APRILE MAGGIO GIUGNO 2014
Magazine di arte contemporanea / Anno III N. 10 / Trimestrale free press
SMALL ZINE
Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut: 170/ CBPA-SUD/CS
ISSN 2283-9771
RICCARDO BONFADINI
Silvia Mei - Michela Moro - Riccardo Bonfadini Fabio Marullo - Nicola Rotiroti - Anna Di Prospero - Angela Pellicanò - Level/Fartchitectures - Super Kingdom Contemporaneo no profit
E C C O D O V E TROVARE S M A L L Z I N E
ACRI (Cs) LES LOLITAS, Via Padula, 136 - STYLE TENDA/ARTICOLI PER BELLE ARTI, Via Luigi Einaudi, 4 BARCELLONA POZZO DI GOTTO (Me) CANTIERE DEL SEME D’ARANCIA, Piazza Vecchia Stazione BARI ARTcore Contemporary Gallery, Via De Rossi, 94 BENEVENTO NUMEN ARTI CONTEMPORANEE, Vico Noce, 20_22_33 BOLOGNA: GALLERIA FARINI, Via Farini 26/D CATANIA FONDAZIONE BRODBECK, Via Gramignani, 93 CATANZARO ACCADEMIA DI BELLE ARTI, Via Tommaso Campanella, 182 - LIBRERIA L’ISOLA DEL TESORO, Via Francesco Crispi, 7 - MUSEO MARCA,Via Alessandro Turco, 63 COSENZA ELLEBI GALLERIA D’ARTE, Via R. Misasi, 99 - LIBRERIA UBIQ, Via Galliano, 4 - CAFFÈ LETTERARIO CITTÀ DI COSENZA, Piazza Matteotti - TARRAIN VAGUE, Via Arabia, 31 - LA CENTRALE DELL’ARTE, Via Monte Grappa, 34 FIRENZE CENTRO DI CULTURA CONTEMPORANEA STROZZINA, PALAZZO STROZZI - IL GENIO ITALIANO,Viale Guidoni, 168 - POGGIALI E FORCONI, Via della Scala, 35 GIOIA TAURO (RC) THE STUDIO, Via Rimembranze, 41 LAMEZIA TERME (Cz) CRAC Centro di Ricerca per le Arti Contemporanee, Via Piersanti Mattarella, 11 - GALLERIA QUADRATURE FORMEDARTE,Via Garibaldi, 20 MATERA FONDAZIONE SOUTHERITAGE per l’arte contemporanea, Piazza Duomo - L.go Castelvecchio, 2 MILANO THE FORMAT CONTEMPORARY CULTURE GALLERY, Via Giovanni Enrico Pestalozzi 10, Interno 32 - VIAFARINI DOCVA LA FABBRICA DEL VAPORE Via Procaccini, 4 NOVARA ART ACTION C/O FONDAZIONE NOVARA SVILUPPO, Via Bovio, 6 PALERMO FRANCESCO PANTALEONE ARTE CONTEMPORANEA, Via Garraffello, 25 PISTOIA STUDIO 38 CONTEMPORARY ART GALLERY, C.so G. Amendola, 38E REGGIO CALABRIA GALLERIA TECHNÈ CONTEMPORARY ART, Via dei Correttori RENDE (Cs) EDISON BOOKSTORE, Ponte P. Bucci 24/b Università della Calabria - MUSEO DEL PRESENTE, Piazza Kennedy, Area Metropolis ROMA FONDAZIONE PASTIFICIO CERERE, Via Degli Ausoni, 7 - Let'sArt LIBRERIA D'ARTE/CAFFETTERIA, Via del Pellegrino, 132 SASSARI L.E.M. Laboratorio Estetica Moderna, Via Napoli, 8 TORINO FONDAZIONE MERZ, Via Limone, 24 - FONDAZIONE SANDRETTO RE REBAUDENGO, Via Modane, 16 TREBISACCE (Cs) LIBRERIA MARABÙ COCCÒ, Via A. Lutri, 120 VENEZIA FONDAZIONE BEVILACQUA LA MASA, Palazzetto Tito, Dorsoduro, 2826 I punti di distribuzione sono in continuo aggiornamento, consulta il sito www.smallzine.it
TALENT TALENT
UN INSOLITO GIOCO DI PAROLE Riccardo Bonfadini
- Loredana Barillaro
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l lavoro di Riccardo Bonfadini è fatto di un continuo gioco di rimandi fra l’apparenza fisica delle cose e l’appellativo che egli assegna loro e che diviene, a tutti gli effetti, un “testo descrittivo”. È nel racconto infatti che si compie la fruizione, com’è nell’idea che nasce e si evolve l’opera. Quasi una semplice operazione matematica dunque, se all’oggetto-immagine sommiamo una componente testuale otterremo di sicuro una singolare narrazione. Tracciare una storia a sé, e in ognuna scoprire quasi un micro-mondo in cui riconoscere, con il sorriso, il nostro quotidiano. Attraverso un gioco di parole l’opera d’arte prende forma, e l’azione si svolge, per così dire, a partire dal titolo, in cui tutto si dilata senza staticità alcuna. Per meglio comprendere: se ad una siringa aggiungiamo un omino con le valige nasce Vacanze sull’Ago. Per cui dall’incontro di due elementi, ne nasce un terzo, nuovo, inaspettato. La parte testuale acquista un significato diverso quando la si pronuncia. Come dire, si legge in un modo e si pensa in un altro. Un fare a tratti pop, a tratti concettuale è ciò che caratterizza un mondo fatto di oggetti che l’artista scopre nel suo girovagare laddove la sua curiosità lo conduce a recuperare quanto è appartenuto alle nostre abitudini quotidiane, per il semplice fatto di averlo utilizzato e metabolizzato. Ad esempio nei lavori che appartengono al ciclo Urban Fossil, in cui a banali sacchetti di plastica che giornalmente vengono usati e “digeriti” l’artista fornisce una seconda possibilità di esistenza, nobilitandoli ad opera d’arte. Ecco, non occorre andare lontano per rintracciare l’essenza del lavoro di Riccardo Bonfadini; scovare l’oggetto, metterlo da parte per poi sviluppare su di esso, e a partire da esso, un’idea, un progetto. Le piccole comunità di uomini e donne che vivono nei suoi lavori fanno sì che tutto cambi, rinasca, che non finisca, che riprenda a percorrere un nuovo ciclo vitale, un rinnovato percorso in avanti. È tutto molto semplice, minimale, l’artista non aggiunge se non il minimo essenziale affinché una nuova storia possa compiersi, raccontandosi, per narrare ogni volta un pezzo di storia collettiva, riportando lo spettatore a rimembrare, ad andare a ritroso verso ciò che abbiamo fatto, visto o consumato.
