GENNAIO FEBBRAIO MARZO 2014
Magazine di arte contemporanea / Anno III N. 9 / Trimestrale free press
SMALL ZINE
Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut: 170/ CBPA-SUD/CS
ISSN 2283-9771
STEFANO SERUSI
Natascia Fenoglio - Stefano Serusi - Giacomo Nicolella Maschietti - Andrea Chiesi - Alessandro Russo Silvia Trappa - Luigi Presicce - Black Beauty Il Museo contemporaneo
TALENT TALENT
LITURGIE SENZA TEMPO Luigi Presicce
- Gregorio Raspa
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on è facile descrivere il lavoro di Luigi Presicce. Per comprenderlo appieno è necessario viverlo, immergersi in quella dimensione posta fuori dal tempo che, da sempre, lo caratterizza. Già nella produzione pittorica dei primi anni - oggi drasticamente ridotta - infatti, l’artista pugliese, originario di Porto Cesareo, ha dimostrato di saper riversare nelle sue opere il genius loci, magico e arcaico, di quel “sud del Sud dei santi” da cui proviene, innestarlo di citazioni “colte” in grado di annullare la distinzione alto/basso tipica di tanta cultura contemporanea. Più in generale, ciò che colpisce nel lavoro di Presicce è l’attitudine al glorioso, alla vanità dell’enigma, alla ricerca di un’ascetica contemplativa e all’istituzione di un tempo “altro”. Quanto detto è particolarmente vero nelle opere performative, dove l’impressione è che tutto si svolga su un piano parallelo a quello reale, su cui mistica e metafisica si fondono dando concretezza alle visioni dell’artista. Nelle sue opere, infatti, Presicce gioca con l’universo tangibile, utilizza i pezzi dell’esistente come componenti di una raffinata scenografia del possibile in cui finzione e realtà, arte e vita, finiscono inevitabilmente per compenetrarsi. Le scene costruite nei suoi tableau vivant discendono direttamente dalla storia, dal mito e dalla leggenda, da un repertorio simbolico denso di rimandi rituali e letterari. Le narrazioni proposte affondano le proprie radici nella tradizione – talvolta aulica, talvolta popolare - e nel fascino secolare che le accompagna; raccontano di un universo al tempo stesso intimo - perché custodito e tramandato dal singolo - e pubblico - perché ormai sedimentato nell’immaginario collettivo. È così che nell’opera di Presicce rivivono tanto le suggestioni dei dipinti di Giotto e Piero della Francesca, quanto le cerimonie votive e le pratiche devozionali tipiche dei cortei processionali; riaffiorano alla mente tanto il teatro di Carmelo Bene, quanto i catartici rituali magici e apotropaici delle vecchie donne di paese. In ogni tableau vivant la cura dei particolari è massima. Tutto ciò che compare in scena assolve la sua funzione specifica: gli oggetti, i simboli e le persone interagiscono tra loro secondo schemi minuziosamente studiati dall’artista che, a volte interviene personalmente nell’azione, altre affida l’esecuzione della stessa a dei collaboratori. Più in generale, però, nelle sue performance Presicce non si limita al solo esercizio di trascrizione e rappresentazione di una storia, ma si spinge ben oltre, interpretando la stessa attraverso lievi slittamenti semantici che, pur preservando l’attendibilità e la riconoscibilità della scena, contribuiscono alla reinvenzione del mito e alla riattivazione dei suoi contenuti. Presicce fa ciò rifugiandosi in una dimensione atemporale, producendo azioni non replicabili, site-specific e destinate ad un pubblico spesso ristretto. Le sue performance, infatti, hanno modalità di fruizione spesso insolite perché riservate a due bambini - La benedizione dei pavoni, 2011 - pensate per un singolo spettatore per volta – L’invenzione del busto, 2013 - e, in alcuni casi, addirittura chiuse al pubblico - Janny Haniver show, 2010. Finita la rappresentazione, dell’accaduto non rimane altro che un apparato documentale composto da video e/o fotografie, reliquie uniche di una liturgia senza tempo.
Dall’alto: LA DOTTRINA UNICA, 2011. Performance per soli due spettatori, Cava Henraux, Parco delle Alpi Apuane (Massa Carrara). Stampa su alluminio, 150x100 cm. Foto di Vanni Bassetti. LA BENEDIZIONE DEI PAVONI, 2011. Performance per due bambini, abitazione privata, Porto Cesareo (LE). Video Full HD, 10:58 min., no sound. Video di Francesco G. Raganato. Foto di Luigi Negro. L’INVENZIONE DEL BUSTO, 2013. Performance per uno spettatore alla volta accompagnato, Galleria Bianconi Milano, video Full HD, 07:13 min., stereo. Video Daniele Pezzi. Foto di Dario Lasagni. Per tutte courtesy l’Artista e Galleria Bianconi Milano.
