LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE 2014
Magazine di arte contemporanea / Anno III N. 11 / Trimestrale free press
SMALL ZINE
Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut: 170/ CBPA-SUD/CS
ISSN 2283-9771
GIUSEPPE BIGUZZI
Giuliana Ippolito - Giuseppe Biguzzi - Alice Ronchi Kensuke Koike - Jacopo Prina - Davide Puma - Domenico Grenci - Fabio De Chirico - David De Biasio - Vanni Cuoghi I premi d’arte contemporanea
TALENT TALENT
L’ESSENZIALE È INVISIBILE AGLI OCCHI Davide Puma
- Martina Adamuccio
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a cultura di massa americana e occidentale dei giorni nostri e la penetrazione capillare e a larga scala di radio, televisione, cinema e quant’altro, hanno consentito la creazione e diffusione di una cultura unitaria basata spesso sui consumi e sulla divulgazione di beni di consumo, idee e valori per certi versi uguali in tutto il mondo, o quantomeno nel mondo occidentalizzato. Il ruolo della religione è stato per certi versi sostituito da quello della televisione. Quello strano oggetto nato con lo scopo di informare il mondo si è trasformato in prodotto da idolatrare e in cui trovare risposte alla nostra vita. La stessa ossessiva ripetizione dell’immagine della bottiglia della Coca Cola di Andy Warhol dimostra come alcuni oggetti siano diventati referenti più importanti rispetto ad altri valori interiori o spirituali. La cultura dell’usa e getta e il bombardamento di immagini a cui siamo sottoposti hanno provocato spesso un vuoto nella spiritualità e nell’energia che si può trarre da un’opera d’arte. Ma c’è chi ancora lavora con lo spirito rivolto al passato, dove il pensiero ricorrente non è cosa facciamo, ma cosa siamo, dove il contenuto vale più del contenitore, dove lo spirito arricchisce corpo e mente. Questo si palesa osservando le opere dell’artista Davide Puma, (1971). Le si osserva in religioso silenzio, perché in ogni pennellata vibra pura energia, e la bellezza dell’umanità intera fuoriesce attraverso i colori. Una pittura antica la sua, ricca di storia ma anche di spirito, dove il rapporto tra l’opera e l’osservatore diventa intimo, suggestivo, quasi irreale. Il colore assume significati differenti e si pone come guida verso sensazioni alle volte estranee agli uomini moderni, sensazioni profonde che riportano ad una ricerca di sé e del mistero che avvolge ogni singolo uomo. Davide Puma non dipinge ciò che vede, ma ciò che secondo lui è. Prendendo spunto da maestri del passato riscopre il valore di una pittura materica e profonda, dove la pastosità del colore pare intrappolare l’essenza della vita. L’anima dei soggetti spinge verso di noi il valore reale delle cose e ci ricorda che in fondo la vera essenza è quella dentro di noi. I diversi soggetti riportano alla mente la diversità e l’individualità delle nostre storie ricordandoci che siamo fatti della stessa sostanza del cosmo: pura energia. Molti suoi soggetti richiamano esplicitamente alla spiritualità intrinseca dei suoi lavori ma anche il profondo riferimento ad artisti del passato non viene celato e muta da opera in opera facendo giungere a noi un lungo viaggio attraverso la pittura dei secoli scorsi. Mistero, quello celato nei lavori di Davide Puma, che ricorda che “la cosa più bella che possiamo sperimentare è il mistero stesso, perché esso è la sorgente di tutta la vera arte e la vera scienza” (A. Einstein). E così, guardando ogni singolo lavoro dell’artista ogni persona ritrova la propria storia, e se non dovesse ricordarla, è costretto a riviverla.
Dall’alto: IO SONO QUI, 2009. Olio su tela, 120x120 cm. PENELOPE, 2012. Olio su tela, 160x160 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
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TALENT TALENT
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LA BELLEZZA ALL’IMPROVVISO Alice Ronchi
ata nella Brianza contadina, artisticamente cresciuta nella Milano industriale, Alice Ronchi è una giovane artista - classe 1989 - che nel suo lavoro trascrive i caratteri peculiari dei contesti sociali e urbani in cui vive compendiandoli in una ricerca che guarda alla bellezza del mondo e indugia sulla sua spontaneità evocandone la naturalezza. Esemplare di un simile approccio creativo - di matrice quasi fiabesca - appare, ad esempio, uno dei suoi lavori più recenti, l’installazione Colazione sull’erba composta da fragili sculture in cartone, metallo e legno, collocate nello spazio secondo una disposizione che sottende la ricerca di una corrispondenza visuale capace, nell’insieme, di contribuire alla composizione di un paesaggio appena accennato. Talvolta sospesi a mezz’aria, talaltra fermamente ancorati al suolo o alla parete, gli elementi di Colazione sull’erba sembrano evocare il fascino delle prime sculture di Pascali. Essi, infatti, proprio come i mari, i dinosauri e le altre belve del genio di Polignano, appaiono come sculture che non fingono di essere qualcosa, ma semplicemente si manifestano per ciò che sono, oggetti-immagine che ostentano - con orgoglio mal celato - la loro natura artificiale. Non a caso, proprio come
- Gregorio Raspa
Pascali, anche la Ronchi in molti suoi lavori sembra evocare un tempo anteriore, vagamente ancestrale, nel quale è ancora possibile vivere in autentico accordo con il mondo circostante. Un richiamo al paesaggio che ritorna anche in altre opere in cui, assecondando la direttrice segnata da uno schema logico con struttura circolare, l’universo degli artefatti e quello della natura sembrano rincorrersi vicendevolmente. Nella serie Kilimanjaro (sassi ansiosi di crescere), ad esempio, delle pietre poggiano su piedi metallici assumendo una posa che dona loro slancio e una curiosa attitudine alla vanità, suggerendo un ironico desiderio di diventare grande e acquisire visibilità agli occhi del mondo. Un carattere vanitoso che, spesso, è possibile rintracciare - anche - in molti degli elementi che arredano lo spazio antropico quotidiano e che la Ronchi immortala nel ciclo fotografico Flora (strutture urbane vanitose) in cui, curiosamente, un tubo metallico sembra atteggiarsi a fiore e una torre industriale mostrare un insospettabile esibizionismo. Del resto, la ricerca della bellezza nei piccoli dettagli è una costante che ritorna in tutta la produzione della Ronchi e che si pone al centro di molti lavori come - per
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citarne uno - nel video Camera con vista. Ma ciò che colpisce di questa giovane artista è la sua capacità di elaborare opere dotate di una memorabile semplicità compositiva valorizzata, di volta in volta, da uno spiccato senso lirico e da una ben calibrata dose d’ironia. Ciò è particolarmente apprezzabile, ad esempio, nel video Arabesco in cui un’anziana signora, ritratta in un prolungato primo piano, imita con tenerezza le deliranti mimiche facciali scolpite da Messerschmidt o, ancora, in Buongiorno Principessa, altra opera video in cui un addetto alle pulizie, sulle note del notturno di Chopin, sembra danzare insieme al suo lavasciuga nell’atto poetico - perché inutile e inatteso? - di disegnare sul pavimento delle pozzanghere d’acqua. Piccole azioni, lievi dettagli, per suggerire una bellezza che, all’improvviso, seduce.