Dall’alto: LIMONATA, 2013. Installazione, 9x7 cm. SPARARE AD ALTEZZA UOVO, 2014. Installazione, 15x14x16 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
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INTERVIEWS
LA GALLERIA DEL FANTASTICO Fabio Marullo
- Gregorio Raspa
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“D
ipingere, senza dietrologia, significa non giustificarsi, significa agire e fare contemporaneamente, significa ossigeno per i polmoni e luce per gli occhi.” Gregorio Raspa/ Il tuo viaggio in Cina, l’incontro con l’Himalaya, la visione di un paesaggio, la scoperta casuale di un vecchio libro. So che dietro a molte delle tue opere si celano simili episodi di carattere autobiografico. Più in generale, vorrei che tu mi parlassi della genesi del tuo lavoro...
iccole finestre aperte su mondi lontani, tracce lievi di un pensiero che oscilla tra l’allucinazione e il sogno. Silenziose trasfigurazioni di una realtà invisibile agli occhi. Si presentano così i dipinti di Fabio Marullo, artista siciliano - oggi di casa a Milano - che da anni porta avanti una ricerca pittorica fatta di esplicite citazioni colte ed eleganti atmosfere zen. Una pittura che, dietro alla sua semplicità compositiva, nasconde lo spessore e la drammaticità propri di una cultura di matrice storica. Le opere di Marullo, infatti, sono il frutto di una strategia estetica che ha metabolizzato la lezione del Rinascimento e del Barocco, che ha appreso il linguaggio del Surrealismo e dell’Espressionismo, e che guarda alla contemporaneità da una prospettiva intima e personale. È così che, nel caso di Marullo, la pittura diventa quasi un esercizio di meditazione, un’operazione di attraversamento dell’Io e di messa in discussione delle sue capacità sensoriali. Un mezzo come un altro per dare sfogo ad un solipsismo narrativo che utilizza la meraviglia come veicolo di verità.
sguardi allargati o dettagli narrativi non necessariamente di senso compiuto. È come stare in un flusso continuo delle cose, ove è garantito un equilibrio omeostatico. Le storie narrate invitano lo spettatore a ritrovarsi, a stare dentro, nell’attesa che qualcosa possa subire un cambiamento, un’interpretazione la cui origine dipenderà molto dalle nostre abitudini di pensiero. Accade che chi le guarda le vede alle volte con occhi nuovi. Ciò mi stupisce sempre molto, poiché la relazione opera-pubblico segue le regole di un rituale magico inaspettato, quasi meraviglioso.
Fabio Marullo/ L’origine e le ragioni del mio lavoro sono rintracciabili in un paesaggio costruito su convinzioni, visioni o analisi che la mia formazione e la mia percezione cognitiva riescono ad intercettare non solo dentro di me, ma al di là del mio essere. Compaiono nella mia mente un istante prima che il mio lavoro nel presente diventi futuro. Con la pittura riesco a centrare una verità, una realtà, consapevole che della stessa, come diceva Cartesio, possiamo avere un giudizio soggettivo, falsato, perché personale e frutto della nostra esperienza. Questo paesaggio, luogo pregno di senso e di carattere personale, è la mia galleria del fantastico da cui partire per tradurre in immagini il tempo della mia ricerca.
GR/ Impegnati in attività insolite, privi di volto e immersi in un paesaggio che sembra risucchiarli. Quale umanità raccontano i personaggi ritratti nei tuoi quadri? FM/ L’aspetto delle cose che si presentano ai nostri occhi nella nostra vita non è sempre reale, autentico. Lo scontro con ciò che pensiamo di conoscere e ciò che non conosciamo provoca in noi disorientamento. I lavori dipinti rispondono ad un insieme di frammenti, di una storia o più storie possibili, né individuali né universali, paesaggi in bilico tra realtà ed illusione, in cui però il carattere umano rimane sempre molto presente.
GR/ I tuoi dipinti appaiono come frammenti di una realtà in continuo divenire. Sembrano custodire storie sospese e in attesa di soluzione. Ho quasi l’impressione che facciano tutti parte di un unico, infinito racconto. È realmente così o mi sbaglio?
GR/ In altri lavori, invece, poni al centro dell’opera degli oggetti isolati, il più delle volte dotati di un carattere ambiguo e misterioso. Mi vuoi parlare di queste opere?
FM/ La mia pittura si inserisce, come direbbe la psicologia moderna, in un sistema di circolarità retroattiva, fatta di 4
FM/ La Wunderkammer che rappresento nei miei lavori è struttura narrativa di senso simbolico, non accumulo.
FM/ I dipinti sopracitati appartengono a un ciclo di lavori in cui il soggetto o i soggetti che ritraggo sono volutamente isolati, descritti minuziosamente in quanto paragonabili ad esseri di alto valore simbolico, mnemonico, storico. La loro collocazione spazio-temporale richiede una prospettiva di relazionalità irreprensibile, lieve o atroce, come il mondo in fondo è.
GR/ Ciclicamente revisionata dalle avanguardie storiche, più volte dichiarata morta e sempre più spesso ritenuta anacronistica. Nonostante tutto la pittura continua a sopravvivere, anche se spesso mostra evidenti segni di “stanchezza”. A tuo parere, che senso ha, oggi, continuare a dipingere?
GR/ Mi incuriosiscono molto i titoli che attribuisci ai tuoi quadri. Sembrano quasi avere una storia autonoma rispetto all’opera...
FM/ Dipingere, senza dietrologia, significa non giustificarsi, significa agire e fare contemporaneamente, significa ossigeno per i polmoni e luce per gli occhi. Ho la netta sensazione che si voglia insistentemente etichettare anacronisticamente questo nobile strumento di indagine del sapere. Ciò avviene perché, in generale, quanto più si perde il controllo di qualcosa – specie se d’alto valore - tanto più si è ossessionati da esso. Tutto avviene senza un’oscillazione dialettica, ma con attacchi diretti e stragisti. Di qui, le contraddizioni o i dubbi cui essa dà luogo ogni volta che è evocata sulla scena contemporanea come medium ormai morto.
