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Magazine di arte contemporanea / Anno IV N. 13 / Trimestrale free press

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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut: 170/ CBPA-SUD/CS

GENNAIO FEBBRAIO MARZO 2015

ISSN 2283-9771

ANNA CARUSO

Leeza Hooper - Luca Pozzi - Giulia Rositani - Anna Caruso Agnes Kohlmeyer - Andrea Gallo - Debora Garritani Shit and die - Lo stato dell’arte (in galleria)


INTERVIEWS

DIMENSIONI PARALLELE Luca Pozzi

Gregorio Raspa/ Luca, il tuo lavoro coniuga temi molto complessi - spesso mutuati dal mondo della fisica o dell’informatica - ad un linguaggio artistico di estrema attualità. Come nasce l’idea di ricorrere alla contaminazione di mondi non proprio adiacenti? Luca Pozzi/ L’idea nasce da un limite immaginativo alla base del quale c’è un problema ontologico. Il problema è il rapporto tra figura e sfondo, tra contesto di riferimento e oggetto, tra palcoscenico e attore. La difficoltà immaginativa sta nel figurarsi un caso paradossale dove l’attore è il palcoscenico e viceversa. La vicinanza o meno di un mondo rispetto ad un altro è una questione talmente relativa che il significato stesso di “non proprio adiacente” si disgrega all’istante, questo vale in generale nello spazio e nel tempo, figuriamoci nella grammatica settoriale generata dall’uomo per definire i campi del sapere. GR/ La gravità quantistica, i fenomeni indotti dal magnetismo, l’elettricità e il

- Gregorio Raspa

rapporto spazio/tempo. Questi sono alcuni dei “temi” più ricorrenti nel tuo lavoro. Più in generale, come scegli di volta in volta il fenomeno da analizzare e/o utilizzare come vero e proprio strumento della tua ricerca? LP/ Un’altra analogia possibile è quella del quadro, la tela è il palcoscenico e il colore è l’attore. Ognuno degli strumenti che hai elencato è un potenziale supporto su cui dipingere. Lo spazio-tempo è un supporto vastissimo, eccellente per chi ha manie di grandezza, ma c’è un problema: alle alte energie, quando i fenomeni gravitazionali diventano significativi, è come se la tela rivelasse un problemino tecnico, il colore non tiene nel tempo. La gravità quantistica è il tentativo di costruire una tela prima dello spazio-tempo, la curiosità di vedere come si comporterà in termini pittorici è davvero notevole. GR/ Quanto scarto esiste tra la specificità di questi temi e la loro declinazione artistica? 2

LP/ Lo stesso scarto che intercorre tra il dialogo a quattro voci mirmecofuga di Douglas Hofstadter e la xilografia Drago, 1952 di M.C. Escher. GR/ Seguo con interesse il tuo lavoro ormai da tempo. Negli anni ho notato che le tue pratiche d’indagine sui fenomeni scientifici sono via via divenute sempre più complesse e strutturate. I dati tecnici presenti nell’opera aumentano e i riferimenti utilizzati nei tuoi lavori assumono contorni sempre più specialistici. Un simile approccio richiede uno studio continuo e approfondito. Quali fonti/mezzi usi per ampliare e aggiornare le tue conoscenze scientifiche? LP/ C’è stato un momento qualche hanno fa che mi sono detto: “Se continui a leggere e basta, vivrai nella fantasia”, allora ho deciso di mettere da parte i libri e viaggiare per parlare e collaborare direttamente con gli autori. La comunità della Loop Quantum Gravity mi ha accolto e ho impararato a conoscere


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arte di Luca Pozzi non conosce limiti disciplinari, si nutre di stimoli eterogenei. Ascolto con attenzione le sue risposte ai miei quesiti. Non è facile seguire tutti i suoi pensieri, afferrarne immediatamente i riferimenti, coglierne il significato più autentico. In essi risuona, come lontano, l’eco della complessità dell’Universo. Trovo la cosa estremamente affascinante mentre penso ad una celebre frase di Einstein: “l’importante è non smettere di fare domande”... da vicino persone meravigliose tra cui Carlo Rovelli, Daniele Oriti, Abhay Ashtekar, Aurélien Barrau, Laurent Freidel, Lee Smolin e molti altri. Ho vissuto al Perimeter Institute in Ontario, all’Albert Einstein Institute di Berlino e alla Penn State University di State College. Ogni anno c’è un ritrovo internazionale per discutere nuove idee, quest’anno è stato alla Sapienza di Roma, l’anno prima a Madrid, e ancora prima Canada e Parigi. Parallelamente ci sono altre strade da seguire. Quest’anno in particolare ho partecipato all’Eternal Internet Brotherhood, una confraternita di artisti che lavorano sul limite classico della rete e del digitale nell’ottica di un’ibridazione interessante chiamata Ñewpressionism. GR/ Quella dei salti effettuati davanti alle Cene del Veronese è senz’altro una delle serie più rappresentative - e note - del tuo lavoro. Me ne parli? LP/ È un esperimento di aumento dimensionale della pittura.