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INTERVIEWS
UN POETA DI PITTURE POSTINDUSTRIALI Alessandro Russo
- Martina Adamuccio
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agli anni Settanta ad oggi, l’Europa e non solo, ha dato il via ad una progressiva de-industrializzazione. Da allora la maggior parte delle aree industriali si sono ritrovate dismesse, dando forma a paesaggi deserti in cui la mancanza di un’attività umana non ne maschera di certo la presenza. Capita così, alle volte, di trovarsi in posti vicini tanto affollati quanto solitari, e capita, ancora, di trovarsi in posti lontani e deserti in cui l’umanità si nasconde nei resti di un’architettura postindustriale. Alessandro Russo, artista d’altri tempi che conserva però il saldo legame con la tradizione della pittura del passato in una perfetta unione di antico e moderno, è il poeta che ci racconta una storia che non c’è più ma che continua a vivere nelle inquadrature prorompenti dei suoi paesaggi postindustriali. Se un poeta volesse scriverne delle poesie, trasformerebbe le sue pennellate in parole dallo sfondo dolce-amaro, i suoi colori prenderebbero forma in figure retoriche di antico e prezioso rilievo e le inquadrature diverrebbero lo sfondo di una poesia senza tempo. Il tutto per ricordarci che la città è fatta di “relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato” (I.Calvino). Martina Adamuccio/ Dall’insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro all’insegnamento all’Accademia di Brera di Milano, cosa ti ha portato a decidere che era il momento di lasciare la Calabria - tuo paese di origine, a cui rimani comunque profondamente legato - per Milano? Alessandro Russo/ Come tu sai frequento Milano dal 1979 quando feci una fortunata mostra personale alla prestigiosa galleria Schettini di Via Turati. Qualche anno fa su insistenza del gallerista meneghino Antonio Battaglia ripresi i rapporti artistici nella città programmando tre nuove mostre. Nuovi stimoli mi indussero a prendere uno spazio, dove ho realizzato il mio studio milanese.
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Gli impegni assunti hanno fatto il resto. Viaggiare per insegnare a Catanzaro mi distraeva troppo per cui la decisione di trasferirmi a Brera, nonostante un legame morboso con la mia terra. Diciamo che questa volta ha prevalso la ragione. Brera è un’Accademia riconosciuta in tutto il mondo, i numeri dicono il resto: circa 1500 studenti di 58 nazioni e circa 2500 italiani di tutte le regioni. MA/ Osservando i tuoi lavori una profonda malinconia mi assale. Residui industriali si fondono alle esperienze umane e pare di sentire non solo ciò che è stato ma ciò che ancora potrà essere. Ma che ruolo ha l’uomo nei tuoi lavori? AR/ La mia è una pittura che dimostra come la memoria, nel bene e nel male, sarebbe fragile se non ci fosse una solida percezione del presente. Gli uomini del potere, che sarcasticamente e rabbiosamente ho dipinto in più di quarant’anni di lavoro, del clero, della politica, della magistratura, nella realtà hanno mortificato le aspettative e prodotto illusioni. I miei paesaggi “postindustriali” sono i simboli delle speranze perdute, di un mondo da bonificare e rivedere... forieri di un’umanità ingiustamente offesa. MA/ Uno still life, nelle tue opere, che riporta in vita storie diverse attraverso l’uso di inquadrature severe e imponenti che hanno come scopo quello di ritrovare, forse, il proprio ordine all’interno del caos
dell’abbandono... AR/ Ti rimando in toto ad uno scritto estrapolato dalla presentazione di Gianluca Marziani, curatore di una mia mostra prodotta dalla fondazione Rocco Guglielmo e dalla città di Catanzaro nel complesso monumentale di San Giovanni: “Il mare orizzontale, verso i vertici montagnosi e l’architettura controversa, verso il troppo pieno e il troppo vuoto. Sarà per questo che l’inquadratura è immediatamente un soggetto grammaticale, una dimensione emotiva che cambia umore e quindi angolazione. Occhio verso l’alto da una superficie che l’artista sembra strisciare silenzioso ma arrabbiato. Occhio verso il basso da un cielo in cui l’artista sembra volare silenzioso, leggero ma altrettanto arrabbiato. Le visuali si allargano o stringono senza una prospettiva univoca. Si perde il centro telematico della scena e i cuori prospettici si moltiplicano, vanno da ogni parte come fossero incroci di sguardi inquieti, dubbiosi su dove fuggire o intervenire. La dimensione iconografica allo scatto mentale della regia cinematografica, chiara nel grottesco felliniano ma anche nelle panoramiche da Michelangelo Antonioni, in “Zabriskie Point” film non a caso “politico” è radicale per comprendere i linguaggi mentali del paesaggio contemporaneo. (…) Un domani tutto da riscrivere: attraverso l’azione che diventa nuova morale”. MA/ Video, concettuale, installazioni e 5