COLAZIONE SULL’ERBA (veduta dell’installazione), 2014. Ottone, acciaio inossidabile, legno e cartone, dimensioni variabili. Courtesy Francesca Minini.
INTERVIEWS
UNA CLAUSTROFOBICA ALIENAZIONE Giuseppe Biguzzi
- Loredana Barillaro
Loredana Barillaro/ Il tuo lavoro sembra definirsi esclusivamente per la presenza di figure femminili, c’è una ragione per questo?
donne, sembrano collocarsi in non-luoghi. Di contro sono perfettamente definite, nel corpo, nei tratti somatici e nei dettagli delle loro vesti…
Giuseppe Biguzzi/ Penso che riuscire a catturare ancora oggi l’attenzione proponendo uno dei soggetti più sfruttati nella storia dell’arte equivale ad affermare come pretesto il soggetto stesso. Attraverso la figura femminile cerco di indagare gli stati emotivi generati dal quotidiano vivere nella società contemporanea. La donna diventa simbolo di identità negate, di emancipazioni imposte preconfezionate ed illusorie, distanti dalla propria natura. Sono soggetti ripetuti, dipinti più volte in numero progressivo, giovani modelle piuttosto magre spesso in un atteggiamento di chiusura, girate di spalle, curve, raggomitolate, nell’atto di abbracciare se stesse. Sono la manifestazione stessa dell’immaginario creato dai costumi sociali, tristi nella loro eccessiva magrezza lasciano trasparire i sintomi di un disagio generato dal conflitto tra l’essere e l’apparire.
GB/ Il fondo monocromo decontestualizza il soggetto, senza contesto l’essere umano è più persona e meno attore sociale. Slegato da tutto ciò che può ricondurre alle azioni, agli ambienti, alle cose e ai suoi simili il soggetto vive in una sorta di astrazione, sospensione, deprivazione. Le figure vengono rappresentate interamente e la composizione è serrata al limite della tela, le posture spigolose e le linee degli arti creano delle geometrie che vanno ad aumentare il senso claustrofobico della composizione. Il biancore rosato della carne indagato in profondità, vivo e dolente descrive le pose di un corpo che si nega, si ritrae, morso da una luce che sembra venire dal di dentro, prossimo ad essere l’astrazione di se stesso. È un’indagine attenta rivolta in particolare a tutto ciò che si cela sotto la pelle, la vita pulsante che scorre veloce raccontata in un fotogramma di pensiero, vita feroce che ritroviamo nei colori accesi e nei det-
LB/ Non esiste sfondo per queste giovani
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tagli delle vesti quasi unico contatto con la realtà, forse unico riferimento di un determinato periodo. Gli abiti descritti nei particolari diventano il simbolo di un legame intimo affettivo, consolatorio e contrastano con l’assenza di uno sfondo e con la durezza della linea di contorno, contrasti che si ripetono più volte in varie parti della tela, che isolano e mettono in risalto al tempo stesso, per creare diverse situazioni nello stesso quadro. Ho voluto togliere tutto ciò che di costruito ci circonda e che va falsamente a creare dei riferimenti o ad attribuire degli stati per lasciare trasparire ciò che più possa assomigliare ad un pensiero, ad un attimo di intimità rubato e alla consapevolezza di essere stati scoperti. Lo sfondo è spazio mentale, pensiero che diventa luogo di chi lo ha generato, saturato dalle proprie emozioni, una dimensione astratta che contrasta, ancora una volta, con la forte fisicità delle figure. LB/ Questo spesso contorno scuro pone dunque le figure in rilievo. Al contempo, però, sembra quasi volerne fare scrigni “costretti” a contenere una vitalità tutta interiore…
GB/ Come ti dicevo il forte segno scuro che traccia marcatamente il contorno, la definizione delle vesti e dell’incarnato contrastano con il fondo liscio e monocromo donando alla figura una plasticità che al tempo stesso è isolamento volontario, malinconico e depressivo, dal mondo e dalla sua eccessiva pressione. Sono corpi abbandonati e trascinati dallo scorrere veloce dell’odierna liquida società, destini diluiti, arresi alla quotidianità, alla ricerca di un angolo in cui guarire in disparte un eccesso di male di vivere. Corpi che con la loro presenza esaltano l’assenza dell’Io, che esulano il desiderio per incarnare il dramma esistenziale del quotidiano vivere, i visi sono sempre rivolti di lato o in basso e gli sguardi di tutte le donne rappresentate non incontreranno mai lo spettatore. L’estraneità rappresentata è il nostro mondo possibile, quel nostro eventuale futuro che la contemporaneità ha soffocato costringendolo in una coatta direzione a senso unico. L’impossibilità di interazione tra soggetto e osservatore determina l’annullamento della funzione attribuita al soggetto stesso, contribuisce ad isolarlo ed estraniarlo completamente da ciò che lo circonda e a renderlo indipendente. La sensazione è di aver violato l’intimità della ragazza rappresentata la quale, sapendo perfettamente di essere esposta allo sguardo di chi la scru-
ta, si ritrae infastidita rifiutando qualsiasi complicità, anche l’unico contatto possibile, lo sguardo dell’osservatore, e la relazione con lo spazio fuori del quadro. LB/ Parlami della tua recente esperienza in Cina, cosa aggiunge alla tua ricerca? GB/ La mia recente esperienza in Cina è stata molto importante per il mio lavoro, oltre ad avermi dato l’opportunità di aprirmi ad una cultura a me sconosciuta e ad un nuovo modo di concepire l’arte, mi ha fatto capire quanto il mio lavoro si fosse istintivamente avvicinato a quello dei maestri figurativi cinesi. Ho ritrovato gli stessi sfondi monocromi con figure isolate al loro interno, gli stessi silenzi introspettivi che amo indagare, le stesse sospensioni su di uno sfondo quasi sempre piatto, a volte invaso da vegetazione anch’essa sospesa nella stessa dimensione. Ha aggiunto in me la consapevolezza di affrontare una tematica globale. Ho ritrovato gli stessi sentimenti che animano i miei lavori, gli stessi stati emotivi generati dalle odierne società contemporanee occidentali. La Cina è un paese fantastico ed in piena crescita con una grande curiosità e stima nei confronti della cultura europea, un paese attento e sensibile all’arte e ai nuovi cambiamenti, un paese con una cultura immensa, a volte poco tutelata e costretta
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entro i propri confini. I miei colori sono diventati più limpidi, accesi con contrasti più marcati, i colori dei mercati, delle grandi insegne e dei maxischermi delle metropoli cinesi hanno dato una nuova luce alle mie tele, la Cina è un paese coloratissimo, i forti contrasti cromatici sono presenti in ogni istante. LB/ Potresti definire te stesso un moderno artista di figura, nella sua connotazione più pura? GB/ Amo definirmi un pittore, un musicista del colore che insegue e tenta di arricchire un genere, un linguaggio destinato all’anima. Potrei definirmi moderno visti i miei riferimenti all’arte di quel periodo e sicuramente di figura, ma non voglio dare per scontato un percorso che nemmeno io conosco, ho iniziato dipingendo paesaggi singolari che raccontavano esattamente ciò che racconto oggi. La figura è per me adesso ciò che il paesaggio era un tempo, una ricerca portata avanti dalla necessità di indagare le cose attraverso la pittura.