GR/ Mi sembra di percepire nelle tue opere diversi riferimenti alla tradizione. Non solo il Veronese, ma anche Piero e altri maestri del passato, infatti, sembrano ispiratori del particolare approccio con la spazialità che caratterizza molte delle tue opere. Mi sbaglio? LP/ Non ti sbagli. GR/ Mi ha molto incuriosito, per le sue modalità di realizzazione, la tua performance Instagram Time Paradox 1956-2014 compiuta al Museo del 900 di Milano durante l’opening della mostra su Klein e Fontana... LP/ Ho utilizzato un Rapid Calcolo del 1956 (calcolatrice meccanica) come uno smartphone di ultima generazione, fingendo di fotografare le opere in mostra. Il paradosso nasce dal fatto che una tecnologia coeva alle opere si ritrovi in stretta vicinanza alle opere stesse evidenziando un utilizzo ammissibile solo in un quadro di riferimento temporale differente. 3

Nel 1956 se qualcuno avesse proposto di fotografare con quell’aggeggio probabilmente sarebbe stato internato. Il 21 ottobre 2014 invece un uomo che usa un rapid calcolo come uno smartphone viene osservato dal pubblico con curiosità. La performance è stata pubblicata su Instagram. Ogni Post è venduto come una pittura appesa nei “muri” digitali del social network. Il primo post è entrato a far parte della electronicOrphanage Collection di Miltos Manetas l’11/11/2014 alle 11.11 p.m. GR/ E ora, quali progetti per il futuro? LP/ Scoprire i segreti di una Stella di Planck. Da sinistra: INSTAGRAM TIME PARADOX 19562014, Performance, Museo del 900 Milano. http:// instagram.com/p/ubPCQGuZA8/?modal=true. SUPERSYMMETRIC PARTNER / CONVITO IN CASA LEVI HAEREDES PAULI, Ink-jet prints on Di-bond, wood framed, 220x150 cm / 120x80 cm ed. 1/3 // Giulietta’s tomb, Verona. Per entrambe courtesy dell’artista.


INTERVIEWS

CURARE L’ARTE Agnes Kohlmeyer

- Valentina Tebala

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gnes Kohlmeyer è curatrice e critica di livello internazionale; il suo curriculum vanta la collaborazione con il grande Harald Szeemann alla curatela della 48. Biennale di Venezia del 1999. Ma di lei colpisce soprattutto la passione viscerale con la quale parla del suo lavoro, che è poi la sua vita, ovvero l’Arte con la “A maiuscola”, quella profonda e necessaria. Nel marasma gretto ed isterico dei professionisti «di tutto e niente» che oggi affollano il mondo artistico contemporaneo, la sua opinione è ristabilizzante e incoraggiante al cospetto degli artisti. E dei futuri veri militanti dell’Arte.

Valentina Tebala/ Tenendo in considerazione la tua docenza in un prestigioso ateneo come lo IUAV di Venezia, come reputi il funzionamento dell’odierno sistema universitario ed accademico italiano nella formazione professionale dei “mestieri dell’arte”? E qual è, a tuo parere, il suo ruolo nell’accompagnamento dei giovani artisti – così come delle varie figure che ruotano intorno a questo mondo (critici, curatori, ecc.) – nel contesto istituzionale dell’arte contemporanea?

“moda” del mestiere del cool curator? Parallelamente, mi interesserebbe avviare con te una riflessione sull’attuale e massiccio proliferare dei più disparati “corsi per curatori” e workshop mirati, avviati da un numero sempre maggiore di istituzioni o gallerie d’arte. AK/ Tutto quello che si potrebbe definire una “moda” secondo me ha poco a che fare con la serietà che ci vuole per ogni mestiere. È invece necessaria un’autentica convinzione, dedizione, addirittura una vocazione; e si capirà comunque ben presto che ogni mestiere, anche quello che inizialmente può sembrare più hip o magari easy, nella realtà non lo sarà affatto. Ma soprattutto, cosa significa cool curator? Quel modo di curare senza dietro una grande passione per l’arte e per gli artisti? Significa magari la voglia del curatore in questione di faticare poco delegando ad altri collaboratori buona parte del lavoro, prendendosi poi la visibilità del discorso inaugurale e gli applausi per una mostra presentatasi più o meno discretamente? Per come io intendo la mia professione, credo che il mestiere del curatore debba coinvolgere totalmente, e che non sia MAI una passeggiata; piuttosto, una grande fatica e una grande sfida che porterà – così almeno si spera sempre – alla soddisfazione di un lavoro valido, fatto assieme agli artisti e alla squadra dei collaboratori. I sempre più numerosi corsi per curatori di per sé non ritengo siano un problema. L’importante è che siano eseguiti in maniera seria, solida, ricca e varia, e soprattutto non illudano che bastino poche settimane per diventare un vero curatore: i giovani futuri curatori dovrebbero riconoscere che si ha tanta e dura strada da fare, molti studi ed esperienze da raccogliere. È necessario un buon senso critico e autocritico. Studiare, provare, usare tanta prudenza e sensibilità – questi sono gli strumenti più importanti; e anche buone dosi di modestia e gentilezza non guastano.

