SLOW ECONOMY 17

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ANNO 4 NUMERO 17 Novembre/Dicembre 2017

Il Made in Italy è di moda in ogni stagione

Comune di Bari

Progetto realizzato con il contributo della Regione Puglia - Area Politiche per lo Sviluppo Rurale


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70 Slow Economy - Golf in Tour gustando Moda, Agroalimentare e Turismo Anno 5 - Numero 17 - Novembre/Dicembre 2017 - Reg. Tribunale in corso Direttore Responsabile: Stefano Masullo Direttore Editoriale: Saverio Buttiglione - Art Director: Daniele Colzani Segretaria di redazione: Emanuela Cattaneo

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Editoriale di Stefano Masullo

I tornei internazionali sono il futuro del golf

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o sviluppo del turismo golfistico passa anche e soprattutto attraverso l’organizzazione di tornei di caratura internazionale, di conseguenza anche l’Italian Open, in programma al Golf Club Milano da giovedì 12 ottobre a domenica 15, non poteva capitare in un momento più propizio. Con un montepremi di sette milioni di dollari il 74° Open d’Italia di Golf entra di prepotenza nel gotha dei tornei mondiali. L’evento segna una tappa miliare di quel lungo viaggio che il golf italiano ha intrapreso, la cui meta più importante è ovviamente la Ryder Cup di Roma del 2022. L’appuntamento è stato al Golf Club Milano, nel Parco di Monza, da giovedì 12 a domenica 15 ottobre e grazie alla ricca dotazione del montepremi vedrà protagonisti tan-

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tissimi top player mondiali, a comporre un field di assoluto rilievo. Il detentore del titolo, l’italiano Francesco Molinari e numero 18 del world ranking ha gareggiato quest’anno con campioni del calibro di Jon Rham (numero 5 al mondo) e della popolarità di Sergio Garcia (numero 10), solo per citarne alcuni. Una valenza sportiva che aggiungerà un tassello alla strategia della Federazione Italiana Golf che tra gli obiettivi ha quello di rendere assai più popolare la pratica di questo sport in Italia. Da una recente ricerca effettuata da Italy Golf & More, il consorzio che lega 12 Regioni italiane oltre alla Federazione Italiana Golf, si apprende infatti che il numero dei green fees stranieri giocati in Italia entro la fine del 2017

si aggirerà su quota 700mila, contro i 500mila del 2014, segnando così un aumento del 38 percento. Il green azzurro sta vivendo quindi all’estero un’ottima stagione di commercializzazione del proprio “prodotto golf”, migliore delle più rosee previsioni, quelle inserite nelle tabelle della cosiddetta Road

Il Direttore Responsabile di Slow Economy, Prof. Stefano Masullo


To Rome, il ricco percorso di eventi golfistici che conducono alla Ryder Cup capitolina del 2022. Ma non solo: se queste cifre saranno confermate, a fine anno, in Italia, l’indotto legato al turismo golfistico potrebbe superare la barriera dei 300 milioni di euro per la prima volta nella storia, bruciando di fatto tutte le anticipazioni che parlavano invece di un probabile +5% di incremento annuo. L’aggiudicazione all’Italia della Ryder Cup ha aperto prospettive e obiettivi inimmaginabili per il golf italiano. Basti pensare alla rapida evoluzione che ha avuto l’Open d’Italia, con l’inserimento nelle Rolex Series, ossia tra le gare di livello mondiale. E con la presenza quest’anno di tanti campioni sarà uno spot incredibile per il golf azzurro . L’obiettivo primario è quello di far divenire il golf disciplina popolare, con un incremento significativo dei tesserati. La

Ryder Cup 2022 e le iniziative intrapreso hanno già dato un bel risultato a fine 2016 in termini di nuove iscrizioni e i dati parziali del 2017 parlano di un ulteriore aumento. Inoltre, grazie all’aggiudicazione della Ryder Cup, si è registrato una netta crescita del numero di stranieri che vengono a giocare sui nostri campi. L’Italia è un Paese dalla spiccata vocazione turistica e la Ryder Cup 2022 rappresenta un volano per dare ancora più appeal all’ immagine internazionale del Paese ». L’Open d’Italia segna un punto di svolta anche sotto il profilo delle sponsorizzazioni e più in generale della strategia di marketing sportivo a supporto dell’intero progetto. Un progetto che può contare sull’accordo tra la Federazione Italiana Golf e Infront Sports & Media, della durata di undici anni e per un valore economico di 40 milioni di euro.

Una delle novità rilevanti che riguarda questo Open e in generale il progetto Ryder Cup riguarda senza dubbio il metodo in quanto si ha la possibilità di sviluppare una progettualità articolata su oltre dieci anni, una tempistica inusuale che ha il vantaggio di rendere efficienti gli investimenti in questo sport all’interno di una programmazione di lungo periodo che consentirà di far crescere il movimento in Italia e rendere sempre più popolare il golf, analogamente a quanto avvenuto con il rugby grazie al Sei Nazioni .

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La pattuglia degli sponsor vede in prima fila Rolex (che celebra quest’anno 20 anni di partnership con l’European Tour e che con la Rolex Pro Am dell’11 ottobre ha dato il via alla manifestazione), Bmw (che mette in campo una ricca serie di attività nelle giornate dell’evento e che ritorna nel golf italiano con un accordo di lunga durata) e la Regione Lombardia, mentre tra gli official sponsor si registrano Emirates e Lyoness. Tra gli altri sponsor, a nomi più consueti per la disciplina come Kappa e Titleist, se ne aggiungono altri come Deloitte, Sharp,Technogym, Maui Jim, Leasplan, San Pellegrino, Sky Gas & Power, Technogym, Nespresso, Villa Antinori e Gielle. Intanto la “Road to Rome 2022” con la guida e il coordinamento del direttore generale Gian Paolo Montali, procede a ritmo serrato Gli eventi organizzati nella Valle dei Templi e sul Monte Bianco hanno avuto un impatto mediatico fantastico E manifestazioni come gli Open days

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nel Lazio, il golf in piazza a Monza e il golf nel centro di Firenze il 28 ottobre permettono di portare questo sport fra la gente». Non desta stupore, dunque, l’interesse che la Regione Lombardia ha mostrato in passato e continua a mostrare oggi in materia: nelle scorse settimane, infatti, nonostante le polemiche in sede di Consiglio Regionale, la giunta di Roberto Maroni ha destinato 500mila euro per la sponsorizzazione dell’Italian Open, riconoscendo ancora una volta al green e, più in generale, ai grandi eventi sportivi,

la loro valenza di ottimi vettori di promozione turistica. Ma, allo stesso tempo, vale anche la pena ricordare come già quest’anno il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, abbia inserito il golf nel Piano Strategico del Turismo e come il suo Ministero abbia permesso negli ultimi due anni al consorzio di Italy Golf & More di promuovere in Europa il pacchetto del green azzurro grazie a un contributo biennale di 1,1 milioni previsto per i Progetti di Eccellenza Turistica. Proprio nell’ottica della promozione del turismo golfistico, è previsto un incontro decisivo tra i rappresentanti della Regione capofila del progetto Italy Golf & More e il direttore generale dell’Enit, Gianni Bastianelli: sul tavolo, rispettivamente, da una par-


te il rinnovato progetto per il 2018 e, dall’altra, un eventuale, ulteriore investimento sul turismo golfistico nazionale di 500mila euro.

Non si tratta di una novità per il green: da sempre, all’estero, la via della promozione turistica è legata a doppio filo al golf e agli enti statali. Per dire, in Spagna il boom del green è in grandissima parte merito del lavoro di Turespana, l’ente turistico nazionale: dagli anni ‘80 ha sponsorizzato per tre volte la World Cup (a patto che un’edizione fosse disputata a Marbella) e contribuito a organizzare decine di Open nazionali. Il perché di tanto interesse è presto detto: solo per citare un esempio, il Volvo Masters del 2002 giocato a Valderrama, in Andalucia, a inizio novembre calamitò nella zona ben 21mila spettatori, di cui il 51% non erano residenti, per un indotto complessivo di 5,9 milioni di euro. Di questi, solo il 10-15% rimase nelle tasche dei golf club: il restante arricchì l’indotto locale, dividendosi tra la ristorazione (55%),

gli alloggi (19,3%) e altri beni di consumo. E ancora: nel recentissimo Portugal Masters disputato in Algarve, erano ben visibili lungo il percorso le sponsorizzazioni di VisitPortugal, il corrispettivo del nostro Enit, i cui rapporti con i principali tour operator golfistici del mondo -GolfBreaks. com e YourGolfTravel.comsono noti da tempo. L’Italian Open, dunque, con 7 milioni di dollari di montepremi e con le dirette tv che da Milano raggiungeranno centinaia di milioni di persone nel mondo, rappresenta il momento perfetto per inserire la Lombardia e tutto il Paese tra le destinazioni golfistiche da circoletto rosso.

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di Saverio Buttiglione

Punti di vista

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Un anno... Extra DiVino

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iamo alla fine del 2017 un anno Extra DiVino che abbiamo voluto utilizzare ponendo le basi per la commercializzazione nelle più importanti catene internazionali di boutiques agroalimentari dei prodotti di nicchia della Puglia, con alto valore aggiunto derivato dalle materie prime utilizzate e dalla manifattura semi artigianale nella loro trasformazione, in un connubio con l’alta moda sartoriale, e con l’appoggio del programma Export di Auchan Italia, sfruttando a questo fine i due eventi che in Italia ci sembravano più significativi: Il Giro d’Italia di ciclismo, che quest’anno com-

piva i suoi 100 anni di storia, e tornava in Puglia dopo l’assenza degli anni precedenti, e l’anniversario dei 70 anni dalla nascita della prima vettura 125 S ad opera di Enzo Ferrari a Maranello /Modena. Dieci anni fa l’anniversario fu celebrato con un giro del mondo dello staff del Cavallino rampante che recava di Nazione in Nazione un testimone, come per la fiaccola olimpica, che conteneva le 60 foto più significative per ogni anno di vita, chiamando a raccolta in ogni Paese visitato i clienti di questo simbolo dello stile e ingegneria italica, che fungevano da tedofori nel presentarsi ai capi

Il Direttore Editoriale di Slow Economy, Saverio Buttiglione

di governo che donavano un oggetto simbolo della loro nazione da riportare in Italia. Il ritorno fu fatto sbarcando in Puglia, nella più antica concessionaria al mondo, quella del Gruppo Radicci di Bari, con una sfilata di clienti del Sud Italia fino al centro della Lecce barocca, consentendo nel pomeriggio l’accesso a queste vetture nell’anello del


circuito di Monteroni dove di solito tutte le maggiori case automobilistiche europee vengono a provare le nuove vetture della gamma più alta. La sera, nell’incantevole resort di Tenuta Monacelle sulla Selva di Fasano, organizzammo un Galà televisivo in loro onore prima della loro ripartenza per la festa finale a Modena. Quest’anno, sulla scorta di quella esperienza, abbiamo deciso di cominciare noi per primi, a maggio in Puglia, la festa, gemellandola ai 100 anni del Giro d’Italia ciclistico, con un evento di 3 giorni intitolato “Un Giro in Ferrari” in Val d’Itria, che è cominciato con la tappa Martina Franca /Alberobello e si è concluso con la serata di Gala nella prestigiosa Cantina del Senatore Antonio Coppi a Turi, dove tra le antiche botti di rovere sono stati serviti gli aperitivi, mentre nella sala conferenze abbiamo svolto l’8a edizione del “Premio Puglia: Unici e Protagonisti”, premiando i pugliesi che in Italia e nel Mondo si siano distinti in

discipline quali il giornalismo, l’economia, il marketing, l’impresa, lo sport, il turismo, la moda, la cultura e l’agroalimentare, gli abiti della presentatrice Sharon De Luca sono stati forniti dalla stessa couture di Martina Franca che veste la campionessa di nuoto Federica Pellegrini, “Rossorame”, dello stilista Bruno Simeone e dell’ing. Daniele Del Genio, Presidente del distretto Moda CNA Puglia e dell’ Apulia Fashion Makers, che riunisce 100 aziende che fanno della mission “made in Italy” una prerogativa assoluta, con aziende che produ-

cono in Italia con maestranze italiane. Tutta l’estate la Ferrari ha deciso poi, invece che fare il giro del mondo come dieci anni fa, di organizzare il giro delle città e soprattutto dei borghi più caratteristici in ognuna delle 20 regioni italiane, chiamando a questa kermesse spettacolare i suoi clienti da ogni parte del mondo che vi sono giunti entusiasti portandovi le loro vetture. Gli itinerari in Puglia sono stati 5 ed hanno toccato i posti più significativamente apprezzati dai turisti di tutto il mondo, la sede scelta per l’alloggio è stata la masseria, trasformata in resort con annesso campo di golf sul mare tra gli ulivi secolari, di Borgo Egnazia, la stessa dove ha alloggiato la pop star Madonna, la stessa che viene utilizzata ormai da 4 stagioni dai miliardari di ogni luogo della terra per i loro matrimoni da “mille ed una notte”. Le auto Ferrari arrivate in Puglia per questo evento, provenienti soprattutto dall’Europa, sono state 100.

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A settembre, dopo il Gran Premio d’Italia di Formula Uno nell’autodromo di Monza, si è tenuta la festa clou a Maranello, dopo due spettacolari sfilate davanti al castello di Milano e nel centro di Modena.

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Di particolare rilevanza, nello show serale, è stata, dopo l’esibizione di una vettura “simbolo” per ogni decennio trascorso, la messa all’asta del modello “LaFerrari” aperta, che è stata venduta alla fantasmagorica

cifra di 8,4 milioni di euro, tutti devoluti in beneficenza, a ricordo di simili iniziative alle quali era solito il cavalier Enzo Ferrari, specie dopo la scomparsa dell’amato figlio Dino malato di sla. Extra DiVino ha ritenuto di


proseguire a novembre con un’altra conclusiva serata di gala in Val d’Itria, decisa in una cena milanese a settembre, invitandovi tutte le aziende dell’agroalimentare selezionate per il programma Auchan Export insieme al

direttore Alessandro Montinari ed al vice Omar Ahmed, utile alle PMI di eccellenza perché fornisce le proprie credenziali di presentazione ai buyers internazionali ed il supporto logistico nell’invio delle forniture che le aziende

medio/piccole non potrebbero da sole sostenere.

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Stefano Sbiroli & Figlio S.r.l. Via Cavalieri del Lavoro, z.i. 70017 - Putignano (BA) Tel: 080-491.10.13 info@sbiroli.it www.sbiroli.it inquadra il qrcode e visita il nostro sito

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di Omar Ahmed - Export specialist presso Auchan

Export

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Auchan Italia attiva un programma per le PMI per conquistare nuovi mercati internazionali con il Made in Italy

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razie al sito web export.auchan.it fornitori italiani e potenziali importatori esteri possono entrare in contatto con un sistema integrato di distribuzione già collaudato in 17 Paesi del mondo, il nuovo sito ideato da Auchan Italia per portare all’estero l’eccellenza enogastronomica del nostro Paese, coinvolgendo sempre più importatori e distributori con l’obiettivo di valorizzare e sviluppare sempre di più il Made in Italy nel mondo. «L’attività Export di Auchan Italia è iniziata nel 2009 per esportare attraverso la rete internazionale del Gruppo Auchan i prodotti a marchio delle piccole e medie imprese

italiane, in particolare attraverso la linea “I sapori delle Regioni” – dichiara Alessandro Montanari Responsabile Import/Export e Franchising di Auchan Italia – . Negli ultimi anni si è sviluppata anche in Paesi dove non è presente il Gruppo Auchan e abbiamo esteso la distribuzione dei prodotti italiani all’interno di nuovi mercati. Fino ad oggi il progetto Export ha portato sugli scaffali di 17 Paesi del mondo 1000 referenze di 130 PMI italiane, con un fatturato che nel 2015 ha raggiungiunto oltre 20 milioni di euro, e negli ultimi anni l’attività è stata estesa a tutti i brand nazionali. Le piccole aziende di eccel-


lenza delle filiere agroalimentari da sole non avrebbero la forza di intraprendere un percorso costoso in termini di logistica e di marketing, Auchan Italia si prende cura allora della logistica necessaria e delle credenziali da fornire alle più importanti catene di distribuzione nel mondo» A supporto del lavoro di marketing nei Paesi esteri scelti il sito www.export.auchan.it mette in condizione sia nuovi fornitori italiani sia potenziali importatori, distributori e catene estere di conoscere nel dettaglio il progetto Export di Auchan Italia e quali sono i relativi servizi offerti. Le pagine Chi Siamo e Partner presentano le realtà di Auchan Italia e dell’Export, mettendo in evidenza alcuni partner con cui l’azienda collabora. Una parte del sito web è dedicata alle varie tipologie di prodotti offerti, con un particolare focus sulla gamma dei vini “Cavallo Rampante”, linea dedicata all’export. Nella pagina Servizi sono spiegate le tre principali attività: Esportazione, Comunicazione ed Assistenza. Il sostegno ai produttori italiani, infatti, si concretizza in un sistema integrato che va dalla gestione dei rapporti con i clienti e le catene straniere, gestione delle pratiche commerciali e doganali, fino alle iniziative di comunicazione e promozione rivolte ai consumatori finali. Ne sono un esempio le operazioni “Made in Italy” condotte periodicamente in Russia, Cina, Taiwan, Polonia e Francia, con volantini contenenti oltre 100 prodotti italiani. Un ulteriore vantaggio del

servizio Export offerto ai fornitori è l’organizzazione di spedizioni in groupage: piccole quantità di prodotto dei vari brand, per garantire al cliente un minimo ordine più basso mantenendo comunque prezzi d’acquisto competitivi. «Tra le referenze italiane più vendute all’estero per numero di pezzi ci sono, ad esempio, la pasta fresca nel mercato polacco, la pasta di semola di grano duro in quello ucraino e ungherese, gli ammorbidenti in Romania, i gelati in Russia, l’olio extravergine di oliva a Taiwan e il pesto in Ucraina. Attualmente tra i mercati più promettenti ci sono i Paesi dell’Est Europa e Taiwan» conclude Montanari. Nel sito www.export.auchan. it, raggiungibile anche dal sito www.auchan.it, sono presenti inoltre le pagine News, con

gli aggiornamenti sulle ultime attività Export, e Contattaci, con la possibilità per il cliente e per il fornitore di inserire i propri dati e inviare così una richiesta di contatto direttamente all’ufficio Export di Auchan.

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di Francesco Lenoci - Docente Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Focus

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Il cibo giusto e la via della sostenibilità

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i è svolto domenica 8 e lunedì 9 ottobre 2017, a Orsara di Puglia, presso Villa Jamele e Nuova Sala Paradiso, l’evento “Il cibo giusto”. È stato questo il tema del 22esimo Appuntamento con la Daunia, organizzato da Peppe Zullo, il celeberrimo cuoco contadino. “Il cibo giusto è un tema enorme”, ha spiegato Peppe Zullo. “Per me il cibo giusto è il cibo che mette insieme i nostri doveri verso le generazioni future e il diritto di tutti a trarre salute, piacere e nutrimento da un’alimentazione consapevole, prodotta secondo principi etici, di equità sociale e di sostenibilità ambientale. Il cibo è il primo vei-

colo di cultura nel mondo; lo è da sempre”. Il 22esimo Appuntamento con la Daunia ha seguito e sviluppato il filo conduttore che Peppe Zullo ha tessuto negli ultimi 30 anni, nel segno

del “simple food for intelligent people”: cibo semplice, prodotto e gustato nel percorso dalla terra alla tavola, secondo i cicli delle coltivazioni e la stagionalità, per essere autenticamente saporito, genuino, frutto di una ricerca e una sperimentazione che vanno di pari passo al rispetto dell’ambiente e a una lettura sempre differente della tradizione. L’evento di domenica 8 e lunedì 9 ottobre 2017 ha fatto giungere a Orsara di Puglia – paese della Daunia riconosciuto come “Cittaslow” e Bandiera Arancione del Touring Club – cuochi, opinion leader, artisti, docenti e giornalisti da varie parti del mondo.


