Skan Magazine n.21

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Anno 2

N u me r o 2 1

S ka n

M a g g io 2 0 1 4

La rivista multicanale di narrativa fantastica liofilizzata istantanea

Bright Side

AMAZING MAGAZINE

Deepcon 15 Ian MacDonald Capitan America

Black Swan Parole Vittime imperiture Viaggio in treno, io Il sole di mezzanotte N ASF ­ L e T re L une 9

Il prezzo dell'immortalitĂ E vissero tutti... Quake, pianeta proibito Un mondo per gli artefici Il libro del fiume Il libro delle stelle The Apocalypse Codex Absolution Gap La macchina del tempo Parigi Sud V Gray Inverno Arabo Terraluna Sinistre presenze Cronache dal Neocarbonifero Morte a 666 giri Premio Hannibal Lecter Godzilla

Bambina

d i N o e mi P ie t r a n d r e a


N o n pe r d e t e i l n u m er o d i Gi u g n o 2 01 4 U n r e s pi r o pr o f o n d o r os s o


Sommario Hanno collaborato

Jackie de Ripper e

Max Gobbo Andrea Viscusi Roberto Bommarito Letizia Loi Alessandro Forlani Luigi Bonaro Polly Russell Christian Fedele Andrea Atzori Massimo Luciani Riccardo Sartori Dolby MOVIE 5.1 Noemi Pietrandrea

del

L'editoriale ............................. 5 di Jackie de Ripper OLTREMONDO Speciale Deepcon 15 di Max Gobbo .............. 6 Incontra Ian MacDonald di Max Gobbo .............. 10 Concorsi Morte a 666 giri I vincitori ....................... 13 Kinetografo Capitan America di Max Gobbo .............. 14 Novità Battiago,"Parigi Sud V". 16 Falconi, "Gray" ............... 17 Passaro,"Inverno arabo".18 Novità da Bietti ............................ 20 Being Piscu "Black Swan" ................... 21 di Andrea Viscusi Una voce da Malta Bommarito, "Parole" ....... 22 di Letizia Loi Il Grande Avvilente "Vittime imperiture" ........ 24 di Alessandro Forlani Poscritti di futuro ordinario "Viaggio in treno, io" ...... 30 di Luigi Bonaro ... e alla fine arriva Polly "Il sole di mezzanotte" .... 32 di Polly Russell

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Bright Side Oltre lo Skannatoio Le Tre Lune 9 "Il prezzo dell'immortalità" di Christian Fedele ....... 35 Nella pancia del Drago "E vissero tutti felici e contenti" di Andrea Atzori .......... 38 I libri da rileggere C.Sheffield, "Pianeta proibito" ... 40 C.Sheffield,"Mondo per artefici". 42 I.Watson, "Il libro del fiume" ..... 44 I.Watson, "Il libro delle stelle" .. 46 di Massimo Luciani I libri da tradurre C.Stross, "Apocalypse Codex" ... 48 A.Reynolds,"Absolution Gap"... 50 di Massimo Luciani Il venditore di pensieri usati H.G.Wells, "Macchina del tempo" di Riccardo Sartori ...... 52 Il libro sullo scaffale D.Picciuti, "Terraluna" .... 54 Il film al cinema "Godzilla" di Dolby MOVIE 5.1 .... 56 Concorsi letterari Il premio Hannibal Lecter.57 Vale più di mille parole "Bambina" ......................... 58 "Bevitrice di vita" ............. 59 di Noemi Pietrandrea DARK SIDE ........................... 60


Sommario

del

Hanno collaborato Il Lato Oscuro

TETRACTYS

(Leonardo Boselli)

Lavinia Blackrow reiuky White Pretorian Rame10

"L'esca" di Leonardo Boselli ...... 60

Skannatoio edizione XXIX Scavare, scavare, scavare... Le specifiche ...................... 61 "Tè zuccherato" di Leonardo Boselli ...... 62 "Nata dalla terra" di Lavinia Blackrow .... 70 "Senza filtro" di reiuky ........................ 76 "Trappola di carne" di White Pretorian ...... 82 Skannatoio SPECIALE #1 "Due colpi" (parte I) di Rame01 ..................... 88 Risultati e classifiche Skannatoio 5 e mezzo ...... 94

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Dark Side


S ka n AMAZING MAGAZINE

Scavare, scavare, scavare... ecco cos'hanno dovuto fare i partecipanti del XXIX Skannatoio. Il lavoro è stato duro, perché il mondo, come ci insegna il Buono di Leonina memoria, si divide in due categorie: chi ha la pistola carica e chi scava. Naturalmente, si può scavare in molti sensi, figurati e non. In questa edizione le metafore erano bandite, si doveva proprio scavare e, per giunta, in un corpo umano, quello dell'io narrante. Cosa ci poteva essere di peggio? Poteva piovere? No, si aveva a disposizione un incipit già bell'e pronto da rispettare, con il protagonista trapanato da una punta d'acciaio che racconta al presente e in prima persona, come se nulla fosse, quello che gli sta succedendo. A tanto è giunta la crudeltà del Master dello Skannatoio. In apparenza, i vincoli erano piuttosto stringenti. Un incipit del genere pone delle restrizioni non indifferenti sul seguito della storia e su come questa può essere narrata. Eppure lo spunto ha ispirato racconti molto diversi tra loro. A me è venuta subito in mente una storia simile a quella del film "Il maratoneta" con Dustin Hoffmann, in cui un inquietante Lawrence Olivier perfora un incisivo del povero Dustin, mentre gli pone la sibillina domanda: «È sicuro?» Ad altri, invece, ha suscitato ben più originali ispirazioni. C'è chi ha interpretato quella punta d'acciaio come un possibile strumento di tortura di un serial killer, chi ha immaginato un'operazione per raggiungere i punti più nascosti del cervello, chi ha pensato a una inconsueta trappola per demoni, e chi, infine, ne ha tratto lo spunto per un racconto, non tanto classico, con Sherlock Holmes come protagonista. Insomma, avrete capito che il "dark side" di Skan Magazine è tornato agli antichi fasti, con un buon numero di nuove ed avvincenti storie da leggere tutte d'un fiato nella versione originale da gara.

Questo mese, poi, c'è un'altra interessante novità: un racconto a puntate tratto dallo Speciale di febbraio-marzo dello Skannatoio. Dieci squadre composte da tre autori ciascuna si sono sfidate sulla lunghezza dei 100mila caratteri. A partire da una serie di specifiche iniziali, le squadre hanno dovuto sottoporre al Master una sinossi (il riassunto della storia) dalla quale sono scaturite altre specifiche da rispettare. Una settimana dopo l'altra, i tre autori si sono alternati scrivendo ciascuno un terzo della storia. Alla fine di questo numero, è possibile leggere la prima parte del racconto che si è classificato al terzo posto. La altre due parti saranno pubblicate nei prossimi numeri. Il "bright side" della rivista, invece, non presenta grandi novità nella sua struttura. Max Gobbo, nel suo Oltremondo, ci riserva sempre interessanti interviste e contenuti esclusivi. Autori come Viscusi, Bommarito, Forlani, Bonaro e Russell non cessano di stupirci con le loro personalissime storie. E poi non possono mancare le recensioni di Massimo Luciani, di Riccardo Sartori, di Max Gobbo, e tanto altro. Ci sono, però, anche due importanti novità: una buona e una cattiva. La prima riguarda le recensioni di film proposte da Dolby MOVIE 5.1, che apre una nuova e attesa rubrica. La cattiva, invece, ha a che fare con l'ultima puntata di "Nella pancia del drago", la serie di saggi sul genere Fantasy di Andrea Atzori. Purtroppo tutte le cose belle, prima o poi, finiscono. Infine, cito le suggestive copertine di Noemi Pietrandrea che, con il suo stile particolarissimo, ha inpreziosito ancor di più questo numero di Skan Magazine. Tutto questo, e molto altro, vi attende nelle pagine interne. Buona lettura! Jackie de Ripper

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Scavare, scavare, scavare


S ka n Il quindicesimo anniversario di questo straordinario appuntamento dedicato al fantastico e alla fantascienza, ci offre l’occasione per ripercorrerne la storia segnata da successi esaltanti, e dalle innumerevoli presenze di ospiti d’eccezione.

Oltremondo

Speciale

L’associazione Deep Space One vanta un’attività e un’esperienza più che decennali, stabili, consolidate, ben note nel settore della scienza e della fantascienza, in tutte le sue componenti culturali, professionali e amatoriali. Si propone, nell'ambito delle finalità ed obiettivi delineati dalla legislazione vigente in materia di associazioni di promozione sociale, di promuovere l'aggregazione sociale, l'innalzamento della qualità della vita nonché la crescita culturale dei propri soci, tramite lo svolgimento di attività culturali, con particolare riferimento alla diffusione culturale della fantascienza in generale. Nel corso dell'anno, l'Associazione organizza per i propri soci svariati eventi in tutta Italia, tra cui conferenze scientifiche (spesso con membri dell'Agenzia Spazia-

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le Italiana e del Planetario di Roma), incontri con attori, visioni cinematografiche, gite culturali (ad esempio presso vari osservatori astronomici e la Reggia di Caserta). L’Associazione, nel perseguimento delle proprie finalità statutarie, ha collaborato ufficialmente con varie società di doppiaggio e canali televisivi, supervisionando la traduzione, l’adattamento, la sottotitolazione e il doppiaggio di diverse serie di fantascienza, trasmesse per la prima volta compiutamente in Italia (quali Babylon 5 e Farscape). Inoltre Deep Space One cura e distribuisce, gratuitamente a tutti i soci, le riviste letterarie amatoriali “Alpha Log” e “Alpha Quadrant”, che contribuiscono a sviluppare la creatività dei soci ospitandone contributi sui settori di interesse. La rivista “Alpha Quadrant”, in particolare, è stata più volte insignita di premi come miglior rivista amatoriale del settore. Da oltre quindici anni, l’Associazione organizza una manifestazione annuale, la Deepcon, con sede a Fiuggi (FR), che costituisce un ben noto e frequentato punto d’incontro e di confronto per appassionati e professionisti del settore. Nel contesto della manifestazione, i soci si incontrano tra loro e con alcuni attori, truccatori, personale di


pre-produzione e post-produzione, sceneggiatori e scrittori, protagonisti e creatori delle più importanti realizzazioni televisive e cinematografiche della fantascienza internazionale (tra gli attori: Alexander Siddig, Mira Furlan, Bruce Boxleitner, Nana Visitor, Dominic Keating, Peter Jurasik, Tim Russ, Andrew Robinson, Marina Sirtis, Connor Trinneer, Ed Bishop, Claudia Christian, Stephen Furst, Anthony Simcoe, Robert Picardo; tra gli sceneggiatori: Eric Stilwell e la script supervi-

sor Lolita Fatjo; tra le truccatrici: Natalie Wood). La manifestazione, inoltre e contestualmente, è dedicata alla fantascienza letteraria, e vede la partecipazione di editori e professionisti del fantastico, tra cui Urania Mondadori con il suo curatore Giuseppe Lippi e Delos Books con l'editore Silvio Sosio. Ampio spazio hanno anche case editrici medie e piccole, che hanno la possibilità di presentare romanzi e saggi. La Deepcon vanta inoltre la presenza di traduttori, artisti

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(tra cui Franco Brambilla e Maurizio Manzieri), e scrittori, questi ultimi tra i più importanti e premiati del panorama internazionale (Harry Harrison, Anne McCaffrey, Ian McDonald, Paul McAuley, Richard Morgan, Bruce Sterling, Ian Watson, Chelsea Quinn Yarbro, Ruth Nestvold, tra gli altri). Ha avuto anche ospite Joseph Nassise, proprio quando era presidentedella Horror Writers Association. Tra gli scrittori italiani ricordiamo la partecipazione di tutti i maggiori esponenti della letteratura italiana del genere, tra cui Valerio Evangelisti, Dario Tonani, Lanfranco Fabriani, Francesco Verso, Vittorio Catani, Giovanni De Matteo, Fabiana Redivo, Filomena Cecere, Monica Serra. Nel 2009 l’Associazione ha ottenuto dalla European Science Fiction Society (ESFS) il privilegio di organizzare la Eurocon, convention di fantascienza a livello europeo, con partecipazione di ospiti provenienti da ogni parte d’Europa, tra cui lo scrittore russo Sergei Lukyanenko. La comunità fantascientifica del nostro paese ha così avuto l’occasione di venire in contatto con le altre realtà europee, permettendo allo stesso tempo al resto dell’Europa di conoscere l’articolato


mondo della fantascienza italiana. La divulgazione scientifica fa la sua parte con esponenti come Corrado Giustozzi, Paolo Attivissimo e altri, che prendendo spunto dagli argomenti della manifestazione espongono teorie e fatti scientifici reali. Ospiti ricorrenti della manifestazione, inoltre, sono stati spesso esponenti del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale, fondato da Piero Angela). Completano il programma annuale della manifestazio-

ne incontri culturali nel settore della scienza aeronautica e dell'astrofisica, con la partecipazione di eminenti personalità italiane (quali l'astronauta Umberto Guidoni, più volte ospite della manifestazione, e vari rappresentanti dell’Agenzia Spaziale Italiana) e internazionali (Geoffrey Landis della NASA, Suzanne Fuentes della Northrop, Andre Bormanis). La manifestazione, inoltre, è dedicata alla beneficenza, grazie alla stabile collaborazione con l’AMREF e altre associazioni, a cui so-

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no indirizzati i proventi della vendita di beni autoprodotti e di aste di beneficenza. Oltre a essere sede della premiazione del Premio Cassiopea, e in passato del Premio Italia e degli European Awards, di incontri, dibattiti, conferenze scientifiche, workshop (per i settori di make-up cinematografico, scrittura, sceneggiatura), presentazione di studi e di libri, ecc., la manifestazione annuale svolge la propria funzione anche ludica e aggregativa, con giochi organizzati dai soci e con visite guidate presso le località di interesse storico e artistico più importanti di Roma e dei dintorni di Fiuggi (ad es: certosa di Trisulti, mura ciclopiche di Alatri, Vico nel Lazio, monasteri di San Benedetto e di Santa Scolastica a Subiaco). Nel corso degli anni, l’importanza della manifestazione è stata spesso riconosciuta con patrocini e contributi economici da Regione Lazio e Provincia di Frosinone.Ulteriori riconoscimenti sono pervenuti tramite la sponsorizzazione di soggetti privati (quali Canal Jimmy, Epta Trading, American Airlines, Studio Emme, Studio Calabria). La Deepcon ha sempre


avuto l’appoggio del principale portale italiano del settore, www.fantascienza.com, della rivista professionale Delos Science Fiction e di giornali nazionali e locali, webmagazine dedicati, televisioni locali e nazionali (tra cui in passato Canal Jimmy e Syfy Italia). Ma la caratteristica esclusiva della convention è l’atmosfera. L’appassionato di fantascienza italiano partecipa alle convention soprattutto per incontrare altri appassionati; di anno in anno si stringono così amicizie e relazioni che vanno oltre le comuni passioni. Da ciò deriva una generale atmosfera di “riunione di famiglia” molto rilassata e amichevole. I comodi divanetti davanti al bar sono spesso occupati da fan che parlano fino a tarda notte con il loro scrittore o attore preferito. È capitato spesso che scrittori e lettori continuassero fino alle quattro del mattino la discussione iniziata durante una conferenza. Questa atmosfera rilassata e conviviale permette anche agli ospiti d’onore di muoversi in libertà, e pertanto non è affatto inconsueto ritrovarsi a far colazione con loro la mattina o sorprenderli ad affettare qualche salume alla Eatcon, un appuntamento che si tiene il giovedì sera dopo cena, in cui i

soci provenienti da varie regioni d’Italia portano specialità enogastronomiche regionali, facendo un po’ a gara su quale sia la specialità più prelibata. In conclusione, la Deepcon è una convention speciale nel miglior spirito dell’ospitalità italiana. E allora tutti a Fiuggi per Deepcon 16! Max Gobbo Hanno illustrato il testo le foto di alcuni degli ospiti delle scorse edizioni

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Incontra

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Concorsi

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Kinetografo

Se c’è un supereroe dell’universo marvelliano che può essere considerato patriottico fin nelle midolla, questi è senza dubbio il vecchio Capitan America. Certo, quelli della concorrente DC hanno Superman il quale, specie in passato, si è spesso lasciato ritrarre accanto alla bandiera a stelle e strisce. Ma il figlio di Krypton è

un alieno in trasferta, un profugo spaziale, un supereroe col permesso di soggiorno e non un americano verace. Vengono poi gli altri, l’allegra combriccola degli eroi calzamagliati d’ogni risma, superpotere, e perché no?, appartenenza politica. Così gli X-Man e l’Uomo Ragno danno l’idea d’es-

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ser democratici e progressisti, mentre i magnati Bruce Wayne, Tony Stark e rispettivi alter ego, sembrerebbero propendere per i repubblicani .

proprio non comprende chi sia il vero nemico, confuso dalle trame misteriche e dai sotterfugi di un’intelligence poco allineata coi suoi ideali di giustizia e libertà. Ma Capitan America per chi Sarà anche per questo che gli parteggerebbe? Semplice e sceneggiatori di questa nuova disarmante: per la patria. avventura dell’eroe dallo scudo E sì, Steve Rogers è uomo hanno orchestrato una trama d’altri tempi (finì ibernato tra i che lo vede a disagio nell’eseghiacci polari durante la seguire gli ordini sibillini ricevuti conda guerra mondiale, per poi dallo S.H.I.E.L.D. venir decongelato in tempi mo- Lo stesso Nick Fury dopo derni), patriottico, altruista, d’aver scoperto che l’orgaindenne d’ogni paura. nizzazione è stata infiltrata da Insomma una sorta di John agenti nemici dell’Hydra né faWayne palestrato con scudo e rà dolorosamente le spese. mascherina, cui fanno schifo i Toccherà quindi a capitan nemici della nazione, siano es- America svelare il mistero e si i feroci nazisti alla Teschio castigare i traditori: un compiRosso, o perfidi maoisti in stile to arduo per chi come lui è Fu Manchu. abituato a guardare il mondo Ma ecco che nel secondo capi- con un’ottica alla John Ford, tolo della saga hollywoodiana che vede ben distinti gli del nostro eroe (negli Stati Uni- schieramenti dei buoni e dei ti deve ancora uscire), tutte le cattivi. sue granitiche certezze vengo- A complicare il tutto un nuovo e no a cozzare contro un muro più terribile avversario: Il d’inganni e d’ambiguità. Soldato d’Inverno, un super Benvenuto nel ventunesimo mercenario dell’ex concorrenza secolo capitano! Un’epoca sovietica in vena di rivincita poincomprensibile per un puri- st comunista.

sta del tuo stampo; tutto Dio, Patria e famiglia: cose un po’ desuete nell’America della crisi, guidata da un presidente pacifondaio (ma non troppo), con i nemici esterni ridotti a qualche sparuto dittatore asiatico, orfana del suo nemico numero uno, e incapace di ritrovare il suo ruolo di sceriffo del mondo.

Il temibile figlio della steppa (che colla maschera sembra tal quale il misterico e vaticinante Adam Kadmon), e che con i venti spiranti dalla Crimea appare di grande attualità, darà del filo da torcere

all’invitto americano, nel corso di alcune scene di lotta davvero ben riuscite. La regia affidata ai fratelli Un supereroe il nostro capitano Antony e Joe Russo appare sull’orlo d’una crisi di nervi: che abbastanza curata, mentre la

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sceneggiatura opera dell’accoppiata Stephen Mac Feely e Christopher Markus è decisamente sotto tono rispetto a quella de Capitan America Il primo Vendicatore. Tra gli interpreti, a parte il nerboruto Chris Evans , abbiamo un Samuel L. Jackson in discreta forma, e una sempre fascinosa Scarlett Johansson cui però non s’addice proprio la rossa capellatura; infine l’inossidabile Robert Redford che veste con la consueta disinvoltura i panni del segretario Alexander Pierce.

Un film questo cui sembra toccare il compito (neppure troppo velatamente) di preparare il terreno, o meglio lo schermo, al prossimo episodio di Avengers, nello stile ormai consolidato di casa Marvel destinato a portare a compimento i vari cicli narrativi, in una sorta di telenovela supereroica dal retrogusto seriale. Il risultato però non pare all’altezza del primo lungometraggio, che brillava per una trama più aderente al fumetto, e quindi al personaggio. Perciò Capitan America: Il Soldato D’Inverno, pur divertendo (so-

prattutto per gli effetti speciali d’alto profilo e le belle sequenze d’azione), non ha lo stesso spessore narrativo e l’originalità del primo film, di cui verrà considerato con ogni probabilità un sequel incolore. Max gobbo


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Oltremondo

Novità

Caleb Battiago ci accoglie così nella promenade di Parigi Sud V, mostrandoci l’incubo di vivere nel quartiere più degradato e perverso che la Terra conosca, nella profonda distopia noir urbana. Un luogo di feÈ in uscita per Kipple Officina Lirocia inaudita, simile a ogni altra braria, nella collana k_noir, la raccolta di racconti Parigi Sud V di metropoli del prossimo futuro, oscuro più dell’attuale presente in cui ci Caleb Battiago, prestigioso nome del firmamento crossover della SciFi troviamo. italiana, assurto ad autore di culto con i precedenti titoli, Naraka e Shanti, per Mezzotints Ebook. La prefazione è del maestro Sergio “Alan D.” Altieri . “Benvenuti all’inferno, nel quartiere più estremo della città, sui lirismi carnali di Caleb Battiago”.

Alan D. Altieri sferra il colpo finale

con la sua fulminante prefazione, prima che l’immersione nelle strade e nei locali del quartiere possa contaminare definitivamente l’anima; il segno della perversione sadiana di Battiago è un marchio indelebile impresso a fuoco nella carne.

L'Autore Caleb Battiago,

alias di Alessandro Manzetti,

ha esordito nel 201 3 con

La quarta

Naraka L’Inferno delle Scimmie Bianche, pro-

“Il quartiere dell’Apocalisse, dove state per affondare i piedi, è il regno marcio di Big Blue, degenere pontifex maximus di una casta criminale che divora la Nuova Francia. I brandelli rimasti, la polpa saporita ancora attaccata alle ossa. Legioni di cacciatori e di prede, che spesso sono costretti a passare dall’altra parte.”

seguendo nel 201 4 la sua ascesa nel firmamento crossover SciFi con Shanti sempre per la casa editrice Mezzotints Ebook e con la nuova edizione della raccolta di racconti Acrux – Reloaded.

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Novità

“ Un nuovo ed elegante affresco narrativo dalla penna di Francesco Falconi. ” Max Gobbo

Dorian osserva l’Anima Nera strisciare sulla sua pelle come un tatuaggio, avvolgersi alla spalla e raggiungere la sua schiena. E’ il serpente oscuro che l’ha condannato a un inferno in terra:l’immortalità. Cent’anni prima, di fronte a un ritratto che esaltava la sua bellezza, Dorian ha osato desiderare di rimanere giovane e seducente per sempre: il suo desiderio è stato esaudito, ma il prezzo da pagare è un baratro infinito di estasi e perdizione. Layla è tormentata da un demone che le toglie il respiro, la ragione e la volontà. E’ prigioniera di un corpo che sente disarmonico e deforme. Il suo rifugio è l’arte, e quel ritratto di ragazzo che da sempre disegna con precisione maniacale, occhi di ghiaccio e corpo perfetto, pur non avendolo mai conosciuto. In una Roma incantevole e superba, Dorian e Layla stanno per incontrarsi e i loro destini si allineano come tessere del domino in attesa di essere sfiorate.

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Oltremondo

NovitĂ

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Oltremondo

Cronache dal Neocarbonifero Italia sommersa (2027-2701)

NovitĂ

A cura di: G. De Turris

In un futuro a noi prossimo, la devastante esplosione di un sottomarino atomico nei pressi della Faglia di Sant'Andrea ha provocato lo scioglimento delle calotte polari e l'innalzamento del livello dei mari. Le condizioni climatiche del Pianeta Terra sono regredite a quelle che si suppone vi fossero nel periodo Carbonifero: viviamo in una nuova era, il Neocarbonifero. Venuta meno l'influenza economica mondiale degli Stati Uniti d'America, in un'Italia profondamente sconvolta dal punto di vista geografico, sociale e politico, si svolgono le avventure narrate nei 19 racconti che Gianfranco de Turris ha raccolto tra alcuni noti scrittori fantasy.

re fantascientifico, in particolare per gli aspetti riconducibili all'utopia e all'ucronia, "Sinistre presenze" si muove decisamente nell'ambito del genere orrorifico, nelle sue varie sfaccettature che spaziano dal noir metropolitano al dark fantasy, dal gotico piĂš tradizionale al weird, fino allo splatter. Si troveranno qui Sinistre presenze racconti che affrontano problemi A cura di: G. F. Pizzo - W. quali le vittime di incidenti straCatalano dali, il dramma dei migranti in mare, le guerre nei Diciassette noti autori italiani si morti Balcani, le infermiere della cimentano nel genere horror in "dolce morte", ultras violenti questa raccolta che segue "Ambi- delle squadre diglicalcio, le sparigue utopie" (Bietti, 2010). Se zioni e i misteri dell'America quest'ultima apparteneva al gene- Latina.

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S ka n Black Swan

SYSTEM CHECK: OK HULL CHECK: OK ENGINE CHECK: OK CRYOCELL CHECK: OK Desmond lesse le righe di testo che il computer gli chiedeva di verificare a ogni inizio del periodo di veglia. In alto, in un angolo, era presente il numero progressivo del periodo, dal quale, calcolando l'alternanza delle dodici ore di veglia con le otto di sonno, poteva ricavare che il viaggio finora era durato quattordici anni, dieci mesi e un paio di settimane. E ne mancavano ancora più undici, prima che la Black Swan raggiungesse Vega. Undici anni in cui avrebbe continuato a eseguire le stesse operazioni, ogni periodo, dieci ore sveglio e otto ore dormendo. Un ciclo infinito, senza possibilità di uscita. Perché era toccato a lui? Soffermò lo sguardo sull'ultima riga: la criocella funzionava alla perfezione, come tutto, del resto. Desmond si voltò a osservare la cella. Nell'angusto spazio abitabile della nave, gli basta girarsi per trovare qualsiasi cosa. Aveva imparato a memoria ogni dettaglio di

Being Piscu

An d r e a Vi s c u s i

quell'ambiente, riusciva a riconoscere alla perfezione tutti i particolari. Paradossalmente, l'unica cosa che non poteva vedere era se stesso, visto che l'abitacolo non conteneva nessun tipo di superficie riflettente. L'unico modo di scorgere il suo stesso volto era osservarlo ritratto sul tesserino di riconoscimento che era incluso sul pettorale della sua tuta. Al di là del vetro temperato spesso sei centimetri della criocella poteva scorgere la sagoma di Kelvin, il suo compagno di missione, sospeso in ibernazione fin dal lancio in orbita. Per lui, il viaggio sarebbe durato solo un battito di cuore, e poi si sarebbe risvegliato, fresco e giovane, come se non fosse passato nemmeno un minuto, mentre Desmond nel frattempo era invecchiato di venticinque anni, ad accudirlo quotidianamente. Non solo: Desmond avrebbe dovuto anche accompagnarlo nelle prime delicate fasi di recupero, quando, emerso dalla lunga ibernazione, Kelvin sarebbe stato troppo confuso per ricordare chi fosse o dove si trovasse. Gentilmente, pazientemente,

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Desmond avrebbe dovuto scongelare i suoi ricordi cristallizzati dal criosonno. Perché era toccato a lui? Era profondamente ingiusto, che di due professionisti equivalenti, lui fosse stato scelto per quel sacrificio. E allora, dopo quattordici anni, pensò che forse poteva rimediare l'ingiustizia. Forse avrebbe potuto risvegliare Kelvin, e convincerlo che lui era Desmond Bowman, incaricato della manutenzione della Black Swan. Dopo quattordici anni, poteva pur chiedere il cambio... Forzò il sistema, e avviò la procedura di scongelamento. Si preparò ad estrarre il corpo inerte di Kelvin, ma quando i vapori della criocella si dispersero notò qualcosa di insolito. Il viso del collega non corrispondeva a quello riportato sul pettorale della criotuta. Eppure, in qualche modo gli era familiare. Capì troppo tardi, quando l'altro aveva già riaperto gli occhi: se si escludeva la barba incolta, quel volto corrispondeva all'immagine sulla sua tuta. Davanti a lui c'era il vero Desmond Bowman.


S ka n Parole

Territori d'oltremare

Una voce da Malta

Ro b e r t o Bo mma r i t o

Questo mese è stato pubblicato Parole, racconto edito da La Mela Avvelenata, scritto durante un periodo delicato della mia vita, dove compresi che i mi spiace a volte possono arrivare troppo tardi. Letizia Loi, che fra le sue tante attività porta avanti anche il blog Umanità 2.0 (http://letizialoi.tumblr.com/), blog molto ricco di contenuti che consiglierei a tutti gli appassionati di letteratura di visitare, ha recensito il racconto: Titolo: Parole Autore: Roberto Bommarito Illustratore: Gino Carosini ASIN: B00JPNWHPO Genere: narrativa Formato: mobi Trama: Il mondo viene messo in ginocchio da una tempesta di parole. Cadono dal cielo, causando distruzione. Causando la morte di Nadia. Del protagonista non co-

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nosciamo il nome, perché potrebbe essere uno chiunque di noi: chi in un modo, chi in un altro, abbiamo tutti perso qualcuno che amavamo. In un mondo riconquistato dalla superstizione, solo lui sembra determinato a cercare una spiegazione sensata a ciò che accade. Ma la soluzione forse è un’altra: trovare l’unica frase che non è mai riuscito a dire alla donna che amava: Mi

«Non tutte le parole sono precipitate al suolo» disse Lucio, trovando infine il coraggio di guardarmi negli occhi. Mi sforzai di dire qualcosa. «No?» «No» continuò, il volto ammorbidito. Era sollevato che avessi deciso di aprire bocca. «Sembra che alcune parole siano più pesanti di altre». Da qui comincia la storia, in una dimensione spiace. onirica fatta di parole che piovono dal cielo e Senza dubbio uno dei rovinano il mondo, cruracconti più belli che civerba e scarabei. Le abbia letto da un po’ di parole hanno grande potempo a questa parte. tere, feriscono più dei Difficile da inquadrare sì sa, e in questa nel suo genere, narrativa pugni, storia la cosa è resa in con contaminazioni di maniera molto letterale: i fantasy e distopia, Paro- vaffanculo bruciano le è una storia drammati- tanto che perfino gettati ca con un finale agroin mare fanno bollire dolce. i fresco portano Il protagonista senza no- l’acqua, refrigerio in una stanza me è uomo innamorato meglio dei condizionatoma orgoglioso, che dice ri, e i mi spiace - di cui il facilmente ti amo ma protagonista è alla dispenon è capace di fare rata ricerca sono rarisaltrettanto con mi spiace, simi e pericolosi. nemmeno alla sua adorata Nadia, sempre più è una frase genuiferita dalla sua incapaci- «Non na» protestai. «I mi spiatà di scusarsi davanti ce autentici sono di un agli errori commessi. rosa più tenue». Durante un litigio, le labbra. «Ma mentre sono in macchi- Arricciò sono anche fragina, avviene la tempesta li». Stando atroppo quanto avedi parole e un mai vo letto, era vero. La rapiomba sulla loro auto, rità era dovuta anche alla causando un incidente. loro fragilità. Era facile

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danneggiarli o distruggerli. «Quella è un’ottima copia» disse, indicandola con l’indice. Il racconto è breve e si legge veloce. Ho apprezzato tantissimo lo stile dell’autore, scorrevole e accattivante, mi ha tenuta legata alle pagine fino all’ultimo, senza mai inciampare e perdere di tono. Con frasi dirette e semplice, senza fronzoli, Bommarito arriva dritto al lettore, coinvolgendolo nella storia e trasportandolo di peso nel suo universo. Una menzione a parte per le bellissime illustrazioni di Carosini: cupe, fatti di tratti neri e decisi, intramezzano la lettura dando uno splendido scorcio di questo universo alternativo. Il racconto è reperibile qui: http://www.amazon.it/Parole-RobertoBommaritoebook/dp/B00JPNWHPO/ref=pd_rhf_gw_p_t_2_9FSX


S ka n Vittime imperiture

Clodio scansò gli alabardieri di guardia, entrò nel salone: il barone e la baronessa sedevano alla bifora che guardava sul fiume prospiciente il castello, si tenevano per mano bianchi in volto e silenziosi. Un antico cannocchiale d'argento scintillava scappucciato su un davanzale di marmo. Una brezza profumata di primavera, il sole di maggio sui cristalli e sull'oro, accendevano la stanza di un fertile splendore; l'eco delle canzoni della raccolta e la mietitura, il chiasso dei villici, il muggito dei buoi, salivano fin lassù dai maggesi di là alle mura: «... ma per loro le campane non rintoccano a festa», si intristì l'alchimista, «per Enide e Menandro l'allodola non canta...» La porpora e i monili, le insegne del loro rango, il timore di suddito nei confronti dei suoi signori non bastavano a celargli l'angoscia che avvelenava le loro anime dal genetliaco del primogenito: lo strazio comune, miserabile e umano di due vecchi genitori per la perdita di un figlio. Si accostò alla finestra, riverì i suoi padroni: «... sta arrivando», balbettò,

Il Grande Avvilente

Al e s s a n d r o F o r l a n i

«non erano dicerie...» Il barone e la baronessa lo guardarono inebetiti, quasi che solo adesso si accorgessero che era lì. Una lacrima striò di cobalto le gote raggrinzite e livide di Enide. Menandro lo invitò ad affacciarsi alla bifora, gli indicò l'antico ponte di pietre che scavalcava sull'acqua fra i pascoli e le selve. Gli porse il cannocchiale: «... se mai vi servisse: gli astri e le tradizioni non mentiscono, ci insegnate.» Clodio si affacciò, non usò lo strumento: anzi chiuse gli occhi, dilatò le narici, e ascoltò la voce allegra del mondo finché questa tacque all'improvviso. Né muggiti, né ritornelli nei campi, né garriti nel cielo che ingrigì tutt'un tratto. E una luce cenerognola e polverosa e uno spiffero freddo, un odore di putrido. L'impressione di un istante, e tutto tornò com'era prima. Guardò nelle lenti: un uomo scheletrito, vestito di una sindone, barcollava dall'altra riva sulla strada per il castello: «La Vittima Imperitura busserà alle vostre porte»; Clodio, nauseato, mise il tappo al cannocchiale, affondò la fronte madida fra le pieghe

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del caffettano. «L'ho sempre saputo», singhiozzò la baronessa, «Ostinata per ventun'anni a non credere che fosse vero.» Menandro la abbracciò, la scostò dalla bifora, la invitò sulla predella dei loro troni intarsiati. La ornò della corona appoggiata su un cuscino, la avvolse dell'ermellino e le cinse il collare: «Perdio, se lo è. E noi dobbiamo accoglierlo, esaudire le sue preghiere.» «Perché?!» Clodio guardò le tre pareti dell'aula affollate dei ritratti degli antenati del suo signore; le date di nascita, di morte e martirio: eroici intervalli di non più di trent'anni incisi in oro liquido nelle cornici di nero d'ebano. Avevano in comune l'armatura e la spada; e pestavano trionfanti, benché feriti a morte, il carcame irriconoscibile di un orrore con i tentacoli. Sullo sfondo un'aurora dissipava le tenebre, si scorgevano le pianure di un mondo ancora intatto, e popoli adoranti scampati all'apocalisse. Gli sembrò che il suo signore Menandro si stringesse sul faldistorio vergognoso di quei volti: «... quella volta che venne», il barone mormorò, «l'Eletto


fu mio fratello, non ci furono dubbi: avevo dieci anni, ero gracile e sciocco. Pittaco e Pentadio sono quasi coetanei...» «Potrei perderli entrambi?», Enide strillò. «No, mia signora», lui la consolò, «Un solo olocausto: è questa la legge.» Un coro di disperazione esplose nel contado, Clodio si affacciò di nuovo dal davanzale: la Vittima Imperitura attraversava le messi, apatica della vita trionfante tutt'attorno. I villici posarono gli utensili e le falci, rovesciarono esterrefatti i sacchetti e le gerle. Impietrirono della macabra figura che avanzava zoppicando sulle spighe recise, si prostrarono in ginocchio e guardarono al mastio: «... guardano a un gonfalone pencolante a mezz'asta...» «Soldato!», Menandro chiamò, obbedito all'istante da un armigero sul portone, «fate entrare la cosa che si avvicina; adunate i cortigiani, chiamate i miei figli!» La Vittima passò sul ponte levatoio, sotto l'arco del barbacane, entrò nella corte. Salì per la rampa che accedeva al torrione. Le guardie le aprirono gli usci, le indicarono la strada e si scansarono al suo passaggio. Clodio la seguì con lo sguardo percorrere il loggiato fino all'aula delle udienze, pochi metri distante, inghiottì; pispigliò fra sé e sé un incantesimo di protezione.

