mare di fronte a me. Sono di nuovo qui, seduta su questi scogli, dove ci siamo baciati la prima volta più di dieci anni fa. Il mio cuore è colmo di felicità, appena oscurata da un sottile velo di inquietudine, causato dalla irrazionale paura di un suo rifiuto. Vicino a me nostra figlia. Nove anni appena compiuti. Ha appoggiato la testa sulla mia spalla e mi guarda con l'animo colmo di speranza e amore. Ricordo come fosse ieri quando fu concepita: in quella notte di passione travolgente in cui lui mi promise amore eterno, prima di svanire dalla mia vita. Ma questa sera tornerà. L'uomo che non ho mai smesso di amare in tutto questo tempo, oggi sarà qui, per conoscere sua figlia e ricongiungersi a me: come è giusto che sia, come avrebbe dovuto essere fin dall'inizio e come non è mai stato. Fisso il mare speranzosa mentre il sole, finita la sua parabola nel cielo, si tuffa
nonostante il magnifico spettacolo che ho di fronte, ho occhi solo per quella scialuppa che avanza lentamente verso di me. Io e mia figlia, mano nella mano, aspettiamo impazienti sulla scogliera con l'animo trepidante di attesa. Quella lancia staccatasi dal veliero ancorato al largo sta per portarmi la tanto agognata felicità, l'uomo che per tanti anni ha popolato i miei sogni tingendoli di rosa. Quando l'imbarcazione è ormai a cento metri da me, finalmente riesco a vederlo: è bellissimo e spavaldo nella sua uniforme da capitano. I suoi splendidi capelli biondi, le spalle larghe e quei meravigliosi occhi azzurri che rivedo ogni volta che osservo il viso di nostra figlia. Mentre la mia bambina sopraffatta dall'emozione mi stringe più forte la mano, inizio a cantare. Voglio che il nostro incontro abbia lo stesso incanto della prima volta, quando un giovane marinaio si innamorò della melodia che una dolce fanciulla stava cantando. Una canzone struggente, che parla di amore, di lontananza e di amanti divisi: dolcissima e toccante. Come è avvenuto centinaia di volte nei miei sogni, il giovane capitano si tuffa
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dalla scialuppa, e con vigorose bracciate si dirige verso di noi cercando di percorrere più velocemente la distanza che ci separa. Anche mia figlia si tuffa, nuotando con agili e veloci bracciate per raggiungere il suo papà, per ricevere quei baci e quelle coccole che ha sempre sperato di ricevere e che le sono stati sempre negati da un destino avverso. Si incontrano a venti metri dalla mia posizione, mentre la mia canzone dona a questo incontro un' atmosfera unica, commovente e irripetibile. Un casto bacio sulla guancia, una carezza sul viso della mia piccina, ristorano le ferite della mia anima come un balsamo miracoloso, mentre noto con orgoglio che lo sguardo del giovane capitano ora è fisso su di me, colmo di trasporto e di passione. L'attesa è insostenibile, cosi decido di scendere in mare anch'io. Con l'acqua che mi cinge la vita lo aspetto a braccia aperte, mentre le note del mio canto, leggere ed aggraziate come impalpabili farfalle, escono libere e gioiose dalle mie labbra. Con poche energiche bracciate il giovane uomo copre la distanza che ci separa e mi raggiunge. E' bellissimo e irresistibile come una divinità del mare. Il primo saluto tra noi due è
un bacio colmo di voglia e di desiderio. Le nostre bocche si uniscono interrompendo la mia melodia. Avrei voluto che l'ultima nota morisse sulle sue labbra, ma il desiderio di sentirmi di nuovo stretta fra le sue forti braccia ha avuto il sopravvento. Finalmente sto vivendo il mio sogno, mentre le mie dita affusolate si perdono tra i capelli della sua nuca e il cuore mi batte talmente forte che ho timore che voglia uscirmi di prepotenza dal petto. Improvvisamente, mentre lo bacio con l'anima a fior di labbra, sento la sua mano che, poggiata sul mio petto, mi allontana con impietosa determinazione. Lo guardo e noto con disperazione che il mio tentativo di sedurlo non ha avuto esito: la sua espressione si è fatta di nuovo cupa. Una smorfia di ostilità