Agnes Kohlmeyer/ Credo di non essere in grado di giudicare la situazione in generale; bisognerebbe considerare i casi nello specifico. Ma so di certo che la nostra Facoltà di Design e Arti fondatasi nel 2001 all’interno dello IUAV veneziano, era un progetto del tutto particolare e unico in Italia: trovandosi a Venezia, in stretta relazione con la Biennale, la scuola esercitava fascino e attrazione su qualunque artista, anche il più grande, che passando da questa città sognava – e sogna ancora – di viverla almeno per un breve periodo, di conoscerla più da vicino. Allora era davvero possibile invitare a tenere un corso allo IUAV artisti visivi, scenografi, registi teatrali, fotografi, filosofi, scrittori, curatori e designer tra i più bravi e famosi del mondo: poi per parecchi di loro diventava un insegnamento duraturo, di una lunga serie di anni. Con questo accenno alla mia scuola, voglio dire che un’ottima formazione con dei bravi insegnanti senza dubbio riesce a formare buoni artisti e professionisti nel campo delle arti. Certamente, un bravo artista può anche non aver frequentato nessuna scuola, o una scuola puramente pratica, e farsi notare ed amare lo stesso… ma, personalmente, mi sembra di avvertire sempre più la differenza fra un artista con una certa educazione – anche intellettuale – e un artista privo conoscenze del genere. VT/ Come curatrice, invece, cosa pensi riguardo alla nuova 4


VT/ Dunque, qual è la tua personale idea o filosofia curatoriale? Chi dovrebbe essere il curatore per te.

vecchiaia o routine. È questa la cosa più importante che ho acquisito durante la nostra affascinante ed importante collaborazione durata più di un anno. Lui me lo dimostrava tutti i giorni e nel migliore dei modi: potevano esserci nell’aria i più grandi problemi, anche apparentemente irrisolvibili, tuttavia bastava davvero che sopraggiungesse un artista appena arrivato da lontano, desideroso di esplorare gli spazi veneziani, che Harald Szeemann immediatamente accantonava tutti i problemi, e gioioso invitava me e l’artista a dedicarci prima di tutto alla passeggiata esplorativa e creativa negli spazi, al sogno, alle idee e alla progettazione – cioè all’arte.

AK/ In parte credo di aver già risposto a questa domanda: più precisamente direi che quello del curatore è un mestiere estremamente complesso che sicuramente parte in primis dall’amore e dall’interesse per l’arte che si vuole «curare». Ci vuole una conoscenza approfondita, uno spirito aperto, curioso, magari pure giocoso e fantasioso. A mio parere un bravo curatore non deve conoscere soltanto l’arte, ma anche la letteratura, la filosofia, la storia o la musica; e deve sempre essere in grado di acquisire la storia di un luogo o di uno spazio, che sarà il contenitore o il contenuto della sua mostra. Prima ancora, però, viene – almeno per quanto riguarda le mostre di arte contemporanea – il rapporto con gli artisti. La parte del lavoro a stretto contatto con l’artista per me è sempre stata quella più importante, la più delicata e difficile, ma anche la più bella e gratificante. Ed è un lavoro che inizia molto prima di una mostra: è un rapporto che spesso dura per sempre, praticamente un dialogo continuo.

VT/ Giuro, ultimissima curiosità: cosa emoziona Agnes Kohlmeyer? AK/ La luce e i cieli, l’acqua e perfino le pozzanghere dopo la pioggia, gli innumerevoli riflessi sopra le superfici, l’arte e la bellezza delle chiese, dei conventi e dell’architettura di Venezia come di molti luoghi in Italia e nel mondo. Ma anche la gentilezza delle persone e degli animali, la natura, il silenzio, i miei viaggi, le mie passeggiate «della consapevolezza», il mio quotidiano wandering- wondering, certa letteratura, certa musica, il cinema, tutta l’arte buona e seria, profonda e necessaria, anche quella faticata e sofferta. Potrei davvero dire che mi emozioni la vita, in tutte le sue sfumature.

VT/ Per concludere, non vorremmo privare i lettori del piacere di conoscere qualche dettaglio sulla tua importante esperienza come collaboratrice di Harald Szeemann per la curatela della 48. Biennale di Venezia, nel 1999, dal titolo d’APERTutto. AK/ Sì, Szeemann è stato un mio grande “maestro”. Con lui ebbi la fortuna di poter curare d’APERTutto, la prima edizione della Biennale Arte che si estese – proprio per volontà del Direttore Szeemann – sull’enorme terreno dell’Arsenale, oltre i soliti Giardini. A lui devo la piena coscienza della gioia nel nostro mestiere, una passione senza limiti, senza la preoccupazione che questa potesse diminuire un giorno, magari a causa di stanchezza,

Da sinistra: Un ritratto di Agnes Kohlmeyer. Un’installazione di Kcho alla 48. Biennale di Venezia nel 1999. Foto Luca Campigotto.

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INTERVIEWS

POETICHE ATMOSFERE IMMAGINARIE Debora Garritani

- Martina Adamuccio

concludessi i miei studi. Dopo tre anni di riflessione, nel corso dei quali ho iniziato a interessarmi all’arte, nel 2008 ho deciso di trasferirmi a Milano per iscrivermi all’Accademia di Brera, e così ha avuto inizio il mio percorso. Da quel momento la mia vita è cambiata. L’incontro con la fotografia invece è avvenuto in modo inaspettato nel 2010 durante una permanenza di due mesi a Mumbai. Un’esperienza avventurosa e indimenticabile nel corso della quale ho avuto anche modo di conoscere alcuni dei più importanti esponenti dell’arte indiana e di visitare i loro studi.

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l centro della mia ricerca c’è l’esistenza umana con tutte le sue sfaccettature e contraddizioni, concepita come una sorta di viaggio simbolico e spirituale in cui si alternano costantemente alti e bassi, buio e luce, nascite e morti metaforiche.”

MA/ Negli ultimi anni la fotografia ha avuto la sua rivincita nel mercato dell’arte... Martina Adamuccio/ Raccontaci chi è Debora Garritani. Debora Garritani/ Debora Garritani nasce a Crotone nel 1983. Dopo essersi diplomata al Liceo Scientifico “Ilio Adorisio” di Strongoli (Kr), intraprende studi giuridici presso l’Università degli studi di Parma, che tuttavia abbandona per iscriversi all’Accademia di Belle arti di Brera dove consegue la laurea, con indirizzo pittura, nel 2012.