Leggeva da decenni di quell'essere spaventoso e del legame salvifico con il casato del suo signore; sapeva che un giorno lo avrebbe incontrato. Quel giorno era giunto. Gli tremavano le ginocchia. Guardie e dignitari si raccolsero nella sala, prossimi alla predella secondo il loro rango. Ultimi arrivarono i due giovani baroni, si sedettero sugli scranni accanto ai genitori. Pittaco indossava lo scapolare turchese del suo giorno genetliaco: una fascia di velluto con ventuno zaffiri. Pentadio lo superava di pochi pollici in altezza, ma l'innocenza nel suo sorriso, la luce negli occhi, il modo che aveva di sedere con la madre, tradivano i quattro anni di differenza dal primogenito. Clodio prese posto dietro il trono di Menandro: in quel quadro di splendore e maestà, quell'arazzo di diritto secolare che quasi gli sembrò di ammirare dall'esterno, dopo secoli, morto, lui era la bocca sottile e socchiusa che soffiava intelligenza nell'orecchio del barone. Il bastone del camerlengo tuonò sul pavimento, e i cardini del portone gemettero di ruggine. L'odore di putredine, il freddo e la penombra strisciarono nell'aula con la Vittima Imperitura. Quel corpo emaciato, infetto ed asessuato, che forse solo il lino del lenzuolo mortuario preservava da

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un'eruzione di liquame e di larve, barcollò davanti al trono indifferente ai presenti. Lui si accorse che fluttuava sul tappeto. Non era claudicante, ferito o sciancato: piuttosto scivolava a un centimetro da terra con i piedi scarificati su un icore giallognolo. Clodio comprese che quel mostro non era un eterno derelitto, un'icona di afflizione voluta dagli déi: era invece l'involucro disgusto di un potere maledetto che opprimeva Menandro. Cui però non si poteva affrancare, se il genere umano teneva a sopravvivere. La Vittima Imperitura crollò sul pavimento, uno schiocco di ossa e uno strappo di tessuti. Supplicò la baronessa, il barone e i loro figli come fosse in balia della loro volontà, non il contrario; ne bagnò le babbucce di lacrime e di baci. Poi piagnucolò con gli altri membri della corte. Lui fu grato al rigido cerimoniale di non trovarsi in prima fila con gli altri, ma nascosto dietro il trono ad un metro da quell'orrore. Non avrebbe sopportato lo toccasse e leccasse: «Ascolta le mie parole», la Vittima sibilò, «ascolta, esaudiscimi.» Menandro annuì. Clodio, come gli altri e l'intero mondo, sapeva già a memoria cosa l'essere avrebbe chiesto: una formula di secoli trascritta sui ritratti. … la fine di ogni cosa


incombe su di noi: sapete che vi avverto per volere di un dio. Al tuo sangue è stato dato di combattere, e vincere con le armi, i leviatani che si appropinquano. Ma nell'ultima battaglia perderete la vita: non vedrete un altro giorno, lo vedrà l'umanità. Il figlio che ti chiedo di offrirmi, di cingere della spada e seguirmi, è. . .

«Mai più un'ordalia», scandì la creatura, «la tua discendenza è affrancata dal patto: se verrà l'oscurità, cercherò in altri regni; i martiri e campioni nasceranno da un'altra casa.» Enide scoppiò in un pianto gioioso, il barone si rilassò con un profondo respiro; soldati e cortigiani ruggirono di giubilo. Clodio sorrise del broncio dei due giovani rigidi sugli scranni a fianco dei genitori: stringevano i braccioli fino a farli scricchiolare, e guardavano aggrottati, rossi in volto e sudati, le lance e le corazze degli eroici antenati. Privati dagli déi delle orrende selvaggine, delle prede da apocalisse e la fulgida morte. La Vittima Imperitura se ne andò zoppicando. I cani e i battitori schiamazzavano nel sottobosco, Pittaco e Pentadio cavalcavano con i guardiacaccia sulle tracce del cervo, tendevano gli archi. Clodio ed Enide seguivano al trotto. I giovani spronarono,

sfondarono nel folto, rincorsi dai servitori e i molossi infoiati. Lui e la baronessa restarono da soli: «Solo adesso mi rendo conto che cosa è stato vivere per tanti anni con quel peso sul cuore», Enide pispigliò, «solo adesso comprendo quanto avevo paura.» Lui tirò le briglie, smontò dalla puledra, raccolse fra i cespugli i fiori più profumati. Spiccò del ginepro e lo offrì alla signora. I pollini le indorarono le dita, e i frutti le bagnarono il palmo della mano di un succo salubre dall'odore pungente. La invitò ad ascoltare i frullii fra le fronde: «Non è una sensazione solo vostra: non c'è stata, a memoria d'uomo, un'estate qual è questa.» «Trovo mio marito sereno ed invecchiato. Mi accorgo che i miei figli sono uomini, che fremono; gli specchi mi rimandano un'avvizzita megera.» «Epperò sorridente.» «Gli anni vi colorano di saggezza e di cortesia.» «Lo scorrere delle cose di per sé è sacrosanto. Se vorranno, i vostri figli cavalcheranno in battaglia, decideranno la loro sorte; noi cammineremo col bastone, e infine giaceremo nella terra. Epperò non torneremo dal sepolcro a rinfacciare le nostre colpe ad altrui.» La baronessa si strinse nelle spalle, arricciò le labbra nere

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in un triste sbigottimento: «A volte mi sembra tutto così leggero e superfluo, da che la Vittima ci ha lasciati!...» «Leggero e superfluo: sono termini molto dolci.» «Ho paura di dire vuoto; è un orribile sentimento: ma è questo, in effetti.» «L'anatema della Vittima ci ha tolto a noi stessi, se è questo che intendete.» Un uomo atterrito, logoro e sozzo comparve all'improvviso dall'intrico alle loro spalle. Il bosco echeggiò di grida all'assassinio: un gruppo di sei villici, con roncole e corde, eruppe tutt'attorno e costrinse l'uomo a terra, e appese uno scorsoio sul ramo di una quercia. Clodio si appiattì contro il tronco di un albero, Enide lo guardò con disprezzo, affondò con gli speroni nei fianchi della cavalla, che impennò nella rissa: «Fermatevi! Che fate?» I villici si scansarono atterriti dall'animale, e abbagliati dal sole sul diadema di lei. Non gettarono gli attrezzi e lo scorsoio, non caddero in ginocchio. Clodio, tornato in sella, li accostò e ringalluzzì: «Prostratevi!», ruggì, «Non conoscete la baronessa?» Uno dei contadini diede un calcio all'uomo a terra: «È ladro ed assassino», masticò, «l'ammazziamo.» «È il mio sposo e signore, il barone Menandro, che amministra la giustizia su queste


terre.» «Facciamo da noialtri: il barone non è più buono.» Enide avvampò: «Che cosa insinuate?» «È un fatto: la casata non è capace. La Vittima vi ha dispensato, di voi non c'è bisogno, non servite a proteggerci dal male. Faremo per conto nostro, il mondo è cambiato.» Clodio frustò l'insolente bifolco: quello ringhiò, si sfregò la ferita, lo assalì con la roncola, Enide strillò. Lui udì alle spalle uno schiocco ed un sibilo, e qualcosa gli sfiorò le basette. Il villico arretrò, guaiolò disarmato, trafitto da una freccia con le piume azzurre ed oro. Pentadio comparve fra le frasche in sella al suo stallone, poderoso, schiumante; guardò torvo i contadini arrabbiati e incoccò un'altra freccia con calma raggelante: «State bene, signora madre?» Enide annuì. Pittaco accorse poco dietro il fratello, con lo spiedo nel pugno; lo seguirono i cacciatori con le daghe sguainate. I villici, ostinati, soccorsero il compagno, si strinsero al prigioniero e gli gettarono la corda al collo: «Ha ucciso, ha rubato.» L'uomo si prostrò e rantolò, guardò alla contessa supplice e disperato. Clodio indovinò, dal sangue sugli stracci, dal guano di pollaio sulle mani e la faccia, che forse in quelle

accuse c'era un ché di fondato: «Quell'uomo ci appartiene», intimarono i baroni, «non potete sostituirvi alla nostra maestà. Nostro padre giudicherà le sue colpe, se credete vi chiamerà a testimoniare; voi ascolterete la sentenza e a quella vi atterrete.» I giovani e i contadini si fissarono per lunghi istanti, nel silenzio dell'arco teso e le roncole affilate; la canapa sul gozzo e la lancia acuminata. Il villico moribondo, trafitto dalla freccia, scavò con un grido una pietra dal fango, sparse sul terreno le cervella del criminale. Spirò con un ghigno: «Prendetelo, signorini...» Clodio trattenne il vomito, la baronessa crollò svenuta. Pittaco e Pentadio la tennero fra le braccia. Capocaccia e battitori all'assalto inseguirono i contadini nelle ombre del sottobosco. Le sterpi crepitarono, le lame stridettero; le grida della lotta e l'ansito degli scampati si spensero lontano fra le fronde verde scuro. Clodio taceva con le braccia conserte, seduto su una seggiola vicino alla bifora. Pittaco e Pentadio gli stavano di fronte, tamburellavano con le dita sul mogano e tippettavano con gli stivali sui mosaici del pavimento. Nell'idiota carola di falene e zanzare, tutt'attorno alle fiammelle dei ceri profumati, nel silenzio imbarazzato di

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frinire e di ronzii, attendevano che la baronessa finalmente sbottasse. Enide percorse un'altra volta la stanza, da parete a parete, saltò sulla predella, afferrò per la gorgiera il barone e in lacrime gli soffiò sulla faccia: «... non credono più in noi!...» «Non ne hanno più bisogno.» «Non rispettano la tua legge, i tuoi figli e tua moglie!» «Preferiresti sacrificarli, e ti auguri che torni l'incubo? È questa, la pace. È il nostro atteggiamento, che dovrebbe cambiare.» «Regni su queste terre per grazia degli dèi: non si può discutere ciò che è sacro.» «Gli dèi ci inviarono la Vittima Imperitura.» Menandro la scansò infastidito, esausto; Clodio lo guardò col cuore gonfio sprofondare nell'ermellino, appoggiare lo scettro: alla luce delle lampade del salone, nell'afa notturna, il volto del barone era un gesso funerario. Uno sbuffo di fumo, un vocio concitato, un odore di bruciato e calpestii salirono all'improvviso dal buio oltre le torri. Bussarono al portone. Pittaco aprì senza chiedere chi fosse: un armigero sudato, e lacero di battaglia, si appoggiò sullo stipite e riferì con il fiato corto: «Contadini in rivolta! Sono già nella corte!»


I giovani baroni si scambiarono uno sguardo, si cinsero la spada e allacciarono il giaco. Seguirono il soldato per le scale del castello. Le stanze tuonarono di picche e di scudi, rugliarono dei martinetti sui cremaglieri delle balestre. Clodio si affacciò sul cortile: nell'alone rossastro delle torce, e nel barbaglio macellaio delle roncole, spiccarono fra la folla un giovane e un anziano, tre uomini di mezz'età. Due donne, con i bambini aggrappati al seno, li tenevano per le spalle supplicando perdono: «Siamo i parenti di Dacre di Eberardo, che le loro signorie hanno ucciso con una freccia. Impiccava un manigoldo, lo avete ammazzato: pretendiamo un risarcimento.» Lui trasecolò. Enide lo scostò dalla bifora, si sporse sulla marmaglia arrabbiata: «Voi pretendete?!» Sassi e frutta marce grandinarono nella sala, e un pugno di letame insozzò la baronessa. Menandro inghiottì, non si mosse dal trono: si sedette più composto e indossò la corona. Le insegne dei suoi figli garrirono nel cortile. Pittaco guidò una testuggine di armati, le falci ed i forconi si spezzarono sugli umboni. I picchieri in seconda fila impalarono i rivoltosi, le suole dei soldati

calpestarono i cadaveri. Calarono le mazze e spaccarono le teste. Pentadio coordinò dagli spalti il tiro dei balestrieri sui ribelli scompaginati: una pioggia di quadrella li inchiodò sul ciottolato. I villici ripiegarono sul ponte levatoio, rovinarono nel fossato; le spade dei baroni incalzarono i sopravvissuti, le tenebre del borgo ne inghiottirono il pianto. Clodio si affacciò con Enide e Menandro, applaudirono al massacro e sorrisero ai giovani. Quelli ricambiarono con una smorfia di delusione, lasciarono le armi e le vesti imbrattate. Salirono le scale dal cortile fin il mastio, chini e rabbuiati come fossero gli sconfitti. Si accorse che la baronessa tremava di apprensione: «Non sono feriti» il signore le sussurrò, «non sono quasi entrati nella mischia. E in caso con i soldati, contro un branco di zotici: che vuoi che...» Pittaco e Pentadio tornarono nell'aula, salutarono gli alabardieri con un abbraccio virile. Serrarono il portone e affrontarono i genitori. Paonazzi, aggrottati: «... in effetti è così.» Enide accarezzò i due fratelli, grattò la fuliggine e il sangue dal loro viso. Il minore sopportò quell'attenzione, e distolse rancoroso lo sguardo dalla madre. L'altro la afferrò per il polso: «Se credete che mi conge-

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di...», lui si inchinò, «comprendo che non è più una questione di Stato.» «Parlate liberamente», il primogenito lo apostrofò, «è nell'ordine delle cose che due giovani cavalieri si trattengano ancora a lungo sotto il tetto paterno, e si cimentino in risse contro i loro stessi sudditi? Dovremmo davvero accontentarci di questo?» «... ci avete difeso...», balbetto la baronessa. Clodio esitò. Percepì che qualcosa si spegneva in Menandro e avvampava viceversa nelle anime dei suoi figli: «Non è naturale», ammise a mezza voce. Pittaco strappò da una parete una carta geografica delle terre di là dal regno: «Domani ci imporrete la vostra benedizione.» Trascinandosi scalzo, in camicia da notte, con la cuffia che gli scendeva sugli occhi, Clodio insistette con il domestico sul perché di un'alzataccia a quell'ora improbabile. L'uomo ripeteva seguitemi, subito; lo lasciò sulla soglia del fornito scriptorium. Il barone e la baronessa lo invitarono ad entrare. Lui, stupefatto, si acconciò come poté, arrossì di imbarazzo. Alla luce di un unico, debole candelabro, si accorse che Enide non si era cambiata d'abito: vestiva della tunica oltraggiata dagli


escrementi. Menandro non aveva un solo laccio fuori posto; lo guardarono lividi con gli occhi arrossati: «Per il bene di questo regno e per amore dei nostri figli», gemettero, «dovete restituirci la Vittima Imperitura.» «Questo è impossibile», Clodio trasecolò, «è un dono degli dèi: la concedono, non si invoca.» «Dateci una minaccia, un orrore da affrontare: contro il quale rischiare e sacrificarci, e dal quale proteggere il nostro popolo. È possibile questo?» «Esistono discipline che lo consentono, sì. Ma...» «Che cosa vi occorre?» «Una stanza remota e priva di arredamento, che guardi ad occidente. E soprattutto...» Clodio si arrampicò su uno sgabello, scelse da uno scaffale, velato di ragnatele, un incunabolo di pergamena crivellato dai tarli. Mostrò l'antico foglio al barone e la baronessa, il disegno di un moribondo trafitto da un athamé: «Non oso domandare.» Enide sfiorò, con le dita che le tremavano, la macabra figura e le glosse in inchiostro seppia: «Cos'è questo squarcio? Cos'è quel liquame, che fluisce nel corpo? E perché quell'ahi, lasso, dalle labbra del cadavere?» «Dev'essere ancora vivo, durante l'evocazione.» Menandro batté le mani, accorsero due servitori: «Sgombrate una sala della torre a ponente.» Clodio disegnò sul pavimento il triangolo e il pentacolo, trascris-

se i versi sacri; indossò il mantello rosso ed asperse la lama. La porta si aprì. Enide entrò sola, spingendo un carrello, coperto da un lenzuolo appiccicoso di sangue sotto il quale qualcuno tremava convulsamente. Lui lasciò cadere il coltello cerimoniale: si accorse che la baronessa era sozza di delitto: «Qual è», lo addiacciò, «il posto dell'olocausto?» Clodio la invitò nel triangolo consacrato, e prese per i lembi il lenzuolo insanguinato. Lei lo trattenne: «Il rituale avrebbe lo stesso buon esito, se restasse coperto?» «L'importante è che sia ferito a morte: il demone deve entrare e possederlo. Ma...» «Ha una lama confitta nell'addome: la ferita è slabbrata e profonda; non c'è molto tempo.» «Posso chiedervi chi?...» Enide tolse un lume dal portafiaccole, entrò nel pentacolo, si accostò all'incunabolo srotolato sul leggio. Clodio esitò: nel rantolo di dolore sotto il bisso insanguinato, nei tratti appiccicati al lenzuolo, era certo di riconoscere un'inflessione familiare, un volto che conosceva. Pensò alle fisionomie, le voci e corporature dei servitori, i cortigiani e i militi nel castello; di chi poteva avere offerto la vita, consenziente o costretto, al volere del suo signore di persistere in un incubo. «Dove sono il barone, Pittaco e Pentadio?»

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Un grido di cardini, un tuono di porte, l'eco di stivali che aggredivano i gradini, echeggiò nelle tenebre tre piani più in basso: «Salgono. Procedete.» Clodio accese i ceri neri e l'incenso, entrò nel pentacolo e intonò l'evocazione. Una pozza di umore nero si allargò sul soffitto. I passi sui gradini suonarono più urgenti. L'umore si liquefece, stillò gocce nere, scrosciò sul sacrificio nel triangolo consacrato. Penetrò nella ferita con un orrido gorgoglio. Pittaco e Pentadio irruppero nella sala, sguainarono le spade: «Madre, che cosa avete fatto?!» Il corpo sul pagliericcio si incendiò di un fuoco nero, si scrollò del lenzuolo e fluttuò nella sala. Ovunque in un corpo umano crescessero i peli, tremolarono su quell'orrore viticci biancastri; le gambe e le braccia, scuoiate e conciate, si allargarono in membrane che sollevarono un vento gelido. Un fiotto di orina, dal sesso del mostro, sciolse l'acciaio nel pugno dei due giovani. L'essere picchiò, affondò con gli artigli, sbranò la baronessa, Pittaco e Pentadio: . . . rovina di me stesso, anatema del regno, grinfia dei figli e livore incapace!. . .

Clodio crollò in ginocchio, si strinse al leggio, rannicchiato nel pentacolo protetto dai sigilli: il volto del demone, l'inflessione della voce, erano gli stessi del barone Menandro.


S ka n Viaggio in treno, io 1

I veri viaggiatori sono soltanto quelli che partono per partire. Baudelaire «Effluvi. Un grande mostro sbuffante che si avventa per valli e per gole, oltrepassando cascate, montagne nevose e strade campestri percorse dai carri dei contadini. I treni sono un'invenzione meravigliosa, il mio amore di sempre. Viaggiare in treno significa vedere la natura, gli uomini, le città, le chiese e i fiumi, insomma la vita».

Adoro questo passo. Viaggio sempre in treno, preferibilmente di notte. Sono un appassionato utente della ferrovia. Molti sostengono che la rotaia sia monotona e scocciante. Per me non è così. Mi conforta sapere che il mio percorso segua delle direttive, dei binari ben precisi, che diano la dimensione del cammino, dritto verso la destinazione. Del resto, come diceva qualcuno, per

viaggiare bisogna avere un metro, una misura. Altrimenti sono solo spostamenti.

Poi, c'è la stazione con i suoi odori, il brulicare di sconosciuti, tutti focalizzati a un obiettivo comune, il viaggio. Che dire, un luogo magico, spesso teatro d'incontri e di addii, romanticismo e fascino dei tempi

Poscritti di futuro ordinario

Lu i g i Bo n a r o

moderni. E poi, mi piace pensare che alla destinazione c'è sempre qualcuno pronto ad accogliermi con la livrea. Ah, il personale. Che persone deliziose. Quando mi trovo sulla banchina, chiedo di continuo informazioni ai conduttori, anche se conosco nel dettaglio tutto l’itinerario. Tuttavia, adoro il loro modo rispettoso di rivolgersi ai passeggeri e il tatto che impiegano nel dare indicazioni, mi proietta in un mondo passato quando le relazioni sociali erano quasi una cerimonia. Se non fosse per quel bifolco, l’addetto della carrozza ristorante. Ah! Ma ho telefonato. Ho fatto presente in amministrazione lo spiacevole accaduto. Ha pagato cara la sua scortesia. Rammento ancora le scene dei vagoni ristoranti di una volta, il servizio di porcellana, con il cameriere che passava per i tavoli e chiedeva: «un altro poco signore?» Insomma, il bancone putrido, così arrangiato era insopportabile alla vista, quelle forbici sporche di cibo sul piano, vicino alle tazze. Un’indecenza! E poi, come non considerare che non si serve il tè nei bicchieri di carta. Sono un uomo di mondo io, so adattarmi alle situazioni, mi sono semplicemente permesso di

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farlo notare. Non meritavo una tale rispostaccia. Quel maleducato ha avuto ciò che merita. Lasciamo correre. Io rispetto sempre le regole e modestamente, sono un artista del viaggio. Scusate, non mi sono presentato. Sono Andrea Calzolai, impiegato presso l'ufficio tutela dei diritti e della qualità dei servizi del trasporto ferroviario. Ho fatto del mio lavoro un

piacere. Faccio servizio di notte sui treni a lunga percorrenza. Sfortunatamente, il treno raccoglie anche molti malintenzionati che fanno del viaggio un incubo. Ma io sono lì pronto ad avvisare i passeggeri, la vera ricchezza di questo servizio. Pensate cosa sarebbe un treno e una stazione senza i suoi adorati passeggeri. Alle persone che incontro lascio sempre questa fotocopia, è il decalogo del buon viaggiatore: 1. Non abbandonare i bagagli a lungo nello scompartimento; 2. Evita gli scompartimenti isolati; 3. Non accettare offerte di vettovaglie o bevande da sconosciuti, potrebbero contenere sonniferi o stupefacenti; 4. Richieste e proposte di aiuto da parte di estranei hanno lo scopo di distrarvi permettendo


ai complici dei lestofanti di truffarvi; 5. Non acconsentite a portare oggetti di compagni occasionali , in particolare al passaggio dei controlli doganali. Ricordatevi che i manigoldi sono sempre in agguato con i loro espedienti per derubarvi e, ciò che è peggio, per rovinarvi l’itinerario. È per questo che aggiungo spesso alcune ulteriori considerazioni con i trucchi che questi spregevoli individui — non ho altre parole per definirli — utilizzano per danneggiarvi: 1. Urtare la vittima prescelta; 2. Utilizzare cartoni, giornali, indumenti per coprirsi durante il borseggio; 3. Provocare assembramento nelle salite e discese; 4. Sporcare intenzionalmente il malcapitato per poi offrirsi di pulire; 5. Chiedere informazioni per distrarre il povero viandante sprovveduto. Riguardo il punto uno. Mentre uscivo indignato dal vagone ristoro, uno di quei mascalzoni mi ha urtato. Voleva derubarmi, il furfante. Ma non me l’ha fatta, sapete? Ho detto il fatto suo a quel signore e ho avvisato il personale, addetto ai vagoni. Adesso che ci penso, non capisco perché il capotreno si è avventato su di me con una furia che mi ha costretto alla fuga. «Criminale!» mi ha urlato. A me, capite? Oh misero! Cosa potevo? Ho trovato rifugio nel bagno della quinta carrozza. Mi sta ancora cercando. Che se la sia presa con me? Sfortuna vuole che a que-

st'ora non c'è nessuno che potrebbe testimoniare in mio favore in un eventuale processo. La mia parola contro quella delle canaglie del ristorante. Certo che non c'è più la cortesia di una volta… 2

Ma come una mosca chiusa in un treno in corsa, a furia di volare all'indietro arriva comunque alla stazione finale, un assurdo spettacolare. Alessandro Baricco

delle forbici insanguinate in mano, inveiva contro un signore che era per terra in una pozza di sangue. Alle spalle del Calzolai c’era Attilio, il mio povero collega, che pendeva massacrato dal bancone. Calzolai era fuori di sé e continuava a ingiuriare contro i cadaveri asserendo che erano dei… Non ricordo… Ah! Sì. Mascalzoni e farabutti. Erano questi i termini che ha impiegato. Voleva giustizia da me, mi chiedeva insistentemente di prendere provvedimenti. Ho provato a fermarlo ma è scappato e si è rinchiuso nel bagno. Ho chiamato immediatamente le forze dell’ordine». Andrea Calzolai era un macchinista delle Ferrovie, licenziato qualche anno fa per motivi legati all'esubero del personale. Dalle dichiarazioni di sua moglie, Calzolai amava talmente il suo lavoro che, al licenziamento, non aveva retto allo stress emotivo. Soffriva, infatti, di crisi depressive. Nell'ultimo periodo, faceva discorsi strani sui treni e molto spesso spariva per giorni. Lo ritrovavano sempre nelle varie stazioni a parlare con i passeggeri. 3

Corriere di Roma Follia sul 9650 Milano centrale. Uccide due persone e si rifugia in bagno. Finisce in tragedia la folle corsa di Andrea Calzolai nel rapido notturno 9650 Roma— Milano. Questa mattina 13 febbraio 2012, verso le 2.00, la POLFER ha rinvenuto riverso sul piano del bar del treno 9650 Roma — Milano, Attilio Merioni, di anni 43, dipendente delle ferrovie. Merioni è stato ucciso con numerose ferite da taglio e punta. Insieme a lui, è stata ritrovata un'altra vittima, Aldo Perchi, ucciso con la stessa dinamica. L'arma degli efferati delitti è un paio di forbici rubate dal Calzolai dalla fornitura del mobile ristoro del malcapitato Viaggiano i perdenti, più adatti ai mutamenti. barista. Di seguito, il racconto di Giovanni Lindo Ferretti Loriano Sbarra, il capotreno: «Stavo compilando dei fogli di Umberto I — 14 febbraio 2012 marcia alla prima carrozza quando mi sono sentito chiamare Dal diario di Andrea Calzolai. all'interfono. Era il signor Calzo- «Non credo che si viaggi per tornare. L'uomo non può tornare lai che mi avvertiva della presenza di delinquenti al vagone ri- mai allo stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui storo. Mi sono recato immediatamente sul posto ma ho stesso è cambiato. Da se stessi trovato davanti a me il Calzolai , non si può fuggire».

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S ka n Il sole di mezzanotte

Il primo segnale é l'odore di bruciato. Forte, pungente. Asilia ha cercato con lo sguardo oltre l'intricato dedalo di arbusti, senza trovare nulla. Si é sollevata allora un po' di più, sostenendosi a un ramo basso, dello stesso grigio intenso della sua pelle. «Chi c'é?» Sussurra con voce roca. Un paio di ramoscelli spezzati sono la sola risposta che la notte le concede. Sa che Miridian deve tornare, glielo ha promesso. Ha giurato che non si sarebbe fatto uccidere e che sarebbe tornato con del cibo per tutto il clan. Con un movimento ancora agile, nonostante la fame, la giovane salta sul ramo cui era appoggiata. Uno spiraglio tra le lunghe foglie aghiformi le permette la piena visuale della valle sottostante. Una figura si trascina a stento nella pianura illuminata dalla prima, pallida luna. É il suo compagno. Ma quel corpo claudicante non é il vittorioso cacciatore che si sarebbe aspettata di vedere. Zoppica in modo

... e alla fine arriva Polly

Po l l y R u s s e l l

vistoso, le grandi ali nere ignobilmente squarciate, penzolano dalle sue spalle come un mantello stracciato. Lui si tiene stretto il braccio destro e, mano a mano che si avvicina, Asilia riesce a distinguerne la carne morsa dal fuoco. La sottile membrana che formava le sue ali, un tempo imponenti, devastata dalla macchina di morte dei loro nemici: il sole di mezzanotte. Lei si acconcia i capelli scuri in una coda veloce, la ferma con un laccio di cuoio e si lancia giù dal ramo. Scivola tra gli alberi, leggiadra, poi dispiega le ali e con un paio di falcate lo aggiunge. L'odore di carne bruciata é sempre più forte, quasi nauseabondo adesso. «Miridian, amore mio, che cosa ti hanno fatto?» É stanco, spossato e sanguina. Non la riconosce subito, o almeno il suo sguardo assente le fa pensare questo. Lei lo abbraccia quindi e lui sembra quasi ridestarsi da un torpore innaturale. «Hanno usato la loro arma... L'hanno perfezionata. Ho visto i tre alchimisti spostare degli specchi

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proprio mentre sorvolavo le mura della città fortificata. Ho cercato di scivolare tra i raggi, ma mi hanno colpito. Ora riescono anche a dirigere i flussi a loro piacimento, non c'é modo di entrare.» Con un moto di sconforto si appoggia all'amata, «mi dispiace,» le sussurra mentre lei gli avvolge le spalle con le ali, in un abbraccio amorevole. «Ho fallito. Ero sicuro di riuscire ma, oltrepassare quella maledetta muraglia é impossibile.» D'un tratto le ginocchia cedono e rotola a terra in uno sbuffo di polvere rossastra. Ausilia gli si inginocchia accanto nell'atto di sorreggerlo, poi si sposta davanti al suo uomo. Strappa un lembo dalla propria tunica in pelle chiara e lo avvolge tra le dita. Con tocco gentile gli tampona le ferite sul braccio, lo sguardo carico di compassione. Gli avvicina le labbra morbide all'orecchio, con voce rotta dal pianto. «Non preoccuparti, in qualche modo ce la caveremo.» Sa che non é vero, sa che alcuni dei bambini più piccoli potrebbero non su-


perare la notte senza provviste, sa bene che nessuno di loro ha la minima speranza senza più cibo, ma é anche conscia che dirlo sarebbe inutile. La seconda luna si affaccia timidamente oltre le colline a est, tingendo d'argento le foglie degli alberi che ormai, i due, hanno raggiunto. «Dobbiamo rientrare, é pericoloso rimanere allo scoperto.» Lui cerca di parlare ma già riprendere fiato si rivela faticoso, tossisce un paio di volte e un rivolo di sangue gli scivola tra le labbra carnose. «No, non sono mai usciti dalla città fortificata di notte, possiamo stare tranquilli.» É sicuro di quello che dice ma l'affermazione della sua compagna mina tutte le sue convinzioni, «certo ma, non hanno mai avuto un'arma come quella.» Lo sorregge per un fianco aiutandolo a infilarsi nella boscaglia, «le tue ali...» sussurra, mentre ne sfiora la pelle squarciata, «riesci a estenderle?» Un lungo minuto di silenzio, mentre lui si insinua tra due grandi arbusti verde scuro, «io le ali non le sento più.» Le sussurra con un filo di voce prima di sparire tra le fronde. Una decina di ragazzini pelle e ossa corrono loro incontro, le esili braccia protese. Allargate davanti alle piccole ali non ancora adatte al volo,

ma del tutto estese, portate alte fin quasi dietro alla testa. «È tornato Miridian, evviva!» Il più piccolo del gruppo lo raggiunge e lo abbraccia poi prende a strattonarlo per la tunica lisa, non notando le sue ferite, né il suo sguardo pregno di rammarico. «Zio Miridian, che ci hai portato?» Lui si inginocchia davanti al piccolo, mentre il resto del clan si avvicina. Con un sorriso forzato stringe la braccia del nipote e gli sfiora una guancia con due dita, «mi dispiace, non ci sono riuscito.» Il ragazzino si guarda intorno in cerca di risposte che non trova, i grandi occhi viola si gonfiano di lacrime, tira su col naso poi scoppia a piangere. Due suoi coetanei lo imitano prima cha la madre, sorella di Miridian, lo abbracci, soffocandone i singhiozzi tra le pieghe della tunica avorio. Non dice nulla al fratello mentre asciuga gli occhi al figlio, con un buffetto sul sedere gli assicura che sarebbe andato tutto bene. Con un gesto automatico poi, gli accarezza le ali assicurandogli che i "grandi" avrebbero risolto ogni cosa. «Quali grandi?» Sibila tra i denti Asilia. «Siamo rimasti una quindicina in grado di volare e nemmeno tutti in grado di batterci.» Con un gesto teatrale indica lo sparuto gruppo di reietti che intanto aveva fatto capannello. «Ma guardiamoci! Eravamo i si-