Da sinistra: ROMINA 27, 2014. Olio su tela, 100x140 cm. ROMINA 28, 2014. Olio su tela, 70x100 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
INTERVIEWS
UNO SGUARDO AL “FEMMINILE” Domenico Grenci
- Martina Adamuccio
Martina Adamuccio/ Cosa ti ha fatto avvicinare all’arte?
donna di tre quarti. La seconda è la statua della Persefone seduta, ora all’Alte Pinakothek di Berlino, pare sia originaria della città di Locri Epizephiri. Più che di figura femminile parlerei de il femminile. Ho molti interrogativi irrisolti al riguardo. Non amo sapere ed eviscerare ogni cosa, tuttavia la visione del femminile è qualcosa che raramente riesco a scindere dalla pittura. Sai, come spesso accade, il processo pittorico è disgiunto dall’idea di progettualità della quale nell’oggi sentiamo una forte necessità. Ovvero spesso si parte da una progettualità per arrivare a un dire qualcosa, la progettualità serve affinché questo dire sia fatto e detto nel modo migliore possibile. La pittura non ha questo vincolo, esso può o non può essere rispettato. Può dire di più, meno o non dire affatto. Personalmente mi è accaduto che la pittura mi portasse a delle svolte nel lavoro che spesso hanno coinciso con delle rivelazioni. Il femminile fa indubbiamente parte di queste rivelazioni. È qualcosa che nella storia ha sempre avuto a che fare col tutto e dunque anche con l’arte. Il ritratto in sé è forse una specie di attrazione fatale. Indubbiamente il femminile viene da me preso come pretesto per un’analisi più approfondita su una questione estetica dell’oggi, sulla storia, sui significati e sulle interpretazioni odierne che gravitano attorno al concetto di bello, ma anche per un’analisi interiore che ha a che fare col mito e con il termine poetico di psiche.
Domenico Grenci/ Indubbiamente il fatto di crescere in una famiglia dove la cultura in senso lato è sempre stata al centro di una formazione di vita. Quotidianamente ho avuto a che fare con materiali quale legno, creta, terra, matite, carta; in qualche modo le passioni appartenute a mio nonno e a mio padre sono state il primo approccio ad un fare artistico. Ho avuto la fortuna incredibile di crescere in un paese, Ardore, piccolissimo, dove gli “svaghi” si creavano giorno per giorno, dove la libertà dell’adolescenza e il gioco si mescolavano profondamente al tessuto sociale e naturale dei luoghi. Di fronte il mar Ionio che ha un sapore particolare di storia ellenica, e alle spalle colline, dove la vita rurale ti porta a vedere gli oggetti di uso quotidiano, le cose e la natura come facenti parte di un tutt’uno con la tua vita... e questo indubbiamente è anche arte. MA/ Che ruolo ricopre la figura femminile nel tuo lavoro? DG/ Ossessivo direi! (risata, ndr) È un continuo rifacimento di qualcosa, è un negare e riaffermare continuo. Ho impresse, chiare nella memoria due immagini, la prima è di due disegni realizzati da mio padre che tuttora conserva nel suo studio: un ritratto della madre e un disegno a matita di una 6
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on amo sapere ed eviscerare ogni cosa, tuttavia la visione del femminile è qualcosa che raramente riesco a scindere dalla pittura.” MA/ Materiale tutt’altro che raffinato, il bitume è una costante all’interno delle tue opere. Come nasce la scelta di utilizzare un materiale simile nonostante la raffinatezza dei soggetti? DG/ In realtà è nata per caso. L’esperienza in Accademia a Bologna, ha fatto sì che partendo da studi classici al liceo potessi approcciarmi all’arte e quindi ai materiali in modo più coinvolgente e totalitario. Il bitume è stata una di quelle sperimentazioni accademiche nate su suggerimento: mi resi conto subito della sua grande versatilità pittorica e della sua grande capacità poetica. Diluito con vari diluenti, scusa il gioco di parole, si ottengono delle interessantissime tonalità e indubbiamente la cosa più affascinante è che ha un margine di ingovernabilità che rende la casualità un aspetto importante del lavoro... poi è un materiale che ha usi risalenti alla preistoria, è qualcosa che ha avuto a che fare sempre con l’uomo (aiutava gli egizi nella conservazione dei corpi), o meglio, sarebbe più corretto dire che ha sempre avuto a che fare con la vita. È un elemento “altro” che abita la parte più nascosta della terra. MA/ Che rapporto c’è tra te e i tuoi lavori? DG/ È un rapporto quotidiano, dettato da dialoghi continui e interrogativi costanti. Il ritratto è parte essenziale della storia, e non solo dell’arte ma dell’uomo. Ha un ruolo fondamentale, ovvero, la conservazione dell’immagine della persona dopo la sua morte, è una testimonianza, è un’affermazione tangibile nella ricerca dell’immortalità. Nonostante non ricordi quasi nulla alla fine, soggetti e nomi, fotografie o altro da cui attingo per questa instancabile e perseverante pratica di re-interpretazione continua di messa in scena, ho sempre l’idea di cedere ad un’altro, collezionista o no, qualcosa di estremamente personale. Ma questo è l’aspetto fondamentale e immancabile. I quadri vanno dati, devono esser visti, altrimenti non esistono. MA/ Progetti futuri? DG/ I progetti più grossi per il futuro ci sono ma sono indubbiamente tutti in essere e sarebbe molto di cattivo auspicio parlarne, ed io, ci credo! (risata, ndr) Attraverso la Galleria Nuova Morone di Milano stiamo lavorando su contatti in Europa e ad alcune mostre pubbliche in Italia. Inoltre, partecipare a fiere internazionali, come già sta facendo la galleria, è un ottimo mezzo per poter stringere relazioni lavorative proficue.