tanto altro. Oggi pare che il reale valore della pittura sia andato perduto... AR/ La tecnica è un mezzo non un fine. La pittura poi non andrà mai perduta, il problema se mai è riappropriarsene. MA/ Che consigli daresti ad un giovane artista che vuole intraprendere tale percorso? AR/ Seguire sempre il proprio istinto creativo che, se è supportato da una giusta grammatica, darà risultati. MA/ Cosa manca ai giovani artisti del presente che non mancava a quelli del passato e viceversa? AR/ Le problematiche sono sempre le stesse. Le dimensioni spaziali negli anni Sessanta e Settanta erano circoscritte al massimo nei confini occidentali, oggi la globalizzazione crea problematiche planetarie, supportate da sistemi di comunicazione istantanea ma virtuali. Essere protagonista e capire il proprio tempo è il dilemma di sempre. E lo sarà fino a quando l’uomo avrà la voglia di fare ricerca e scoprire nuovi orizzonti. Da sinistra in senso antiorario: STRUTTURA INDUSTRIALE, 2012. Olio su tela, 180x130 cm. PAESAGGIO POSTINDUSTRIALE, 2012. Olio su tela, 130x180 cm. CANTIERE NAVALE, 2012. Olio su tela, 140x190 cm. Per tutte courtesy Galleria Antonio Battaglia, Milano.
INTERVIEWS
LA REDENZIONE DI UN LUOGO Andrea Chiesi
- Gregorio Raspa
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Gregorio Raspa/ Hai iniziato come disegnatore e fumettista. Cosa rimane, oggi, di quelle esperienze nei tuoi lavori?
plessità tale da apparire quasi astratte. Quanto nel tuo lavoro è importante il riferimento al “reale”?
Andrea Chiesi/ Sono state le mie esperienze formative. Da autodidatta, la mia “accademia” è stata la frequentazione dell’ambiente della controcultura punk e post punk dei primi anni ‘80, dove ho mosso i primi passi come disegnatore di fanzines. Disegnare storie per immagini era il modo più diretto, semplice ed immediato che avevo a disposizione per trasmettere quello che trattenevo dentro. Sono le mie radici, tutto quello che ho fatto negli anni parte da qui.
no spazio non è necessariamente un luogo. Lo sapeva bene Goethe - che nelle sue poesie ha più volte sottolineato la differenza fra i due concetti - e lo sa bene anche Andrea Chiesi, artista modenese che, da anni, nelle sue opere ritrae la memoria - e le sue “conseguenze” sociali - concretandole in muti paesaggi dell’era postindustriale. Nei dipinti di Chiesi, dimenticati relitti della bulimica società dei consumi sembrano recuperare quella dignità che Marc Augé avrebbe definito “antropica”. In una tale prospettiva, gli scenari immortalati dall’artista assumono le sembianze di severi simboli della velocità con cui l’uomo consuma la storia, ingombranti testimoni di una corsa - forse - priva di senso. Di questi e altri temi, della genesi di un simile lavoro, e delle sue ragioni più intime, abbiamo ampiamente discusso con l’artista...
AC/ È importante perché mi interessa compiere una riflessione sugli aspetti sociali della trasformazione del paesaggio del nostro tempo. Alcuni lavori hanno un’attitudine maggiormente astratta, tendono alla complicazione delle strutture e delle geometrie, anche attraverso l’utilizzo della riflessione; altri invece li considero più narrativi, e qui torna il piacere di “raccontare storie”, ma grazie alla pittura - e l’utilizzo di soli tre colori - il luogo dipinto rinasce sempre in un altrove mentale e interiore. Il luogo reale rimane sottotraccia, come un’eco lontana che si riverbera sulla tela.
GR/ Da poco più di tredici anni poni al centro della tua pittura suggestive archeologie industriali. Come è nata l’idea di dedicarti ad un simile soggetto? AC/ I luoghi abbandonati mi hanno sempre affascinato. Erano presenti già nelle mie prime storie disegnate degli anni ‘80 e successivamente nei taccuini e nei lavori a inchiostro che ho realizzato negli anni ‘90. Oggi sto solo scavando più in profondità, con una tecnica diversa, con più consapevolezza, quello che era già dentro di me. Il pittore dipinge sempre la propria ossessione, lo stesso quadro declinato in infinite variazioni.
GR/ La tua pittura sembra offrire un’opportunità di riscatto, quasi di redenzione, a dei luoghi che appaiono equidistanti dalla vita e dall’uomo, abbandonati al silenzio e destinati all’oblio. In tal senso, ritengo sia possibile interpretare il tuo lavoro - anche e soprattutto - come un tentativo di recuperare la coscienza di una memoria collettiva colpevolmente accantonata. È realmente così?
