SMALL ZINE

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ISSN 2283-9771

Magazine di arte contemporanea / Anno VIII N. 30 / Trimestrale free press

SMALL ZINE

Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale 70% Cosenza Aut S/CS/19/2016/C

APRILE MAGGIO GIUGNO 2019


SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea

SOMMARIO TALENT TALENT 3

IL POTERE TRASFORMATIVO DELLE IMMAGINI Vito Stassi - Gregorio Raspa

INTERVIEWS 4

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LʼASSOLUTO QUI E ORA Alessandra Maio - Martina Lolli LA PITTURA COME PRESENZA Elisa Muliere - Loredana Barillaro PRIMA DEL GRANDE BLACK-OUT Andrea Martinucci - Gregorio Raspa

SPECIAL 10

ARTE & IDENTITÀ AZIENDALE con Carlo Giordanetti, Carlo Bach - Loredana Barillaro

PEOPLE ART 12

UNA STRAORDINARIA EREDITÀ Karole Vail

DESIGN.ER 14

LE REGOLE DELLA BELLEZZA Vincenzo DʼAlba - Loredana Barillaro

SHOWCASE 15

FLAMINIA CAVAGNARO a cura di Pasquale De Sensi

SMALL TALK 16

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UNʼIPERCROMATICA VISIONE Giulio Zanet - Luca Cofone LA PITTURA È NUDA Francesco De Grandi - Valentina Tebala OPPOSIZIONI PERMEABILI Thomas Scalco - Davide Silvioli

Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Stampa: Gescom s.p.a. Viterbo Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Contatti e info 3393000574 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Valentina Tebala, Martina Lolli, Davide Silvioli, Gregorio Raspa, Pasquale De Sensi Con il contributo di: Karole Vail © 2019 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.

In copertina Andrea Martinucci 30032018.JPEG, 2018. Acrilico e grafite su tela con cornice di alluminio, 40x50 cm. Foto © Giorgio Benni. Courtesy dellʼartista e Renata Fabbri Arte Contemporanea, Milano


TALENT TALENT

IL POTERE TRASFORMATIVO DELLE IMMAGINI Vito Stassi

- Gregorio Raspa

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scorrere del tempo e collocarsi in una dimensione parallela di eterno presente. A comunicare un simile senso di sospensione è lo stesso segno grafico e pittorico dell’artista, che nei suoi dipinti e, soprattutto nei suoi disegni, tende spesso ad isolare il soggetto in un spazio neutro, caratterizzato da un’inafferrabile ed elusiva profondità spaziale. Immagini inquiete di elementi domestici e architettonici, di reperti archeologici, di figure umane e mitologiche, sembrano fluttuare sul supporto, assumendo pose metafisiche, spesso accompagnate da stranianti effetti di sovrapposizione e compenetrazione dei volumi. Questa epifanica resa formale del soggetto sembra fare da contrappunto visivo al mondo tangibile e suggerire gli esiti, talvolta radicali, dei meccanismi di idealizzazione della realtà messi in atto dall’artista. In tutte le sue opere egli sembra dominare la qualità iconica dell’immagine, modulando, di volta in volta, l’intensità dei contenuti simbolici proposti e il potenziale emotivo della rappresentazione. In questo continuo esercizio di misurazione degli stimoli, Stassi alterna astrazione e figurazione, adattando il proprio segno all’esigenza espressiva del momento. Al cospetto dei suoi dipinti è così possibile osservare figure volutamente sfocate - formalmente assimilabili a quelle di grandi maestri contemporanei come Richter e Tuymans - o perfettamente definite; soggetti austeri e silenti o composizioni ottenute ibridando figure eterogenee. Ed è proprio nell’ambito di una pratica così ampia e composita che si manifesta la molteplicità di un pensiero pittorico concepito - soprattutto - come strumento per affermare la propria presenza nel mondo.