attraversa il suo viso, dolcissimo fino a pochi istanti fa, e i suoi occhi mi osservano inclementi e gelidi, facendomi morire dentro. La sua voce è greve e distaccata, priva di qualsiasi dolcezza. Sospingendomi lontano da lui, pronuncia tre parole. Parole che non avrei mai voluto sentire e che risuonano nell’aria come una condanna, cancellando di colpo tutti i miei sogni d’amore. Le mie fantasie si dissolvono come orme cancellate dalle prime onde brumose dell’alta marea. Mi fissa con sguardo crudele conficcando nel mio cuore, con le sue parole, gelide lame portatrici di sofferenza e frustrazione… “Ridammi mia moglie!” Già, sua moglie. Quella banale, goffa, inutile donnicciola. Come ha potuto, quella insignifi-
cante donna che non vale neanche la metà di quel che valgo io, rubare il cuore all’unico uomo che abbia mai amato? Mi ricordo quando quella sfrontata, stufatasi della invadenza mia e di mia figlia nella loro quotidianità, ha chiesto di vedermi poco distante da qui, allo scoglio dei gabbiani, per chiarire una volta per tutte e in maniera civile la situazione. L’atteggiamento civile tra noi non è durato neanche il tempo dei saluti. Prima sono volate parole grosse, poi insulti, poi lei ha stupidamente tirato fuori un coltello e... non è stata colpa mia. E' stato un incidente! Probabilmente le ho tenuto la testa sott’acqua un po’ più a lungo del dovuto, ma non volevo ucciderla! Volevo soltanto spaventarla! Desideravo farle capire che sarei arrivata persino ad ammazzarla, se non avesse lasciato libero il mio uomo! Lui invece, senza un briciolo di prova e non credendo alle mie parole, mi ha sempre incolpato dell’accaduto, arrivando perfino a minacciarmi di morte se mi fossi fatta vedere ancora in giro. Un mese dopo, sicuramente per ripicca, si è imbarcato e mi ha lasciato qui, da sola con la nostra bambina ad aspettare un suo improbabile ritorno, il tutto condito dalle mie lacrime di dolore e costernazione. Lo guardo in viso e tento di sorridergli, ma il suo sguardo gelido mi paralizza. Ha di nuovo quell’aria severa e accusatoria, un’aria che mi fa capire che il risentimento nei miei confronti non
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ha mai abbandonato il suo cuore. “Ma perché cerchi ancora tua moglie? Io sono qui, Esmeralda, è qui per te… siamo noi la tua famiglia! Quello che amo di più al mondo...sei tu!” La sua risata di scherno mi colpisce, violenta come uno schiaffo inferto da una mano invisibile. Indietreggiando mi appoggio allo scoglio mentre calde lacrime di disperazione incominciano a velarmi gli occhi. Poi sputa in mare con disprezzo e con tono insolente mi rivolge la parola: “Stammi a sentire lurida baldracca: non mi importa se ti eri fatta delle illusioni, io con te mi volevo solo divertire, chiaro? Tu per me non hai mai significato niente, e tua figlia è stato solo uno stupido errore!” Non riesco a credere a quello che dice: il mio uomo, il mio capitano non può dire queste bugie, queste assurdità, in modo così triviale e di fronte a nostra figlia! “Non ti ho mai amata, non ti amo e non ti amerò mai! Eri bellissima e ho voluto solo divertirmi, tutto qui. Ora renditi utile! Riporta indietro mia moglie dal mondo dei morti come hai promesso e sparite per sempre dalla mia vita, altrimenti vi scanno con le mie mani e vi butto in pasto ai pesci” Mia figlia è inebetita, sconvolta. Si è resa conto nel peggiore dei modi che suo padre, il padre amorevole di cui le avevo sempre parlato, è in realtà uno tra i peggiori bastardi che popolano questa terra. La osservo e mai come adesso mi è sembrata così piccola e fragile. Avrebbe bisogno di carezze, di
