SMALL ZINE N. 25

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ISSN 2283-9771

Magazine di arte contemporanea / Anno VII N. 25 / Trimestrale free press

SMALL ZINE

Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale 70% Cosenza Aut S/CS/19/2016/C

GENNAIO FEBBRAIO MARZO 2018


URBAN, 2017. Olio e acrilico su tela, 65x60 cm.

ANTONIO DʼAMICO C.da Petraro 43, 87067 Rossano (Cs)

pittoreantoniodamico.blogspot.com iydamic@inwind.it



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SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea

OMMARIO

TALENT TALENT 5

LʼAZIONE NELLO SPAZIO COMUNE Filippo Berta - Gregorio Raspa

INTERVIEWS 6

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RAG DOLLS: RITRATTI LIQUIDI Silvia Argiolas - Valentina Tebala LO SPETTACOLO DELLE MACERIE Stefano Serretta - Gregorio Raspa

SPECIAL 10

IL FUMETTO DELLʼARTE con Roberto Gagnor, Giuseppe Calzolari, Roberto Manfrin, Francesco Graziadio - Loredana Barillaro

PEOPLE ART 12

UNO SGUARDO FRA LʼITALIA E NEW YORK Giorgio van Straten

SHOWCASE 14

ERMANNO CAVALIERE a cura di Pasquale De Sensi

SMALL TALK 16

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COLORE, LINEA, SUPERFICIE Paolo Iacchetti - Davide Silvioli ARTE CONVIVIALE Maria Livia Brunelli - Maria Chiara Wang SESSANTOTTO ARTISTI PER IL DRUGO Francesco Ciaponi - Loredana Barillaro

Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Stampa: Gescom s.p.a. Viterbo Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Contatti e info 3393000574 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Valentina Tebala, Maria Chiara Wang, Gregorio Raspa, Pasquale De Sensi, Davide Silvioli Con il contributo di: Giorgio van Straten © 2018 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.

In copertina Stefano Serretta, AETERNITAS, 2014. Intervento site specific 5x1,5 m. (part.) Courtesy dellʼartista.


TALENT TALENT

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LʼAZIONE NELLO SPAZIO COMUNE Filippo Berta

olta arte del nostro tempo sembra interrogarsi sul concetto del “collettivo”, sperimentando una linea di ricerca tesa all’indagine di aspetti e peculiarità ad esso inerenti. Un simile interesse si manifesta condizionato da ovvie specificità di carattere geografico e/o etnografico - a livello internazionale, con un’ampiezza ed un’intensità tali da suggerire l’identificazione, nel vasto e burrascoso mare magnum della contemporaneità artistica, di un puntuale e significativo sottogruppo d’indagine. La presenza all’interno dell’ultima Biennale di Venezia - quella diretta da Christine Macel - di un hub esplicitamente dedicato al tema - il Padiglione dello Spazio Comune - non ha fatto altro che istituzionalizzare, in campo critico e curatoriale, l’autentica portata del fenomeno in discussione. Nel solco di una siffatta sensibilità teorica si colloca anche il lavoro dell’artista italiano Filippo Berta, da tempo autore di una narrativa costruita sulla dimensione umana del rito collettivo. La sua operatività conduce nei territori spesso contigui - della performance e della video installazione, proponendo il riflesso di atteggiamenti interpersonali riferibili ai più disparati contesti della quotidianità.

- Gregorio Raspa

Si tratta di opere in cui l’artista misura i rapporti di forza tra gli individui, pone in evidenza le loro strategie comportamentali e verifica sintomi ed effetti propri delle tensioni sociali. Con il suo lavoro Berta esamina l’apparato valoriale che determina i desideri di appartenenza e di unità, i modi attraverso i quali si manifestano l’individualismo e il bisogno di aggregazione. Esasperando le dinamiche - emotive e razionali - che animano un paesaggio antropico sempre più complesso e mutevole, l’artista lombardo cristallizza i caratteri peculiari di un’epoca in cui l’ambito pubblico e quello privato si compenetrano e i nuovi processi di condivisione generano un inedito senso di comunità. Nell’ambito di un simile scenario, in cui anche la prassi collettiva muta le proprie regole, Berta lavora emulando la fenomenologia del reale, messa in scena per mezzo di tableau vivant dotati di rara efficacia metaforica. Oltre l’individualismo e gli interessi specifici, in queste opere l’azione umana assume una dimensione in cui il potenziale olistico coordina l’attività di gruppi a formazione variabile. Così facendo, l’artista predispone situazioni e atteggiamenti legati ad una comunità ipotetica in cui potersi riconoscere 5

ed immedesimare. È interessante, in tal senso, comprendere le poche, fondamentali istruzioni impartite agli interpreti e ai figuranti. Nel definire compiti e ruoli, infatti, Berta costruisce scenari di scontro - come in Dèja vù (2008) - o di necessaria e temporanea condivisione - come in Allumettes (2012); descrive la faticosa ricerca di uno spazio individuale - come in Territories #2 (2015) - o l’ostinato tentativo di omologazione e assimilazione all’altro come in Cheees! (2013). L’approccio antropologico sperimentato da Berta è - nella sua semplicità costruttiva - totalizzante, perché capace di effettuare una ricognizione organizzata di sentimenti, intenti, regole e consuetudini poste alla base di azioni compiute in uno spazio plurale. Costretto ad assumere una necessaria posizione di distanza rispetto agli eventi che con l’opera si consumano, allo spettatore non rimane che riconoscere, nel valore simbolico delle meccaniche indotte, l’ombra della propria identità sociale. CHEEES!, 2013. Performance, HD Video 1’13’’, Stampa Fotografica Diasec©. Courtesy dellʼartista.