Da sinistra in senso orario: EVA, 2013. Bitume, olio e carboncino su tela, 76x46 cm. VERA, 2014. Bitume e carboncino su tela, 150x100 cm. ANASTASIA, 2013. Bitume, olio e carboncino su tela, 150x180 cm. MIRTHE, 2104. Bitume e carboncino su tela, 120x150 cm. Per tutte courtesy dell’artista.
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SPECIAL
I PREMI D’ARTE CONTEMPORANEA Loredana Barillaro
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orse il numero di premi è cresciuto, ma quelli che conosco bene sono premi piccoli. Piccole giurie, piccoli premi, piccole città. Nascono e muoiono sull’onda della passione. È questo il loro bello. Vi partecipano in tanti e poi dimenticano, perché oggi gli artisti sono molto cauti rispetto alle logiche della competizione e della mercificazione. Bisogna quindi organizzare eventi che siano a misura di questa sensibilità. Poi va detto che in questi tempi ogni piccola cosa sembra divenire fenomeno, anche se dura un mese o poco più. Il Premio Città di Treviglio, che curo dalla sua nascita nel 2010 e che è promosso dell’amministrazione comunale, ha risolto il dilemma dalle fondamenta. Si caratterizza per essere un luogo di incontro tra artisti affermati di varie generazioni (Grazia Varisco, Mauro Staccioli, Emilio Isgrò, Luca Vitone, Paola Di Bello, Ettore Favini ….), che vengono invitati a esporre ma non concorrono, e giovani under 35 selezionati da una giuria, che possono vincere un premio in denaro e l’allestimento di una mostra personale. L’arte contemporanea resta ancora un fenomeno elitario e solo nel lungo periodo se ne colgono i segni indelebili lasciati da grandi artisti. Con un filo di nostalgia. Esiste ed esisterà sempre la possibilità di commettere errori nella scelta dei premiati, nonostante la buona volontà della giuria. Non dimentichiamo che tutta la storia dell’arte è costellata di premi prestigiosi assegnati ad artisti poi scomparsi dalla scena, complice un linguaggio destinato a invecchiare precocemente. Sara Fontana - PREMIO CITTÀ DI TREVIGLIO
premi d’arte contemporanea hanno sempre avuto un loro ruolo nel sistema dell’arte e nel percorso di affermazione di un artista: alcuni hanno una lunga storia che ne ha accresciuto il prestigio negli anni, altri (molti) sono nati negli ultimi tempi, da cui l’impressione di un fenomeno “nuovo” e in espansione. Credo che la grande novità rispetto a qualche decennio fa sia il proporsi di nuovi committenti, perlopiù afferenti al mondo delle aziende private - vedi Optima Italia - che scelgono di promuovere premi per artisti facendosi sponsor nei vari ambiti della creazione contemporanea (non solo arti visive, ma anche moda, design, musica, etc.). Molto è cambiato anche con l’avvento dei social network, che hanno reso più facile la costruzione di un sistema di voto popolare (sempre da affiancare, però, a quello di una giuria tecnica) contribuendo all’immediata diffusione e promozione delle opere in concorso. Mi sembra che l’orientamento predominante – soprattutto per i premi promossi dai privati – sia quello della “scoperta” di nuovi talenti, in linea con il format del talent show. Partecipare ad un concorso per un artista giovane - e non solo in senso anagrafico - significa avere la possibilità di confrontarsi con i propri colleghi, oltre che di farsi notare da curatori e galleristi, e per questo assume un valore in termini di esperienza, al di là dell’eventuale premio in denaro che può essere utilizzato come investimento per proseguire il proprio percorso di ricerca e di formazione. Alessandra Troncone - PREMIO SMARTUP OPTIMA
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premi, soprattutto quelli a pagamento e che, dunque, richiedono ai partecipanti il versamento di una quota d’iscrizione, sono essenzialmente un business per chi li organizza. Il fenomeno è in crescita perché, appunto, rappresenta una nicchia di mercato. L’idea è di individuare gli artisti emergenti, ma spesso è solo un’idea, appunto, non supportata dalla realtà. Io ho fatto parte di giurie di diversi premi e la mia esperienza è stata positiva. Ho selezionato artisti che non conoscevo e che poi ho seguito negli anni, coinvolgendoli in mostre personali e collettive. Da due anni sono presidente del Premio Griffin, promosso e supportato da Colart, azienda proprietaria dei marchi Winsor & Newton, Conté a Paris e Liquitex, specializzati in prodotti per le Belle Arti. Il Griffin, presente in diversi paesi (Gran Bretagna e presto anche Spagna, Germania, Francia e Stati Uniti), è un premio a partecipazione gratuita, diretto soprattutto agli artisti giovani (under 35) e a coloro che non hanno ancora concluso il proprio corso di studi (studenti). Lo scopo del Premio è di abbassare la soglia d’ingresso nel sistema artistico, consentendo agli artisti di anticipare le tappe del proprio percorso professionale. I premi indicano alcune direzioni, segnalano certi smottamenti della sensibilità artistica e possono attirare l’attenzione degli operatori del sistema dell’arte, come critici, giornalisti e galleristi. Quasi mai sono diretti ad un pubblico generalista, il pubblico dei premi è ovviamente settoriale. Le scelte sono sempre rischiose, come le scommesse. Inoltre, nessuna giuria è composta da veggenti, ma solo da persone che prendono decisioni in base alla propria esperienza e sensibilità. Il successo e la riuscita dipendono in gran parte dalla personalità dell’artista e dalla sua tenacia nel tempo. Vincere un premio, o anche solo far parte della rosa dei finalisti, dà agli artisti una maggiore visibilità mediatica e permette loro di entrare in contatto con persone nuove. Ivan Quaroni - PREMIO GRIFFIN 8