baci, di sentire l’affetto di un padre che non aveva mai conosciuto e invece si trova a piangere silenziosamente di fianco ad un uomo insensibile. Bisognosa dell’amore di un genitore che vorrebbe stringere a sé e che invece non la degna nemmeno di uno sguardo, come se fosse l’ultima delle serve. Leggo negli occhi di mia figlia la stessa crudele conclusione alla quale sono giunta anch’io: nel cuore di quest’uomo, se mai ne possiede uno, non c’è posto né per me né per lei. Decido di ricambiarlo con la stessa moneta. Con infinita sofferenza trasformo il mio sguardo da amorevole e sognante a sprezzante e altero. Se penso a tutta la fatica fatta per attirarlo qui, per poterlo incontrare faccia a faccia, facendo leva sulla sua unica debolezza: l'affezione per quella squallida contadina. D'altronde il messaggio che gli avevo fatto consegnare da un ragazzino, durante il suo ultimo sbarco a Port Royal, era al tempo stesso misterioso e inequivocabile: “Carissimo capitano, conosco un rito magico capace di farti ricongiungere nuovamente con tua moglie. Vediamoci tra due settimane nel posto dove ci siamo incontrati la prima volta, dieci anni fa. Tua Zhaira.” In realtà non sono in possesso di nessun rito. Ero sicura che il vedermi sempre giovane, bella e in presenza di Esmeralda l'avrebbe aiutato a prendere l'unica decisione sensata. Chi sarebbe capace di ri-
fiutare una moglie splendida e attraente come me e questa stupenda bambina come figlia? Ma Nathaniel Forrest non è più il giovane marinaio pieno di sogni e speranze che ho imparato ad amare qualche anno fa. E’ cambiato. In peggio. Il matrimonio con quella maledetta vipera e sette anni di navigazione, tre dei quali come capitano di una nave corsara, l'hanno trasformato in una persona arida e insensibile. “Allora ci diamo una mossa? O preferisci che incominci con le maniere forti, cancellando per sempre questo “errore di gioventù”?” Nello stesso istante Nathaniel estrae dalla cintola un pugnale e lo punta davanti al viso della mia bimba, che sentendosi seriamente minacciata incomincia a piangere in maniera più evidente. A complicare il tutto mi accorgo che la scialuppa che ha accompagnato fin qui il mio “dolce maritino” è arrivata a pochi metri da noi, con a bordo due avanzi di galera dall'aria poco raccomandabile. Mi sento stupida. Per inseguire i miei ingenui sogni romantici, mi sono cacciata in una situazione di reale pericolo e quel che è peggio ho involontariamente coinvolto anche mia figlia. Cerco di prendere tempo perché non so realmente che fare, quando improvvisamente tra le miriadi di sensazioni ed emozioni turbinanti nella mia mente si fa largo un’idea. La valuto. Decido di provare.
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“Vuoi indietro tua moglie, lurido bastardo? Allora fai quello che ti dico, senza discutere.” Il tono della mia voce è autoritario e gelido al tempo stesso. “Tira fuori un oggetto che era appartenuto a lei, svelto!” Tra le dita dell’uomo spunta un anello d’argento e per un attimo il mio cuore cessa di battere. Quell’anello era stato un mio dono, un pegno del mio amore per lui! Maledetto bastardo! Senza alcun rispetto nei miei confronti ha subito pensato di cederlo a quella lurida cagna, servendoglielo condito da qualche squallida bugia. “Inciditi il palmo della mano” lo incalzo sprezzante. “Fai colare il sangue sull’anello e poi in acqua mentre recito le parole del rito.” “E poi….” “E poi potrai riabbracciare tua moglie. Presto. Fai come ti ho detto!” “Se cerchi di ingannarmi, ti squarto come un maiale e ti lascio ad essiccare crocifissa sulla polena della mia nave.” Non gli rispondo. Le sue inutili ciance non meritano neanche una risposta da parte mia, ma continuo a fissarlo con avversione. L'amore che provavo poco fa si è oramai trasformato in odio. Il solo stragli vicino mi fa venire il voltastomaco. Voltando le spalle a mia figlia fa un passo verso di me e, imprecando fra i denti, si taglia il palmo della mano con la lama del pugnale. Il sangue inizia a colare sull’anello mentre pronuncio solennemente parole senza alcun