In particolare, alla prestigiosa tavola rotonda svoltasi presso Villa Jamele hanno preso parte: Odette Fada (The Culinary Institute of America), Federico Menetto (Food Expert), Domingo Schingaro (Executive Chef di Borgo Egnazia), Angelo Inglese (Stilista), Oscar Buonamano (Giornalista), Felice Limosani (Direttore Creativo), Antonella Montesi (Ristorante Malatesta di Berlino), Pierangelo Argentieri (Presidente Federalberghi Brindisi), Santino Caravella (Comico Gastronomico) e Francesco Lenoci (Docente Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano). Nel suo intervento il prof. Francesco Lenoci ha sottolineato come l’evento in oggetto fosse la prosecuzione ideale del messaggio lanciato da Milano a tutto il mondo con EXPO 2015, mediante la sottoscrizione della Carta di Milano. Viste le diseguaglianze esistenti nel mondo e legate al cibo, con la Carta di Milano i firmatari: in quanto cittadini, si sono impegnati a informarsi su ciò di cui si nutrono, a consumare solo le quantità di cibo neces-

sarie, a evitare lo spreco di acqua, ad adottare comportamenti responsabili e pratiche virtuose, a promuovere l’educazione alimentare e ambientale; in quanto membri della società civile, si sono impegnati a far sentire la propria voce a tutti i livelli decisionali, a denunciare le criticità nelle legislazioni che disciplinano la donazione di alimenti invenduti, a promuovere strumenti per il sostegno dei redditi di agricoltori, allevatori e pescatori, a valorizzare i piccoli produttori locali; in quanto imprese, si sono impegnati ad applicare le norme internazionali in materia ambientale e sociale, a inve-

stire in ricerca nell’interesse della collettività, a promuovere le diversificazioni di produzioni e allevamento, a produrre e commerciare alimenti sani e sicuri, a promuovere l’informazione dei consumatori, a contribuire allo sviluppo sostenibile; in quanto istituzioni, si sono impegnati ad adottare normative per garantire il diritto al cibo, a rafforzare le leggi per la tutela del suolo agricolo e per la sicurezza alimentare, aumentare le risorse per la ricerca, creare sostegni per le fasce più deboli della popolazione, valorizzare la biodiversità. Il professor Lenoci ha ricordato che il 2 maggio 2015 si recò a EXPO 2015 per salutare Peppe Zullo e poi raggiungere il Padiglione Italia, dove firmò la Carta di Milano. Il cibo giusto è quello che consente di custodire il creato. Chi l’ha insegnato per primo? Il poverello di Assisi: San Francesco. Francesco aveva un profondo rispetto e amore per la natura. L’amore di Francesco per l’acqua diviene invito a non inquinare uno dei beni più preziosi della vita.

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Il monito di Francesco rivolto al frate a non recidere del tutto i rami dell’albero nel momento della raccolta della legna implica il rispetto per i frutti della natura e dei tempi della potatura. L’invito di Francesco all’ortolano a lasciare libera una parte della terra lavorata rispetta i tempi di coltivazione e di maggese. Con riguardo al rispetto e amore per la natura non è stato da meno un terziario francescano davvero speciale, don Tonino Bello, che ha coniato la migliore definizione di sostenibilità di sempre: “La Terra non ci è stata data in eredità dai nostri padri, ma l’abbiamo ricevuta in prestito dai nostri figli”. Per don Tonino Bello il cibo è strumento di pace e di espressione culturale. L’accesso al cibo rappresenta un requisito fondamentale di una convivenza pacifica dei popoli. Il cibo e le modalità del suo consumo sono il principale strumento di incontro, dialogo, conoscenza e integrazione tra i popoli. È questo il messag-

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gio che dall’Albero della Vita di EXPO 2015 è arrivato a tantissima gente. Ma, come ci ha insegnato don Tonino Bello: “L’albero si conosce dai frutti. L’impegno sarà autentico se spunteranno gemme di decisioni forti e se sui rami della vita matureranno i frutti della speranza”. Il frutto più importante di

EXPO 2015 è stata la Carta di Milano e, quindi, ha concluso il professor Lenoci: “Sia lode e gloria al 22esimo appuntamento con la Daunia organizzato dal cuoco contadino Peppe Zullo, che con il tema “Il Cibo Giusto, The Right Food, U Magnà Just” prosegue il commendevole percorso sulla via della sostenibilità”.


“IL BUON VINO È OGNI VOLTA UNA SINFONIA DI QUATTRO MOVIMENTI, ESEGUITA AL RITMO DELLE STAGIONI. IL SOLE, IL TERRENO, IL CLIMA E I VITIGNI MODULANO L’OPERA, MENTRE IL VIGNAIOLO, COME SOLISTA, IMPRIME LA SUA CADENZA” (PHILIPPE MARGOT)

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di Saverio Buttiglione

Punti di vista

Produzione, comunicazione pubblicitaria e commercio: il marketing del III millennio

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l fattore Umano, che fra gli animali ha distinto la specie umana, è stato quello di produrre beni e servizi utili a migliorare la propria condizione di vita, con risultati, dovuti all’ingegno del nostro cervello la cui prima propulsione credo sia sempre la curiosità, inimmaginabili a tal punto che hanno avuto ed avranno sempre di più un formidabile impatto sull’ecosistema globale, nel bene e nel male. Leonardo da Vinci sognava di volare ma mai avrebbe immaginato che un giorno avremmo costruito oggetti del peso di tonnellate che avrebbero portato sopra le nuvole centinaia di noi. Gli altri animali producono poco o nulla, sono ancora al livello dei primi umanoidi che altro non erano se non raccoglitori e cacciatori, finchè inventando la coltivazione (agricoltura)

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e l’allevamento di altre bestie addomesticabili, utili a sfamarsi e coprirsi, si trasformarono da nomadi a stanziali. Vi immaginate una colonia di formiche che riesca a muoversi non solo grazie alle proprie zampe ma anche utilizzando dei trasportatori con energia autonoma da loro stesse inventati, costruiti e pilotati ? Ma l’uomo, sin da quando si è civilizzato, ha anche sviluppato la cupidigia che ha in comune con tutte le altre specie, cercando di rubare ai propri simili il frutto del loro lavoro, di qui sono nate le città fortificate e le guerre, fino ai nostri gior-

ni, utilizzando tutte le strategie utili a questo fine, persino la religione unita alla violenza, come ha dimostrato l’Isis che altro non è se non occupazione di territori ricchi di importanti materie prime come gas e petrolio. E’ chiaro che il modo migliore per approvvigionarsi di beni e servizi sia il libero scambio, con la mediazione e la trattativa, l’opera mercantile appunto, dove ognuna delle due parti enfatizza la propria offerta in maniera incruenta ma con le tecniche della promozione pubblicitaria. Queste tecniche, sempre esistite sin dai tempi del baratto, che con-


sentono di vendere qualunque cosa, persino se stessi, sono divenute sempre più sofisticate utilizzando le scienze statistiche e psicologiche per esempio, e sono alla base della moderna scienza del marketing. Ma ora che si sta passando dai mercati ristretti o da quelli nazionali a quelli, 4 o 5, di dimensione continentale, dalla via della seta alla via digitale di internet, insomma al mercato globale dove pare non ci siano più regole fisse controllabili e da tutti rispettate, in che modo si potrà trattare e comunicare senza ledere almeno la dignità degli uomini che hanno prodotto i beni e servizi immessi in questa nuova globosfera mercantile? In che modo la sovraproduzione di beni e servizi, che in alcuni casi raggiunge la saturizzazione, tanto che alcuni prodotti vengono costruiti deliberatamente con scadenza programmata per farne acquistare di nuovi, potrà conservare la qualità e chi la controllerà? In che modo la rincorsa al prezzo sempre più basso, a scapito del fattore umano, potrà salvaguardare la sicu-

rezza proprio nell’uso dei nuovi manufatti? Il tema della sicurezza si porrà fortemente con l’immissione sul mercato di macchine da noi prodotte che potranno autogestirsi grazie

alla loro intelligenza artificiale, senza più il controllo dell’uomo, per esempio le macchine per la mobilità di uomini e merci, le auto, i treni e gli aeroplani. Quando ventenne presi il primo

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volo aereo per andare al King’s College nel centro di Londra, dal balcone vedevo in ogni momento mi affacciassi 3 aerei in volo sul vicino aeroporto di Heathrow, uno che decollava, uno che atterrava ed uno che attendeva, mi sembrava un affollamento impossibile da noi in Italia … invece ora, ogni volta che torno dalla redazione milanese sul roof garden nel mio studio a Putignano nella Val d’Itria di Puglia, alzo gli occhi e vedo passare almeno tre aerei di linea ad alta quota, che ai tempi dei Re Magi li avrebbero presi per stelle comete, ed a questi si aggiungono spesso le coppie di caccia in partenza o arrivo sul vicino aeroporto militare di Gioia del Colle (come li vedevo già da bambino quand’ero ospite di mio nonno

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nella sua azienda vinicola limitrofa alla pista del 36° Stormo, ma erano gli unici che passassero sopra le nostre teste quotidianamente). Oggi, soprattutto grazie alle compagnie low cost ormai milioni di persone viaggiano in aereo e questa estate una delle più importanti in Europa ha avuto seri problemi di affidabilità per l’emorragia di piloti che, vista la bassa paga, hanno trasmigrato a lavorare altrove. Sono certo che lo sviluppo di sistemi di guida automatici sempre più sofisticati e la produzione di androidi con intelligenza artificiale consentiranno, per ridurre ancora i costi, di sostituire sia i piloti che gli stewards e le hostess, così come potremo avere treni senza conducente e pure le

auto che si guidano da sole. Il fattore umano nel mercato del futuro potrebbe essere abolito del tutto in tanti campi (le fabbriche manifatturiere ormai sono quasi completamente robotizzate), soprattutto quando alla enorme memoria dei computers si aggiungerà l’intelligenza artificiale formando un incomparabile “cervello” infallibile. Ma visto che basta una semplice esplosione (che ciclicamente si verifica) nucleare del sole che invii i suoi raggi gamma nella direzione della Terra a mettere fuori uso, col suo campo magnetico, le nostre tecnologie avanzate, spero che almeno i veicoli che utilizzeremo siano prodotti consentendo sempre il passaggio alla guida manuale e quindi sia sempre prevista la presenza dell’uomo che controlli (si stanno per produrre auto senza il volante e già ci sono discussioni legali su quale sarebbe la responsabilità in caso di incidente, se per esempio il pilota automatico “intelligente” debba privilegiare la vita dell’ex conducente o quella di chi si stia per investire). Conservo gelosamente una moto Yamaha che non ha nulla


di elettronico, quella che a 200 kmh sulle dune del deserto ha vinto ben 6 edizioni della mitica Parigi/Dakar, ma mi piace guidare anche quelle tutte controllate elettronicamente, persino nelle frenate, negli ammortizzatori e nel passaggio di potenza del motore sulle singole ruote, come la Ducati desmosedici, costruita a Borgo Panigale di Bologna, vanto italiano e promossa pubblicitariamente specie quest’anno che Andrea Dovizioso ha combattuto fino alla fine nel mondiale di MotoGP con la Honda di Mark Marquez. Pur tuttavia anche questo manufatto italiano è soggetto alle regole dell’attuale mercato globale. La proprietà della Ducati è della tedesca BMW, nessuno potrebbe impedirle di trasferire altrove la produzione, per risparmiare sulla mano d’opera, utilizzando del presente solo il glorioso marchio per ragioni di marketing. E’ solo un esempio, ma questo potrebbe accadere anche per tanti altri prodotti, anche per quelli del settore agroalimentare, visto che molte aziende italiane di eccellenza sono state acquistate da investitori esteri. Consiglierei, qualora accades-

se visto che il mercato globale sfugge alle regole imposte dai singoli Paesi e l’unica cosa che conta è appunto salvaguardare il marchio, quando questo evochi storia, tradizione e qualità, alle maestranze di Borgo Panigale, così come a quelle che producono i panettoni milanesi piuttosto che i formaggi, l’olio o la pasta pugliese, di fregarsene del vecchio marchio, seppur glorioso, e di continuare a lavorare agli stessi prodotti nei luoghi d’origine, unendosi in cooperative, ed anzi investendo in Ricerca e Sviluppo con nuovi marchi,

sempre sperando che il sistema bancario possa e voglia finanziarli, come sarebbe scontato visto che quella dovrebbe essere la sua mission principale, e non quella della “finanza creativa” che tanti guai ha creato in questi ultimi 10 anni. Arrivano le feste di fine anno, perciò gli auguri di Natale non possono che essere quelli di gustare i tanti prodotti enogastronomici di qualità che ci offre il mercato italiano, ricchi di tipicità uniche. Per il nuovo anno invece spero che la politica, almeno in Italia, ritrovi il senso di responsabi-

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lità assolutamente necessario in un mondo globalizzato sempre più caotico e schizofrenico, dove pare che tutti i valori vengano abbattuti senza però sostituirli con altri che tengano conto, almeno, del buon senso. I nuovi nazionalismi e le nuove paure portano le masse a seguire fanatismi che sottintendono “piccole” patrie, d’altronde quando fuori piove è spontaneo chiudersi in casa. Dan Brown, lo scrittore del “Codice da Vinci”, ritiene che sia l’ignoranza planetaria a consentire ancora la sopravvivenza delle religioni e che queste debbano sapientemente fare i conti con la scienza e ristrutturarsi perché, se per noi bambini i miracoli erano quelli raccontati nelle chiese, moschee e sinagoghe, per i giovanissimi d’oggi i miracoli sono quelli che consentono le nuove tecnologie digitali. Se la maggior parte dei quasi otto miliardi d’individui fosse

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istruito almeno sulle scienze astrofisiche, la loro scelta religiosa sarebbe consapevole e non fanatica e fondamentalista, per il bene di tutti gli altri. Dan Brown, intervistato dalla RAI per l’uscita del nuovo romanzo “Origin”, ha ricordato che è cresciuto con un papà professore di matematica ed una mamma che faceva la corista in chiesa, pertanto guardava la realtà con un approccio razionale ed uno fideistico. Ma la storia ci ha insegnato che le religioni invecchiano al contrario delle scienze che ringiovaniscono rinnovandosi, Brown ha fatto l’esempio degli antichi che erano certi sul fatto che le maree fossero provocate dal Dio Poseidone, oggi che sappiamo invece esser causate dalla luna ci metteremmo a ridere, infatti Poseidone è sparito come tante altre religioni. Ma Papa Francesco, ormai una delle poche voci autorevoli ascoltato dalle masse, è mol-

to attento alle nuove frontiere scientifiche e tecnologiche senza demonizzarle come anche la Chiesa Cattolica ha fatto nel passato (basti pensare alle persecuzioni subite da Galileo Galilei), e perciò bisogna ringraziarlo quando, pur adeguando il suo pensiero religioso ai nuovi traguardi scientifici, di contro mette in guardia dai pericoli derivanti dall’unica legge globale dominante, quella del Mercato. Nel mese di ottobre, rivolgendosi ai membri dell’Accademia Pontificia delle Scienze Sociali diceva: “L’efficienza è il vitello d’oro dei nostri tempi, diseguaglianza e sfruttamento non sono una fatalità, occorre svincolarsi dalle pressioni delle lobbies pubbliche e private. Papa Francesco ha indicato «due cause specifiche che alimentano l’esclusione e le periferie esistenziali». La prima, ha detto, «è l’aumento endemico e sistemico delle disegua-


glianze e dello sfruttamento del pianeta, che è maggiore rispetto all’aumento del reddito e della ricchezza». La seconda è «il lavoro non degno della persona umana». La diseguaglianza e lo sfruttamento «non sono una fatalità e neppure una costante storica», ha osservato il Pontefice. Esse «dipendono, oltre che dai diversi comportamenti individuali, anche dalle regole economiche che una società decide di darsi». Il Papa ha fatto gli esempi della produzione dell’energia, del mercato del lavoro, del sistema bancario, del welfare, del sistema fiscale, della scuola. A seconda di come vengano progettati, cambia la ripartizione di reddito e ricchezza. «Se prevale come fine il profitto, la democrazia tende a diventare una plutocrazia in cui crescono le diseguaglianze e anche lo sfruttamento del pianeta. Ripeto: questo non è

una necessità; si riscontrano periodi in cui, in taluni Paesi, le diseguaglianze diminuiscono e l’ambiente è meglio tutelato». In un mercato non etico anche il lavoro diventa indegno della persona umana, e su questo versante nonostante lo sviluppo tecnologico non vi è stata di pari passo uno sviluppo della scienza etica anzi si vedono enormi passi indietro, infatti all’epoca della Rerum novarum (1891), ha ricordato il Papa, «si reclamava la “giusta mercede al lavoratore”» adattando tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita e (come Bergoglio spiega mirabilmente, quasi fosse un uomo di scienza piuttosto che un leader religioso, nell’Enciclica Laudato si’) nel rispetto del creato, nostra casa comune. Per Papa Francesco la giusta “ricetta” per la creazione di nuovo lavoro consiste in «persone aperte e intraprendenti, relazioni fraterne, ricerca e investimenti nello sviluppo di energia pulita per risolvere le sfide del cambiamento climatico» e per ben miscelare questi ingredienti servono due accorgimenti ossia «svincolarsi dalle pressioni delle lobbies pubbliche e private che difendono interessi settoriali superando le forme di pigrizia spirituale». Il Papa non ha dubbi, è realistico e si può fare, soprattutto perché il mercato così com’è diventato, sfrenatamente libero per non dire anarchico e senza regole, se non quelle del più furbo e del più forte, alla lunga creerà disastri non ripa-

rabili, perciò più che la religione prevarrà il buon senso, sotteso all’autoconservazione del genere umano. La sfida da raccogliere, a tutti i livelli per le proprie competenze e possibilità, individuali, politiche e professionali, è quella del “senso di responsabilità” ormai quasi dimenticato, per “civilizzare il mercato, nella prospettiva di un’etica amica dell’uomo e del suo ambiente». «Dobbiamo chiedere al mercato - ha ribadito Francesco - non solo di essere efficiente nella produzione di ricchezza e nell’assicurare una crescita sostenibile, ma anche di porsi al servizio dello sviluppo umano integrale». Il Papa ha sottolineato: «Non possiamo sacrificare sull’altare dell’efficienza – il “vitello d’oro” dei nostri tempi – valori fondamentali come la democrazia, la giustizia, la libertà, la famiglia, il creato». Interessante anche l’esorta-

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zione di Bergoglio a ripensare lo Stato-nazione in tempi di crisi unitarie con spinte centrifughe verso le disgregazioni volte alla costituzione di piccole patrie coi meccanismi delle secessioni, come abbiamo visto con la Brexit nei confronti dell’Unione Europea, con la Catalogna nei confronti della Spagna. Nel nuovo contesto della globalizzazione occorre ripensare la figura e il ruolo dello Stato-nazione. «Lo Stato - ha spiegato Francesco - non può concepirsi come l’unico ed esclusivo titolare del bene comune non consentendo ai corpi intermedi della società civile di esprimere, in libertà, tutto il loro potenziale». Sarebbe, questa, «una violazione del principio di sussidiarietà». L’obiettivo è dunque quello di «raccordare i diritti individuali con il bene comune» evitando che zone e regioni che possiedono ricchezze in materie prime e fonti energetiche si rinchiudano in se stesse come fortezze medievali, separan-

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dosi dal resto del Paese al quale appartengono per geografia, storia e lingua comuni, per il semplice ed egoista motivo di non condividere il loro benessere con le zone più svantaggiate della loro nazione. In conclusione Papa Francesco ha paragonato il ruolo della società civile «a quello che Charles Péguy ha attribuito alla virtù della speranza: come una sorella minore sta in mezzo alle altre due virtù – fede e carità – tenendole per mano e tirandole in avanti, compito della società civile è dunque quello di “tirare” in avanti lo Stato e il mercato affinché ripensino la loro ragion d’essere e il loro modo di operare». Ma c’è un nuovo mercato (globale anch’esso naturalmente) che sta fruttando enormi profitti, tanto che vi si sono buttati a capofitto con ingenti investimenti i colossi del web, da Facebook a Google come pure la IBM col suo software di intelligenza artificiale, è quello della mappatura del codice genetico di ognuno di noi.