’impegno filosofico e intellettuale di Vito Stassi si concretizza in una ricerca pittorica ampia, dall’afflato magico, che spazia dal materico-formale al letterario-mitologico. Nei suoi dipinti ritroviamo l’enigma di una simbologia non eloquente, l’immagine di un universo immobile e nostalgico costruito agendo con abilità trasformativa sulla realtà preesistente. La sua ricerca principia con l’esperienza - paziente e solitaria - della contemplazione e si conclude con lo spontaneo affiorare di visioni maturate nell’inconscio. Se letto in quest’ottica, il lavoro di Stassi può essere interpretato come un sottile e lirico esercizio introspettivo pensato per dare effettività al complesso sistema dell’Io impegnato nell’interazione col mondo. In un simile contesto, l’artista sembra muoversi con naturale automatismo, talvolta senza mantenere il controllo e la consapevolezza dell’intero processo che dalla suggestione iniziale conduce alla formalizzazione dell’opera. Del resto, il lavoro di Stassi non crea forme nuove e non produce narrazioni originali, ma rivela ciò che già esiste creando i presupposti per la sua apparizione. Tutto nella sua pittura avviene e si consuma con la sola forza di un’immagine. In questa egli ripone il mistero ultimo delle cose. In bilico tra il perturbante e il rivelatorio, l’opera dell’artista palermitano spesso esorbita il dato reale e, soprattutto nelle sue manifestazioni più recenti, rimanda ad un immaginario intimo e autosufficiente, prodotto innestando stratificazioni disorientanti e tracce di memoria. Si tratta di illuminanti meditazioni realizzate a partire da piccoli frammenti iconografici, veri e propri relitti di un naufragio visivo oramai compiuto; effimeri testimoni di una realtà materiale inesorabilmente estinta. In questo combinatorio processo di alterazione pittorica - che dall’esistente conduce verso l’onirico e il surreale - l’artista ripone le sue ambizioni di uscire dallo

SENZA TITOLO, 2018. Carboncino su carta, 21x14,5 cm. Courtesy dellʼartista.

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INTERVIEWS

L’ASSOLUTO QUI E ORA Alessandra Maio

- Martina Lolli

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er metà scrittrice e per metà pittrice, Alessandra Maio porta avanti una ricerca che ha la forza comunicativa della Poesia Visiva e l’eleganza del Minimalismo. Le opere da lei concepite oscillano sulla soglia della percezione dove le immagini prendono forma e le parole si attardano sul confine del dicibile. In ogni lavoro, disegno e parole - significante e significato - cedono l’uno al fascino dell’altro e divengono materia emozionale. Alessandra recupera la scrittura manuale, che torna a essere un mezzo, ma con il suo bagaglio emotivo e la bellezza dell’imperfezione. In lavori come la serie Orizzonti la tensione verso l’infinito è palpabile: il pieno e il vuoto si specchiano mentre le parole si addensano nella linea di confine dando

vita alle sfumature di colore che contraddistinguono le opere. Anche quando la scrittura si dissolve, essa permane come un sottotesto che riempie il “pieno” cromatico, per cui tutto vive di un equilibro dal sentore orientale. Le volute di inchiostro di Irma Blank, la pulizia grafica di Agnes Martin e il colore atmosferico di Ettore Spalletti si fondono nella ricerca dell’assoluto qui e ora di uno stato d’animo che è possibile condividere attraverso parole, che - coscienti della limitatezza - danno vita alle immagini: nulla è spiegato; è evocazione allo stato puro. Qual è il confine tra l’immagine e la parola? Quando la parola trasmigra nel disegno? Cerchiamo di scoprirlo insieme ad Alessandra… 4


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’errore è una componente importante della mia ricerca. In alcuni lavori l’ho reso protagonista cercando di mostrare il suo lato più bello e umano, quel lato che spesso tendiamo a nascondere.”