GR/ Ciò che mi colpisce nei tuoi lavori è la capacità di trasformare stanche e inutilizzate strutture produttive in anonime e affascinanti “sculture” che, proprio come nelle opere di Bernd & Hilla Becher, ostentano un’estetica straniante e misteriosa. Come scegli i paesaggi da dipingere?
AC/ Sì, hai colto un aspetto importante. Spesso i toni sono oscuri, esploro l’ombra e la penombra, ma mi interessa la luce, in tutti i suoi significati, anche spirituali. C’è una sorta di nobilitazione attraverso la tela, quello che normalmente viene percepito come insignificante, scomodo, dannoso, con la pratica pittorica viene nobilitato, come appartenente ad una nuova forma di bellezza.
AC/ È come se fossero loro a chiamarmi, si instaura una specie di empatia. A volte li incontro casualmente durante i viaggi, altre volte li raggiungo dopo ricerche ed esplorazioni mirate. Credo sia una questione di sguardo, di sensibilità, di attenzione nell’osservazione del paesaggio. Occorre essere predisposti. Quello che ai più può sembrare un ingombrante relitto, ai miei occhi diventa un irresistibile soggetto pittorico.
GR/ In tutti questi anni ti sei maggiormente soffermato sull’indagine e la rappresentazione di paesaggi e spazi aperti. Non di rado, però, dipingi anche ambienti interni e domestici. Cosa hanno questi luoghi di diverso rispetto ai tuoi consueti paesaggi industriali? Mi sembra di cogliere in questi lavori un maggior senso d’intimità, quasi di leggere una componente introspettiva...
GR/ La tua pittura, pur essendo figurativa, non ha mai una mera funzione descrittiva o replicativa del mondo. In alcune tue opere, ad esempio, le forme dipinte assumono una com6
AC/ Sì, è vero. Col tempo, quadro dopo quadro, ho allargato la mia ricerca affiancando ai soggetti industriali luoghi più intimi, anche privati, non necessariamente abbandonati. Ci sono archivi e biblioteche, ma anche scuole e abitazioni. In queste tele posso approfondire maggiormente lo studio dell’ombra e della luce, le stanze sono introspettive camere del silenzio, i corridoi diventano metafore dell’esistenza, le porte varchi da attraversare verso l’ignoto. È come una compensazione, alterno i giganteschi edifici dell’era industriale a spazi raccolti e intimi, ma sono tutti abitatori dello stesso mondo interiore. GR/ I tuoi dipinti sembrano cristallizzare un tempo di mezzo schiacciato tra un passato troppo recente per essere tale e un presente precocemente invecchiato a causa della sua dichiarata obsolescenza. Quale “idea” di futuro custodiscono i tuoi quadri? AC/ Nel mondo che dipingo il tempo è congelato, passato, presente e futuro sono annullati. Spero che i relitti del mondo industriale possano essere come guardiani dormienti che ricordano all’uomo i suoi disastri. Non ho mai abbandonato la speranza che l’umanità riesca ad evitare l’autodistruzione e abbia, nonostante tutto, un futuro. Fino a che esisterà l’uomo, esisterà la pittura.
Da sinistra in senso orario: CHAOS 2, 2010. Olio su lino, 140x200 cm. UCRONIE 0, 2012. Olio su lino, 100x140 cm. UCRONIE 1, 2013. Olio su lino 70x50 cm. Per tutte courtesy dell’artista.
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SPECIAL
IL MUSEO CONTEMPORANEO Loredana Barillaro
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ggi il Museo ha in parte mutato la propria natura, da ciò che appariva fino a qualche tempo fa, austero contenitore di opere d’arte si fa luogo di condivisione di passioni, luogo di entusiasmo in cui è sempre più frequente il confronto fra generazioni, basti pensare alle numerose attività didattiche destinate alle famiglie. Un luogo partecipato dunque, in cui divenire “comunità”, ed in cui lo scambio di idee fa si ché non vi siano più distanze fra luoghi e persone, fra città aperta e spazi chiusi. Spazi e luoghi di incontro, transito e movimento di idee in cui chiunque può essere interpellato. Un luogo che diviene sempre meno storicizzato nel concepire se stesso e le opere che lo abitano, in cui cambia concettualmente l’approccio ai contenuti, al pubblico e alle metodiche di esposizione, ed in cui non è insolito che si verifichino singolari contaminazioni fra epoche storiche. E forse anche una reale distinzione fra contenuto e contenitore pare essersi affievolita, laddove Musei di “ultima generazione”, progettati dalle più note archistar, vengono osservati e ammirati alla stregua delle pregevoli opere che espongono. Ed ecco la domanda: com’è cambiato il ruolo del Museo negli ultimi anni? Da mero contenitore di opere d’arte a luogo vivo e vitale di sperimentazione e confronto fra generazioni; di fruizione del contemporaneo attraverso gli artisti ed il loro lavoro.
