Paesaggi antonio nasuto

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Antonio Nasuto

PAESAGGI



Antonio Nasuto

PAESAGGI


© 2013 di Antonio Nasuto Antonio Nasuto Ida Grassi, Antonio Nasuto Antonio Nasuto Lulu.com ISBN 978-1-291-36036-3 IN COPERTINA Campo di grano con papaveri, 2002 (part) olio su tela, 40x50 cm Prima edizione aprile 2013

FOTOGRAFIE testi PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE DISTRIBUZIONE

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SOMMARIO

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Premessa

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Il racconto

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I dipinti

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Breve biografia


Premessa

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er la presentazione di questo catalogo ho scelto di usare una tecnica inconsueta, quella del racconto. Il tema conduttore in questa raccolta di quadri è il Gargano, osservato, vissuto e poi dipinto. Spesso mi sono trovato a girare per le strade del promontorio in compagnia del mio cane e della mia inseparabile Canon, avevo delle mete stabilite, luoghi che mi sono particolarmente cari e in cui ci torno volentieri. I miei quadri sono il frutto di queste pellegrinazioni. Come introduzione mi è sembrato naturale descrivere con un racconto questi viaggi, le emozioni che hanno suscitato e che mi hanno spinto poi a dipingere.

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Il racconto

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ono appena le dieci, è la prima domenica di luglio e l’aria è appiccicosa e soffocante. Metto la freccia e accosto a destra guardando nello specchietto retrovisore. Non c’è un’anima, la strada è deserta e polverosa. Spengo la macchina azzittendo anche lo stereo e la dolce voce di Eugenio Bennato. Corbù al mio fianco inizia ad agitarsi, sente l’odore della campagna, vuole scendere. Apro lo sportello e mi travolge precipitandosi fuori. Allungo Spiavo ‘ncielo il braccio sul sedile posteriore e recupero la Canon, poi scendo e mi guardo attorno. In lontananza riconosco le due chissà chiuvesse, piccole costruzioni in muratura, squadrate, sembrano le case manco na disegnate dai bambini, alla mia destra c’è un grosso fico lacrima infunneva d’india con qualche frutto. All’orizzonte, appena percepibile, la terra, la siccità la sagoma del promontorio del Gargano. Corbù è al settimo cielo, rincorre lucertole e grilli. Sono già zuppo di sudore. è più amera de Spio il cielo, al pari dei contadini, “chissà chiuvesse”, non la guerra, mena una nuvola, il cielo è di un colore azzurro pallido, la terra è lo vento cucente secca e attraversata da crepe. “La siccità è più amara della cucente” guerra” scriveva quel “grande poeta di povera gente” di cui canta Bennato e il “vento cucente cucente” si alzerà tra qualche ora, il Favonio, che solleverà la polvere torturando bestie e uomini. Sono a Coppa Nevigata, a pochi chilometri da Manfredonia, all’altezza dell’antica foce del Candelaro. Ogni tanto ci vengono a scavare da Roma, qui c’è un importante sito archeologico risalente al Neolitico ma quel paesaggio antico non è più riconoscibile cancellato dal degrado e dall’abbandono. Non più di cinquant’anni fa era un attivo centro agricolo e pastorale, un paesaggio rimasto fisso e immutabile per secoli, cancellato troppo in fretta. A volerci portare mio padre che l’ha conosciuto ne rimarrebbe traumatizzato. Lui mi parlava di campi di grano, di mais, di orti, di alberi, di sentieri, una civiltà scomparsa, la vegetazione naturale ha cancellato tutto. A potercelo portare forse non lo farei, visto che non posso, il problema non si pone. Mi avvicino alle due costruzioni col sudore che cola e i moscerini a darmi il tormento. Il frinire dei grilli è assordante, l’erba secca si muove al passaggio delle lucertole che fuggono spaventate. Scatto qualche foto e aguzzo la vista alla ricerca di dettagli. Incontro ruderi ridotti a cumuli di pietra e poi ancora pietre in lunghe e geometriche file di muretti a secco, i vecchi le chiamano le macere. Anticamente delimitavano le proprietà e le diverse destinazioni d’uso della terra, quando tutto era di proprietà di baroni e principi. Riconosco un invaso per la raccolta d’acqua piovana e una traccia di sentiero, la memoria non si è persa del tutto, c’è ancora qualcosa che tenacemente resiste. Le costruzioni sono recenti, anch’esse disabitate ma curate. Scatto ancora qualche foto e ritorno alla macchina, scortata da Corbù. Il mio viaggio nella memoria è appena iniziato.