DG/ La fotografia ha ormai perso il ruolo marginale e di linguaggio secondario conquistando una posizione sempre più importante nel sistema dell’arte. Il mercato fotografico è in espansione e l’interesse nei confronti della fotografia è aumentato. Lo dimostrano le numerose fiere ad essa dedicate come ad esempio MIA, Photissima Art Fair, Paris Photo, ecc.

MA/ Come e quando hai deciso di fare l’artista?

DG/ Al centro della mia ricerca c’è l’esistenza umana con tutte le sue sfaccettature e contraddizioni, concepita come una sorta di viaggio simbolico e spirituale in cui si alternano costantemente alti e bassi, buio e luce, nascite e morti metaforiche. Dal punto di vista operativo, elemento importante che caratterizza il mio lavoro è che sono io stessa a dare volto alle figure femminili, misteriose e spettrali, che popolano le mie opere, attraverso l’uso dell’autoscatto.

MA/ Gli elementi su cui punti nel tuo lavoro?

DG/ Ho deciso di fare l’artista mentre studiavo Giurisprudenza. Il mio obiettivo fino a quel momento era una carriera in magistratura. In quel periodo, difficile ma fondamentale e decisivo della mia vita, ho capito che il percorso intrapreso non era quello che volevo. Non è stato semplice ammetterlo a me stessa e soprattutto ai miei, che dopo tanti sacrifici, ci tenevano che 6


MA/ Quali sono i fotografi che ti hanno ispirata e a cosa fai riferimento? DG/ Benché abbia scelto come medium la fotografia traggo costantemente ispirazione dalla pittura, in particolare quella di simbolisti come Franz von Stuck e Arnold Böcklin a cui mi accomunano il ricorrere nella mia opera di simboli tratti da vari repertori, specie quello della religione e, a livello stilistico l’uso di tonalità cupe che suggeriscono un senso di mistero, e per la rappresentazione di un mondo dominato dal sogno e dall’immaginario. Altro riferimento, l’universo iconografico dei preraffaelliti caratterizzato da un misto di romanticismo e inquietudine interiore e da una forte attenzione per la figura femminile e il cinema. Sono affascinata dal cinema allucinato, inquietante e criptico di David Lynch, dalle atmosfere oniriche, simboliche, misteriose e poetiche di Andrej Tarkovskij e dai film introspettivi e spirituali del coreano Kim Ki-duk. MA/ Come vivi l’essere un’artista a Milano, città in cui abiti e lavori. E il tuo paese di origine? DG/ Milano è una città che amo, mi ha dato tanto, e che considero a tutti gli effetti la mia città. Un luogo che offre molteplici opportunità e stimoli culturali. A Milano ho avuto inoltre la fortuna di incontrare altri artisti, diventati amici, “compagni di viaggio” e con i quali ho un continuo confronto. Appena posso torno però nel mio paese, a Strongoli, in provincia di Crotone, a cui sono profondamente legata e dove realizzo gran parte dei miei progetti in quanto, per me, fonte di ispirazione.

“della fine” che da sempre ossessiona l’uomo. Fonte di ispirazione il Libro dell’Apocalisse, libro complesso e affascinante al quale tuttavia non ho inteso dare una lettura in chiave distruttiva e catastrofica. Ho invece posto l’accento sull’apocalisse interiore che ogni uomo vive attraverso i piccoli e grandi drammi della propria esistenza e che è un processo continuo di dissoluzione e rinascita. Tuttavia la Fine non è intesa in una’accezione negativa, bensì come inizio di qualcosa. Principio e Fine sono correlati, l’uno non può esistere senza l’altro. È quindi una sorta di visione, un ondeggiare tra il sonno e la veglia. Apocalypsis in greco significa Rivelazione, e la Rivelazione nella Bibbia avviene spesso attraverso il sogno. Tra gli elementi simbolici che ricorrono in questa serie importante è l’acqua, elemento dalla duplice natura perché contiene in sé l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. Nella Bibbia c’è infatti l’acqua del Principio e quindi della Creazione, e l’acqua della Fine, che uccide e distrugge come quella del Diluvio Universale. Il titolo “Il giorno dopo” indica dunque che al tramonto segue sempre l’alba e che la fine di qualcosa genera un nuovo inizio come in natura, dove alla morte del seme segue la nascita della pianta. MA/ Progetti? DG/ Ne riparleremo!

Da sinistra: IL GIORNO DOPO #3, 2014. Stampa su carta cotone applicata su D-BOND, 75X50 cm. IL GIORNO DOPO #8, 2014. Stampa su carta cotone applicata su D-BOND, 60x100 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.