FM/ I titoli delle opere suggeriscono un’identità che completa il valore dei dipinti, in quanto appartenenti a frammenti, congiunzioni, altre immagini di opere letterarie e filosofiche scelte sempre con attenzione e con cura. Questi sono funzione strumentale al dipinto stesso, stabiliscono connessioni di lettura completa dell’opera. In linea generale, ciò è ritualmente sperimentato nella ricerca, anche se talune volte accade che i lavori pensati vivano separatamente, evocando, per mezzo della magia della pittura, pensieri autonomi, idee e concetti. Il desiderio rimane quello di creare mondi personali riferendomi al mondo collettivo, permettendo l’accesso al senso, a quell’interstizio che Gilles Deleuze chiamava “Piega”.
Da sinistra: UNTITLED, 2012. Olio su tela, 20x20 cm. THE WISDOM OF LIGHT, 2014. Inchiostro e olio su carta, 45,5x30,5 cm. CIÒ CHE È IN QUESTIONE È QUEL CHE GOVERNA, 2012. Olio su tela, 40x27 cm. Per tutte courtesy dell’artista.
GR/ Da qualche tempo lavori sul concetto di wunderkammer, un tema tornato di grande attualità e già posto da Massimiliano Gioni al centro dell’ultima Biennale. In cosa il tuo approccio di ricerca differisce rispetto agli altri contributi contemporanei sul tema? 5
INTERVIEWS
GUARDANDO ALTROVE Anna Di Prospero
- Luca Cofone
N
egli scatti di Anna Di Prospero il corpo umano è trattato mediante una carica emotiva molto forte capace di palesarsi in maniera netta anche nella ricerca sui luoghi, sulle forme architettoniche. Scenari in cui il corpo e lo spazio si “muovono” in un fare quasi simbiotico...
Luca Cofone/ Dimmi Anna, quando hai capito che la fotografia sarebbe diventata la tua “dimensione ideale”?
architettoniche. Con ognuna di queste ho esplorato il concetto di corpo, spazio e interazione.
Anna Di Prospero/ Ho iniziato a fotografare a quindici anni quando, per gioco, ho partecipato a un concorso rivolto agli studenti liceali della mia città. Mi è stato assegnato un premio e ho frequentato un corso sulla fotografia analogica. Ho lasciato poi gli studi di fotografia per dedicarmi a quelli di pittura e ho ripreso a fotografare solamente a diciannove anni quando ho scoperto il sito di condivisione fotografica Flickr. Il sito è stato di grande ispirazione per il mio lavoro e da allora non ho più abbandonato la macchina fotografica. Ho capito che la fotografia sarebbe diventata la mia dimensione ideale quando sono entrata a far parte del Reflexions Masterclass, un seminario sulla fotografia contemporanea curato da Giorgia Fiorio e Gabriel Bauret. È proprio qui che ho iniziato a considerare la fotografia il mio lavoro. Ero consapevole che quello che stavo intraprendendo sarebbe stato un percorso lungo e complesso, ma ho sentito che non potevo più tirarmi indietro.
LC/ Il coinvolgimento emotivo appare molto forte, anche in virtù della partecipazione delle parsone a te care nei tuoi progetti… ADP/ Contemporaneamente alla ricerca legata al luogo è nato un altro progetto chiamato With You basato sullo studio delle relazioni tra me e le persone che mi circondano. Ho iniziato questa ricerca con una prima serie di autoritratti con la mia famiglia spinta dal desiderio di sviluppare un’indagine sui miei legami più intimi. In ogni immagine ho analizzato il rapporto familiare lasciando che si trasformasse in fonte ispiratrice. La parte più importante di questo lavoro è stato per me il coinvolgimento ottenuto durante gli scatti, grazie al quale ho scoperto aspetti sconosciuti dei miei familiari. In seguito ho proseguito il progetto con una mini serie di autoritratti con i miei migliori amici, per poi fare un salto nel buio e iniziare una serie con gli sconosciuti. Self-portrait with Strangers è il terzo capitolo del progetto With You. In questa serie, ho affrontato il tema dello sconosciuto fotografandomi con persone a me estranee. Gli sconosciuti sono talvolta persone vicine a me, con le quali ho in comune dei legami affettivi ma che non avevo mai avuto modo di conoscere. Questo progetto ne è stato il pretesto. Ogni immagine è stata progettata con la persona fotografata. Nella fase iniziale del progetto, agli sconosciuti è stata consegnata un’usa e getta per fotografare oggetti e luoghi a loro cari. Successivamente abbiamo visionato le immagini e deciso insieme dove e quando realizzare la foto. La fase di progettazione è stata il momento principale per entrare in contatto con queste persone e cogliere aspetti delle loro personalità che in ogni scatto ho cercato di mettere in risalto, per far sì che anche chi osserva le foto possa conoscere un po’ di loro. Il progetto è quindi concepito come un percorso di conoscenza delle persone, e la foto ne rappresenta la manifestazione finale.
LC/ Ciò che sembra caratterizzare i tuoi scatti è un’evidente purezza dei luoghi in cui il corpo e lo spazio paiono equilibrarsi perfettamente, direi quasi fino ad apparire “simmetrici”… ADP/ La ricerca dello spazio perfetto è una costante nel mio lavoro. Non è una ricerca volta solo al raggiungimento di un’armonia estetica ma soprattutto emotiva. Il mio primo lavoro legato al luogo è stato Self-portrait at Home, una serie iniziata nel 2007 e durata tre anni, composta da soli autoritratti realizzati nella mia casa dove mi ero appena trasferita. Questo lavoro mi ha aiutato a creare una relazione con questo spazio, allora sconosciuto, e a farmi sentire parte di esso. Il progetto è poi proseguito nella mia città e in seguito in varie metropoli, dove è nata la serie Urban Self-portrait. Alla base di questa serie c’è stato un lungo studio sulle architetture contemporanee. Sono sempre stata affascinata dalle architetture contemporanee perché sono simboli del nostro presente e il mio intento era proprio quello di confrontarmi e riconoscermi in questo presente, il mio. Ho viaggiato per l’Europa e gli Stati Uniti alla ricerca delle ultime importanti opere
Dall’alto in senso orario: SELF-PORTRAIT WITH DANIELA, 2011. UNTITLED (FROM THE SERIES SELF-PORTRAIT AT HOME), 2008. SELF-PORTRAIT WITH MY MOTHER, 2011. Per tutte courtesy dell’artista.