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Q

uando m’immetto sulla strada per San Giovanni Rotondo, il traffico aumenta, i pullman sono numerosi, il paese dove è vissuto padre Pio prospera grazie al turismo religioso. La Chiesa cattolica lo venera come santo, ma per noi del posto resta sempre padre Pio, un frate un po’ scontroso, con doti da veggente e capace di fare miracoli. Non ho l’età giusta per averlo conosciuto ma c’è ancora qualche anziano che se lo ricorda. “Quando ti guardava, ti scavava l’anima”, mi diceva mio padre e se fissavo l’immagine del frate che lui portava sempre all’interno dell’aletta parasole della macchina, quegli occhi scuri mi mettevano in agitazione. Mio padre nel suo lavoro si portava sempre dietro l'immagine di padre Pio e questo lo faceva sentire protetto. Sono entrato un paio di volte nella chiesa progettata da Renzo Piano, l’ho trovata fredda e anonima, ben abbinata alle bancarelle turistiche e ai posteggi a pagamento. San Giovanni Rotondo non mi è mai piaciuto e non è lì che sono diretto. Mi fermo a pochi metri dall’inizio della Tu che ci parli salita che porta al paese, giro a destra e inizio a percorrere il lungo rettilineo che conduce dopo qualche chilometro a di una fontana, Manfredonia. Questa zona è conosciuta come “Le Matine”, di una cometa e a destra ci sono terreni coltivati per lo più a uliveto, a sinistra di un aquilone, si staglia il versante meridionale del Gargano. Proseguo il tuo dialetto lentamente, il traffico si è molto ridotto, l’asfalto sembra è una musica sciogliersi sotto il sole infuocato. Dopo una decina di minuti strana perché accosto la macchina all’ombra di un grosso ulivo. Corbù appartiene a reagisce con il solito balletto, riesco a trovare un biscotto nel portaoggetti e glielo metto tra le zampe recuperando la un’Italia minore” Canon. Spero che si mantenga tranquillo per qualche minuto, la strada, anche se scarsamente trafficata, è a scorrimento veloce, non me la sento di portarmelo dietro. Scendo velocemente dalla macchina, lasciando i finestrini a metà, e attraverso fermandomi di fronte al promontorio. L’aria non è limpida, il caldo è soffocante e Corbù non può rimanere per molto tempo in macchina. Scatto una decina di foto già sapendo che la riuscita sarà deludente e mi fermo un istante a ricordare. Il Gargano è attraversato da gole, o valloni, come li chiamiamo noi del posto, dei veri e propri canyon ricoperti da macchia mediterranea, dove nidificano diverse specie di uccelli. Queste enormi spaccature si sono create in seguito a movimenti tettonici, modellandosi col tempo grazie all’erosione dell’acqua. Il tutto appartiene a un passato lontanissimo, di pioggia ne cade pochissima durante l’anno eppure in questo terreno arido e assolato nascono quarantotto specie di orchidee, dai colori delicati e dalle forme incantevoli. Luglio però non è il mese adatto, bisogna venirci a maggio. I miei occhi si fermano su valle dell’Inferno, sono quasi le dodici, la temperatura supera i trenta gradi, andarci a queste condizioni è una sofferenza ma la tentazione è forte. Penso che sia tra le valli più spettacolari