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gnori di queste terre neanche dieci lune fa. Era tutto nostro prima che quelle maledette scimmie glabre fortificassero le loro città. Ci hanno tolto ogni fonte di sostentamento, costringendoci a sgattaiolare oltre le loro mura come ladri di polli. Noi! I più temuti cacciatori della valle ridotti a morire di fame!» La sua voce si fa solenne, con mano ferma solleva le appendici prive di sensibilità che erano state le ali del suo uomo, esponendone i brandelli, «e ora... Questo.» Un coro inorridito segue il gesto finché Maro, il più vecchio dei superstiti, si avvicina. Le mani nodose poggiate sulle spalle di Miridian, ancora in ginocchio. «Dovremo amputarle, lo sai vero, figlio?» Non gli risponde ma in un gesto eloquente abbassa il capo. Gli stringe le mani, poi si siede su un tronco caduto. Sua sorella ha portato un impacco di erbe medicinali con cui ungergli la pelle ustionata. Con mano decisa ma delicata inizia a ricoprire le ulcere e la carne esposta. Non un lamento dalle labbra serrate del cacciatore. «Fratello mio, il piccolo Migdal é morto poco prima del tramonto e sua sorella non arriverà all'aurora. Dobbiamo trovare una soluzione. Attaccarli tutti insieme forse?» «Tu non ti rendi conto!» Con una zampata getta la ciotola a terra rovesciandone l'impia-


stro gelatinoso sul prato, «nessuno di voi si rende conto! Tutta la città é circondata da mura alte venti pertiche e la loro dannata macchina forma una cupola di luce impossibile da attraversare. I loro alchimisti sono riusciti a intrappolare la luce del sole e la loro arma la riutilizza sotto forma di energia. Solo pensare di avvicinarsi alla città é un suicidio.» Come se non lo avesse sentito sua sorella si china sulla brodaglia medicamentosa, la raggruppa tra le mani color madreperla e la rovescia di nuovo nella ciotola di legno. Riprende a medicare il fratello e il suo discorso esattamente da dove lo aveva lasciato, «accumula energia durante il giorno e la restituisce la notte, lo sappiamo certo. Ma il tempo del Buio é molto lungo, non possono immagazzinare tutta quella luce, é impossibile. Basterebbe aspettare. Mancano solo due lune.» Asilia le porge delle garze vegetali, «non arriveremo mai al tempo del Buio senza provviste, per cui é inutile parlarne e, gettare speranze infondate al vento lo é ancora meno.» Miridian ha scrollato la testa, i lunghi capelli madidi di sudore sembrano serpenti neri. Li getta indietro con un gesto, scoprendo il viso dai lineamenti duri, ma dall'espressione gentile. «L'unica possibilità é andarcene. Cerare un'altro territorio di caccia, lontano dagli uomini della città.» La sua non é un'affermazione, é una sentenza. «Noi siamo sempre stati qui, figlio. Ed é qui che moriremo.» «Il che avverrà in pochi giorni

dall'arma rifrange in centinaia di specchi. Il cono di luce solare pare esplodere dalla macchina circolare e i suoi bracci lignei iniziano a girare. Un solo fascio luminoso, ripetuto centinaia di volte, una per ogni specchio azionato dalle guardie e la città è protetta Un bambino strattona la madre per un lembo del grembiule, con lo sguardo eccitato indica la cupola luminosa appena formata. «Mamma guarda!» La donna perde l'equilibrio avvinta dalla foga del piccolo, con due passi all'indietro ritrova la posizione eretta e la mano corre alla spalla destra. Tasta il vuoto un istante e la sua mente vola e molte lune prima. Trattiene a stento una lacrima mentre le sembra quasi di rivedere il demone alato strapparle via il braccio a Interno della città fortificata, po- morsi. Poi sorride e sfiora la cicatrice co prima del tramonto. sulla fronte di suo figlio, Il corno ha suonato per tre volte e pensando che comunque era riuparecchie paia d'occhi si dirigono scita a salvarlo. «I masticauomini verso il cielo. I bimbi abbraccia- non ce la fanno più a passare, veno repentini i genitori, fermenti ro mamma? Ora non possono più mangiarci, vero?» nell'attesa. «No tesoro, non ce la fanno.» Il quarto suono sfuma nell'aria fresca e i tre alchimisti si mettono Il piccolo sposta i capelli ricci con un gesto del capo, la cicatrice in posizione. esposta sembra brillare al riflesso Le braccia levate al cielo e il della luce artificiale. volto contratto nello sforzo. «Con il sole di mezzanotte siamo Anche Micael, come i suoi commilitoni, é pronto. Le mani al sicuro!» serrate nella cornice lucida dello Lei ha stretto gli occhi cercando specchio. Un'occhiata alle altre di fissare la luce, un sorriso le riempie di nuovo il volto «si teguardie sulle mura e al cenno d'assenso del suo comandante lo soro, ora siamo al sicuro!» sposta verso il centro della città, in direzione della macchina. Tutte le altre guardie lo imitano e il potente getto di luce vomitato padre. Siamo allo stremo, i bambini non ce la fanno più.» Il vecchio Maro solleva le sopracciglia, la pelle grigio scuro solcata da profonde rughe, sembra quasi avvizzire nella smorfia di dolore. «Non tutti riescono a volare, tu compreso. La foresta é troppo intricata per attraversarla e non possiamo sorvolarla lasciando gli altri indietro.» «Andremo a nord verso il lago ghiacciato. Asilia viene dalle terre oltre il ghiacciaio e la sua gente ci aiuterà.» Il vecchio getta un occhiata verso il gruppo di bambini, la pelle troppo tesa sulle ossa. «E se le fortezze fossero sorte anche lì?» «Non abbiamo alternativa se non tentare.»

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OLTRE LO skannatoiO Il prezzo dell'immortalità

NASF

Le TRE LUNE 9

chmf_2002@yahoo.it

La nera signora è di fronte a me, in attesa. Le mani scheletriche congiunte in una muta preghiera; il ghigno beffardo scolpito nelle ossa del volto. È una visione da incubo, l'irrazionale terrore ancestrale divenuto realtà. Un orrore in grado di raggelarti, annichilirti. I racconti dei sopravvissuti non sono mai riusciti a trasmettere l'angoscia che si prova nel trovarsela davanti. Sebbene il consunto cappuccio le copra il volto, sento il suo sguardo implacabile puntato su di me. Mi sfida. Mi inquieta. Sta attendendo la mia mossa... una mossa che non so decidermi di fare. Ancora una volta osservo la scacchiera, i pezzi bianchi e neri impegnati in una battaglia dal cui esito dipende il mio destino. Gocce di sudore mi imperlano la fronte.

La Morte non parla, ma il suo silenzio è come un grido che mi squarcia il cervello. Non mi aiuta sapere che è solo un simulacro sintetico, un robot. Non mi aiuta saperlo, perché se perdo... morirò. Ma se vinco, mi dico, mi si apriranno le porte dell'immortalità. È questo il significato della partita: sconfiggi la Morte a scacchi e l'avrai sconfitta anche nella vita reale; sconfiggi la Morte, e potrai vivere per sempre. Io ho avuto la mia occasione... e l'ho sprecata. Stupidamente, per una disattenzione, ho mandato in fumo la mia possibilità di vittoria. Non ci si improvvisa scacchisti quando si viene ad affrontare la Morte. La partita da cui dipende la tua esistenza va preparata minuziosamente per anni. Studiata, elaborata; pro-

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grammata per obbligare la Morte a compiere determinate mosse. La mia tattica di gioco si basava su un duplice attacco portato avanti dagli alfieri e dalla regina. Era una strategia studiata fin nei minimi dettagli, un insieme di mosse ripetute più e più volte in tutti gli anni che mi separavano da questo momento. Ed ero riuscito a metterla in pratica con successo, costringendo il re nero della Morte in un angolo. Avevo la vittoria in pugno: presto sarei riuscito a dare scacco matto. Ma l'emozione mi ha giocato un brutto scherzo. Per una stupida disattenzione ho esposto il mio re alla minaccia di un alfiere avversario. Ho dovuto ripiegare in difesa, e nel giro di poche mosse la mia strategia di attacco è stata smantellata. Non potrò più ripetere l'attacco: la Morte impara


dai propri errori. È un robot, e ogni partita fatta viene memorizzata in una banca dati aggiornata in tempo reale. Per questo più passa il tempo, più diventa difficile batterla. Il mio cervello galoppa a mille, mentre cerca di un modo per vincere. Non va bene, sono troppo agitato. Per tranquillizzarmi, per raggiungere la calma necessaria ad impedirmi di fare altre mosse false, ancora una volta ripeto a me stesso la Storia. La Storia così come mi era stata narrata dai miei genitori, che a loro volta l'avevano appresa dai loro genitori. La Storia che è riportata in ogni libro di scuola, la Storia che è alla base del diritto giuridico mondiale. La storia di un mondo che non era riuscito a guadagnarsi la via delle stelle, ma i cui scienziati, in compenso, avevano scoperto il segreto dell'immortalità. Un segreto racchiuso in una nuova proteina in grado di annullare gli effetti dell'invecchiamento e di conferire, a chi la assumeva, il vigore degli anni migliori. Un segreto a buon mercato e potenzialmente alla portata di tutti, ma che se concesso alle masse avrebbe fatto esaurire le risorse del pianeta in breve tempo. E così era stata creata la Morte, un robot dall'aspetto scheletrico controllato dal più sofisticato sistema di intelli-

genza artificiale. Un lugubre omaggio alle antiche leggende dei tempi passati, dove i cavalieri di ventura mettevano in palio la loro vita in angoscianti partite a scacchi con l'oscura signora. Ed in effetti, come in quelle leggende, era stato deciso che solo chi avesse battuto a scacchi la Morte avrebbe potuto assumere la proteina dell'immortalità. Ma superare la prova era un'impresa ardua, perché il database della Morte conteneva milioni di partite ed veniva aggiornato costantemente, cosicché vincere diventava sempre più difficile. Come mi sto accorgendo a mie spese. Ho sprecato la mia occasione, presto morirò. Il tempo si dilata mentre penso a quale mossa fare. Ma non sono mai stato bravo a scacchi. È Jaeleen la campionessa. Jaeleen, dai lunghi capelli castani e dai profondi occhi verdi. Jaeleen, la mia dolce fidanzata appassionata di logica e di strategia. È lei che ha elaborato le mosse della mia partita, io non ho fatto altro che impararle a memoria. Fosse dipeso da me, non sapevo quasi neanche come muovere il cavallo. – Ho elaborato una mossa vincente per me ed una per te – mi disse un giorno sorridendo. – Così quando saremo pronti andremo a sfidare la Morte e potremo vivere per sempre, insieme. In principio non mi sembrava una buona idea offrirsi volonta-

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ri per la partita con la Morte, ma l’insistenza di Jaeleen aveva dissipato ogni dubbio. Per anni studiammo insieme le sue mosse per vedere se presentavano delle falle. Non ne trovammo. È un genio, Jaeleen; lo stupido sono io. Lei ha già giocato la sua partita questa mattina, poco tempo prima di me. È stata rapida, veloce. L'ho vista uscire da questa stanza dopo circa un quarto d'ora. Significava che aveva vinto, chi perde non esce mai vivo dalla stanza della partita. Non ci siamo potuti parlare, è stata subito condotta via. Dopo un paio d'ore, è toccato a me. So che mi sta aspettando là fuori, ma non potremo vivere mai più la nostra storia d'amore. Sono disperato. Alla fine, non sapendo che altro fare, mi decido: con l'alfiere mangio la torre, lasciando indifesa la mia regina. È un trucco: se la Morte la mangiasse lascerebbe aperto un varco nelle sue difese che potrebbe portarmi alla vittoria. Ma so già che non abboccherà: quella che sto cercando di attuare è la mossa che Jaeleen ha studiato per sé; quella che ha utilizzato questa mattina, vincendo. La Morte avrà sicuramente aggiornato la banca dati ed elaborato una contromossa. Invece, inaspettatamente, vedo la mano scheletrica raccogliere il cavallo nero e mangiarmi la regina. Sono incredulo: mi ha la-


sciato via libera per giocare la mossa di Jaeleen. O c'è un trucco? Se anche fosse, non ho scelta: spingo la torre in avanti, precludendo al suo re un'eventuale fuga a sinistra. Lei contrattacca con il cavallo, ma così facendo innesca la reazione di mosse che mi porterà alla vittoria. L'altra mia torre va adesso a dare scacco al suo re, se vuole salvarlo deve sacrificare la regina. La Morte solleva la testa, mi fissa per un istante eterno con le sue orbite vuote, poi riporta l'attenzione sulla scacchiera. Prende tempo. Sta valutando le possibili alternative, ma io so già che mossa farà. Una volta iniziata, la combinazione di Jaeleen non lascia possibilità di scampo all'avversario. Il resto della partita si svolge come da copione: nel giro di pochi minuti ottengo la vittoria. La Morte sembra quasi accasciarsi quando le do scacco matto. Sono euforico, eppure non riesco a spiegarmi questa sua sconfitta. Forse la banca dati della Morte non viene aggiornata in tempo reale come ci hanno fatto credere? Ma è una domanda fugace: quando nella stanza si apre la porta per farmi uscire, l'unica mia preoccupazione è raggiungere Jaeleen e raccontarle tutto. *** Attraversando il corridoio sento alcuni concorrenti che parlano. Dicono che questa mattina c'è stato un assalto degli hacker della Chiesa dell'Unica

Vita Eterna, una setta di fanatici religiosi che vedono nella proteina dell'immortalità un pericolo per la vita spirituale. Pare che il loro assalto abbia compromesso la banca dati della Morte. Allora capisco perché ho potuto eseguire con successo la mossa di Jaeleen: l'attacco informatico ha impedito l'aggiornamento dei server; per questo la Morte non ha elaborato una contromossa alla strategia utilizzata da Jaeleen solo due ore prima. Una fortuna inaspettata. Poi in fondo al corridoio, prossima all'uscita, la vedo. Jaeleen. Sorridente. Corro da lei e, senza darle il tempo di parlare, la bacio. Poi la prendo sottobraccio e con lei mi incammino verso l'uscita Ma Jaeleen esita, resta indietro. – Dove vai? – mi chiede. – Sai che le regole proibiscono di uscire a chi non ha ultimato la partita. – Ultimato? – chiedo. Non capisco cosa vuol dire. – Ultimato? – ripeto. – Perché, non hai già fatto la partita? Lei mi guarda con occhi dubbiosi. E allora la verità comincia a farsi strada nella mia testa. – L'avevo iniziata ma... non l'ho finita – mi dice. – L'hanno sospesa per un attacco degli hacker. Hanno rimandato il mio turno per riconfigurare il sistema applicativo. Dovrei tornare dentro tra pochi minuti. E allora mi blocco, mentre il mio cuore va in pezzi. Mi sforzo di trattenere le lacrime, mentre vedo il futuro luminoso che avevamo programmato insieme svanire per sempre. Perché mi rendo conto che non

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ho sconfitto la Morte per un mancato aggiornamento della banca dati: la Morte non ha riconosciuto la mossa di Jaeleen perché lei doveva ancora giocare la sua partita. A questo devo la mia vittoria, non a un inaspettato colpo di fortuna. E tra poco, quando sarà la volta di Jaeleen tentare i guadagnarsi l'immortalità, la Morte avrà già elaborato una contromossa adeguata. Oh, amore mio, cosa ti ho fatto? Sono perso in questi pensieri quando Jaeleen viene chiamata. – Non mi auguri in bocca al lupo? – mi chiede scherzosamente, schioccandomi un bacio sulla guancia. Non le dico nulla, il respiro mi si mozza in gola. Riesco solamente ad accennare un sorriso forzato, mentre la vedo dirigersi verso la stanza della partita. – Ci vediamo tra un po' – riesco infine a dirle, falsamente. Poi mi volto col cuore pieno d'angoscia, perché so che non la vedrò mai più. Ho sconfitto la Morte; mi sono guadagnato l'immortalità. Dovrei essere felice, ma non lo sono; la mia vittoria ha causato la morte di Jaeleen. Fin da piccolo mi hanno detto che l'immortalità ha un prezzo da pagare. Da sempre mi sono chiesto quale era questo prezzo. Ora so qual è, e dovrò conviverci per tutto il resto della mia vita. E in fondo al cuore mi chiedo se non sia stato troppo alto.


S ka n

Nella pancia del Drago

http://www.sulromanzo.it/redazione/andrea-atzori

E vissero tutti felici e contenti Siamo finalmente giunti alla fine di Nella pancia del drago. Tristi? Tristissimi. Non piangete, vi prego. La rubrica è durata un anno, e in dodici puntate di approfondimento si è cercato di tracciare traiettorie plausibili verso l’origine e l’evoluzione del fantasy come genere letterario, come estetica, come sensibilità narrativa. Si è partiti dall’etimologia phantasia, sono stati toccati i lidi della filologia e della cartografia del fantastico; si è discusso di tòpoi e cliché, di Bene e Male, si è ironizzato su sottogeneri e cross generi, si è parlato di fantasy al femminile, di magia e multimedialità; un percorso che è servito in primis al sottoscritto Andrea Atzori per cercare di affinare gli strumenti critici e l’umiltà intellettuale. Cosa rimane di questo calderone, oltre alle statistiche di share sui social network? A ognuno il suo. Vi posso dire il mio.

Nel corso della rubrica ho cercato in tutti i modi – leciti o meno – di riportare il fantasy al nucleo originario della letteratura fantastica, “contrapposta” al realismo: un cuore pulsante dalle più antiche istanze del mito sino a oggi e in divenire; la risposta al perché si raccontino storie, quel bisogno di alterare il reale per poterlo riconoscere. Ho cercato, parlando di “letteratura di genere”, di demolire il concetto di genere in sé, strapparlo alle strumentalizzazioni, o meglio, di guardare cosa le avesse generate; forse peccando d’orgoglio. In una discussione su un forum di Science Fiction mi è capitato da poco di intraprendere uno scambio con Massimo Mongai, prolifico autore italiano nonché vincitore del Premio Urania nel 1997 con il celebre Memorie di un cuoco d’astronave. Mongai criticava una mia riflessione su un romanzo di Ursula Le Guin (The Left Hand ofDarkness), dove cercavo di estrapolare la trama dal genere fantascientifico per riportarla a un minimo comun denominatore esistenziale, so to say. Credo criticasse a ragione. I generi non hanno bisogno di giustificazioni, di legittimazioni, di nobilitazioni. Citando Mongai (che parlava però della sola fantascienza), il genere «è genere, e solo essendo genere ha la spaventosa forza che ha». Accettato ciò, rimango comunque convinto (che si parli di fantasy, SF, weird o horror, Mongai non me ne voglia) che trascendere i singoli generi sia necessario – almeno una sola volta, come esercizio cognitivo – proprio per comprendere questa forza spaventosa nel come si manifesta, per capirne l’unicità, e perciò la necessità. Ma forse anche qua pecco: è solo un modo per dire che tutta la letteratura, le storie, quali che siano, sono un gioco al riconoscimento di noi stessi.

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Perdonata la digressione, cosa ne sarà del drago? Morto un drago se ne fa un altro. Con gioia annuncio che Sul Romanzo ha accettato la permanenza di uno spazio mensile esclusivamente dedicato alla stramaledetta letteratura fantastica di genere. Ladies & Gentlemen, da febbraio sarà con voi Fantasy e vin brulé. Yes, avete letto benissimo. La rubrica parlerà niente di meno che: di libri! Dove fantasy sta per “fantasia” (in tutte le sue svariate forme “di genere”), e “vin brulé” sta esattamente per vin brulé, quel vino speziato e caldo che corrobora lo spirito e ci lascia un po’ alticci e in pace con il mondo (ehm, i mondi). Mio compagno in questa nuova avventura editoriale sarà l’autore Vlad Sandrini, anch’egli artigiano del fantastico a tutto tondo e onesto chiacchieratore di libri. Recensore no, neanche io. Lasciamo la cattedra ai censori. In Fantasy e vin brulé vi parleremo di libri, di novità estere e italiane, di autori affermati o esordienti, pubblicati da altri o pubblicati da soli; ma se lo faremo è perché ci hanno incusiosito e pensiamo che non sia tempo buttato condividere le nostre opinioni per incuriosire anche voi. Se cercate stroncature al vetriolo e abissi di sarcasmo, state alla larga; credo ci riveleremmo terribil-mente fallibili nel soddisfare il vostro ego. Con l’infinità di sconosciuti buoni libri che ci sono là fuori, nostra modesta opinione è che sprecare tempo prezioso con quelli brutti sarebbe di dubbio piacere e ancor più dubbia utilità (anche perché se un libro è brutto, lo smacco più grande che potete fargli è lasciarlo all’oblio ).

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I Libri da rileggere Quake, pianeta proibito di Charles Sheffield

stelle, prima lentamente, con astronavi che viaggiano a velocità inferiori a quella della luce, e poi molto più rapidamente, utilizzando la rete di comunicazione Bose che permette rapidi viaggi interstellari. Nel corso dei loro viaggi hanno incontrato varie specie aliene ma anche strutture artificiali antiche di milioni di anni costruite da una specie sconosciuta. Quake è un pianeta del sistema Dobelle. Lì c’è una particolare configurazione che provoca periodicamente la Marea Estiva, un fenomeno sismico estremamente violento. Quake e il suo pianeta gemello Opal sono uniti dall’Umbilicale, una delle strutture dei Costruttori, la misteriosa specie che ha lasciato tante strutture artificiali. Una volta ogni 350.000 anni circa questo fenomeno è ancora più violento e in occasione di questa super Marea Estiva alcuni umani e alieni arrivano su Quake per indagare ma non tutti sono ciò che sembrano. Quake, pianeta proibito di Charles Sheffield Nel romanzo “Quake, pianeta proibito”, Charles Sheffield getta le basi per la serie dell’universo Heritage. Essa è ambientata oltre 4.000 anni nel futuro, quando gli esseri umani si sono sparsi tra le stelle. Nel corso dei secoli, hanno incontrato alcune Il romanzo “Quake, pianeta proibito” specie aliene e tra le cose che le varie spe(“Summertide”) di Charles Sheffield è cie senzienti hanno in comune è l’aver trostato pubblicato per la prima volta nel vato enormi strutture artificiali vecchie di 1990. È il primo libro dell’universo Heri- milioni di anni. tage. In Italia è stato pubblicato da Mondadori nel n. 1274 di “Urania” nella tradu- Il mistero delle strutture e della specie che le ha costruite, sconosciuta e per questo zione di Marco Pinna. chiamata i Costruttori, è al centro dei roGli esseri umani si sono diffusi tra le manzi dell’universo Heritage. Non si tratta

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esattamente di fantarcheologia perché Charles Sheffield dà molta importanza anche alle varie specie aliene presenti nel romanzo e ai rapporti tra di esse. In varie occasioni, Charles Sheffield è stato paragonato ad Arthur C. Clarke, anche perché in alcuni casi hanno affrontato gli stessi temi. È facile quindi pensare a "Incontro con Rama" e certamente anche Sheffield costruisce un mistero intellettuale attorno alle strutture dei Costruttori ma la serie dell’universo Heritage le usa per sviluppare una storia decisamente più vasta. Centinaia di quelle strutture sono state trovate nelle aree della galassia colonizzate da altre specie. In certi casi sono pericolose perché al loro interno qualsiasi tipo di memoria, organica o inorganica, viene cancellata. Si tratta di trappole? Di qualche tipo di test? Questo tipo di strutture fa pensare a "Il satellite proibito" di Algis Budrys ma in quel caso la struttura aliena era una scusa per una storia centrata attorno ai personaggi mentre in “Quake, pianeta proibito” c’è un buon equilibrio tra l’indagine sui misteri dei Costruttori e lo sviluppo dei personaggi. Nonostante millenni di indagini da parte di varie specie, nessuno è riuscito a risolvere i misteri dei Costruttori. Qualcosa però potrebbe cambiare a causa di un evento davvero speciale. La Marea Estiva del titolo originale del romanzo è un evento periodico causato da una particolare configurazione del sistema Dobelle e una volta ogni 350.000 anni ce n’è una davvero straordinaria. I pianeti gemelli Quake e Opal, nel sistema Dobelle, sono uniti dall’Umbilicale, una delle strutture dei Costruttori. Una scienziata umana vuole studiarlo nel periodo della Marea Estiva. In quello stesso periodo, altri visitatori, umani e alieni, arrivano nel sistema con varie motivazioni. Alcuni hanno dichiarato solo una parte delle loro motivazioni o non sono stati del tutto sinceri su di esse.

Questa riunione di personaggi eterogenei nel sistema Dobelle dà inizio ad una pericolosa avventura perché le forze che si scatenano durante l’eccezionale Marea Estiva sono incredibilmente violente. Nel corso del romanzo, vengono pian piano rivelate le reali motivazioni dei vari personaggi, che cominciano a essere sviluppati. “Quake, pianeta proibito” è per certi versi un grande prologo per la serie dell’universo Heritage che ha lo scopo di stuzzicare il lettore presentando i vari misteri dei Costruttori e altri elementi di quell’universo narrativo, compresi i protagonisti. La trama è piuttosto limitata perché fondamentalmente viene usata per dare inizio ad una storia più ampia. In “Quake, pianeta proibito” vengono poste tante domande sui Costruttori ma non vengono date risposte. Invece, vengono fornite parecchie informazioni, anche tramite estratti dal “Catalogo Universale Lang delle Strutture” inseriti tra i capitoli del romanzo. Essi, assieme a tante informazioni incluse in altri modi, spesso rallentano il ritmo di una storia che contiene azione solo nell’ultima parte. Per le sue caratteristiche, “Quake, pianeta proibito” è buono come introduzione alla serie dell’universo Heritage. Ha una fine nel senso che viene terminata la storia della Marea Estiva ma essa lancia la successiva fase dell’indagine sui Costruttori. Può avere senso leggerlo per capire se questa serie fa per voi ma dovete sapere che ne rappresenta solo l’inizio. Secondo me, in “Quake, pianeta proibito” comincia la scoperta di un universo narrativo interessante con misteri intriganti e protagonisti non banali. Se vi piacciono questo tipo di storie ve lo consiglio, con la consapevolezza che protagonisti e una storia più ampia vengono sviluppati nei romanzi successivi.

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I Libri da rileggere U n m on d o p e r gli artefici di Charles Sheffield

Nota sulla traduzione. Quelli che venivano chiamati Costruttori in “Quake, pianeta proibito” vengono invece chiamati Artefici in “Un mondo per gli artefici”. E.C. Tally è un’intelligenza artificiale ma la sua missione richiede un corpo fisico. Per questo motivo, un corpo organico umano viene cresciuto per lui e il suo cervello vi viene impiantato. In questo modo, potrà interagire con gli esseri umani sul pianeta Quake, nel sistema Dobelle, dove viene inviato per verificare cosa sia successo dopo la Marea Estiva perché da lì non arrivano più notizie. Nel corso della Marea Estiva, il pianeta Quake si è letteralmente aperto e un oggetto artificiale ne è uscito. Si è diretto verso il pianeta Gargantua, dove il gruppo di umani e alieni venuto per investigare sulla Marea Estiva lo segue. La speranza è di scoprire i segreti degli Artefici ma le loUn mondo per gli artefici ro strutture possono nascondere ancora di Charles Sheffield pericoli dopo milioni di anni. “Quake, pianeta proibito” era una grande introduzione all’universo Heritage in cui Charles Sheffield ha presentato le misteriose strutture degli Artefici e i protagonisti della serie. All’inizio di “Un mondo per Il romanzo “Un mondo per gli artefici” (“Divergence”) di Charles Sheffield è stato gli artefici”, che riprende la storia dov’era pubblicato per la prima volta nel 1991. È il terminata nel romanzo precedente, vengosecondo libro dell’universo Heritage ed è no riassunte le informazioni necessarie a il seguito di "Quake, pianeta proibito". In comprendere quest’universo narrativo ma Italia è stato pubblicato da Mondadori nel sarebbe meglio leggere anche il primo romanzo per seguire lo sviluppo dei person. 1606 di “Urania” nella traduzione di naggi e la loro ricerca. Annarita Guarnieri.

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In “Quake, pianeta proibito” il lettore aveva trovato tante domande sugli Artefici, in “Un mondo per gli artefici” cominciano ad arrivare le risposte. Anche dopo milioni di anni, le strutture lasciate dagli Artefici sono attive ma sul pianeta Quake è successo qualcosa senza precedenti che ha portato il gruppo di umani e alieni arrivati per studiare l’eccezionale Marea Estiva verso Gargantua, un pianeta gigante gassoso del sistema Dobelle. “Un mondo per gli artefici” racconta la progressiva scoperta di alcuni segreti degli Artefici. Può essere incluso nel sottogenere della fantarcheologia perché il tema della ricerca e dell’esplorazione di strutture artificiali antichissime è centrale. Tuttavia, Charles Sheffield aggiunge anche elementi relativi alla situazione di quel momento e alle possibili conseguenze delle scoperte. La trama è davvero essenziale, nel senso che i protagonisti, chi per interesse scientifico, chi per la ricerca di un profitto personale e chi per trovare gli altri, raggiungono il pianeta Gargantua. Lì comincia l’esplorazione di una struttura degli Artefici, che è l’evento centrale del romanzo, con i suoi tanti pericoli. Ci sono momenti d’azione, anche intensa, con i pericoli che aiutano a tenere alta la tensione. Tuttavia, il romanzo è dedicato per la maggior parte alla rivelazione di varie informazioni sulle attività e sugli scopi degli Artefici. Tra i capitoli, sono inseriti estratti del “Catalogo Universale Lang delle Strutture” ma anche dal “Catalogo universale delle specie” che forniscono altri dati sull’universo Heritage. La conseguenza è che il ritmo narrativo tende a essere lento ma “Un mondo per gli artefici” è interessante soprattutto per i misteri riguardanti gli Artefici. Essi hanno una dimensione cosmica davvero vastissima in

termini di spazio e tempo. Il romanzo include anche elementi della storia di altre specie, che in certi casi ha radici misteriose. Non si tratta solo della scoperta del passato ma anche delle conseguenze che essa può avere. Gli Artefici hanno pianificato qualcosa per il futuro e i protagonisti vengono coinvolti in quei piani come rappresentanti delle loro specie. Superare i pericoli che trovano non vuol dire solo sopravvivere ma anche influenzare la storia futura. La rivelazione di vari segreti degli Artefici rende “Un mondo per gli artefici” complessivamente più interessante di “Quake, pianeta proibito”. Il difetto principale del secondo romanzo è che la trama, e in particolare il finale, contiene qualche cliché. È come se Charles Sheffield avesse voluto creare una sorta di happy ending che risulta un po’ forzato. La sensazione di forzatura è anche maggiore per il fatto che finisce un’avventura ma essa lascia aperti molti fili narrativi. I protagonisti hanno fatto un enorme balzo in avanti nella comprensione degli Artefici ma c’è ancora molto da scoprire e le conseguenze di ciò che è successo sono tutte da valutare. “Un mondo per gli artefici” ha qualche difetto ma secondo me complessivamente continua una serie intrigante con un buon equilibrio tra le risposte fornite e i misteri ancora da investigare nei romanzi successivi. Se vi piace questo genere di storie ve lo consiglio.

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I Libri da Rileggere Il libro del fiume di Ian Watson

Yaleen è riuscita a realizzare il suo sogno di entrare nella corporazione del Fiume. Solo le donne possono diventare marinaie perché il Fiume permette agli uomini di viaggiare solo una volta sulle sue acque e chi prova a violare quella regola impazzisce o muore. Dopo l’iniziazione, Yaleen è legata al Fiume e deve mantenere i segreti della corporazione. La Corrente Nera che fa parte del Fiume impedisce di attraversarne le acque isolando le due coste. Un gruppo di uomini riesce però a trovare un modo per raggiungere la costa occidentale e Capsi, il fratello di Yaleen, compie il viaggio. L’esperimento riesce ma dall’altra parte del fiume vivono fanatici che mettono al rogo le donne e anche Capsi fa una bruttissima fine. Yaleen finisce coinvolta Il libro del fiume in eventi che cambieranno non solo la sua di Ian Watson vita ma anche quella di tutto il pianeta. I fiumi sono protagonisti di tante storie, anche di fantascienza. In questo caso, si tratta di un fiume davvero particolare perché al suo interno c’è la Corrente Nera, una misteriosa creatura vivente che ha una Il romanzo “Il libro del fiume” (“The Book of the River”) di Ian Watson è stato fortissima influenza sugli abitanti delle pubblicato per la prima volta nel 1983. È il due coste. Generalmente essa accetta che le donne viaggino sul Fiume, invece gli primo libro della trilogia della Corrente uomini possono compiervi solo un Nera. In Italia è stato pubblicato da viaggio. Essa rende anche impossibile Mondadori nel n. 1036 di “Urania” e all’interno del n. 67 di “Millemondi” nella attraversare il Fiume tenendo separati gli abitanti delle due coste. traduzione di Laura Serra.

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Sulla riva orientale, si è formata una società in cui le donne, essendo le uniche che possono viaggiare regolarmente lungo il Fiume, hanno formato la corporazione del Fiume, che gestisce commerci e comunicazioni tramite le loro barche. Per questo motivo, costituiscono il sesso forte in un ribaltamento di ruoli. La satira non è lo scopo principale de “Il libro del fiume” ma in certi momenti Ian Watson sembra divertirsi a ribaltare certi stereotipi. Globalmente però le società delle due coste sono il risultato coerente delle azioni della Corrente Nera. L’autore esamina due società che potrebbero nascere a causa di quell’influenza. Nel corso del romanzo, seguendo i viaggi di Yaleen il lettore può scoprire il loro funzionamento e i loro problemi. Yaleen è una ragazza che riesce a realizzare il suo sogno e diventare marinaia ma i suoi viaggi la porteranno più lontano di quanto avrebbe potuto pensare. Per una serie di circostanze, si trova al centro di eventi che finiscono per stravolgere una società rimasta stabile per un tempo immemorabile. Ciò che cambia tutto è la fine della separazione tra le due coste. Gli abitanti della riva orientale conoscono quelli della rive occidentale solo grazie a ciò che riescono a vedere tramite i loro telescopi. Ciò che vedono è tutt’altro che bello visto che la società di quella riva sembra composta da fanatici misogini. La scoperta di un modo per attraversare il Fiume apre la via ai contatti tra le due società, che è decisamente violento. Yaleen si trova al centro di questi eventi rivoluzionari e ha la possibilità di scoprire molte cose sulla Corrente Nera, sul suo mondo e anche sulle origini dei suoi abitanti. “Il libro del fiume” contiene elementi tipici di Ian Watson dato che la percezione della realtà da parte della protagonista si espande nel corso del romanzo grazie alle sue scoperte.