Il coperchio di questa pentola a pressione tenuta il più possibile segreta è stato tolto quando si è scoperto del furto avvenuto in Sardegna dei codici del DNA, che erano stati raccolti su basi volontarie dagli abitanti della zona Ogliastra, quasi tutti ultracentenari, per fini di ricerca scientifica. Nel frattempo la società 23andMe, partecipata da Facebook, ormai divenuta un colosso finanziario, vende online un kit per prelevare il proprio DNA e ricevere, dopo averlo spedito a loro, la propria personale mappa del genoma, scoprendo a quali malattie siamo più sensibili piuttosto che quali affinità abbiamo con ceppi di avi che possono essere vissuti in altre parti del mondo. La cosa sembra affascinante, senonchè si va man mano costruendo, a nostra insaputa, un’enorme banca (termine appropriato visto il valore) dati fuori dal nostro controllo e che addirittura contribuiamo a costruire pagando noi, col profilo genetico di milioni di individui. Il codice del nostro DNA altro non è che il “manuale di istruzione” che guida le singole cellule affinchè compongano un


fiore, un animale, una persona, ognuna con proprie peculiarità, appunto, genetiche, se fosse possibile scriverlo sulla chiavetta usb ci vorrebbero 10 navi Titanic piene di pendrives, invece l’evoluzione della natura ha saputo fare molto meglio sintetizzandolo nelle cellule di un nostro capello, per esempio, e noi siamo stati capaci un decennio fa di decifrarlo (a cominciare dal nostro premio Nobel Dulbecco). E’ nato così il “marketing genetico”, grazie al quale ci appariranno (qualora abbiamo dato le informazioni riguardo il nostro personale genoma a chi ce lo ha chiesto, per innocenti e virtuose finalità), sul nostro computer o smartphone, per esempio, banners che pubblicizzano prodotti alimentari specifici per il nostro individuale organismo. Il lato buono di questo inedito marketing è dato dal fatto che le case farmaceutiche, che stanno acquistando migliaia di profili genetici da chi li possiede (in Inghilterra 23andMe ha concluso un accordo con gli Enti Ospedalieri per entrare in possesso delle cartelle cliniche), potranno sviluppare farmaci personalizzati molto più efficaci, o dal fatto che IBM , vendendo un robot casalingo dotato di AI, potrà fare su di noi diagnosi molto più accurate essendo in grado di consultare online milioni di casi simili. Il rovescio della medaglia, se facciamo un’analisi swot, è che i farmaci personalizzati costeranno moltissimo e naturalmente non sarà possibile che siano a carico della sani-

tà pubblica, ma il fattore più negativo è quello relativo alla fine della libertà e della privacy, come ben sottolineato dal Garante italiano di questa Autorità Antonello Soru. La profilatura di ognuno di noi, non solo relativa ai dati identitari e di comportamento che ogni giorno postiamo noi stessi senza ritegno sui socials, ma accoppiata alla profilatura del nostro patrimonio genetico ci renderà schiavi di chi saprà tutto, ma proprio tutto, di ognuno di noi, e ne farà l’uso che riterrà più utile per i propri profitti, altro che occhio nascosto da “casa del Grande Fratello” teorizzato da Orwell nel suo celebre romanzo “1984”. Quale compagnia di assicurazione stipulerà una polizza (se non a prezzo esorbitante) a chi sa essere soggetto ad una ben determinata malattia? La stessa chiusura che avrà un datore di lavoro quando oltre al curriculum leggerà (con più attenzione) il profilo genetico del candidato. Negli USA si sta discutendo per l’appunto la famigerata proposta di legge 1313, che se venisse approvata, visto che in quel Paese le spese sanitarie sono a carico del datore di lavoro, ci sarà un’epidemia di licenziamenti. Sperare nel buon senso di chi detiene oggi il potere in questa società globale e, come diceva Bauman, liquida, con capi di Stato che si minacciano a vicenda paventando l’uso delle armi nucleari, sembra quasi di voler ostinarsi a credere alle favole quando si è già ben adulti.

Comunque noi di Slow Economy come sempre cerchiamo di guardare il bicchiere mezzo pieno, a cominciare da quello che può fare di questi tempi di passaggio tra un’epoca e l’altra, la nostra cara e ricca (di risorse culturali, scientifiche, ambientali ma soprattutto intellettuali) Italia. Ho incontrato un esponente del centrosinistra, Matteo Renzi, ormai attaccato da tanti (mentre tanti erano sul suo carro di vincitore quando portava il suo partito al 40% nelle elezioni europee, ma questo è da sempre un vizio italico) e gli ho detto di ascoltare i consigli che gli da dalle pagine del giornale da lui fondato un vecchio saggio e grande intellettuale. Eugenio Scalfari è sempre stato critico nei suoi confronti ma con pragmatismo, come ha scritto in molti suoi editoriali, è proprio Renzi che, se dovesse ritornare a Palazzo Chigi, dovrebbe riprendere la battaglia in seno all’Unione Europea affinchè si vada verso gli Stati Uniti d’Europa, visto il nonsenso dell’attuale confederazione, cominciando con un ministero unico delle Finanze (equiparan-

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do finalmente le aliquote fiscali almeno in tutti i Paesi dell’Euro) come sostenuto anche dal Presidente della BCE Mario Draghi, ed un ministero unico della difesa e degli esteri. Se l’unica cosa che ormai conta è il mercato, e quello europeo fa gola a molti, compresi gli inglesi che hanno voluto uscire dall’UE, sarebbe necessario far parte di una potenza continentale alla stregua degli USA, della Cina, dell’India, e questa sarebbe una Europa federata. Matteo Renzi mi ha risposto: “Ricevuto !”. Per così dire in “ par condicio” ho avuto un gradevole incontro anche con un eminente rappresentante del centrodestra, il Senatore Piero Liuzzi, componente la Commissione Cultura di Palazzo Madama, e nel suo caso l’ho esortato a continuare il suo lavoro di sinergia tra ambiente, territori, beni architettonici e risorse agroalimentari, un mix di Cultura non solo utile alla coesione sociale dei tanti luoghi

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tipici italiani ma anche un fattore di crescita economica sia per le singole filiere interessate sia per la gradevolezza che dall’estero viene riconosciuta ai nostri prodotti, cosa che di conseguenza incentiva anche un altro comparto importante per il nostro PIL, il turismo.

Piero Liuzzi ha accettato con piacere la mia esortazione ed anzi mi ha chiesto di scrivere un articolo che in altre pagine di questo numero pubblichiamo. Un turismo di qualità ed ecosostenibile è quello a cui guarda con intelligenza il mio Sindaco della Città Metropolitana di Bari, Antonio Decaro, che da ingegnere dei trasporti e figlio di ferroviere, quindi da competente in materia, sta trasformando la città “porta europea” del Levante sia con il WaterFront, l’allargamento verso il mare del famoso lungomare di Bari, che conterrà anche le piste ciclabili, sia con l’incentivazione dei mezzi pubblici ad energia elettrica, non a caso gli 8.000 sindaci d’Italia lo hanno eletto loro Presidente all’ANCI affinchè la sua visione del futuro dei nostri borghi e delle nostre città possa essere contagiosa, con gli auguri per un buon 2018.

C


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di Saverio Buttiglione

Ritratti

Cesare Feiffer: l’architettura con la “A” maiuscola

A

ncora una volta il mecenatismo dei privati in Italia si conferma come una delle pratiche pubbliche che funzionano “nonostante tutto”: dopo il meritevole esempio di Diego Della Valle nel restauro del Colosseo (la sua Tod’s ha pure aperto una nuova fabbrica nelle zone terremotate di Pescara del Tronto) o Brunello Cucinelli che ha restaurato tutto per intero un borgo medievale impiantandovi la sua azienda di alta sartoria dove ogni capo esce con un microcips che consentono di consultare la tracciabilità di tutta la filiera produttiva, ecco il Gruppo Generali che ha ultimato il restauro delle “Procuratie Vecchie” veneziane insieme ai giardini reali (voluti da Napoleone per la principessa Sissi) compreso il ponte leva-

toio che li collega, per aprirli al pubblico dopo ben 500 anni. Al telefono abbiamo ascoltato la soddisfazione dell’architetto veneziano, che insegna anche all’Università Roma III, Cesare Feiffer, una delle massime autorità fautore instancabile del restauro consapevole e del riuso “produttivo” di vecchi manufatti. Questo consentirebbe, qualora fosse fatta un’operazione nazionale su larga scala, di evitare il consumo di altra terra per cementificare, soprattutto dopo che abbiamo ascoltato la relazione dell’Anas sullo stato delle infrastrutture italiane: migliaia di ponti della rete stradale si stanno sgretolando ed il cemento “armato” viene via con le mani (pure il ferro ormai ossidato si sgretola appena toccato). Sembra la previsione che decenni fa ha

fatto il “cantante” Adriano Celentano quando ha definito gli ingegneri ed i costruttori della 2a metà del secolo scorso degli incompetenti irresponsabili a dir poco (infatti per esempio, gli acquedotti romani, costruiti con scienza e sapere ben 2.000 anni fa, sono in piedi ed in grado di funzionare ancor oggi). L’architetto Feiffer ci ha fatto l’onore di mandarci un suo articolo per questo numero novembre di Slow Economy che celebra i suoi 5 anni di vita, parlando dell’inutilità degli albi professionali, ormai una pura ipocrisia che evita di andare al cuore dei problemi, la Responsabiltà personale. Ci piace riprodurre qui un articoli del professore che ne denota lo spessore culturale, unito ad una prassi sul campo, dove ha dimostrato che recupero e riuso produttivo è un buon investimento economico e non una mera operazione filantropica. Il futuro del suolo Fino a qualche anno fa, circa fino all’inizio della crisi, era usuale confrontarsi tra colleghi professionisti, docenti, operatori e tra coloro che vivono nel campo dell’architettura, sia parlata sia realizzata, sul futuro del nostro mestiere. L’idea più condivisa era quella di chi riteneva progressiva, inarrestabile e continua l’espansione dell’edilizia in tutte le sue for-

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me, da quelle della nuova edilizia nelle aree agricole con agghiaccianti villettopoli a quella pietosa dei centri commerciali che costellano i principali nodi stradali, a quella delle aree industriali o artigianali, che con la legge Tremonti hanno visto il loro canto del cigno prima di estinguersi definitivamente. Era un’idea di sviluppo infinito che dall’operatività si estendeva alla formazione universitaria ed era così radicata e così condivisa e così connaturata all’operare di ciascheduno che pareva non dovesse mai avere fine. Esisteva la certezza che il futuro sarebbe stato sempre così, consumando risorse finite per un tempo infinito. L’opinione minoritaria era quella di coloro che ritenevano, già venti o trent’anni fa, che l’Italia fosse satura, già troppo intensamente costruita, e sostenevano in via teorica la necessità di rivedere le modalità di questo forsennato sviluppo (semmai la classe dirigente politica le avesse tracciate) e in linea pratica di limitare l’espansione edificativa ed indirizzarla al riuso del patrimonio esistente anziché alla nuova costruzione.

Non secondario era il riflesso che questo atteggiamento aveva nei confronti dell’ancora immatura cultura del paesaggio. Si parlava per primi di risorse architettoniche e di risorse paesagistiche , di necessità di un loro uso parsimonioso ed attento in quanto elementi non riproducibili e soprattutto peribili, insistendo per una revisione profonda degli schemi mentali impressi a fuoco nella cultura dell’architetto, del costruttore o dell’amministratore pubblico. Trent’anni fa l’uso del termine risorsa nei confronti del paesaggio o del costruito storico era di per sé significativo di una cultura, di un atteggiamento e di una diversa concezione dello sviluppo; esso comportava il rovesciamento radicale delle consuetudini e degli atteggiamenti non solo delle professioni legate alle fasi del progetto e a quelle della realizzazione ma anche a quelle che riguardavano la filiera lunghissima del settore. Non mi riferisco solo alla riscoperta del centro storico come strumento per invertire l’espansione urbana ma a tutto

quel settore fortemente innovativo e propositivo della conservazione del costruito, della tecnologia del recupero, degli inizi della sostenibilità e dell’ecologia applicate all’architettura, a quello della nascente sensibilità per la protezione del paesaggio. Questa cultura della conservazione delle risorse è stata sempre minoritaria, non ascoltata e marginale sia nel mondo del fare sia in quello dell’insegnare architettura, vista a volte come pura astrazione di architetti idealisti, altre volte come insignificante cultura trasversale nemica dell’architettura. Questi due diversi modi di intendere il futuro, in sintesi, erano distanti perché i fautori dello sviluppo infinito puntavano sulla fantasia creativa quale scintilla che innesca l’atto della progettazione del nuovo, mentre i conservatori ritenevano che il momento più importante fosse la conoscenza, che a scale diverse riguardava l’edificio, il contesto ed il paesaggio, perché nessun progetto di riuso, di riconversione, di restauro poteva e può

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essere svolto senza profonda e capillare conoscenza. Il paragone con l’importanza che ha l’anatomia negli studi medici è fin troppo banale ma è così. Se non si conosce l’architettura (non necessariamente storica, monumentale o antica) e il paesaggio, non si sa da che parte iniziare un progetto; in questi casi, e non sono pochi, i rilievi sono sommari e imprecisi, le analisi sono assenti, i progetti sono distanti dalla realtà e i preventivi, ed è questo l’aspetto più tristemente noto, saltano dopo il primo giorno di cantiere. E anche per questa ragione le operazioni di recupero e restauro sono sempre state viste con diffidenza dagli operatori economici,; i progetti sono carenti, ma questo è un discorso diverso. Due fatti hanno modificato questa visione del futuro, questa contrapposizione di culture e questo dominio dell’una sull’altra: il primo è la grande crisi, che ha fermato tutto azzerando anche il dibattito ed il confronto. La crisi ha annichilito tutti e tutto, anche chi per anni riteneva di essere

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in Australia o in Cina, laddove il territorio è vergine e tutto da costruire non vedendo alternativa alla nuova edificazione. Il secondo potrebbe essere la recente legge sul consumo dei suoli approvata dalla Camera e che ha iniziato l’iter di discussione parlamentare. Se fosse una buona legge, come sostengono le associazioni e come contrastano i costruttori e gli ordini professionali, potrebbe spostare l’ago della bilancia in favore del recuperoeconservazione delle risorse piuttosto che del loro consumo infinito. Se arrivasse all’approvazione senza essere snaturata nei principi di tutela del paesaggio e nella volontà di limitare l’impermeabilizzazione di tutti i suoli senza deroghe ed eccezioni, essa potrebbe radi-

calmente cambiare la nostra futura professione. Se in un domani molto prossimo si fosse concretamente costretti a riusare il costruito antico, stoico o anche quello recente, invece di espandersi impermeabilizzando nuovi suoli o occupando campagne o colline ancora libere, con quale cultura progettuale, con quali soluzioni tecniche si affronterebbe il progetto dell’ “esistente” ? A meno che non si tratti di demolizione e ricostruzione dei volumi, operazione non sempre facile per gli elevati costi e per la necessità di proprietà unitarie ed estese, dove la fantasia creativa ha sicuramente la sua importanza, come si comporteranno le professionalità che non hanno dimestichezza con la conoscenza? O con la pratica della lettura delle strutture, delle finiture e dello stato di conservazione dell’edificio antico? Interverranno come un medico che non ha studiato l’anatomia? Come un dottore che ignora l’eziologia, la patologia e la diagnosi in generale?


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di Cesare Feiffer, architetto a Venezia, docente a Università Roma3 e direttore del magazine “RecuperoeConservazione”

Focus

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Il restauro non è ricostruzione

C’

è poco da fare, o il restauro lo si studia, si è a conoscenza dei temi teorici, dei problemi operativi, ci si aggiorna costantemente e si verifica in pratica questo sapere specialistico nei progetti e nei cantieri, oppure quando si parla si fanno figuracce. Se si parla di restauro, e ancor di più se si scrive in merito, bisogna conoscerne il pensiero teorico, l’evoluzione storica e le tendenze attuali, ma anche capire come tutto ciò possa influenzare l’operatività a livello di materiale, di struttura, di singolo edificio, di borgo storico e di città costruita. Se in questo mondo non facile si giudicano dei fatti e si esprimono opinioni, travisando non solo le basi del restauro ma pure i fini, i concetti fondativi e persino il lessico che ha precisi significati, allora … si ignorano le cose. E in questo caso si è quindi ignoranti. Anche negare la cultura, la ricca articolazione di questo settore, è un atteggiamento che consente di parlare di restauro agli incompetenti. Ciò che è stato faticosamente maturato da chi al restauro ha dedicato decenni di attività didattica nelle università e nelle scuole di formazione, di ricerca nei laboratori del Ministero ed in quelli delle aziende, di tutela operativa (come nel caso dei soprintendenti) e di attività professionale, privata o alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, non è certo un pensiero omogeneo e a volte non è nemmeno coerente.

Spesso è un pensiero anche molto criticabile ed apparentemente contraddittorio, però è un settore estremamente ricco di cultura e che tutto il mondo ci riconosce. Si tratta di un sapere che si è condensato in una produzione letteraria assai ampia oltre che in documenti legislativi nazionali e in una normativa tecnica che restano tra le più avanzate del pianeta. I caratteri interdisciplinari degli apporti culturali dai quali il restauro ha attinto linfa sono talmente ampi che è impossibile ricordarli tutti: dalla storia dell’architettura e delle tecniche costruttive alla critica dell’arte, dalla filosofia alle teorie sul restauro, dalla chimica alla fisica, dalle scienze del consolidamento della materia e della struttura fino alla diagnostica non distruttiva. Il restauro è un settore molto complesso quindi, nel quale pontificare o esprimere opinioni dovrebbe essere un atto caratterizzato da prudenza e consapevolezza dello spessore culturale che la materia possiede. Invece i recenti drammatici fatti accaduti alla fine di agosto hanno dato fiato alle trombe di chi ignora la materia ma non riesce a reprimere la propria ansia di comparire. Perciò, oltre ad avere una popolazione italica di ingegneri sismici e di esperti geologi, ora

abbiamo anche nuovi luminari del restauro e delle teorie della ricostruzione. Peccato però che in questo settore , come in ogni campo del sapere, non sia ammessa l’ignoranza che porta appunto a fare figuracce. In questo senso si moltiplicano le dichiarazioni e le esternazioni di esperti, di personalità della cultura, di tecnici, di politici e di amministratori pubbici, favorevoli o contrari al “com’era dov’era”. Dappertutto si sostiene o si critica la ricostruzione da zero “tramite un restauro attento e filologico” di case, comparti, centri completamente crollati confondendo, che è cosa assai grave, la costruzione del “nuovo in stile” con il restauro. Molte volte ed in molte sedi è stato ripetuto che il restauro e la conservazione si applicano ad un bene fisicamente edificato, che pur essendo tutto o in parte degradato, dissestato, tecnologicamente carente “deve essere materialmente ancora presente”.