MA/ L’11 dicembre scorso hai inaugurato “Il giorno dopo” personale presso spazio Twenty14 Contemporary di Milano... DG/ “Il giorno dopo” nasce da una riflessione sul pensiero

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SPECIAL

LO STATO DELL’ARTE (IN GALLERIA) Loredana Barillaro

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una domanda che potrebbe avere diverse interpretazioni. Vorrei rispondere di si, ma tante volte non è così. Diciamo che per quanto mi riguarda, e non solo, l’arte è sempre stata affiancata dal mercato, ma da sempre è stata quella magia di creato che solo essa può dare. Il mercato è fondamentale e si contamina tante volte con l’arte, ma non sempre dà merito a chi dovrebbe. Il momento che stiamo attraversando è insidioso e tante volte deprimente, però tutto sommato gli obbiettivi che mi sono proposto per questo anno sono sufficientemente stati raggiunti. Il problema della nostra nazione è sempre lo stesso, finchè non avremo più agevolazioni fiscali e lo Stato dalla nostra parte non saremo mai concorrenziali e in linea con paesi che godono di benefici che noi non abbiamo. Ho sentito dire che per i prossimi due anni avremo un’aliquota incrementata di altri 3,5 punti percentuali, questo significa addio sogni, addio bel paese. Personalmente non faccio mai bilanci, so solo che lavoro tanto e mi privo di tante passioni, per dare e investire tutto nell’arte. Il mio punto di vista? Guardare avanti, crederci fino in fondo e non arrendersi mai. Ricercare giovani talenti e promuovere nuovi progetti, ma sopratutto rispolverare quella parte di artisti meritevoli della storia dell’arte, non ancora riscoperti dal mercato. Ho appena aperto un nuovo spazio, il 12 dicembre scorso, nel pieno centro di Caserta, a pochi passi dalla reggia vanvitelliana, con una mostra personale di Aldo Mondino, curata da Ivan Quaroni e in collaborazione con l’archivio Mondino. Penso di aver fatto una bella figura nei confronti del pubblico e degli amici che seguono le mie iniziative... quindi un in bocca al lupo a me. Nicola Pedana - Galleria Nicola Pedana, Caserta

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na galleria d’arte è il luogo in cui si avvertono gli umori derivanti da una fase storico economica che condiziona inevitabilmente le scelte e i progetti di collezionisti e operatori del settore. Ma a precarietà e incertezza l’arte risponde sempre più spesso con un fare solido forse più del mattone e pare che volgere lo sguardo ad artisti storicizzati sia un ottimo rimedio, certo il tutto condito da una buona dose di gioventù emergente. Ma è inevitabile, anche qui molto è subordinato all’azione della politica, e l’incertezza che vige in Italia già da qualche anno non facilita certo le cose, e l’arte, malgrado tutto, appare sempre di più un “bene rifugio”. Quello del gallerista è un lavoro che si muove su piani paralleli, in cui entusiasmo e passione si legano ad aspetti decisamente più pratici. Tempo di bilanci dunque, e allora un anno nero si è appena concluso o un altro anno buono sta per iniziare? Arte e mercato camminano sempre di pari passo? Ecco qualche punto di vista…

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nnanzitutto non credo sia così vero che arte e mercato vadano di pari passo. Si può fare arte senza mercato e mercato senza arte. I confini di queste definizioni sono piuttosto labili e, a volte, così relativi che non sempre si intersecano. Sono parecchi i casi di artisti riconosciuti e “premiati” dal mercato solo dopo la morte o di artisti “sgonfiati” dopo premi e lodi. In ogni caso il 2014 che si è appena concluso è stato un anno che ha restituito fiducia al sistema. Pur nel clima generale di approssimazione e paura che regna nell’Italia post Monti, credo di poter dire che, a poco a poco, si stia ritrovando il desiderio di collezionare. Certo, la bolla è esplosa, i collezionisti non comprano più con istinto umorale. Mi pare che si sia passati ad un collezionismo più responsabile e lo stesso vale anche per i galleristi che hanno selezionato proposte con più misura sulla qualità. Il contenuto più della forma. Una tendenza che credo premi di più gli artisti di vecchia generazione piuttosto che i giovani con più sperimentazione. Il futuro lo vedo sempre appeso alla continuità politica del paese. Se persiste un governo stabile ci sono più probabilità di una ripresa di fiducia e quindi di un desiderio al consumo, al divertimento, alla ricerca. È la classe media che risente di più dell’instabilità. Magari acquista un’opera ma poi non riesce a pagarla e subentrano altri meccanismi non più legati all’arte... L’obiettivo 2013/2014 era sopravvivere, non solo economicamente, forse è stato raggiunto. Obiettivo 2015? Consolidare la posizione, mercato permettendo... Carlo Madesani - Camera 16, Milano 8


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l momento difficile che sta attraversando l’arte è legato inevitabilmente alla pesante situazione economica italiana anche se, paradossalmente, nonostante la crisi economica generale stiamo assistendo ad un forte interesse nei confronti del mercato dell’arte contemporanea. Negli ultimi tempi, a chi si dedica al collezionismo da anni, si è affiancato un nuovo pubblico di investitori che, spinti dal crollo delle rendite finanziarie e del mercato del mattone, ha iniziato a guardare alle opere d’arte come “beni rifugio”, capaci di garantire un ritorno economico non indifferente. Purtroppo l’Italia sconta nei confronti dei paesi europei uno svantaggio legato anche all’Iva sulle opere d’arte che è tra le più alte d’Europa. Per questo motivo, ma anche per via della globalizzazione, i giovani collezionisti tendono a spostarsi da un tipo di collezionismo nazionale ad un collezionismo internazionale. In pratica sono diventati più curiosi e sofisticati rispetto a tutto ciò che succede nel mondo, con un’apertura verso nuove forme d’arte: performance, film, fotografia e installazioni. Anche noi stiamo volgendo lo sguardo verso nuove direzioni, consapevoli del fatto che nell’ultimo decennio le dinamiche legate all’arte e allo stesso mercato sono cambiate velocemente e chi non sta al passo rischia di essere tagliato fuori. Per quanto riguarda i nostri progetti guardiamo al futuro, e in un contesto come quello attuale sappiamo che per riuscire a vincere la sfida del mercato dobbiamo innovare continuamente. Per il 2015 stiamo pensando di arricchire e sviluppare la sezione dedicata ai giovani avviata quest’anno e che ha dato ottimi risultati. Accanto ai maestri storici, Accardi, Berlingeri, Boetti, Rotella e tanti altri, abbiamo selezionato alcuni interessantissimi giovani artisti che fanno ormai parte integrante della scuderia della galleria e che presenteremo in progetti e fiere all’estero. Claudia Sirangelo - ELLEBI Galleria d’arte, Cosenza