Gli abitanti della costa orientale non conoscono le loro origini. Quando Yaleen ha la possibilità di parlare con abitanti della costa occidentale scopre le loro idee e grazie al suo contatto mentale con la Corrente Nera può aggiungere altri dettagli a quelle idee, che però non sono necessariamente complete né del tutto affidabili. Ian Watson ama mescolare elementi scientifici con altri più mistici. Ne “Il libro del fiume” un elemento importante è una forma di trasmigrazione delle anime ma l’autore usa il termine ka, un riferimento al concetto che gli antichi egizi avevano dell’essenza vitale delle persone. La Corrente Nera è un essere fisico ma i suoi effetti sono in genere psichici e costituisce un altro elemento tipico di Watson, che spesso inserisce nei suoi romanzi strane creature che influenzano i protagonisti. “Il libro del fiume” è narrato in prima persona da Yaleen, che scrive le sue avventure. Per questo motivo, è nettamente il personaggio più sviluppato mentre tutti gli altri, che vanno e vengono, sono descritti dal suo punto di vista. Il romanzo è breve per gli standard odierni e contiene parecchia azione e colpi di scena che tengono il ritmo alto. La storia ha una sua fine ma lascia una serie di fili narrativi aperti per il successivo romanzo della trilogia della Corrente Nera. Ian Watson non è un autore facile da leggere perché nelle sue storie mescola moltissime idee, anche eterogenee. Non sempre il risultato è di successo ma secondo me “Il libro del fiume” è ben riuscito. Se vi piacciono i romanzi pieni di idee mescolate con grande fantasia, vi consiglio di leggere la trilogia della Corrente Nera.

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I libri da rileggere I l l i b ro d e l l e s t e l l e di Ian Watson

Il libro delle stelle di Ian Watson

Il romanzo “Il libro delle stelle” (“The Book of the Stars”) di Ian Watson è stato pubblicato per la prima volta nel 1984. È il secondo della trilogia della Corrente Nera ed è il seguito de "Il libro del fiume". In Italia è stato pubblicato da Mondadori nel n. 1067 di “Urania” e all’interno del n. 67 di “Millemondi” nella traduzione di Laura Serra.

La guerra tra le due coste continua ma alla fine il tentativo di invasione della costa orientale da parte di quella occidentale fallisce. Yaleen vorrebbe riprendere una vita normale ma la Corrente Nera vorrebbe inviarla su Eeden mentre la pubblicazione de “Il libro del fiume” la sta rendendo sempre più famosa. La giovane cerca il dottore Edrick tra i prigionieri, ritenendo che possa ancora costituire un pericolo, ma non riesce a trovarlo. Alla fine, Yaleen trova il tempo per andare a far visita ai suoi genitori e incontrare Narya, la sua strana sorellina. La sua fama è cresciuta perciò molta gente vuole incontrarla, rendendole difficile mantenere il suo viaggio privato. Anche il dottore Edrick, sopravvissuto alla guerra, scopre dov’è e riesce a ucciderla. Per Yaleen è l’inizio di una nuova avventura in cui dovrà affrontare la Mente-Dio. “Il libro delle stelle” riprende la storia di Yaleen dopo la fine de “Il libro del fiume” ed è ancora narrato in prima persona dalla protagonista. Il secondo romanzo è fondamentalmente la seconda parte di una grande storia perciò va letto dopo il primo, altrimenti al lettore mancheranno troppi dettagli per avere una visione d’insieme esauriente. “Il libro delle stelle” inizia durante la guerra tra le due coste ma questa parte della trama viene conclusa rapidamente

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per passare alla successiva fase della storia di Yaleen. La morte della protagonista non rappresenta la fine, al contrario serve a iniziare la sua avventura su Eeden, dove il suo ka viene trasferito e dove si reincarna. Il mondo di Yaleen aveva elementi più tipici delle storie fantasy che di quelle fantascientifiche. La parte di storia ambientata su Eeden contiene elementi appartenenti ad una fantascienza più “canonica” ma rimane ben lontana dalla fantascienza “hard” di altri autori. Le storie di Ian Watson non sono generalmente inquadrabili in un certo sottogenere perché l’autore ama mescolare elementi eterogenei con grande fantasia e la trilogia della Corrente Nera è un esempio tipico. “Il libro delle stelle” è in parte ambientato ancora sul mondo di Yaleen e anche la parte ambientata su Eeden contiene elementi un po’ fantasy. Ad esempio, la protagonista si reincarna in un cherubino, anche se il termine non va inteso in maniera letterale. D’altra parte, ci sono intelligenze artificiali e Yaleen ha contatti con esseri umani modificati per sopravvivere su pianeti dove le condizioni ambientali sono molto diverse rispetto alla Terra. Anche la struttura della storia de “Il libro delle stelle” è diversa rispetto a quella del primo romanzo. Il fatto che Yaleen viaggi tra diversi mondi è la differenza più evidente ma leggendo il romanzo si può anche notare che la narrazione è meno lineare, un fattore legato alla scelta di Ian Watson di raccontare alcuni eventi in una certa sequenza e ad altri motivi legati a colpi di scena nel corso della storia. Dopo il suo arrivo su Eeden, Yaleen è inizialmente sola e deve faticare per evitare pericoli vecchi e nuovi. La Corrente Nera

l’aveva avvertita che la Mente-Dio aveva piani sinistri sugli esseri umani e nel corso del romanzo ne scopre i vari dettagli. Ne “Il libro del fiume”, Yaleen si era trovata al centro di eventi fondamentali nella storia del suo pianeta, ne “Il libro delle stelle” dal suo successo dipende il destino di tutta l’umanità. Il risultato è un romanzo in cui ancora una volta c’è la grande immaginazione di Ian Watson anche se la storia finisce per essere un po’ caotica. Come già detto, non si tratta di fantascienza “hard” ed è inevitabile che una trama sviluppata su idee basate sul ka degli esseri umani possa sembrare azzardata. Come il primo romanzo, “Il libro delle stelle” ha una sua fine che però lascia vari fili narrativi aperti per il terzo libro della trilogia. È analogo al romanzo precedente anche per il fatto che i personaggi sono visti dal punto di vista di Yaleen, che inevitabilmente è la più sviluppata. Ci sono ancora azione e colpi di scena ma questo romanzo si svolge attraverso parecchi anni, a volte saltando avanti nel tempo, perciò il ritmo è un po’ meno elevato rispetto a “Il libro del fiume”. Secondo me, ne “Il libro delle stelle” Ian Watson è riuscito a mescolare con successo ancor più elementi che nel romanzo precedente. Se vi piacciono queste storie molto fantasiose, vi consiglio di leggere la trilogia della Corrente Nera.

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I libri da Tradurre The Apocalypse Codex di Charles Stross

più o meno apocalittici mentre era al servizio della Lavanderia. Per questo motivo, viene inviato ad un corso di managemente e leadership necessario al tipo di lavoro che dovrà compiere dopo che è stato promosso all’interno dell’organizzazione. Nel suo nuovo incarico, Bob deve investigare su Raymond Schiller. un tele-evangelista troppo interessato al Primo Ministro britannico per la Lavanderia. Deve fare da liaison tra l’organizzazione e Persephone Hazard e Johnny McTavish, due “consulenti” esterni che a volte fanno il lavoro sporco per la Lavanderia. Quando i tre si trovano negli USA isolati da qualunque aiuto, come al solito Bob deve improvvisare per evitare l’apocalisse. Per i precedenti romanzi della serie della Lavanderia, Charles Stross si era ispirato allo stile di vari scrittori. In “The Apocalypse Codex” lo stile è quello di Peter O’Donnell e in particolare la fonte di ispirazione è la sua eroina Modesty Blaise, che costituisce la base per il personaggio di Persephone The Apocalypse Codex Hazard. di Charles Stross Inizialmente, i romanzi della serie erano narrati in prima persona dal punto di vista di Bob Howard. Già “The Fuller Memorandum” conteneva alcune parti narrate in terza persona e in “The Apocalypse Codex” il cambiamento è ancora maggiore. Questi romanzi contengono le memorie del protagonista Il romanzo “The Apocalypse Codex” di Charles ma quest’ultimo lo è solo in parte. Persephone HaStross è stato pubblicato per la prima volta nel zard e Johnny McTavish sono di fatto co-protago2012. Ha vinto il premio Locus per la categoria fantasy. Fa parte della serie della Lavanderia e se- nisti e le parti della storia centrate su di essi sono gue "The Fuller Memorandum". Al momento è ine- narrate in terza persona. dito in Italia. I vari romanzi della Lavanderia raccontano storie Bob Howard è sopravvissuto a una serie di eventi autonome ma fanno comunque parte di un grande

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arco narrativo. Ogni nuova storia contiene riferimenti a quelle precedenti e vengono rivelati nuovi dettagli sulla Lavanderia e su alcuni personaggi come Angleton. Per questo motivo, la scelta migliore è quella di leggere tutta la serie. In “The Apocalypse Codex”, Bob Howard è ormai un veterano della Lavanderia, il che significa che è sopravvissuto a una serie di attacchi magici che a volte includevano creature provenienti da altri universi. La sua competenza nel campo dell’informatica gli è stata utile visto che nell’universo narrativo creato da Charles Stross la magia è un’estensione delle scienze fisiche e matematiche perciò gli incantesimi possono essere scritti come programmi per computer. Per questa visione pseudo-scientifica della magia, ho sempre considerato fantascienza la serie della Lavanderia anche se questo romanzo ha vinto il premio Locus nella categoria fantasy. Proprio come nelle opere di H.P. Lovecraft, in questa serie si possono vedere elementi appartenenti a vari generi perciò la si può considerare un mix. I successi di Bob Howard come agente operativo della Lavanderia non sono passati inosservati e di conseguenza è avviato verso una carriera all’interno dell’organizzazione. Per questo motivo, ne scopre uno dei segreti, in questo caso riguardante il reclutamento. Bob sapeva che chiunque fosse rimasto coinvolto in attività connesse alla magia avrebbe ricevuto dalla Lavanderia la proposta di entrare nell’organizzazione. Si tratta del tipo di proposta a cui non si può rifiutare ma in “The Apocalypse Codex” Bob scopre che ci sono delle eccezioni. Persephone Hazard e Johnny McTavish sono “risorse esterne”, cioè sono due persone attive nel mondo della magia ma non fanno parte della Lavanderia. Ciò permette loro di compiere operazioni non ufficiali e all’organizzazione di poter negare ogni connessione con esse, soprattutto se ci sono conseguenze negative.

Bob Howard viene incaricato di fare da liaison tra la Lavanderia e questi due “consulenti” nell’indagine su un tele-evangelista le cui attività sembrano legate alla magia. Neanche a dirlo, qualcosa va molto male e la conseguenza è che i tre finiscono per rimanere isolati negli USA e possono usare solo le loro abilità per salvare se stessi ed evitare un’apocalisse. In “The Apocalypse Codex” i toni sono piuttosto cupi, come già nel precedente romanzo. Ci sono ancora momenti divertenti con i tipici riferimenti geek di questa serie. Chi lavora nel campo dell’informatica non potrà che ammirare l’idea di Bob Howard di usare un parassita alieno per tentare un attacco man-in-the-middle. Secondo me, in “The Apocalypse Codex” Charles Stross ha trovato un eccellente equilibrio tra i momenti drammatici e quelli divertenti. Nei romanzi precedenti tendevano a esserci più momenti geek che drammatici e questo poteva renderne la lettura a volte difficile. Anche da questo punto di vista, la qualità delle storie è migliorata rendendo la lettura più fluida, anche grazie ad un ritmo più elevato, e accessibile anche a chi non è un sistemista mantenendo comunque alcuni elementi geek. “The Apocalypse Codex” contiene anche nuove informazioni non solo sulla Lavanderia ma anche sul suo equivalente americano. La storia è ambientata in buona parte negli USA e ciò dà a Charles Stross l’opportunità di esplorare maggiormente anche i rapporti tra le due agenzie. Il fatto che la minaccia sia incentrata su una chiesa che professa una variante del cristianesimo permette all’autore di fare anche altre considerazioni sulla religione, in genere non esattamente positive. Non dite che non siete stati avvertiti! Personalmente, trovo che la serie della Lavanderia migliori ad ogni nuovo romanzo. La qualità mi era parsa già elevata in passato, “The Apocalypse Codex” è secondo me davvero eccellente e non può assolutamente mancare nella collezione di chi ha già letto i romanzi precedenti.

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I libri da Tradurre Absolution Gap di Alastair Reynolds

nere la promessa di procurarle qualche affare che l’avrebbe arricchita. Lei gli dà un’ultima possibilità inviandolo a cercare fortuna nel sistema della stella 107 Piscium ma, per stimolarlo, chiude la sua amante Morwenna in una sorta di sarcofago di privazione sensoriale. Sul Hera, una luna di un pianeta gigante nel sistema che ha chiamato Haldora, Quaiche trova un manufatto alieno e momentaneamente il pianeta sparisce. 2675. Dopo 23 anni trascorsi sul pianeta chiamato Ararat, Nevil Clavain e il suo gruppo, che include la popolazione salvata dalla distruzione del pianeta Resurgam, vengono raggiunti da una capsula che contiene Ana Khouri. Molte cose sono successe in quegli anni e gli Inibitori stanno arrivando ma non sono l’unico pericolo. 2727. Rashmika Els è una ragazza che vuole ritrovare suo fratello, che qualche anno prima si era unito a una delle cattedrali che si muoAbsolution Gap vono in continuazione per tenere sempre di Alastair Reynolds d’occhio Haldora e osservarne le periodiche sparizioni. La sua ricerca la porterà a contatto con Quaiche, che molti anni prima aveva iniziato una vera e propria religione con al centro il pianeta. Il romanzo “Absolution Gap” di Alastair Gap” è l’ultimo libro della triloReynolds è stato pubblicato per la prima volta “Absolution gia degli Inibitori e va letto dopo i due precenel 2003. Fa parte della serie della Rivelazio- denti per apprezzare lo sviluppo dei persone ed è il seguito di "Redemption Ark". Al naggi già presenti in uno o due di essi e gli momento è inedito in Italia. sviluppi della storia, che è davvero complesCerto, ci sono parecchi riferimenti ai ro2615. Quaiche si è messo nei guai con la re- sa. manzi ma servono a permettere ai gina Jasmina perché non è riuscito a mante- lettori diprecedenti rinfrescare la memoria ma non pos-

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sono certo sostituire la lettura di oltre 1.000 pagine. La struttura di “Absolution Gap” è quella ormai familiare a chi ha letto i precedenti romanzi della serie della Rivelazione con storie inizialmente separate e tanti personaggi che a volte non sono ciò che sembrano. Il romanzo è inizialmente suddiviso in tre sottotrame ambientate in anni diversi anche se le due che riguardano gli eventi su Hela costituiscono l’inizio e la fine dell’opera religiosa di Quaiche. La sottotrama che inizia sul pianeta Ararat riguarda direttamente la guerra contro gli Inibitori fin dall’inizio. Oltre vent’anni dopo che l’astronave “Nostalgia dell’Infinito” vi ha trasportato i sopravvissuti del pianeta Resurgam, gli Inibitori si stanno avvicinando al pianeta. Prima di loro, vi arrivano Ana Khouri e Skade, sconvolgendo la vita su Ararat, che a quel punto andava avanti con una parvenza di normalità. Più che nei romanzi precedenti, in “Absolution Gap” ci sono colpi di scena fin dall’inizio. Per i personaggi già presenti in precedenza nella trilogia, c’è una conclusione del loro viaggio, soprattutto in senso figurativo. Gli eventi dei decenni precedenti li hanno cambiati, anche chi ha già vissuto per secoli. Per alcuni di questi personaggi, la fine del viaggio è costituita dalla loro morte perché Alastair Reynolds non ha problemi nell’uccidere anche qualche protagonista. Per altri, si tratta invece di trovare se stessi e realizzare il proprio potenziale, prendendo le decisioni necessarie anche se difficili. Le sottotrame ambientate su Hela raccontano la storia di Quaiche e della religione che crea dopo aver visto il pianeta Haldora sparire per un istante. Questa fede religiosa è rinforzata da un virus di indottrinamento e lo stesso Quaiche ha bisogno di “infettarsi” con nuove varianti nel corso del tempo perché continua a sviluppare una resistenza ad esso. La storia di Quaiche, dei suoi conflitti interiori, del

mistero del suo piano finale, può sembrare completamente staccata dalla storia degli Inibitori ma nel corso del romanzo le due storie finiscono per incrociarsi. Alastair Reynolds descrive con una gran quantità di particolari questa strana religione i cui fedeli hanno costruito cattedrali che si muovono in continuazione su Hela per tenere sempre d’occhio Haldora allo scopo di osservarne le sparizioni, considerate miracoli. Le tante descrizioni, non solo riguardanti Hela e i suoi abitanti, a volte rallentano il ritmo della narrazione. Alastair Reynolds è un importante scrittore di fantascienza “hard” e ha un passato come scienziato perciò può essere apprezzato soprattutto dai lettori che amano storie che non sono solo semplice avventura. I romanzi della serie della Rivelazione non sono del tipo che si legge rapidamente o facilmente. Essi hanno bisogno di un certo tempo per godersi tutti i particolari e le descrizioni tecnico-scientifiche. Sono letture complesse ma alla fine le ho trovate appaganti. Il vero difetto di “Absolution Gap” è nel finale affrettato, in parte raccontato da un personaggio alcuni secoli nel futuro, in parte una sorta di cliffhanger per possibili altri romanzi. Se alla fine di una storia volete conoscere tutti i dettagli rimasti oscuri e la soluzione di tutti i misteri, onestamente rimarrete delusi. Oggettivamente, Alastair Reynolds avrebbe potuto fornire qualche dettaglio in più, proprio considerando la quantità di dettagli inserita nella serie della Rivelazione. Tuttavia, almeno in alcuni casi sarebbe stato impossibile fare in modo che i protagonisti scoprissero tutto su eventi che hanno interessato molti sistemi stellari. Alla fine, secondo me “Absolution Gap” rimane il degno finale di una delle migliori serie di space opera di quest’inizio di terzo millennio perciò non può mancare nella collezione di tutti gli appassionati di questo sottogenere e di fantascienza “hard”.

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IL venditore dI pensieri usati LA Macchina d e l t e mp o di H.G. Wells

Cari lettori, ho finalmente letto questo piacevolissimo racconto di uno dei padri della fantascienza moderna. La Macchina del tempo è un racconto di poco più di centotrenta pagine, si legge in un soffio ed è una storia accattivante. Si parte dal presupposto che le dimensioni non siano tre ma quattro, e che la quarta sia il tempo. Per noi è una cosa ovvia, ma all’epoca di Wells era una genialata, per così dire. Comunque, il racconto si apre spiegandoci la geometria con questo nuovo punto di vista. Per farla breve ci dice che un cubo, per esistere, deve avere non solo un’altezza, una base e una larghezza, ma deve anche durare nel tempo, ed ecco che inizia a spiegarci come possiamo muoverci agevolmente lungo la lunghezza e la larghezza, come per muoverci in altezza siano stati inventati i palloni aerostatici e dell’ovvia conseguenza di tutto ciò: con il mezzo adatto, ci si potrebbe muovere avanti e indietro nel tempo. Ci fa vedere a questo punto un modellino che, dopo aver mosso una leva, scompare per sempre. Ci viene suggerito che stia viaggiando nel tempo, e che il processo sia irreversibile, ma ci viene detto pure che “il

viaggiatore del tempo” (così Wells chiama il protagonista) ha una vera macchina del tempo e che a breve farà egli stesso un esperimento, a suo rischio. Ebbene, una sera raduna dei conoscenti per cena, lui arriva stanco e bianco di polvere, affamato e pallido; saluta i commensali, si fa una doccia e inizia a descrivere il futuro. Prima ci racconta del viaggio nel tempo, di come abbia visto accelerare il corso del

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tempo sempre di più fino a vedere la notte fondersi col giorno e i millenni scorrere come fossero secondi, mentre era ai comandi della sua invenzione. E del futuro ci dice che i primi esseri umani incontrati non parlano la sua lingua, mangiano solo frutta, e che gli animali sono scomparsi. Va poi avanti parlandoci del livello di benessere raggiunto nell’anno 802.701, ovvero l’anno in cui si trova, paventando teorie e smontandole subito dopo. Infine ci parla anche del misterioso e terribile popolo che scopre abitare nel sottosuolo. Diciamo che la macchina del tempo gli verrà soffiata da sotto il naso e lui scopre i Morlocchi mentre tenta di ritrovarla, certo del fatto, dopo alcune indagini, che siano stati loro a portargliela via. I Morlocchi, dicevo, sono appunto quegli esseri che abitano sottoterra, e gli Eloi (gli esseri di superficie) hanno di loro una paura folle. Il perché non ci verrà rivelato, ma sarà facile supporre che i Morlocchi si cibino di Eloi. Alla fine il viaggiatore tornerà nel suo tempo e ci narrerà la storia di cui sopra. Il giorno successivo al suo ritorno lo vedremo armato di zaino e macchina fotografica dirigersi nuovamente verso la macchina del tempo e… ecco, lascio a voi scoprire cosa accadrà alla fine.

Questo è tutto, per quanto riguarda la storia. Per ciò che concerne il contenuto, invece, potremmo soffermarci in molti grandi temi, fra cui Comunismo e Capitalismo e la sconfitta morale di entrambi i modelli, ma ciò che vuole farci notare Wells è, secondo me, il fatto che una volta raggiunto un certo livello di benessere l’umanità non possa avere altro che un declino, una decadenza, e tornare nuovamente a uno stadio primitivo, incuranti della cultura, dell’arte e di mille altre cose. Wells ci dice che l’umanità tenderà a sopravvivere a se stessa, nulla di più. Ciò si evince nel momento in cui metteremo piede nel museo. Come, quale museo? Quello di cui non vi ho parlato, mi pare ovvio: ormai dovreste saperlo che le cose più belle restano mezzo celate fra le righe, in modo che possiate scoprirle e ammirarle coi vostri occhi! Bene, non mi soffermo oltre su questo libretto di poche pagine ma di molti contenuti, un racconto precursore del genere fantascientifico e, a quanto ho potuto capire, pure del genere Steampunk, uno dei primi tentativi in tal senso. Un libro immancabile nelle librerie di chiunque apprezzi questo genere, e sicuramente una bella avventura godibile sia che siate adulti o adolescenti. O entrambe le cose. A presto, cari lettori!

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IL Libro sullo Scaffale T e rra l u n a di Daniele Picciuti

“Da quando ho lasciato Terraluna, la vita mi è scivolata di dosso come un abito di una misura più grande, lasciandomi nudo, alla mercé del freddo che i ricordi m’insinuano dentro, giorno dopo giorno.” Dalla prefazione di Francesco Troccoli In un futuro ipotetico, la luna è colonizzata e la Terra, devastata da guerre e inquinamento, è abbandonata a se stessa. La vicenda si svolge a Terraluna, unica grande città costruita sulla superficie lunare. Qui si concentra uno strano miscuglio di tecnologie di epoche diverse, grottesco risultato dell’ultima grande Guerra Tecnologica, che ha reso Terraluna simile a un incrocio tra una Londra Vittoriana e una Tokyo in stile Cyberpunk. In questa atmosfera surreale si muovono i personaggi principali: Valery Horn, attivista dei diritti alieni, Fumiaki Hino, ispettore di polizia per metà umano e per metà macchina, Marco D’Amore, mercenario senza scrupoli e Sylvie Balfour, detective delle assicurazioni incaricata di scoprire la verità su una morte sospetta. Tutto inizia con questa morte violenta, che mette Fumiaki sulle tracce di un essere che tutto sembra fuorché umano. Le sue indagini e quelle di Sylvie si intrecciano, riaccendendo ricordi e tensioni mai sepolte e portando allo scoperto trame nascoste che coinvolgono tanto il centro di ricerca per cui lavora Valery, tanto i traffici illeciti di Marco.

Tra inseguimenti, ricerche e tradimenti, i quattro trovano segreti non svelati che affiorano quando il dokiano Taor N’ilah si unisce a loro in quella che finisce per essere una caccia al mostro. Interessata alla vicenda è anche la Nuova Etnia, una setta di fanatici disposta a tutto pur di mettere le mani su alcuni campioni alieni di inestimabile potere. Il libro è un thriller techno-fantasy a metà fra il noir e l’hard boiled, sviluppato secondo una struttura a mosaico. Ogni capitolo, infatti, è un pezzo della storia visto con gli occhi di un personaggio diverso, che si alterna ciclicamente, formando un puzzle i cui tasselli vanno man mano a posto.

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Trovatevi una comoda poltrona, possibilmente al buio, e voltate pagina sotto una luce soffusa, ma che abbia contorni netti. Questo romanzo è un romanzo di fantascienza, e il suo scopo è quello di divertirvi. Seriamente.

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IL Film al Cinema Godzilla di Gareth Edwards

La prima cosa che si individua fin da subito è che il film di Gareth Edwards non ha niente a che vedere con il Godzilla del 1 998 di Roland Emmerich. Il nuovo Godzilla, con un muso più schiacciato e un corpo più goffo di quello creato da Emmerich, si rifà alla versione del 1 954 ampliandola con nuovi personaggi e con una storia che, nonostante sia fedele al principio, si dirama in maniera davvero inaspettata. Dunque procediamo per livelli: nella prima parte c’è la spiegazione di come Godzilla abbia preso vita intrecciando questa vicenda con quella di una famiglia americana il cui capo famiglia (Bryan Cranston) stava studiando “ un qualcosa di non ben identificato” che riguardava un anomalia nei terremoti in Giappone. In questa parte la suspense è altissima in quanto ci troviamo già dentro a un contesto in cui sono presenti disastri ma non si sa bene chi o cosa li abbia provocati , e in cui è presente il tentativo di Joe (Bryan Cranston) di indagare su questo “fenomeno” nella sua ex città, entrata in completa quarantena. Attraverso una serie di vicende, che non è possibile raccontare causa Spoiler, ci troviamo di fronte a un film che inizia a perdere la fiducia dello spettatore man mano che compaiono nuovi “protagonisti” nella scena, lasciando, così, che l’attenzione si sposti, in maniera un po’ erronea , da Godzilla. Molto belli sono gli effetti speciali e soprattutto la fotografia, sulla quale il regista sembra puntare molto. L’immagine panoramica di San Francisco che brucia è davvero un misto di eccitazione e paura: un vero e proprio scenario apocalittico. Il film esce troppe volte dal suo schema esagerando in maniera brutale e trasformando il film in un videogioco,

in cui l’essere umano è solamente uno spettatore impaurito che guarda terrorizzato ciò che le sta succedendo attorno a lui. A questo punto si spera in un finale non banale, qualcosa che possa ritirare in ballo le sorti del filmD Niente! Tutto cade nell’esagerazione e nella banalità, lasciandoci con un finale visto, rivisto e scontato. Il film si distanzia molto dal suo omonimo del 1 998 e sembra puntare più sul genere di Cloverfield. Il Perché? Buona Visione

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Concorsi

Prende il via il 01 Maggio 2014 la prima edizione di questo concorso nato dall’idea di Diego Di Dio per dare vita a un progetto editoriale di grande valore. Lo spunto nasce dal personaggio prontagonista delle opere di Thomas Harris, incredibili thriller che hanno fatto la storia della narrativa di genere e sono poi divenute splendide pellicole cinematografiche. Rendiamo onore quindi al personaggio creato dallo scrittore americano intitolandogli un premio letterario per il quale metteremo tutto il nostro impegno e che vogliamo possa essere in futuro un punto di riferimento per nuovi scrittori di thriller. Non si tratta di un concorso FanFiction ma di un premio con tema il genere Thriller. Regolamento 1. Il premio è aperto a tutti i cittadini italiani e stranieri di età superiore ai 18 anni; 2. Ogni partecipante può concorrere con quante opere desidera; 3. Ogni racconto deve essere scritto in lingua italiana e avere una lunghezza minima di 10.000 caratteri (spazi inclusi) e massima di 20.000 caratteri (spazi inclusi). I racconti che non rispettino questi limiti saranno automaticamente esclusi; 4. In ossequio al nome del personaggio che dà il titolo al concorso, i racconti dovranno essere di genere thriller, comprensivo dei vari generi e sottogeneri (quali il giallo, il noir, il medical thriller, lo psycothriller, ecc). Non sono ammessi, invece, racconti di genere differente, come fantascienza, fantasy, paranormal romance e, in generale, racconti che includano elementi fantastici o sovrannaturali. Non si tratta assolutamente di un concorso FanFiction; 5. L’iscrizione ha un costo pari a 10,00 € per il primo racconto e 5,00 € per i racconti aggiuntivi. 6. Ogni racconto dovrà essere rigorosamente inedito (mai pubblicato né su carta né on-line) e i diritti relativi all’opera dovranno appartenere esclusivamente all’autore; MODALITÀ DI INVIO: 1. I racconti dovranno essere inviati in formato doc, rtf o pdf. Non sono ammessi altri formati. Dovranno essere spediti, via e-mail, all’indirizzo: premiohl@watsonedizioni.it. Nell’oggetto della email dovrà essere indicato il nome dell’autore e “Premio Hannibal Lecter”, il nome del file deve essere solo e esclusivamente il titolo del racconto. In capo a ogni racconto dovranno essere inseriti tutti i dati relativi all’autore: nome, cognome, indirizzo email, recapito telefonico. Inoltre, sarà necessaria una dichiarazione in cui si attesti che il lavoro è inedito; la partecipazione al Concorso implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (legge 675/1996 e D.L. 196/2003). Il mancato rispetto

delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso. 2. Partecipando al concorso e sottoscrivendo il presente regolamento, i vincitori concedono, alla Watson edizioni, i diritti d’autore necessari per la stampa e la divulgazione dell’opera a titolo gratuito e senza null’altro pretendere dall’editore. Il partecipante accetta inoltre che l’organizzatore del concorso, o suo avente causa, pubblichi anche il proprio nome e cognome, età e città di provenienza a fini promozionali. 3. Le quote possono essere versate tramite Paypal accreditando l’importo sulla mail premiohl@watsonedizioni.it oppure utilizzando il seguente numero Postepay 4023600656193630 intestato a Diego Di Dio, codice fiscale: DDIDGI85H07E329R. Qualora vogliate utilizzare altri metodi, potete inviare una richiesta a premiohl@watsonedizioni.it. 4. Il concorso non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy o di qualunque altro atto non conforme alla legge compiuto dall’autore nonché di eventuali danneggiamenti, furti o ritardi postali. PREMI: 1. Saranno premiati tre racconti ritenuti i migliori tra quelli pervenuti, secondo quanto segue: al primo classificato andrà un premio in denaro di 200,00 euro e una copia omaggio dell’antologia del premio; al secondo e al terzo classificato andrà una copia omaggio dell’antologia del premio. ANTOLOGIA DEL PREMIO: 1. I migliori racconti saranno inseriti nell’antologia “I racconti di Hannibal Lecter”. Nessun partecipante ha l’obbligo di acquisto copie; 2. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria sarà composta da tutti i membri della casa editrice. 3. È possibile partecipare entro il 01 Agosto 2014. L’organizzazione si riserva la possibilità di posticipare la data di chiusura. 4. I risultati del concorso saranno pubblicati nel mese di dicembre sul sito web della casa editrice (www.watsonedizioni.it), sulla pagina Facebook dedicata al concorso e attraverso i recapiti personali ricevuti in fase di iscrizione. 5. La giuria si riserva di non decretare un vincitore se non riterrà validi i lavori pervenuti. 6. L’antologia prenderà vita sia in formato cartaceo che digitale e sarà regolarmente distribuita nei circuiti librari di diffusione. 7. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione tramite email: premiohl@watsonedizioni.it indicando nell’oggetto “info concorso”.