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del Gargano, selvaggia, piena di rovi, in estate diventa soffocante. E’ chiamata dell’Inferno proprio per le alte temperature che si raggiungono, il vento è assente, il sentiero che conduce in cima è completamente esposto ai raggi del sole. Anche qui bisogna tornarci in primavera, in punta di piedi, solo così si può accedere nel regno dei rapaci, in silenzio, recando il dovuto rispetto. La mia mente si affolla di ricordi. Una domenica di luglio, mio padre che guida, mia madre al suo fianco che si lamenta del caldo, io e mio fratello, poco più che bimbi, seduti dietro con gli occhi incollati ai finestrini. Eravamo diretti al mare ma mio padre piuttosto che prendere la litoranea optò per la strada interna. Alle proteste di mia madre reagì scrollando le spalle e facendomi l’occhiolino attraverso lo specchietto retrovisore. Alla fine si fermò proprio lì, dove adesso è posteggiata la mia auto, riempì una bottiglia d’acqua, dal fontanino che si trova a due passi e ci fece scendere tenendoci saldamente per mano. “Guardate quelle valli”, ci disse con voce carica di mistero, “lì vivono uccelli enormi che per volare comandano il vento, dormono aggrappati ai muri e si cibano di carogne”. Ci sono tornato, anni dopo, a cercarli ma non li ho trovati, gli avvoltoi sono scomparsi da tempo sul Gargano, ora ci sono poiane, falchi e corvi imperiali. Mi volto a guardare la macchina, l’ombra si sta assottigliando e Corbù boccheggia, è ora di muovermi. Attraverso la strada quasi deserta, dalla terra sento salire il calore, il favonio ha iniziato a soffiare. Di fronte ho il Gargano di fianco gli ulivi, a pochi metri un fontanino secco. La mente ritorna a Bennato e a Matteo Salvatore: “Tu che ci parli di una fontana, di una cometa e di un aquilone, il tuo dialetto è una musica strana perché appartiene a un’Italia minore”. Mi rimetto in macchina lottando contro quel vento caldo. “Chissà come se la cavano gli uccelli con il favonio”, mi chiedo mettendo in moto la macchina, diretto verso la prossima destinazione, Paglicci con i suoi spettacolari ulivi.

A

lle tredici in punto posteggio l’auto in una piccola rientranza già nota. E’ inutile cercare un posto all’ombra, il sole splende quasi verticalmente. Anche su questa strada il traffico è scarso, sono a metà della salita che termina a Rignano, in alto si vedono le curve a gomito, non c’è un albero a nascondere la vista. Scendo dall’auto con la camicia appiccicata dal sudore, prendo il guinzaglio e lego Corbù. Lascio i finestrini leggermente abbassati ma so già che al ritorno la macchina sarà un forno. Recupero una bottiglia d’acqua e la ciotola e abbevero il mio povero cagnetto, a mangiare ci penseremo stasera. Rubo un sorso d’acqua a Corbù, ripongo tutto nel bagagliaio, metto le sicure e con l’inseparabile Canon scavalco il guardrail bollente. Corbù ci passa sotto e mi strattona per precipitarsi giù. Lo libero, prima che mi faccia cadere e osservo la sua discesa folle verso quel campo d’ulivi, a circa trenta metri più in basso della carreggiata. Dalla mia postazione sento ancora il vento caldissimo sulla pelle, l’incessante frinire dei grilli, il fuggifuggi di