Se non esiste più perché è crollato del tutto non si può più parlare di restauro ma di nuova costruzione. Questa distinzione è fondamentale anche se sembra banale, ovvia e scontata, perché traccia il limite di fuorigioco del restauro. Detto ciò sulla preesistenza materiale e fisica possono applicarsi metodi e soluzioni di restauro che potranno essere più o meno conservativi, più o meno critici e più o meno di ripristino. Creando da zero, invece, quando un sisma ha azzerato tutto, bisogna intervenire con la cultura della composizione architettonica del nuovo. Quando l’edificio è caduto, distrutto e scomparso, i valori di cui esso era portatore, quelli di storia, arte e bellezza, ed i suoi caratteri materiali, che sostanziavano la sua specifica autenticità, sono venuti a mancare. In tal caso come posso restaurarlo compiendo azioni di consolidamento, integrazione, finitura ed adeguamento tecnologico ? Su questo elementare concetto, che sembra ancora non esser chiaro anche a qualche addetto ai lavori, sono stati spesi fiumi di parole. Invece nel caso della nuova costruzione le scelte sono tutte soggettive, si potranno privilegiare i caratteri dell’acciaio e del vetro, come qualcuno ha recentemente sostenuto, quelli contemporanei di qualche “archistar”, che è recentemente atterrato da Marte, oppure quelli desolanti delle “new town” dell’Aquila, per finire a quelli della costruzione analogica e “à l’identique”, realizzata su modelli tipologici

storici. Sono soluzioni diversissime e, sia chiaro, non si parla più di restauro ma di nuova costruzione, che inizia, appunto, lì dove il restauro finisce, ossia dove non è più presente l’edificio storico che è l’oggetto delle attenzioni. Mi sembra semplice come concetto ma fermiamoci qui perché ora non c’è altro da fare che guardare oltre al disastro dell’ennesimo sisma, ai crolli ed al dolore che ha provocato, e su questo siamo tutti d’accordo. Pensiamo quindi a costruire o quando si può a restaurare. Se per gli abitanti colpiti dal disastro guardare oltre significa quasi voler esorcizzare la paura che li attanaglia, aiutandoli in qualche modo a lenire il tremendo dolore che si porteranno dentro, facilitando loro la sopravvivenza, per tutti gli altri in qualche modo coinvolti direttamente, per gli addetti ai lavori, la risposta a come intervenire si manifesta quasi come un riflesso condizionato. Come troppo spesso è già avvenuto manca un’adeguata riflessione ripercorrendo, in modo anche goffo, strade ampiamente percorse in passato. Voglio ricordare quando, in occasione dell’in-

cendio del Teatro La Fenice, ci fu la decisione “bulgara” della Giunta veneziana capitanata da Massimo Cacciari sindaco che dichiarò: “mi auguro che gli “intelligenti” del mondo non s’inventino nulla e stiano zitti” (cfr. Franco Zeffirelli su Il Messaggero del 31gennaio 1996). Magari a seguito di un confronto la risposta avrebbe potuto essere la stessa ma, almeno, sarebbe uscita da un dibattito appunto tra “intelligenze”. In questi casi non v’è dubbio che il problema sia complesso, ma sembra che chi auspica un momento di riflessione, per chiedersi come e con quali requisiti culturali intervenire, sia visto come un oppositore rispetto all’efficiente macchina della risoluzione di ogni problema, e venga perciò percepito come un ostacolo. Siamo credo invece tutti d’accordo sul giudizio negativo sui precedenti interventi post sisma, non solo relativamente alle forme, ai costi e ai tempi della ri/costruzione, ma pure sul non aver tenuto in considerazione molti aspetti che caratterizzano l’abitare in un borgo o in una città storica. Questi aspetti non consistono esclusivamente nella ricostruzione fisica, costruire ciò che è stato distrutto non vuol dire soltanto dare un tetto con camere, soggiorno e cucina a chi non l’ha più. Personalmente penso che la ri/ costruzione debba essere attenta anche a quei valori invisibili che possedevano quelle abitazioni, quei paesi e quei borghi, e che se ne sono andati via con il crollo e la successiva rimozione delle ma-

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cerie. Mi riferisco non solo alla memoria personale di ognuno, che in pochi secondi è stata cancellata, ma anche a quella ricchezza di rapporti e relazioni umane e sociali che la vita di paese comportava e che negli anni e nei decenni ha costituito il “sale” di quel particolare abitare quei luoghi. Ulteriori valori sono la percezione del paesaggio naturale limitrofo visto da dentro il borgo, e del paesaggio internamente costruito e fatto di case di sasso frammentate dai vicoli dove s’era d’uso passeggiare, valori sono la piazza del paese ed il bar dove si giocava a carte buttando l’occhio su chi passava di lì a quell’ora, come pure la Chiesa e la sua comunità, lo scorazzare dei bimbi all’uscita dalla scuola, l’andare a comprare il pane e fare la spesa, fatti quotidiani e minori ma pur sempre basilari nella vita di ognuno. Direi quindi che la nuova costruzione debba tener conto anche del “benessere” che conferiva agli abitanti vivere quegli spazi ora distrutti, ristabilendo il più possibile la stessa tipologia di rapporti sociali e quotidiani. Anche per questa ragione quegli insediamenti si riempivano di turisti durante l’estate, appunto perché anche la gente di città sente il bisogno di ritrovarsi in quei valori che la metropoli di oggi nega loro totalmente. Porre grande attenzione a questi aspetti si concretizza in una progettazione del nuovo ri/costruito assai diverso di quanto fatto nei post terremoti, un nuovo costruito che ho più volte definito “compatibile”. Si tratta di una progettazione

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fondata sulla profonda conoscenza del luogo, delle sue architetture, “maggiori” o “minori”, delle strutture e dei materiali appartenenti alla tradizione costruttiva locale, presenti in natura nel sito. Una composizione con forme contemporanee ma con materia e finiture in qualche modo “organiche”, che significa fare sintesi di una complessità di significati assunti nel corso della storia dell’architettura, da Alberti (concinnitas) a Wright, da Zevi a tanti altri. La progettazione “compatibile” è diversa perché rovescia i concetti compositivi tradizionali e si raggiunge percorrendo la strada nella quale si sono cimentati con esiti illuminanti Albini, Gardella, Gabetti, Isola, De Carlo, ultimamente Follina, Carmassi e quanti cercano, come spiega il nuovo dizionario Zingarelli alla voce compatibilità, “di far sì che l’elemento in questione si possa accompagnare ad altra cosa senza comportare effetti negativi”. Fattori aggiuntivi sono poi il paesaggio culturale ed i valori che possedeva. Uscendo dal campo del

restauro ed entrando in quello della nuova costruzione non demonizzo comunque le scelte di chi vuole costruire il “quasi com’era” ed il “quasi dov’era”, sia per quanto riguarda gli edifici privati che per quelli pubblici. Se ci fossero esempi di nuove costruzioni che, oltre ai requisiti tecnici di uguali metri quadri, rapporti aereo illuminanti, mancanza di dispersioni termiche, dotazioni tecnologiche ed antisismiche, eccetera eccetera, restituissero anche i valori intangibili dell’abitare che quei borghi possedevano, ben vengano e si facciano avanti. Allo stato attuale forse aveva ragione Vittorio Sgarbi quando tempo fa dichiarava per il teatro veneziano: “Riprodurremo un falso di cui essere consapevoli ed orgogliosi. Metteremo in scena la nuova Fenice …. eviterei però di chiamare gli architetti altro che per la parte strutturale …. così tutti saranno contenti e gli Aldo Rossi, i Gregotti e le Aulenti potranno dimostrare il loro talento progettando cessi (da Il Gazzettino di Venezia del 1 gennaio 1996).


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“ExtraDiVino” è un programma di marketing territoriale realizzato insieme a Milano Slow Economy e al Comune di Bari con il supporto di Regione Puglia

ASA Comunicazione

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di Angela Calia

Tradizioni

L

Educare al gusto del pane

ezione aperta di panificazione al Museo Archeologico di Altamura tenuta dal maestro di arte bianca, Giuseppe Barile, padre della D.O.P. Pane di Altamura

Le spighe del grano, simbolo di vita e prosperità, le diverse farine ottenute dal chicco di grano, e poi la pasta e il pane, due elementi che fin dall’antichità hanno rivestito un ruolo fondamentale nell’alimentazione dell’uomo, sono stati i protagonisti del Laboratorio didattico sulla Panificazione, organizzato dall’Associazione Comunicaetica e da Made in Murgia in collaborazione con la Proloco e il Museo Archeologico di Altamura. “ L’obiettivo è quello di far conoscere le tradizioni legate al mestiere di fare il pane” – ha dichiarato Maria Caserta Presidente dell’Associazione Comunicaetica – “ e anche

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sensibilizzare i ragazzi verso un’alimentazione sana e genuina”. A lezione gli alunni di IV e V del Liceo Cagnazzi e del Liceo Scientifico Federico II di Svevia sono stati tutti attenti ad ascoltare il maestro d’arte bianca , Giuseppe Barile, mentre ripercorreva la storia della panificazione, evidenziando gli aspetti storico-culturali legati ad usi e costumi del territorio murgiano ed il ruolo della donna nella panificazione, ripercorrendo le fasi produttive della filiera: dalla coltivazione dei cereali alla produzione del pane di Altamura, noto in tutto il mondo per le sue spiccate qualità organolettiche che lo contraddistinguono, grazie ad un lavoro di con cui Barile, sostenuto da altri panificatori, è riuscito ad ottenere la Certificazione della DOP. ”In primis la nostra richiesta è stata rigettata, non ave-

vamo nessuna peculiarità nel dimostrare che il nostro pane è diverso” – ha confessato ai ragazzi Barile – “Siamo riusciti a convincere la Commissione scientifica di Bruxelles presentando uno studio in cui la mancata incursione marina conferiva al grano prodotto nella zona occidentale della Murgia una peculiarità organolettica ben determinata. E’


l’unica Dop in Europa”. C’è orgoglio nelle parole del maetro Barile ma anche tanta preoccupazione. “Ho accettato l’invito a parlare ai ragazzi perché ritengo che loro possono essere i futuri ambasciatori” – ha spiegato Barile alla redazione di Altalife – “e bisogna che vengano a conoscenza del “vero” pane di Altamura, prodotto seguendo il disciplinare

della Dop”. Durante la lezione Barile ha posto l’attenzione sulla classificazione e sulla provenienza delle farine, ai metodi di lievitazione, agli impasti, ai metodi di cottura e alla forma che caratterizza il pane di Altamura, realizzando dall’impasto preparato dalla collaboratrice Cagnazzi, la tradizionale forma accavallata che in gergo altamurano si chiama “skuanète”.

Speriamo che la lezione sia servita a fare chiarezza sulla “qualità”, unica prerogativa per incentivare e promuovere, nell’era della globalizzazione, una nuova cultura sul tema del cibo, ed in particolare del pane con un attenzione in più ai concetti, oggi di grande interesse salutistico, della sostenibilità ambientale e tutela della biodiversità.

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di Giorgia Pontetti

Focus

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L’

Il futuro dell’agricoltura

agricoltura riveste un ruolo di fondamentale importanza nello sviluppo di tutte le civiltà della Storia. Dal 1960 fino agli anni ‘90 i governi di molti Paesi industrializzati hanno introdotto la “Rivoluzione Verde”, ovvero un incremento della produzione con sviluppo di pesticidi, fertilizzanti e l’abbandono delle tradizionali pratiche agrarie con conseguente estinzione di molte varietà di prodotti locali. Dagli anni ‘90, causa la crescita dei fabbisogni alimentari mondiali, l’Agricoltura Intensiva prende il sopravvento favorita dai progressi dell’ingegneria genetica e delle nuove tecnologie, ma con l’aspetto negativo dell’utilizzo sempre maggiore di fitofarmaci, fertilizzanti ecc… l’esposizione

a livelli tossici di alcuni di essi hanno creato rischi significativi per la salute umana. È noto che la produzione agricola dipende dalla condizione naturale dell’ambiente, in particolare, da stagioni e situazione geografica, così come da eventi imprevisti come siccità, inondazioni, malattie, gelo, calore eccessivo, ecc… Queste variabili danno luogo a difficoltà nella coltivazione tradizionale. Negli ultimi anni, si assiste, inoltre, a sempre più frequenti casi di inquinamento dei suoli e delle falde acquifere con fertilizzanti e pesticidi per l’adozione di sistemi produttivi intensivi caratterizzati da un largo uso di agrochimici. In Europa, parallelamente, si è registrato un notevole aumento dell’interesse dei con-

sumatori per il rapporto tra alimentazione e salute; è un fatto ampiamente riconosciuto che sia possibile ridurre il rischio di malattie e conservare la propria salute e benessere con uno stile di vita sano ed una dieta corretta. Le risorse sono in esaurimento e la carenza dei terreni agricoli è sempre più un problema, anche a causa dei massicci flus-


si migratori dalle campagne verso i centri urbani, la conseguente espansione dei centri urbani ed i preoccupanti cambiamenti climatici e geologici (esempio la desertificazione). Basti pensare che l’Italia ha già perso 6 milioni di ettari di coltivazioni negli ultimi 60 anni, mentre la Cina sta già esaurendo la disponibilità di terre arabili. Tra il 1950 e il 1981 la superficie coltivabile è cresciuta da 587 Milioni di ettari a 732 Milioni di ettari. Nel 2000 la superficie coltivabile è scesa a 656 milioni di ettari con un incremento della popolazione da 2.5 miliardi (nel 1950) a 6.1 miliardi. L’area coltivabile si è ridotta da 0.23 ettari/pp a 0.11 ettari/pp. L’80% del terreno della superficie terrestre potenzialmente coltivabile viene già utilizzato, mentre il 20% (160.000.000 ettari) è ancora da utilizzare con un aumento del 50% della popolazione mondiale nei prossimi 40 anni. La popolazione mondiale di quasi sei miliardi di persone nel mondo passerà a nove miliardi di persone nel 2050. Questo fatto preoccupa non tanto sotto il profilo economico, quanto per le conseguenze ambientali. Si stima che entro il 2050 circa l’80% della popolazione della terra risiederà nei grandi centri urbani. Per poter soddisfare le esigenze alimentari di questa popolazione sarà necessario reperire circa 10 miliardi di ettari di terreno coltivabile. C’è poi da considerare che sulle nostre tavole finiscono prodotti importati solitamente dall’Asia e dal Nord Africa, che si presentano irregolari per

la presenza di residui chimici, dannosi per la nostra salute. I broccoli ed i pomodori provengono quasi sempre dalla Cina, il prezzemolo dal Vietnam, le fragole dall’Egitto, il basilico dall’India, il peperoncino dalla Tailandia, la menta dal Marocco… e così via. Nessuno si sofferma a ricordare che nel giro di una sola settimana dal momento della raccolta la maggior parte dei vegetali e della frutta perde circa lo 87% dei valori nutritivi benefici per la nostra salute. Il futuro dell’agricoltura e della nutrizione è sempre più un tema centrale a livello planetario. La sfida consiste nello sviluppare metodi alternativi di produzione alimentare che non compromettano i pochi ecosistemi ancora funzionanti. Inseriti in un quadro più complesso di interventi per alleviare le problematiche diversificate relative alla scarsità di cibo, questi sistemi sostenibili e la loro evoluzione tecnologica consentiranno di ridurre le

contaminazioni da agrofarmaci, sia negli alimenti che nel terreno, rendendo più sostenibili le produzioni a livello locale. Al fine quindi, di affrontare queste molteplici e contemporanee sfide, si deve essere in grado di garantire un’alimentazione sana ad un numero sempre crescente di persone, trovando nuovi modelli di sviluppo sostenibile, meno aggressivi verso l’ambiente ed i suoli, ottimizzando l’uso dei terreni, dell’acqua e dell’energia. In questo contesto si inserisce la Ferrari Farm con le sue innovazioni, permettendo la realizzazione di un ambiente artificiale con caratteristiche tali da permettere alle piante di svilupparsi e crescere nel migliore dei modi con la massima resa possibile, garantendo cibi freschi, nutritivi, puliti e sicuri. Una “Agricoltura 4.0”: 0 suolo, 0 Km, 0 acqua, 0 pesticidi … che può garantire più produzione, meno sprechi, più sicurezza, più qualità e sostenibilità, permettendo coltivazione in ogni posto: dallo spazio, ai po-

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sti freddi o troppo caldi del pianeta, sopra terra o sotto terra, in vecchi edifici abbandonati, in container od in ambienti confinati come i fitotroni. La Ferrari Farm, infatti, qualche anno fa (in tempi non sospetti) ha investito in un nuovo progetto realizzando un impianto di coltivazione idroponica, in serre sterili ed ermetiche completamente computerizzate; una soluzione di nuova generazione ed alta tecnologia che consente la coltivazione in condizioni di assoluta sterilità prescindendo dall’ambiente esterno alle serre. Un mix innovativo di cultura contadina, elettronica, ricerca ed innovazione che unisce le moderne tecnologie con la filosofia artigianale e “contadina” dei processi produttivi agricoli e degli alimenti. L’impianto è costituito da serre sterili completamente ermetiche senza scambio alcuno con l’ambiente esterno, decontaminate mediante l’utilizzo di macchine di trattamento aria dotate di filtri assoluti e dispositivi per il controllo batterico, in modo tale che l’ambiente interno sia totalmente controllabile ed indipendente dall’ambiente esterno. Peculiarità, poi, degli impianti idroponici della Ferrari Farm è la creazione e gestione di una “Ricetta di Coltivazione Elettronica” che codifica, comanda e controlla in automatico tutti i parametri climatici e nutrizionali: in ogni istante, tutti i giorni e per tutta la vita del vegetale che si intende produrre. Questo impianto innovativo attualmente è unico in Europa!

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Per tutti questi fattori, la Ferrari Farm crede molto nelle potenzialità che la coltivazione idroponica in “serre” tecnologiche computerizzate offre. Queste tecniche oltre a consentire l’ottenimento di produzioni più elevate e ad elevato standard qualitativo, infatti, permettono una serie di vantaggi quali: coltivare prescindendo dall’ambiente esterno e dalle sue contaminazioni, miglior controllo delle piante e migliore utilizzo del loro potenziale genetico, più efficiente utilizzo dello spazio, migliore controllo delle condizioni fitosanitarie, migliore controllo della nutrizione minerale, ottimizzazione dei consumi di acqua, semplificazione della gestione, riduzione delle emissioni di CO2 in atmo-

sfera. Va sottolineato, inoltre, che questo tipo di soluzione può essere immune da ambienti inquinati per gli aspetti: chimici, batteriologico e nucleare e quindi impiegabile anche in scenari di crisi e gestione emergenze. Ingegnere elettronico ed aerospaziale, Giorgia Pontetti ha messo in piedi sul lago del Salto, in provincia di Rieti, un’azienda agricola con annesso agriturismo: ricerca, produce e vende online prodotti agricoli biologici genuini, ottenuti grazie a tre serre ad alta tecnologia per coltivazioni idroponiche tutte computerizzate. Nasce così il pomodoro intelligente, perché connesso nella serra in un microclima ideale. E senza nichel.