INTERVIEWS

RAG DOLLS: RITRATTI LIQUIDI Silvia Argiolas

- Valentina Tebala

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ilvia Argiolas, nata a Cagliari nel 1977 ma milanese d’adozione, è una pittrice molto singolare; di poche parole però schiette e decise, senza filtri, come le ragazze delle sue tele. Se un tempo le donne di Degas o di Picasso bevevano assenzio nei café parigini, nei ritratti della Argiolas le “millennials” di oggi bevono birra in lattina da 66cl o whisky da quattro soldi nei peggiori bar delle periferie di Milano. Squallidi sobborghi metropolitani fanno da cortine sceniche ai tableaux vivants dipinti dall’artista, luoghi in cui si riversa e si consuma quell’umanità tutta al femminile un po’ annoiata ma perfettamente a proprio agio lì dove si trova. Ma questo è solo il primo step del quadro, ovvero quello che riconosciamo ad una prima veloce occhiata: immergendoci nei suoi vari dettagli, ci ritroveremo in un mondo ricco di rimandi simbolici, empatico, tanto che potremmo ritenere il linguaggio pittorico della Argiolas perfino romantico (un romanticismo bohémien, s’intende). Eros e Thanatos, apparenza e sopravvivenza, il bene e il male, sembrano presenti come caratteri normalizzati e normalizzanti dell’esistenza, trattati semplicemente - ma non superficialmente - senza (pre)giudizio.

Valentina Tebala/ Silvia, raccontami prima di tutto della tua formazione, dei tuoi esordi come artista e dunque come pittrice.

progetto con la mostra “Apocalittica” curata da Ivan Quaroni presso la Labs Gallery di Bologna. Vorrei un tuo commento rispetto a questo condiviso immaginario figurativo.

Silvia Argiolas/ Ho fatto il Liceo artistico di Cagliari dove ho avuto la fortuna di avere un grande maestro che mi ha insegnato ad andare oltre l’isola, poi tanta gavetta, tanti errori che considero costruttivi per la mia carriera attuale.

SA/ “Italian Newbrow” è stato un periodo molto importante del mio percorso artistico, un progetto che ha riunito tante diversità insieme creando qualcosa di concreto. Rincontrarci quest’anno a Bologna è stato un ritorno al passato.

VT/ Al di là dell’autoritratto vero e proprio, recita un famoso aforisma cinquecentesco che “ogni pittore dipinge sé”. Cosa ne pensi? Quanto c’è di autobiografico nel tuo lavoro?

VT/ Pop ma per certi versi un poʼ naïf, e per altri accenti surrealista (ammetto mi siano venute in mente in qualche caso le bambole di Bellmer), il tuo lavoro possiede però un afflato interiore puramente espressionistico. È come se le tue donne urlassero pacatamente e con un enigmatico sorriso la loro imperfetta, precaria, ma libera natura. In tutto ciò esiste da parte tua un’istanza critica nei confronti della società odierna e dei suoi disvalori legati al culto dell’apparenza o alle questioni di genere?

SA/ Tanto e niente. Mi piace osservare la società e guardare dentro di me attraverso la psicanalisi lacaniana che negli ultimi due anni è stata determinante per farmi allontanare dal narcisismo conscio e inconscio; amo la fisicità esasperata, credo che sia necessario andare oltre la superficialità anche quando si parla di superficie. VT/ Momento chiave della tua carriera è stata l’inclusione nel 2009 - durante Prague Biennale 4 - al gruppo “Italian Newbrow”, da una lettura critica di Giancarlo Politi ed Helena Kontova del tuo lavoro nei termini di uno stile newpop contemporaneo che rispecchia la nostra società liquida e globalizzata, e che si riscontra nella ricerca di diversi pittori italiani della tua generazione (tra cui Veneziano, Cuoghi, Sale) costituendo così una visione comune e riconoscibile. Fra l’altro, si è da poco conclusa un’ulteriore esperienza del

SA/ Giustissima osservazione. Mi interessa quanto l’apparenza conti per noi che siamo anche l’altro; il nostro è un mondo di merda, da quando siamo bambini ci indirizzano verso un comportamento superficiale e il problema più grande è che delle volte tutto ciò nasce in famiglia, dunque le insicurezze che ci portiamo da adulti sono frutto di “cattive” madri. Poi amo osservare la media borghesia che mi regala sempre spunti interessanti. Mi piacciono gli estremi, la donna completamente libera che paga per la sua libertà e le donne robot di plastica. 6


VT/ Occhi, tanti occhi, più occhi che volti, popolano spesso le tue tele. E poi i serpenti, i tatuaggi, le lingue… Cosa significano? SA/ Gli occhi rappresentano i vari “Io” presenti dentro di noi, il serpente è un mio alter ego, la lingua il linguaggio. Sempre in chiave lacaniana. VT/ Un accenno ai colori che utilizzi - il nero, il verde acido, i rossi - accesissimi e dalla carica davvero potente, e alla loro tipologia acrilico, smalto, olio, bombolette spray. SA/ Amo i colori acidi, quasi irreali, utilizzo un po’ di tutto, vastissima gamma di materiali e media: mi diverte studiare le diverse cromie e i pigmenti. VT/ Come si è evoluta la tua ricerca in questi anni, e cosa andrai a sviscerare ancora nella tua pittura, quindi in te stessa? SA/ La mia regola è: ricordati del passato ma non guardare mai al passato. La mia pittura andrà avanti con me, perché in questi anni di carriera ho compreso che per me è l’unica ragione di vita. Amore puro. Anche in piena depressione ho dipinto, la pittura mi ha salvata. Da sinistra in senso orario: EX BAMBINA PRODIGIO, 2017. Acrilico su tela, 45x54 cm. LA GIOIA DI VIVERE, 2017. Tecnica mista su tela, 150x120 cm. CANTANTE, 2017. Tecnica mista su carta, 116x135 cm. Per tutte courtesy Galleria Antonio Colombo.