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lucertole e ramarri. Scendo con cautela, la pendenza non è eccessiva ma il terreno frana a ogni passo sollevando una terra rossiccia che penetra nelle narici. Cerco di scansare i cardi e l’ortica e scavalco il filo spinato provocandomi un piccolo graffio. Mi trovo in una proprietà privata, i terreni, la masseria, il bestiame, tutto appartiene a Giuseppe Bramante, famoso per il caciocavallo podolico stagionato in grotta. Non l’ho mai assaggiato, pare che ne produca in quantità limitata e sono pochi i fortunati ad averlo provato. Il motivo della mia visita non è il caciocavallo e nemmeno la famosa grotta Paglicci risalente al Paleolitico, con le sue decorazioni parietali. Qualche anno fa andai col proposito di visitarla. Il sito era stato sigillato, anche se all’interno non c’era più niente, tutti i reperti sono nel museo di Taranto o in quello di Rignano. I tombaroli, dal canto loro, hanno fatto quello che ci si aspettava facessero, distruggere quel poco che restava. Sono ormai arrivato al fondo, mi sdraio sulla terra dura e chiudo gli occhi. Prima di osservarli e di fotografarli, voglio percepirne la presenza. Il sole è impietoso, neanche il vento arriva, il ronzio delle mosche è aumentato ma io la sento, potente, una forza meravigliosa, l’energia vitale di quegli alberi secolari penetra in ogni poro della mia pelle. Sorrido beato e respiro l’odore del legno, della terra smossa, dello sterco delle mucche e delle capre. Riapro gli occhi abbagliato dal sole, mi rialzo pieno E’ l’Italia che di polvere e di sudore e inizio a fotografare. Sono bellissimi. Il tronco massiccio si divide alla base in magici archi, poi si tu canti, è l’Italia contorce, si ripiega su se stesso, infine si allarga a mostrare la che tu suoni, la sua folta chioma. In questa zona gli ulivi appartengono alla ricchezza che varietà “Ogliarola garganica” e sono potati in una maniera nascondi nelle particolare che i locali usano chiamare con un nome che povere canzoni. adesso mi sfugge. Mio padre senz’altro lo ricorda, potendolo La tua arte che fare glielo chiederei, ma non posso. Il campo è enorme, i mercanti non attraversato da piccoli sentieri brecciati, tutto è in ordine, potranno mai il terreno sembra spazzato da poco. L’ulivo è una pianta comprare, i rubini piena di simboli, il più accattivante è quello della famiglia perché nell’arco della sua vita non abbandona mai i suoi figli. ed i diamanti Quest’albero non perde le foglie, è giovane e verde in ogni della musica stagione, resiste ai temporali, sopporta bene le gelate, le sue popolare” radici attecchiscono anche tra le fessure delle rocce. “Alcuni contadini somigliano ai loro ulivi, coriacei e contorti”, mi diceva mio padre. Gli ulivi di Paglicci sono un’altra cosa, aggraziati, slanciati, sembrano quasi ballare sulle punte. In alcuni tronchi puoi indovinare delle figure, due amanti abbracciati o una mamma con il figlio in grembo. Seguo uno dei sentieri in salita, voglio scattare qualche foto alla masseria sperando di non essere bloccato. Dopo qualche minuto riesco a intravedere i tetti color ocra delle prime costruzioni e parte dell’arco

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d’ingresso ma sento dei rumori e decido di fermarmi. Ritorno silenziosamente sui miei passi seguito da Corbù che procede a coda bassa, segno della presenza dei temuti maremmani. Qui si allevano ancora bovini e capre e come ausilio nel lavoro il pastore maremmano è molto quotato, è un ottimo cane da guardia. Meglio ritornare prima di dare l’allarme. In mezzo al campo mi concedo un’altra occhiata, “è un bosco”, mi dico, “un improbabile bosco di ulivi”. Nel silenzio assoluto sento il tintinnare di una campanella, poi una voce rauca che canticchia una canzone. Guardo in direzione dei suoni e mi accorgo che un gruppo di capre nere avanza lentamente in compagnia di un vecchietto, torto e coriaceo come gli ulivi. Alzo la mano per salutarlo, lui ricambia e continua a canticchiare. Riconosco il motivo, è una canzone antica in dialetto montanaro. Sorrido, rimetto il guinzaglio a Corbù e ritorno alla macchina. Sono le quattordici e trenta, la temperatura sfiora i quaranta, il favonio è un tormento e ripenso ancora a Matteo Salvatore: “E’ l’Italia che tu canti, è l’Italia che tu suoni, la ricchezza che nascondi nelle povere canzoni. La tua arte che i mercanti non potranno mai comprare, i rubini ed i diamanti della musica popolare”.