Martina Lolli/ Quando inizi ad apporre i primi segni che si trasfigurano divenendo immagine, quanto della scrittura si trasla in queste? Cʼè qualcosa che porti con te quando smetti di “scrivere” e inizi a “dipingere”? Alessandra Maio/ Le parole all’inizio per me hanno importanza come significato. Inizio a scrivere la frase che ho scelto in quel momento per quel lavoro, perché è il riassunto di un’emozione, una sensazione che voglio analizzare. Ma mentre creo il rapporto con le parole cambia: pian piano inizio ad assimilarle, tanto che la scrittura diventa automatica, campitura, colore. La creazione diviene, così, atto performativo poiché corrisponde all’evoluzione della sensazione di partenza, alla sua elaborazione. È forse per questo che a volte mi dà quasi fastidio rispondere a domande quali “cosa c’è scritto?”; vorrei che il lavoro fosse osservato per la sensazione che dà, per il risultato finale. Questo vale meno per altri lavori - specialmente quelli degli ultimi anni fatti su carta di quaderno, installazioni - dove le parole,

leggibili, sono invece mostrate e diventano fondamentali per la lettura del lavoro. ML/ Parlaci del momento performativo nella creazione dell’opera. AM/ Quando inizio a scrivere o a dipingere ho già in mente quale sarà il percorso di esecuzione e il risultato che vorrei ottenere. Il momento del fare per me è un atto performativo: è meditazione, riflessione e spesso anche trasformazione di un concetto. I miei lavori di norma partono da alcune frasi che sintetizzano bene un mio stato d’animo (“continuo a cercare ma non so più cosa”, “non voglio perdermi nei miei pensieri”, “non voglio continuare a sbagliare”); ripetere centinaia di volte queste parole è un processo lento che porta a perdersi in esse e infine a trovare in ogni lavoro concluso un “risultato”, una possibile risposta, una forma. ML/ Oggi sembra che le nostre facoltà debbano essere subito sfruttabili e non ci è concesso sbagliare. Mentre nelle tue serie Errata Corrige e Preghiera l’errore forma l’opera e la trasforma in un esercizio volto alla perfezione. Anche la serie Campiture è una sorta di training basato sul colore e sulle sue impercettibili sfumature. Puoi parlarci dell’attitudine che si cela dietro ogni esercizio? AM/ L’errore è una componente importante della mia ricerca. In alcuni lavori l’ho reso protagonista cercando di mostrare il suo lato più bello e umano, quel lato che spesso tendiamo a nascondere. Preghiera è fra questi: è una preghiera impossibile - “non voglio continuare a sbagliare” - che, nel suo intento irraggiun-

gibile, mostra la sua forza. Ho sempre pensato che esercitarsi sia fondamentale per migliorarsi. Per quella che è la mia esperienza, ho notato che quando spero di ottenere qualcosa senza fare niente è perché sono bloccata o sono presuntuosa. Qualche anno fa, nel 2015, ho cominciato una serie di lavori che ho chiamato, non a caso, esercizi di stile. Cominciare questa serie per me è stato il modo per formalizzare il metodo di lavoro che avrei voluto seguire da quel momento in poi con studio, caparbietà, costanza e tanto esercizio. In questi lavori cerco di provare ad accordare colore, scrittura ed espressione e questa è una delle ricerche che al momento sto seguendo con maggiore interesse. ML/ In alcune serie, come Mimesi, lasci spazio al colore che sommerge le parole fino a costruirvi sopra l’immagine che mantiene tuttavia la carica emotiva del testo che nasconde come fosse un velo di Maya. Come scegli i colori che vanno a interagire con le parole? AM/ Li scelgo in funzione della sensazione che vorrei suscitasse il lavoro finito. La frase e il colore che compongono un lavoro sono in dialogo tra loro, sfumano l’uno verso l’altro, si confrontano (come accade in Campiture) o si fondono (come nella serie Mimesi). Amo lavorare con il blu e il rosso, li declino in molte gradazioni. Prediligo l’acquerello ma ultimamente ho usato anche gli acrilici e i colori a olio. Il colore è un terreno ancora nuovo per me e mi sta piacendo molto esplorarlo: l’uso della pittura mi permette di scardinare maggiormente i limiti della scrittura, di estenderli.