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INTERVIEWS

LO SPETTACOLO DELLE MACERIE Stefano Serretta

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e possibilità e i cortocircuiti che le parole possono generare, la loro dimensione visiva e la pratica della scrittura sono una costante del mio lavoro.”

Gregorio Raspa/ La storia contemporanea e la geopolitica internazionale sono due tra i temi che, maggiormente, sembrano ispirare il tuo lavoro. Come e quando è nata lʼidea di dedicarti allʼanalisi di simili contenuti? Stefano Serretta/ La storia moderna e contemporanea è stata il centro dei miei studi. Negli anni questa e altre passioni (la narrativa, i graffiti,

- Gregorio Raspa

le discipline orientali e altro...) sono andate a fondersi in maniera per me molto naturale, diventando il centro della mia ricerca artistica. GR/ Il modo in cui, per mezzo delle tue opere, affronti i temi in questione offre lo spunto per una necessaria riflessione sulle dinamiche del “potere” e suoi strumenti di esercizio, di conservazione e di comunicazione. In questʼottica, tutto il lavoro da te svolto sui simboli jihādisti, e quello portato avanti sui fenomeni macroeconomici e monetari, sembra rispondere alle logiche di unʼunica, comune, indagine conoscitiva… SS/ Tutto il mio lavoro recente si sviluppa intorno al tentativo di indagare il caos (economico, politico e religioso) creato dalla ridefinizione dei rapporti di forza tra le potenze di oggi e quelle di ieri, e i danni collaterali che questo scontro ha provocato - e continua a provocare - sotto forma di grandi tragedie e grandi interrogativi. È lo Spettacolo delle Macerie, apertosi idealmente a inizio millennio con la distruzione delle Torri Gemelle... GR/ Seguendo l’ideale linea che 8

all’interno della tua ricerca congiunge le argomentazioni storiche a quelle economiche, si osservano una serie di opere in cui il denaro assume - non solo concettualmente, ma anche materialmente - un ruolo strategico. Mi riferisco a lavori come Friends o Trillions. Me ne parli? SS/ Friends è un ciclo di opere cominciato nel 2013, si tratta di mandala realizzati piegando e unendo a mano, una ad una, banconote di vari tagli e nazionalità. Sono composizioni geometriche effimere in cui il valore dʼuso è subordinato al valore estetico. In Trillions mi sono concentrato su un simbolo, le “balance stones” raffigurate sul Dollaro dello Zimbabwe - tipiche formazioni rocciose in bilico lʼuna sullʼaltra - come punto di partenza per riflettere sul fenomeno dellʼiperinflazione e sulle fluttuazioni inaspettate nel mercato monetario. Il Dollaro dello Zimbabwe è stato infatti ritirato dalla circolazione recentemente dopo essere diventato la valuta corrente più inflazionata al mondo. Si è arrivati a stampare banconote da 100 Trillioni di Dollari, dal valore pressoché nullo.


GR/ Ho trovato molto interessante l’idea di lavorare con le banconote. La moneta infatti - specie quella cartacea - con il suo apparato iconografico definisce e cristallizza precise identità storiche e sociali. Un po’ come i francobolli e le bandiere, elementi non a caso - già impiegati nella pratica costruttiva del tuo linguaggio. Più nello specifico, quali sono i presupposti concettuali e teorici legati al loro utilizzo? SS/ Banconote, francobolli e bandiere sono apparati simbolici del potere già ampiamente utilizzati da moltissimi artisti, i quali li hanno di volta in volta decostruiti e/o risignificati. Per quanto mi riguarda, a parte un sincero feticismo per il denaro, li ho sempre indagati da un punto di vista delle immagini che rappresentano, andando ad alterare i loro elementi costitutivi - come nella serie Black Standard (Echoes), dove bandiera nera e black screen impattano l’uno nell’altro - o, ancora, mettendo in relazione l’immagine e la sua cancellazione penso agli interventi su francobollo dell’opera Bam o nel trittico Threesome. GR/ Uno dei tuoi lavori più noti è senz’altro Aeternitas, un intervento site-specific realizzato nel 2014 nell’ex fabbrica Fibronit di Bari. Utilizzando il modus operandi sperimentato in quella occasione, ti sei reso protagonista di

altri interventi nello spazio pubblico elaborando la memoria e l’identità di luoghi dotati di una precisa caratura simbolica. Mi racconti come nascono simili opere? SS/ Dall’osservazione dei territori in cui mi trovo ad operare cerco sempre un dettaglio che funga da crocevia per intersecare vero e verosimile. A Bari lo scheletro della ex Fibronit rappresenta una ferita aperta nel quartiere di Japigia ma anche una rovina industriale di una contraddittoria bellezza. Da una riflessione sul concetto di durata, nelle sue duplici connotazioni, è nata lʼidea di un lavoro che si è sviluppato in due tempi: prima nello spazio della fabbrica e poi in quello della galleria. GR/ Non solo in Aeternitas, ma in molti altri lavori, esibisci un attento ed elaborato utilizzo del linguaggio. Dal titolo ai contenuti, le tue opere sembrano sfruttare la ricchezza della semantica ed esaltare il valore estetico della parola. Sulla scrittura poggia una porzione importante della tua poetica… SS/ Il linguaggio è il “pollice opponibile” del pensiero. Le possibilità e i cortocircuiti che le parole possono generare, la loro dimensione visiva e la pratica della scrittura sono una costante del mio lavoro. La poesia, la narrativa, il rap sono per me stimoli fortissimi e costanti di ispirazione, così come la