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VALE PIU' di mille parole Bambina

Noemi Pietrandrea, è una pittrice, grafica e illustratrice italiana. Nata a Cassino nel 1987, predilige sin da bambina le arti grafiche. Matura i suoi studi artistici presso l’Istituto d’arte e l’Accademia di belle Arti di Frosinone, in cui conseguirà la laurea col massimo dei voti nell’indirizzo di Media Art. Terminati i suoi studi, inizia a collaborare con lo Studio Paralisi (studio grafico specializzato in fumetti, illustrazioni e grafiche pubblicitarie), tramite il quale lavorerà, tra le altre cose, come colorista per il progetto a fumetti “Tataga- The Amazing Great Adventures” per cui ha inoltre realizzato il video trailer d’animazione, come impaginatrice e curatrice della sezione grafica di una rivista mensile provinciale (di prossima uscita). Si dedica al web design ed alle animazioni. Il suo stile creativo si caratterizza nell’uso del digitale in tutte le sue forme, dall’illustrazione web all’editoriale, dalla grafica all’animazione 2d. È interessata all’illustrazione editoriale tradizionale, in particolare a quella per l’infanzia, che sfocia di conseguenza nei libri digitali, e-book e app per bambini ed adulti. Questo suo interesse, coadiuvato dalla sua formazione accademica, l’ha condotta a realizzare, sia graficamente che a livello pro-

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gettuale, e-book digitali, i quali hanno trovato un primo significativo riconoscimento nel contest intitolato “Create the book ofthe future” (stanziato dalla De Agostini, PubCoder insieme alla Children’s Book Fair di Bologna) che l’ha vista finalista nel 2014. Attualmente si occupa della postproduzione e dell’interazione tra animazioni grafiche e video per una web series la cui uscita è prevista per settembre. I suoi lavori possono essere visualizzati presso il suo blog: http://pietrandreanoemi.wordpress.com Per contattarla basta raggiungerla all’indirizzo e-mail pietrandrea.noemi@gmail.com

B e v i t r i c e d i v i ta

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Il Lato Oscuro

una coltre di nubi minaccio- mentre attendevano che il mostro L ' e s c a sotto se che si addensavano riaffiorasse, Flask gridò a

«Soffre molto?», chiese Achab. Il capitano era sceso sottocoperta saltellando sui gradini con la gamba buona. Ismaele era nella sua amaca, privo di conoscenza da due giorni, che sudava e si lamentava. Starbuck, il primo ufficiale, si stupì della domanda. Achab non si era mai preoccupato per un semplice ramponiere prima di allora. «Non è cosciente. Gli rimangono poche ore di vita», rispose sconsolato. «Ho fatto bene a farlo isolare quando le prime piaghe sono comparse». La prudenza di Starbuck era ormai proverbiale tra i membri dell'equipaggio. «Si è capito di che si tratta?» Stubb, il secondo ufficiale, un uomo che nessuno aveva mai visto preoccupato in vita sua, si tolse l'inseparabile pipa dalla bocca e rispose: «Ho visto piaghe come quelle a Manila. Peste! Non può scamparla». «Bene, tenetemi informato», ordinò Achab. Poi urlò ai marinai sopracoperta che gli gettassero una cima, appoggiò al cappio il piede sano e si fece issare attraverso la botola. *** Avvenne quello stesso pomeriggio. Deggu, il gigantesco negro, era di vedetta. I marinai sul ponte lo udirono gridare dalla coffa: «Soffia a babordo!» Tutti corsero al parapetto. Come un oscuro presagio di morte,

all'orizzonte, gli uomini videro uno sbuffo di vapore bianco. Il timoniere puntò verso quel punto lontano e, mano a mano che si avvicinava, fu sempre più evidente: era una balena bianca. «Moby Dick!» sentenziò Achab. «Vele al vento!» urlò. Subito i marinai corsero ai posti di manovra. L'inseguimento durò fino a sera. Il mare si ingrossava e caddero i primi fulmini sulla superficie del mare. Quando furono abbastanza vicini, fu chiaro che quel mostro, bianco come un cadavere in putrefazione, irto di ramponi, che sbuffava vapore fetido, era davvero fuggito dalle formaci infernali. S'inabissava e tornava a sfidarli. La bestia non era spaventata: aspettava i suoi inseguitori. Achab, fuori di sé, ordinò di preparare le lance e scese con alcuni uomini sottocoperta. Sulla prima lancia saltarono Starbuck, Tashtego il tamponiere, e i marinai addetti alla voga. Cominciarono a remare tra i flutti che sommergevano la barca, con l'indiano pronto a scagliare il suo rampone. Videro uno sbuffo a dritta e là puntarono. La bestia si trovava ad alcune decine di metri ormai quando s'immerse improvvisamente. In quell'istante Starbuck si accorse che Achab con la seconda lancia li aveva raggiunti. A bordo c'erano Flask, il terzo ufficiale, e il tatuato Quiqueg posizionato sulla prua e armato di rampone. A pochi metri di distanza,

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Starbuck: «Una pazzia! E' una pazzia!» Il fragore della burrasca aveva coperto in parte quelle parole e l'ufficiale in seconda non capì a cosa si riferisse, finché non vide Ismaele a bordo dell'altra scialuppa, steso tra le panche dei rematori. "Achab deve essere impazzito", pensò. "Vuole annegare quel disgraziato prima che muoia di peste?" Non fece in tempo a chiedere spiegazioni, che il mostro riemerse tra le due lance. I ramponieri scagliarono i loro arpioni che si conficcarono nella carni putride di Moby Dick, già irte di ferri appuntiti. Non servì a nulla: la scialuppa di Starbuck fu travolta e gli occupanti caddero in mare. Achab impazzito, ordinò di inseguire la balena, mentre Quiqueg era pronto con l'ascia a tagliare la fune che li legava alla bestia. Non fu necessario. Moby Dick puntò verso di loro decisa. Quando fu a poche decine di metri, i marinai alla voga decisero di affrontare la burrasca, gettandosi in mare, subito seguiti da Flask. Achab, invasato dal furore, agitava le braccia e urlava: «Vieni mostro dell'Inferno. Vieni! Ho per te un boccone prelibato, ancor più della mia gamba. Vieni...» Fu un attimo. La mandibola diella bestia calò sulla scialuppa spezzandola e Moby Dick s'immerse sparendo tra i flutti. Nessuno la rivide mai più.


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AMAZING MAGAZINE

S k a n n a t o i o e d i z i o n e XXI X S c a v a r e , sc a v a r e , sc a v a r e . . . Dopo aver messo alla prova gli autori con la creazione di un incipit, nella XXIX edizione dello Skannatoio si affronta il passo successivo. Ecco cosa s'è inventato il Master.

LE SPECIFICHE Lunghezza totale. Minima: 5.000 caratteri. Massima: 30.000. Genere: horror, giallo, fantastico e relativi sottogeneri. Particolarità: a) I racconti in gara dovranno cominciare tutti dal seguente incipit:

Non è il dolore, non è neppure la consapevolezza che qualcuno stia scavando dentro di te. Piuttosto è la vibrazione. Si propaga nelle ossa, annichilendoti l’anima. Come un terremoto, prende le mensole mai pulite del tuo essere e le scuote, riversando tutto a terra. Ricordi che tornano a galla e vanno in pezzi nel giro di pochi istanti. Solo le impronte dei soprammobili nella polvere a comporre il filo sottile che ancora ti unisce a ciò che eri stato fino a pochi istanti prima. Tuttavia, in tutta sincerità, chi ha il tempo di guardare a quei segni scuri mentre una punta d’acciaio ti sta aprendo un buco nel corpo?

I caratteri di cui è composto l'incipit NON rientrano nel conteggio di caratteri totali del brano. L'incipit in questione dovrà essere parte integrante della storia, quindi niente escamotage del tipo che è un paragrafo di un libro che sta leggendo il protagonista e poi il racconto volge su tutt'altre tematiche (e nemmeno altre cose simili). Vi esorto a interpretare l'incipit con la maggiore creatività possibile. La punta di metallo può essere, come da indizi, un trapano che vi apre un buco in testa, una lancia che vi perfora il costato, un punte-

ruolo per lobotomie, il trapano di un dentista o qualsiasi altra cosa che vi garbi. Il taglio interpretativo rimane molto libero. In fin dei conti una punta che vi apre un buco nel corpo può essere qualsiasi cosa, e dare origine a qualsiasi tipo di racconto, il personaggio che parla non è nemmeno obbligatorio che muoia. LE COCCARDE Questo mese saranno assegnate 2 coccarde: 1) La coccarda "Ma che diavolo...?" al miglior "ribaltamento" di prospettiva/punto di vista/eccetera del racconto. Se volete un consiglio, fate sì che tutto sembri una cosa e poi ribaltate la prospettiva rivelando una verità che renderà il tutto diverso. Oppure trovate modi più interessanti di arrivare allo stesso risultato, non vi tarpo le ali! Valore: 2 punti 2) La coccarda "al miglior rapimento". Per ambire a questa coccarda, il vostro racconto dovrà contenere un rapimento e questo rapimento dovrà essere memorabile (a insindacabile giudizio del giurato che dovrà assegnare questa coccarda). Valore: 3 punti. Siete pronti per cominciare a scavare, scavare, scavare? Allora forza!

N.d.R. I racconti pubblicati sono in versione da gara, senza revisioni. Come ultima storia, pubblichiamo il terzo classificato dello SPECIALE#1 febbraio-marzo 2014. Gli autori, organizzati in squadre, dovevano seguire particolari specifiche "a puntate" e personalizzate. Data la lunghezza del racconto, la storia sarà pubblicata in tre puntate, la prima delle quali vede all'opera Rame01.

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S ka n Tè zuccherato

Non è il dolore, non è neppure la consapevolezza che qualcuno stia scavando dentro di te. Piuttosto è la vibrazione. Si propaga nelle ossa, annichilendoti l’anima. Come un terremoto, prende le mensole mai pulite del tuo essere e le scuote, riversando tutto a terra. Ricordi che tornano a galla e vanno in pezzi nel giro di pochi istanti. Solo le impronte dei soprammobili nella polvere a comporre il filo sottile che ancora ti unisce a ciò che eri stato fino a pochi istanti prima. Tuttavia, in tutta sincerità, chi ha il tempo di guardare a quei segni scuri mentre una punta d’acciaio ti sta aprendo un buco nel corpo? «Ma cosa sta facendo?!» sento dire a una voce allarmata che proviene dalla mia sinistra, una bella voce da baritono. La vibrazione cessa di colpo e i soprammobili tornano lenti al loro posto, ricordandomi chi sono. Sarebbe un bel sollievo, se non mi trovassi immobilizzato in quella scomoda posizione: sdraiato sul gelido marmo. «Allora! Cosa sta facendo?» chiede di nuovo il baritono, ancor più adirato. «Sto... sto perforando...», risponde imbarazzato qualcuno alla mia destra. Ripresa fiducia, completa la frase: «Sto

perforando il cranio, professore». Con gli occhi chiusi, non li posso vedere, ma immagino il loro aspetto: il baritono deve essere un primario di medicina legale, con un camice immacolato, calvo e con una folta barba grigia ben curata. L'altro, di certo più giovane, dall'interessante voce tenorile, dev'essere uno studente di medicina alle prime armi. Lo deduco anche dal modo maldestro col quale ha manovrato il trapano a mano. «Lei sta commettendo due errori», replica il professore. «Mi descriva la procedura che sta seguendo». Lo studente riflette qualche istante e poi ripete in modo meccanico: «Si incide un lembo a ferro di cavallo delle parti molli. Scoperto l'osso, si praticano con un perforatore e una fresa tanti fori quanti sono necessari. Si congiungono, sezionando il tratto tra essi, con una sega di Gigli...» «E come evita di danneggiare la dura madre?» Altra pausa di riflessione. «Introduco la sega mediante una speciale guida che allontana e protegge la dura madre». Il ragazzo è preparato. Io stesso non avrei saputo essere più preciso: gli manca solo un po' di pratica sul campo. Peccato che la stia facendo su di me. «Ottima risposta», dice il baritono, «se lei stesse operando il paziente per rimuovere un tumore cerebrale».

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«Grazie, professore». «Grazie un corno! Lei sta effettuando un'autopsia! Per rimuovere la scatola cranica usi una fresa di Sudeck e non perda tempo col trapano». «Certo, professore», si affretta a rispondere il tenore. Lo sento armeggiare a destra con strumenti metallici. «Non mi chiede qual è il secondo errore?» domanda il baritono. «Oh, sì, mi scusi. Qual è?» «Deve iniziare a esaminare gli organi interni, a partire dallo stomaco, ecco qual è! Lasci perdere la testa e incida torace e addome, poi usi un divaricatore per aprire la gabbia toracica!» Sento una fresa cadere su un ripiano metallico e altro rumore di ferraglia. Spero che lo studente si stia armando di un bisturi affilato per eseguire l'ordine, altrimenti l'operazione mi risulterà ancor più sgradevole della trapanazione del cranio. Ho sempre avuto l'intenzione di donare il mio corpo alla scienza, qualora non mi fosse più servito. In tutta sincerità, ci sto ripensando, anche se ormai è un po' tardi. Ventisei ore prima Era una fredda mattina di fine marzo. Fuori dalla finestra, potevo vedere pesanti nuvole muoversi lente al soffio di una leggera brezza. Anche oggi avrebbe piovuto. Qui a Londra, era un'ordinaria giornata d'inizio primavera.


Quando i rintocchi della pendola segnarono le otto, stavo leggendo il ”Times”, che uno strillone aveva consegnato all'ingresso poco prima, e sorseggiavo un tè, mentre il mio coinquilino stava ancora dormendo. La sera precedente doveva aver fatto molto tardi, perché l'avevo sentito rincasare nel dormiveglia e io stesso mi ero ritirato dopo la mezzanotte. Un articolo del giornale parlava della partenza del Principe di Galles per l'India, in visita di rappresentanza. Il piroscafo sarebbe salpato il giorno dopo, nel primo pomeriggio: avrebbe fatto scalo a Lisbona per poi attraversare lo stretto di Gibilterra e fare rotta per Suez. A un tratto, udii suonare il campanello all'ingresso. Non mi mossi e ripresi la lettura in tutta tranquillità, perché di certo avrebbe aperto la signora Hudson, ormai divenuta abile a distinguere tra scocciatori e ospiti desiderati. Chi si era presentato a quell'ora così insolita doveva essere stato molto convincente, perché un minuto dopo sentii dei passi salire le scale e un tocco discreto bussare alla porta. «Avanti, è aperto», dissi piegando il giornale, curioso di sapere chi fosse. La porta si aprì ed entrò la signora Hudson, accompagnata da una gradevole fanciulla dall'incarnato colorito, forse causato da una corsa, che indossava un vestito nei toni del verde, abbellito da un grazioso cappellino e un'elegante borsetta. Nonostante la fretta

che doveva avere, non aveva trascurato di curare il proprio aspetto. L'ampia gonna frusciò strusciando contro lo stipite della porta. «Dottor Watson, mi scusi», disse la Hudson, «la signorina Miller chiede del signor Holmes». Mi alzai subito, presi la mano guantata della ragazza e accennai un baciamano. «Sono il dottor John Watson», mi presentai, «amico del signor Holmes. Purtroppo siete arrivata troppo presto...» «Non è mai troppo presto per iniziare bene la giornata!» disse una voce alle mie spalle. Attraverso la porta che conduceva alle camere da letto, era apparso Sherlock Holmes, spettinato, con gli occhi cerchiati e la barba di due giorni. Era in giacca da camera e pantofole. In tutta sincerità, rimasi stupito perché, per una volta, indossava anche i pantaloni del pigiama. La signora Hudson si congedò, dopo aver lanciato un'occhiata di riprovazione per la tenuta di Holmes, e la signorina Miller fu fatta accomodare su una poltrona accanto al caminetto. «Desidera un tè?» le chiesi. «Grazie, no. Ho solo bisogno di parlare col signor Homes. È una questione importante che dev'essere affrontata con urgenza». «Io invece lo desidero», mi disse Sherlock, mentre si sedeva sull'altra poltrona. Prese la pipa appoggiata sul tavolino e cominciò a stiparla di tabacco, quindi sollecitò la signorina a

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raccontare quanto le stava a cuore: «Mi dica tutto». Lei esordì dicendo: «Dunque, mio...» «Le dispiace se fumo?» domandò Holmes. «No, si figuri», rispose lei un po' contrariata per essere stata interrotta. Io intanto avevo servito il tè e dissi: «Se è una questione personale, mi ritiro...» Sherlock mi indicò una sedia, quindi continuò: «Non si tratta di una visita di cortesia, la signorina è qui perché è preoccupata per suo padre, il colonnello Miller». «Ma... come fa a sapere chi sono e il motivo della mia visita?» chiese la ragazza stupita. «Non ci siamo mai visti prima». Holmes, prima di rispondere, sorseggiò il tè ancora caldo e io mi sedetti comodo pregustando una dimostrazione del ragionamento logico-deduttivo del quale il mio amico era un maestro. Posata la tazza sul tavolino, Holmes sfregò un cerino, lo appoggiò al fornello della pipa e tirò ampie boccate di fumo non appena il tabacco si accese. Quindi iniziò a spiegare. «Vede, signorina», disse tenendo la pipa appoggiata alla bocca, «si dà il caso che io abbia saputo che in una residenza all'inizio di Baker Street, non molto distante da qui, sia venuto ad abitare una settimana fa un certo Andrew Miller, colonnello dell'esercito in pensione. L'uomo è da poco tornato in Inghilterra dopo aver servito


per molti anni in India. Mi è stato detto che è vedovo e che ha una figlia ventenne. Ora, la signora Hudson, la mia padrona di casa, l'ha presentata col nome di Miller. Inoltre il suo colorito, che un occhio poco esperto potrebbe ritenere dovuto a una corsa, spicca tra il pallore invernale delle fanciulle londinesi e suppongo sia causato dall'esposizione al sole dell'India, per quanto ricevuto al riparo di un ombrellino. Nonostante il lungo viaggio che ha sostenuto, è ancora evidente una tenue abbronzatura». «Sono ammirata per la sua perspicacia. Non mi hanno ingannata, consigliandomi di rivolgermi a lei». «Chi glielo ha consigliato?» mi permisi di chiedere. «Vede, caro Watson», mi rispose Holmes, «il padre della signorina è scomparso nottetempo. Lei, alle prime luci dell'alba, ha pensato di rivolgersi alla polizia, ma le forze dell'ordine non possono ancora intervenire visto che la sparizione è avvenuta da poche ore e nessuno ne è stato testimone». «Ma lei come...» «Cinque ore fa», disse Holmes dopo aver dato un'occhiata alle pendola. «stavo rincasando, quando una carrozza al galoppo mi ha quasi travolto mentre attraversavo la strada. L'avevo notata poco prima di fronte alla sua abitazione, in attesa. Purtroppo stavo riflettendo su un caso che mi era stato sottoposto quella sera e non ho fatto molto caso al cocchiere, una

mancanza imperdonabile da parte mia». «Conoscendola», replicai, «trovo difficile credere che non abbia notato nulla di interessante nella carrozza, ma non capisco come abbia fatto a dedurre che il colonnello sia scomparso». «Beh», rispose Holmes rivolgendosi alla signorina, «se non fosse accaduto qualcosa a suo padre, lei non sarebbe qui in questo momento, vero?» «Sì, come le ripeto, io non sapevo neppure della sua esistenza fino a un'ora fa». «E se fosse accaduto qualcosa di differente da una scomparsa, che non fosse spiegabile con un allontanamento volontario, la polizia avrebbe trovato motivo d'indagare». «Ne convengo», dissi soddisfatto. La Miller riprese la parola e spiegò: «Vede, signor Holmes, mio padre è un abitudinario. Segue una sua precisa tabella di marcia e non resterebbe mai fuori casa la notte, tanto meno senza avvisarmi. Questa mattina mi sono alzata molto presto. Per tutta la notte ho avuto un sonno agitato, profondo in modo insolito, ma popolato di incubi. Appena sono riuscita a svegliarmi, mi sono accorta che di mio padre non c'era traccia, anzi nel salotto c'era ancora il sigaro che, di solito, fuma la sera prima di coricarsi. Ho cercato per tutta la casa anche il nostro maggiordomo, ma è scomparso pure lui. Gli agenti non hanno dato molto peso alla cosa: pare che sia un'usanza de-

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gli uomini londinesi facoltosi quella di uscire la sera e di non rincasare che al mattino sul tardi. Mi hanno detto che, per iniziare le indagini, è necessario che l'assenza si protragga per molto tempo». «Sì, è raro che si muovono prima di un paio di giorni», confermò Holmes. «Ha notato se in casa manca qualcosa?» «Nulla di cui mi sia accorta». «E del maggiordomo che cosa mi sa dire?» chiese ancora. «Ci è stato raccomandato da un collega di mio padre. È di origine indiana. Aveva seguito il precedente padrone quando era tornato in patria. Non si tratta di una persona molto gentile, ma non le so dire altro perché lavora da noi solo da una settimana. Mio padre, comunque, è in cerca di una governante, perché ritiene che sia più adatta». Holmes stava riflettendo, quando un ultimo sbuffo di fumo s'alzo dalla pipa. Si era spenta. La ragazza continuò: «Poiché ha intuito il mio problema prima ancora che gliel'abbia esposto, sarà di certo in grado di aiutarmi». «L'aiuterà il mio caro amico», rispose. «Watson, si rechi a casa della signorina e dia un'occhiata. Conosce i miei metodi e, di certo, saprà eseguire un sopralluogo senza lasciarsi sfuggire particolari importanti. Io, invece, devo occuparmi di un'altra questione. Poi la raggiungerò». Detto questo si alzò dalla poltrona e, in modo galante,


sfiorò con le labbra la mano destra guantata che la signorina Miller gli aveva porto. «Mi scuserà se non l'accompagno. Prima devo cambiarmi d'abito». «Si figuri, e ringrazio entrambi per l'aiuto che mi state offrendo. Sono in Inghilterra da pochi giorni e ritrovarmi sola mi spaventa. Non avrei proprio saputo a chi altro rivolgermi, ma nella disgrazia, credo di essere stata fortunata incontrando voi». Io presi cappotto e cappello dall'attaccapanni e mi apprestai a seguire la Miller giù per le scale quando Holmes disse: «Le dispiace, signorina, andare avanti da sola? Devo scambiare due parole col dottore. La raggiungerà subito». «Prego, conosco la strada». Si affrettò ad attraversare la porta e la gonna frusciò di nuovo dolcemente contro lo stipite. Poi s'udirono i tacchi delle scarpette che scendevano i gradini. «Che cosa mi deve dire, Holmes?» chiesi. «Ieri sera, il signor Simpson mi ha chiamato per una consulenza». «Il gioielliere?» «Sì, mi ha descritto una pietra di grande pregio, un diamante tagliato alla maniera orientale, e ha voluto conoscere il mio parere: temeva si trattasse di un gioiello rubato. Mi ha chiesto se fossi a conoscenza di pietre che corrispondessero a quella descrizione». «Chi gli ha proposto l'acquisto?»

«Un signore che appariva distinto, ma quando si sono stretti la mano ne ha percepito la ruvidità. Il nome non ha saputo ripetermelo e, d'altra parte, poteva benissimo essere falso. Quel tizio si accontentava di un prezzo irrisorio. Proprio per questo il gioielliere si è insospettito». «Lo ritiene un caso interessante?» Holmes rovesciò il tabacco della pipa nel posacenere e rispose: «Ieri notte, tornando dalla visita a Simpson, ho fatto un lungo giro e ci ho riflettuto. Una pietra di quella grandezza non è un gioiello comune, porterebbe su di sé marchiato a fuoco, metaforicamente, il nome della famiglia a cui appartiene, ma non mi è giunta notizia di alcun furto del genere nel paese. Il taglio che mi è stato descritto mi fa sospettare che provenga da Golconda». «Golconda? Mi viene in mente una storia divertente sui diamanti indiani, che mi è stata raccontata quand'ero di stanza in Afghanistan». «E sarebbe?» «Riguarda l'estrazione di tali pietre. Si narrava che una montagna ne fosse costellata, a centinaia di migliaia e grossi come noci. Ma nessuno riusciva ad avvicinarsi perché la montagna era infestata di cobra, ne era pieno ogni anfratto. Col loro veleno uccidevano all'istante chiunque ardisse impossessarsi delle pietre preziose». «Un rimedio sarebbe stato quello di armarsi di un buon

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numero di manguste», osservò divertito Holmes. «Una soluzione pragmatica, mio caro amico, ma in oriente sono più fantasiosi. Si dà il caso che nei pressi della montagna vivessero anche delle aquile. I cercatori di diamanti decisero di lanciare, con una catapulta, carcasse d'animali sulla montagna, le carogne si sfracellavano sui diamanti che, in parte, restavano attaccati alle carni. Le aquile venivano attratte da quei resti che afferravano con i loro artigli, poi volavano via per cibarsene con comodo, lontane dai cobra. Durante il volo, i diamanti cadevano e i cercatori avevano modo di recuperarli senza rischiare di essere morsi». «Una storia interessante che trae ispirazione da una combinazione mortale: diamanti e cobra», constatò Holmes mentre si passava la mano sulla barba ispida di due giorni. «Già. Ma lei cosa ha consigliato al gioielliere?» «Di non lasciarsi scappare l'occasione, se ama il rischio. Ma non credo proprio che il venditore si farà rivedere: non avrà faticato a trovare un acquirente meno schizzinoso. Comunque farò ancora qualche indagine. Ci rivedremo qui per mezzogiorno». «Molto bene. Ha altro da dirmi?» chiesi con una certa impazienza. «Nient'altro, ma sarebbe bene che si affrettasse. Non è educato far aspettare a lungo una signorina così graziosa», disse Holmes facendomi l'occhioli-


no. «Grazie per il consiglio. A più tardi». Mi misi il cappello e scesi di corsa le scale, indossando il cappotto. Quando uscii in strada notai la signorina Miller poco più avanti. Stava camminando e si voltò proprio in quel momento. Appena mi vide, sorrise e mi indicò, lungo il viale, una casa poco distante. La raggiunsi e camminammo scambiandoci qualche frase di circostanza. Quando giungemmo all'ingresso di un austero edificio a tre piani, la Miller tirò la corda del campanello. Nessuno aprì, così si decise a estrarre la chiave dalla borsetta. «Speravo che fosse tornato», mi disse. Entrammo. La casa era arredata con gusto. Mi disse che l'avevano acquistata, tramite un'agenzia, già in parte ammobiliata. Mi fece visitare i locali del piano terra. Non vidi nulla di strano. In tutta sincerità, temetti di fare una pessima figura, quando fosse arrivato Holmes: come suo solito, avrebbe notato un'insignificante alone su chissà quale anonimo soprammobile, e da quel trascurabile indizio avrebbe agganciato una solida catena di deduzioni che gli avrebbe consentito di risolvere il mistero del colonnello scomparso. Ma nonostante cercassi di impegnare al massimo tutte le mie facoltà, non notai nulla nel modo più assoluto: niente era fuori posto. «Ecco il sigaro», disse la

Miller. «Il sigaro?» «Sì, il sigaro che mio padre avrebbe dovuto fumare ieri sera. È l'unico vizio che si concede nell'intera giornata. Glielo preparo io, lo prendo dalla scatola e lo metto sul tavolino accanto alla poltrona, così lo trova pronto. Legge un buon libro, beve una tisana, termina di fumare il sigaro e poi si ritira. Usava fare così in India e ha ripreso questa abitudine anche ora, in salotto, invece che in veranda: sa, il clima». «Capisco», risposi. «Ma si accomodi», mi disse, «e mi scusi: penserà che non sono una buona padrona di casa». Mi prese cappello e cappotto, che nella fretta di dare un'occhiata alla casa non mi ero ancora tolto, e mi chiese: «Le posso offrire qualcosa, dottore?» «Non si disturbi». «Un tè magari». «Beh, un tè non si rifiuta mai», le risposi, «neppure se è il secondo della mattinata». Sorrise e si allontanò, lasciando cappotto e cappello sull'attaccapanni all'ingresso. Mi sedetti su una poltrona ed esaminai il tavolino che era lì vicino. C'era il sigaro, appoggiato al posacenere, accanto a una scacchiera di marmo con pezzi in ebano e avorio e a una zuccheriera in argento, finemente cesellata. I mobili erano di pregio e riconobbi qualche soprammobile antico. Un vaso Ming sul caminetto, una credenza con porcellane che non sapevo ben

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identificare sulla sinistra e un'ampia biblioteca, che occupava un'intera parete a destra. Non mi alzai a controllare, ma i dorsi di alcuni libri sembravano antichi. Sospettai che tra di esse ci potesse essere qualche rara prima edizione. Ai miei piedi, proprio di fonte alla poltrona, c'era anche un prezioso tappeto afghano, dai nodi molto piccoli e dalla caratteristica decorazione. Questo, però, non era conservato con cura, perché notai l'alone prodotto dal versamento di un qualche liquido. Sembrava ancora umido e sarebbe stato opportuno provvedere subito alla smacchiatura. Notai, poi, una piccola scheggia bianca che si era confusa col disegno del tappeto. La toccai con la punta della scarpa e si sbriciolò. Poteva essere di porcellana. La signorina Miller tornò con un vassoio. Lo appoggiò sul tavolino, prese la teiera e versò del tè fumante in una tazza. «Quanto zucchero?» mi chiese. «Due cucchiaini, grazie». «Anche mio padre gradisce il tè molto zuccherato». «Si è rotto qualcosa di recente su questo tappeto?» chiesi. «Non mi risulta», rispose lei sorridendo. La osservai bene, mentre si chinava a prendere la zuccheriera d'argento. Senza il cappellino, potei ammirare i capelli di un bel colore ramato raccolti in uno chignon che le lasciava scoperto il candido collo, mentre la casta scollatura lasciava solo immaginare un seno più che gradevole.


In tutta sincerità, devo ammettere che rimasi estasiato nell'osservarla mentre mi porgeva la tazza. «Ebbene? Non vorrà essere lei a rompere qualcosa», mi chiese divertita. «Ah, mi scusi», dissi prendendo la tazza, «sono rimasto ammirato da... questa casa. È davvero elegante». «La ringrazio, abbiamo appena terminato di metterla in ordine», mi disse sedendosi di fronte a me. «Mio padre è orgoglioso delle sue collezioni. Ci sono pezzi davvero pregiati, ma non mi sembra che manchi nulla, come le dicevo». «Ne ho notati alcuni», osservai sorseggiando il tè. «Tutto questo deve costare un capitale», aggiunsi in modo davvero poco elegante. «Prima le ho detto che mio padre ha un unico vizio: la tisana serale accompagnata dal sigaro, ma dimenticavo la sua passione di collezionista. Un passatempo costoso, paragonabile a quello del gioco, ma se lo può permettere». «Siete ricchi di famiglia?» chiesi, ma subito mi morsi le labbra, a causa della mia domanda inopportuna. Cercai di rimediare: «Mi vengono in mente i Miller del Berkshire, per esempio». «Non li conosco. Chi sarebbero?» «Una famiglia molto... facoltosa di Newbury». Affogai la mia gaffe prolungata nel tè. In tutta sincerità, non avrei mai voluto apparire venale, ma ormai la signorina Miller, se mai mi fossi

deciso a farle la corte, avrebbe subito pensato che fossi interessato alla sua dote e non... al suo... candido collo in cui mi sembrava... di annegare. Sentivo una strana pressione opprimermi il petto. Mi mancava il fiato e la testa mi girava. «Non abbiamo parenti a Newbury. Dicevo che mio padre se lo può permettere, perché, da quando si è ritirato dal servizio nell'esercito, ha iniziato un redditizio commercio in pietre preziose, diamanti soprattutto... ma si sente bene?» No, non mi sentivo per niente bene, però non riuscivo a rispondere. Avevo assistito a casi analoghi durante il mio servizio come ufficiale medico in Afghanistan e riconobbi i sintomi: sembrava che fossi stato morso da un serpente velenoso. Non riuscivo più a controllare i muscoli e la respirazione. La tazza mi cadde di mano e presto la seguii finendo a terra. Sentii la signorina Miller che gridava terrorizzata. Pochi istanti dopo, non udii più nulla. Venticinque ore dopo È stata la vibrazione a farmi riprendere conoscenza. Una vibrazione fastidiosa, penetrante, che sembra trapanarmi il cervello, peggiore di un'insopportabile emicrania. Non capisco quello che mi succede, non so più chi sono, non riesco ad aprire gli occhi, a muovere la testa, le braccia, le gambe. Cosa mi sta accadendo? A un tratto sento delle voci che si mettono a discutere e

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comprendo: sono disteso su un tavolo autoptico e... sono morto! O meglio, tutto di me appare morto e gelido, tranne la consapevolezza di essere, in realtà, ancora vivo. E quei due, dopo aver tentato di bucarmi la testa, parlano di aprirmi in due con un bisturi! In tutta sincerità, non ho mai avuto tanta paura in vita mia come in questo momento, neppure durante le cariche di cavalleria all'arma bianca, con le palle di piombo che ti fischiano a pochi pollici dalle orecchie e le cannonate che alzano colonne di terra e nuguli di schegge. Ecco, sento una fredda lama che si appoggia in cima allo sterno. È finita! «Signori, non muovete un muscolo o vi faccio saltare le cervella!» Qualcuno ha gridato. Conosco quella voce! Cerco, nel mio passato, un volto che le corrisponda e trovo la faccia di un uomo con le borse sotto gli occhi, spettinato, la barba di due giorni. Quella voce mi sembra più soave di un allegretto di Mozart. Il nuovo arrivato si mette a litigare con i presenti. Gli danno del pazzo, ma sembra che le sue ragioni abbiano la meglio. Alla fine, sento un ago infilarsi nel mio braccio destro e, immediato, un calore salutare mi invade gli arti, le viscere e mi riempie il cuore di nuova vita. Spalanco gli occhi e i polmoni, mi sembra di rinascere e vedo la luce!


Qualche tempo dopo «Mi è dispiaciuto non aver potuto partecipare alla sua ultima indagine, caro amico», dissi. Holmes era venuto a farmi visita, dopo che i medici mi avevano dichiarato fuori pericolo. Era seduto accanto al mio letto d'ospedale, mentre io ero disteso con la testa fasciata appoggiata al cuscino, con una prognosi di tre settimane per ipotermia e, soprattutto, ferite multiple alla testa causate da un trapano a mano. «Non si preoccupi, Watson, il suo aiuto è stato comunque determinante. In fondo è lei che ha scoperto l'arma del delitto, se così possiamo chiamarla. Ciò che mi rende felice è averla riavuta sano e salvo: crederla morto per una giornata intera è un'esperienza che non voglio ripetere». «Neppure io!» esclamai convinto. «Ma certo, in primo luogo lei». Poi prese una fiaschetta dalla tasca interna della giacca, me la mostrò come una preziosa merce di contrabbando e la nascose nel primo cassetto del comodino. «Non credo che avrò molta voglia di bere per qualche tempo, ho ancora una fastidiosa emicrania che... mi trapana il cervello. Però mi deve scusare: non ho ancora avuto modo di ringraziarla per avermi salvato. A proposito, come ha fatto...» «È una lunga storia e per niente interessante. Pensi, caro Watson, che il colpevole era il maggiordomo».