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SPECIAL
CONTEMPORANEO NO PROFIT Loredana Barillaro
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embra proprio che contemporaneo e no profit vadano di pari passo. È sempre più frequente che spazi dediti ai linguaggi del contemporaneo si stacchino dalle logiche di mercato attorno a cui spesso gravita il “patinato” mondo dell’arte. Ma il fare “disinteressato” non è certo sinonimo di mancanza di qualità, anzi la libertà d’azione che sta alle base di queste iniziative presuppone un livello qualitativo dell’offerta certamente alto. Dunque la mancanza di fondi può non essere un problema e il lato “economico” pare collocarsi in secondo piano. E allora, qual è la filosofia che vi sta alla base, che cosa spinge ad aprire oggi uno spazio no profit e quali sono le strategie per reperire i fondi? Fra Calabria e Sicilia ecco come hanno risposto...
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a relazione nell’arte è alla base del nostro lavoro. Siamo degli artisti che amano definirsi freelance. Proveniamo da esperienze d’arte relazionale che hanno avuto il culmine con l’invito di “Oreste” al Padiglione Italia della 48° edizione della Biennale di Venezia curata da Harald Szeemann. Un’esperienza importante che ci ha rafforzato pur rimanendo, per nostra scelta, a lavorare in periferia. Le rassegne “ospiti: metafora di una profezia” hanno dato la possibilità alle nuove generazioni di artisti di riscoprire e di riappropriarsi del senso della marginalità come punto di forza. Aprire uno spazio di arte contemporanea in una “sperduta” periferia di provincia rappresenta una sfida. È un modo per sentirsi vivi offrendo la nostra esperienza e tutti gli strumenti necessari al servizio dei giovani per uno sviluppo sostenibile della cultura visiva. Non siamo nuovi a questo tipo di avventura. Nel corso degli anni abbiamo raccolto la stima di importanti artisti tout court della scena contemporanea. Cesare Pietroiusti, Bruna Esposito, Josephine Sassu, Stefano Arienti, Sabrina Mezzaqui, Eva Marisaldi, Giulia Caira, Gea Casolaro, Francesco Impellizzeri, Matilde Domestico, Paola Gandini, Liliana Moro, Isabella Puliafito, Radio Rebelde e, in ultimo, Alfredo Anfossi si sono spinti e confrontati, in modo del tutto disinteressato, con la nostra marginale ma non emarginata periferia. Da sottolineare la visita (1998) nella nostra residenza di Carolyn Christov Bakargiev. Abbiamo inaugurato lo spazio con la rassegna “Primevisioni”. Alfredo Anfossi, giovane promessa della ricerca fotografica, ha fatto da apripista. Seguiranno altre giovani proposte lungo il biennio 2014/2015. In cantiere: “amici miei...!” un omaggio a tutti gli artisti che hanno accompagnato e condiviso il nostro percorso e “bed room”, ovvero ospitare e far dormire gli artisti nella galleriastanza da letto circondati dalle loro opere. Chroma Arte Contemporanea è del tutto indipendente e continua a sognare ad occhi aperti. È questa la vera strategia. Rimanere liberi da contributi per non subire ricatti nelle scelte e nell’elaborazione dei progetti. lucidOpaco è uno spazio attiguo ad una residenza per artisti preesistente. Nelle selezioni ed inviti vengono messe subito in chiaro quali sono le nostre offerte. Siamo in grado di fornire vitto e alloggio per il periodo necessario alle installazioni, alle inaugurazioni e a possibili permanenze prolungate per la produzione di lavori artistici. La trasparenza, la lungimiranza e la coerenza sono alla base delle nostre proposte e della nostra attività. Alfredo Granata - CHROMA ARTE CONTEMPORANEA e LUCIDOPACO, Celico (Cs)
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l Cantiere del Seme d’Arancia siamo convinti che oggi uno spazio culturale debba favorire prima di tutto la partecipazione della collettività su cui insiste e che debba farlo a partire dai temi che le stanno più a cuore. Il Seme d’Arancia donato da Emilio Isgrò è simbolo di rinascita e da questo dobbiamo ripartire anche per cercare di riflettere sulla crisi della contemporaneità che prima di tutto è carenza di partecipazione, etica e rispetto delle persone. Abbiamo così trasformato un appuntamento tecnico, come può essere un cantiere di restauro, in un’occasione pubblica con cui andare proprio a risemantizzare nel modo più aperto possibile i suoi significati. Facciamo questo attraverso un’azione di educazione rivolta a tutti ma, in particolar modo, alle scuole primarie a cui offriamo un’esperienza diretta nel cantiere. Attualmente, proprio per questo scopo di crescita sociale, i finanziamenti arrivano dalla Fondazione di Comunità di Messina che ha favorito questo tipo di percorso proprio per promuovere sviluppo. Al termine del restauro valuteremo l’esperienza fatta e come andare avanti, sebbene un bel po’ di idee non ci manchino nemmeno ora e tra queste alcune anche sui finanziamenti che dovranno continuare a essere un investimento di crescita per tutta Barcellona Pozzo di Gotto. Marco Bazzini - CANTIERE DEL SEME D’ARANCIA, Barcellona Pozzo di Gotto (Me) 8