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l Premio nazionale d’Arte Città di Novara è una manifestazione di alto profilo artistico culturale che si stacca da altre iniziative concorsistiche di natura commerciale. Nato dal desiderio di dare un contributo alla promozione e allo sviluppo della ricerca creativa, vuole essere un momento di riflessione e di confronto tra artisti, critici, addetti ai lavori e pubblico, un appuntamento per produrre incontri e allacciare nuovi contatti nel comune interesse per l’arte. Ormai alla quattordicesima edizione, il Premio rappresenta una vetrina importante sia per gli artisti emergenti (per molti è stato un vero trampolino di lancio) sia per gli artisti già affermati, invitati a ricevere il Premio alla Carriera cosicché la manifestazione ha accolto le opere di artisti di livello nazionale ed internazionale come Colombotto Rosso, Pistoletto, Lodola, Soffiantino, Gillo Dorfles, Ronda, ecc. La giuria, composta da addetti ai lavori (critici d’arte, galleristi, giornalisti e artisti), ha sempre dimostrato estrema oggettività valutando la capacità di utilizzare modalità espressive contemporanee, l’innovazione e la sperimentazione, il valore della ricerca artistica e l’utilizzo dei linguaggi in modo trasversale. Il pubblico, infine, è chiamato a partecipare attivamente attraverso eventi collaterali legati al mondo dell’arte facendo della manifestazione uno strumento per sensibilizzare all’arte contemporanea. Vincenzo Scardigno - PREMIO NAZIONALE D’ARTE CITTÀ DI NOVARA
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gni tanto ne spunta uno nuovo, e qualcun altro sparisce dalla scena. Autorevoli o meno, promosssi da istituzioni pubbliche o realtà private i premi d’arte sembrano la formula più accattivante e sicuramente più accessibile di mecenatismo partecipato, da una parte e dall’altra. Una cosa è certa, non si ha che l’imbarazzo della scelta! Può dunque definirsi, a tutti gli effetti, un “fenomeno”, e per di più in crescita? Alcuni mirano a scoprire e a lanciare artisti emergenti, altri sembrano puntare l’attenzione su nomi già ampiamente conosciuti. Qual è dunque l’orientamento predominante? Può un premio essere interprete di una tendenza più vasta anche in termini di attenzione del pubblico? Quante possibilità esistono di commettere errori nella scelta dei premiati e cosa può aggiungere un premio al percorso di un artista, sia in termini di risorse che di esperienza? Abbiamo sentito qualche parere…
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o scenario attuale sempre più variegato ed in continuo divenire vede un sistema dell’arte che si snoda attraverso una pluralità di proposte e interlocutori, cui vanno aggiunti gli stimoli che giungono dalle forme di connettività social e in generale del mondo del web 2.0 capace di moltiplicare opportunità e input a disposizione di fruitori e operatori. Un concorso di caratura nazionale e internazionale deve - e questa è l’ambizione del Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee - creare un punto di vista privilegiato su quelle ricerche sintomatiche del sentire presente: essere un radar capace di segnalare i processi in atto compiendo un’opera di scouting, con la consapevolezza di muoversi in un terreno ibrido di interconnessioni tra linguaggi e saperi. La più grande virtù di un premio è fare questo mantenendo una sua indipendenza, e proprio grazie a questa, diventare una “voce” credibile capace di porsi come un punto di riferimento per gli operatori e il pubblico nel segnalare nuovi autori emergenti o porre l’attenzione su quelle ricerche innovative che sono state a torto sottovalutate. Tutto questo comporta necessariamente una buona dose di rischio insito nel non muoversi nel campo delle consuete certezze, ma attuando scelte rigorose e lungimiranti è possibile contribuire al necessario dibattito sullo stato di fatto, e sul futuro, dei linguaggi visivi in questo paese e in riferimento al panorama globale. Carlo Sala - PREMIO FRANCESCO FABBRI PER LE ARTI CONTEMPORANEE 9
SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea Direttore Responsabile: Loredana Barillaro Redazione e Grafica: Luca Cofone Stampa: Gescom s.p.a. Viterbo Redazione: Via della Repubblica, 119 - 87041 Acri (Cs) Editore: BOX ART & CO. Associazione Culturale Iscrizione R.O.C. n. 21467 del 30/08/2011 Legge 62/2001 art. 16 Contatti e info: 3393000574 / 3384452930 smallzine@hotmail.com www.smallzine.it Hanno collaborato: Gregorio Raspa, Martina Adamuccio, Pasquale De Sensi © 2014 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. In copertina: Giuseppe Biguzzi, ROMINA 22, 2013. Olio su tela, 160x90 cm (part.). Courtesy Galleria Marconi, Cupra Marittima. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.