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a GAMeC di Bergamo dal mio arrivo, dicembre 2000, si è aperta a 360°. La prima mostra “Dinamiche della vita dell’arte”, aperta a gennaio 2001, metteva in relazione opere di varie epoche, da Lorenzo Lotto a Fontana e Gabellone, da Moroni ad Alviani e Peter Halley. Con circa cento artisti andavamo dal Rinascimento alla contemporaneità. Mostra forte sul piano concettuale e programmatico, una pratica riproposta più volte come “Esposizione Universale” nel 2007 che andò anche alla Fondazione Proa di Buenos Aires e ora con “Il Classico nell’Arte” che apriamo il 7 febbraio prossimo, con opere che vanno da ritratti cinquecenteschi di scuola leonardesca a Kiki Smith, da Lorenzo Costa a Gianluigi Colin, da Bernini a Pistoletto e Beecroft... Nelle collettive ci sono sempre sia artisti affermati che giovani, perché dal confronto delle generazioni l’arte trae vantaggio. Inoltre con “Il Belpaese dell’Arte” del 2011 mettevamo a confronto generazioni di artisti, ma anche metodi creativi diversi, dagli ex voto alla caricatura, evidenziando la totalità dell’arte. Aggiungiamo le personali dei giovani quasi esposti sempre per primi come Roberto Cuoghi, Lara Favaretto, Sterling Ruby, Latifa Echakhch. Questo vale anche per i giovani curatori con il Premio Lorenzo Bonaldi, primo nel suo genere, avviato nel 2004, per capire l’attitudine sperimentale, e non solo conservativa, che deve avere un museo. Vedere per credere, visitando la GAMeC sia dal vero che dal sito gamec.it. Giacinto Di Pietrantonio - GAMeC, Bergamo
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ntanto hai usato la parola giusta: cambiamento. Il museo si è trasformato in questi quattro anni, spostando il focus da Galleria Civica a Centro per le Arti Visive. Un cambio nominale che contiene il senso curatoriale della direzione: un palazzo storico con “fondamenta” solide (collezione e biblioteca) è una costante crescita germinativa, legata ai livelli che rappresentano la nostra proposta (storici, emersi, emergenti, outsider). Sulla base di questi quattro livelli, stiamo modulando le attività espositive che riguardano i focus individuali, le dimensioni fenomenologiche (il Pop Surrealismo, la Street Art, la fotografia 3D, la fotografia installativa…), il collezionismo come non lo avete mai visto, il radar sul territorio, la riscoperta di maestri sottostimati… e poi mi sono connesso da subito coi grandi eventi della Regione Umbria, dialogando in maniera diretta col Festival dei Due Mondi, diventando uno dei luoghi centrali dell’estate umbra. I risultati di pubblico ci danno ragione, le istituzioni umbre e l’imprenditoria più sensibile iniziano a supportarci e credere nel nostro progetto. Anche la stampa, benché le risorse siano minime, ci segue e capisce l’importanza del nostro percorso. Senza dimenticare i musei italiani e internazionali con cui stiamo dialogando, le borse di studio con istituzioni estere, gli eventi speciali che abbiamo nel nostro calendario settimanale. La germinazione è in corso… Gianluca Marziani - PALAZZO COLLICOLA, Spoleto 8
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l museo è, per definizione, un’istituzione aperta al pubblico, i cui compiti principali si possono riassumere in due attività: la conservazione e la promozione del patrimonio. Ferme restando queste prerogative, i cambiamenti della società negli ultimi decenni hanno portato a ridefinirne i ruoli, rendendoli spazi aperti, in cui un pubblico sempre più vasto agisce a vari livelli. Questo avviene attraverso iniziative che prevedono sia la valorizzazione delle collezioni permanenti, sia il confronto interdisciplinare con la cultura contemporanea. Il museo che dirigo è dedicato all’arte del Novecento italiano dalle Avanguardie all’Arte Povera. Una vocazione storica, quindi, ma con uno sguardo al presente, che si attiva attraverso ricerca, laboratori, conferenze e didattica, oltre ad iniziative che mettono a confronto diverse generazioni, e ambiti paralleli come musica, cinema e arti visive. Esemplare a questo riguardo “Effetto Venturi”, organizzata in partnership con Peep-hole. Quattro artisti, Gianni Pettena, Giuseppe Gabellone, Piero Golia e Adelita Husni-Bey sono stati invitati ad organizzare dei seminari, teorici e pratici, su tematiche legate alla trasmissione dell’arte contemporanea. L’evento è stato accolto con particolare entusiasmo da studenti e giovani creativi, che hanno trasformato il museo per alcuni giorni in un vivace laboratorio. Ancora, vengono organizzati regolarmente concerti di musica contemporanea, presentazioni di libri e proiezioni cinematografiche. Anche un museo con collezioni storiche deve colloquiare con la realtà attuale, tenendo presente che ogni epoca ha i propri artisti e che un dialogo vivace tra generazioni e contesti diversi può arricchire entrambi. Marina Pugliese - MUSEO DEL NOVECENTO, Milano
SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea Direttore Responsabile: Loredana Barillaro Redazione e Grafica: Luca Cofone Stampa: Gescom s.p.a. Viterbo Redazione: Via della Repubblica, 119 - 87041 Acri (Cs) Editore: BOX ART & CO. Associazione Culturale Iscrizione R.O.C. n. 21467 del 30/08/2011 Legge 62/2001 art. 16 Contatti e info: 3393000574 / 3384452930 smallzine@hotmail.com www.smallzine.it Hanno collaborato: Gregorio Raspa, Martina Adamuccio, Pasquale De Sensi, Nadia Perrotta © 2014 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore.