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a Centrale dell’Arte dal 2004, anno della sua fondazione, mette al centro del suo viaggio una gran fame di conoscenza verso tutte le espressioni e i movimenti d’arte contemporanea. “L’arte ci prende per mano” così si esprimeva l’artista Maria Lai (Ulassai, 27 settembre 1919 – Cardedu, 16 aprile 2013) per descrivere la funzione dell’arte. Questa frase è il nostro leitmotiv, l’arte come strumento per leggere la storia, il presente e il futuro della società. Con il nostro piccolo contributo tentiamo di ridare all’arte una funzione sociale, educativa. Il nostro spazio è un laboratorio aperto, ovvero un luogo dove si sviluppano e si promuovono progetti d’arte e di architettura. L’arte è il nostro lavoro quotidiano non solo una passione. Pertanto confrontarsi continuamente con chi produce e diffonde arte è, per noi, fondamentale. In tempi di emergenza economica, come quelli che viviamo oggi, crediamo sia ancora più importante dare forma e vita a luoghi dedicati all’arte e alla creatività, elementi che riteniamo indispensabili alla crescita civile. In questi dieci anni La Centrale dell’Arte ha sviluppato e creato una serie di iniziative mirate alla produzione e alla diffusione dell’arte contemporanea, come artists meeting, mostre, workshop, allestimenti e seminari vari. In questo momento stiamo lavorando ad un progetto di cooperazione internazionale con un collettivo di artisti tedeschi, il PPZK di Lipsia e altri partner locali. Il foundraising è una attività che stiamo affinando con il tempo, spesso ricorriamo a sponsorizzazioni e patrocini di enti pubblici e privati, molte delle risorse provengono dall’autofinanziamento. A partire da quest’anno stiamo sviluppando modalità di finanziamento tramite produzioni dal basso, la prima piattaforma italiana di crowdfunding, mettendo in vendita gadget, oggetti d’arredo e opere d’arte prodotti da noi e dagli artisti che ruotano intorno alla nostra esperienza. Francesco De Rose - LA CENTRALE DELL’ARTE, Cosenza
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l centro di fotografia L’impronta | culture fotografiche ha sede in Calabria, al n° 3/d a Cosenza. Esso intende promuovere l’attività di conoscenza e formazione, approfondimento e riflessione, fruizione e produzione inerenti le diversificate culture fotografiche ed arti visive che caratterizzano la contemporaneità, con la partecipazione di eminenti e riconosciute personalità del mondo dell’arte e della cultura. Gli scopi sociali vengono perseguiti attraverso mostre fotografiche di autori nazionali ed internazionali; seminari tematici e corsi di formazione; work in progress e stage su specifiche problematiche fotografiche, un’attività di confronto e scambio tra autori ed altre qualificate associazioni; l’istituzione di una biblioteca specializzata; la promozione e il coordinamento di un circuito espositivo che possa essere di riferimento nazionale accanto all’organizzazione di eventi culturali multisettoriali e/o tematici (fotografia, musica, teatro). Il centro, colmando i vuoti istituzionali e privati nella regione, vuole essere punto di riferimento per tutti i giovani che intendano interessarsi al fotografico come arte. È attualmente parte del progetto nazionale Confini (www.confini.eu) con altri autorevoli centri di arte e fotografia. L’associazione è attualmente sostenuta unicamente dalle quote associative degli aderenti, l’onerosità dei costi di gestione ha imposto altresì l’inoltro di richieste di fondi presso Istituti pubblici e privati le cui procedure sono da considerarsi al momento in itinere. Antonio Armentano - L’IMPRONTA | CULTURE FOTOGRAFICHE, Cosenza
Dall’alto a sinistra in senso antiorario: Veduta della mostra di Alfredo Anfossi, lucidOpaco, Celico (Cs). Il cantiere di restauro del Seme d’Arancia di Emilio Isgrò, Barcellona Pozzo di Gotto (Me), foto: Antonio Maggio. La sede de L’impronta, Cosenza. Una sala de La Centrale dell’Arte, Cosenza.
SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea Direttore Responsabile: Loredana Barillaro Redazione e Grafica: Luca Cofone Stampa: Gescom s.p.a. Viterbo Redazione: Via della Repubblica, 119 - 87041 Acri (Cs) Editore: BOX ART & CO. Associazione Culturale Iscrizione R.O.C. n. 21467 del 30/08/2011 Legge 62/2001 art. 16 Contatti e info: 3393000574 / 3384452930 smallzine@hotmail.com www.smallzine.it Hanno collaborato: Gregorio Raspa, Pasquale De Sensi, Nadia Perrotta © 2014 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. In copertina: Riccardo Bonfadini, VACANZE SULL’AGO, 2011. Installazione, 23x23 cm (part.). Courtesy dell’artista. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.
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IL DESTINO DI UN SOLIDO PIACERE Michela Moro
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l mio destino era segnato: già da piccola ricordavo perfettamente i quadri che vedevo. Spesso in case di amici e conoscenti dei miei guardavo solo i muri. Potevano essere un Rauschenberg, proveniente dalla allora illuminata Galleria dell’Ariete di Beatrice Monti, un enorme Tom Wesselmann, un Rosai o un Segantini, la mia mente fotografava, selezionava e catalogava. Ricordo una Biennale in cui i miei genitori comprarono due quadri, ahimè senza lungimiranza, ma con uno stupendo Boccioni esposto. Sentivo dire: “Il Beppe Panza ha delle cose così strane, pensa, una stanza tutta blu”. Io ero incuriosita, ma l’arte era solo una colta porzione di piacere nelle vite borghesi degli adulti di allora, non certo una professione. Poi Carla Pellegrini, con la sua presenza e la sua Galleria Milano, organizzò il mio sapere disordinato, insegnandomi soprattutto la qualità nei lavori di uno stesso artista, e fornendomi inconsapevolmente solide basi. Però era sempre piacere. Quando ho iniziato a lavorare in televisione ho subito pensato che l’arte andasse raccontata in maniera diversa e più appassionante, l’unica via non poteva essere la mera illustrazione di mostre classiche. Ma i tempi non erano maturi. Nonostante ciò non demordevo, e cercavo sempre di infilare un po’ di arte ovunque lavorassi, Studio Azzurro per primo, ovviamente televisivo all’impatto su Rai Uno. Persino a Striscia la Notizia sono apparsi Nam June Paik, poi Pierre Restany e Achille Bonito Oliva, in conversazione su un lettone in un bar degli anni Novanta stracolmo al limite del tracollo, grazie alla mia testardaggine e alla benevolenza di Antonio Ricci... ma erano episodi sporadici. Nel 1997 mi chiamarono dicendo: “C’è una cosa noiosissima da fare, ti piacerà tantissimo”, era vero. Nasceva RaiSat Art e io finalmente potevo far collimare passione e lavoro. Sono stati anni fantastici, anche per l’arte. Era ancora un mondo normale, dopo la grande crisi e prima della grande abbuffata che pare non finisca mai. Tutti erano più entusiasti e l’arte contemporanea era una sorgente di energia continua. Ma la televisione era guardata con sospetto, un mezzo che rovinava la sacralità dell’arte, e guadagnarsi la fiducia è stata dura. Nel migliore dei casi dicevano: “Io la TV non la guardo” e mi facevano sentire immediatamente superficiale. Si sono fidati i galleristi amici e gli artisti che già conoscevo, soprattutto gli stranieri, come Nicholas Logsdail di Lisson Gallery, che già al tempo valutavano bene la potenza del mezzo televisivo. 10