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urtroppo non riesco ancora ad essere così ottimista da prevedere un “anno buono” in un settore che per le difficoltà economiche contingenti non vive un momento felice, soprattutto tenendo conto della realtà specifica in cui il mio progetto è inserito e a cui è rivolto. A ciò si aggiunge l’oggettiva difficoltà di aver iniziato da zero, cosa che se da un lato mi rende orgoglioso, dall’altro rende tutto piú faticoso. Nonostante ciò, l’entusiasmo continua ad essere mio compagno di viaggio, insieme alla convinzione di orientare la mia ricerca sempre sulla qualità che, fino a questo momento, penso abbia contraddistinto il mio percorso. Personalmente sto facendo in modo di rivedere l’impostazione iniziale del mio progetto, aprendomi a nuove prospettive e cercando di ampliare i miei orizzonti. Dal momento che nel nostro “Bel Paese” il settore arte è poco tutelato dalle istituzioni - troppo spesso latitanti - ho interesse a rivolgermi verso realtà più attive, in cui certi settori sono ancora stimolanti in quanto “stimolati” in primis da chi ne è preposto e che, anche da noi, dovrebbe avere tutto l’interesse di favorire la crescita e lo sviluppo culturale. Gianfranco Matarazzo - GiaMaArt Studio, Vitulano (Bn)

SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea Direttore Responsabile: Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione e Grafica: Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Stampa: Gescom s.p.a. Viterbo Redazione: Via della Repubblica, 119 - 87041 Acri (Cs) Editore: BOX ART & CO. Associazione Culturale Iscrizione R.O.C. n. 21467 del 30/08/2011 Legge 62/2001 art. 16 Contatti e info: 3393000574 / 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Valentina Tebala, Gregorio Raspa, Martina Adamuccio, Pasquale De Sensi © 2015 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. In copertina: Anna Caruso, LA CASA SUL LAGO, 2014. Acrilico e inchiostro su tela, 70x90 cm (part.). Courtesy dell’artista Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.

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DI ARANCIO E ROSE Giulia Rositani

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PEOPLE ART

ono una giovane designer, mi chiamo Giulia Rositani e Giulia Rositani è anche il nome della mia linea, piena di sfumature e disegni che sono pezzi della mia anima. Nei capi trasferisco la pienezza dei colori e il romanticismo elegante della mia terra, la Calabria... questa è la mia storia: sono nata a Catanzaro e cresciuta in una casa che si affaccia sulla spiaggia, dalla quale si possono sentire le onde del mare senza poggiare una conchiglia all'orecchio, dove il cielo è cielo e i colori sono vivi e vibranti, dove puoi provare a contare le stelle ed esprimere dei desideri, dove puoi vedere sorgere il sole dal mare e mai vederlo tramontare, dove la terra profuma di arancio e rose, dove tutto ti ispira, una terra selvaggia e meravigliosa ed è proprio il Mediterraneo la mia musa ispiratrice. La “mediterraneità” si esprime attraverso il mio temperamento passionale e si concretizza sulla stoffa attraverso le cromie forti e decise che utilizzo nei miei disegni. Per fare di questa passione un lavoro non basta la creatività ma è necessario possedere gli strumenti, saperli utilizzare e corredare il tutto con un’inesauribile tenacia. Ho studiato a Milano, nel posto che ritenevo il migliore in Italia, lo IED, Istituto Europeo di Design e ho conseguito il titolo di Textile Designer. Dopo una prima esperienza professionale nel settore tessile a Como la mia carriera prosegue a ritmo serrato nei laboratori di MOSCHINO, in cui ho trovato una sintonia immediata facendo mie l’ironia visiva e la giocosità ben pensata dei capi adattandoli a uno stile nel segno e all’insegna del divertimento. Queste esperienze mi hanno spinto verso la carriera da solista e quindi a lanciare la mia linea. Ho una passione innata per il disegno che si compie nella creazione di stampe realizzate a mano, tutte disegnate personalmente con varie tecniche pittoriche (tempere, ecoline, acquarelli, pastelli, cera, ecc.) e divenute subito tratto distintivo della mia visione stilistica. Nate da una tecnica pittorica mista su carta e successivamente digitalizzate per essere trasferite sulla stoffa, sono disegni fortemente emozionali, elaborati con un uso preciso delle tecnologie più avanzate, che animano i capi raccontando spesso una storia bifronte di un unico récit.