«Sì, l'avevo intuito, o meglio dedotto, ma colpevole di cosa esattamente?» «Vede, il maggiordomo del colonnello, durante la sistemazione di mobili e soprammobili, aveva avuto modo di scoprire un nascondiglio dove Miller occultava i preziosi. Aveva avuto sentore di non essere gradito al nuovo padrone e di essere prossimo al licenziamento. Ormai avanti nell'età, di origine indiana e con scarse prospettive, aveva pensato di assicurarsi un futuro più roseo appropriandosi di ciò che avrebbe trovato nel nascondiglio». «Qualcosa però e andato storto». «Sì, il nascondiglio conteneva solo un diamante, ma inestimabile. Sarebbe stato difficile piazzarlo, soprattutto per un servitore indiano. È qui che entra in gioco il complice». «Forse un cocchiere?» «Esatto. Si sono conosciuti lavorando per il padrone precedente, ma il cocchiere si era rivelato un poco di buono ed era stato presto licenziato. Il maggiordomo si è ricordato di lui e ha pensato che fosse il complice ideale. I due, però, hanno avuto troppa fretta. Qualche acquirente potenziale comincia a sospettare e a fare troppe domande. Inoltre, il colonnello presto si sarebbe accorto del furto e, quindi, hanno deciso di agire». «Assassinandolo?» «Proprio così. Il maggiordomo ha pensato di utilizzare un veleno piuttosto esotico. Ne ho rinvenuto in quantità nella

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zuccheriera d'argento nel salotto del colonnello». Mi ricordai della signorina Miller che, inconsapevole, versava quello che riteneva puro zucchero nella mia tazza. «Ho avuto fortuna, quindi?» «Suppongo di sì. Nel campo dei veleni le quantità sono fondamentali. Gli effetti avrebbero potuto spaziare da un forte disorientamento, che sarebbe potuto passare per una banale e temporanea labirintite, fino alla morte per paralisi e arresto cardiaco. Tutto dipende anche dal peso della vittima, dall'età e dallo stato di salute». «Nel mio caso c'è mancato poco!» «Certamente. Invece il colonnello è morto e il suo corpo è stato gettato nel Tamigi. Io, quella notte, avevo incrociato per pura combinazione il cocchiere che aveva caricato il cadavere della vittima sulla carrozza. Lei, invece, si può dire che abbia avuto fortuna, se la fortuna esistesse, anche se è andato vicino alla morte più di quanto sia capitato a me alle cascate Reichenbach. Nel suo caso, il veleno ha causato una paralisi e un rallentamento del battito, insomma, una morte apparente». «Mi meraviglio di lei, Holmes», dissi con un certo risentimento. «Come può non essersene accorto? Un osservatore come lei». «Si è trattato di una serie sfortunata di circostanze». «Ma lei dice che la fortuna non esiste!» «Certo, la fortuna non esiste,


ma in certi casi la sfortuna sì. La signorina Miller l'ha vista cadere a terra senza vita e ha chiamato subito aiuto. È arrivata la polizia, gli stessi agenti svogliati del turno di mattina, accompagnati da un giovane sostituto del medico legale del quale porta ancora le tracce sulla testa». «Ah, quello!» «Nella frenesia del suo primo incarico, non si deve essere accorto del battito rallentato e ha pensato a un attacco cardiaco, o qualcosa di simile. Io ho potuto visitarla solo più tardi, quando già si trovava nel suo loculo ghiacciato. Eppure, con tutta probabilità, proprio il freddo intenso deve averle salvato la vita». «L'assistente ha diagnosticato un attacco cardiaco? E si è messo a trapanarmi il cranio?» «Lo ammetto, è insolito, ma non dobbiamo trascurare l'irrazionalità del comportamento umano», disse Holmes con serietà. «E devo confessarle, caso Watson, che di fronte al suo cadavere ho pianto...» «Questo... mi commuove, Holmes». «... non avrei più saputo con chi condividere le mie indagini, qualcuno che apprezzasse il mio metodo e non solo gli effimeri risultati». «Ah, capisco», dissi deluso. «In ogni caso, il metodo deduttivo ha anche bisogno dell'intuizione inconscia che è propria dell'artista, oltre che della pura ragione dello scienziato. È così che ho trovato il maggiordomo. Ha letto

sul ”Times” del viaggio del Principe di Galles in India?» «Sì, il piroscafo sarebbe partito l'indomani». «Era l'unica nave in partenza quel giorno. Il fuggitivo poteva essersi nascosto ovunque, ma da qualche parte dovevo iniziare. Associai la meta con l'origine del maggiordomo: dove avrebbe potuto prendere il largo con i pochi soldi che, presumibilmente, aveva racimolato?» «Holmes, e poi lei dice che la fortuna non esiste». «Non si tratta di un caso, ma di un freddo calcolo delle probabilità: l'unica possibilità su un milione di non fare un buco nell'acqua era una visita al piroscafo. Mi feci accompagnare dalla signorina Miller, attraversammo i ponti di terza classe e lì lo trovammo. Ebbi buon gioco nell'avere ragione di lui e non fu difficile farlo parlare. Quando mi rivelò come aveva assassinato il colonnello, di fronte agli occhi in lacrime della signorina, che quella sera aveva solo sedato, capii che il suo assurdo attacco di cuore, caro Watson, poteva essere ben altro». In quel momento qualcuno bussò con delicatezza alla porta della stanza. Entrò la signorina Miller che, appena mi vide sveglio e vigile, sorrise. Il vestito nero che indossava la rendeva ancora più slanciata e attraente. Holmes si alzò e le offrì la sedia. «Sono stata informata che ormai è fuori pericolo. Ne sono

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contenta». «A me, invece, dispiace per suo padre. Le mie condoglianze», dissi cercando di alzarmi sui gomiti, non ottenendo altro che una fitta dolorosa. «Grazie, ma rimanga sdraiato. Non faccia sforzi inutili. Come le dicevo sono contenta che stia meglio, tuttavia mi sento in colpa per averle causato tutti questi problemi». Mentre parlava con la voce soave d'un angelo, mi persi nei suoi occhi dal colore intenso, che non avrei saputo definire «Watson, si sente bene?» chiese Holmes preoccupato. «Oh, sì, va tutto meravigliosamente». Quindi aggiunsi, rivolgendomi alla signorina Miller che tenevo per mano: «Spero di ricevere presto un nuovo invito da parte sua». «Un altro tè?» chiese seria. «Perché no? L'altro non l'ho gustato». Poi, sorridendo, aggiunsi: «Questa volta, però, in tutta sincerità, lo gradirei amaro». FINE


S ka n Nata dalla terra

Non è il dolore, non è neppure la consapevolezza che qualcuno stia scavando dentro di te. Piuttosto è la vibrazione. Si propaga nelle ossa, annichilendoti l’anima. Come un terremoto, prende le mensole mai pulite del tuo essere e le scuote, riversando tutto a terra. Ricordi che tornano a galla e vanno in pezzi nel giro di pochi istanti. Solo le impronte dei soprammobili nella polvere a comporre il filo sottile che ancora ti unisce a ciò che eri stato fino a pochi istanti prima. Tuttavia, in tutta sincerità, chi ha il tempo di guardare a quei segni scuri mentre una punta d’acciaio ti sta aprendo un buco nel corpo? Senza rendertene conto, sono le tue stesse urla a spazzar via i cascami di un’intera vita. Disperata, abbandono l’incredulità, il terrore. Smetto di contorcermi sul lettino a cui sono legata, smetto di voler essere salvata. Mi perdo nel ringhio rabbioso del trapano che mi sta squarciando la spalla. Avverto l’impatto con l’osso, viene scavato di striscio e poi sfugge lasciando a macellare la carne più morbida. Le grida che sento non possono essere le mie. Del nastro adesivo mi chiude le labbra e i denti serrati sembrano vo-

lersi sgretolare. Eppure la gola mi brucia, si gonfia e si vuota, fuori dal mio controllo. Come lava che straripa e ricopre tutto ciò che incontra, mi trovo invasa da un livore feroce. Inizia a scorrermi sottopelle, riempie gli spazi lasciati vuoti dal sangue che inzuppa le lenzuola. Il mio odio non è soltanto per l’aguzzino che sta facendo scempio di me, senza nessuna pietà, ragione o umanità. La maggior parte è per il Cielo e i suoi angeli. Verso coloro che ho pregato e supplicato fino all’ultimo, che avrebbero dovuto mostrare misericordia. Impedire questa mia ingiusta fine. Perché morirò, l’ho capito. Sarò uno dei tanti cadaveri del mostro, ritrovati chissà quando, come in un film di cui non sono la protagonista. Il trapano si abbatte impietoso su di me, ancora e ancora. Su una coscia, nell’addome e, infine, mi squarcia il petto. Annaspo, non riesco più a respirare. Smetto di vedere l’intonaco grigio della cascina, il volto butterato dell’uomo che mi ha rapita, i suoi occhi fissi nei miei mentre mi tortura. Forse morire è come svenire, ma è una strana pace dei sensi quella che mi accoglie. Non posso muovermi né sollevare le palpebre, ma ci sono lunghi istanti in cui sento cosa mi accade intorno. Forse sono drogata. Avverto la pelle umidiccia e accaldata

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del mio carnefice sfregarsi sulla mia. Il suo sudore mischiarsi al mio sangue. Poi è come se cadessi. Sbatto con violenza al suolo e rimango lì, scomposta, per parecchio tempo. Devo girarmi. Sono scomoda e devo assolutamente girarmi su un fianco. Non ci riesco, qualcosa di pesante mi preme al suolo. La gravità mi schiaccia ma non ce la faccio più, devo muovermi. Riesco a spostare un braccio, poi l’altro. S’immergono entrambi nell’aria densa che mi circonda; più che aria è un muro nel quale scavare. Mi spavento, voglio muovermi, liberarmi. Inizio a spingere con tutto il corpo contro il peso che mi ricopre, e quello frana. Incomincia a sgretolarsi, a lasciarmi passare, e io scavo come impazzita. Sembra sabbia, anzi è terra. Terriccio umido e fresco che mi ricopre interamente, perché sono stata sepolta. Seppellita viva. O morta. Striscio fuori dalla fossa mentre il cielo screziato di stelle mi osserva silenzioso. Lotto con il fango, che vorrebbe farmi sprofondare. Tossisco, scaccio la terra dagli occhi e dai polmoni, grido per lo sforzo. Vomito i vermi che erano pronti a pasteggiare col mio corpo. Sono viva. Mi abbandono nuovamente al suolo, braccia e gambe divaricate. Faccio respiri pro-


fondi, godendomi i profumi freschi della notte, mentre la luna opalescente mi sorride. Mi addormento, stavolta per davvero. Quando riapro gli occhi trovo un’alba color pastello ad accogliermi. Non so come, ma mi sento bene. Ho gambe e braccia impastate di sangue e terra. Giro il volto di lato per guardare la spalla e trovo la lacerazione lasciata dal trapano, i bordi viola e la carne vermiglia. No, non voglio vedere, non importa. Non so come ho fatto a tirarmi fuori dalla fossa, ma mi va bene così. Riesco ad alzarmi per guardare intorno, sono in un campo circondato da altri appezzamenti disposti lungo un lieve avvallamento. Come un avvoltoio appollaiato sulla linea d’orizzonte, un vecchio ingobbito guarda verso di me. Lì per lì mi spavento, ma è solo un attimo. Mentre risalgo la dolina cerco di grattare via un po’ di fango, sfrego la pelle e disincastro i capelli. Il mio carnefice ha deciso di rimettermi il vestito che portavo, prima di seppellirmi. A parte quello, non ho altro. Con la spallina cerco di coprire la ferita ma non è possibile. Il tessuto nero che indosso, però, nasconde bene i segni successivi. Sembra che mi abbiano sparato, forse col tempo si rimarginerà tutto. Resteranno le cicatrici.

Quando raggiungo la barchessa fatiscente, l’uomo che mi osservava è sparito. “Aiuto!” pronuncio, e mi accorgo di non avere più alcun male alla gola. “Per favore! Qualcuno mi aiuti!” riprovo, con maggiore vigore. Senza attendere oltre, inizio a bussare e a urlare forte contro la rimessa degli attrezzi in cui si è nascosto il vecchio. “Che l’è?” domanda, infine, una voce rauca. Dall’interno si sentono sbattere dei ferri. “Ho bisogno d’aiuto” mi limito a rispondere, spazientita per l’attesa e l’atteggiamento del contadino. Attraverso la campagna ancora acerba, scorre un’aria mattutina fresca e silenziosa, il vestito mi si appiccica addosso eppure la mia pelle è calda. Sento che dovrei andarmene. Sto benissimo, non ho bisogno di aiuto. Però rimango lì, in piedi, davanti alla porta. Qualcosa mi dice che è quello che dovrebbe fare una ragazza nelle mie condizioni. L’uomo che viene ad aprire ha uno sguardo torvo, le sopracciglia folte crescono in ciuffetti grigi e scomposti. Gli zigomi scavati gli danno un’aria burbera e la pelle raggrinzita rivela gli anni passati al sole. “Che vuoi?” domanda con animosità, diffidente. Anche dopo avermi guardata da vicino, non c’è ombra di compassione nella sua espressione stolida. Magari dovrei sorridere o

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sembrare impaurita, avere un atteggiamento contrito. La realtà è che sono infastidita dalla sua indifferenza. Forse mi ha scambiata per una matta, un’ubriaca che è finita a dormire in un campo. Di certo, non sembra ansioso di aiutarmi. “Io… credo di essere stata rapita” cerco di spiegare. Fisso gli occhi dell’uomo nel tentativo di scorgevi qualcosa in più di quello che appare. Ma probabilmente neanche lui trova nei miei la vulnerabilità che dovrebbe esserci. “Non so dove mi trovo”. “Te eri nel campo del Beschi” mi punta contro un dito nodoso e io faccio un passo indietro. “Cos’eri dietro a fare?” serra le labbra in una linea sottile mentre attende la risposta, l’aria minacciosa non lo abbandona. Io non so cosa dire, il vecchio non sembra interessato alla mia storia. “Ha un cellulare da prestarmi?” cerco di ribattere, mentre ogni neurone nella testa mi dice di andarmene. L’indifferenza dell’uomo, il fare ottuso con cui mi parla, mi provocano un fastidio strano. Qualcosa che mi si rimescola nello stomaco. “Te ti sei messa a scavare. Ecco cosa!” mi ringhia contro, improvvisamente furibondo. Con uno scatto della mano mi artiglia i capelli e tira verso il basso. Cado sulle ginocchia all’interno della rimessa. Presa alla sprovvista, rimango interdetta.


Nello stanzone riposano gli scheletri di trattori arrugginiti, illuminati dai biechi raggi che penetrano dalle finestre sprangate. All’odore della muffa che permea le pareti si mescola quello del letame, che lì vi ha messo radici. “Entra pure…” dice il vecchio, “Che cercavi là sotto, un’amica?” per la foga, mentre parla mi sputacchia addosso. Lo guardo continuando a non capire le sue intenzioni, poi in viso gli si dipinge una smorfia di disgusto. Si volta dandomi le spalle e traffica con alcuni attrezzi da lavoro finché non trova quella che cerca. “Quando lo saprà l’Eugenio…” sussurra tra sé. Infine, mi punta contro un fucile da caccia. Dovrei spaventarmi, forse urlare. Ma tutto quello mi sembra un terribile déjà-vu. “Lei lo sa cosa c’è nel campo laggiù, vero?” domando. L’unico sentimento che provo è una profonda rabbia, pronta a divampare come la brace sotto la cenere. Il ghigno fiero, e allo stesso tempo stupido, dell’uomo mi fa esplodere la collera, scintille elettriche mi informicolano il corpo. In cosa sono finita? Come vive questa gente? Penso a quanti corpi saranno seppelliti in quel campo. Da quanto tempo dura questa storia? Mi sento come un animale furioso, intrappolato in un corpo troppo piccolo per contenerlo. Ma, in realtà, non

sono più la stessa. Non ho più paura. E non ho più bisogno di nascondere la mia furia. Che le mie preghiere fossero state ascoltate mi era chiaro. Ciò che non avevo capito era chi le avesse esaudite. Prima di abbandonare la barchessa mi lavo sotto il getto di una canna. La terra e il sangue scivolano via, come rincorrendosi sulla pelle. Il vestito è completamente inzuppato dai resti del vecchio. Lo butto. Le ferite che mi ha lasciato il trapano sembrano essersi richiuse, al loro posto ci sono delle grosse cicatrici rossicce. Rubo degli indumenti dalla rimessa del contadino, mi stanno un po’ corti ma almeno offrono un camuffamento. Come una turista in cerca di scorci campestri, raggiungo la strada e mi ci incammino, seguendo l’ombra che proietto sull’asfalto. Tutt’intorno, i raggi del sole colorano i campi d’oro brunito. Dopo dieci minuti arrivo ad un grosso incrocio, più trafficato ed attraversato da mezzi pesanti. Riconosco la strada, ampia e rettilinea per chilometri: è la statale che collega Brescia a Mantova. Sull’angolo c’è un piccolo bar e accanto uno slargo in terra battuta in cui di notte si fermano i camion. Alcuni autisti sono seduti intorno ai tavolini in plastica, il fumo delle sigarette e l’odore del

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caffè si mescolano all’aria polverosa. Attraverso l’incrocio e mi sistemo sotto l’insegna blu della fermata dell’autobus. Ho percorso moltissime volte quella tratta durante il periodo delle scuole superiori, quando arriva il pullman dell’Apam salgo dall’entrata posteriore. A bordo c’è poca gente e nessuno si accorge che non ho il biglietto, non ho un portafoglio e non ho neppure una borsa. Vado verso sud, verso casa. L’immagine che si riflette sullo specchio del bagno sembra la stessa ragazza di sempre. Mi sono pettinata, finalmente, e indosso i miei vestiti. Così, potrei ingannare chiunque. La vicina mi ha riempita di domande, quando sono andata a chiederle le chiavi, ma è una signora anziana che vive con la badante, non è stato difficile raccontarle una storia. Mia madre, invece, mi farà il terzo grado. Rincasa all’ora di pranzo e quando la vedo non posso fare a meno di fissarla. Se fossi morta, l’unica vera vittima sarebbe stata lei. Come avrebbe fatto a darsi pace? Vorrei andare ad abbracciarla, baciarla, dirle che le voglio bene. Ma qualcosa me lo impedisce, come una sensazione che mi rimesta lo stomaco all’idea di avvicinarmi troppo. Ma perché? Cosa sono diventata?


Mentre cucina, mia madre scivola con grazia dai fornelli al lavello, abituata a quei semplici gesti. “Con chi sei uscita ieri sera?” domanda, mentre prende la salsa di pomodoro dal frigo. Toglie il coperchio dalla pentola, dove bolle l’acqua, e versa la pasta. Ha una figura snella, che la fa sembrare più giovane dei suoi cinquant’anni. “Con la Betta e Stefano” dico, pronta all’interrogatorio. Intanto, cerco di apparecchiare la tavola e darle le spalle il più possibile. “Che avete fatto?” continua, come al solito, senza smettere di lavorare. “Siamo andati a Dese” “C’era molta gente al lago?” “Come ogni volta, mamma, sempre la stessa gente e molti turisti.” Mi volto e le sorrido perché so che lo farà anche lei. “Va bene” sentenzia mettendosi a tavola. Guardo il mio piatto di spaghetti e penso al mio ultimo pasto. Mi sale un conato di vomito. “Non ti piace?” “Mi si è bucata una gomma ieri sera” introduco l’argomento mentre sbocconcello la mollica del pane. Ne parlo come di un pettegolezzo, come fosse accaduto a qualcun’altra. E forse è così. “E poi come hai fatto?” domanda mia madre, con apprensione. “Un signore si è fermato ad aiutarmi” mi affretto a rispondere. Mentre ci ripenso

mi sale la rabbia. Rivedo i fari bianchi dell’audi che accosta. I baffi a spazzola dell’autista, che gli danno un aspetto tranquillo, quasi buffo. “Ma era bucato anche il ruotino” concludo secca, scacciando dalla mente i pensieri. “Ma come è possibile?” mia madre si porta una mano alla fronte. “Beh, non ti sarai mica fatta portare a casa da uno sconosciuto, vero?” “No, ho chiamato Stefano ed è tornato a prendermi” mento, ed evito accuratamente d’incrociare il suo sguardo. Poi mi sforzo di sorriderle, perché so che mi sta fissando e si sentirà in colpa per l’accaduto. Come se fosse stato tutto un caso, come se avesse potuto evitarlo. “Avresti dovuto chiamare me…” dice, un po’ imbronciata. Vorrei dirle che era quello che stavo per fare. Prima che iniziasse tutto. Ma non lo faccio. Ormai non importa più. “Vabbè oggi pomeriggio vado a recuperare la macchina col meccanico”, muove nell’aria una mano come per scacciare via la questione. “Esci anche stasera?” “Come ogni sabato, mamma” Mi vesto elegante. Mi trucco e piastro i capelli. Sembra proprio che stia uscendo, un sabato come un altro. Poi, sento un fastidioso prurito sulla pancia e anche se mi gratto non passa. Sollevo la canotta e lo vedo. Uno dei buchi che il mio corpo na-

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sconde si è riaperto. La carne attorno sembra imputridire, come se un folle pittore la stesse inzuppando di sfumature verdi e viola. Mi spavento. Vorrei grattare, scavare, strapparla via per sempre. Devo sbrigarmi, devo fare ciò che va fatto. Forse dopo, i buchi spariranno, resteranno solo le cicatrici. Sì, una costellazione di cicatrici sul corpo. Il profilo facebook di Eugenio Beschi mi conferma che è l’uomo che mi ha rapita. Le pagine bianche mi danno il suo indirizzo. Resto appollaiata nella panda di mia madre per alcune ore e osservo la villetta in cui abita il mio aguzzino. Il giardino curato, la grondaia pulita. Sotto il porticato ci sono piantine di primule, violette e bocche di leone, in un angolo dei graziosi mobili da giardino. Mia madre adorerebbe una casa così. Dalle informazioni che ho raccolto su internet, lui e la moglie non hanno figli. Dalle finestre illuminate si vede la sagoma di una signora dai ricci capelli rossi che passa da una stanza all’altra. Del marito non c’è traccia, non trovo nemmeno l’audi parcheggiata in strada. Il prurito alla pancia peggiora sempre più e io sto facendo del mio meglio per non grattarmi via anche la pelle. Rinchiusa nella panda mi si stanno anchilosando le gambe. Non posso negare di


essere tesa all’idea di rivederlo. Il mio mostro personale. Inizio a mordicchiarmi le unghie, poi mi metto a giocare con la bocchetta dell’aria condizionata. La rompo. Basta. Devo uscire e fare qualcosa. Magari posso aspettarlo in casa, parlare con la moglie, capire che razza di gente sono. Credo che lei non centri nulla. Forse dovrei dirglielo, anzi meglio, dovrei farglielo confessare da lui. Sono sicura che poi, lei, passerebbe dalla mia parte. Suono il campanello di casa Beschi e mi risponde una voce squillante: “Chi è?” “Signora, mi scusi, mi si è fermata la macchina, posso usare il telefono?” Dall’altra parte dell’apparecchio non si sente più nulla. Poi noto alla finestra una sagoma che mi osserva, la saluto. Non mi apre. È stata una mossa stupida. Una scusa stupida. Ma che dovevo dirle? Sono l'ultima vittima di suo marito, se mi da cinque minuti le spiego? Devo entrare in casa, non posso stare in strada. Potrebbero notarmi. E poi, che mi importa di parlare con quella donna, di conoscerla, dirle la verità. Voglio suo marito. Il resto non conta. Faccio il giro della casa, supero il muretto che circonda la villa e mi arrampico sulla tettoia. Arrivo nel terrazzino che dà sulla camera da letto e rompo il vetro della portafinestra. Quello esplode, con fragore, in una miriade di schegge che mi si conficcano nella mano, attirando l’attenzione della padrona di casa. Attraverso a grandi

falcate la stanza e la incrocio sulle scale. Mi guarda con gli occhi sgranati, impietrita. Scappa! Vorrebbe urlarle una parte di me. Invece, resto in silenzio a fissarla, come un leone che valuta se gli basterà un balzo per catturare la preda. E a me basta. Mentre mastico i tendini del collo della donna, noto che il fastidioso prurito all’addome sparisce. Sto guarendo. Mangiare mi fa bene. Visito la casa. È curata e ordinata. Alle pareti ci sono degli stupidi quadri con immagini fatte a punto croce. Una grande libreria piena di volumi, senza un granello di polvere, riempie il salotto. L’argenteria e le porcellane brillano in vetrinette di varie dimensioni. Il corpo della donna non sono riuscita a farlo a brandelli, come col contadino. Ad un certo punto ho dovuto fermarmi, non mi andava più. Lei non centrava nulla, non con la mia rabbia. Ma non c’era altro modo, sospettavo fin dall’inizio che sarebbe finita così. Adesso mi sento piena di adrenalina, quasi non riesco a stare ferma. L’ansia è sparita, ma voglio lo stesso che finisca tutto al più presto. Devo aspettare altro tempo prima che i fari bianchi dell’audi illuminino il cancello all’ingresso. Controllo dalla finestra e quando vedo Eugenio Beschi mi sento invadere da un’ondata di odio: è il mio carnefice. Quello chiude la macchina, ignaro di tutto. Si

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gratta la testa pelata e si avvia verso la porta d’ingresso. Quando entra si toglie la giacca e la appende nel guardaroba. Non chiama la moglie, non nota nulla d’insolito. Si toglie le scarpe e si infila le pantofole. Io lo guardo all’ombra del corridoio che porta alla cantina. Per lunghi istanti non riesco a decidermi. A farmi vedere. Ha un aspetto così banale, un signore qualunque, sulla cinquantina, neanche troppo robusto. Viso calmo e sguardo spento, molto diverso dalla notte prima. Io so di cosa è capace quell’omuncolo, ma mi sento impietrita, non riesco a farmi avanti. Lui continua con la sua routine, fino a quando, avanzando nella sala, vede il corpo devastato della moglie. Ha un moto di disgusto e indietreggia terrorizzato, poi le si butta vicino chiamandola, senza riuscire a toccarla. Forse faccio un lieve movimento o un respiro più profondo, perché nel mezzo del suo delirio quello si volta verso il mio angolo. Esco dall’ombra, senza dire nulla, senza fierezza per quello che ho fatto, ma nemmeno rimorso. “Chi sei? Cosa vuoi?” mi urla contro, senza controllo. Ma poi mi riconosce, glielo leggo sul viso che si trasforma nella maschera dell’assassino. Gli occhi gli si accendono con un guizzo familiare, indecente. Il corpo gli trema di sadica follia. “Tu? No!” si alza in piedi e indietreggia “Tu sei morta!”


Non riesce a smettere di fissare il mio volto, come se cercasse una spiegazione razionale. “Tu sei morto…” sussurro appena, perché non riesco ad agire. Forse ho paura di lui, anche se non ha senso. Non riesco a fare un passo, non so decidermi. Sento che è il mio momento, che è quello che devo fare, ma sono bloccata. Alla fine, ci pensa lui. Non so che spiegazione si sia dato. Sarà che il suo cervello è più abituato a reagire in situazioni di stress, rispetto al mio. Fatto sta che me lo ritrovo addosso, impugna un coltello a serramanico e me lo conficca nella trachea. Il dolore mi acceca, ma la paura si trasforma in rabbia. E la rabbia mi sveglia. Come una bestia mugghiante che viene dal profondo dell’inferno. Inizio a colpirlo anche io, a dimenarmi, a graffiare e strappare. Mi cola il suo sangue addosso e io insisto di più. Lui cerca di difendersi ma non ha scampo. Mi pugnala ancora, però, alla cieca. Riesco a togliermelo di dosso, a strappargli l’arma, e quello si accascia a terra. “Cosa sei?” sussurra appena, verso di me. Io non so rispondere. Dalle ferite mi cola un fluido nero grumoso, un misto di fango e terra che mi svuota il corpo e forma pozze nere come le tenebre. Senza più controllo, estasiata dalla mia superiorità, emetto un ringhio

ferale e mi scaglio contro di lui, pronta a dilaniarlo fino alla fine. “Commissario, abbiamo trovato i resti di almeno cinque persone, forse tutte ragazze, e molte altre ossa umane. Sarà difficile identificarle.” Il commissario annuisce verso il collega e poi guarda verso il campo, pieno di agenti e tecnici della scientifica. “Ah, il medico legale dice che il corpo della ragazza che abbiamo trovato per prima deve essere stato sepolto uno, massimo due giorni fa.” “Caldarelli, lei questa lettera come se la spiega?” Il commissario porge al collega la busta trasparente contenete la lettera ritrovata in casa dei coniugi Beschi. “La persona che l’ha scritta è la stessa che ha ucciso quei due e il contadino della baracca lassù?” “Visto che me lo chiede. Per me è stato un parente o un conoscente di una delle vittime. Ci ha scritto di guardare nel campo perché deve aver scoperto cosa nascondeva. È uno che ha deciso di farsi giustizia da solo. Probabilmente il vecchio Dondi aiutava il Beschi a lavorare la terra e tener lontano i curiosi. Io cercherei qualcuno con un grosso cane.” Il commissario annuisce nuovamente. “Quello che non mi spiego è tutto quel fango, a casa dei due.”

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S ka n Senza filtro

Non è il dolore, non è neppure la consapevolezza che qualcuno stia scavando dentro di te. Piuttosto è la vibrazione. Si propaga nelle ossa, annichilendoti l’anima. Come un terremoto, prende le mensole mai pulite del tuo essere e le scuote, riversando tutto a terra. Ricordi che tornano a galla e vanno in pezzi nel giro di pochi istanti. Solo le impronte dei soprammobili nella polvere a comporre il filo sottile che ancora ti unisce a ciò che eri stato fino a pochi istanti prima. Tuttavia, in tutta sincerità, chi ha il tempo di guardare quei segni scuri mentre una punta d’acciaio ti sta aprendo un buco nel corpo? Poi la vibrazione cessa, di colpo, come è cominciata. Il dolore... no, il vago fastidio di qualcosa che ti si intrufola dentro come un delicato amante, scompare insieme a essa. Silenzio. Davanti ai miei occhi qualcuno sistema un monitor. Gli vedo le mani, lunghe, affusolate, coperte di efelidi. Un volto fa capolino, così vicino che distinguo i peli rossicci della barba spuntargli dalle guance. Non mi degna di uno sguardo, sistema il monitor e scompare. Dolore. È arrivato senza preavviso alcuno. Quello vero. Non c'è niente di paragonabile a quello che ho provato per

quella frazione di secondo. Nessuna parola è in grado di descriverlo. Nessuna mente in grado di concepirlo. Quanto avrei voluto poter urlare. Non l'ho ancora elaborato, e già l'ho dimenticato. Di nuovo. È allo stesso tempo suono luce oscurità e forza. Prende tutto il mondo, cancella ogni pensiero, ogni ricordo, ogni frammento di me e mi riempie di sé. Non esisto più. Esiste solo lui. È più forte. Se può essere più forte qualcosa che già è al suo massimo. Poi scompare. Come è arrivato svanisce, lasciando solo il ricordo e un vago sentore di fastidio. Di nuovo. È così... Ancora. Dolore. Dolore. Forte. Basta! Dolore. Fa male! Smettetela! Dolore. Non ce la faccio più. Forte. Cosa vi ho fatto? Perché mi torturate così? Bastardi. Siate maledetti! Perché? Morite! Fottutissimi stronzi che non siete altro! #FUTTOSSIMI STRN CHON SEIEIETE AKRO# Davanti ai miei occhi appaiono, grigi sullo sfondo nero, caratteri seghettati. Che significa? #RE SIGNIFICA#

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Perché i miei pensieri appaiono su quel monitor? #PERCHE MIEI PENSIERIAPAIN OO L MONTOR# Non capisco. Sono frastornato, perso. I ricordi caduti dalle mensole riemergono cercando il loro posto, confrontandosi con le impronte lasciate. Ai bordi del monitor appaiono volti. È di nuovo quel ragazzo dalla barba morbida. Questa volta mi fissa negli occhi. Così vicino che posso distinguere quella strana macchia nelle iridi. Muove le labbra, ma non parla. Chi sei? #CHI 6# Scompare. > Riesci a leggere questo? #KUELLA FRAZE NON LHO PENATA IO# > Ciao Massimiliano. Come ti senti? #MI AVETE APENA TORTUTATO E MI CHIETETE COME MI LENTO?# > Scusami. > Pensavamo non sentissi niente. #HO SENTITO TUTO!# Forse è una mia impressione, ma #Stano dimminuendo.# > Cosa? #Gli erori. Stanno scomparendo.# > Autoapprendimento. Il tuo cercello usa il feedback del monitor per imparare a usare il dispositivo. #Dispositivo? Feedback? Di che parli?# > Volevo scrivere “cervello” scusa. #Non perdere tempo a correggerti. Spiega!#


#Ah, quello non volevo si leggesse.# #E neanche questo.# > Aspetta. Mi sento strano. #Qualsiasi pensiero compare su un monitor leggibile a tutti.# #È come se mi avessero violentato.# > Ascolta. Ascolto. Aspetto il prossimo messaggio sul monitor e, in quel momento non compare niente. #Eppure ho pensato.# #Non capisco come funziona.# > Qual è l'ultima cosa che ricordi? #L'ultima cosa che ricordo?# Frugo tra i miei ricordi. Rivedo il suo volto, le sue tette nelle mie mani. #Scopavo con Monica.# #No!# #Cancellate tutto!# > Ricordi l'incidente? #Quale incidente?# chiedo, ma, mentre formulo il pensiero, altre immagini si affacciano dalla mia memoria. > C'è stato un incidente. #Come sta mamma?# > Cosa ricordi? #Eravamo in auto, e un imbecille ci è venuto addosso. Stavo parlando con Monica. Come sta? La mamma ha girato di scatto. Lo abbiamo evitato e siamo tornati a casa.# #Credo.# #No.# Rivivo la luce dei fari dell'auto, mi acceca. Mi fanno male gli occhi. > Non lo avete evitato. C'è stato un incidente frontale. Lentamente la verità si fa strada nella mia mente. #La

mamma?# Chiedo, ma la risposta mi giunge da qualche angolo remoto. #Perché non rispondete?# Non ci voglio pensare. Scaccio la risposta, ma essa compare davanti ai miei occhi. #Morta.# #No! Non è vero!# #Ditemi che non è vero.# #Dite qualcosa.# #Qualsiasi cosa.# > Max, sono Papà. #Papà?# #Cosa ci fai qui?# #No! Volevo dire.# > La mamma è morta. Silenzio. Per la prima volta lo sento, il suono del silenzio. Nella mia mente non c'è altro. Ho voglia di piangere, ma gli occhi non si muovono, non ho né palpebre né lacrime. Il monitor si sfoca. Mi rendo conto che frasi stanno passando su di esso, ma non riesco più a leggerle né voglio farlo. Non mi importa più. Passano ore, giorni, o solo minuti? Non lo so. Perché non mettete un orologio su questo monitor? A che mi serve? Sogno. Parlo con la mamma, parlo con Monica, parlo da solo. Sul monitor è apparso un orologio, ma c'è qualcosa che non va. #I secondi vanno troppo lenti.# Vedo solo le ultime frasi. #Non ricordo cosa ho pensato prima. Chissà se è tutto apparso.# > Leggi? #A quanto pare c'è ancora qualcuno.#

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#Sarà quel ragazzo che ho visto prima?# > Sì. #Cosa mi è successo?# > Credo... ti sei addormentato. #Ma sei idiota?# #Ecco, l'ho fatto di nuovo. Scusa.# > Non è colpa tua. > Quello che pensi viene monitorato, elaborato e trasformato in testo.. #Non me ne frega un cazzo.# #La mamma è veramente morta?# > Vuoi parlare con tuo padre? #No, idiota. Rispondimi e basta!# > Sì. #No.# > È così. Mi dispiace. #Già. Non la conoscevi neanche.# #E l'ho fatto di nuovo.# #Ma chi se ne fotte. La mamma è morta. Se vuoi leggere i miei pensieri, eccoteli!# #Sono tutto incluso, prendere o lasciare.# > Prendo. #Fa pure il simpatico questo stronzo.# > Non fraintendermi. #Spiegami che è successo.# > Dopo l'incidente, sei rimasto in coma per tre anni. #Tre anni? Non è possibile!# > C'erano letture nell'encefalogramma, ma non riuscivano a svegliarti. > Il mio professore ha sviluppato questo dispositivo. > Sei il primo a cui lo applichiamo. #Quindi sono un esperimento.# #Un topo di laboratorio.# > Tuo padre ha accettato l'ope-


razione. #Come sempre.# #Decide tutto lui.# > Non avevamo modo di contattarti. #Resterò così per sempre?# > Non lo sappiamo. #Non lo sapete?# #Dopo tre anni non lo sapete?# > Fino a poco fa non sapevamo neanche se stessi pensando. > O se fossi in grado di leggere il monitor. #Un salto nel buio.# #Sento puzza di ospedale.# #E Monica?# #Rimarrò così per sempre?# #Se rimango così per sempre che farò?# #Ciao. Sono Max, il ragazzo solo pensiero. Tu chi sei? Guarda che se ti insulto è solo perché lo penso. Perché non posso non dire quel che penso.# #Naturalmente non era per te.# > Lo so. #Non so neanche come ti chiami.# > Marcomannaria Lorenatti. > Ma va bene anche Mark. #Ma che nome è Marcomannaria?# #È proprio brutto.# #Magari i tuoi pensavano di farti un bello scherzetto.# Rimango in attesa di una risposta, poi mi distraggo. #Chissà se ha sofferto.# Per un attimo rivedo la nostra cucina, la mamma concentrata ai fornelli, io che guardo la televisione. #Tre anni.# Ero piccolo, la televisione talmente grande da diventare un mondo a parte, e la mamma che mi diceva di non stare così vicino.