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loro trasposizione in immagini, graffiti, slogan e loghi. GR/ C’è una domanda che forse avrei dovuto porti all’inizio della nostra conversazione ma che, volutamente, ho riservato per il finale: in che misura il tuo gesto artistico è anche gesto politico? SS/ Solo nella misura in cui si può definire come gesto politico un pensiero libero. Da sinistra: BLACK STANDARD (ECHOES), 2016. Acrilico su cotone, 100x150 cm. FRIENDS, 2013-17. Banconote in corso di varie nazionalità, dimensioni varie. Per tutte courtesy dellʼartista.


SPECIAL

IL FUMETTO DELLʼARTE Loredana Barillaro

ROBERTO GAGNOR GIUSEPPE CALZOLARI ROBERTO MANFRIN FRANCESCO GRAZIADIO

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bbiamo iniziato ad apprezzare “l’arte a fumetti” a partire da Lichtenstein, l’artista che ci ha fatto scoprire come possa essere affascinante un’opera d’arte a mo’ di fumetto. Oggi capita sovente di imbattersi in interessanti edizioni sull’arte contemporanea e non solo, storie i cui protagonisti assumono le fattezze del fumetto per un target di pubblico di tutte le età. E dunque perché tentare la strada “pop” del fumetto per raccontare la storia dell’arte? Essa può forse rinnovare se stessa e il proprio racconto attraverso questo particolare “strumento” fino a divenire “arte nell’arte”, una sorta di inedita e ulteriore opera d’arte...?

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a storia dell’Arte a fumetti? Perché no! Il linguaggio del fumetto si presta a narrare unʼinfinità di storie e di generi diversi, non solo d’avventura. Diversi artisti hanno utilizzato icone del fumetto, l’impaginazione del fumetto da Warhol, Jones, Lichtenstein che ha fatto man bassa delle tavole di fumetto di Tony Abruzzo. Con la Pop Art si è aperto un mondo immaginifico che paragonerei al movimento impressionistico francese, che ha rivoluzionato tutti i canoni della pittura fino ad allora conosciuti. Nuovi autori si sono presentati con le proprie caratteristiche fumettiste, pensiamo solo ai giapponesi che prendendo spunti dal Manga hanno portato la loro pittura all’età della fanciullezza, come Takashi Murakami, Yayoi Kusama, Yosuke Ueno e tanti altri. Con la Neopop ogni giorno si scoprono talenti come Willow, Valerio Pastore, che partono dal fumetto e poi lo stravolgono iconizzando nuove forme ed espressività. Gipi, il disegnatore del fumetto, oggi ai vertici in questo campo, realizza degli acquerelli che sembrano tele tempestose di Turner, Angelo Stano che nel suo Dylan Dog, testata della Sergio Bonelli Editore, cambia completamente un segno classico, e si avvicina a quello spigoloso di Egon Schiele, per dare maggiore forza al suo tenebroso personaggio. Oppure Bill Sienkiewicz che con la sua Elektra guarda all’espressionismo tedesco. Direi che oggi si! Si può fare un parallelo tra storia dell’arte e il fumetto, scopriremmo situazioni molto interessanti. Giuseppe Calzolari

Giuseppe Calzolari è Direttore della Scuola del Fumetto di Milano.

Francesco Graziadio è Docente della Scuola del Museo del Fumetto di Cosenza.

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na Storia dell’Arte a fumetti che diventi essa stessa opera d’arte come, in letteratura, è accaduto a Sapegno e Asor Rosa, il cui lavoro - dopo Freud e Chomsky viene apprezzato più per il valore letterario che non per il contributo critico. Una suggestione forte, una sfida che impegnerebbe il fumetto proprio in quelle che sono le sue componenti principali. Perché il fumetto è arte sequenziale e si presta quindi, per sua stessa natura, a diventare Storia nella sua accezione di esposizione diacronica di fatti e avvenimenti, oltre che in quella di elaborazione fantastica. Ma il fumetto ha anche un’anima divulgativa, popolare, unʼinclinazione al raccontare raffinata dal rapporto esclusivo che per decenni ha intrattenuto con i consumatori più piccini. Sono le caratteristiche delle arti moderne, quelle nate nell’epoca della riproducibilità tecnica. Tanto che anche il cinema si è 10

confrontato con questa possibilità, limitando il campo a qualcosa in grado di alimentare la sua seconda natura, quella prettamente industriale. La biografia di Van Gogh è un esempio di quello che il cinema è in grado di realizzare, opere di gusto ma da vendere, perché i costi cinematografici sono altissimi e quella è un’arte che si nutre di denaro. La domanda però mi spinge a immaginare il profilo di un autore capace di passare dal piano divulgativo-commerciale a quello più squisitamente artistico. Servono coraggio e capacità visionaria, e oggi non vedo un Philippe Druillet, un Andrea Pazienza, un Alberto Breccia, un talento capace di spaccare la tavola e ridisegnare il linguaggio come in passato ha potuto fare, anche, un Moebius. Quindi è fattibile, anzi, fattibilissimo! Ma non credo sia un caso se non ci si è ancora cimentato nessuno. Francesco Graziadio