PEOPLE ART
Ho intervistato personaggi allora timidi, oggi star: Francesco Vezzoli, Olafur Eliasson, Anish Kapoor, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, oppure bombastici come Urs Lüthi, Jason Rhoades e Juan Muñoz, un elegantissimo Robert Rauschenberg, un filiforme Antony Gormley. Senza demordere sono andata per la mia strada. Art Basel lievitava, il pubblico televisivo non ne era consapevole. Nel frattempo i capi Rai optavano per scelte con poca cultura e senza arte e il canale venne chiuso. Scrivevo di arte per quotidiani e riviste. Sono stata una delle prime blogger d’arte, lì tacciata di essere tardo-adolescenziale nell’utilizzo di un nuovo mezzo, ma mi hanno sempre appassionato le sfide. Per fortuna in Rai qualcuno continuava a credere in un progetto che contenesse l’arte, e con il supporto di Paolo Giaccio, oggi a Rai5, ho seguitato a raccontare l’arte e l’architettura traslocando di volta in volta su vari canali, satellitari prima e digitali poi. Da quattro anni pare che il mio nomadismo artistico-televisivo abbia trovato una casa a Rai5. Adesso la televisione si guarda su computer e telefonini, e finalmente sono arrivati altri canali che si occupano di arte e cultura. L’arte contemporanea è cambiata, sempre più simile allo star system, ma nemmeno i più bizzosi rinunciano ad un’intervista. La televisione è stata sdoganata nel mondo dell’arte contemporanea, però il grande pubblico ancora non lo sa. Per questo sono sempre protettiva e un po’ didattica quando realizzo servizi e reportage: penso che se veramente vogliamo che una platea più vasta goda di quello che tanto ci appassiona, in un paese in cui i musei contemporanei non hanno collezioni che storicizzino i percorsi, non bisogna dare nulla per scontato, ed essere più spregiudicati. Non nel senso che intende il nostro micro-mondo dell’arte, ma al contrario: essendo più inclusivi, muovendosi meno per bande, e cercando di guardare l’arte con rigore. Tutto sommato, nel mare magnum di tanta pseudo arte c’è ancora chi ci può aprire una finestra sul futuro. Michela Moro e a sinistra con l’artista Joep Van Lieshout. Per entrambe courtesy Michela Moro.
SHOWCASE
SILVIA MEI | a cura di Pasquale De Sensi
di Rossella Farinotti
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na poetica inconfondibilmente femminile unita a uno stile brutale, che ha dei codici chiari, sopra cui la Mei elabora infiniti dettagli minuziosi, da osservare piano sopra i grandi fogli bianchi su cui dipinge. Le sue donne sono solitarie, ma spesso in coppia, unite da un elemento fondante della sua poetica: i capelli. Capelli come unione, capelli come proseguimento di sé. E poi gli abiti colorati, non definiti nella forma, ma evanescenti ed elaborati. Quegli stessi abiti che coprono un corpo che la Mei ha devastato con i suoi difetti arcigni, estremi. Il volto diventa maschera ed è attorniato da elementi floreali, spille, orecchini, corolle, macchie di colore. Il corpo è invaso da peli e radici, che scorrono su gambe, braccia e petto, come a cercare un rifugio tra i seni nudi, e forse il grembo materno, luogo di pace. E poi i corvi neri, gli scarafaggi, le minuscole faccine che, come tanti pensieri che si moltiplicano, rimangono sempre lì, a scrutare. Un vocabolario complesso e faticoso che rende l’impatto non semplice, ma unico. Dall’alto: DANIELA, 2013. Tecnica mista e collage su carta, diametro 45 cm. AUTORITRATTO CON IRENE, DIECI ANNI, 2014. Tecnica mista su carta. Per entrambe courtesy dell’artista.
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SMALL TALK
UN TEMPO OSSESSIVO Nicola Rotiroti
- Loredana Barillaro LB/ Perché hai scelto di utilizzare l’acqua come elemento dominante dei tuoi dipinti? Quasi fosse uno strumento più che un “effetto”… NR/ Ho scelto l’acqua come elemento dominante nei miei dipinti perché mi permette di entrare in contatto con il bello, inteso come apparizione sensibile dell’idea, ponte tra noi e la natura: “Essa dissolve, distende, dissipa, al fine di ricreare e quando questo processo è reso impossibile, essa, in ogni modo, lotta ad idealizzare e ad unificare: essa è essenzialmente vitale anche se tutti gli oggetti sono, nella loro essenza, fissi e morti” (Coleridge). L’idea dell’acqua allo stesso tempo mi pone anche di fronte al sublime che non è affatto il piacere della misura e della forma bella, né della contemplazione disinteressata dell’oggetto, ma ha la sua radice nei sentimenti di paura e di orrore suscitati dall’infinito, dalla dismisura, il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio. LB/ La figura umana sembra perdere la sua consistenza fisica e caratterizzarsi unicamente in virtù dello schermo d’acqua oltre cui la poni. Che ruolo ha dunque in tutto questo? NR/ Sono d’accordo con te quando scrivi che la figura umana perde la sua consistenza fisica, in effetti questo avviene perché, di contro, quella stessa figura tende ad acquisirne una metafisica. In questa nuova consistenza la figura contiene passato, presente e futuro, tendendo all’archetipo, cercando di proporsi in divenire, di essere per esistere, di liberarsi dalla sua stessa figura, prendendo le distanze da quella stessa acqua che l’ha generata.