#Non è giusto.# Poi me ne rendo conto. #Mark, ci sei ancora?# #Ti sei offeso?# > No, scusa. C'è tuo padre. #Papà?# > Ciao Max. #Non potevi fare a meno di chiamare?# #Mamma si è distratta perché il telefono ha suonato.# > Non potevo saperlo. #Cosa volevi?# > Non lo ricordo più. #Scusa.# #Quella stupida macchina.# #Che ci sono andato a fare a quegli allenamenti?# #Non potevo restarmene a casa?# #Dovevi accompagnarmi tu.# #Non sarebbe morta se mi avessi accompagnato tu.# Ripercorro più volte la giornata. Quante piccole azioni avrebbero potuto essere fatte diversamente. Quanto sarebbe stato facile evitare quell'incidente. Se papà non avesse fatto tardi in ufficio. Se Monica non mi avesse chiamato. Se la macchina non avesse avuto quel problema alla marmitta. Se la cena non fosse stata in forno. Metto di nuovo a fuoco lo schermo, pieno dei miei pensieri. #Mi faccio schifo per averli pensati.# #Perché non mi risponde nessuno?# #Papà?# > Se ne è andato. #Mark?# > Sì. #Perché?# #È per quello che ho pensato, vero?# > Credo di sì. > Sei stato duro con lui.

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#Non ci posso fare niente. Sono i miei pensieri.# #Metteteci un fottuto filtro.# > Non possiamo. #Perché?# > Per come funziona il dispositivo. > Rileviamo il funzionamento nell'area della parola. Prendiamo tutto quello che è una frase coerente. > Non siamo in grado di distinguere i pensieri che vorresti trasmettere e quelli che vuoi nascondere. Solo tra pensieri coerenti e non coerenti. Non lo capisco bene e non mi importa. #Odio quella macchina.# #Spegnetela.# > Non posso. > Se la spengo dovrai riaddestrarla da capo. > Non memorizza le impostazioni. #Non capisco un cazzo di quello che dici. Spegnila!# > Spengo il monitor se vuoi. #No, spegni tutto.# > Così non potrai più comunicare. #Me ne sbatto! Spegnila!# Inutile: i caratteri non sono in grado di mostrare la mia rabbia. > Facciamo così: spengo qualche ora, così puoi dormire un po'. #Va bene.# > A domani. #Fottiti.# Il volto di Mark riappare nel mio campo visivo. Spegne il monitor e lo sposta. Chissà se ancora mi leggono? Se mi leggete sappiate che siete dei fottutissimi bastardi. Guardo il soffitto, neutro. Non ho niente da vedere. Provo a muovere gli occhi, ma non cambia


niente: riesco a vedere solo il soffitto, bianco e omogeneo. La luce si abbassa. Vedo delle ombre passare. Una mano mi passa sopra le palpebre. Non chiudetemi gli occhi, cazzo! Per un attimo è buio, poi torno a vedere. Allora mi leggete, stronzi! Andatevene, lasciatemi solo. Guardo il soffitto per un po', poi mi distraggo. Appaiono immagini come flash, che si confondono e si intrecciano. Diventano fluide. Sogno. Un attimo dopo è giorno, lo vedo dal colore del soffitto. Chissà se quella macchina può leggere anche i sogni? C'è un volto, una donna anziana, i capelli bianchi, il velo da suora. Mi chiude gli occhi per un po', poi me li riapre. Mi sorride, vedo che ha in mano una spugna. È ovvio: qualcuno deve pur lavarmi. La visuale si sposta un po'. Mi ha girato la testa? Intravvedo lo schermo dove lo aveva spostato Mark. Le righe scorrono verso l'alto. #Avete continuato a registrare tutta la notte?# La mia rabbia monta, sempre più forte. #Allora? Volete rispondermi?# #A che serve avere una macchina che ti violenta la mente se nessuno legge?# > Nessuno ha letto niente. #Chi se ne fotte.# > Ti serve qualcosa? #Sì: ammazzatemi.# Aspetto di leggere la reazione, ma niente. #Allora?# > Sei sicuro? > Potresti ancora guarire. #Posso guarire? Ma che cazzo dici?# > Può succedere. Niente è perdu-

to. #Oh, sì: domani mattina mi sveglio e ricomincio a camminare, come se niente fosse.# #Certo.# #Come no.# #E magari vedrò anche tanti asinelli svolazzare nel cielo.# > Non porre limiti alla grazia divina. #A Mark ha dato di volta il cervello.# > Scusa Massimiliano, non mi sono presentata. > Sono Sorella Luciana. #La suora.# > Sì. #Anche le suore sanno usare un computer adesso?# > Devi affidarti alla volontà di Dio. #È stato il tuo fottutissimo dio a mettermi qui!# > No, quella è opera del diavolo. Dio ti ama. #Se mi amasse, mi avrebbe fatto morire insieme alla mamma!# > Il signore perdonerà queste tue parole. #Vattene! Non voglio sentir parlare del tuo dio e di tutte queste stronzate.# #Vattene!# > Ascolta la Sua voce figliolo. #Vuoi andartene vecchia bagascia?# #Mark buttala fuori!# #Dille che del suo dio non so che farmene!# #Può ridarmi la mamma?# #No!# #Mandala via!# #Se potessi la prenderei a calci!# > Calmati, Max. Sono Mark. Sorella Luciana se ne è andata. #Bene.# #Bene.#

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#Che succede?# Gli occhi mi si appannano. > Qualcosa non va? #Non riesco più a leggere.# > Stai piangendo. Un secondo dopo un fazzoletto fa scivolare via le lacrime dagli occhi. #Posso piangere?# > Sì. Sfogati pure se vuoi. #Lasciami solo.# > Torno tra qualche minuto. #Così posso piangere?# #Allora perché non ci riesco?# Il monitor resta fermo, mentre la mia mente si svuota. Appaiono immagini, ricordi. #Questi non riuscite a leggerli, vero?# Passano i secondi. Lenti, lentissimi. Non riesco a piangere, ma mi calmo. Ritorna la tristezza, la voglia di morire. #In fondo che vita è questa?# Passano le ore. Mark dovrebbe studiare, ma passa il tempo a scrivere. Progetta dei comandi, sequenze di parole che fanno fare qualcosa al computer. Penso “suono chiama” e il computer chiede a qualcuno di stare attento ai miei pensieri. Posso scorrere in su e in giù il monitor, così posso leggere i miei pensieri. Provo a farlo, ma non ci riesco. Mi faccio schifo. > Posso collegarti a internet. #Così tutto il mondo può leggere quello che penso? Non ci provare.# > Vuoi leggere qualcosa? #Cos'hai?# > Posso caricare tutti i libri che vuoi. > Dobbiamo solo programmare i comandi per controllare la lettura.


#Pare che ti stia divertendo.# > Un po', lo ammetto. > Ci ho creduto in questo progetto. > È più di una tesi. #Felice di esserti stato utile.# #Chissà se si capisce che sono sarcastico.# #Oh, be', ora è evidente.# > :) #E ti metti a fare anche le faccine! Ma mi prendi in giro?# Inizio da “Piccole donne”. Non so perché proprio con quello. Ricordo che mamma me lo leggeva la notte, un capitolo a sera finché non mi addormentavo. Appena finito passava a “Pinocchio” e poi “Il giardino segreto”. Mark li ha caricati tutti e tre, oltre a tutti gli altri classici. Ora sta caricando qualcosa di più recente. Finito di leggere il primo capitolo, avevo una varietà di scelta che mi sarebbe bastata per il resto della vita. Mi rendo conto che potrebbe non essere un eufemismo. Magari potrei mettermi a scrivere. Farei un sacco di soldi: il libro scritto dal ragazzo in coma. Un bestseller mondiale. Dopo un paio di capitoli, non devo neanche scorrere avanti con i comandi che mi ha dato Mark: la macchinetta infernale segue quello che leggo e mi tiene il segno. Comodo. > C'è tuo padre. #Chiedigli scusa per ieri.# > Max, sono io. #Ciao.# #Non è che ho molta voglia di parlargli.# > Preferivi Piccole donne?

#L'ho finito.# #Non è questo.# #Non volevo pensarle quelle cose.# #Ma le penso. Non posso farci niente.# #Lo so che non è colpa tua.# #Però avresti dovuto portarmi tu.# #Sto ricominciando da capo. Voglio pensare ad altro.# #Che ti hanno detto? Guarirò?# > Certo che sì. #Stai mentendo.# #Non è giusto. Io non posso farlo.# Un volto appare al lato del monitor. #Monica!# #Mi chiedevo che fine avessi fatto.# #Quanto ti sta male la frangetta. Sembri un cavernicolo.# #Hai qualcosa di strano. Sei cambiata.# > Sii gentile. #Non posso farne a meno.# #Che hai fatto in questi anni?# #Ne hai trovato un altro? Quello non è l'anello che ti ho regalato io.# > Sì. > Con Michele. #Così mi distraggo un attimo e quello mi ruba la ragazza?# > Sono passati tre anni! > Michele mi è stato vicino quando tu... #Quanto ci hai messo per fartelo?# > Smettila. #Se non vuoi leggermi vattene.# #O ammazzatemi.# #Io non posso smettere di pensare.# #Ti credevo un amico.# #Magari aspettavi solo che mi fa-

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cessi da parte.# #Non potevo pretendere che mi aspettasse per sempre.# #Ma proprio con Michele?# > Se ne sono andati via tutti. #Papà?# > No, sono Mark. #Perché sei rimasto?# > Vuoi che me ne vada anche io? #Fai come vuoi.# #No. Resta.# #Non voglio restare di nuovo solo.# > Resto. #Monica si è offesa?# #Certo, come può essere altrimenti?# #Allora?# > Dipende da cosa intendi per offesa. #Spiritoso.# > Non lo so. Credo di sì. Non ne parliamo più. Inizio a raccontare a ruota libera qualsiasi cosa mi viene in mente. Non controllo neanche che stia leggendo. Ogni tanto appare il simbolo del maggiore, a farmi capire che è ancora lì. Le ombre coprono il soffitto e la luce bianca del neon prende il posto della sera. Sono le tre del mattino quando mi accorgo che Mark non mi dà più segni di vita. #Se ne è andato senza salutarmi.# > Ciao Max. > Sono sorella Luciana. #È tornata?# > Marco è andato a prendersi un caffè. Si era addormentato sulla tastiera. #Quindi non se ne era andato?# > No. > Sei stato fortunato ad aver incontrato uno come lui.


#Non parlarmi di fortuna.# #Non parlarmi di dio.# #Non parlarmi e basta.# C'è un momento di stallo. Aspetto la risposta che non arriva. > Va bene. > Ma se vuoi parlare, sono qui. #Non voglio parlare.# #Non ho niente da dire.# Sento la spugna sul volto e sul collo. Poi più niente. #Non sento il mio corpo.# Ecco che mi sposta di nuovo, me ne accorgo perché cambia la visuale. Sento appena le mani sotto la mia testa. #Non sento quando mi sposta.# #Non sento niente dal collo in giù.# #E sono sordo.# #Non è il mio cervello a non funzionare. È il mio corpo.# #Non è vero?# > Non perdere la speranza. #La fai facile tu.# #Non ci sei tu su questo letto.# > No. Ma ci sono molti ragazzi che ci sono finiti. Molti di loro si sono rialzati. > Non importa quanto tempo ci vuole. Se non perdi la speranza, tutto è possibile. #E chi non si rialza?# #Non aveva sperato abbastanza?# #Non mi prenda in giro.# > No. Ma chi non ha sperato non si è rialzato. #Passi alle minacce?# > Non era mia intenzione. #Smettila.# #Finisci con quella cazzo di spugna e vattene.# Quello è l'ultimo evento degno di nota per giorni. La mattina passa la suora e mi lava. A volte se ne va senza scrivere niente. Altre cerca di mantenere viva la speranza, ma io non voglio sentire.

Spesso inizio a insultarla preventivamente, altre la lascio fare. Ci sono giorni in cui sono abbastanza calmo da ringraziarla. Mio padre passa ogni tanto, e quelli sono i momenti peggiori. Non riesco a trattenere i miei pensieri e finisce sempre che lo offendo. Cerco di chiedergli scusa ma è anche peggio. Però continua a passare e mi chiedo perché. Monica non l'ho più vista. So che è domenica quando arrivano parenti o amici che non vedevo da anni prima dell'incidente e che non vedrò mai più. Mi dedicano pochi – ipocriti – minuti e se ne vanno. Intanto le parole dei libri scorrono ritmiche in questa noia uniforme, dall'incipit alla conclusione. #Elenco libri.# penso ed appaiono tutti i titoli che ancora non ho letto. Lo scorro, ma non c'è niente che attiri la mia attenzione. #Quando arriva Mark?# > Eccomi. Ero andato un attimo in bagno. #Vuoi dire che eri qui già da un po'? Perché non me l'hai detto?# #Ah, ovvio: non vuoi ascoltare i miei insulti.# > No. > È solo che, quando leggi, non so mai se ti disturbo. #Do questa impressione, vero?# > Aspetto volentieri. #Non dire stronzate.# #Nessuno vuole più parlare con me.# > Non è vero. #Non sono un idiota!# #Papà e tutti gli altri. Arrivano salutano e se ne vanno.# #Non posso dargli torto.# #Te ne andresti anche tu, se non

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fosse per la tesi.# > L'ho finita. #L'hai finita? La tesi? Di già?# > Mi laureerò il mese prossimo. #Allora perché continui a tornare.# > Perché ti chiedi sempre quando arrivo. #Sempre?# > Sei abbastanza ciclico nei tuoi pensieri. :) #Lo sai che odio le faccine.# #Mi pare un motivo idiota.# > Lo so. > E, lo so, ma non me ne frega niente. Per me è un motivo valido. Quindi dovrai sopportarmi ancora per un po'. > Me e le mie faccine. #Aspetta che mi alzo e te le infilo in culo le faccine.# #Dico solo cattiverie.# > No: sei solo sincero. #Sono uno stronzo.# #Merito di essere lasciato solo.# > No e smettila di autocommiserarti. > Dimmi che sono un idiota. > Dammi dello stronzo perché uso le faccine > o perché non ti sistemo la testa come vorresti > insultami > ma, cazzo, smettila di autocommiserarti! Sono basito. Il monitor aspetta un mio pensiero. #Il roscio ha tirato fuori le palle.# #Mi piace.# #Sparami la manina di facebook e giuro che stavolta mi alzo e non la passi liscia.# C'è una sensazione nuova, dimenticata da tempo. Un suono. Gli occhi mi si appannano di lacrime. #Ho sentito la tua risata.#


S ka n Trappola di carne

Non è il dolore, non è neppure la consapevolezza che qualcuno stia scavando dentro di te. Piuttosto è la vibrazione. Si propaga nelle ossa, annichilendoti l’anima. Come un terremoto, prende le mensole mai pulite del tuo essere e le scuote, riversando tutto a terra. Ricordi che tornano a galla e vanno in pezzi nel giro di pochi istanti. Solo le impronte dei soprammobili nella polvere a comporre il filo sottile che ancora ti unisce a ciò che eri stato fino a pochi istanti prima. Tuttavia, in tutta sincerità, chi ha il tempo di guardare a quei segni scuri mentre una punta d’acciaio ti sta aprendo un buco nel corpo?

Vorresti provare a lottare, anche solo per sfogare il dolore che provi, ma più la sonda penetra nella carne, più la tua volontà si affievolisce. Gli assalitori, ormai, non hanno quasi più bisogno di tenerti fermo. -Presto: ci sono ancora altre sonde da inserire.- senti dire alle tue spalle. –E lei, dottore, si sbrighi: dobbiamo agganciare il supporto vitale dell’Inquisitore prima che l’effetto degli inibitori svanisca. La carne pizzica, traforata da decine di aghi piantati in profondità. Non puoi girare il collo, quindi non ne sei sicu-

ro, ma l’impressione è che ogni ago sia il terminale di un cavo della maledetta macchina che stanno montano sulla carne. Riflessione di breve durata: altre tre punte d’acciaio si fanno strada tra le ossa, inchiodando il cranio, le mani e i piedi alla grottesca struttura metallica. Urli, stavolta ci riesci, un lungo ruggito distorto che ti svuota i polmoni. Un istante dopo, percepisci lo schianto dell’ultimo diaframma osseo della tua testa e il vorticare furioso della punta che ti penetra nel cervello. Un’ultima, straziante, ondata di dolore che ti scaglia nell’incoscienza e pone fine al tuo tormento. *** Apri gli occhi, ti guardi attorno per quanto possibile. Non sei più nella casa dei Romero: attorno a te solo specchi e macchine di cui non comprendi la natura. La furia monta nell’anima nera. Pensieri oscuri ti scuotono, vogliono oltrepassare i limiti del tuo ospite. Ma una spia rossa si accende su una delle macchine e qualcosa prende a bruciare nel profondo della tua coscienza. Il dolore scaccia via la rabbia e ti lascia nuovamente esausto. È solo in quel momento che ti accorgi che uno degli specchi si è mosso e che un uomo ti sta osservando. -Ben sveglia, piccola Susy.dice, allontanando la sigaretta dalle labbra. –O forse dovrei

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dire, ben sveglio, demone Magog. Lo osservi a tua volta: alto, brizzolato, il labbro appena decorato da dei baffi ben curati… non lo hai mai visto prima, né compare nei ricordi della tua vittima. In ogni caso, l’abito elegante che indossa ti fa intuire che devi essere ben lontano dal tugurio di periferia dove sei stato aggredito. -Chi sei, uomo? La tua voce è ancora debole, riflesso più di quella dell’ospite, che della tua maestà. L’uomo alza le spalle. -La vera domanda è chi sei tu, Magog.- dice, avvicinandosi di qualche passo. –L’unica risposta possibile al momento è “un gran colpo di fortuna per me e per gli interessi che rappresento”. In altre situazioni l’espressione di cupidigia dipinta sul suo volto sarebbe stata la tua gioia. Ora la linea di quel sorriso suscita in te emozioni incontrate spesso, ma che non hai mai provato prima. Paura, inquietudine, sofferenza. -Non è la prima volta che ci troviamo a lavorare con elementi che qualcuno definirebbe “parascientifici”, ma la tua presenza in questi laboratori… questo si che è un evento…- Si fa ancora più vicino, la mano passa lentamente dalla fronte al collo: il desiderio di morderlo sorge spontaneo nel momento stesso in cui si avvicina alla


bocca, ma una nuova scarica di dolore ti priva anche di questa soddisfazione. -Il semplice fatto che l’Inquisitore reagisca con te nel modo in cui speravamo è già di per sé un successo. Non oso nemmeno immaginare alle domande che troveranno risposta grazie a te. Se poi penso ai guadagni che ne ricaveremo… -Tutto il dolore che mi infliggi, non è nulla in confronto a quello che sta provando questa bambina. Sei davvero sicuro di voler fare questo gioco?- Lo spazio di manovra è poco, ma riesci comunque ad aprire uno spiraglio, più che sufficiente per permettere alla piccola Susy Romero di lanciare il suo grido d’aiuto. -La prego, mi salvi! Fa freddo qui e ho paura! Quante volte hai usato questo trucco? Persino gli esorcisti più incalliti non possono fare a meno di rabbrividire quando percepiscono la sofferenza delle tue vittime. Ma l’uomo davanti a te è diverso: il sorriso delle sue labbra si allarga a dismisura, poi scoppia a ridere. -Credi davvero di convincermi con una simile pagliacciata? Avanti, Magog, non credevo che anche i diavoli potessero essere patetici.- Aspira dalla sigaretta, poi ti soffia in faccia una lunga nuvola di fumo. La sua voce trasuda disprezzo. –Abbiamo comprato Susy Romero dai suoi genitori per un tozzo di pane. Immagino che fosse il metodo più comodo per disfarsi di una figlia posseduta. Toglie la sigaretta dalle labbra e l’avvicina alla tua fronte. Ne-

gli occhi brilla una scintilla divertita, poi spegne la brace tra i tuoi occhi. -Ora questa bambina è di nostra proprietà e con essa tutto che contiene.- dice, affondando la sigaretta nella tua pelle fino a strapparti un gemito. –Perciò, lascia pure che la bambini partecipi alle nostre sedute. Fino a quando l’Inquisitore sarà montato nella sua carne, tu non avrai possibilità di scappare. Rabbrividisci: solo in questo momento ti rendi conto di essere bloccato nel tuo ospite. Catene invisibili ti legano a quel corpo che avevi scelto per portare ancora una volta terrore tra i viventi. -Pagherai per questo, uomo!ringhi, recuperando la tua voce per quanto possibile. –Ti strapperò l’anima dal corpo e la scaglierò nelle bolge più profonde dell’Abisso! La tua eternità sarà pianto e stridore di denti! Ancora una volta, il tuo interlocutore scoppia a ridere. -Oh, avanti: posso accettare che esistano i diavoli e persino che da qualche parte ci sia l’Inferno, ma l’anima non è altro che una frottola da preti. Se cominciassi a credere a simili sciocchezze, dovrei persino cominciare a preoccuparmi di Dio. *** Il Dottore si schiarisce la voce, controlla che la spia della telecamera sia accesa, poi comincia a parlare. -Allora, questo è il video del test 61.6 sul soggetto 66 ed è il Dottor M. a registrare.- dice, la

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vanità che filtra tra l’apparente distacco professionale. –Nei giorni scorsi abbiamo provato a testare le reazioni del parassita e del corpo ospite una volta sottoposti a calore o freddo intensi. I risultati sono stati molto diversi da quelli attesi, soprattutto paragonandoli con quelli ottenuti da altri soggetti extradimensionali già esaminati in passato. Per questo, abbiamo deciso di implementare l’esame di oggi sulla reazione al danno fisico con alcune aggiunte tratte dalla tradizione culturale più antica. Fa un cenno a un suo assistente, che gli porge il bisturi: la mano comincia a scendere lungo il tuo addome, fredda come e più della tua anima. Sai già cosa ti aspetta, ma questo non lo rende meno terribile. ¬-Ora effettuiamo un’incisione di prova qui, in corrispondenza del ventre del soggetto ospite. Il bisturi si appoggia delicatamente sulla pelle, poi affonda e comincia il suo lavoro spietato. Vorresti urlare, ma l’Inquisitore ora è tarato in modo da privarti anche di questo lusso. Probabilmente, il Dottore e la sua equipe non sopportavano le grida e le bestemmie con cui rispondevi ai loro esperimenti. -Ecco, come potete vedere ho praticato un taglio irregolare dallo sterno fin quasi all’inguine,- dice, sollevando la piccola lama a mezz’aria, -ora, se quanto visto nei test precedenti è confermato dovrebbe cominciare a… ecco, sta succedendo! Avvicina il dito alla ferita e si


volta a fissare la telecamera. Il tuo unico desiderio, ora, sarebbe quello di strappargli a morsi quelle mani così accurate. -Come potete vedere, la ferita si sta rimarginando a velocità sbalorditiva, lasciando solo una scia irregolare, più scura di quanto ci si potrebbe aspettare da una normale cicatrice. Dopo il test sulle ustioni di secondo e terzo grado numero 87.3, abbiamo provveduto a prelevare un campione di questa materia di rimpiazzo e abbiamo scoperto che si tratta di cellule tumorali di tipo mai visto prima. Il Professor K. ritiene che sia segno dell’incapacità del parassita di ricreate perfettamente le funzioni dell’ospite. La dirigenza si è interessata a questo particolare e ci ha detto di intensificare le ricerche: a detta loro, le possibili implicazioni in campo medico e produttivo di queste cellule potrebbero essere illimitate. Abbassa lo sguardo e ti osserva. Dietro la mascherina compare l’odioso sorriso che hai imparato a riconoscere: l’idiota è convinto di possedere un certo senso dell’umorismo e non perde occasione per farne sfoggio. -Capisci, amico? Le tue capacità potrebbero fruttarci una vagonata di soldi. Diamine, potrebbero rendere anche più delle pillole per la ricrescita rapida dei capelli che abbiamo ottenuto dalla pelle dei licantropi! Sarebbero ben altre le capacità che vorresti avere a disposizio-

ne in questo momento. Anche solo una mano libera e la testa del Dottore sufficientemente vicina da poter sentire la melodia del suo cranio che si schianta… l’Inquisitore intuisce i tuoi pensieri ostili e fa scattare una scarica di dolore che ti frigge la mente per qualche istante. Il Dottor M. si accorge della spia accesa e comprende che la sua battuta non è stata particolarmente gradita. Sembra quasi offeso. -Benissimo: ora passiamo alla seconda parte del test: esame della capacità rigenerativa in presenza di sostanze corrosive.prende due contagocce che il suo assistente gli passa e li mostra alla telecamera. –Quello nella mia destra contiene acido solforico, una delle sostanze più corrosive conosciute. Di quello alla mia sinistra, invece, ne parleremo dopo. Sposta gli occhi sul tuo corpo, poi indica all’operatore il polpaccio destro. -Facciamo una prova su un punto ancora libero da cicatrici e dagli innesti dell’Inquisitore. Avvicina il contagocce al punto designato e preme leggermente: una goccia di acido cade e comincia a sfrigolare sulla carne, sciogliendo la pelle e facendosi strada nel muscolo sottostante. Il Dottor M. spia la tua reazione, apparentemente soddisfatto dal dolore e dall’odio che legge nel tuo sguardo. Nonostante tutte le limitazioni che l’Inquisitore può importi, nessuno ha mai ritenuto necessario inibire le tue sensazioni tattili o anestetizzarti in qualche modo du-

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rante i test. -Come vedete, il processo di rigenerazione è rallentato dalla forte capacità corrosiva dell’acido. Rallentata, ma non eliminata. Confrontando le registrazioni di questo test con i risultati ottenuti in precedenza, forse potrei anche stabilire una relazione tra l’entità della ferita e la rapidità con cui si generano le cellule tumorali. Posa il contagocce vuoto e comincia a cercare un punto adatto dove svuotare l’altro. Non c’è acido lì, l’odore che senti è troppo diverso. È qualcosa che hai già sentito ma che non suscita buoni ricordi. Quando riesci a capire di cosa si tratta, il Dottore non ti lascia nemmeno il tempo di avere paura. La frustata travolge la tua mente come nemmeno l’Inquisitore è mai stato in grado di fare, un dolore talmente intenso da farti quasi schizzare gli occhi fuiori dalle orbite per la tensione. -Acqua. Semplice e innocua acqua benedetta.- dice il Dottor M., svuotando ciò che resta del liquido del contagocce sulla pelle del proprio polso. –Cioè, innocua per chiunque, tranne che per il nostro beniamino. Nel suo caso, come si può vedere, ha un effetto ben più catastrofico dello stesso acido. Ed è vero. Persino nella tua immobilità puoi vedere l’ustione che si allarga sulla coscia senza voler dar cenno di arrestarsi, -La cosa straordinaria è che non si riesce a trovar alcun se-


gno di attività rigenerativa.Il Dottore pianta l’indice vicino alle ferita in allargamento. –Questo potrebbe essere una prova ulteriore delle teorie del Professor K. sui limiti di questo genere di parassita, che non solo non è in grado di ricreare perfettamente le funzioni dell’ospite, ma arriva a “contaminarlo” trasferendogli le proprie vulnerabilità innate. Scrolla le spalle, poi fa un cenno a uno dei suoi assistenti, che comincia a pulire la ferita. -Questi video e gli altri risultati del test verranno consegnati agli altri esperti per ulteriori confronti. Per oggi, direi che abbiamo terminato.- Si volta verso di te e sorride di nuovo. –Riprese per il test concluse. Fa un bel sorriso per la telecamera, amico. *** Sei sdraiato su un lettino in una stanza dove non ti hanno mai portato prima. Ti senti strano, più leggero. Anche il formicolio che attraversa il tuo corpo è diverso dalle sensazioni che solitamente provi. Provi a muovere un braccio e quello, inaspettatamente, obbedisce al tuo comando. Quasi non riesci a crederci: muovi l’altro braccio, poi le gambe, infine ti metti seduto. In tutti gli anni della tua prigionia, questa è la prima volta che ti è permesso di fare dei movimenti autonomi. Un sorriso compare sponta-

neo sul tuo volto. Nelle mani senti già di stringere i teschi degli aguzzini che in ogni modo hanno umiliato la tua maestà, la tua bocca pregusta già il sapore del loro sangue, immagini il rumore delle ossa schiantate e delle urla… l’Inquisitore si attiva, i muscoli sfuggono di nuovo al tuo controllo e il tuo corpo crolla a terra. Il messaggio è chiaro: tu se la cavia, loro i tuoi burattinai. Non è cambiato nulla. Dopo qualche minuto, il blocco viene rimosso e ti viene permesso di rialzarti in piedi. Ti vedi riflesso nelle vetrate a specchio della stanza e hai la seconda sorpresa della giornata. Nel corso degli anni i tuoi aguzzini hanno lavorato molto sull’Inquisitore che ti tiene prigioniero, lo hanno migliorato e lo hanno mantenuto aggiornato con lo sviluppo delle loro ricerche. La struttura, però, è rimasta sostanzialmente la stessa, un grosso macchinario coperto d’acciaio, ancorato al corpo ospite da quattro sonde metalliche e da decine di aghi sparsi sulla pelle. Il nuovo modello, invece, copre la spina dorsale e il cranio con una serie di piccole placche metalliche che non ostacolano i movimenti. D’istinto, alzi il braccio e provi a toccarle. “No.” La mano si blocca a mezz’aria: hai sentito una vo-

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ce, ma non riesci a capirne la provenienza. Nella stanza non c’è nessun altro e non ti sembra di vedere altoparlanti o dispositivi di diffusione sonora. Un altro rumore alle tue spalle interrompe le riflessioni: tra gli specchi si è spalancata una porta invisibile e una strana creatura ti sta guardando in silenzio. È una sorta di gorilla deforme, molto più grosso del normale e con il pelo di colore bianco sporco. Snuda le zanne della bocca enorme e fa qualche passo avanti. Sulla schiena porta un dispositivo molto simile al tuo Inquisitore. “Uccidi.” Ti guardi attorno. Vorresti avere il tempo di capire da dove provenga quella voce, ma non riesci più a controllare i tuoi pensieri. Una furia inspiegabile copre ogni altra emozione, come se l’odio da tanti anni represso dall’Inquisitore avesse finalmente trovato un canale da cui erompere. Il tuo corpo comincia a tremare e la vista si copre di un velo rosso: quello che hai davanti non è più un mostro sconosciuto, un abominio figlio delle tue stesse tenebre. Davanti a te c’è l’uomo con l’abito elegante, il Dottor M., il Professor K., gli occultisti e gli scienziati che per anni ti hanno torturato per portare avanti le loro ricerche. Davanti a te c’è il tuo bersaglio.