Dall’alto: Marina Pugliese davanti alla scultura di Umberto Boccioni FORME UNICHE NELLA CONTINUITÀ DELLO SPAZIO. Workshop con Giuseppe Gabellone nel marzo 2013 al Museo del Novecento. Courtesy Museo del Novecento - Comune di Milano. Pagina accanto dall’alto: Giacinto Di Pietrantonio con l’opera GIUSEPPE, di Sislej Xhafa. Il Belpaese dell’Arte. Etiche ed Estetiche della Nazione, 2011. Veduta dell’installazione - GAMeC, Bergamo. Foto: Jacopo Menzani. Per entrambe courtesy GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo. In basso: Gianluca Marziani davanti all’opera di Sten&Lex. Qui sopra: Carlo D’Orta, Fotografia installativa dalla personale del 2013 a Palazzo Collicola, Spoleto.
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In copertina: Stefano Serusi, VETRATE, 2013. Vetri colorati, supporto per lenti, 17x7,6x1,2 cm ciascuno (part.). Courtesy dell’artista. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.
STRANO LAVORO IL MIO! Giacomo Nicolella Maschietti
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Giacomo Nicolella Maschietti alla presentazione del Calendario Pirelli 2o13 a Rio De Janeiro. In basso con l’artista Julian Schnabel. Per entrambe courtesy Giacomo Nicolella Maschietti.
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PEOPLE ART
accio il giornalista. Preferisco dire che mi occupo di arte e basta perché non amo la categoria del giornalista. Ma francamente non amo neppure il mondo dell’arte. Ho cominciato anni fa nelle gallerie, facendo l’assistente, che praticamente è come fare l’assistente di un fruttivendolo. Appendevo i quadri e potevo conoscere di persona gli artisti; forse è stato il mestiere più bello tra tutti quelli che ho fatto. Dal 2007 lavoro per la Class Editori, conduco due trasmissioni in onda sul canale 507 di SKY, ClassCNBC: “Top Lot, le aste in diretta” e “Art TV, la settimana dell’arte”. Dirigo anche il web magazine CHOOZE.it e dal 2012 presento i St.Moritz Art Masters. È tutto. Ah, dimenticavo, gli incontri che non mi fanno venire troppa voglia di cambiare mestiere... Ne ho uno duplice, con Julian Schnabel. L’ho intervistato alla Biennale di Venezia del 2011, e raramente posso dire di aver avuto a che fare con una persona più cortese e intelligente. Alcuni mesi dopo l’ho incontrato nuovamente, per caso, a New York, e proprio lui mi ha fermato per parlarmi: “Hello! Italian journalist! Giacomo!”. Il mio portinaio ha imparato il mio nome dopo più di un anno, fate voi. Il mondo dell’arte è una piccola fotografia del mondo in generale: poche persone decidono quello che succede per tutti. È triste, e chiuso. Però ci sono gli artisti. Alcuni di loro prevedono il futuro, interpretano il presente, e sono più sensibili di te. E non è davvero poco.
SHOWCASE
STEFANO SERUSI | a cura di Pasquale De Sensi
di Andrea Lacarpia
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opera di Stefano Serusi è incentrata sulla creazione di sofisticate simulazioni narrative, che vanno a formare quasi delle quinte sceniche, nelle quali l’identità personale si mimetizza immergendosi in luoghi e tempi altri, come protagonista di uno spettacolo teatrale, nel quale il racconto si svolge con un’accentuata drammatizzazione dei toni. Gli interventi sono spesso essenziali, mimetizzati nello spazio che li ospita, come a voler ribadire che la funzione concettuale dell’operazione, il processo che ne porta alla realizzazione e la sua contestualizzazione nello spazio, formano un tutt’uno con l’oggetto in sé.