significato. Devo essere credibile, distrarlo e sperare che Esmeralda si sbrighi. Improvvisamente mia figlia è scossa da un brivido, sta perdendo il controllo, lo sento. E’ ancora piccola e non può resistere al richiamo del sangue che sta iniziando a colorare di rosso l’acqua intorno al maiale che l’ha generata. Ancora un fremito, l'aggrottarsi delle sopracciglia, lo sguardo che diventa malevolo mentre la lingua lecca famelica il labbro superiore, e poi la trasformazione di Esmeralda ha inizio. La pelle perde il suo consueto colore rosa chiaro, incominciando a diventare grigia e grinzosa, mentre dalle dita sottili spuntano terribili e affilati artigli. Il suo grazioso nasino si ritira scomparendo del tutto, lasciando il posto a due orrendi buchi. La bocca si allarga facendo intravvedere al suo interno una spaventosa dentatura, dalla quale spiccano lunghi e appuntiti canini. Ma la cosa più impressionante della mutazione sono gli occhi: da azzurri e innocenti come quelli di un angelo diventano neri come pozzi senza fondo, maligni e bestiali come quelli di un demone predatore. La metamorfosi si completa in brevissimo tempo alle spalle di Nathaniel che ignaro continua a prodigarsi nella esecuzione di un finto rito. La mia piccola, sbavando oscenamente, afferra con la mano sinistra la spalla del padre. “Lasciami andare piccola idiota… o mi farai sbagliare il rito!”
Quel grandissimo beota, credendolo un timido ulteriore tentativo di contatto da parte della figlia, cerca di sottrarsi a quell'abbraccio scrollando le spalle. Un attimo dopo un grido di dolore si alza verso un cielo sgombro da nuvole mentre Esmeralda azzanna con ancestrale ferocia il braccio destro del padre. Benedetta bambina, quante volte ancora dovrò ripeterle che il punto debole degli umani, l'unico bersaglio in cui affondare i nostri affilatissimi canini, è il collo? Un altro atroce urlo di dolore seguito da un copioso schizzo di sangue e la mia bambina stacca il pezzo di carne addentato dal braccio del padre, iniziando a masticarlo con bramosia. Nathaniel è paralizzato dal terrore. Davanti a sé non ha più una dolce e fragile bimba, ma una creatura giunta direttamente dagli antri più nascosti degli inferi. Selvaggia, incontrollata e con il viso mezzo ricoperto di sangue... il sangue di suo padre. Preoccupata dal precipitare degli eventi, getto uno sguardo sui membri della scialuppa. Non vorrei che quei pendagli da forca decidessero di puntarci contro le pistole per far fuoco, ma mi tranquillizzo subito. L'area intorno all'imbarcazione è diventata teatro di un sanguinoso combattimento tra i due marinai e le mie sorelle che, essendo riuscite a farli cadere in acqua, si stanno divertendo a straziarli con dolorosi morsi e profondi graffi. Mia figlia nel frattempo ha nuovamente conficcato le zanne
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nell'avambraccio di suo padre, che sta tentando di estrarre e usare la sciabola che porta al fianco con movimenti goffi e impacciati. Non gli lascio il tempo di far altro. Balzo in avanti e gli afferro il polso proprio mentre sto ultimando la mia trasformazione. Nathaniel si gira e mi fissa in volto: è meraviglioso vedere come l'orrore puro trasformi la sua espressione, prima sprezzante, in una maschera delirante e folle. Non sono una bambina, ma una donna matura e sicura di sé. Di conseguenza anche la mia seconda forma perde le connotazioni infantili che ha Esmeralda e diventa orribile a vedersi. Nel mio sguardo non c'è la brama selvaggia e primordiale di mia figlia, ma odio allo stato puro come quello che potrebbe trovarsi negli occhi di un angelo vendicatore, capace di suscitare il terrore più profondo e la pazzia negli esseri umani. Avvicino il mio viso a quello di Nathaniel e preceduta da un ghigno malevolo, sussurro un'ultima frase carica di livore: “Corri a riabbracciare la tua dolce mogliettina... tra le fiamme dell'inferno!” Mi avvento sul suo collo, immergendo le zanne nella morbida carne. Decido di non spezzargli il collo, limitandomi a succhiargli il sangue. Spero così di infliggergli una morte terribile, lenta e dolorosa. Dopo qualche minuto è tutto finito. L'acqua intorno a noi è rossa di sangue. I cadaveri del capitano e