Loredana Barillaro/ Ciao Nicola, parlami un po’ del tuo lavoro… Nicola Rotiroti/ Tempo fa ho letto un breve passo del poeta Shelley “….l’ombra di un invisibile potere tra noi fluttua nel segreto”. Ecco ora sono arrivato dentro il mio continuo quotidiano. Mi sveglio intorno alle 8 di mattina, vado a studio, che ho in comune con un mondo di artisti diversi riccamente da me, e che ho invitato a condividere tutto, affitto compreso. Punto la radio su Radio3, prendo la foto-soggetto che al momento mi interessa, la attacco al muro come un santino, srotolo la tela, la inchiodo alla parete, la squadro con lo scotch di carta e comincio a pestare e mescolare i pigmenti con i medium acrilici, ottenendo così il colore per il fondo. Alcune volte uso la foglia d’argento o di oro. Asciugata la base tonale sulla tela, inizio, attraverso sguardi intermittenti tra parete vuota e tela, a cadenzare un tempo ossessivo. Ho comprato un tagliere da cucina in plastica in una cineseria, lo ricopro di scotch di carta, indosso un grembiule, ed inizio a preparare i colori ad olio. La pennellata che uso è molto grassa e continua, l’olio lo lavoro quasi secco, esasperandolo, tentando un riverbero cromatico che mi riassicuri. Cerco la luce durante la costruzione del volume, comunicando con mezzi toni, poi prendo coraggio e violentemente aggiungo masse di chiari puri sfumandoli freneticamente, appiattendo il volume ed aprendomi la strada per gli scuri. Da questi passaggi a stesura, il colore poco diluito riesce ad ottenere la deformazione che reca l’acqua alla vista. Nel durante scorrono otto, nove ore, tra voci radiofoniche e fisicamente presenti, gli occhi si appesantiscono, mi levo il grembiule, poso il tagliere, accendo una sigaretta, bevo una birra e corro a casa da quell’amore di mia moglie cercando di dimenticare tutto.
Dall’alto: UNTITLED, 2014. Olio su tela, 150x150 cm. UNTITLED, 2013. Olio su tela, 165x169 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
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SMALL TALK
LA MASCHERA DELLA VERITÀ Angela Pellicanò
Loredana Barillaro/ Nel corso degli anni il tuo lavoro è passato da un fare onirico ad un forte richiamo alla componente storica, attraverso immagini legate ai conflitti bellici dei primi anni Quaranta del Novecento, cosa ti ha spinto in questa direzione? Angela Pellicanò/ Sperimentare un disagio che proviene da “altri luoghi” e sottolinearne la persistenza, mi aiuta a stabilire un punto di partenza che abbia chiare connotazioni. Un passato ancora tangibile fa scaturire angosce storiche, rimandi, e non basta il velo che si deposita ad evitarcele. Riflettere partendo da fonti storiche mi dà la possibilità di operare sui “livelli di verità” senza termini simbolici o filtri che ne alterano la memoria collettiva. È inevitabile il percorso accidentale come è inevitabile che faccia delle riflessioni stratificate. Naturalmente è sul parallelismo metaforico che gioco la mia partita e l’uso simbolico del materiale originale dell’epoca mi dà molteplici possibilità di riflettere sul gioco doppio della realtàverità. LB/ La memoria collettiva viene narrata con lucidità, pur presentando un modo di
- Loredana Barillaro
fare quasi “fiabesco” direi sospeso, in cui comunque è forte la componente emotiva… AP/ È in questa componente che mi piace inquadrare la figura dei ciclopi. Spostarli nei luoghi e nel tempo con grande facilità e noncuranza dei sistemi di “navigazione” fornendo dettagli alla storia senza lembi di contingenza, senza margini definiti. L’azzardo nella fissità dell’immagine, il dispiegamento di una traduzione in simboli dalla forza immaginifica, rende il mio percorso spendibile anche nella funzione letteraria, “la formula di Meserburgo” ne è esempio… Il transito dall’onirico alla sua rappresentazione sta nella linea impazzita dell’incubo che tu leggi come forte componente emotiva… LB/ Parlami della scultura a cui sembra tu ti stia dedicando negli ultimi tempi, i soggetti trattati hanno la stessa origine? AP/ Non ho mai riflettuto su come avrei dovuto ma su come avrei potuto parlare per immagini ed è capitato che qualche personaggio abbia voluto migrare dalla tela. A un livello inconscio mi sono ritagliata una possibilità d’uscita. Artisti13
camente ho risolto una chiusura. Conto di tornare alla pittura tutte le volte che la sentirò necessaria al mio bisogno. Non considero però il mio lavoro scultoreo, quanto piuttosto funzionale a un progetto. Il progetto è scultoreo, poiché assorbe lo spazio e il tempo al suo interno, avvalendosi di una “massa corporea”. Un piccolo esercito “miniaturale” che celebra la memoria senza catarsi e senza morale, è ossimoro come la maschera della verità. LB/ Progetti in cantiere… AP/ Il giorno di primavera sarò con Ninni Donato “La madre di Sparta” al Monogramma di Roma, un progetto a quattro mani che segue il progetto “Trauerarbait” presentato all’officina delle Zattere di Venezia. Subito dopo New York con Affordable Art Fair. Al mio rientro saremo già al lavoro per analizzare fuori di metafora un personaggio femminile sconvolgente che visse e morì all’ombra delle dittature e per le dittature: Unity Mitford. Da sinistra: CICLOPE#2, 2014. Ceramica, carte originali d’epoca e resina, altezza 34 cm. CYCLOPE#1, 2014. Ceramica, carte origianli d’epoca e resina, altezza 36 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
SHOW REVIEWS
SUPER KINGDOM Stour Valley Arts - Challock (Regno Unito)
- Nadia Perrotta
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robabilmente vi sarà capitato raramente di visitare una mostra d’arte in una foresta. Eppure eccomi qui a King’s Wood Forest, non lontano da Londra, una delle foreste più vaste dell’Inghilterra, gestita da un team di curatori e artisti, che ospita capolavori di Land Art e installazioni che strizzano l’occhio all’architettura; come questa che vedo innalzarsi tra gli alberi secolari davanti ai miei occhi. Tre alberi imponenti indossano con disinvoltura Super Kingdom, il lavoro dei London Fieldworks (per gli amici Bruce Gilchrist e Jo Joelson), ispirato alle strutture architettoniche utilizzate dai governi dittatoriali di Stalin, Ceauscescu e Mussolini. Il silenzio del bosco e l’aria rarefatta donano a queste costruzioni un’aura di sacralità, fierezza e intoccabilità. I tre lavori in sè non sono altro che “agglomerati urbani per uccelli”. In particolare uno di loro coglie la mia attenzione, neanche a farlo apposta, quello ispirato a Mussolini. Osservo le scatole di legno, case per uccelli, con le tipiche