Dall’alto: VETRATE, 2013. Vetri colorati, supporto per lenti, 17x7,6x1,2 cm ciascuno. FLOWER ARRANGEMENT 03, 2013. Found image, carta velina colorata, 10,5x14 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
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SMALL TALK
UNA CERTA ESSENZA DELLE COSE Silvia Trappa
- Loredana Barillaro
Loredana Barillaro/ Figure plastiche esili, rese vivaci talora da una cromia intensa, sono tese verso l’alto e si reggono su gambe lunghe e sottili. Sembrano avere un che di ascetico, è così? Silvia Trappa/ Qualche richiamo, anche inconscio lo ammetto, sicuramente c’è, l’idea dell’arricchirsi attraverso la privazione è qualcosa di congeniale al mio modo di fare arte; difatti tutto il mio lavoro è basato sul togliere, ed è in questo processo a levare che le forme si assottigliano, i lineamenti vengono ridotti ai minimi termini e il segno diventa linea pura. Quel che resta è solo quanto mi è necessario a cogliere l’essenza delle cose. LB/ I tuoi disegni, che ritraggono volti orientali su “pezzi di cronaca giapponese” mediante l’inserto di ritagli di giornale paiono basati in gran parte sulla raffigurazione della fanciullezza, incentrati a partire dal tuo soggiorno a Tokyo… ST/ Si, sono da poco rientrata da un’esperienza all’Ichiuroko Art Residence e ogni volta l’immaginario giapponese mi rimane addosso un po’ di più. Questa serie di disegni ha preso forma proprio durante la residenza, ma in realtà è già da un paio di anni che lavoro sul tema dell’infanzia e dell’adolescenza, quest’ultima mi affascina in particolar modo...è un periodo di transizione per la mente e per il corpo concentrato in un lasso di tempo così breve che se ne può percepire il movimento. LB/ Quanta bellezza è racchiusa nei corpi che disegni o modelli? 12
ST/ Spero molta! Ma è un’idea di bellezza particolare quella che inseguo... ha più a che fare con la precisione delle cose, per questo mi sono avvicinata alla cultura giapponese, dove la bellezza nasce da un equilibrio di forme e gesti che più che belli appaiono giusti. LB/ Infine cos’è che prevale nel tuo lavoro la materia o la leggerezza del segno sulla carta? ST/ Qualche anno fa avrei detto la materia senza alcuna esitazione... ora non potrei dirlo con tanta certezza; il disegno ha da sempre accompagnato la scultura prendendo forma in funzione di essa, ma con il tempo ha preso sempre più spazio fino a divenire un percorso a sé stante e non so prevedere quanto ancora si evolverà questo aspetto. Al momento sono due lati del mio lavoro che porto avanti parallelamente, e li vivo entrambi come necessità espressive. La scultura richiede tempo e spazio mentre il disegno accompagna ogni mio spostamento materializzandosi su qualsiasi cosa mi capiti a tiro! È un modo immediato di fissare idee e impressioni, ma alla lunga il desiderio di sporcarmi le mani nella materia si fa sentire! Da sinistra: TWINS, 2012. Resina, 110x20x10 cm. WEARETHEPEOPLE, 2013. Tecnica mista su carta, 40x30 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
SMALL TALK
CIBO CREATIVO Natascia Fenoglio
- Luca Cofone
Luca Cofone/ Quanta sperimentazione e ricerca presuppone il tuo lavoro? Natascia Fenoglio/ La mia ricerca è casualità il più delle volte. Mi piace osservare le persone, i luoghi, gli animali, le piante, le cose in generale mi danno spunti su cui lavorare, su cui immaginare altro. Dopo, in una seconda fase, cerco di realizzare concretamente il pensiero che ho avuto. La realizzazione è il momento più complesso e più lungo del procedimento. I materiali edibili sono pazzi e non sai mai che tipo di risultato otterrai. LC/ Che cos’è il Food Design, e qual è il lato che emerge di più nelle tue creazioni, il lato “ludicoartistico” della presentazione scenica o quello più intrinseco alla sostanza dei cibi? NF/ Il Food Design è disegnare il cibo, applicando gli stessi procedimenti che si utilizzano per la realizzazione di una seduta o di un oggetto. Il mio lavoro non si può definire Food Design, poiché il mio procedere in questo momento è più libero, ed è legato a una mia esigenza di raccontarmi e di sperimentare. Nel mio lavoro credo e spero che si veda la parte ludica, quella legata al gioco, alla condivisione. LC/ Quando hai iniziato a occuparti di questo? E Ciboh, di che si tratta? NF/ Circa dieci anni fa ho incontrato due amiche con cui ho condiviso l’idea di lavorare in maniera particolare e diversa per realizzare catering altamente personalizzati e creativi. Questo collettivo si chiamava appunto Ciboh.