L’ALTROVE CHE MI PIACE VISITARE Giuliana Ippolito
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urare attraverso l’arte. Ecco cosa voglio realizzare. Dare vita a progetti capaci di sanare, percorrendo la sottile linea di demarcazione che separa il femminile dal maschile. In quel lì, fatto talvolta di violenza, sono io con il mio lavoro, quello è l’altrove che mi piace visitare. Un lavoro, il mio, iniziato alcuni anni fa, nella valorizzazione intellettuale delle periferie e delle province, dove non è ammessa la cultura, intesa come attività intellettuale produttiva. E dove, invece, è ancora possibile recuperare la cura per le cose, per le persone. Un lavoro appreso ascoltando gli artisti raccontare dei loro progetti, osservandoli nell’ideazione dell’opera, girovagando fra musei e laboratori attraverso la percezione degli spazi pieni e vuoti, definendone i margini con narrazioni più che allestimenti di opere. Opere che raccontano storie e tratteggiano con il loro alternarsi di luogo in luogo semirette immaginarie protese verso l’infinito. Sei anni fa ho fondato a Benevento Numen Arti Contemporanee, una galleria composta di piccoli contenitori/spazi dell’immaginario dedicati all’arte giovane, dove ospito artisti e creativi, ma anche curatori, provenienti prevalentemente dai Sud, quei tanti Sud dimenticati dai critici e dai collezionisti, quell’unico Sud che per me rappresenta il luogo dell’anima, una sorta di pregiudizio al contrario il mio, un’idea discriminante dell’arte capace di recuperare la bellezza profonda delle cose, di creare relazioni positive, di curare. Quando sono arrivata a Benevento dieci anni fa, da napoletana vesuviana e viscerale quale sono, e per di più giornalista, ho percepito la difficoltà profonda della città sannita di relazionarsi all’arte pur essendo essa stessa arte ovunque. E così è iniziata la mia osservazione in un succedersi di conversazioni, di interviste vere e proprie, tra il dentro (gli spazi espositivi della galleria) e il fuori (il vico pulsante della città dove si trovano fisicamente), in un susseguirsi di progetti casualmente al femminile, ancora l’idea della creazione e della cura che predomina. Il mio intento è di valorizzare il lavoro di giovani artisti italiani e stranieri che sperimentano con serietà ed onestà intellettuale la ricerca dei materiali e dei linguaggi: il know how diviene l’esplorazione di idee provenienti con particolare interesse dal Sud geografico. Nel 2011 è nato il progetto Divieto di affissione, giovani avanguardie del sud del mondo. Esso esporta, con uno schema flessibile, negli studi di professionisti ed appassionati d’arte, una collettiva che non è mai la stessa, che espone opere di artisti fra cui Alì Nassereddine, Laura Micciarelli, il collettivo Semmai Factory, Barbara Bonfilio, Gema Rupérez, Filippo Mastrocinque, Monticelli & Pagone, Dario de Cristofaro, Francesca Manetta. Il progetto cerca 10
PEOPLE ART
di approfondire come queste installazioni siano capaci di mutare gli ambienti dove lavorano persone che quasi sempre non hanno a che fare con il mondo dell’arte. L’ultima sfida che firmo con la collega giornalista Désirée Klain, è il progetto “I miserabili” - prodotto dal Museo MADRE di Napoli e presentato lo scorso 29 marzo presso la sala delle colonne - che rappresenta il tentativo di attraversare i musei italiani per manifestare attraverso la metafora dell’arte: no alle violenze! Il progetto, che sarà ospitato dai musei di arte contemporanea e dai centri di ricerca, intende indagare le cause sociali ed antropologiche alla base del femminicidio, della discriminazione e di ogni altra forma di violenza che vede oppresse le donne, spostando per la prima volta lo zoom dalle vittime ai carnefici. Attraverso gli sguardi fotografati dei reali colpevoli, i miserabili, cercando di aiutare le donne a denunciarli, attraverso l’interazione con opere d’arte contemporanea ed una camera della memoria dove depositare gli oggetti simbolo dell’orrore. Lo zoom delle immagini proposte non è stata più su donne bellissime tumefatte ma sulle gravi conseguenze della bassezza umana. I carnefici veri, portati via in manette, hanno sfilato davanti all’obiettivo dei tanti fotoreporter. Un modo per creare un’identificazione negativa. Una sorta di “sfogatoio” da me progettato, all’interno del quale è esposta l’opera della spagnola Gema Rupérez, 1036 fazzoletti in cellulosa che rappresentano le 1036 donne uccise in Italia negli ultimi 8 anni, e dove tutti i visitatori hanno potuto portare un oggetto simbolicamente liberatorio rispetto alle violenze che ognuno ha subìto nel proprio quotidiano e prendere in cambio un pezzo dell’opera. Il mio lavoro di gallerista parte dal semplice gesto della cura, sono interessata ad una forma d’arte che possa tramandare, attraverso tecniche di ricerca differenti, il sapere delle donne. Le donne che conservano ogni cosa, che riempiono armadi, che custodiscono oggetti e anche emozioni. Ma soprattutto, che si prendono cura. Questa cura, di cui è sempre più carente la società contemporanea, è il motore profondo dei progetti a cui lavoro. La galleria Numen si prepara ad inaugurare nei prossimi mesi un nuovo spazio espositivo che sarà anche sede di progetti di residenze di artisti che saranno ospitati a Benevento durante la realizzazione di un’opera legata al territorio. Nata come progetto di galleria diffusa si situa nel cuore del centro storico della città di Benevento, dirimpetto alla chiesa di Santa Sofia, patrimonio dell’UNESCO, chiesa che, pare, sorga sui resti di un tempio dedicato alla dea Iside, ancora fortemente il femminile che predomina! Da sinistra: Giuliana Ippolito davanti all’opera di Filippo Mastrocinque ENRICO, 2013. Illustrazione su forex, 100x100 cm. Progetto Divieto di Affissione. Un particolare dell’installazione ESQUAMOSE di Gema Rupérez per “I miserabili” al museo Madre, Napoli. Per entrambe courtesy Giuliana Ippolito.
SHOWCASE
KENSUKE KOIKE | a cura di Pasquale De Sensi
SINGLE IMAGE PROCESSING di Kensuke Koike
S
e ho molti ingredienti nel mio frigorifero, posso cucinare tutto quello che voglio. Ma non sempre tutti gli ingredienti potranno essere utilizzati. Se invece ho soltanto delle carote, dovrò cucinarle nel miglior modo possibile; tritarle, grattugiarle, arrostirle, bollirle, friggerle, essiccarle, ecc. Con molti ingredienti a disposizione non avrei probabilmente mai scoperto che la carota può essere un ingrediente così delizioso. Da destra in senso antiorario: CREVICE, 2012. Foto vintage modificata, 13,5x8,5 cm. SPECIAL UNIT MAMA (Matteo the Invisible Big Arm Antonio Marco the Invisible), 2013. Foto vintage danneggiata, 11,5x8 cm. AGENT, 2013. Foto vintage modificata, 14,5x10 cm. Per tutte courtesy dell’artista.
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SMALL TALK
ATTITUDINI CONTEMPORANEE Fabio De Chirico
- Loredana Barillaro contemporanea, volto soprattutto al futuro; l’utilizzo delle tecnologie e degli strumenti multimediali va certo in questa direzione. Ho voluto che ci fosse un riconoscimento attraverso un decreto ministeriale a garanzia che le collezioni non potranno essere smantellate in base alla volontà del singolo soggetto che prenderà il mio posto. Al mio arrivo in Calabria avevo dichiarato che fra i miei obbiettivi vi era quello di realizzare iniziative ed eventi che non fossero effimeri, ma che lasciassero alla regione quanto si stava realizzando, affinché la Galleria Nazionale “fosse” per la Calabria, e non magari una mera occasione per fare carriera oppure per raggiungere scopi personalistici, ho sempre ragionato in termini di utilità e servizio al territorio. LB/ Ora me lo puoi dire, secondo te chi fra gli artisti che operano in Calabria ha davvero qualcosa da raccontare e può definirsi veramente tale? FDC/ Mi vengono in mente Alessandro Fonte e Shawnette Poe che sono sicuramente interessanti, Sebastiano Dammone Sessa, Domenico Cordì, {movimentomilc}, solo per citarne alcuni. Il vero problema è che molti artisti spesso sono restii ad uscire fuori per avvicinarsi a circuiti internazionali. E certo l’assenza di progettualità in ambito regionale li porta a muoversi a livello localistico. Lo scorso anno, ad esempio, mi fu chiesto dalla Fondazione Orestiadi di Gibellina di creare una sezione di artisti calabresi. Dietro alla volontà di rimanere, di affermarsi nella propria terra, si nasconde probabilmente la paura di rischiare e di mettersi in discussione; al contempo l’idea di dover cercare visibilità a tutti i costi può condurre a fare delle scelte espositive discutibili. Anche il pensare di dover essere per forza originali penso nasca proprio da una mancanza di confronto con quanto accade fuori.