Da sinistra: CAMPITURE BLU, toujours le meme toujours différente, 2018. Matita e acquerello su carta di cotone, 76x56 cm. ERRATA CORRIGE, 2014. Penna su fogli protocollo, 87x126 cm. Per entrambe courtesy dellʼartista.

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INTERVIEWS

LA PITTURA COME PRESENZA Elisa Muliere

- Loredana Barillaro

Loredana Barillaro/ Elisa, la pittura è un gesto antico, ma risulta sempre, fra i linguaggi, il più forte, il più duraturo. La tua maniera appare intrisa di sperimentazione continua, pur connotandosi, per un certo aspetto, di arcaicità, è così? Elisa Muliere/ Ciao Loredana, sì in un certo senso è così. Ad oggi la mia pratica artistica è più che mai in evoluzione, proseguo in uno sforzo costante di indagine e approfondimento sulla materia. La pittura è salda al centro di questa sperimentazione. Negli anni è rimasta una costante: su tela o carta, più o meno legata alla figurazione, è da sempre il punto di partenza per ogni riflessione. Oggi per me la pittura è istinto e insieme istante, un canale attraverso il quale entro in contatto diretto con una parte interna al mio essere, da portare in superficie. È un’attestazione di presenza. Ho sempre lavorato attorno all’idea dell’uomo e del suo “patire” l’esperienza del mondo, all’inizio con lavori di carattere autobiografico che via via si sono trasformati in indagine a più ampio spettro, universale. Da qui, a mio avviso, ne traspare quel sentimento arcaico di cui parli, nel senso di primigenio, originario. LB/ La tua è una pittura dal segno leggiadro, “fluido”, ma che tende ad acquisire consistenza nella produzione scultorea. Quanto muta il significato da un medium all’altro? EM/ In scultura sto cercando di affrontare il lavoro con la stessa attitudine con la quale esercito la sperimentazione pittorica. La pratica è meno immediata, la ceramica necessita di tempi di produzione complessi e di attese, ma la dimensione creativo/immersiva è la medesima. Ultimamente sto lavorando alla contaminazione tra differenti materiali, abbinando ai pezzi in ceramica innesti con tessuti di differenti fattezze. Questo passaggio aggiuntivo serve a determinare i contrasti interni all’opera, a finalizzarne il carattere e a chiuderla: è il corrispettivo di una stratificazione in pittura. In sostanza, per quanto i materiali utilizzati e i rispettivi esiti siano intrinsecamente dissimili, il tentativo è quello di ragionare abolendo la linea di confine tra le categorie artistiche e cercando di attivare un dialogo tra le opere e interazioni con il pubblico. La libertà con la quale affronto la mia pittura oggi è la stessa che mi prendo con il resto della produzione e il processo creativo vive in un terreno di ibridazione continua, dove significati e significanti si mescolano e sovrappongono, moltiplicano. 6


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ggi per me la pittura è istinto e insieme istante, un canale attraverso il quale entro in contatto diretto con una parte interna al mio essere, da portare in superficie. È un’attestazione di presenza.”