entrate ad arco e non posso fare a meno di pensare alle arcate del Palazzo della Civiltà a Roma. Ne seguo il disegno che riveste i contorni del tronco e dei rami come un maglione fatto su misura. La struttura è resa quindi “mobile” e armonica grazie alle linee naturali della pianta. Legno su legno, un materiale vivo che ricorda casa, calore, focolare, intimità. L’opera d’arte accarezza i movimenti del suo supporto, rispettandolo. È quest’atteggiamento di simbiosi tra struttura e supporto naturale che, dal mio punto di vista, differisce dal concetto della dittatura. Penso al Palazzo che si erige imponente nella zona dell’EUR. Penso al materiale “italico” utilizzato per la sua costruzione: cemento armato, simbolo del dominio urbanistico moderno, e travertino, la roccia utilizzata dai romani in edilizia, simbolo del loro potere imperiale. La struttura si innalza prepotente e domina, a mio avviso in modo violento, tutto ciò che è sottostante. Come è diverso invece il lavoro di Gilchrist e Joelson, che non domina, ma rispetta e accoglie. E probabilmente anche gli abitanti del bosco di King’s Wood sono d’accordo con me, dato che Super Kingdom è diventata la dimora di numerose specie di uccelli e altri animali che popolano la foresta. Si tratta quindi di un’opera che continua a vivere e a mutare e che ci lancia un messaggio intenso e profondo. Come anche i curatori Maja e Reuben Fowkes hanno detto spesso gli uccelli appaiono in arte contemporanea come simbolo dai molteplici significati: dalla libertà personale alla rappresentazione di identità nazionale o specchio e riflesso di società. I London Fieldworks hanno dichiarato di considerare la loro opera come un artefatto predisposto all’ “occupazione” da parte di specie di animali selvatici.1 Mi piace pensare che lo scopo che ha guidato Bruce e Jo alla realizzazione di Super Kingdom era proprio quello di sperimentare e mostrare al mondo come altre specie viventi diverse dalla nostra e forse, dal nostro punto di vista, “meno evolute”, siano in grado di creare un nuovo habitat convivendo in modo pacifico l’uno accanto all’altro, l’unica cosa di cui hanno bisogno è un punto di partenza, un incipit, un posto che li accolga e che si possa chiamare “casa”. 1 M. and R. FOWKES, (2013) London Fieldwoks Interview. Translocal Institute for Contemporary Art. [Online], 2013.
Per entrambe: SUPER KINGDOM, 2008. Stour Valley Arts, King’s Wood Forest, Challock, Regno Unito. Foto: Nadia Perrotta.
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SHOW REVIEWS
LEVEL/FARTCHITECTURES Peep-Hole - Milano
- Gregorio Raspa
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parzialmente, ritorna anche in Clessidra - una scultura in bronzo ottenuta sul calco di quei legni caratteristici della banchina di Venezia - suggestiva formalizzazione plastica dell’inesorabile processo di erosione che il tempo pratica sulle cose. A fare da contraltare all’intimismo di Andreotta Calò, negli ambienti attigui dello spazio, ci pensa la vulcanica Andra Ursuta con Soft Power 1 e 2, monumentali sculture gonfiabili, ricoperte in tessuto lavorato a maglia e colorato che, nella forma, fanno esplicito riferimento al pugno, simbolo dell’unità e della resistenza comunista. Ed è curioso osservare il movimento di queste sculture che, alimentate elettricamente, simulano un respiro agonizzante ciclicamente succeduto da una goffa implosione. Così come curioso è osservare Broken Obelisk, un obelisco antropizzato con le sembianze di un cartoon che, stanco, siede su una seggiola fissando il vuoto. Banalizzato e deriso, questo antico monumento celebrativo si palesa privo della sua dignità storica, proprio come i bunker atomici in miniatura di A Worm’s Dream Home sparsi qua e là sul pavimento di Peep-Hole. In tal senso, le opere appena descritte appaiono come dissacranti caricature del potere, simboli un po’ comici e un po’ patetici della sua sempitèrna vanagloria. Uno strano faccia a faccia, dunque, quello tra Ursuta e Andreotta Calò, costellato da un intenso repertorio di forme instabili che, nel loro indeciso processo di assestamento, delineano il senso di un tempo - il nostro - incapace di produrre memoria ma affollato da inquietudini da esorcizzare.
eep-Hole, lo spazio no-profit dedicato alla ricerca e alla promozione dell’arte contemporanea diretto da Vincenzo De Bellis, è oggi uno dei luoghi più interessanti e innovativi della cultura milanese, teatro dal 2009 di iniziative dotate di una spiccata vocazione internazionale, concepite di volta in volta secondo una logica progettuale inedita e site-specific. Quelle prodotte da Peep-Hole, infatti, sono mostre spesso realizzate attraverso una serie di interventi diretti sull’architettura dello spazio e, non di rado, create innestando tra loro linguaggi eterogenei, come nel caso dell’ultima esposizione ottenuta dal coraggioso accostamento di due personali tra loro distanti: “Level”, del veneziano Giorgio Andreotta Calò e “Fartchitectures”, dell’artista romena Andra Ursuta. È un dialogo ambiguo quello tra le due mostre, a tratti muto e in altri bizzarro, ricco di colpi di scena e calcolati imprevisti. Non risparmia sorprese infatti Andreotta Calò che, per Peep-Hole, realizza un progetto summa di tutti gli elementi caratteristici della sua ricerca: la processualità e l’attraversamento, la rievocazione indotta di un paesaggio e la riattivazione della sua storia. Tutto ciò, ad esempio, si ritrova nell’opera Untitled (level), una botola aperta sul pavimento che ricongiunge gli ambienti dello spazio espositivo con quelli sottostanti della Fonderia Battaglia, per l’occasione, appositamente allagati dall’artista. Dal piano superiore, allo spettatore - totalmente immerso nel buio - è solo concesso osservare lo straniante scenario che si apre sotto i suoi piedi. Un gioco illusorio di riflessi concepito come il simulacro di uno scorcio veneziano e realizzato per mezzo della pantomima di un’insolita e misteriosa alta marea. Un intervento destabilizzante, che riflette sulla memoria individuale e sulla capacità di quest’ultima di alterare la percezione di un luogo e le sue identità simboliche e materiali. Un concetto questo che,
Da sinistra: Giorgio Andreotta Calò, CLESSIDRA, 2014. Bronzo e chiodi, 226x27x27 cm. Andra Ursuta, SOFT POWER 1 e 2, 2013. Tessuto e componenti, dimensioni variabili. Per entrambe courtesy Peep-Hole, Milano.
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L’ASSESSORATO ALLA CULTURA PER L’ARTE CONTEMPORANEA
M I M M O
S A N C I N E T O
F R A N C E S C O
S E N I S E