Q

uando m’immetto sulla litoranea, lo scenario cambia, la strada è trafficata e in prossimità dei lidi c’è confusione. E’ la classica domenica estiva, le spiagge sono affollate, i chioschi in piena attività, i posteggi zeppi di macchine arroventate. Arrivo nella località di Macchia, pochi chilometri da Manfredonia, e prendo la direzione per “Chiancamasitto”. La strada è polverosa e stretta, per fortuna incrocio solo un paio di macchine, sono tutti in spiaggia. Dopo pochi minuti arrivo al posteggio, m’infilo in un pertugio, scendo con Corbù al guinzaglio, pago il solerte posteggiatore e mi guardo attorno. La pace provata pocanzi mi abbandona, so già che cosa mi aspetta ma dovevo tornarci. Anche l’aria ha un odore differente, sento il profumo penetrante del mare, quello dolciastro delle creme abbronzanti, il puzzo dei gas di scarico, l’aroma balsamico dei pini. Era diretto qui mio padre, quella lontana domenica d’estate, prima di deviare all’interno, verso i valloni. Ed è sempre qui che venivamo, era la nostra spiaggia, meravigliosa prima che arrivassero le ruspe. Sono intervenuti nel peggiore dei modi distruggendo gli scogli e tagliando la costa alta. Nel nome della sicurezza hanno fatto scempio di uno degli angoli più belli del Gargano, curandosi però di allargare la spiaggia e il posteggio. “Dicono che vogliono incrementare il turismo” aveva commentato mio padre “ma Chiancamasidd’ era il nostro mare, ogni domenica ci incontravi sempre la solita gente, famiglie di Monte Sant’Angelo, che occupavano la stessa “chianca “ da anni. Ora che ci andiamo a fare?”. Il parcheggio è leggermente sollevato dalla spiaggia, mi avvicino al bordo e guardo giù. Quasi non si vede la sabbia, solo asciugamani, ombrelloni e bagnanti. Il mare è mosso, il vento continua a soffiare, più fresco, gradevole. “Signore, non può scendere in spiaggia col