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l fumetto è arte: basti pensare a Frank Miller, a Taniguchi, a Goscinny e Uderzo! Non solo, ormai il fumetto contamina tutte le forme d’arte, cinema in primis, come miniera di idee, suggestioni, concept. Mentre noi autori usiamo da sempre l’arte per dare al fumetto più livelli di lettura, una didattica, ancora più profondità estetica, anche nel fumetto di genere. Nel mio piccolo ho scritto - e sto scrivendo - varie storie di un ciclo a tema per Topolino: una vera e propria Storia dell’Arte, in cui topi e paperi diventano Turner, Hokusai o Piero della Francesca. Un modo per raccontare al nostro pubblico (bambini dagli 8… ai 99 anni!) l’arte e gli artisti che amo, così che anche chi non li conosce possa iniziare un percorso, o semplicemente divertirsi con una bella storia. Ogni storia, inoltre, è accompagnata da un redazionale di approfondimento sull’artista in questione, con note e spiegazioni sulle sue opere. Il tutto grazie a disegnatori come Giorgio Cavazzano, Stefano Zanchi, Paolo De Lorenzi, Vitale Mangiatordi e Stefano Intini, e a una redazione attenta e coraggiosa, dal direttore Valentina De Poli ai caporedattori Davide Catenacci e Gabriella Valera, senza di loro queste storie non esisterebbero. Ho iniziato nel 2010 con una storia sull’incontro tra Dalì e Walt Disney, la serie continuerà con otto nuove storie nel 2018, ed è uno dei lavori di cui sono più fiero. Roberto Gagnor

Roberto Gagnor è Sceneggiatore Disney.

A sinistra: da ZIO PAPERONE E LʼAVVENTURA DELLʼARTE FUTURA. Testo di Roberto Gagnor, disegni di Paolo De Lorenzi. In Topolino n. 2925, 2011. Tutti i diritti © Disney.

Qui accanto: Roberto Manfrin e Malevič DONNE NEI CAMPI. Pittura a olio su carta e compensato, 46x68cm. Courtesy Roberto Manfrin.

Roberto Manfrin è Insegnante di Arte e Immagine presso le scuole secondarie.

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on sono né un illustratore, né un fumettista - comunque potrei essere entrambi - ma un creativo con le antenne puntate sui media. Mi focalizzo su questo contesto di scambi e contaminazioni reciproche tramite un fumetto pittorico permeato d’arte; citando Roy Lichtenstein, credo di fare l’operazione inversa: non ingigantisco la pagina del fumetto con le tecniche della stampa tipografica, ma la riduco e comprimo in un’icona pittorica veicolata nel web. Naturalmente il messaggio di Lichtenstein transitava negli anni Sessanta, all’inizio dell’era consumistica. La mia compressione pittorica concettual-fumettistica è proiettata nella contemporaneità, in piena era visiva digitale, dove tutto si dissolve nell’ipervisibilità

del web. Una specie di linea moltiplicata al quadrato che continua nella sua spirale pittorica. Nelle mie narrazioni pittoriche, così come nel mondo dei link, non mancano le citazioni delle grandi opere dei più grandi artisti, ma esse si mescolano con i rimandi alla contemporaneità, rompendo così la linearità temporale tra passato e presente dando vita ad una nuova visione, divenendo appunto un’inedita e ulteriore forma d’arte, capace di offrire stimoli e significati completamente nuovi. Concludendo, queste mie opere rappresentano un modo per riappropriarsi dell’antica aura perduta tramite l’icona del fumetto, con un tocco di ironia. Roberto Manfrin 11


UNO SGUARDO FRA LʼITALIA E NEW YORK Giorgio van Straten

PEOPLE ART

e Olimpia Zagnoli, l’altra centrata sugli autori di copertine di libri), fotografi (in mostre collettive dedicate ai migranti e a Roma) e designer. Ho invece deciso, per motivi che saranno facilmente comprensibili, di evitare personali, non credo sia compito di un istituto scegliere nel gran numero di artisti che operano sulla scena italiana e internazionale. Io almeno non ne ho la competenza e non voglio soccombere alle mille pressioni per ospitare l’uno o l’altro, o eleggere i miei gusti personali a parametri critici. L’altro importante momento dedicato all’arte contemporanea è il “Premio New York”, attraverso il quale due artisti italiani under 40 vengono ospitati per sei mesi ricevendo un contributo per le loro spese e due studi negli spazi dello ISCP (International Studio and Curatorial Program) di Brooklyn. Nel fare questo lavoro di promozione dell’Italia contemporanea ho trovato dei preziosi alleati sia americani (vedi appunto il caso dell’American Academy) sia italiani. In particolare è stata una grande oppurtunità l’apertura, pochi anni fa, di CIMA (Center for italian modern art), una struttura collocata a Soho, frutto della volontà e dell’impegno di Laura Mattioli e dedicata ad attività espositive e a fellowships incentrate sull’arte italiana del Novecento ma con incursioni anche nel contemporaneo. Le loro mostre, ultima quella dedicata ad Alberto Savinio, hanno consentito uno sguardo nuovo e più attento su figure centrali della nostra arte recente. Né posso dimenticare la mostra che quasi mi ha accolto all’arrivo qui, quella indimenticabile dedicata a Burri e ospitata dal Guggenheim Museum.