Panificio La Maggiore - Via Matera, 184 - 70022 Altamura (BA) Tel. 080/3112357 - Fax 080/3104686 - info@panificiolamaggiore.it - www.panificiolamaggiore.it 47


di Maria Lisa Clodoveo & Riccardo Amirante - Università degli studi di Bari Aldo Moro Politecnico di Bari

Olio 3.0

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Le nuove tecnologie al servizio dell’olio extravergine d’oliva

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obiettivo della sperimentazione supportata dall’Unione Europea attraverso la Regione Puglia per mezzo del progetto “Perform Tech (Puglia Emerging Food Technology) è stato quello di sviluppare un impianto innovativo in scala reale, basato sull’applicazione alla pasta di olive di ultrasuoni ad alta potenza e bassa frequenza (20-40 khz), idoneo a sostituire le ormai obsolete gramole. Infatti, la gramolazione è considerata l’anello debole del processo di elaborazione dell’olio extra vergine di oliva in quanto la gramola è una macchina in batch, che opera tra due dispositivi continui, il frangitore e il decanter. E’ anche un pessimo scambiatore di calore a causa del rapporto

sfavorevole tra il grande volume della pasta di olive e la ridotta superficie di scambio termico. Il nuovo impianto ad ultrasuoni, denominato “Sono-Heat-Exchanger” è in grado di garantire un incremento simultaneo sia della resa che della qualità sfruttando l’effetto di cavitazione in grado, da un lato di rompere le cellule passate integre al frangitore, dall’altro di favorire la coalescenza e lo scambio termico grazie ad un incremento della turbolenza del fluido. Le prestazioni del “Sono-Heat-Exchanger” sono state misurata in termini di efficienza dello scambio termico e l’azione meccanica è stata valutata mediante la misura della concentrazione di pigmenti e composti minori nel prodotto. Gli effetti quantitativi dell’impianto innovativo sono stati determinati in termini di rese, mentre quelli qualitativi valutando i principali parametri analitici previsti dalla legge, il contenuto di polifenoli e tocoferoli, e la concentrazione di composti volatili. I frantoiani sanno bene che con gli impianti continui tradizionali resa e qualità sono parametri in antitesi tra loro. Il sistema continuo e combinato ad ultrasuoni e scambio termico per la prima volta nella storia dell’impiantistica olearia consente il simultaneo

incremento della resa e del contenuto in polifenoli dell’olio extravergine d’oliva. I grafici che sintetizzano questo risultato mostrando che è possibile ottenere un incremento di resa di un chilogrammo e mezzo per ogni 100 kg di olive, senza compromettere il contenuto in antiossidanti. L’aspetto interessante, ancora oggetto di studio, è il risultato del panel test, che mostra un vantaggio inatteso. Come è possibile osservare, i grafici della analisi sensoriale mostrano che l’olio sottoposto al trattamento con ultrasuoni, pur mantenendo l’impronta varietale fedele all’olio estratto con tecnologia continua tradizionale (con gramolazione) mostra


un profilo organolettico più armonico sotto l’aspetto dell’amaro e piccante, che rende il prodotto più accettabile per i consumatori. Viene da chiedersi come si è giunti a questo risultato. Prima di spiegare in cosa consiste l’impianto innovativo, chiariamo innanzitutto che i risultati: - non sono il frutto di test di laboratorio (2 kg/h di olive) - non sono il frutto di prove effettuate con modellini di macchine in miniatura (200 300 kg/h di olive) - ma il risultato dell’impiego di una macchina in scala reale in grado di operate in un impianto industriale con altre macchine al pieno della propria capacità lavorativa (2000 kg/h di olive). L’altra osservazione necessaria è che i risultati non sono la conseguenza di un Test Driver. I Test Driver sono le osservazioni che derivano da macchine costruite da aziende commerciali sottoposte a valutazione delle performance Per chiarire il significato, facciamo riferimento a

un settore industriale nel quale l’innovazione è facilmente percepibile dalla società. Nel mondo dei motori, ad esempio, una similitudine è costituita dalla differenza, nelle attività di ricerca, che c’è tra la sperimentazione che prevede di testare un motore diesel e l’approccio scientifico che ha consentito di inventare il common rail. L’aspetto innovativo è che il modello di innovazione seguito è stato del tipo «demand-pull», cioè un modello di innovazione che nasce dalla necessità di soddisfare un bisogno esplicito dell’industria olearia: - eliminare la discontinuità della gramolazione - Incrementare le rese Si tratta della conversione di una invenzione nata nei laboratori dell’università di Bari, trasformata in una innovazione, intesa come un prodotto

che trova una applicazione commerciale, che si è avvalsa della collaborazione con il Politecnico di Bari diverse PMI (MBL Solutions; Deol; Auriga; Promis Biotech; Olearia Pazienza), con un approccio multidisciplinare che ha visto coinvolti tecnologi alimentari, ingegneri e chimici farmaceutici. È una innovazione di tipo radicale poiché non è un lieve cambiamento di soluzioni preesistenti (innovazione incrementale) ma una innovazione che produce un nuovo paradigma produttivo. La domanda a cui bisogna rispondere è “ Perché proprio gli ultrasuoni?” Per la loro capacità di rendere il processo più efficiente, incrementando le rese e estraendo maggiori composti minori. È necessario sottolineare che gli ultrasuoni sono caratterizzati da un importante effetto meccanico ed un blando effetto termico. La prima sfida progettuale è stata il dimensionamento dello scambio termico. Co-

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erente con le più recenti ricerche che sottolineano la necessità di raffreddare per conseguire elevati livelli qualitativi, è stato dimensionato sia lo scambio con fluido di servizio caldo che freddo, indispensabile per far fronte a due fenomeni simultanei che riguardano il settore oleario: i cambiamenti climatici e l’anticipo costante dell’epoca di raccolta. La seconda sfida progettuale è costituita dalla scelta della frequenza. Gli ultrasuoni spaziano in un range da 20 kHz a divere centinaia di kHz. Il fenomeno meccanico della cavitazione, cioè la creazione di microscopiche bolle gassose che implodendo rompono le pareti cellulari solo al di sotto dei 300 kHz. Il perché è

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chiaro dal diagramma di Bode che spiega come all’aumentare della frequenza l’attenuazione indotta dall’inerzia del mezzo inibisca l’effetto meccanico. Il campo utile di applicazione alla pasta olearia è al di sotto dei 50 kHz. Per valutare in maniera ottimale

l’efficacia della cavitazione e la penetrazione dell’onda è stato sviluppato un modello di simulazione ad hoc indispensabile per definire la geometria della macchina.

La tecnologia ad ultrasuoni è in grado, grazie al fenomeno della cavitazione, di indurre la rottura delle pareti cellulari, favorendo il recupero di olio e componenti minori, aumentando la capacità lavorativa dell’impianto di estrazione e riducendo il tempo di processo.La terza sfida progettuale è la definizione della potenza ai fini della sostenibilità del processo. Dare la quantità necessaria di energia efficace ai fini estrattivi ma senza spechi. Dalla prova di laboratorio condotta nel 2012 è chiaro che esiste un livello di energia ottimale oltre il quale non si ottengono vantaggi significativi. Tale osservazione consente di calcolare l’energia specifica

che nota la capacità lavorativa desiderata consente di ottenere la potenza necessaria da impiegare. L’aspetto interessante è il livello di energia specifica necessaria, pari alla metà d’energia di un comune frangitore che rivela che la tecnologia ad ultrasuoni è una tecnologia delicata, soft. L’analisi economica che rivela che l’impiego dell’impianto continuo combinato ultrasuoni scambio termico garantisce un incremento dei ricavi tale da ripagare l’impianto dopo la prima campagna olearia.


OliO PantaleO Drawing byi Doriano Strologo

Always. For all.

We take every possible care of our secular olive trees. They are our patriarchs and give us harmonic and fruity oil every year. We will never abandon them. We are so eager for the future that we have planted thousands of olive trees that are intensively grown with highly-mechanized methods. They are very productive young plants ensuring more oil for all. Olives are like our sisters. We have them travelling comfortably to the mill, so that they do not get scratched. We care so much about the oil they contain that we do not want to lose all the good there is.

Seeing oil flowing out is a moment of great celebration for us. Just imagine these intense fragrances: every time such a variety is wonderful. We never stop working, but each and all of us taste it to test all its goodness.

Eventually, here it is: our “Selezione Oro� bottle, 100% Italian extra virgin olive oil, versatile and fit for every use, ideal both raw and cooked. We will not add anything else, we do not want to be biased. You can simply experience it firsthand and discover it. What are you waiting for?

Our mill is a blend of ancient and new features, but behind our equipment, we are always there, following every stage, ready to get all possible nutrients, flavours and perfumes of oil from each and every olive.

We take every possible care also when packing it, because quality extra virgin olive oil must be protected from the traps of light, air and temperature. This is why we dress it well: to keep each fragrance unaltered.

w w w. p a n t a l e o . i t - w w w. p a n t a l e o a g r i c o l t u r a . i t

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di Piero Liuzzi

Interventi

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Il Premio Guido Dorso

a ricercatrice pugliese Maria Saponari coordina il progetto europeo finalizzato a mettere a punto metodi per sconfiggere il batterio che sta decimando gli ulivi nel Salento. A lei, ricercatrice del Cnr, pugliese di quella “enclave” della regione che va sotto il nome di Murgia dei Trulli, è stato assegnato il Premio Guido Dorso. La 38ma edizione della competizione che annualmente attribuisce riconoscimenti nel campo della ricerca scientifica, delle scienze giuridiche ed umane, nonché dell’impresa e del volontariato, si è svolta a Roma nella sala Zuccari di Palazzo Giustiniani alla presenza della giuria composta da illustri personalità del mondo della cultura, da giuristi ed accademici. Si fregiano del premio “Dorso” il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, ed i premi Nobel Dulbecco e Modigliani. Gli insigniti viene attribuito il titolo di “ambasciatore” del Mezzogiorno nel mondo. Nata a Putignano, di padre nocese e madre ori-

ginaria di Locorotondo, Maria Saponari risiede in una bella masseria fra Martina Franca ed Alberobello. Laureatasi nel 1997 presso la facoltà di agraria dell’Università di Bari, dopo aver conseguito il dottorato di ricerca in “plant virology”, è entrata a far parte del gruppo di ricerca dell’Istituto di virologia delle piante che ha contribuito all’identificazione di virus degli agrumi e dell’olivo. Nel 2006, in California, presso il dipartimento di agricoltura degli USA (Usda) ha elabora-

to un protocollo per la rilevazione a la differenziazione del ceppo di “citrus tristeza virus”. Il gruppo di lavoro di cui fa attualmente parte ha scoperto la causa del disseccamento rapido degli ulivi che, fra l’altro, sta irrimediabilmente mutando il volto del paesaggio salentino. A Palazzo Giustiniani la dott. Saponari è stata accolta dal senatore Piero Liuzzi, quale componente della commissione ricerca scientifica, istruzione pubblica e beni culturali del Senato della Repubblica. “L’orgoglio di sentirsi conterranei - dichiara il parlamentare - era visibilmente stampato sul mio viso, tanto che gli illustri giurati mi hanno concesso pochi minuti per porgere il grato saluto a tutti gli insigniti con particolare riguardo alla nostra ricercatrice che, accompagnata dai suoi genitori, ha voluto posare per le foto di rito anche con l’inviato dei telegiornali Rai, Annibale del Mare, fra i premiati della serata”.



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della Redazione

Speciale Natale

I simboli del Natale 56


Alla scoperta delle origini e delle tradizioni che ruotano attorno alla figura di Babbo Natale, all’albero e al presepe 57


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e dei centri commerciali fanno capolino i simboli “classici” di questa festa: i pupazzi che raffigurano Babbo Natale, palline e ghirlande per addobbare l’albero e le stauette del presepe.

Tutti li acquistano ma pochissimi si soffermano poi sul loro vero significato: chi è veramente Babbo Natale e da dove deriva la sua figura, il perchè si addobba l’albero e la sacralità del presepe.

BABBO NATALE Il personaggio di Babbo Natale, presente nel folklore di molte culture nel mondo, è colui che la notte di Natale solca i cieli a bordo di una slit-

ta per distribuire doni e docliumi ai bambini. Il suo mezzo di locomozione, la slitta appunto, è trainata da 8 renne i cui nomi italiani sono: Cometa, Fulmine, Don-

nola, Freccia, Ballerina, Saltarello, Donato e Cupido. Per ricordare tali nomi, in italiano esiste una nota filastroccache tutti, bambini di oggi e di una volta sanno:

© rovaniemi.fi

l 25 dicembre si avvicina a grandi passi, e in tutto il mondo fervono i preparativi per festeggiare il Natale. Dalle vetrine dei negozi

“Non solo fanno la slitta volare e in ciel galoppano senza cadere Ogni renna ha il suo compito speciale per saper dove i doni portare Cometa chiede a ciascuna stella dov’è questa casa o dov’è quella. Fulmine guarda di qui e di là per sapere se la neve verrà. Donnola segue del vento la scia schivando le nubi che sbarran la via. Freccia controlla il tempo scrupoloso, ogni secondo che fugge è prezioso. Ballerina tiene il passo cadenzato per far che ogni ritardo sia recuperato. Saltarello deve scalpitare per dare il segnale di ripartire. Donato è poi la renna postino porta le lettere d’ogni bambino. Cupido, quello dal cuore d’oro sorveglia ogni dono come un tesoro. Quando vedete le renne volare Babbo Natale sta per arrivare.”

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BABBO NATALE: LE ORIGINI Le versioni del Babbo Natale moderno derivano dal vescovo cristiano del IV secolo San Nicola di Mira (antica città dell’Anatolia) ,famoso per le sue grandi elargizioni a favore dei poveri e, soprattutto, per aver fornito la dote alle tre figlie di un cristiano povero ma devoto, evitando così che fossero obbligate alla prostituzione. Originario di Patara, sempre in Licia (Asia Minore), scoprì molto presto la sua vocazione religiosa e dedicò interamente la sua vita alla fede cristiana. Le reliquie di San Nicola furono traslate a Bari da alcuni pescatori, e per ospitarle fu costruita una basilica nel 1087. Il luogo è da allora meta di pellegrinaggi da parte dei fedeli. San Nicola è considerato il proprio patrono da parte di

molte categorie di persone: marinai, mercanti, arcieri, bambini, prostitute, farmacisti, avvocati, prestatori di pegno, detenuti. È anche il santo patrono della città di Amsterdam e della Russia. La leggenda di San Nicola è alla base della grande festa olandese di Sinterklaas (il compleanno del Santo) che, a sua volta, ha dato origine al mito ed al nome di Santa Claus nelle sue diverse varianti (Sint Nicolaas, Saint Nicholas, St. Nick o Sant Niklaus). Gli abiti di Sinterklaas sono simili a quelli di un vescovo; porta una mitra (un copricapo liturgico) rossa con una croce dorata e si appoggia ad un pastorale. Il richiamo al vescovo di Mira è ancora evidente. Sinterklaas ha un cavallo bianco con il quale vola sui tetti; i suoi aiutanti scendono nei

comignoli per lasciare i doni (in alcuni casi nelle scarpe dei bambini, lasciate vicino al caminetto); arriva in piroscafo dalla Spagna ed è accompagnato da Zwarte Piet, letteralmente “Pietro il Nero”, l’aiutante dalla faccia nera e dai costumi moreschi coloratissimi. Secondo la leggenda, dopo al vittoria di San Nicola sulle forze del male, il demonio viene sconfitto, incatenato e reso suo schiavo e questo sarebbe il significato del colore nero che simboleggia le forze oscure. Le strenne che vengono regalate in questa ricorrenza sono spesso accompagnate da poesie, talvolta molto semplici ed, in altri casi, elaborate ed ironiche ricostruzioni del comportamento di chi le riceve durante l’anno trascorso. I regali veri e propri, in qualche caso, sono addirittu-

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IL BABBO NATALE “MODERNO” All’inizio, Santa Claus veniva rappresentato in costumi di vario colore, ma il rosso divenne presto predominante a partire dalla sua comparsa sulle prime cartoline di auguri natalizie, nel 1885. Il primo artista a raffigurare

© 2006-2009 The Coca-Cola Company

San Martino di Tours (Sint-Maarten). In molte tradizioni della Chiesa ortodossa, San Basilio porta i doni ai bambini a Capodanno, giorno in cui si celebra la sua festa.

Santa Claus come noi oggi lo conosciamo, è stato il cartoonist americano Thomas Nast che, nel 1863, illustrò la copertina della rivista Harper’s Weekly. Un’altra immagine che di-

© rovaniemi.fi

ra meno importanti dei pacchetti in cui sono contenuti, di solito molto sgargianti ed elaborati; quelli più importanti, spesso, sono riservati al mattino seguente. In Grecia San Nicola viene talvolta sostituito da San Basilio Magno (Vasilis), un altro vescovo del IV secolo originario di Cesarea. Nei Paesi Bassi, in Belgio e in Lussemburgo, Sinterklaas (Kleeschen in Lussemburgese) arriva due settimane prima del 5 dicembre, data in cui distribuisce i doni. (Il suo compleanno risulta essere il 6 di dicembre). L’equivalente di Babbo Natale in questi paesi è Kerstman (letteralmente: “Uomo di Natale”). In alcuni villaggi delle Fiandre, in Belgio, si celebra la figura, pressoché identica, di

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pubblicitarie natalizie prodotte dal colosso americano Coca-Cola Company, realizzate da Haddon Sundblom. La popolarità di tale immagine ha fatto sì che si diffondessero varie leggende urbane che attribuivano alla Coca-Cola l’invenzione stes-

sa di Babbo Natale. È, peraltro, vero che l’immagine della Coca-Cola e quella di Babbo Natale sono sempre state molto vicine, poiché pur non inventandolo viene comu-

© 2006-2009 The Coca-Cola Company

venne molto popolare è quella disegnata nel 1902 da L. Frank Baum, autore de Il meraviglioso mago di Oz, per il racconto La vita e le avventure di Santa Claus. Nell’immaginario collettivo, le immagini di Babbo Natale hanno preso piede grazie al suo uso nelle campagne

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Il magico Villaggio di Santa Claus a Rovaniemi, nel Circolo Polare Artico

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Š rovaniemi.fi


nemente rappresentato con i colori bianco e rosso cioè come una lattina di Coca-Cola, se si esclude la campagna del 2005 che ha visto la sua sostituzione con gli orsi polari. L’ALBERO DI NATALE Assieme al presepe, è una delle tradizioni più diffuse. Si tratta in genere di un abete addobbato con sfere colorate, luci, festoni, ghirlande, dolciumi, piccoli regali impacchettati e altro. Può essere portato in casa o tenuto all’aperto, e viene preparato qualche giorno (o qualche settimana) prima di Natale, e rimosso dopo le feste. Soprattutto se l’albero viene collocato in casa, è tradizione che ai suoi piedi vengano collocati i regali di Natale impacchettati, in attesa del giorno della festa in cui potranno essere aperti dai componenti della famiglia e i loro ospiti. La data di allestimento e dismissione dell’albero varia da nazione a nazione: la tradizione più antica prevedeva che l’albero fosse addobbato il 24 dicembre e rimosso all’Epifania; in seguito il periodo si è notevolmente allungato. Gli esercizi commerciali, in particolare, spesso iniziano a esibire alberi di Natale addobbati già nell’ultima settimana del mese di Novembre. In generale, nella maggioranza delle regioni italiane l’albero viene addobbato l’8 dicem-

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bre, giorno in cui si festeggia l’Immacolata Concezione. L’immagine dell’albero come simbolo del rinnovarsi della vita risale almeno alla Germania del XVI secolo. Ingeborg Weber-Keller (professore di etnologia a Marburgo) ha identificato, fra i primi riferimenti storici alla tradizione, una cronaca di Brema del 1570, secondo cui un albero veniva decorato con mele, noci, datteri e fiori di carta. La città di Riga è fra quelle che si proclamano sedi del primo albero di Nata-

le della storia (vi si trova una targa scritta in otto lingue, secondo cui il “primo albero di capodanno” fu addobbato nella città nel 1510). Precedentemente a questa


prima apparizione “ufficiale” dell’albero di natale si può però trovare anche un gioco religioso medioevale celebrato proprio in Germania il 24 dicembre, il “gioco di Adamo e di Eva” (Adam und Eva Spiele), in cui venivano riempite le piazze e le chiese di alberi di frutta e simboli dell’abbondanza per ricreare l’immagine del Paradiso. Successivamente gli alberi da frutto vennero sostituiti da abeti poiché quest’ultimi avevano una profonda valenza “magica” per il popolo. Avevano specialmente il dono di essere sempreverdi, dono che secondo la tradizione gli venne dato proprio dallo stesso Gesù come ringraziamento per averlo protetto mentre era inseguito da nemici. Non a caso, sempre in Germania, l’abete era anche il posto in cui venivano posati i bambini portati dalla cicogna. L’uso di candele per addobbare i rami dell’albero è attestato già nel XVIII secolo. Per molto tempo, la tradizione dell’albero di Natale rimase tipica delle regioni a nord del