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cane”, mi volto, è il custode solerte che prima si è preso i soldi del biglietto e ora mi proibisce l’accesso. “Chi gli ha dato il diritto di mettere mano alla nostra spiaggia?”, risento la voce di mio padre. “Stia tranquillo, non è alla spiaggia che voglio andare.” Il custode mi guarda in imbarazzo, ha riconosciuto il mio accento. “Signore, io la farei pure passare ma poi se viene la Guardia Costiera …”. Lo guardo, i capelli arruffati dal vento, il viso cotto dal sole, i bermuda spiegazzati, la canotta allentata agli orli, gli occhi, lo stesso colore del mare. Dalla fisionomia si potrebbe confondere con un tedesco e non deve meravigliare più di tanto, Monte Sant’Angelo, in età medievale fu frequentata dai normanni, legati al culto di san Michele. Non è raro incontrare montanari dagli occhi azzurri, la pelle chiara e i capelli biondi e lisci. “La ringrazio ma sono venuto solo per dare un’occhiata al panorama”, lo saluto e m’incammino verso un sentiero in leggera salita, a ridosso del costone. Anche qui c’è gente, la stradina è caratteristica, circondata dai pini e sulla destra si affaccia a strapiombo sul mare. Sulla sinistra ci sono villette di recente costruzione, recintate e con cancelli alti, quasi delle fortificazioni. Sul Gargano i furti sono all’ordine del giorno. Dopo una decina di minuti arrivo alla fine della salita. Qui c’è una piccola costruzione, ormai ridotta a un rudere, invasa parzialmente dalla vegetazione, da cui si domina tutta la costa. Scatto qualche foto, cercando di tenere fermo Corbù eccitato da tutti quegli odori, alla fine trovo un angolino tranquillo e lascio scorrere il tempo. Negli anni passati la mia fantasia si è scatenata su quel vecchio rudere, mi sono sempre chiesto chi ci vivesse, pensavo a un vecchio bisbetico, misantropo e dalla mente geniale, che passava i suoi giorni a scrivere e a dipingere il mare. Da mio padre non avevo avuto molte notizie, forse era di proprietà di una ricca famiglia montanara, mi disse anche il cognome ma l’ho dimenticato. Quando entrai nella piccola costruzione, vi trovai un materasso lurido, immondizia, escrementi e scritte oscene sui muri. Oggi non ci sono entrato, chissà se l’hanno ripulita, in fondo a nessuno interessa quel rudere. Quando si parla del Gargano, si pensa al mare, a san Pio, al santuario di san Michele, a Monte sant’Angelo ma questa terra ha una storia che pochi vogliono sentire, la sussurra il vento che non smette mai di soffiare. Oggi ho voluto ascoltare e scrivere i sos piri, rivivere le sensazioni dipinte in questi quadri che ritraggono paesaggi cari alla memoria. Il tratto lieve del pennello, il colore sfumato, le zone d’ombra, mille dettagli che parlano della mia terra, suggerendo al visitatore distratto il volto vero, quello ancora riconoscibile sotto il trucco pesante, che devasta più che abbellire. Mi rialzo con il sole che sta tramontando. Ho trascorso diverse ore inseguendo le mie fantasie, il vento finalmente si è calmato, la spiaggia è quasi deserta, si sentono il rumore del mare e il richiamo acuto dei gabbiani. Se ci fosse mio padre direbbe che non esiste posto più bello sulla terra. Ritorno verso casa sereno, l’unico rammarico è di non potertelo raccontare, di non avere più il tempo di dirti che avevi ragione, si gira tanto, si cercano nuove esperienze ma alla fine si torna sempre a casa.

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Studio di paesaggio, 2003

acquerello su tela

Studi, 2005 olio su tavola

Monte Calvello, 2005 olio su tela, 40x50 cm

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pagina precedente

Masseria alle Matine, 2002

olio su tela, 40x92 cm

Coppa Nevigata, 2003 olio su tela, 40x60cm

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Masseria, 2003 olio su tela, 50x60 cm

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Stoppie, 2008

olio su tavola, 48x68cm

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Stoppie, 2008 olio su tavola, 48x68cm

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Casette a Coppa Nevigata, 2003 olio su tela, 60x35 cm

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Le Matine, 2002 olio su tela, 60x50 cm

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Tremiti, 2006

olio tela 80x60 cm

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Tremiti, 2006

olio su tavola, 50x35 cm

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Studi, 2005

matita-sanguigna su carta

Ulivovivi, 2009 olio su tela, 50x35 cm

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Ulivo, 2008 olio su tela, 50x40 cm

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Studi di ulivo, 2005

olio su tavola

pagina a fianco

Ulivo, 2011

olio su tela, 100x100 cm

Ulivo, 2005 olio su tela, 80x40 cm


Campo di fichi d'India, 2003

olio su tela, 25x44 cm

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Masseria del Gargano, 2003

olio su tela, 50x60 cm

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Campo fiorito, 2003 olio su tela, 60x50 cm

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Campo fiorito, 2003

olio su tela, 40x50 cm

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Ulivi alle Matine, 2003 olio su tela, 50x60 cm

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Casette a Coppa Nevigata, 2003

olio su tela, 25,5x44 cm

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Alle pendici del Gargano, 2002 olio su tela, 34x44,5 cm

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Casette, 2008 olio su tela, 50x60 cm

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Campo di girasoli con cardi, 2003 olio su tela, 50x35 cm

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Campo di girasoli, 2003

olio su tela, 50x60 cm

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pagina a fianco

Monte Calvello, 2003

olio su tela, 50x50 cm

Campo di grano con papaveri 2003

olio su tela, 50x60 cm

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Grano al vento, 2003 olio su tela, 40x50 cm