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a tecnica del disegno su tessuto è a mio avviso una forma d’arte che oggi definisce e contraddistingue il mio lavoro. Prediligo la rappresentazione del reale: uomini, animali, piante, case, il tutto reso in modo sintetico, visto in maniera giocosa e con un pizzico di ironia, ma soprattutto filtrato attraverso una lente poetica. I materiali sono altamente pregiati, le preziose lavorazioni e la sperimentazione tessile si intrecciano in un perfetto equilibrio creativo, armonizzando tradizione e avanguardismo in prodotti made in Italy. Italiani sono infatti i tessuti, le idee, i materiali, i collaboratori e i partner che hanno caratterizzato le mie sette collezioni fino ad oggi realizzate. Righe, cerchi e quadrati giocati sul contrasto di colori luminosi arricchiti da rane pescatrici, girandole, scimmie, gatti e aeroplani che si materializzano su ricercati tessuti tra seta, cadì, cotone, jersey, crèpe di lana e neoprene stampato e termo-forato, coniugati con tagli confortevoli dalle linee. Utilizzo le cromie per spezzare la monotonia delle nuance smoking, senza mai abbandonare la classe di uno stile misurato. Il pattern pittorico, anima delle mie creazioni, si espleta attraverso mini abiti irriverenti, gonne geometriche, lunghi abiti romantici, morbide maglie over size, ma anche piumini corti in morbida piuma d’oca dai motivi pop e cappottini bon ton dalle briose tonalità. Ogni capo riassume poesia e logica in una sintesi di eccellenza unica. Ogni collezione è una sfida in cui metto in campo tutte le mie energie creative e fisiche, con le dita sempre incrociate.

Dall’alto a sinistra in senso antiorario: BOCCE disegno. GATTI, disegno. MANI MANI, disegno. Accanto un ritratto di Giulia Rositani.

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SHOWCASE

LEEZA HOOPER | a cura di Pasquale De Sensi

Untitled, 2014. Pastels on canvas, 100x100 cm.

Untitled, 2012. Mixed media on canvas, 100x100 cm.

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Untitled, SNK Glory, 2014. 31x22 cm and other sizes.

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SMALL TALK

UN CONSUNTO GESTO QUOTIDIANO Andrea Gallo

Loredana Barillaro/ Andrea, i tuoi personaggi mostrano una certa opulenza della carne, una sessualità esibita in un’atmosfera cruda dai toni violacei. Forse una sorta di spettro, un filtro mediante cui cogliere “zone” nascoste della realtà? Andrea Gallo/ Il lavoro che ho portato avanti sui soggetti della Nona ora e un quarto è stata una sorta di estrospezione. Volevo che la carne diventasse la pelle delle figure rappresentate: mi interessava muovermi verso la profondità dei soggetti senza cercare una verosimiglianza cromatica. La ridondanza della tavolozza usata per le figure doveva in qualche modo stridere con l’asetticità degli ambienti in cui erano inserite: corpi che se ne stavano da soli in uno spazio privo di indici di lettura. La nona ora e un quarto si riferisce proprio a questo: è l’attimo della sospensione, il tempo immediatamente successivo a qualcosa, in cui non accade nulla. L’opulenza della carne, come tu dici, è mostrata perché è tutto quello che rimane da mostrare. LB/ Attraverso la serie di dipinti dal titolo

- Loredana Barillaro

Mis(s)entropie affermi che tutto può essere il contrario di tutto. Ogni cosa, l’essere umano in primis, pare tendere al caos…

è lo spazio della decisione: le cose che accadono sono possibili o necessarie, mai volute.

AG/ La serie delle Mis(s)entropie nasce da un gioco di parole per trovare quella che Carroll definirebbe una parola portmanteau. Mi piaceva l’idea di concentrarmi sulle miss, come figure solitarie e insieme fenomeni di massa (penso ad esempio alle suicide girls, ma anche alle signorine buonasera) e di farle abitare narrazioni consunte dalle abitudini quotidiane, far compiere loro azioni sprecate, rese immotivate dal solo fatto di compierle frequentemente. Quanto più si fa spesso una cosa, tanto più essa diventa naturale: ed è proprio in questo momento che apre al disordine, all’arbitrarietà. Al contrario, l’entropia è un concetto che mi piace paragonare ai giochi dei bambini, apparentemente privi di senso, fino a che non si indovina la regola che nascondono. Il caos non è che un ordine riconducibile ad una regola che non abbiamo ancora scoperto. Quello che manca in Mis(s)entropie

LB/ Mi parlavi di nuovi lavori, di che si tratta?

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AG/ Dal concetto di Mis(s)entropie si sta pian piano staccando un altro piano, su cui sto lavorando. L’idea è quella di ragionare sulla emersione. Sono quadri di piccolo formato, in cui le figure si muovono davvero liberamente. Forse in questi lavori l’aspetto del gioco è quello che più mi sta prendendo la mano. Solitamente lavoro con persone che faccio posare in studio, adesso invece sto recuperando fotografie da vecchi archivi, immagini prese dalla rete o scarti di foto fatte nel corso di anni, che rimonto ed elaboro in un processo che comincia in un modo e che solitamente finisce in un altro, completamente diverso.

CHE FANNO STASERA IN TV?, 2014. Olio su tela, 150x200 cm. Courtesy dell’artista.


SMALL TALK

IN UN TACITO DIALOGO Anna Caruso

- Loredana Barillaro

LB/ Il geometrismo che caratterizza la tua pittura sembra cedere il passo ad un’atmosfera estremamente evocativa di un tempo - il futuro - che l’uomo, suo malgrado, cerca perennemente, e inutilmente, di predire, è così?

Loredana Barillaro/ I tuoi lavori appaiono come strati di memoria, sorta di film narrati per frammenti e ogni dipinto sembra portare in sé un’inevitabile trama da raccontare…. Anna Caruso/ Il senso del mio lavoro si spiega attraverso il continuo dialogo che lo spazio intesse con la memoria, nei suoi elementi passati (il chiaroscuro) e nelle contingenze del presente (il colore). L’intera rappresentazione oscilla fra il mistero che sottende la nostra inadeguatezza e il timore sottile - talvolta ossessivo - di un destino comune cui siamo tutti voltati. Ogni dipinto trae origine da vicende autobiografiche intessute di elementi personali e familiari, che si sovrappongono a problematiche globali, come ad esempio la sovrappopolazione e lo spreco delle risorse.