Reno. I cattolici la consideravano un uso protestante. Furono gli ufficiali prussiani, dopo il Congresso di Vienna, a contribuire alla sua diffusione negli anni successivi. A Vienna l’albero di Natale apparve nel 1816, per volere della principessa Henrietta von Nassau-Weilburg, ed in Francia nel 1840, introdotto dalla duchessa di Orléans. Ad oggi, la tradizione dell’albero di Natale, così come molte altre tradizioni natalizie correlate, è sentita in modo particolare nell’Europa di lingua tedesca (si veda per esempio l’usanza dei merca-

tini di Natale), sebbene sia ormai universalmente accettata anche nel mondo cattolico (che spesso lo affianca al tradizionale presepe). A riprova di questo sta anche la tradizione, introdotta durante il pontificato di Giovanni Paolo II, di allestire un grande albero di Natale nel luogo cuore del cattolicesimo mondiale, piazza San Pietro a Roma. D’altronde un’interpretazione allegorica fornita dai cattolici spiega l’uso di addobba-

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re l’albero come una celebrazione del legno (bois, in francese è sia inteso come “albero” sia come “legno”) in ricordo della Croce che ha redento il mondo. Gli alberi di Natale hanno conosciuto un momento di grande diffusione, diventando gradualmente quasi immancabili nelle case dei cittadini del mondo ed è il simbolo del Natale a livello planetario. Oggi il fenomeno ha acquisito una dimensione commerciale e consumistica senza precedenti, che ha dato luogo, alla nascita di una vera e propria industria dell’addobbo natalizio. IL PRESEPIO La parola presepe (o più correttamente presepio) deriva dal termine latino praesaepe, cioè greppia, mangiatoia, composto da prae (innanzi) e saepes (recinto), ovvero luogo che ha davanti un recinto e indica la scena della nascita di Cristo, derivata dalle sacre rappresentazioni medievali. Per capire meglio il significato originario del presepe, bisogna fare luce sulla figura del lari (lares familiares), figura fondamentale nella cultura etrusca e latina. I larii rappresentano gli spiriti protettori che avevavo il compito di vegliare sul buon andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale. Ogni antenato veniva rappresentato con una statuetta, di terracotta o di cera,

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chiamata sigillum dal latino signum (segno, effigie, immagine). Tutte le statuette venivano collocate in apposite nicchie e onorate con l’accensione di una fiammella. In prossimità del Natale si svolgeva la festa detta Sigillaria (20 dicembre), durante la quale i parenti si scambiavano in dono i sigilla dei familiari defunti durante l’anno. In attesa del Natale, il compito dei bimbi delle famiglie riunite nella casa patriarcale, era di lucidare le statuette e disporle, secondo la loro fantasia, in un piccolo recinto nel quale si rappresentava un ambiente bucolico in miniatura. Alla vigilia del Natale, dinnanzi al recinto del presepe, la fa-

miglia si riuniva per invocare la protezione degli avi e lasciare ciotole con cibo e vino. Il mattino seguente, al posto delle ciotole, i bambini trovavano giocattoli e dolci, “portati” dai loro trapassati nonni e bisnonni. Dopo l’assunzione del potere nell’impero (IV secolo), in pochi secoli i cristiani tramutarono le feste tradizionali in feste cristiane, mantenendone i riti e le date, ma mutando i nomi ed i significati religiosi. Essendo una tradizione molto antica e particolarmente sentita (perché rivolta al ricordo dei familiari defunti), il presepe sopravvisse nella cultura rurale con il significato originario almeno fino al XV secolo e, in alcune regioni ita-

Giotto di Bondone - Presepe di Greccio (o Natale di Greccio) 1290-95 - tredicesima delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle Storie di San Francesco della Basilica Superiore di Assisi


Sandro Botticelli - Adorazione dei Magi - 1475 - tempera su tavola - Firenze, Galleria degli Uffizi

liane, ben oltre. Nel presepe si riproducono tutti i personaggi e i posti della tradizione, dalla grotta alle stelle, dai Re Magi ai pastori, dal bue e l’asinello agli agnelli, e così via. La rappresentazione può essere sia vivente che iconografica. I presepi popolari più conosciuti sono quelli di San Gregorio Armeno a Napoli. La tradizione italiana del Presepe risale all’epoca di San Francesco d’Assisi che nel 1223 realizzò a Greccio la prima rappresentazione vivente della Natività. Sebbene esistessero anche precedentemente immagini e rappresentazioni della nascita del Cristo, queste non erano altro che “sacre rappresentazioni” delle varie liturgie celebrate nel periodo medievale.

Il primo presepe scolpito è quello realizzato da Arnolfo di Cambio fra il 1290 e il 1292. Le statue rimanenti si trovano nel Museo Liberiano della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. L’iconografia del presepio ebbe un impulso nel Quattrocento grazie ad alcuni grandi maestri della pittura: il Botticelli nell’Adorazione dei Magi raffigurò personaggi della famiglia Medici. Ben presto questo tipo di simbolismo si diffuse all’interno delle famiglie, per le quali la rappresentazione della nascita di Gesù, con le statuine ed elementi tratti dall’ambiente naturale, diventò un rito irrinunciabile. Nel XV secolo si diffuse l’usanza di collocare nelle chie-

se grandi statue permanenti, tradizione che si diffuse anche per tutto il XVI secolo. Uno dei più antichi, tuttora esistenti, è il presepe monumentale della Basilica di Santo Stefano a Bologna, che viene allestito ogni anno per Natale. Dal XVII secolo il presepe iniziò a diffondersi anche nelle case dei nobili sotto forma di “soprammobili” o di vere e proprie cappelle in miniatura anche grazie all’invito del papa durante il Concilio di Trento poiché ammirava la sua capacità di trasmettere la fede in modo semplice e vicino al sentire popolare. Nel XVIII secolo, addirittura, a Napoli si scatenò una vera e propria competizione fra famiglie su chi possedeva il presepe più bello e sfarzoso: i

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© Giovanni Dell’Orto

Simone dei Crocefissi - Presepe in legno- 1370 - Bologna, Basilica di Santo Stefano

nobili impegnavano per la loro realizzazione intere camere dei loro appartamenti ricoprendo le statue di capi finissimi di tessuti pregiati e scintillanti gioielli autentici. Nello stesso secolo a Bologna, altra città italiana che vanta un’antica tradizione presepistica, venne istituita la Fiera di Santa Lucia quale mercato annuale delle statuine prodotte dagli artigiani locali, che viene ripetuta ogni anno, ancora oggi, dopo oltre due secoli. Con i secoli successivi il presepe occupò anche gli appartamenti dei borghesi e del popolino, ovviamente in maniera meno appariscente, resistendo fino ai giorni nostri. Il presepe è una rappresentazione ricca di simboli direttamente tramandati dal racconto evangelico. Sono riconducibili al racconto di Luca la mangiatoia, l’a-

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dorazione dei pastori e la presenza di angeli nel cielo. Altri elementi appartengono all’iconografia dell’arte sacra: Maria ha un manto azzurro che simboleggia il cielo, San Giuseppe ha in genere un manto dai toni dimessi a rappresentare l’umiltà. Nei Vangeli “classici” si tralasciano molti particolari che riguardano sia i personaggi che le ambientazioni, e per questo motivo si ricorre alle

tradizioni “popolari”: il bue a l’asinello, presenti ogni presepe, derivano da un’antica profezia di Isaia che dice “Il bue ha riconosciuto il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone”. L’immagine dei due animali venne utilizzata come simbolo degli ebrei (rappresentati dal bue) e dei pagani (rappresentati dall’asino). Anche la stalla, o la grotta in cui venne alla luce il Messia, non compare nei


Vangeli canonici e a Gerusalemme la Basilica della Natività sorge intorno a quella che è indicata dalla tradizione come la grotta ove nacque Cristo. Tuttavia, l’immagine della grotta è un ricorrente simbolo mistico e religioso per molti popoli soprattutto del settore mediorientale: del resto si credeva che anche Mitra, una divinità persiana venerata anche tra i soldati romani, fosse nato in una grotta il 25 dicembre.

(mirra). Così i re magi entrarono nel presepe, sia incarnando le ambientazioni esotiche sia come simbolo delle tre popolazioni del mondo allora conosciuto, ovvero Europa, Asia e Africa. Anche il numero dei Magi fu piuttosto controverso. Fu definitivamente stabilito in tre, come i doni da loro offerti, da un decreto papale di Leone I Magno, mentre prima di allora oscillava fra due e dodici.

LA FIGURA DEI MAGI I Re Magi, invece, derivano dal Vangelo dell’infanzia armeno. In particolare, questo vangelo colma le lacune che invece Matteo non risolve, ovvero il numero e il nome di questi sapienti orientali: il vangelo in questione fa i nomi di tre sacerdoti persiani: Melkon, Gaspar e Balthasar, anche se non manca chi vede in essi un persiano (oro), un arabo meridionale (incenso) e un etiope

LA TRADIZIONE DEL PRESEPE NAPOLETANO Il presepe napoletano aggiunge alla scena “classica della Natività (Gesù bambino, Maria e Giuseppe) molti personaggi popolari, osterie, commercianti e case tipiche dei borghi agricoli, tutti elementi palesemente anacronistici. Questa è comunque una caratteristica di tutta l’arte sacra, che, almeno fino al XX se-

colo, ha sempre rappresentato gli episodi della vita di Cristo con costumi ed ambientazioni contemporanee all’epoca di realizzazione dell’opera. Anche questi personaggi sono spesso funzionali alla simbologia. Ad esempio il male è rappresentato nell’osteria e nei suoi avventori, mentre il personaggio di Ciccibacco, che porta il vino in un carretto con le botti, impersona il Diavolo. Alcuni artigiani producono anche “pastori moderni” che rispecchiano l’attualità quindi non c’è da meravigliarsi se, nelle vetrine della caratteristica via San Gregorio Armeno, nel centro storico di Napoli, ce ne siano alcune che raffigurano personalità conosciute come Totò, Pulcinella, Capi di Stato, attori e rockstar o commemorino certi accadimenti.

Una delle bancarelle di via San Gregorio Armeno a Napoli

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Dolci della tradizione

Il panettone, re dei dolci natalizi 70


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Sempre presente sulle nostre tavole, regge la concorrenza del suo più “dolce” ed acerrimo nemico: il pandoro di Verona

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ià dal mese di novembre, sugli scaffali dei negozi e nei reparti alimentari dei supermercati, sono apparsi i primi panettoni e pandori, preannunciando sì l’arrivo del Natale ma togliendo il “gusto” dell’unicità della festa. Sì perchè “una volta”, come si è soliti dire, questi dolci erano “riservati” solo ed esclusivamente per festeggiare il Natale ed apparivano proprio in prossimità di quei giorni mentre ora (grazie o purtroppo all’industrializzazione) il tutto viene anticipato creando uno strano effetto di doppia festività, sovrapponendo i dolci e le decorazioni di Halloween a quelli del Natale lasciando tutti un pò sbigottiti. LEGGENDE E TRADIZIONI Attorno al panettone ruotano diverse leggende che ne rivelano la nascita (quasi per caso) e la sacralità. Originariamente era nient’altro che un grosso pane, alla preparazione del quale doveva sovrinten-

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dere il padrone di casa, che prima della cottura vi incideva col coltello una croce in segno di benedizione. Il grosso pane veniva poi consumato dalla famiglia solennemente riunita per la tradizionale cerimonia natalizia “del ciocco”. Il padre, o il capo di casa, fattosi il segno della croce, prendeva un grosso ceppo, solitamente di quercia, lo adagiava nel camino, vi poneva sotto un fascetto di rami di ginepro ed attizzava il fuoco. Versava il vino in un calice, lo spruzzava sulle fiamme, ne sorseggiava egli per primo poi lo passava agli altri membri della famiglia che, a turno, l’assaggiavano. Il padre gettava poi una moneta sul ceppo che divampava e successivamente distribuiva altre monete agli astanti. Infine gli venivano presentati tre grandi pani di frumento ed egli, con gesto solenne, ne tagliava solo una piccola parte, che veniva riposta e conservata sino al Natale successivo. Il ceppo sim-

Hans Memling - San Biagio 1491 - olio su tela - Lubecca, Sankt-Annen-Museum.

boleggiava l’albero del bene e del male, il fuoco l’opera di redenzione di Gesù Cristo; i pani, progenitori del panettone, simboleggiavano il mistero della Divina Trinità. La tradizione milanese fa arrivare fino ai giorni nostri l’abitudine di conservare, in una scatola di metallo, una fetta del panettone consumato il giorno di Natale e di mangiarlo il 3 di febbraio: quel giorno si festeggia San Biagio, protettore della gola. Per la sua festa è diffuso il rito della “benedizione della gola”, fatta poggiandovi


due candele incrociate (oppure con l’unzione, mediante olio benedetto), sempre invocando la sua intercessione. L’atto si collega a una tradizione secondo cui il vescovo Biagio avrebbe prodigio-

samente liberato un bambino da una spina o lisca conficcata nella sua gola. Un’altra leggenda che racconta la nascita del panettone racconta che alla corte di Ludovico Sforza e, come ogni Natale, sta per essere servito

in tavola, per il signore di Milano e per i suoi magnifici ospiti, un sontuoso banchetto. Verso le ultime portate, il cuoco si accorse che mancava il dolce, ma in forno trovò solo un ammasso bruciacchiato e immangiabile. Le urla e le bestemmie arrivarono fino ai tavoli degli invitati. Era ormai troppo tardi per preparare nuovamente un impasto così elaborato; poco importava chi aveva dimenticato il dolce nel forno, tanto Ludovico se la sarebbe presa con lui e lo avrebbe condannato a morte. Disperato il cuoco si abbandonò su una sedia e cominciò a piangere sommessamente. Toni, un povero sguattero, gli si avvicinò dicendo che aveva tenuto per sé un po’ dell’impasto del dolce perduto a cui si era permesso di ag-

giungere un po’ di frutta candita, uova, zucchero e uvetta. Voleva farselo cuocere al termine del lavoro per avere qualcosa da mangiare. Se il cuoco voleva poteva portare quel dolce a tavola. Guidato dalla forza della disperazione il cuoco infilò nel forno quella specie di forma di pane. Nonostante il povero aspetto, non avendo più nulla da perdere, il cuoco fece portare il dolce in tavola. Neanche a dirlo, il pan del Toni (da qui il termine panettone) riscosse un successo strepitoso, tanto che il cuoco fu obbligato a servirlo a tutti i banchetti natalizi degli anni successivi e presto l’usanza si diffuse fra tutta la popolazione.

LA RICETTA DEL PANETTONE “TRADIZIONALE” Ingredienti: 800 g di farina bianca - 15 g di lievito - 150 g di burro - 2 uova intere - 4 albumi 400 g.di zucchero - 80 g di canditi assortiti - 50 g di uvetta sultanina - 25 g di zucchero vanigliato - 60 ml di latte - un pizzico di sale Preparazione: il giorno precedente alla preparazione, sciogliere in una ciotola il lievito e un quarto della farina nel latte tiepido. Date all’impasto una forma arrotondata, copritelo con un tovagliolo e lasciatelo lievitare, in un luogo asciutto e non freddo, per tutta la notte. Il giorno dopo riprendete l’impasto, lavoratelo a lungo sulla spianatoia con 100 g di farina e qualche goccia di acqua tiepida; poi copritelo con un tovagliolo e fatelo lievitare al caldo per circa 2 ore. A questo punto ripetere l’operazione usando altri 100 g di farina e aggiungendo acqua tiepida quanto basta per rendere l’impasto morbido ed elastico. Fatelo lievitare per circa 3 ore. Fate rinvenire l’uvetta in acqua tiepida per almeno 20 minuti. Poco prima di riprendere l’impasto fate sciogliere il burro in un tegamino su fiamma molto bassa per evitare che frigga, lasciandone da parte un po’ per ungere la tortiera; poi sciogliete anche lo zucchero e un pizzico di sale in poca acqua, sempre su fiamma molto bassa, aggiungendo, lontano dal fuoco, le uova intere ed i bianchi. Imburrate una pirofila da forno alta e stretta. Riprendete adesso l’impasto e tornate a lavorarlo con il resto della farina aggiungendo, poco alla volta, il burro sciolto e il miscuglio di zucchero e uova. Lavorate a lungo l’impasto inserendoci verso la fine anche le uvette (ben strizzate ed infarinate) e i cubetti di frutta candita. Disponetelo nella pirofila, copritelo con un tovagliolo e lasciatelo lievitare per almeno 3 ore. Accendete il forno e regolatelo su 180° C. Mettete il dolce in forno solo quando la temperatura è quella giusta e cuocetelo per circa 45 minuti o fino a quando si è ben colorato o la superficie è diventata bruna. Fatelo raffreddare a testa in giù per evitare che le uvette e i canditi si depositino sul fondo.

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Dolci della tradizione

Il pandoro, “nobile� sfidante 74


Il viaggio del pandoro da Vienna a Verona per contendere al “cugino” panettone il titolo di “unico dolce di Natale”

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l pandoro è un tipico dolce veronese, il cui nome descrive perfettamente il colore della pasta giallo oro conferitogli dalle uova, leggero e soffice come la pasta brioche, ha sapore delicato e un leggero aroma di vaniglia. LEGGENDE E TRADIZIONE Una tradizione ne fa risalire la nascita ai tempi della Repubblica Veneta, quando sulle tavole delle famiglie ricche venivano serviti dei dolci a forma conica ricoperti da foglie d’oro zecchino, da qui il nome “pan d’oro”. Altri invece sostengono che il pandoro derivi da un antico dolce veronese: il famoso “nadalin” di cui conserva la forma stellare. La versione più recente sull’origine del pandoro lo lega invece alla Casa Reale degli Asburgo, sicuramente fin dal ’700-’800 erano note le due

tecniche del croissant e del “Pane di Vienna” che sono rimaste alla base della preparazione del pandoro. In particolare la lavorazione della “brioche” francese consisteva nell’alternare due o tre fasi d’impasto con pause di lievitazione, mentre quella del “Pane di Vienna” prevedeva di completare l’impasto aggiungendo una maggiore dose di burro con il sistema della pasta sfoglia, dove diversi strati di pasta vengono alternati a strati di burro,

con il risultato che durante la cottura il dolce acquista volume. In ogni caso c’è una data che sanziona ufficialmente la nascita del pandoro, il 14 ottobre 1894, giorno in cui Domenico Melegatti depositò all’Ufficio Brevetti un dolce dall’impasto morbido e dal caratteristico stampo di cottura con forma di stella troncoconica a otto punte, opera dell’artista Dall’Oca Bianca, pittore impressionista.

LA RICETTA DEL PANDORO “TRADIZIONALE” Ingredienti: 610 g di farina - 250 g di burro - 175 g di zucchero - 30 g di lievito di birra - 8 uova 1 limone - 1 dl di panna fresca - un pizzico di vanillina - 50 g di zucchero a velo Preparazione: la sua preparazione e lavorazione sono un pò lunghe: tre fasi di impasto alternate a pause di lievitazione. Setacciate 75 g di farina in una terrina, unite 10 g di zucchero, il lievito precedentemente sbriciolato, ed un tuorlo. Impastate bene il tutto, aggiungendo due cucchiai di acqua tiepida. Coprite l’impasto con un telo di cotone e lasciatelo lievitare per un paio di ore. Unite 160 g di farina setacciata, 25 g di burro ammorbidito, 90 g di zucchero, 3 tuorli ed impastate. Lasciate lievitare l’impasto per sue ore. Unite il resto della farina, 40 g di burro, 75 g di zucchero, 1 uovo intero e 3 tuorli. Impastate a lungo e fate lievitare per la terza volta, sempre coperto ed in luogo tiepido, per 2 ore. Lavorate l’impasto ed incorporatevi il resto del burro ammorbidito, la panna, la buccia grattugiata del limone e la vanillina. Impastate fino ad ottenere un composto morbido. Ricavate dalla pasta due palle e disponetele in 2 stampi precedentemente imburrati e fate lievitare in un luogo tiepido finché la pasta arriverà al bordo degli stampi. Fate cuocere per 40 minuti in forno preriscaldato a 190°. Abbassate il calore a 160° a metà cottura. Fate raffreddare e spolverizzate con lo zucchero a velo.