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l mio lavoro consiste nel promuovere la cultura italiana a New York e i newyorkesi adorano la nostra cultura, seguono con entusiasmo le nostre iniziative e sono molto disponibili a collaborare con noi. Dunque tutto facile? No, perché la loro idea di cosa sia la cultura italiana è molto legata alla tradizione, alla grande arte del passato e ai nostri stili di vita, molto meno alla contemporaneità. Per questo gran parte del mio lavoro consiste nel cercare di promuovere la cultura e la produzione artistica di oggi, facendo capire che se in una città come New York ci sono così tanti italiani impegnati nei diversi campi del sapere e della produzione culturale, spesso chiamati qui proprio dagli americani, è perché anche gli italiani viventi, non solo quelli morti da secoli o da decenni, sono in grado di esprimere contenuti e di creare opere di assoluto valore a livello internazionale. Da quando sono arrivato a New York, nel luglio del 2015, abbiamo ospitato nei locali dell’istituto alcune mostre importanti dedicate ad artisti italiani contemporanei: IT OCCURS TO ME THAT I AM AMERICA dall’8 maggio al 9 luglio 2016 dedicata a otto giovani artisti italiani che lavorano a Manhattan e dintorni, e NOW HERE IS NOWHERE, che ha chiuso da poco, organizzata insieme all’America Academy in Rome, e che vedeva la presenza di tre artisti italiani e tre artisti americani. Ma ci siamo occupati anche di illustratori (altre due mostre: una di Emiliano Ponsi 12


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a il caso che mi sembra più strardinario è quello dell’apertura di Magazzino Italian Art, un grandissimo spazio, un museo in effetti, aperto a Cold Spring, un’ora di treno a nord di New York, da due collezionisti di arte italiana, e in particolare di arte povera, Nancy Olnick e Giorgio Spanu. Già il fatto che si tratti di una newyorkese e di un italiano è significativo e simbolico. Ma solo visitando il loro spazio, che rivaleggia con quel monumento all’arte minimalista che è DIA Beacon (fra l’altro collocato a una sola fermata di treno di distanza), ci si può rendere conto di che significato abbia un progetto come il loro, possibile solo in una realtà tanto ricca di risorse economiche che di spirito da mecenati quale è New York. Con Magazzino abbiamo iniziato un proficuo rapporto di collaborazione pubblico/privato, una sinergia importante che ha portato all’istituto una mostra di documentazione fotografica sulla costruzione del museo (le foto erano di Marco Anelli), ma anche la concessione di prestiti importanti da parte loro, per esempio quelli di Dubuffet e Carla Accardi in una mostra sull’arte in Europa alla metà degli anni Cinquanta che abbiamo organizzato lo scorso maggio. Le risorse su cui possono contare gli istituti di cultura sono abbastanza limitate, solo un lavoro di costruzione di una rete di relazioni può ovviare a questa limitatezza, solo la collaborazione con tutte le realtà che sono sinergiche nel nostro lavoro di promozione apre spazi reali alla diffusione della nostra cultura. In questi due anni e mezzo di presenza a New York abbiamo collaborato con oltre sessanta istituzioni pubbliche e private, prevalentemente americane. E abbiamo comunque cercato di promuovere anche una serie di presenze italiane in musei e gallerie. Posso dire con orgoglio che pure in una realtà così ricca di proposte e di offerte culturali, in quella che, detto senza provincialismo, rimane ancora la capitale del mondo, siamo riusciti, grazie a questa rete, a guadagnare una maggiore attenzione e interesse verso la nostra arte contemporanea.

Giorgio van Straten è Direttore dellʼIstituto Italiano di Cultura a New York.

Da sinistra in senso orario: Giorgio van Straten nel suo studio. Con Vittorio Calabrese, direttore di Magazzino e Giorgio Spanu. Con Marina Abramovic e Marco Anelli. Per tutte courtesy Giorgio van Straten.

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SHOWCASE

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ERMANNO CAVALIERE

l collage lo considero come uno strumento di indagine e riuso del quotidiano, passato e presente. Mi incuriosisce soffermarmi sulla banalità, intesa come contenitore di materiali di consumo che nella vita di tutti i giorni hanno una breve vita, quali riviste, manifesti pubblicitari, fotografie, quotidiani, carte e confezioni di ogni tipo. Gli occhi possono trasformare la realtà e guardare oltre le superfici. Un frammento

| a cura di Pasquale De Sensi

di carta decontestualizzato può assumere una nuova vita, in un nuovo scenario espressivo e comunicativo, dove il singolo genera il tutto e il tutto è espressione di una nuova conversazione tra gli elementi. Una ricerca dell’invisibile e della bellezza insita in ogni cosa. L’altro aspetto presente nei miei lavori sono i segni del tempo. Il tempo trasforma le cose e disegna trame o interruzioni che nella loro casualità hanno un grande fascino e introduce un nuovo ordine di bellezza, un valore aggiunto. 14


Da sinistra: IL CLASSICO, 2017. Collage on canvas, 24x30 cm. BEAUTIFUL MONSTERS, 2017. Collage on billboard, 40x50 cm. Collagistas Festival exhibition, Milano. Per entrambe courtesy dellĘźartista.