Loredana Barillaro/ Hai appena concluso il tuo incarico come Soprintendente della Calabria, come definiresti gli anni di lavoro a Cosenza? Fabio De Chirico/ L’esperienza in Calabria è stata interessante e molto fervida poiché ho potuto verificare come ci sia, in questa regione, una propositività e un fermento attorno ad una certa produzione dell’arte contemporanea estremamente interessante ma poco conosciuta altrove e che non passa per i canali ufficiali. Un fermento che non ho trovato in altre regioni, ad esempio in Umbria, una realtà che conosco bene, dove non vedo una produzione artistica giovanile, intendendo con ciò artisti poco noti, e questo probabilmente perché ha una struttura organizzativa che predilige artisti già affermati o mostre di maggior rilievo in quanto molto passa per i canali istituzionali e si cerca di promuovere iniziative che abbiano un appeal già consolidato. In Calabria invece ho trovato un territorio molto stimolante e non solo nelle arti visive, ma anche nel teatro o nella musica, forse proprio perché manca una struttura istituzionale. Nella mia esperienza ho cercato di promuovere artisti giovani, poco conosciuti, e non solo calabresi, penso ad esempio a Cosimo Terlizzi, Jolanda Spagno e altri. Interpreto il mio ruolo non solo in termini di tutela e conservazione - che è comunque la parte centrale del mio lavoro - ma anche di valorizzazione e promozione, poiché penso sempre a quanto dobbiamo lasciare alle future generazioni, e non parlo solo dell’arte del passato, che tuteliamo, ma anche di quella del presente. Questa è la mia filosofia ma dovrebbe essere la filosofia di tutto il sistema culturale italiano. In tal senso il Ministro Franceschini si è detto favorevole a sostenere e rilanciare il contemporaneo e questo mi fa ben sperare perché vuol dire che si guarda sì al passato ma con una prospettiva rivolta al futuro partendo dal presente. LB/ La tua fede contemporaneista ti ha portato ad intrecciare la collezione della Galleria Nazionale all’arte contemporanea, fede peraltro rintracciabile anche nel suo allestimento dal carattere minimale. Ti auspichi pertanto che il tuo successore prosegua questo percorso?
Un dettaglio della mostra di Cesare Berlingeri alla Galleria Nazionale di Cosenza. In alto Fabio De Chirico. Courtesy Galleria Nazionale di Cosenza e Fabio De Chirico.
FDC/ Penso di si, l’allestimento certamente racconta una visone delle collezioni filtrata attraverso il sistema della comunicazione 12
SMALL TALK
GEOMETRIE DEL QUOTIDIANO Jacopo Prina
- Gregorio Raspa
GR/ In passato hai realizzato anche delle sculture. Mi parli, ad esempio, di N.40 ? JP/ N.40 è un’opera in pietra da me scolpita e successivamente colorata con acrilici. È come un nucleo di libertà circoscritta entro rigidi parametri. Vuole esprimere qualcosa che si avverte nella società: il controllo, l’esistenza di un ambiente geometrico che regola, limita, comprime esigenze espressive, ma anche desideri e bisogni. GR/ Alterni, con disinvoltura, tecniche digitali, fotografia, collage, pittura e scultura. In arte, il fine giustifica i mezzi? JP/ Non mi interessano le tecniche sperimentali, né sono alla ricerca di nuovi strumenti. Per ottenere il risultato che desidero scelgo, di volta in volta, lo strumento che ritengo più adatto. GR/ Cosa stai preparando per il futuro? JP/ Ora lavoro ritagli, creo composizioni con parti di carte e stoffe colorate che riproduco con l’uso della fotografia. In questo caso il lavoro scorre più velocemente, l’idea si concretizza sotto i miei occhi. Con questo metodo posso modificare la composizione seguendo ragione e istinto. Gregorio Raspa/ Jacopo, mi parli del tuo processo creativo? Jacopo Prina/ Il mio lavoro si sviluppa attraverso un particolare sistema di ricerca: estrapolo e combino elementi visivi tratti dallo spazio pubblico o da quello domestico. Mi stimolano i colori, le texture e le superfici che vedo intorno a me, che incrocio nel mio viaggio quotidiano. Le osservo sempre come elementi indipendenti dal volume su cui sono poste; ne seguo soprattutto le geometrie che, nel contesto urbano, risultano come limitate, irrigidite entro i confini che le ordinano. Tento di estrapolarle acquisendone solo l’aspetto estetico, separandole dall’oggetto a cui sono associate. GR/ Utilizzi immagini inconsciamente archiviate nella memoria collettiva - potenzialmente in grado di attivare un processo emozionale - combinandole in mosaici asettici, volutamente anonimi. Nel tuo lavoro conta più la deduzione razionalistica o l’induzione percettiva? JP/ Mi affido esclusivamente alla percezione visiva e a ciò che rimane impresso nella mia memoria. Seguo l’istinto, l’intuizione. Nella costruzione dei miei lavori evito ragionamenti preventivi. GR/ Concettualmente asciutto e graficamente rigoroso, il tuo lavoro sembra coniugare elementi propri di una cultura estetica interdisciplinare che cita Mondrian e Gnoli, guarda con interesse al design di Noorda e alla grafica dei primi videogame Namco. Quali sono i tuoi punti di riferimento? JP/ Guardo con interesse al linguaggio astratto in generale. Gli stimoli sono molteplici. Alle fonti citate aggiungerei le carte di Chillida, le “gouaches découpées” di Matisse, i lavori di Rothko, Capogrossi, Marca-Relli, Christo, Bacon e Giacomelli. GR/ Da Pop Scratch (2005) a Maps (2013) la logica progettuale dell’opera è rimasta inalterata. Negli anni, però, è cambiata la tua prospettiva di osservazione del mondo divenuta sempre più ampia, distante e “complessiva”. Come mai? JP/ È stato un processo graduale e naturale. Sono partito dall’osservazione di una realtà presente a poche spanne dai miei occhi fino a ricorrere all’utilizzo delle immagini satellitari della Terra archiviate su Google. 13
Da sinistra in senso orario: N. 40, 2002. Acrilico su pietra, 27x27x27 cm. AREA 9, 2013. Acrilico su tela, 240x360 cm. US 11, 2005. Stampa digitale, 90x120 cm. Per tutte courtesy dell’artista.