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Dolci della tradizione

Il torrone, un duro dal cuore dolce Il pranzo delle feste non può definirsi tale se non si conclude con l’assaggio del torrone: scopriamone i segreti e la tradizione 76


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I torrone è un dolce tipico di molte zone d’Italia, composto da un impasto di albume d’uovo, miele e zucchero, farcito con mandorle o nocciole, spesso ricoperto da due ostie.

vece, pare abbia origini addirittura anteriori, se diamo credito alla tradizione che dice che il primo torrone sia stato servito il 25 ottobre 1441 al banchet-

LA STORIA La maggioranza degli esperti è d’accordo nell’attribuire al torrone origini arabe; a supporto di questa tesi vi sarebbe, fra l’altro, il De medicinis et cibis semplicibus, trattato dell’XI secolo scritto da un medico arabo, in cui è citato il turun. Gli Arabi portarono questo dolce lungo le coste del Mediterraneo, in particolare in Spagna e in Italia. La versione spagnola del torrone ha origine nella regione di Alicante e le sue prime attestazioni certe risalgono al XVI secolo. Il torrone a Cremona, in-

to che si tenne alle nozze, celebrate a Cremona, fra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti. Quel nuovo dolce, sempre secondo la tradizione, era stato modellato riproducendo la forma del Torrazzo, la torre campanaria della città, da cui sembra prenda il nome anche il dolce. La prima notizia certa riguardo al torrone a Cremona risale al 1543, anno in cui il Comune di Cremona acquistò del torrone per farne dono ad alcune autorità, soprattutto milanesi. Questo episodio ci mostra come già all’epoca il torrone fosse radicato negli usi delle popolazioni lombarde.

LA RICETTA DEL TORRONE Ingredienti (1,5 Kg di torrone): 300 g di miele - 300 g di zucchero semolato - 100 g di acqua 150 g di nocciole pelate e tostate - 550 g di mandorle pelate e tostate - 150 g di canditi tritati (scorze di arancia e di cedro) - 3 albumi d’uovo - 1 busta di vanillina - la scorza grattugiata di 2 limoni - una trentina di grosse ostie da pasticceria. Preparazione: mettete il miele nella pirofila, ponete il recipiente a bagnomaria e lasciatelo cuocere a fuoco basso per un’ora e mezzo o più, mescolando in continuazione con un cucchiaio di legno. Il miele sarà pronto quando, versandone una goccia in poca acqua fredda si solidificherà. Poco prima che il miele sia cotto versate in una casseruola lo zucchero e l’acqua e fatelo cuocere sempre mescolando. Anche lo zucchero sarà pronto quando una goccia versata in un piattino formerà una perla bianca e croccante. Montate a neve ben soda gli albumi, quindi uniteli al miele ormai pronto. Con questa aggiunta il miele si gonfierà, diventando bianco e spumoso, continuate a mescolare per altri cinque minuti, quindi aggiungete anche lo zucchero e mescolate ancora sino a quando il composto, dopo essersi ristretto, comincerà a indurire. Unite allora le mandorle, le nocciole, la frutta candita, la scorza dei limoni grattugiata, la vanillina e mescolate con cura e a lungo, in modo da riuscire ad amalgamare tutto perfettamente. Foderate con metà ostie lo stampo. Versate il composto nello stampo, livellate bene la superficie e coprite con le ostie rimaste. Lo spessore del composto dovrebbe essere di circa 3 cm. Ponete sopra le ostie un tagliere o un’assicella di legno e su questa dei pesi e lasciate riposare così per circa mezz’ora. Solo allora capovolgete lo stampo su un ripiano e, con un grosso coltello, tagliate il torrone a pezzi della misura desiderata. Avvolgete i pezzi ottenuti prima in carta pergamena e poi in fogli d’alluminio e conservateli in luogo fresco e asciutto in una scatola o in un barattolo di vetro a chiusura ermetica.

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Sacro & profano

Ambrogio e Nicola: a tavola con i Santi patroni

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icembre è il mese dei grandi pranzi e delle sontuose cene che iniziano con i festeggiamenti di due tra i più importanti Santi d’Italia: San Nicola (6 dicembre) e Sant’Ambrogio (7 dicembre), e terminano con il pranzo di Natale ed il cenone di San Silvestro. “Slow Economy” vuole ricordare questi due Santi patroni con le ricette dei cibi più tradizionali legati alle loro città. E’ intanto curioso non siano nati nella città della quale sono i patroni; addirittura non sono nemmeno nati in Italia: San Nicola è di Pàtara di Licia in Turchia, l’attuale Demre, Ambrogio è di Treviri, una città della Germania. SAN NICOLA Incominciamo, in ordine di calendario, da San Nicola che viene ricordato a Bari il 6 dicembre, giorno della sua morte avvenuta nel 397. E’ un Santo importante non soltanto per i baresi ma anche per i cattolici di molte altre nazioni; il nome Nicola nelle varie versioni (Niklaus, Nikolaj, Nikita etc) è il nome cattolico più presente nel mondo. Più di Giuseppe, Antonio, Francesco… E’ il santo protettore delle zitelle perché aiutò tre ragazze che non potendo sposarsi per mancanza di dote sta-

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vano per avviarsi alla prostituzione; regalò loro tre sacchetti di monete e le giovani poterono così convolare a giuste nozze. Nella tradizione popolare è considerato anche protettore di marinai, pescatori, farmacisti, profumieri, bottai, ma soprattutto protettore dei bambini. Babbo Natale, il mitico per-

sonaggio che la Notte Santa porta doni ai bambini di tutto il mondo, è chiamato dai popoli nordici Santa Klaus, nome che è la contrazione di “Sanctus Nikolaus”. In suo onore vi indichiamo di seguito le ricette di 2 tra i più tradizionali piatti baresi: le “Orecchiette alla cime di rapa” e il famoso “Riso, patate e cozze”.


“Orecchiette alle cime di rapa” Dette anche “recchitelle” costituiscono il piatto più rappresentativo della città di Bari. L’origine della pasta è avvolta nel mistero, non essendoci alcun documento che ne attesti la nascita; alcuni affermano che sia stata introdotta in Puglia da mercanti provenzali, altri la fanno risalire alla cultura ebraica ed altri ancora assicurano che è autoctona, non foss’altro perché somiglia ai tetti dei trulli. Gli amanti della tradizione non vanno a comprare le “orecchiette secche” al negozio sotto casa o al più vi-

cino supermercato, ma le preparano fresche, con farina di grano duro, acqua tiepida e sale, considerando, per le dosi, un etto di farina per ogni commensale. Si versa la farina sulla “spianatoia” e si fa la classica fontana; si aggiunge il sale e l’acqua tiepida, lavorando, impastando e rimestando per una decina di minuti. Si forma una specie di “collinetta”, si copre con un panno (qualche massaia dice caldo) e si lascia riposare per una buona mezz’ora. Successivamente, dalla “collinetta” si preleva un piccolo pezzo di pasta che si rimescola e si amalgama per farne un lungo bastoncino

(come fine un grissino) che si taglia a pezzetti della grandezza di un’unghia - possibilmente tutti di eguale dimensione. Si schiaccia quindi ciascun pezzettino in maniera da ridurlo in forma di piccolo disco (a tale bisogna può servire il manico di un cucchiaio) e, esercitando una leggera pressione, lo si trascina sul tavolo da lavoro, in modo che il dischetto si curvi (seguendo la forma del manico di cucchiaio) coprendo parte dell’attrezzo. A questo punto si appoggiano - dischetto di pasta e manico di cucchiaio - sul polpastrello del pollice e si

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cerca di rovesciare all’indietro la pasta, come se si volesse avvolgerla sulla punta del dito; si spinge, infine, con il pollice stesso per ottenere e accentuare quella “gobbetta” che è tipica delle orecchiette. Si stacca delicatamente dal dito e si mette ad asciugare, con la “gobbetta” rivolta in alto e si aspetta qualche ora prima di cuocere. Le cime di rapa (note anche come broccoletti di rapa) sono ortaggi tipicamente italiani coltivati prevalentemente nel Lazio, in Campania e in Puglia. Si consumano le parti tenere (le cime, appunto, scartando le coste e le foglie dure e coriacee) più che altro nelle stagioni autunnale/

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invernale, anche se esistono varietà primaverili, dette tardive di taglia alta (110 cm). Si raccolgono a mano le infiorescenze e lo stelo con tutte le foglie, prima dell’a-

pertura dei fiori stessi (che ne deprezzerebbero la qualità, e renderebbero il prodotto poco commestibile) a circa 10 cm da terra per permettere il “ricaccio”, cioè una nuova buttata.


Ingredienti per 4 persone: 1 kg di cime di rapa fresche; 4 cucchiai d’olio extravergine di oliva; 3 spicchi d’aglio; 2 filetti d’acciuga sott’olio; 360 g di orecchiette; peperoncino e pepe quanto basta. Procedimento: mondate le cime di rapa, eliminate cioè le foglie grosse, sciupate, gialle, le parti dure del gambo e selezionate, invece, le infiorescenze e le foglie più tenere, tagliandole in più parti. Lavatele abbondantemente con acqua fresca corrente, facendo attenzione che non rimangano frammenti di terra (solitamente sono

abbastanza sporche, un pò come gli spinaci). Tagliate il peperoncino a rondelle. Ponete sul fuoco una capace pentola con abbondante acqua salata e quando questa bolle, versatevi le cime di rapa. Ad avvenuta lessatura, scolate, mantenendo buona l’acqua di cottura, perché, rimessa sul fuoco servirà a cuocere le orecchiette. Intanto in una padella, fate imbiondire, con l’olio, gli spicchi d’aglio schiacciati (o tagliati a fettine), i filetti d’acciuga spezzettati e le rondelle di peperoncino. A doratura avvenuta (non fatelo troppo a lungo, altrimenti il tutto diventerà nero e amaro!), unite le cime di

rapa ben scolate e fatele saltare allegramente. Lessate le orecchiette nella stessa acqua di cottura della verdura e quando saranno più che al dente, scolatele ed unitele al resto nella padella, continuando a farle saltare per una manciata di secondi ancora. Se dovessero risultare asciutte aggiungete un pò d’acqua di cottura e asciugate quanto basta a fiamma viva. Servite immediatamente con un’abbondante grattugiata di pepe, un filo d’olio a crudo e accompagnatelo con uno dei grandi vini caldi e sensuali come la terra di Puglia: Primitivo, Nero di Troia, Negramaro.

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“Tiella di riso, patate e cozze alla barese” Ingredienti per 6 persone: cozze kg 1,5; patate g 800; pomodori maturi g 700; cipolle g 600; riso Superfino g 500; prezzemolo g 70; 3 spicchi di aglio; pecorino grattugiato; olio d’oliva; sale q.b. Procedimento: aprite e la-

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vate molto bene le cozze; tritate il prezzemolo e l’aglio, tagliate a fettine sottilissime le cipolle e affettate le patate sottili. Tagliate i pomodori. Accendete il forno e portatelo a 180° circa. Ungete d’olio un tegame, possibilmente di coccio, partite con metà delle cipolle, del prezzemolo, dei pomodori, sale e abbondante pecorino. Continuate con circa metà delle patate e tutto il riso

mondato, cercando sempre di fare uno strato uniforme. Distribuite le cozze sopra il riso e spolverizzate con il restante prezzemolo e il resto delle cipolle, dei pomodori, le rimanenti patate e un filo d’olio. Aggiungete poco a poco dell’acqua fredda leggermente salata, quanto basta per coprire tutti gli ingredienti e cuocete per circa 45 minuti; se necessario, unite ancora acqua bollente.


“La bocca non serve solo per respirare e mangiare, ma è anche un importante organo di comunicazione, pertanto non stupisce che, denti bianchi, splendenti e regolari, sono riconosciuti come un segno di vitalità e di salute del corpo; inoltre, un sorriso accattivante influenza in modo decisivo la fiducia in se stessi.

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SANT’AMBROGIO Non si sono spenti gli echi dei festeggiamenti che i baresi hanno dedicato al loro Santo Patrono e già a Milano stanno iniziando quelli dedicati a Sant’Ambrogio che culminano con la tradizionale Prima della Scala. Si inizia con la Messa celebrata in tutte le chiese, ma la più importante avviene, naturalmente, nella Basilica costruita alla fine del IV secolo per volere del Vescovo Ambrogio nella zona in cui erano stati sepolti i Cristiani martirizzati dalle persecuzioni romane. Ambrogio era nato nel 340 a Treviri, una città della Renania, da una delle più illustri famiglie romane; suo padre era titolare di una delle 4 prefetture in cui era diviso l’Impero sotto Diocleziano. Nel 374 il popolo di Milano lo aveva proclamato Vescovo per la sua abilità e capacità di mediatore nel risolvere le contese tra cattolici ed ariani; in un primo momento aveva rifiutato, non sentendosi all’altezza del compito, ma - confermato nella carica dall’Imperatore - in una settimana fu battezzato ed ordinato. Donò tutto il suo patrimonio ai poveri ed impostò la sua vita secondo uno stile austero e contemplativo, prodigandosi caritativamente per i fedeli. Per la sua cultura e la sua sapienza è uno dei 4 massimi “Dottori della Chiesa”. Am-

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brogio riformò la Chiesa milanese, che per questo da lui assunse il nome di “ambrosiana”. Nel 393, pochi anni prima di morire, con l’Imperatore Teodosio I vietò i Giochi olimpici, che erano visti come una festa pagana, ponendo fine a una storia durata oltre mille anni. Al Patrono di Milano dedichiamo 2 dei piatti più tradizionali della cucina meneghina: la “Cassöeula” e il “Risotto alla Milanese”.

“Cassöeula” “Del maiale non si butta via niente”, recita un vecchio adagio; ecco perché esso occupa un posto di primissimo piano sia sulle mense dei ricchi che su quelle dei poveri. Fino a poco più di mezzo secolo fa in quasi tutte le case si allevava un maiale, che con la sua carne forniva provviste strategiche per un intero anno: il giorno della “maialatura” - cosi si chiamava in alcune regioni del


centro Italia la sua macellazione - era considerato giorno di festa: un macellaio, detto “norcino” (perché l’arte della conservazione del maiale nasce a Norcia qualche secolo fa), si occupava di ritagliare prosciutti e “acconciare” salami, salsicce, cotechini, pancetta, guanciale, coppa e capocollo, zampone sanguinaccio e via di seguito. Ogni regione, ogni provincia, addirittura ogni paese, ha un suo modo tradizionale di cuocere queste carni; i milanesi hanno la Cassoeula, uno dei piatti tipici invernali a base di verza e delle parti meno nobili del maiale: cotenna, piedini, orecchie e costine. La verza - l’ortaggio più importante dell’inverno - è dotato di un sapore dolce e delicato; è una varietà di cavo-

lo che possiede quasi tutte le vitamine tanti sali minerali, tra cui zinco e magnesio e favorisce l’assorbimento del ferro. È una verdura salutare, che si acquista a prezzo relativamente basso ed è tra le più gustose e versatili in cucina. I vecchi ortolani (i verzee)

insegnano che va raccolta dopo che ha subito la “gelata”, quando cioè la temperatura è scesa di qualche grado sotto lo zero e le sue foglie, corpose corazzate e opache, “crocchiano” allorché si cerca di aprirle per cercarne il morbido e fresco cuore bianco/verde.

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Ingredienti per 8 persone (perchĂŠ pensiamo che la cassoeula vada gustata in compagnia): 1 kg di costine di maiale; 250 g di cotenne di maiale; 2 piedini di maiale; 2 orecchie di maiale; 8 salamini verzini; 400 g di luganiga (salsiccia fresca); 2 kg di verza; 1 cipolla; 2 carote; 2 costole di sedano; 1 bicchiere di vino bianco secco; 60 g di burro; sale e pepe, quanto basta. Procedimento: in una pentola, con acqua abbondante e salata, fate bollire le cotenne e le orecchie del maiale, per tre quarti d'ora, e i piedini per un'ora, dopo averli ben raschiati e fiammeg-

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giati; scolate il tutto e fatelo a pezzetti. Fate rosolare in poco burro le costine fino a quando non si siano colorite, quindi toglietele dalla fiamma e tenetele da parte; alla stessa maniera fate con i verzini (praticate dei buchi con la forchetta) e con la luganiga tagliata grossa. Pulite e lavate bene la verza, senza scolarla eccessivamente, affinchĂŠ tenga nelle foglie poca acqua del risciacquo, mettetela in una pentola, copritela e fatela appena appassire a fuoco lento. In una grande casseruola, nel burro rimasto (50 g circa), fate rosolare la cipolla, il sedano e la carota, previamente tritati e, appena si sono appassiti, unite i verzini

e la luganiga, sfumando con il vino - a fuoco allegro per lasciare evaporare; bagnate con un pò d'acqua e fate cuocere per 10' riducendo la fiamma. Unite la carne e, trascorsi pochi minuti aggiungete le verze e se necessario un pò d'acqua. Fate cuocere per circa un'ora vigilando che la carne si stacchi dalle ossa, aggiungendo acqua, aggiustando di sale e di pepe. Una volta cotta, lasciate riposare la cassoeula per 20' prima di servire. Accompagnate con una buona polenta e con un vino rosso: Bonarda secco, Oltrepo pavese d.o.c., Lambrusco mantovano d.o.c., Gutturnio Colli piacentini d.o.c.


“Risotto alla milanese con zafferano� Ingredienti per 4 persone: 450 g di riso; 120 g di burro; 100 g di formaggio stagionato; 60 g di midollo di bue; 1,7 dl di brodo di carne; 1 cipolla; 2 cucchiaini di pistilli di zafferano.

Procedimento: sciogliete lo zafferano in pochi cucchiai di brodo; mondate la cipolla, affettatela e velo, rosolatela nel burro (del quale terrete da parte una noce) insieme al midollo di bue. Quando il soffritto sarĂ pronto e profumato, tostateci il riso; quando i grani di riso saranno ben tosta-

ti bagnateli con un bicchiere di vino bianco e aggiungete brodo man mano che si asciuga, fino al completamento della cottura del riso. Unite solo in ultimo lo zafferano, poi condite il risotto con burro e Parmigiano e fatelo mantecare per qualche minuto. Rimestate e servite in tavola.

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Punti di distribuzione Bruxelles • Petit rue au beurre, 12 - Ristorante “La Capannina” a due piani nel centro storico, strada che immette nella fantastica “Grand Place” della città belga sede del Parlamento Europeo, con cucina italiana rivisitata al gusto francese e clientela internazionale, primo ristorante italiano in città fondato 50 anni fa da una giovanissima e tenace Anna Bianco emigrante da Noci in Puglia.

Dublino • 208 Lower Rarhmines Road, Dublin 6 - ristorante pizzeria “Il Manifesto”. Infotel: 353 1 496 8096 - m a n i f e s t o r e s t a u r a n t @ gmail.com - www. manifestorestaurant.ie - In Irlanda una vera pizza napoletana, fatta da Salvatore di Salerno che, se è in vena, fa pure il giocoliere con l’impasto, è un miraggio che pure in Italia sarebbe raro.

• Lower Ormonde Quay, Dublin 1 - ristorante pizzeria “Bar Italia”. Infotel: 353 1 874 1000 info@baritalia.ie www. baritalia.ie. Fa onore alla cucina italiana nel mondo, ottimi primi, ottima piz-

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za, squisita la frittura di calamari e gamberi.

ogni stanza dedicata ad un paese del mondo che produce cioccolata, un museo incredibile. Milano • Ristorante l’”Osteria dei Pirati” - via Fogazzaro, 9 del noto presentatore TV Marco Predolin che offre fantastici menù a base di pesce con musica dal vivo

• Upper Merrion Street, Dublin 2 - “Merrion Hotel” - www.merrionhotel.com. Nel centro storico si nota l’eleganza già dal portale d’ingresso, di fronte al palazzo di governo irlandese. Creato dalla fusione di 4 antiche case in stile georgiano si sviluppa attorno a 2 giardini del XVIII secolo.