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SMALL TALK

COLORE, LINEA, SUPERFICIE Paolo Iacchetti

- Davide Silvioli

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a trasformazione dei materiali mediante la tecnica applicata, consente di avvicinarsi il più possibile alla forma che trattiene il senso dellʼumano cui lʼindividuo-artista tende. Per sé e inevitabilmente per altri.”

Davide Silvioli/ Il colore e la materia pittorica, nella sua ricerca, si qualificano più come mezzo, come oggetto, o rappresentano entrambi? Paolo Iacchetti/ La tecnica risulta elemento definente il senso dellʼopera. Ricordo che arte si definisce in base alla creazione di oggetti senza una funzione dʼuso, e allʼinterno di ciò si definisce arte tutto ciò che gli uomini chiamano arte. La trasformazione dei materiali mediante la tecnica applicata, consente di avvicinarsi il più possibile alla forma che trattiene il senso dellʼumano cui lʼindividuo-artista tende. Per sé e inevitabilmente per altri. Quindi materia pittorica e mezzo coincidono in funzione della definizione della forma, una forma nuova che rifletta la novità del presente. Se vi è funzione dʼuso nella creazione di un alcunché, troviamo lʼarte del gelato, lʼarte di vestire ecc. In altre parole lʼarte non ammette applicazioni transitive. DS/ Percepisce affinità con la Pittura Analitica degli anni Settanta? PI/ Il mio inizio non ha previsto la Pittura Analitica. Ho osservato primariamente lʼAction Painting e Fontana. Mi sono formato con Duchamp ed il Concettuale classico. Volendo dipingere, inevitabilmente mi sono trovato ad avere come confronto l’esperienza della

Pittura Analitica. Sono stato riconosciuto dagli artisti della corrente. Ma ho anche riconosciuto le loro opere che mi hanno aiutato nella definizione del mio lavoro. Quindi la Pittura Analitica è un’eredità che, comoda o scomoda, mi sono assunto. Ho assunto il dovere o imperativo di volgermi verso gli elementi primi del fare arte e immagine, linea e colore, come mi è capitato di dire molte volte. Non ho seguito strategie… DS/ Quale crede sia il potenziale comunicativo della pittura aniconica oggi? PI/ Per rispondere a questa domanda inserisco unʼosservazione che per me è stata decisiva nell’orientamento. Consideriamo la genesi del Minimalismo che, similmente, ma in contrapposizione alla Pop Art, introduce lʼoggetto come grammatica dell’opera. Diversamente dalla Pop Art, il Minimalismo non considera la sua parte metaforica, ma cerca di trasformare o sublimare lʼoggetto in altro, esattamente come la pittura classica fa. Abbiamo le opere di Donald Judd, di Dan Flavin, ecc. Il Minimalismo così ripreso nella sua genesi, tende a trasformare l’oggetto in unʼopera lirica, a inseguire quello che è specifico della pittura. Encomiabile iniziativa, dato che la pittura facilmente contiene in sé le suggestioni che il Minimalismo, che parte dall’oggetto, insegue. Se partiamo 16

dagli strumenti propri del dipingere, fra cui il colore e il segno come elementi principe, dobbiamo seguire le regole della pittura. Che sono complesse perché usate nel corso di secoli; e qualsiasi semplificazione o radicalizzazione corre rischio della banalità, come nella Bad Painting, nel Minimalismo ecc., più simili a categorie di marketing che a istanze artistiche. Mi tengo lontano dal Minimalismo che, in pittura, predilige lʼoggettivazione “oggettistica”, la tensione verso il design, lʼarredamento, luoghi questi più commercializzabili. Semmai sono in contatto con Radical Painting, radicalizzazione della pittura, come hanno fatto Gunter Umberg, Marcia Hafif ed altri artisti. Ed ora veniamo al potenziale comunicativo: ciò che è meno “comunicato” ai fini della commercializzazione ha, di primo acchito, minore impatto. Testi - o opere - più complessi richiedono certamente più preparazione nei fruitori, ma possono essere compagni per una vita come un buon libro, o un golf di cachemire di ottima qualità. Bisogna saper scegliere ora più che mai. FREQUENZE, 2017. Olio su tela, 52x50 cm. Collezione Privata. Courtesy dellʼartista.


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ARTE CONVIVIALE Maria Livia Brunelli

- Maria Chiara Wang

Maria Chiara Wang/ Maria Livia, puoi descriverci il tuo ruolo di talent scout e di promotrice di tendenze, tra contaminazione di energie e progetti partecipati?

ed io mettiamo in questo lavoro, e allo stesso tempo il grande impegno che serve per migliorarsi e crescere. Occorre procedere per piccoli passi, ma anche provare a lanciarsi in nuove sfide. Credo di essere percepita per queste caratteristiche: passione, entusiasmo e impegno, che sono poi quelle in cui mi riconosco.

Maria Livia Brunelli/ Sono sempre stata interessata alla ricerca e alla promozione dei giovani artisti, e allo stesso tempo alla comunicazione dei contenuti dell’arte anche ad un pubblico di non addetti ai lavori, per questo è nata l’idea della home gallery, con unʼattenzione costante alla qualità curatoriale dei progetti presentati e alla collaborazione con istituzioni e musei. Le mostre presentate alla MLB nascono come progetti sitespecific commissionati agli artisti in collegamento a precise tematiche, come le mostre del vicino Palazzo dei Diamanti, i cui temi vengono attualizzati e interpretati dalla personale poetica di ogni artista. Penso che le situazioni migliori nascano quando le energie si contaminano.