dei suoi tirapiedi galleggiano, come otri pieni d’acqua, poco distanti. Esmeralda piange disperatamente, mentre cerco di lavarle via il sangue che ancora le sporca il visino. “Mamma, scusami. Non sono riuscita a controllarmi. L’odore del sangue mi è entrato dentro corrompendomi l’anima… non volevo… Ti prego perdonami…” “Non hai niente di cui scusarti tesoro mio. Quando sarai più grande riuscirai a trattenerti e a non cedere al richiamo del sangue. Per ora allenati a cacciare e basta. Stai tranquilla, non sono assolutamente in collera con te”. Le sollevo delicatamente il mento per guardarla in faccia e mi ritrovo davanti il volto che ho imparato ad amare in tutti questi anni: quello di una dolce bambina, con i capelli biondi, due occhioni azzurri e il viso rigato di lacrime. “Mamma anche tu sei tornata... normale” mi dice tirando su con il naso. “Sì tesoro. Il pericolo è cessato. Quell'uomo non potrà più farci del male” le dico sorridendo. Se penso a quel che ho perso, per colpa di quel porco che non ha voluto assumersi le sue responsabilità, mi sento morire dentro. “Andiamo via Esmeralda. Qui non abbiamo più nulla che ci trattenga...” “Mamma.....” quegli stupendi occhi azzurri mi fissano con intensità “ cosa faremo, adesso?” “Non lo so con certezza. Ma una delle cosa che voglio fare al più presto è darti un padre degno di questo nome. Sei d'accordo?” La mia bimba sorride divertita e
mi abbraccia con trasporto, mentre dalle sue labbra escono quattro semplici parole che hanno il potere di rendermi immensamente felice. “Ti voglio bene, mamma.” “Zhaira, sorella mia, sarà meglio andare” dice una delle splendide quattro fanciulle che mi circondano, indicandomi, con un elegante movimento della mano, una seconda scialuppa che si sta dirigendo verso di noi carica di marinai urlanti e dall'aria pericolosa. Sono ancora lontani, quindi potremo scappare via tranquillamente senza problemi. Il rumore di più spari ci fa capire che sono armati di moschetto e che sono intenzionati a vendicare il loro capitano. Sono ridicoli. Cercare di colpirci con quelle armi dalla distanza a cui si trovano è pura follia. Ci guardiamo tutte negli occhi, sorridendo della loro stupidità, e ad un mio segnale ci immergiamo sott'acqua. Rasentando il fondo sabbioso, sarà quasi impossibile per loro arrivare a colpirci quando passeremo nei pressi della loro lancia. Mentre fuggiamo protetti dall'oceano, osservo le mie sorelle che con infinita grazia mi nuotano vicino e mia figlia che si trova accanto a me. La osservo amorevolmente. E' meravigliosa, così piena di vita, e prego gli dei che possano darle un destino migliore del mio. Mi auguro che possa trovare uno sposo degno di lei senza provare mai lo strazio nel cuore che sto sentendo io adesso. Sono stata ingannata nel peggiore dei modi, usata e dimenticata in fretta
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dall'unica persona alla quale mi ero donata con tutta me stessa, come una stupida ragazzina. Siamo state destinate per natura ad essere desiderate, non a desiderare. Ad attrarre irresistibilmente gli uomini e a conquistarli con il nostro canto. A passare la gran parte della nostra vita come creature giovani e bellissime. Ma siamo dotate anche di un istinto vendicativo terribile e selvaggio. Possiamo aspettare anni prima di compiere la nostra vendetta, perché il tempo per noi ha una valenza diversa rispetto a quello degli umani. La compiamo senza remore perché non temiamo la giustizia degli uomini, e qualche volta la perseguiamo fino alle estreme conseguenze. In alcuni casi, come il mio, giudichiamo che la morte è l'unico modo di far espiare il male che ci hanno fatto. Ma anche se siamo considerate alle stregua di mostri senza sentimenti e privi di affetto, possediamo un cuore che può donare ad un uomo tutto ciò che desidera, in cambio di amore incondizionato e rispetto per la nostra natura. Addio per sempre Nathaniel, non avresti dovuto prendermi in giro. Non si gioca con i sentimenti di una donna, in nessun caso. Specialmente se la donna in questione è una sirena. Come me.