Torino • via Santa Chiara, 54 - Ristorante “Asian Fusion”. infotel: 338 8194846. Nel quadrilatero romano non lontano dalla Mole Antoneliana ottime cucine tipiche malese, cinese, giapponese ed Italiana, con pietanze fedeli alle tradizioni ed ai gusti originali, crocevia culinario tra oriente ed occidente. Cuneo • Santuario di Vicoforte - Ristorante albergo “CioccoLocanda” - via F. Gallo,19. infotel: 0174 563312. Website: www.cioccolocanda.it. Del grande artigiano della cioccolata Silvio Bessone

• Residence “Abbadesse Resort” - via Oldofredi e via Abbadesse antico monastero fra i grattacieli del nuovo Quartiere della Moda, Isola di Porta Nuova, magistralmente gestito dal proprietario ing. Antonio Savia.

“Pola Residence” - via Pola Milano. Di fronte al nuovo grattacielo sede della Regione Lombardia, al centro del nuovo quartiere della moda meneghina, e vicino alla Stazione Centrale


Camisano Vicentino (VI) • Ristorante Locanda “Alla Torre da Zemin” - via Torerossa, 39/41 locale n.407 zona 4est infotel: 049 9065621. Nella torre di avvistamento del 1270 sul confine Vicenza/Padova, nei due piani della locanda un incredibile Gianfranco Zemin propone una cucina solo con prodotti di stagione e ingredienti del territorio, dalla “piramide di tartare di tonno su battuta di mango e avocado con salsa di limoni caramellati” alla “suprema di faraona”, indimenticabili i suoi risotti. Se lo si prega Gianfranco, forse, racconterà la storia di Occhi d’Oro e del cavaliere misterioso. Padova • “Q Bar” - vicolo dei Dotto, 3 infotel: 049 8751680. Nella centralissima piazza Insurrezione è elegantissima meta della movida chic padovana e ritrovo dei calciatori del Padova calcio. Dinner&Dance, cucina mediterranea e sofisticata musica live • “Osteria Barabba” - via Vicenza, 47. Marco offre la cucina delle osterie venete in un lounge space, a cominciare dall’ora dell’aperitivo, memorabile quello del mercoledì con ricco buffet, ottimo winebar infotel: 049 8716845 Parma • Ristorante “ I Tri Siochett” strada Farnese, 74/a. Squisiti “tortelli all’erbetta” piatto tipico parmense (grandi ravioli ripieni di spinaci annegati in burro fuso con Parmigiano) e torta fritta (detta anche “gnocchi fritti” nel modenese e nel reggiano, di origine longobarda, semplici sfoglie di pasta per pane fritte in olio che si gonfiano come pan-

zerottini vuoti all’interno) ottima per accompagnare il salame di Felino, il culatello di Zibello ed il prosciutto di Parma, oppure il Parmigiano Reggiano sorseggiando Lambrusco di alta qualità. Collecchio (PR) • Agenzia Viaggi “Tra le nuvole” - via Giardinetto, 6/I. Condotta con competenza e professionalità da Elena Bizzi. Città di Castello (PG) • Ristorante “La Taverna di Mastro Dante” - via Montecastelli Umbro/ Promano in località Coldipozzo, 45. E’ la patria dei prosciutti di montagna di Norcia infotel: 075 8648133

Soliera (MO) • “Hotel Marchi” - via Modena/ Carpi. Situato tra la patria dell’aceto Balsamico e la più bella piazza d’Italia (Carpi), all’incrocio fra l’autostrada adriatica nord/ sud e l’autostrada del Brennero che collega l’Austria ed il nord Europa . Quattro Castella (RE) • Ristorante Albergo “La Madda-

lena” - via Pasteur, 5. Emilio ed Emiliano Montanari accolgono con simpatia ospiti da tutta Italia deliziandoli con salumi parmensi e Parmigiano Reggiano. • Resort B&B “Quattrocolli“ - Via Lenin, 81. Sulla collina tra Parma e Reggio Emilia offre una discreta raffinata ospitalità di lusso San Polo d’Enza (RE) • Ristorante “La Grotta” - via della Resistenza, 2/B. Sulla collina reggiana, fra stalattiti e stalagmiti in grotta con cucina tipica reggiana. Roma • Golf & Country Club “Parco di Roma” - quartiere Cassia, via dei due ponti, 110. Progettista P.B.Dye per un 18 buche “par72” infotel: 06 33653396, direttore architetto Giuseppe Miliè, progettista di campi da golf in tutto il mondo. • Ristorante “Ristovino” quartiere Prati - via Durazzo, 19. Nei pressi dell’emittente televisiva nazionale LA7, è anche caffetteria per ottime colazioni mattutine ed enoteca ben fornita per pranzi o cene che vanno dai tipici piatti romani come gli “gnocchi freschi ai 4 formaggi” a quelli napoletani. Sant’Agata sui due Golfi (NA) • Ristorante albergo “Don Alfonso dal 1890” - corso Sant’Agata, 11/13. Nel cuore della penisola sorrentina si affaccia sul Golfo di Salerno, è considerato tra i primi dieci migliori ristoranti d’Italia, condotto da Alfonso Iaccarino, chef internazionale, che vi ha aggiunto un albergo e la scuola di cucina con showcooking.

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Orsara di Puglia (FG) • “Piano Paradiso” ristorante. Peppe Zullo noto chef internazionale, riceve ospiti da tutto il mondo. Infotel: 0881 964763 Torre Canne (BR) • Masseria San Domenico e Golf Club. Struttura composta dalla prestigiosa masseria San Domenico e da Borgo Egnazia, resort di alta qualità apprezzata anche da importanti clienti arabi e russi e dai divi di Hollywood, è munita di campo da golf a 18 buche fra gli ulivi secolari ed è affacciato sul mare

da Mosca di pellegrini cristiani ortodossi e, nel quartiere Palese hotel Parco dei Principi, di fronte al nuovo aeroporto Karol Wojtyla, modernissimo e dotato di tutti i confort per clientela business, entrambi della famiglia del vicepresidente Federalberghi di Bari, Antonio Vasile. • Villa Romanazzi Carducci - via Capruzzi, 326. Albergo resort elegante e con architettura di prestigio circondata da splendido parco in pieno centro cittadino, diretto dalla famiglia dell’imprenditore ing. Lorenzo Ranieri, è dotato di suggestive sale convegni sparse nel giardino ed offre la cucina del noto chef prof. De Rosa. • Ristorante Terranima - via Putignani. Nella strada delle banche e della movida, è l’unico ristorante che conserva l’architettura antica, dalle “basole” del pavimento alla coorte che ricorda le piazzette degli artigiani dei secoli scorsi (presenti ancora solo nel centro storico) offre l’inimitabile cucina tipica barese, dalle “strascinate alle patate e cozze”, dalle mozzarelle ai dolci caldi con crema “sporcamuss”

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Polignano a Mare (BA) • Resort & SPA Borgobianco - Contrada Casello Favuzzi. Moderni arredi interni in una struttura esterna a masseria, intonacata a calce bianchissima che si specchia su di una immensa piscina con idromassaggio, che compone la “Salus per acquam” insieme al centro benessere interno “Unica”. Cinque stelle meritate come meritata è stata l’elezione a presidente “Associazione Albergatori Polignano” di Roberto Frugis socio e marketing manager. Tel: 080-8870001 • B&B dei Serafini - piazza Vittorio Emanuele, 43. Riduttivo chiamarlo B&B perché si tratta di un eccezionale albergo diffuso nel centro storico della città di Domenico Modugno. Sporgendosi dalle case costruite sulla scogliera a picco sul

Bari • Barialto Golf Club. Storica club house pugliese con importante campo da golf.

• Hotel Boston - via Piccinni, 155. A 5 minuti dal centro storico e dalla Basilica di San Nicola, meta

• Hotel Oriente, nel centralissimo Corso Cavour al numero 32, un 4 stelle di lussuosa eleganza, ospita da gennaio 2013 la Golf Club House “Porta d’Oriente”, punto d’incontro al Sud Italia di giocatori ed eccellenze della moda e dell’enogastronomia.

• Radicci Automobili S.p.A. - Via Amendola, 146. Concessionaria Ferrari e Maserati per il Sud Italia ora Concessionaria anche per la dorsale adriatica con la nuova sede di Ancona. Il Gruppo Radicci a Bari, è anche prestigiosa Concessionaria Jaguar e Land Rover.


mare sembra proprio di ascoltare “Volare” o “Nel blu dipinto di blu” onde sonore che da Polignano hanno raggiunto ogni angolo del globo. Putignano (BA) • Proloco - piazza Plebiscito,1. Nel centro storico della città patria degli abiti da sposa e del Carnevale più antico e lungo del mondo. • Fondazione Carnevale di Putignano. via Conversano, 3. • Osteria “Chi va piano” - Via Monache, Putignano, 0802373445 - cell. 3932378898. In un vicolo nascosto di Putignano, Stefano Guglielmi, ex macellaio, ha creato una locanda di eccellenza. Con il suo staff cucina solo teglie di terracotta in un enorme camino utilizzando solo eccellenze enogastronomiche fresche di giornata. Il suo motto è “cibo e vino per andare lontano”.

• B&B “San Domenico” - Estramurale a Levante, 4 - 70017 Putignano (BA) - Cell. 3332284769 - info@bebsandomenico.com. La struttura è in un angolo pittoresco della città, a pochi passi dalla Chiesa di San Domenico con vista sul campanile,

nei pressi di Porta Barsento e dell’interessante centro storico. La struttura è gestita in maniera esemplare da Vincenzo Gigante: la sua gentilezza e le sue attenzioni vi metteranno a vostro agio, facendovi sentire in famiglia. • Agenzia Viaggi Netti - via Tripoli, 63. La signora Netti organizza viaggi in tutto il mondo, pur in tempi del “fai da te via internet”, con una costante ricerca del prezzo più basso col massimo della qualità e della garanzia, facendo inoltre incoming turistica in Puglia con educationals tours, showcooking ed itinerari guidati in posti unici ancora sconosciuti ai grandi tours operators. Noci (BA) • Ristorante “L’antica Locanda” - via S.Santo, 49. In una “gnostra” del centro storico meta di turismo internazionale a novembre per “Bacco nelle gnostre”, di Pasquale Fatalino, chef noto in trasmissioni RAI, che prepara orecchiette con fave e cime di rape ed incantevoli braciole di carne al sugo. in-

Da sinistra: Ignazio Capasso (imprenditore nel campo della plastica), Saverio Buttiglione, lo chef Pasquale Fatalino e Pino Sguera (Presidente di Teleregione) davanti al ristorante Antica Locanda di Noci

dimenticabili come dimostrato dai personaggi del mondo dello spettacolo che lo raggiungono apposta in ogni momento dell’anno.

• Ristorante “Il falco Pellegrino” in località Montedoro a Noci, immerso nella campagna della Murgia pugliese, fra antiche masserie, nel quale lo chef Natale Martucci prepara primi indimenticabili, secondi di pesce fresco o tagliate di manzo podolico, con attenta scelta dei migliori vini regionali.

Conversano (BA) • Ristorante “Savì” - via San Giacomo. Condotto dallo chef Nicola Savino, già chef a Dallas dove ha servito al presidente Bush ed al famoso cantante Frank Sinatra le polpette al sugo pugliesi. Qui ha inventato le crepès pugliesi, panzerottoni (dolci o salati) ripieni di leccornie regionali. Turi (BA) • Ristorante “Menelao” - via Sedile, 46. A Santa Chiara in un palazzo signorile del 1600 nella cittadina custode dell’”oro rosso”, la Ciliegia Ferrovia. Aperto da Michele Boccardi che dopo la laurea in economia e commercio e l’abilitazione di commercialista è diventato Marketing Manager alla Scuola di Economia & Turismo di Londra. Visto il successo ottenuto dall’aver trasformato

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la masseria fortificata di famiglia “Menelao”, sulla strada per Rutigliano, in eccellenza per la banchettistica, i ricevimenti, le cene di gala ed i meeting, con “Santa Chiara” affronta la sfida della cucina di alta classe internazionale. Dispone di un’ottima cantina di vini ed offre prodotti tipici, sia nazionali che d’oltremare, dai cappelletti con cicoriella campestre su letto di fave alla costata di manzo podolico della Murgia non disdegnando però il salmone Balik norvegese o la costata di manzo della val di Chiano della Toscana. Infotel: 080-8911897. Castellana Grotte (BA) • “Palace Hotel Semiramide” via Conversano. Affascinante albergo immerso nella natura, accanto al parco dei dinosauri in cartapesta, ospita anche la sede italiana dell’Università Europea per il Turismo, a cinque minuti dalle famose Grotte che richiamano visitatori da tutto il mondo per gli affascinanti percorsi carsici sotterranei lunghi chilometri, famose per le eccezionali stalattiti e le stalagmiti della “grotta bianca”. • Ristorante e braceria “Le Jardin Bleu Belle” - via Firenze. Affascinante struttura in legno costruita su quella in pietra dell’antico bar della villa comunale, creandone un unico ambiente che guarda dalle vetrate le cime degli alberi che la circondano mentre si gustano squisiti piatti tipici pugliesi. Alberobello (BA) • Ristorante “Casanova” - via Monte San Marco, 13. Ricavato in un antico frantoio ipogeo sotterraneo in pieno centro fra i trulli patrimonio UNESCO. I soci Ignazio Spinetti (presidente

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sostenibile. Questo GAL comprende i comuni di Alberobello, Putignano, Castellana Grotte, Turi, Sammichele, Noci, Gioia del Colle.

Associazione Ristoratori Alberobello) e lo chef Martino Convertino offrono l’ottima cucina tipica pugliese indescrivibile a parole perché semplicemente da gustare in silenzio. • Museo del vino Antica Cantina Albea - via Due Macelli, 8. Unico completo museo del vino pugliese produce vino anche per il Vaticano, è la storica cantina che prima dell’unità d’Italia inviava, dalla vicina e collegata stazione ferroviaria, i propri vini per tagliaree migliorare quelli di Bordeaux in Francia. Produce “Lui” negramaro in purezza affinato in barrique primi 12 mesi. • Condotta Slowfood “Alberobello e Valle d’Itria” - via Sisto Sante, 5. Fiduciario Francesco Biasi, promotore dei presidi “salame Capocollo di Marina Franca” (ingrediente delle famose “bombette”), “Cipolla rossa di Acquaviva delle Fonti” e “Pomodorino di oasi protetta Torre Guaceto”. • GAL Terra dei Trulli e di Barsento - Via Bligny, 23. Il primo Gruppo di Azione Locale fra quelli in cui, per zone omogenee, è stata diviso il territorio d’Europa, ad essere partito operativamente con gemellaggi in tutto il continente. I GAL sono un’iniziativa UE, che li finanzia col programma “Leader”, al fine di valorizzare le potenzialità dei territori integrando produzioni agricole, artigianali e di piccola industria per uno sviluppo

Andria (BAT) • Ristorante “Antichi Sapori” contrada Montegrosso. Pietro Zito importante chef internazionale offre la cucina tradizionale pugliese e le antiche erbe ed ortaggi riscoperti e curati nell’immenso orto che ha costruito e nel quale lavora tutta la contrada.

• Cantina Rivera con annessa sala di degustazione, condotta dal presidente di “Movimento Turismo del Vino” Sebastiano De Corato, produce il famoso “Falcone Rivera”. Corato (BA) • Cantina Torrevento condotta dal prof. Francesco Liantonio presidente della “Strada dei vini Castel del Monte” guarda lo splendido maniero ottagonale dell’imperatore Federico II di Svevia “Stupor Mundi” patrimonio UNESCO, dove produce eccellenti vini. Crispiano (TA) • Masseria Resort “Quis Ut Deus”. Una delle inimitabili “Cento Masserie di Crispiano”, affascinanti masserie in pietra e tufo, ristrutturate per resort di livello e aziende agricole di prodotti tipici quali olio extravergine d’oliva e prodotti caseari.


Fasano (BR) • Tenuta Monacelle - Selva di Fasano. Antico monastero di monache del 1700 fatto di trulli, ognuno adibito a stanza d’hotel, con affianco parco nel quale sono ricavate modernissime stanze d’albergo costruite in tufo. Si affaccia dal monte Selva sui sei milioni di ulivi secolari che lo distanziano dal mare di Fasano. Savelletri di Fasano (BR) • Masseria Resort Torre Coccaro - contrada Coccaro, 8. Infotel.:080 4827992. Bianca e splendida sul mare, antica torre

di avvistamento della linea difensiva dalle scorribande dei Saraceni del XVI secolo, che andava dal Gargano al “finibus terrae” Santa Maria di Leuca. Non ci sono parole per descriverla, guardare sul web! La stessa famiglia Muolo possiede la collegata Masseria Torre Maizza infotel: 080 4827838. Un hotel a 5 stelle con campo da golf 9 buche executive “par27” costruito fra gli ulivi secolari ed affacciato sul mare. A Coccaro Golf Club il 4 novembre, festa della Vittoria dell’Italia nella grande guerra, l’Apulia Golf District dell’architetto Giuseppe Germano e Do You Golf di Ester Monacelli hanno organizzato per il Circuito “Eccellenza di Puglia 2012” la 2a edizione della gara Pitch&Putt, 18 buche stableford con 18 squadre e 36 giocatori.

Il buffet preparato dagli chefs della struttura è stato inimitabile. Masseria Torre Coccaro è risultata per il 2012 tra i migliori 10 Beach Hotel nella classifica di “Conde Nast Travel”. Ostuni (BR) • Grand Hotel Masseria Santa Lucia SS.39, km 23.5 località Costa Merlata. Incantevole resort sul mare sotto la città bianca di Ostuni, diretto da Bartolo D’Amico, presidente ADA Puglia, associazione direttori d’albergo. Cellino San Marco (BR) • Cantina Tenuta Albano Carrisi. Prestigioso albergo e ristorante ricavati nella masseria del padre del famoso cantante, don Carmelo, che da il nome al vino più prestigioso qui prodotto. • Cantina Due Palme. Con avveniristica sala convegni ricavata nella bottaia produce vini ormai famosi nel mondo e vincitori di primi premi al Vinitaly di Verona come il “Selva Rossa”. Salice Salentino (BR) • Cantina Conti Leone De Castris. Cantina ricavata nel palazzo dei conti Leone De Castris, dove è nato il primo vino rosè del mondo settant’anni fa,il “Five Roses”. E’ annessa al prestigioso albergo e ristorante di proprietà della famiglia. Lecce • Acaya Golf Resort - Strada per Acaya, km.2 località masseria S.Pietro. Infotel: 0832 861385. Splendido campo da golf rivisto e ristrutturato, anche agronomicamente, dallo studio di architetti “Hurdzan

Fry” per un 18 buche “par71” di 6192 metri, con ben sette ettari di specchi d’acqua, accanto al “Castello di Acaya”, costruito seguendo le nuove esigenze fortificatorie dell’epoca dovute all’affermarsi delle armi da fuoco ed ora esempio di moderno restauro. L’albergo resort della catena Hilton è costruito nel ricordo stilistico degli antichi monasteri con una grande piscina esterna ed un’importante SPA di ben 1200 metri quadri. Bari • Eataly Bari - Lungomare, ingresso monumentale Fiera del Levate: Oscar Farinetti ha voluto portare in Puglia Eataly per il sudItalia, affittando e ristrutturando la parte monumentale della Fiera del Levante, facendo affacciare i ristoranti sul lungomare di Bari, offrendo nel capoluogo pugliese le migliori specialità enogastronomiche italiane, così come Eataly fa ormai in tutto il mondo.

Oscar Farinetti tra il Presidente del Consorzio DOP Pane di Altamura Giuseppe Barile ed il direttore Saverio Buttiglione

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della Redazione

Miss Slow Economy

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Elena Maggio

iplomata ragioniera al Marco Polo di Bari, ha partecipato a Miss Italia e lavora come modella, indossatrice e fotomodella, dandosi da fare, per continuare gli studi ed essere economicamente indipendente, lavorando anche come hostess in eventi e quartieri fieristici come la nota Fiera del Levante barese.


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