MCW/ Potresti regalarci qualche anticipazione sui progetti futuri di MLB home gallery? MLB/ Dopo la mostra di Anna Di Prospero, alla MLB ospiteremo a gennaio un progetto di Mustafa Sabbagh e Stefano Pasquini; poi saremo impegnati ad ArteFiera a Bologna, e per la primavera stiamo lavorando con Anna Di Prospero alla realizzazione di una sua mostra negli splendidi spazi di Palazzo Ducale a Mantova.

MCW/ Quale valore attribuisci alla casa, al focolare, al convivio? MLB/ La casa e la convivialità sono due elementi chiave legati al concetto di home gallery. Ad esempio, questa estate, in occasione del decennale di attività della MLB, abbiamo aperto la nuova sede estiva, una home gallery a Porto Cervo, proponendo quattro progetti espositivi, e a ogni inaugurazione gli artisti coinvolti hanno cucinato per un selezionato numero di collezionisti invitati e hanno illustrato le loro opere. Una condivisione di esperienze che ha riscosso molto successo. MCW/ Come nasce la passione per gli accessori? Mi riferisco agli occhiali, ai cappelli, alle “collane importanti” indossate su “campo nero”. MLB/ Mi piace indossare abiti scuri, ma ravvivarli con accessori colorati, come collane, occhiali particolari o cappelli, che sono la mia passione. Li colleziono cercandoli negli atelier di giovani stilisti e designer italiani e stranieri, e anche in negozi vintage. MCW/ Come ti specchi negli occhi degli altri? Ovvero come pensi che gli altri ti percepiscano e/o come vorresti essere percepita dagli altri “attori” del mondo dell’arte? MLB/ Penso che le persone avvertano la passione che Fabrizio

Maria Livia Brunelli dirige la MLB home gallery di Ferrara.

Dallʼalto: un ritratto di Maria Livia Brunelli. MLB secondo salone con le opere di Silvia Camporesi. Foto © Marco Caselli Nirmal. Per entrambe courtesy Maria Livia Brunelli.

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SESSANTOTTO ARTISTI PER IL DRUGO Francesco Ciaponi

- Loredana Barillaro

“E

siste sempre un approccio ai problemi e alle difficoltà, meno nevrotico e caustico di quello che oggi sembra la normalità e che invece inquina i rapporti e annulla quel leggero e scanzonato ottimismo...” Loredana Barillaro/ Francesco, perché The big Lebowski? Francesco Ciaponi/ Perché ha la magia che ti prende e ti porta via. Perché il Drugo è rimasto e rimane, malgrado gli anni passino, un riferimento. Una presenza che è bene ci sia, anche solo per dimostrare che esiste sempre, e sottolineo sempre, un approccio ai problemi e alle difficoltà, meno nevrotico e caustico di quello che oggi sembra la normalità e che invece inquina i rapporti e annulla quel leggero e scanzonato ottimismo che penso sia invece necessario per vivere bene e non sopravvivere. LB/ The Big Lebowski Art Collection si può definire un progetto corale a cui hanno preso parte ben sessantotto fra artisti e illustratori. E tu, che ruolo hai avuto, ne sei stato regista, ideatore e cos’altro? FC/ Io non sono un illustratore, sono un editorial designer e quindi il mio ruolo è stato quello di ideazione, progettazione e realizzazione del volume. Chiaramente dietro a questi termini è nascosto un mondo che mi ha preso per alcuni mesi portandomi ad entrare in contatto con i sessantotto artisti, mail dopo mail. Con la tipografia, la rilegatoria e molto, molto altro ancora. Diciamo che il paragone con il regista ci può stare, ma mi piace ripetere in tutte le presentazioni del libro che faccio, l’importanza della vasta e spontanea partecipazione. Dopotutto il libro è riuscito come volevo e speravo per merito di questo, e la sfida più importante con cui mi volevo misurare è stata superata proprio grazie alla collaborazione di tanti, tanti artisti

da tutto il mondo. Io ho messo insieme, allineato, aggiustato e infine scartato gli scatoloni con un gran sorriso stampato in faccia. LB/ Vi sono secondo te - ma forse non puoi dirmelo - delle illustrazioni che meglio di altre riescono ad interpretare il senso del libro? FC/ Io credo che sia tutto soggettivo, che ognuno trovi all’interno delle pagine del libro le sue preferite, quelle che ritiene migliori e che rappresentino al meglio il Drugo. Per quanto mi riguarda, come per quasi tutto, cambio idea e gusti mille volte al giorno e quindi anche le opere che mi piacciono. Ne dico due che mi hanno colpito: il gigposter serigrafico del fantomatico concerto degli Autobahn di Lil Tuffy, geniale e assolutamente perfetto e il lavoro di Dave Columbus di Greensburg, Pennsylvania, una timeline infografica dove, in un attimo sei in grado di conoscere tutto del film: dati, personaggi, andamento, durata e fasi salienti. Anche in questo caso privilegio l’idea alla tecnica ma, come detto, fra un’ora risponderei senz’altro in modo totalmente diverso.

Francesco Ciaponi è Editorial Designer e Titolare di Edizioni del Frisco.

La copertina de THE BIG LEBOWSKI ART COLLECTION ne “Il kit del Drugo di Francesco Ciaponi”. Courtesy Francesco Ciaponi.

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