S ka n Sughero
Quando Amilcare scese dall’autobus e andò in centro, vide che c’erano altri negozi con le serrande abbassate; la sensazione di vuoto raddoppiò, acuita dalla consapevolezza di dover tornare alla stazione, desolatamente chiusa. Il passaggio a livello con le sbarre perennemente sollevate lo aveva amareggiato nel profondo, facendogli sentire la sparizione dei treni come un lutto; avevano accompagnato parecchi momenti felici dei suoi viaggi in città e immaginava le carrozze inutilizzate come sarcofagi di metallo nei quali imputridivano carcasse di estati allegre. Gli parve che il vuoto fosse arrivato a toccare anche i luoghi che gli appartenevano più di tutti, come il circolo Anni ’80, nel quale aveva trovato tanti nuovi amici, ai tempi delle scuole medie. Vide che era ancora chiuso, il catenaccio alla porta parlava da sé, come una beffa davanti al suo tentativo di uscire ed aprirsi alle amicizie. Già che c’era, decise di dare un’occhiata ai manifesti mortuari e vide che il suo amico Emerenziano Chiriotti, il più grande fre-
quentatore del circolo, era morto. Nessuno lo aveva informato del decesso e quando si recò al caffè che si trovava accanto alla Casa Incompiuta, incontrò la sua amica Gilla. Sedeva al tavolo, con il trucco sfatto e un’espressione disgustata, mentre sorseggiava il punch al rum del mattino. - Scusa, Gilla, ma che cosa è successo ad Emerenziano? – le domandò. Lei, scostandosi la pesante frangia ricciuta, posò il bicchiere e gli rivolse uno sguardo apatico e replicò:Gas. Non lo hai saputo? Penso sia colpa del sughero. Era un gioco comune fra loro due: paragonavano tutte le sparizioni delle comodità e degli affetti di prima a una catastrofe silenziosa e implacabile nello stile di blob. Al posto della gelatina, la loro mente vedeva una parete di sughero che isolava la gente e uccideva i luoghi dove la vita pullulava. Gilla riprese: - Sei un coraggioso, tu, a venire qui. Io non so cosa darei per andarmene. - Perché non lo fai, allora? – le domandò lui, con fare pratico. La donna, con voce impastata, gli rivelò: - Ci ho provato, ma la parete mi ha isolato, coprendo la mia vo-
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ce. Ci sono stati troppi fraintendimenti. Anche Emerenziano voleva andarsene e guarda cos’è successo. Il giovane tacque, ancora sconvolto dalla rivelazione. Ai tavoli vicini, c’era chi parlava al cellulare e chi trafficava con i tablet e lui provò una grande sensazione di freddo. La parete di sughero che aveva cominciato a perseguitare la loro generazione era comparsa già nei tempi rassicuranti, ma almeno, Gilla era allegra e beveva gazzosa alla fragola ed Emerenziano arrivava con il giornale sportivo a commentare le partite. C’era anche chi leggeva fumetti e giocava a ping-pong oppure a calcio, se ne ricordava bene, mica era accaduto nella preistoria. Eppure, la parete di sughero si era frapposta anche fra lui e quei ricordi. Gli giungevano lontani e attutiti, mentre lui provava una sensazione di vuoto e di smarrimento, sentendosi perso in un ambiente dove nessuno si interessava al vicino. Solo le immagini e le voci lontane avevano importanza, anche al caffè e il sole sorridente della pubblicità della birra aveva assunto, agli occhi dell’uomo, una sfumatura sardonica. Sembrava davvero un inviato delle potenze infere