AC/ Il geometrismo che caratterizza la struttura visiva delle mie opere e soprattutto lo spazio della tela bianca rimandano alla dimensione mentale dell’individuo, elemento chiave che sottende il senso del mio lavoro. Se direzione, spazio e attesa sono i punti focali della composizione, è la ricerca della propria identità l’unico vero atto plausibile che si chiede all’uomo; questa ricerca, d’altronde, non pretende per forza un risultato né un’immagine confortante, anzi mette in evidenza il senso di crisi che ogni persona vive nel momento stesso in cui prova a porsi il semplice quesito della propria esistenza.

LB/ La figura umana sembra essere un “pretesto” nelle tue composizioni, un elemento marginale, strumentale…

IL BALLO CHE ASPETTAVO, 2014. Acrilico e inchiostro su tela, 80x100 cm. Courtesy dell’artista.

AC/ La figura umana in realtà risulta spesso protagonista unitamente alla dimensione spaziale, delineando in egual misura il tema indagato nel singolo dipinto. Quando evocate, le figure sono definite attraverso la tonalità neutra dei grigi, che serve ad astrarle e denaturalizzarle, mentre i soggetti - desunti da fotografie d’epoca - fanno da ponte tra passato e presente, in un muto dialogo con il ricordo personale. 14


SHOW REVIEWS

SHIT AND DIE Palazzo Cavour - Torino

- Gregorio Raspa

D

iciamolo subito: Shit and Die è un autentico capolavoro. Inutile girarci intorno, mentire, storcere il naso, far finta di non capire, fingere disapprovazione o mostrare indignazione. L’evento artistico più atteso e discusso del 2014, infatti, sorprende per efficacia e originalità, offre al pubblico internazionale, anche quest’anno giunto numeroso a Torino in occasione di Artissima, modalità di storytelling tanto inedite quanto rivoluzionarie, soprattutto in Italia. Perché Shit and Die è dolce e crudele come la vita, affascinante e misteriosa come la storia della città che la ospita, ironica e dissacrante come i suoi curatori, il (quasi) pensionato Maurizio Cattelan e le sue giovani collaboratrici Myriam Ben Salah e Marta Papini. Ciò che emerge dal lungo percorso allestito nelle sale barocche di Palazzo Cavour è una piccola wundercammer torinese in cui convivono - secondo le regole di un equilibrio già collaudato da Gioni durante l’ultima Biennale - oggetti e opere d’arte, feticci e reperti storici. È così che, tra le opere dei sessantuno artisti in mostra, si alternano gli avveniristici interni dell’unità residenziale “Talponia” voluta da Adriano Olivetti e lo Scheletro del Professor Giacomini, l’inquietante Forca di Torino e le orci in terracotta appartenute a detenuti studiati con “scientifico” sospetto da Lombroso. La mostra, del resto, prende ispirazione dalla storia della capitale sabauda, narra l’intimità e i segreti dei numerosi fantasmi che la infestano. E se della Torino città aristocratica e regale sappiamo tutto - o quasi - meno si conosce e sospetta, invece, dei segreti di alcuni suoi illustri protagonisti, come testimoniano in mostra le polaroid erotiche di Carlo Mollino, le disinibite pose offerte in alcuni scatti dalla Contessa Castiglione - cugina prediletta di Cavour - e le perversioni dello stesso Conte - in sala, si vocifera, appassionato coprofago. Ma, come si evince dal titolo della mostra, quella sulla città di Torino è solo una storia nella storia, il passepartout di accesso a riflessioni più ampie che affrontano l’uomo e la sua condizione esistenziale. Shit and die: “caga e muori”. Vita e morte dunque, la prima con le sue pulsioni, la seconda con le sue paure, di mezzo un sottile filo che lega l’una all’altra rendendole, in qualche modo, simili: il fallimento. Nelle sale di Palazzo Cavour, infatti, è soprattutto quest’ultimo tema a collegare il tutto, dall’opera The Hug di Eric Doeringer - che accoglie gli spettatori con una distesa di 40.000 banconote da un dollaro - all’automobile da corsa lanciata verso l’autodistruzione di Florian Pugnaire & David Raffini, simbolicamente posta alla fine del percorso espositivo. Di mezzo le infinite declinazioni del fallimento e la parata artistica delle sue vittime più illustri come la felicità e il potere, il desiderio e la possibilità di controllo sugli eventi, in un percorso che colpisce allo stomaco e parla alle menti.

Dall’alto: Eric Doeringer, THE HUGE, 2014. Veduta parziale dell’installazione, Palazzo Cavour, Torino. Foto Zeno Zotti, Courtesy Artissima e dell’artista. Roman Signer, INSTALLATION WITH TWO FANS, 2010. Foto Zeno Zotti. Courtesy Art : Concept, Paris e dell’artista. In primo piano Florian Pugnaire and David Raffini. TITOLO DA DETERMINARE, 2014. Sullo sfondo Martin Creed. WORK N. 112, THIRTY NINE METRONOMES BEATING TIME, ONE AT EVERY SPEED, 1995. Foto Zeno Zotti. Courtesy Artissima, GAM Torino e degli artisti.

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