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Paglicci, 2003 olio su tela, 50x60 cm

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pagina a fianco

Macchia, 2003

olio su tela, 50x50 cm

Macchia, 2003 olio su tela, 40x50 cm

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Chiancamasitto, 2003 olio su tela, 40x50 cm

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Ulivi a Paglicci, 2003

olio su tela, 50x35 cm

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La valle di Pulsano, 2003

olio su tela, 35x50 cm

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Ulivi a Paglicci, 2003

olio su tela, 35x50 cm

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Il porto, 2003 olio su tela, 50x60 cm

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Chiancamasitto, 2003

olio su tavola, 25x35 cm

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Campagna orsarese, 2003 olio su tela, 50x40 cm

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Campagna di Bovino, 2003

olio su tela, 40x50cm

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Il porto di Manfredonia, 2003

olio su tela, 40x50cm

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Porto di Manfredonia, 2005

olio su tela, 50x60cm

Porto di Manfredonia, 2004 olio su tela, 31,5x35,5cm

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Bosco 2003 olio su tela, 60x35 cm

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Gregge, 2003 olio su tela, 50x60 cm

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Ginestre a bosco Quarto, 2003 olio su tela, 50x60 cm

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Bosco Quarto, 2003

olio su tela, 50x60 cm

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Campo al vento, 2004 olio su tela, 50x60 cm

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Ulivi a Macchia, 2004

olio su tela, 50x60 cm

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Monte Calvello, 2002 olio su tavola, 23x49,3 cm

Borgo Segezia, 2002 olio su tela, 23x49,5 cm

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Uliveto, 2002 olio su tela, 35x50 cm

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Veduta del Gargano, 2002 olio su tela, 35x50 cm

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Veduta del golfo, 2002 olio su tela, 50x35 cm

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Macera, 2004

olio su tela, 60x50 cm

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Portale, 2003 olio su tela, 50x60 cm

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Mandorleto, 2000 olio su tela, 40x50 cm

Macera a coppa Nevigata, 2005 olio su tela, 35x50 cm

Il Tavoliere, 1999 olio su tela, 37x61 cm Valle dell'Inferno, 1999

olio su tela, 50,3x71 cm

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Alberi in fiore, 2002

olio su tela, 50x70 cm

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Gargano, 2002 olio su tela, 50x70 cm

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Studio di paesaggio, 2003

matita su carta

Ulivo a Paglicci, 2002 olio su tela, 50x35 cm

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Uliveto, 2003 olio su tela, 50x40 cm

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Ulivo a Paglicci, 2004 olio su tela, 50x40 cm

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Uliveto, 2004 olio su tela, 50x40 cm

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Montaguto, 2004

olio su tela, 50x40 cm

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Macchia, 2003 olio su tela, 40x50 cm

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Fichi d'India, 2002 olio su tela, 42x30,5 cm

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Macchia, 2003 olio su tela, 40x50 cm

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Chiancamasitto, 2004 olio su tela, 50x60 cm

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Rudere con ulivo, 2004

olio su tela, 50x60 cm

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pagina precedente, a sinistra

Paesaggio foggiano, 2009

olio su tela, 100x100 cm

pagina precedente, a destra

Paesaggio foggiano, 2004

olio su tela, 50x50 cm

Studi, 2005

olio su tavola

Ulivi, 2005 olio su tela, 80x60cm

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Ulivo, 2005 olio su ela, 80x60cm