che stavano soffocando un’intera generazione isolandola con una parete di sughero che soltanto lui e Gilla potevano vedere. La donna, vedendolo perso davanti alla pubblicità appesa alla parete, gli domandò: Cosa c’è? A che pensi, Amilcare? Lui, senza staccare gli occhi dal disegno pubblicitario realizzato su vetro, le rispose: Oh, basta. Sembri Facebook: A cosa stai pensando? Sbuffò e le disse: - A niente. Sto guardando quel quadro. - Cos’ha che non va? – gli domandò lei, voltandosi a osservarlo per la prima volta dopo tanti giorni passati in un’atmosfera annebbiata dai punch. Amilcare, abbassando la voce per una questione di abitudine, le sussurrò: - Tutto, è quel che odio di più di questo posto. Possibile che non possano cambiarlo con qualcos’altro? Gilla fece una smorfia e poi tornò a sorseggiare la bevanda, non più tanto calda. - Te ne ricordi ancora – constatò con il tono di chi sta leggendo un numero telefonico. Amilcare si accalorò: - Sicuro. Saremmo dovuti andare in quel birrificio con Emerenziano. Ricordi? La donna, dopo aver appoggiato il bicchiere gli rivelò: - Non farmi stare peggio di così. Lui ci ha lasciati e il birrificio è fallito un mese fa. Quel che Eme-
renziano odiava di più di questa città è il posto in cui ci troviamo ora. E io sono d’accordo con lui, che postaccio. Lo disse a voce abbastanza alta, ma nessuno le rispose. Il barista stava servendo dei clienti al bancone e la musica alla radio era abbastanza alta da coprire i suoni, anche se ad Amilcare parve che l’uomo avesse sollevato un sopracciglio. Nel locale, a parte la pubblicità che i due odiavano tanto perché la consideravano una promessa non mantenuta, c’erano manifesti che reclamizzavano le iniziative del circolo ed erano tutti di diversi anni prima. Persino le caramelle esposte nel cestino accanto alla cassa erano scolorite. - Perché ci vieni, allora? – le domandò Amilcare – restatene a casa. Una luce d’orrore brillò negli occhi acquosi di Gilla. - No, laggiù è anche peggio – gli disse d’un fiato. Pur avendo bevuto, si strofinò le braccia per ricacciare una sensazione di gelo. - Sono ancora troppo sobria per pensare di tornarci – aggiunse, abbozzando un sorriso amaro. Gilla ripensò alle stanze arredate nello stile Anni Sessanta, ancora belle se le si guardava da lontano, ma a viverci era un’altra cosa. La tappezzeria era sbiadita in alcuni punti e le poltrone erano lise sotto le fodere, neppu-
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re queste all’ultimo grido. E anche il bagno e la cucina non stavano meglio. Tutto quello che sarebbe dovuto essere brillante era ammaccato o coperto di ruggine, ma lei era sicura che, a grattare le superfici dei muri ne sarebbero usciti tanti pezzetti di sughero. A schiacciarli, poi, sarebbero saltati fuori pezzi di stoffa e metallo ancora in ottimo stato e forse anche il sangue di Emerenziano. - Tu, piuttosto, perché torni qui sapendo che ogni volta un pezzo di questa città scompare dietro la parete di sughero? – gli domandò la donna. Amilcare guardò il vicino alle prese con il Tablet e si avvide che sulla superficie di vetro la polvere si era depositata fino ad assumere la consistenza del sughero macinato. Ne poteva anche sentire l’odore, come gli succedeva spesso a casa. Anche lui ci sarebbe dovuto tornare prima che fosse troppo tardi. Non viveva solo, malgrado la libertà apparente che ostentava nei suoi giri; anche lui doveva convivere con un orrore molto simile a quello che tormentava Gilla, ma non si trattava di recite familiari da affrontare con le bottiglie nascoste nell’armadio dei vestiti. Per colpa di vari disaccordi, era stato costretto a fare a meno di una presenza viva a casa. Tutto quello che gli rimaneva