Dall’alto a sinistra in senso orario: LAGUNA PUFFA, Natascia Fenoglio & Arthub Asia a Gervasuti Foundation, Venezia, 4 giugno 2011. Courtesy Essen. MONTAU, Natascia Fenoglio per Essen A Taste Magazine & TourDeFork, Milano, 2011. Foto Chiara Racheli ©. MAGUT, Lunch box Integer Europa, Milano, 2012. PANTONE, Mani in pasta Appartamento Lago, Milano. Big Cake Fondamenta Jahier, Milano. Eventi realizzati per Essen | A Taste Magazine Design Week, 2011. Courtesy Natascia Fenoglio.
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SHOW REVIEWS
BLACK BEAUTY ICA - Londra
- Nadia Perrotta
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errore commesso da noi oggi? Non lo so. Sono veramente pochi gli indizi che possano aiutarmi a cogliere il senso dell’installazione. Così come Andrew Bernardini anche io mi chiedo: “Come dovremmo guardare al lavoro di Lutz Bacher?”2. Lia Gangitano ironicamente l’ha definita “una misteriosa concettuale californiana”3. Sam Thorne, invece, disse che “continua a porre resistenza all’idea di una visione totalizzante del suo lavoro”4. Secondo Maria Schwendener, Lutz Bacher “usando tecniche punk/Dada/anti-art analizza la percezione, mostrando come, in una cultura saturata dalle immagini, è facile che professionisti fattori ci dicano come “guardare” (e quindi pensare) un’opera d’arte, piuttosto che cercare di scoprirlo da noi”5. Scoprirlo da me... Quindi forse è proprio così che l’artista desidera che io veda il suo lavoro. Mi fa rallentare, fermare e pensare, cogliere quello che è visibile della sua esperienza personale e renderlo mio, concettualizzando ciò che so (o che non so) del mondo. E ciò che riesco a comprendere è che non sempre è possible comprendere... è il sentimento cosmico delle nostre limitazioni rispetto all’infinito, questo sconosciuto, dopotutto non tutte le cose in natura sono comprensibili....
to camminando sulla sabbia. La sensazione sotto i miei piedi è quella familiare del leggero sprofondare. Come quando da bambina correvo vicino al mare. Chissà se la sabbia porti anche alla memoria di Lutz Bacher ricordi simili. Spiagge californiane: Paradiso e Inferno; testimoni di terremoti e altri disastri naturali. Sabbia che danza con gli uragani o che, bugiarda, copre i resti di un disastro fingendo che nulla sia successo, come un governo di promesse che continua ad ignorare i milioni di senzatetto che ancora bivaccano sulle loro stesse macerie. Ed è di resti che l’arte di Lutz Bacher si nutre, Andrew Bernardini definisce le sue installazioni “un composito di detriti culturali e personali”1. Il mio sprofondar gentile nella sabbia nera di Lutz è però disturbato dal suo rumore stridente. La faccio scorrere tra le mie dita e scopro che si tratta di scorie di carbone, silicato di alluminio grezzo utilizzato dai marines statunitensi per le bombe delle loro navi da guerra. Mi chiedo se questo paesaggio lunare non debba simboleggiare un mondo post-apocalittico, sopravvissuto ad una gigantesca conflagrazione che ha lasciato sulla superficie del suolo solo resti... Un grande specchio rotto é appoggiato orizzontalmente su una parete. Lì accanto, dei resti di metallo assemblati ricordano vagamente un “robotico e tenero Wally”. Posso vedere le iniziali di un nome, forgiate su di un fianco della scultura. Cosa rappresentano? Il piccolo robot, è per caso un autoritratto? E lo specchio rotto, potrebbe trattarsi di un’identità infranta o dalle mille sfaccettature come quella dell’artista stessa? O forse è allo stesso tempo un modo per mostrare il riflesso di uno spettatore confuso come i pezzi sparsi di un puzzle? E l’installazione sonora? La voce di Puck che ripete meccanicamente l’epilogo della fiaba shakespeariana, è per caso un modo di porgere le scuse alla razza umana del futuro (o ciò che rimarrà di essa) per qualsiasi
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A. BERNARDINI, (2012) Lutz Bacher. Art in America.[Online] March 01 2012. L. GANGITANO, (2008) My Secret Life: Lutz Bacher. Afterall 4 S. THORNE, Institue of Contemporary Art London, (2013) Online Talk: LutzBacher. 5 M. SCHWENDENER, (2008) Lutz Bacher Gets Damaged A veteran provocateur brings a punk aesthetic to her survey exhibition at P.S.1. Village Voice. 3
BLACK BEAUTY, 2013. Courtesy of ICA, Londra, photo by Mark Blower.
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