SMALL TALK
VISIONI DI MASSA David De Biasio
- Loredana Barillaro al minimalismo delle cromie fornisce al design delle tue “bottiglie” un che di sublime… DDB/ La serie No Logo, a mio avviso non poteva che essere dipinta in quel modo, proprio per accentuare quel senso di asetticità che le aziende, tramite il linguaggio pubblicitario, trasmettono concentrando le loro forze non più sulla qualità del prodotto bensì su una serie di “valori” immateriali e ideali da trasmettere al consumatore per convincerlo all’acquisto. Il tutto era pensato per enfatizzare l’importanza del packaging, l’imballaggio primario studiato per sedurre il consumatore, e la sua ossessiva pubblicizzazione, tanto da farci riconoscere l’oggetto stesso seppur privato di qualsiasi riferimento commerciale e trasformandolo in una sorta di “feticcio di massa”. LB/ Attraverso il colore è come se tu volessi coprire con una nuova coltre la quotidianità di ciascuno, mi riferisco alla serie Dripping Memory Series… DDB/ In realtà inizialmente voleva essere una critica alla scelta che molti produttori (di cibo in particolare) oggi hanno attuato nella ricerca e nella modifica (genetica) di un prodotto sempre più bello a vedersi (e più resistente alle intemperie) ma allo stesso tempo sempre più insipido. La colata di vernice, quindi, rappresenta il tempo che modifica la memoria di quel prodotto.
Loredana Barillaro/ In un’epoca in cui la pittura viene spesso tacciata di anacronismo, da dove deriva il tuo “bisogno” di iperrealismo?
LB/ Quanto potresti definirti “morandiano” nella trattazione della natura morta? DDB/Sicuramente do molta importanza alla costruzione compositiva delle mie nature morte, ogni singolo oggetto nella composizione deve trovare la sua giusta collocazione, ci deve essere una sorta di dialogo (cromatico e volumetrico) tra tutti gli elementi presenti. In questa accezione posso ritenermi sicuramente “morandiano”.
David De Biasio/ Personalmente guardo all’estero e vedo che i più importanti artisti internazionali contemporanei sono quasi tutti pittori, da Neo Rauch a Gerhard Richter, da Jeff Koons a Murakami, da Zhang Xiaogang a Yan Pei Ming solo per citarne alcuni, pertanto non ritengo assolutamente la pittura anacronistica. Per quanto riguarda invece la mia pittura “iperrealista” è una necessità che deriva più che altro dal “significato estetico” che voglio dare all’opera.
Dall’alto: #92 NO LOGO, 2011. Olio su lino, 60x60 cm. #114 DRIPPING MEMORY SERIES, 2013. Olio su lino, 150x80 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
LB/ Nei lavori che formano No Logo la purezza delle linee unita
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SMALL TALK
L’EQUILIBRIO DEI SENSI Vanni Cuoghi
- Luca Cofone
Luca Cofone/ Fiaba, storia, riferimenti letterari, sembra esserci un po’ di tutto nel tuo lavoro. Quali sono dunque le tue “fonti”? Vanni Cuoghi/ Nel mio lavoro c’è una forte componente narrativa. Uso la storia, la fiaba, ma anche i discorsi sentiti sul metrò; tutto mi racconta storie bellissime e fantastiche in cui la contemporaneità può specchiarsi senza farsi troppo male. LC/ La raffinatezza nel fare assieme alla componente colta fanno di te un artista “perbene”. Cosa celano in realtà le tue opere, rassicuranti all’apparenza ma che sembrano velare in effetti una certa ambiguità? VC/ Cosa vuol dire un artista “perbene”? Non capisco… vuoi forse dire politically correct? Non c’è un bene o un male in arte. Io collego insieme delle parti: narrazione, disegno, pittura, concetti, oggetti, ecc. L’opera si mostra al pubblico che carica di significati ulteriori il mio lavoro, lo rimodella a suo uso e consumo e si arricchisce di una nuova luce. Credo che un’opera “funzioni” quando suscita, in chi guarda, sentimenti discordanti o multipli. Ecco perché i miei personaggi hanno tutti gli occhi chiusi: privando loro di un’espressione faccio sì che l’osservatore attribuisca il proprio stato d’animo e dia significato al lavoro. LC/ Mi interessa particolarmente il tuo progetto più recente: l’incontro fra arte e cucina, in cui personaggi in stile barocco fluttuano in allegri banchetti, me ne parli? VC/ Il progetto, nato insieme al gallerista Nicola Pedana di Caserta e allo chef Francesco Sposito della Taverna Estia a Brusciano, voleva mettere in contatto due mondi: quello della Cucina e quello dell’Arte. Questi due universi, in apparenza distanti, hanno in comune un modus operandi simile all’Alchimia, trasformano materiali “umili” in materiali “nobili” attraverso lo studio della tradizione e della storia. Francesco mi raccontava storie bellissime sul modo di conservare anticamente i pomodori o i peperoni, oppure di come aveva avuto l’idea di realizzare un piatto, così dalle sue ricette e dai suoi racconti, sono nati i miei lavori. Per la prima volta anche io ho preparato gli ingredienti (le figure) a parte e le ho impiattate successivamente, proprio come fa uno chef. Ho dosato i colori e ho eliminato gli eccessi cercando un equilibrio visivo proprio come si fa prima di servire un piatto o mentre si apparecchia una tavola per un banchetto.
Dall’alto: IL PRINCIPE HA RISO (Risotto al limone con crudo di gamberi e vongole veraci), 2014. Acqurello e china su carta, 70x70cm. LO STESSO PENSIERO, 2014. Acrilico e olio su tela, 80x80 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
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L’ASSESSORATO ALLA CULTURA PER L’ARTE CONTEMPORANEA
E N Z O
B R U N O R I
A N T O N I O
O L I V A