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Studi, 2005

matita su carta

Ulivo, 2005

olio su tela, 60x40 cm

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Masseria alle Matine, 2002

olio su tela, 35x50 cm

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pagina a fianco

Stoppie, 2004

olio su tela, 50x50 cm

Mandorlo, 2005

olio su tela, 50x30cm

Mandorlo, 2005

olio su tela, 50x30cm

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pagina a fianco

Vigneto, 2005

olio su tela, 50x50 cm

Girasoli, 2005 olio su cartone, 20x20 cm

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Scalo dei Saraceni, 2000

acrilico su tela, 32x64,5cm

Torre Scampamorte, 1995 acquerello, 28x38cm

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Porto di Manfredonia, 2001

La campagna di Matteo, 1999

acquerello, 53,5x35cm

acquerello, 34,3x53,2cm

Porto di Manfredonia, 2001 acquerello, 35x51,5 cm

Porto di Manfredonia, 2001

acquerello, 53,5x35cm

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Breve biografia

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ntonio Nasuto è nato a Monte Sant’Angelo il 28 agosto del 1960 e vive a Foggia dal 1970. Ha trascorso circa dieci anni a Napoli, dove ha conseguito la laurea in Architettura e in seguito la specializzazione in Design. La formazione professionale influenza tutte le sue opere artistiche, dove è evidente la cura nel rapporto tra architettura e paesaggio e architettura e natura. Le sue opere vanno interpretate come analisi, appunti e studi per la ricerca di una configurazione armonica dello spazio, come esperienza del bello ed esercizio propedeutico all’architettura. Nelle sue opere si ritrova l’equilibrio tra natura ed elemento costruito, il susseguirsi delle case, i filari degli alberi, il colore delle costruzioni si confonde con l’ambiente circostante creando proporzione e armonia. I lavori dell’artista hanno come filo conduttore la pittura del paesaggio, sono raffigurate le campagne foggiane, i pendii scoscesi del Gargano, le spiagge bagnate dal mare e l’entroterra del Subappennino. L’attenzione è rivolta a quel tratto di terra pugliese tanto amato dall’artista, a lui così noto e vissuto che lo spinge a svelarci particolari insospettati, trasportandoci in una realtà nota ma mai veramente osservata. A volte sono scene consuete, prive d’eccezionalità ma quando l’artista le “ferma” e le fa proprie, emerge dall’immobilità tutta la bellezza sobria della terra amata. I prati, i campi di grano, le valli, il mare, sono animati dal continuo movimento del vento che da sempre, in questa terra, flagella uomini e cose. L’ambiente è raffigurato nei suoi elementi tipici, accanto ai muri a secco che frazionano il paesaggio, ci sono gli ulivi nodosi, i fichi d’india, il giallo dei girasoli. Costante è anche la presenza della roccia che affiora dal terreno spaccato dall’aridità che affligge la terra di Apulia, terra ”senza pioggia”. E’ la stessa roccia che i contadini usano per i muretti a secco e che l’artista non ha mancato di cogliere, inserendola in un paesaggio più ampio o ponendola in primo piano. Anche il cielo ha un aspetto dinamico, in molti dipinti è nitido e limpido, in altri l’azzurro è oscurato da nuvole che proiettano sul terreno estese zone d’ombra infondendo inquietudine all’immagine della campagna arida e incontaminata. I giochi di luce, le composizioni quiete e la ricerca dei particolari sono strumenti che l’artista usa per far rivivere antichi valori. E’ un ritornare alla vera natura dell’uomo, a una condizione primordiale di beatitudine che calma e rigenera. In ogni composizione tutti gli elementi hanno la loro precisa posizione, c’è quasi orrore per la confusione, l’ordine trasmette chiarezza, semplicità e forza. La bellezza viene dall’armonia che è figlia naturale dell’ordine. I suoi quadri sono semplici ed è questa la sua grande audacia, l’autore ha rinunciato a utilizzare mezzi consueti e abusati per arrivare all’effetto, i suoi dipinti hanno qualcosa da raccontare, un messaggio chiaro e spontaneo che coinvolge. Se a volte ha delle malinconie, sono dolci e penetranti e procurano a chi osserva, illusioni di riposo, libertà e solitudine, che sono quasi la felicità.

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3101 Hillsborough Street Raleigh, NC 27607 USA Printed in 2013



ÂŤ Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto. Âť Jorge Luis Borges

ISBN 978-1-291-36036-3

90000

9 781291 360363


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