dei vecchi rapporti sfaldatisi nel corso degli anni erano istantanee Polaroid che stavano sbiadendo e che in alcuni punti presentavano macchie marroni. Eccola lì, la sua famiglia. Anche le voci del passato erano taciute; provando a riascoltare vecchi nastri registrati su cassetta, li aveva trovati smagnetizzati e aveva sentito un odore legnoso. Il sughero aveva cominciato a corroderlo dall’interno, trasformandolo in un viluppo di sofferenza e questo era un dettaglio che doveva rivelare a Gilla, affinché lei potesse mettere in guardia i superstiti del circolo. La rivelazione fece ridere la donna: - So bene che spesso si manifesta così. Sta facendo lo stesso effetto anche a me. Ti ricordi? Una volta bevevo una birra sì e no alla sera, quando era ora di fare baccano d’estate. Amilcare, prima che lei ordinasse il secondo punch, le domandò: Non faremmo meglio a visitare il circolo? Chiedi le chiavi a Biagio, prima di cadere sotto il tavolo. Gilla, con passo appena caduco, andò dal barista e gli ordinò da bere, sussurrandogli poi all’orecchio qualcos’altro. Biagio puntò l’indice verso Amilcare e poi preparò la bevanda per la donna. Il giovane gli si avvicinò: - Cosa c’è? Problemi? Eppure mi conosci. Il barista lo mise in guardia: - Là dentro non c’è più nulla. Se vuoi passare qualche ora qui, per me va bene, ma non dire assurdità. Altrimenti, fuori.
Gilla intervenne: - E dai, stavamo ricordando i vecchi tempi, sarebbe bello se potessimo tornare là. Era quello che Amilcare e io volevamo dire. Diede una gomitata all’amico: Giusto? - Sì – rispose lui. - Bene. È stato un piacere, Biagio. Gilla pagò anche per Amilcare e i due uscirono dal locale, passando sul marciapiede opposto e guardando ostinatamente in avanti, ben decisi a fare come ai vecchi tempi; prima la passeggiata lunga e dopo lui avrebbe accompagnato l’amica a casa e sarebbe tornato alla stazione scegliendo il percorso più tortuoso. Nel circolo rimasto vuoto da diverso tempo, la luce filtrava attraverso gli avvolgibili, illuminando palloni, panche, un paio di tavoli con i giochi di società chiusi nelle scatole impilate su una sedia nell’angolo accanto alla porta. Sul muro, alcuni disegni a sanguigna tornavano visibili nella luce incerta del mattino. Una mano beffarda aveva voluto mettere in ridicolo il videoclip Loser, trasformando il lamento di Beck in una striscia alla Bonvicini. Il sughero non era arrivato, da quelle parti. Biagio lo sapeva e non aveva voluto accontentare Amilcare apposta; quanto a Gilla, la riteneva già prossima a raggiungere Emerenziano. Quanto a se stesso, non se ne preoccupava troppo, aveva visto che a ben tenerlo, il circolo continuava a rimanere intatto e i fantasmi
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che lo frequentavano si sarebbero sentiti a loro agio. Anche quella sera entrò a fare pulizia notturna e una figura in poltrona lo salutò, mentre altre due si alzarono dal tavolo vicino. La voce di Emerenziano gli parlò dalla poltrona: - Ho invitato un paio di amici, spero che non ti dispiaccia. Biagio si appoggiò alla scopa. Si era abituato a conversare con gli spettri dei frequentatori del circolo; i primi giorni dopo la morte apparivano nitidi come in vita, dopodiché scomparivano piano piano, riducendosi a lievissimi scricchiolii del legno. Gli era successo con quello di Vale il caricaturista, ma non aveva mai avuto incontri ravvicinati con più fantasmi. - Noi siamo solo di passaggio – gli disse Gilla. Amilcare aggiunse: - Ci hai indovinato, oggi. Sapevi che sarebbe toccata a noi. La parete di sughero ci è caduta addosso all’incrocio. - Non ha capito la battuta - ridacchiò la donna. - Oh, la imparerà, visto che ci raggiungerà presto – le rispose l’uomo, mentre Biagio arretrava, arrivando sì a chiudere la porta del circolo con il catenaccio malgrado lo choc, ma che gusto aveva in bocca. Gli sembrava di aver masticato sughero.
N o n pe r d e t e i l n u m er o d i M a g g i o足 G i u g n o 2 01 5
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