“Uccidi! Uccidi!” La voce misteriosa quasi non fa in tempo a ripetertelo, che tu già sei partito all’attacco, ululando contro il tuo avversario tutta la gioia del tuo odio. Il braccio peloso del mostro cala i suoi artigli, ma riesce nemmeno a sfiorarti. Il pugno che arriva in risposta non manca il bersaglio e abbatte sul suo muso la forza dei posseduti. Una zanna più grossa del polso del tuo ospite salta via e il gorilla crolla a terra. Un secondo pugno affonda nel suo ventre prima che abbia il tempo di riprendersi, mentre un terzo strappa via dal muso insanguinato altri denti e l’occhio destro. Il rumore delle ossa che si schiantano, il sapore del sangue sulla lingua, l’odore intenso della paura… è la furia delle Legioni nere quella che si risveglia in te, l’oscurità che la lunga prigionia può aver umiliato, ma non sconfitto. Stringi il collo del mostro tra le mani, ne percepisci il respiro strozzato e lo scricchiolio delle vertebre. Vuoi staccargli la testa, vuoi alzarla in segno di trionfo e sentire il sangue caldo suo tuo volto. Poi una strana sensazione di calma ti invade e le braccia perdono ogni vigore omicida. “Lascialo andare.” La voce misteriosa spazza via la furia dalla tua mente come una folata di vento porterebbe

via le foglie degli alberi. Resta solo il vuoto, una gelida apatia che nulla ha a che vedere con la tua natura. Vedi l’unico occhio del tuo avversario scintillare in modo diabolico e ti rendi conto di essere perduto prima ancora che le sue zanne ti squarcino il collo. È debole, probabilmente quelle sono le ultime forze che gli restano, ma sono più che sufficienti per far scempio del corpo ospite. Vendica ogni osso rotto, ogni membra squarciata ogni vena recisa con violenza. Quando crolla in una pozza di sangue, ciò che resta di te non è che un ammasso purulento, una carcassa che persino la rigenerazione fatica a ricomporre. Paradossalmente, è l’Inquisitore a tenere insieme i pezzi rimasti. “Test superato .” fa la voce nella tua mente, stavolta con l’inconfondibile pronuncia del Dottor M. “Spero che tu sia contento, Magog: ora sai anche tu cosa si prova a essere posseduti.” *** L’uomo ti osserva, poi si accende una sigaretta. -Siamo nella stessa stanza, nelle stesse posizioni e io indosso persino lo stesso abito.- dice, sbuffando una nuvoletta di fumo –Non so te, Magog, ma ho una certa sensazione di Déjà vu. Ti mantieni quanto più calmo possibile: negli anni, hai imparato a nascondere il tuo odio persino a te stesso, pur

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di evitare le continue sanzioni dell’Inquisitore. L’uomo sospira. -Sai, non ero tenuto a venire qui. L’ultima cosa che un dirigente pensa di fare di solito è andare a dare un’occhiata alle cavie nei laboratori. Però sei con noi da così tanti anni che mi sono sentito in dovere di passare a farti una visita. Purtroppo, le esigenze del mercato sono mutate e abbiamo deciso di spostare i fondi verso altre ricerche. Questo implica che non abbiamo più bisogno di te. Non riesci a spiegartene la ragione, ma la notizia si suona quasi divertente. -Quindi sei venuto a dirmi che sono licenziato? -Si, potremmo anche metterla in questo modo.- Sbuffa un'altra nuvoletta di fumo, poi si avvicina. –Non è stata una scelta semplice. Sei stato una risorsa fondamentale per il nostro sviluppo ed anche merito tuo se siamo riusciti a sopravvivere alla crisi e tutti casini che si sono succeduti negli ultimi anni. -Ma davvero? Allora permettimi di muovermi anche solo per un minuto. Voglio darti una prova concreta di quanto ho apprezzato i vostri test. Non sei riuscito a resistere. Ti prepari a pagare caro questo sfogo di rabbia, ma gli istanti passano e non succede nulla. L’uomo sorride. -Non credo sia nella tua natura provare simili emozioni, ma potresti consolarti


pensando che la tua sofferenza non è stata un nostro mero capriccio. I test che abbiamo fatto su di te ci hanno fruttato centinaia, se non migliaia di brevetti. Certo, ci sono stati dei passi falsi, ma la dirigenza è sempre riuscita a impedire che questi fatti ci recassero troppo danno. Stavolta sei tu a sorridere. -Passi falsi? Gli effetti collaterali delle pillole “Amityville Fitness” non sembravano così insignificanti… Un istante di stupore scuote finalmente la maschera fredda del suo volto, ma dura troppo poco perché tu possa realmente gioirne. -Dato che l’Inquisitore ti priva delle tue capacità di onniscienza, devo dedurre che le nostre equipe di ricerca hanno le bocche più larghe di quanto non sembri… forse devono essersi dimenticati che la cavia su cui stavano lavorando era un diavolo possessore, non un porcellino d’India. Scrolla le spalle, la cosa non sembra avere importanza. -Il Dottor M. era talmente sicuro della riuscita di quel prodotto, che ha dato il disco verde sulla produzione prima ancora di effettuare gli ultimi esami di sicurezza sulle cavie umane. Quando ci siamo resi conto che esisteva una soglia di massa grassa oltre la quale lo sviluppo delle cellule tumorali non era più reversibile, avevamo già messo in commercio i primi campioni. Fa ancora qualche passo, ora

non dista da te più di un paio di metri. Ti guarda negli occhi: se sta cercando tracce di soddisfazione nel tuo sguardo, non deve faticare molto a trovarne. -Credo che siano poche le imprese capaci di sopravvivere alla notizia che un proprio farmaco dimagrante ti fa crescere sul cranio un tumore grande come una noce di cocco e ti trasforma in un demente assassino. Se abbiamo superato quella bufera è solo perché avevamo un buon numero di teste da far cadere per accontentare i nostri detrattori. Inclusa quella del Dottor M. Avevi intuito cosa poteva esserci dietro la scomparsa del tuo aguzzino, ma averne la certezza è come un balsamo per il tuo cuore nero. -Sono contento di averti dato una buona notizia.- dice il tuo interlocutore, interrompendo i tuoi pensieri. –Ora, se permetti, direi che è ora di procedere con il tuo congedo. Spegne la sigaretta, poi fa un cenno verso le sue spalle: nel vetro degli specchi si apre una porta e nella stanza entrano alcuni inservienti. Sono una decina e spingono a fatica un carrello su cui è appoggiato qualcosa di cui inizialmente non riesci a comprendere la natura. È di metallo, non c’è alcun dubbio, ma ha una forma troppo strana per essere una cassa blindata. Solo quando la portano più vicina ti rendi conto che si tratta di una gros-

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sa bara. -Beh? Ti aspettavi un esorcismo?- dice, l’uomo, ridendo della tua espressione sconvolta. – Sarò anche materialista, ma non sono così stupido da lasciare in circolazione qualcuno che ha un motivo serio per volermi morto, soprattutto se fa dell’infliggere sofferenza il fondamento della sua natura. Due inservienti sollevano il tuo corpo immobile dal lettino e ti depositano nella bara. Il coperchio di metallo comincia a strisciare sui bordi, ingoiando la luce poco a poco. -Non finisce qui! Mi hai sentito? Ve la farò pagare per quello che mi avete fatto. La farò pagare a tutti! Il volto del tuo interlocutore fa capolino nell’ultimo spicchio di luce che ti è concesso. -Oh, permettimi seriamente di dubitarne, amico mio. Il viaggio che ti aspetta è di quelli di sola andata.- sorride. –La prima volta che ci siamo incontrati mi hai promesso un’eternità di pianto e stridore di denti, ricordi? Io non posso garantirti l’eternità, né il pianto, ma quanto allo stridore di denti… scoprirai presto quanto possano essere gelide le correnti che agitano il fondo dell’Oceano Atlantico. Il coperchio della bara si chiude. Da fuori ti arriva il rumore di una saldatrice. Sei prigioniero in una trappola di metallo.


S ka n Due colpi (parte I)

Cap I Che mal di testa, non riesco nemmeno a sentirmi pensare. Eppure sto pensando anche adesso. Apro gli occhi, vedo solo buio. La tenue luce dell’alba illumina la stanza. Gli occhi si abituano piano piano, li sento gonfi e pesti. Alzo la testa e mi guardo intorno. Mi ci vorrà un bel po' per tirare di nuovo a lucido questa casa. Cazzo. Basta davvero così poco per mandare tutto a puttane? Dio solo sa cosa c’è su quelle misere mattonelle grigie. Roba marrone, raggrumata e fetida. Dio che schifo. Bottiglie sparse ovunque, birra, rum, vodka, vino: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Alcune sono rotte, con i vetri che formano strane composizioni astratte. La scrivania di legno, di solito lucidata a dovere, adesso è fetida e unticcia. Un’altra volta. Cristo. Sono nauseato, meglio distogliere lo sguardo. La branda sulla quale sono sdraiato, è immacolata, o almeno così sembra, i pois delle coperte mi rilassano. Il soffitto sopra di me è scalcinato e ammuffito. Chiudo gli occhi e provo a dormire. Immagini confuse percorrono la mia testa pulsante. Un calice infranto, il sapore acre dell’alcol in bocca. Provo a girarmi da un lato. Ci sono io da piccolo. Davanti allo

specchio, un me stesso adulto si riflette. Ho una giacca doppiopetto blu, eleganti pantaloni gessati dello stesso colore; se non fosse per la cravatta slacciata e i capelli arruffati potrei sembrare un vero uomo d’affari. Sudo freddo, la stanchezza sembra prendere il sopravvento, mi metto bocconi e cerco di non pensare. Il me stesso alza un calice di champagne e mi guarda. Ha gli occhi spenti e persi nel nulla. Dio se conosco quello sguardo. Mi sorride, lascia scoperti una fila di denti bianchissimi e aguzzi. «Cin Cin!» Diventa tutto rosso, poi un urlo agghiacciante. Riapro gli occhi. Vorrei gridare, ma dalla gola non esce alcun suono. Mi fa troppo male la testa. Cazzo. Ancora quel cazzo di incubo. Non devo pensarci, devo solo dimenticare, andare avanti per la mia strada. Giro la testa, e c’è lei. È accanto a me, come sempre. Indossa solo un top bianco e un paio di mutandine di pizzo blu. Ha i capelli biondi, né troppo lunghi né troppo corti. Alla luce flebile, il suo candido pallore risalta in maniera quasi sovrannaturale. Sembra un angelo. Fortuna che c’è lei a rendere la mia vita un po’ meno penosa. È girata su un fianco, la sua figura minuta mi dà le spalle. Il suo culo, rotondo e con un filo di cellulite, si lascia guardare. Mi è sempre piaciuto osservarglielo di nascosto. Dentro le mie mutande qualcun altro è

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compiaciuto, quasi quanto me, se non di più. Ho un'erezione, potente. Dopo tutti questi anni è come se fosse la prima volta. Mi metto le mani nelle mutande e comincio a menarmelo. Sento il cazzo pulsare sempre più forte man mano che mi do da fare. Non ce la faccio più. Non mi basta la masturbazione. Devo scoparmela, ora e subito. Mi avvicino a lei, le metto una mano sotto la canottiera. Non porta il reggiseno. Freddo. La bronchite dei giorni passati l’ha lasciata molto debole. Meno male che ci penserà il sottoscritto a riscaldarla. Stuzzico i suoi seni con le dita, i capezzoli sono già turgidi ancora prima di toccarli. Che mi abbia sentito smanettare sotto le coperte? Lo fa per eccitarmi. Come se non lo fossi già. Con la mano destra tocco le mutandine mentre la sinistra continua a strizzarle il seno. Sento bagnato. È pronta a prenderlo. Le abbasso le mutandine. Strofino, il cazzo diventa ancora più duro. Sto per infilarlo dentro. Il mio sguardo si sofferma di nuovo sul culo. No. Questa volta farò da dietro e a lei piacerà. Voglio metterglielo dietro. Infilarglielo dritto nel culo. Nessuna resistenza. È proprio quello che vuole, non potevo sbagliarmi. La conosco troppo bene. Comincio con delle spinte poco profonde e lente. Clop. Il suo culo è caldo, nonostante la malattia. Clop. È talmente stretto là dentro che ogni spinta potrebbe farmi venire. Aumento la loro frequenza. Clop, clop. La sento


irrigidirsi sotto i colpi. Il fatto che si lasci usare come una troia mi rende ancora più eccitato. Come in quel video su internet, dove il ladro entra in casa di nascosto e si scopa la ragazza mentre lei dorme. Clop, clop. Mi do da fare come un forsennato, le mie spinte adesso sono veloci e profonde. Stringo le chiappe tra le mani. Sento che sono molto vicino all’orgasmo. Chiudi gli occhi per godermi al meglio questi minuti di libertà. Clop, clop. Clop, clop. Clop, clop. Lo specchio, io da piccolo, l’uomo che ride, e le urla. Così intense, così reali... Grido dal piacere, o perlomeno, mi sarebbe piaciuto gridare. Un getto di sperma caldo inonda gli intestini della mia sposa. Era da tempo che non venivo così. Che chiavata. Estraggo il pisello dal culo. Le mie mani hanno lasciato il loro segno, sul bianco latte delle chiappe ci sono delle grandi chiazze rosse. Sorrido, so ancora essere un amante focoso quando voglio. Mi metto supino, il soffitto è ancora sopra di me, e penso a quanto vorrei che questi momenti non finissero mai. L’incessante pulsare termina. Sia sopra sia sotto. La testa mi fa un po’ meno male. Sbuffo, un getto di aria calda mi alza un ciuffo di capelli. Tiro su le mutande e mi rimetto la maglietta. Cerco uno straccio da mettermi addosso. Sull’orlo della branda c’è la maglietta che indossavo ieri sera. È macchiata di rosso. Sembra sangue. Dio, devo aver battuto di nuovo il naso su quel fottuto spigolo. Cazzo, certi giorni mi faccio schifo da solo. È giunto il

momento di alzarsi. Mi reco in bagno, cerco di evitare i vetri come un cazzo di equilibrista, mi accosto al lavandino, un getto di acqua fredda mi sveglia completamente. Alzo la testa, lo specchio riflette la mia immagine trasandata. Ripenso al sogno di prima. Snudo i denti, non sono per niente aguzzi, anzi in alcune parti sono giallognoli. Non ero io. Quello del sogno non ero io. Non so se sentirmi fortunato oppure no. Sento una fitta di dolore provenire dalla mia bocca. Mi fa male un molare. Apro la bocca per vedere meglio. Il dente presenta un grosso buco, nero e sporco. Il mio sguardo si sofferma sul moncherino che un tempo costituiva la mia lingua. Al pensiero di ciò che era, rabbrividisco. Chiudo la bocca. Apro le labbra e muovo il moncherino, come per dire una parola. «Perché tutto questo?» Questo vorrei dire, ma dalla mia bocca esce solo un mugolio indecifrabile. Continuo nel mio rituale mattutino. Prendo una punta di sapone, e la allungo con abbondante acqua. Mi lavo, più per figura che non per altro. Spero che almeno il puzzo di alcol se ne vada. Prendo il mio pettine blu, i denti rimasti intatti sono tre ormai. Mi pettino i capelli in una riga sciatta e frettolosa. Finisco di vestirmi, i vestiti che ho addosso sono sdruciti e rattoppati. Non importa. Esco dal bagno. Lei continua a dormire beata. Penso che dovrei spicciarmi a ripulire questa pattumiera di stanza, quando un oggetto sul pavimento cattura la mia attenzione. Lo raccolgo e lo giro fra le mani. È un carillon co-

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lor panna, sulla cima sta una ballerina, vestita di tutto punto, se ne sta sulla punta dei piedi. Giro il chiavistello sottostante. Una musichetta da bambini esce scattosa, con fare svogliato. Guarda un po' che ho trovato. Il carillon di Mamma. La mente viaggia indietro nel tempo e ricordi che credevo sopiti da tempo galleggiano come merda fumante. Schifosa e fottuta merda, che era meglio dimenticare per sempre. La mia infanzia, i lunghi pomeriggi passati nel giardino della casa dei miei genitori, sembrava così immensa al tempo. Il profumo di erba fresca mi rigenera, rincorro un palloncino verde, rimasuglio della festa di compleanno appena passata. Ho compiuto otto anni. Mio fratello è nel passeggino, intento a seguire con lo sguardo una bella farfalla gialla. Inciampo e cado rovinosamente per terra. Comincio a piangere. Mamma mi raccoglie da terra, mi scuote i vestitini. Mi soffia il nasino con un fazzoletto. «Ora con un bacino la bua va via» Mi calmo, la dolcezza della sua voce ricorda lo zucchero filato. Cerco il palloncino, la camicina bianca che indosso si piega frettolosamente, arranco verso il mio obiettivo. Ricomincio a giocare col palloncino. Gli occhi di mamma, neri, mi osservano con amorevole attenzione. L'imbrunire sopraggiunge, il cancellino d'ingresso cigola, il mio papà è arrivato. Saluta mamma baciandola sulla guancia. Quella mascella squadrata e dura al contatto mi ha sempre spaventato


un po'. Papà mi prende in braccio, mi saluta con una carezza. Si fa l'ora di cena, sto giocando con i soldatini, la mamma mi chiama. Percorro il lungo corridoio che da casa mia porta fino alla sala pranzo. È tutto così grande... Mangio la minestrina con gusto, mio fratello nel seggiolone fa le bizze. La mamma lo prende, lo porta nell’altra stanza e riesce ad addormentarlo. A tavola mamma e papà s’ignorano, lei mangia con la testa abbassata, lui si da un gran da fare col calice davanti a lui. Lo gira, lo osserva con attenzione, lo riempie di vino, se lo scola, lo osserva di nuovo, si specchia nel vetro luccicante. E lo riempie di nuovo. E ancora, e ancora. Papà urla, la sua voce è come addormentata, insulta chiunque, prende a calci il mobilio. Ha i capelli arruffati e gli occhi lucidi. Mi spaventa. La mamma cerca di arginarlo, la vedo avvicinarsi, mi prende in braccio e mi porta a letto. «Che cosa ha fatto papà?» le chiedo. «Niente amore, è solo un po' stanco, tu pensa ad andare a letto e domani sarà tutto finito.» Mi aiuta a mettermi il pigiamino, mi rimbocca le coperte, si accorge che non ho alcuna intenzione di dormire. Prende il carillon dal comodino, gira il chiavistello con energia. «Questo ti aiuterà a dormire, buonanotte piccolo.» Mi stampa un bacio sulla fronte, mi rassicura. La dolce musica sembra conciliarmi il sonno. Sto per chiudere gli occhi, quando la musica all'improvviso cessa.

Sento dei rumori sordi provenire dalla cucina, cerco di non pensarci. I rumori si fanno più intensi, cambiano consistenza. Comincio ad avere paura. Prendo il carillon e tento di girare il chiavistello, non ci riesco. Decido di andare in cucina e chiedere a mamma di girarlo di nuovo. Mi alzo dal lettino, cerco di tirare su il soprammobile. È troppo pesante. I rumori si fanno sempre più inquietanti. Sento un bisogno urgente di fare la pipì, ho bisogno della musichetta per tranquillizzarmi. Mi sforzo e riesco ad alzare il carillon. Arrancando, percorro il lungo corridoio, ogni tanto trascino il pesante oggetto. Sembra non finire mai. Arrivo finalmente alla fine, la porta bianca di cucina è socchiusa. La spingo, cerco di aprire un pertugio per poterci passare. Papà è sopra mamma, ha lo sguardo stralunato. Mamma ha un’espressione di terrore stampata in faccia, ha i vestiti strappati in più punti e grosse chiazze nere le dipingono la pelle. Si gira verso di me, le manca un dente, il suo terrore si trasforma in panico. Vorrebbe dire qualcosa, ma viene trascinata da papà, che adesso impugna un grosso coltellaccio. Lo solleva. Lascio cadere il carillon che con un tonfo raggiunge il pavimento. Una coltellata affonda nelle carni della mamma. La vedo urlare dal dolore. Dal torace zampilla un getto di sangue rosso vivo. Una seconda coltellata la raggiunge. La colpisce alla gola recidendone una parte. Continua a urlare. Tante bollicine escono dalla gola.

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Un'altra coltellata. Papà rovista nell'addome di mamma, prende gli intestini e li addenta furiosamente. E un'altra, un'altra e un'altra ancora. Mamma si muove a scatti, non urla più. L'ennesima coltellata le recide completamente la testa. Papà non è soddisfatto, si accanisce sui resti. Prende il tronco senza vita, lo spoglia e comincia ad armeggiare di nuovo col coltello. Gli organi interni vengono estratti uno ad uno, e si spiaccicano a terra, in un mare di sangue. Il tronco completamente svuotato viene appeso per i piedi al lampadario. Sembra soddisfatto, ride, è completamente coperto di sangue e non sembra preoccuparsene. Si accorge della mia presenza. Mi guarda stralunato, prende in mano la testa di sua moglie e si avvicina. «Guarda moccioso, non vedi come mamma e papà sono felici?» La testa di mamma è davanti a me, il dente mancante ben in vista. Gli occhi neri sono riversi verso l'alto. Mi bagno i pantaloni. Urina gialla si va a mischiare col rosso del sangue. «Che c'è stronzetto? Per caso il gatto ti ha mangiato la lingua? E così dicendo mi accoltella una gamba. Urlo dal dolore, e babbo ne approfitta per mettermi un pugno in bocca. Sento che cerca la lingua, la trova e la afferra con forza. La tira fuori dalla cavità, calde lacrime mi bagnano il viso. Appoggia il coltello sulla lingua, un colpo solo. Vorrei urlare dal dolore, ma non ci riesco. Il coltello percorre la


larghezza della mia appendice, mi macchio il pigiamino di sangue. Piango, e sento che le forze mi vengono a mancare. Mentre la vista si annebbia, vedo quel mostro di mio padre addentare la mia lingua. Comincia a latrare come un cane in calore. Mentre si gode il macabro pasto, danza dalla gioia. Tutto si fa buio. E quella fu l'ultima cosa che ricordai. La testa faceva di nuovo male, tutti quei ricordi mi avevano scombussolato e non poco. Cazzo di carillon di merda. Cap 2. Mi metto alla scrivania, la sedia cigola sotto il mio peso. Ho le mani sulla testa, il suono di mille tamburi riecheggia tra le pareti del cervello. Sono spaesato, lo sguardo va su e giù, prima la branda, poi il pc, poi le bottiglie, poi si abbassa sul pavimento. Vorrei piangere dalla disperazione, ma le lacrime non ne vogliono sapere di uscire. La testa sembra darmi tregua. Le bottiglie vuote sono vicine a me. Alcune sono ancora intatte e hanno ancora del contenuto. Non voglio certo che quel contenuto vada sprecato. Ne prendo una, di vino a buon mercato, la giro e ne leggo l’etichetta. Me ne fotto di quello che c’è scritto. Continuo a contemplare il vetro smeraldo della bottiglia. La avvicino alla bocca e bevo un piccolo sorso. Il vino scende, entra nella bocca e bagna il moncherino. Mi sento appagato. Nello stesso momento un brivido freddo mi trapassa da parte a parte la schiena. Succede

sempre. Stacco la bottiglia dalla bocca, la appoggio di nuovo per terra. Penso a come ho fatto a finire in quel tunnel senza fine. Ogni volta penso, perché purtroppo non posso più dirlo, “Questa è l’ultima volta”. E ogni volta mi ritrovo qua, col mio calice e le mie bottiglie, in una sorta di perenne Ultima Cena alcolica. Tutte le volte che bevo, il pensiero non può che andare a lui. Ogni schifosissima e fottuta volta, ma questo certo non mi ferma. Quando si tratta di bere, sono irriducibile e determinato come nessuno mai. Fossi stato così determinato anche nelle altre cose della vita, a quest’ora sarei un uomo ricco e di successo. Pensare alla vita di tutti i giorni mi fa ricordare che devo controllare la posta elettronica. Accendo il portatile, il vecchio macinino ci mette un po’ per entrare in funzione, scalda subito la scrivania, le ventole girano veloci e fanno casino. Sembra sempre che debba esplodere. Mi collego al Wi-Fi dei vicini, che dio li benedica. Apro il programma della posta elettronica e aspetto che il computer processi la richiesta. Passano dei secondi interminabili. Davanti a me si presenta solo pubblicità su pubblicità. Cristo, non sono piaciuto nemmeno a questi. Porca puttana. Batto i pugni contro la scrivania, lo schermo del portatile sobbalza di fronte alla violenza dei miei colpi. Ho bisogno della bottiglia, la prendo e furiosamente mi scolo un altro sorso. Mi sento un po' meglio, ma ho comunque tanta voglia di battere la testa nel muro. Come cazzo si sono permessi

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di non prendermi. Ho usato i soldi che mi rimanevano per corrompere quegli stronzi, e non è servito a nulla. Cazzo, merda e ancora merda. E ora che faccio? Mi scolo un altro sorso. Mi va di traverso, tossisco un po’ e il vino mi macchia i vestiti. Meglio ripulire il porcile per il momento. Bevo, mi alzo dalla sedia, ho un leggero capogiro. Comincio a raccogliere i vetri rotti con la scopa. Non sono nemmeno a un terzo dell’opera quando sento il vecchio macinino suonare. Posta per me. Speranzoso, mi precipito verso la scrivania, inciampo ma con un colpo di fortuna riesco ad arrancare verso la sedia senza subire danno. Apro il gestore di posta e leggo l’intestazione della mail. Da: Agenzia Finanziaria Raskolniki <raskolfin@aol.com> Oggetto: Invito Riservato Buon Dio, tutto ma non questo. I miei occhi, riflessi nello schermo del computer, si svuotano della speranza e si riempiono di panico. Gentile Signor C., Le ricordiamo che il termine di restituzione del suo prestito è scaduto nella giornata di ieri. Cazzo, me ne ero completamente dimenticato. Dannata sbronza uccidi-ricordi. Il Capo è molto felice di poterla rivedere a breve, e vuole salutarla personalmente. Saranno presenti anche i nostri


grandi Professionisti per farla sentire a suo agio durante la transazione. Ho come la sensazione che questo discorso non porterà a nulla di buono. La mail non specifica il termine di restituzione. Tiro un respiro di sollievo, almeno ho del tempo per escogitare un piano di azione. Le ricordiamo che la generosità del Capo è molto preziosa, non vorrà farlo innervosire con inutili richieste di prorogazione, vero? Vi auguriamo una buonissima giornata, vi aspettiamo stasera alle ore ventuno in punto, soldi alla mano. Boss Nabokov e Natalia saranno felicissimi di poterle stringere la mano. Buon Dio, e dove li trovo io tutti quei soldi in meno di ventiquattro ore? In allegato trova un video, una piccola dimostrazione della fine che fanno i clienti che abusano della pazienza del Capo, o che peggio ancora vanno dalla Polizia a denunciarci. Distinti Saluti. Il messaggio ha un allegato, non lo avevo notato prima. È un file, un video, e a giudicare dalle dimensioni sembra di lunga durata. Sono senza indizi, non ho idea di cosa mi abbia inviato quella troia della segretaria. Sono tentato di aprirlo, anche se probabilmente me ne pentirò. Faccio doppio click sull’allegato e aspetto che il

riproduttore video si avvii. Interminabili secondi dopo, una scena surreale si presenta davanti a me. Il video è ripreso a inquadratura fissa, realizzato con una banalissima camera digitale. Non c’è nessun accenno di montaggio video o sonoro. La scena si ambienta in una stanza, il bianco e il nero sono i colori dominanti nella tappezzeria, che ha un motivo di scacchi. L’effetto, che non riesco a capire se sia derivante dalla scarsa qualità del video o dalla mia mente, è che il pavimento e la tappezzeria siano complementari, una gigantesca scacchiera a toni invertiti. I mobili sono ridotti all’essenziale, un tavolino contiene una serie di strumenti che non riesco a distinguere. La luce di un faro cinematografico illumina due sedie, una accanto all’altra. Sopra le sedie ci stanno due persone, legate e imbavagliate. Un uomo e una donna, non ho idea di chi siano. Si dimenano, cercano in tutti i modi di urlare e di chiedere aiuto al cameraman. Lui se ne frega, e continua a filmare. Fermo un attimo il video, mi avvicino la bottiglia di vino alla bocca e bevo un piccolo sorso rigenerante. Mi rilasso, e continuo la visione. Mentre i due prigionieri continuano a sprecare le proprie energie implorando l’aiuto di qualcuno, una terza e una quarta persona entrano in scena. Sono vestiti come dei facoltosi, e portano una maschera veneziana ciascuno. Una è nera con un grosso bubbone rosso stampato in fronte, l’altra è rossa col naso lungo. Uno, che indossa la maschera nera, è un energumeno

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grande e grosso, sembra un gorilla, imbraccia una mazza da baseball. L’altro, maschera rossa, è minuto e ha le movenze effeminate, porta una sbarra di ferro con sé e a giudicare da come la imbraccia sembra molto pesante. Riconosco nei suoi modi di fare untuosi uno dei lacchè dell’Agenzia, il tipo che mi ha accompagnato da Boss Nabokov la prima volta che sono andato là per chiedere il prestito. La telecamera avvicina l’inquadratura verso l’uomo. Maschera nera si accanisce su di lui, urla dal dolore nonostante il bavaglio. La mazza da baseball maciulla le carni del malcapitato, le sue ossa si spezzano, la sua mascella penzola da un lato, la violenza è così inaudita e ingiustificata che mi sembra addirittura di scorgere nella mia stanza l’odore della putrefazione e del sangue. In un tripudio di lacrime e sangue, l’uomo implora pietà. Noncurante, maschera nera posa la mazza da baseball sul tavolino, si pulisce le mani con estrema cura, imbraccia delle grosse pinze e con fare chirurgico estrae una a una le unghie del malcapitato. L’uomo non ha più la forza di fare niente, riesce a malapena a sentire il dolore, probabilmente. Maschera nera posa le pinze e si sposta. La telecamera lo segue, adesso l’inquadratura insiste sulla donna, probabilmente la compagna del prigioniero. Maschera rossa la sta molestando, le strappa i vestiti di dosso, le tocca i piccoli seni con le mani unticce e depravate, introduce il pugno nelle sue zone intime e delicate. Maschera nera gli dà manforte, si slaccia i


pantaloni, toglie il bavaglio alla malcapitata e la costringe ad un rapporto orale. La telecamera indugia sulla poveretta. Sembra concentrata, quando all’improvviso la vedo sgranare gli occhi. La sbarra di ferro si tinge di rosso vivo, spunta con decisione dalle gambe della povera ragazza. La donna perde molto sangue, i suoi sensi sembrano mancare. Maschera nera le sfila il pene dalla bocca, si tira su i pantaloni, si avvicina di nuovo al tavolo degli strumenti e ne tira fuori una piccola mannaia. Il primo colpo vibra diretto sull’anulare della donna, vedo l’anello al dito sfilarsi mentre un urlo si diffonde nella stanza. Basta, credo di aver visto anche troppo. Fermo il video, arrivato solo a metà della propria lunghezza, e scolo un lungo sorso dalla bottiglia. Chiudo lo schermo del computer, ho la mano tremante. Comincio a camminare furiosamente su e giù per la stanza, evitando la grossa pozza di vomito secco che non ho ancora rimosso. La bottiglia che ho in mano dondola ritmicamente mentre mi muovo. Cazzo, questa volta sono proprio nella merda. Dove li trovo tutti quei soldi? Non riesco a ragionare, l’odore di morte che il video mi ha portato nelle narici mi opprime, ho bisogno di una boccata d’aria, e fanculo le pulizie di casa, le farò stasera. Se sarò ancora vivo. Barcollo verso il mio vecchio impermeabile lacero, lo indosso, prendo la lavagnetta per poter comunicare ed esco in fretta e in furia. Appena uscito vorrei rientrare per salutare la mia dolce bimba.

Cambio idea. La saluterò meglio stasera, con un bacio sulla guancia e, se possibile, una lunga e rilassante chiavata. Prima devo trovare un modo per uscire da questa cazzo di situazione. Ne va della mia vita. Fuori la giornata si è guastata, gonfie nuvole grigie ricoprono il cielo. Quelle nuvole mi assomigliano. Rovisto nelle tasche dell’impermeabile, cerco le sigarette e l’accendino, ne tiro fuori una dal pacchetto e la accendo con la mano ancora tremolante. Tiro delle lunghe boccate di fumo, che sputo in anelli concentrici. Comincio a rilassarmi un pochino. Sento il bisogno di bere. Ho dimenticato la bottiglia di vino in casa ma non ho intenzione di ritornare dentro. Ne provo terrore. Ho paura di rientrare e sentire quell’odore o peggio ancora di trovare le maschere pronte a infilarmi la sbarra di ferro nel culo. Che si fotta pure la bottiglia. Sono a metà sigaretta, penso al da farsi. Non posso andare dalla polizia. Non voglio fare la fine di quei due poveretti del video. Ho già ricevuto la mia dose di mutilazioni tempo fa. L’unica soluzione che mi viene al momento è andare da Lui. Preferirei di gran lungo essere scannato vivo, ma non ho altra scelta. Prendo la sigaretta, la butto per terra e con fare rabbioso la spengo col tacco della scarpa. Comincio a incamminarmi verso casa sua. Nonostante il tempaccio la città è affollatissima come sempre, nugoli di persone oscillano su e giù senza fermarsi un attimo. Come vorrei avere le loro preoccupazio-

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ni, ne sarei davvero felice. Passo davanti ad un parco giochi, dei bambini vanno sull’altalena. La mia mente torna alla mamma, e a quel bastardo di mio padre. Penso a quanto sarebbe stato bello avere un compagno di giochi, un amico, in quei giorni di mutismo forzato. Penso a quanto sia stato difficile adattarsi di nuovo ad una vita normale, e forse ad una vita normale mai ci sono arrivato. E il pensiero non può cadere che a Lui, mio fratello. Quello che non c’è mai stato. Nemmeno durante quella tragica notte. Lui dormiva, ed io venivo mutilato. Io venivo mandato in terapia, e lui manco una volta mi è venuto a trovare, neanche quando è stato adottato. Solo una volta mi ha fatto un favore, e me lo rinfaccia ogni cazzo di volta. La vita sa essere ingiusta quando vuole. Cazzo se lo sa. Una gigantesca villa si para davanti a me, sono arrivato. È giunto il momento di mettere da parte i rancori e cominciare ad indossare un largo sorriso da pubbliche relazioni. La mia ultima spiaggia è proprio là. Suono il campanello, cerco di mettermi in posa per la telecamera che mi osserva dall’alto. Sento il cancello aprirsi con un cigolio. Prendo un bel respiro e lo oltrepasso.

Continua...


S ka n

risultati e classifiche

1 . Cattivotenente - 1 21 2. TETRACTYS - 11 0 3. Lavinia Blackrow - 95 4. Reiuky - 70 5. CMT - 63 6. GDN76 - 62 7. White Pretorian - 60 7. Rovignon - 60 9. Nidol - 51 1 0. Willow78 - 42 11 . shanda066 - 1 3

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1 . Cattivotenente - 51 2. Rovignon - 31 3. TETRACTYS - 25 4. Livio Gambarini - 1 5 4. Polly Russell - 1 5 6. Callagan - 1 0 6. DavidG - 1 0 8. Lavinia Blackrow - 9 9. LeggEri - 8 1 0. CMT - 7 11 . DrogoMoscarda - 6 11 . Cra - 6 11 . Rame1 0 - 6 + altri 10


N o n pe r d e t e i l n u m er o d i Gi u g n o 2 01 4 U n r e s pi r o pr o f o n d o r os s o


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