LB/ Mi hai accennato di come il tuo lavoro, in tempi recenti, sia stato influenzato dall’ascolto di una traccia musicale che, se da un lato ti ha indicato la strada, il percorso da disegnare sulla superficie, quasi guidandoti la mano, dall’altro ha lasciato che fossi tu ad avere il controllo necessario a “trascrivere” ciò che per sua natura è intangibile, il suono. Puoi approfondire questo aspetto del tuo lavoro? EM/ In un momento di rinnovamento pieno della mia disciplina pittorica, ho individuato in un determinato tipo di ascolto un potenziale che va oltre quello puramente evocativo. Ho iniziato a lavorare sull’analisi del gesto in abbinamento al ritmo di alcune partiture, spostando il mio punto d’attenzione e cercando di trasferire, prima su tela e poi sulla ceramica, una traccia degli impulsi che la musica era in grado di generare in me. Sperimentando il potere psicoattivo di determinati brani, ho come annullato le distanze che mi separavano dal lavoro, immergendomi in esso. All’interno della mostra personale “Il tempo sei tu che lo decidi” (presso Adiacenze di Bologna, a cura di Alice Zannoni e del team curatoriale dello spazio espositivo) ad esempio, ho esposto l’installazione site specific Paesaggi Emotivi, composta da sculture in ceramica, tessuti leggeri e materiali di risulta. Per tutto il tempo di creazione delle ceramiche e dell’allestimento ho lavorato accompagnata da un brano di Wim Mertens, That M (2001), in loop per un numero di ore superiore a cinquanta. La risultante di questo ascolto reiterato è stata la creazione di un complesso di opere che si sono fatte traccia di un ascolto forzato: le prime sculture sono molto “agite”. Man mano che proseguivo nel lavoro, le forme sono mutate - di pari passo con la musica che da nuova mi diveniva più familiare, poi insopportabile, fino a farsi rumore bianco ed infine al pari di un mantra. L’allestimento si è invece concretizzato in una restituzione visiva delle dinamiche del brano, del suo variare tra alti e bassi, della sua tensione - sia su un piano mentale che poetico. LB/ Parlami dei tuoi progetti recenti, a cosa stai lavorando? EM/ Dopo la mostra presso Adiacenze, ho lavorato in questi mesi ad altre due personali. Una di queste è “Ensemble, Volume II” del progetto “Supergiovane” - un format indipendente nato dall’intuizione di quattro colleghi artisti - che si è svolta il 23 marzo scorso a Milano. Il 6 aprile invece, a Livorno, abbiamo inaugurato “Blossom”, un solo show studiato ad hoc per la galleria Uovo alla Pop. La mostra, visionabile fino al 27 aprile, presenta dipinti e sculture di recente produzione, installazioni site specific e si completa di un intervento urbano in centro città, ideato in collaborazione con il team curatoriale della galleria.

Da sinistra in senso orario: PULSES, 2019. Olio su tela, 200x145 cm. LIQUID FREE FALL, 2018. Olio su tela, 235x250 cm. Foto © Giulia Mazza. JELLYFISH VOLCANO, 2018. Tecnica mista su tela, 300x275 cm. Foto © Luciano Paselli. Per tutte courtesy dellʼartista.

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INTERVIEWS

PRIMA DEL GRANDE BLACK-OUT Andrea Martinucci

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i piace pensare alla pittura come un medium in grado di ospitare nuove interpretazioni. Con il mio lavoro intendo testare i confini fisici e concettuali della superficie dell’opera.”

Gregorio Raspa/ Da qualche anno hai posto al centro della tua ricerca pittorica la serie .JPEG. In essa proponi un inusitato e psichedelico catalogo di immagini costruito giocando sull’incongruenza visiva e lo slittamento semantico, la destrutturazione del dato oggettivo e la proposizione di un ibrido universo figurale. Come nascono simili lavori? Andrea Martinucci/ Parto da un interrogativo che accompagna costantemente il mio operare: in che modo ci si può definire contemporanei? La mia missione è comprendere cosa accade

- Gregorio Raspa

intorno a me, non solo nell’ambito sociale in cui vivo, o nel luogo che fisicamente abito, ma anche in quella realtà parallela rappresentata dal mondo digitale, oramai assimilabile a un territorio tangibile. Come dici tu, la mia ricerca produce una visione psichedelica e maniacale delle nuove subculture che, se opportunamente mescolate tra di loro, sono in grado di generare nuovi piani semantici. In questa fase perseguo una ricerca in grado di congelare e approfondire il quotidiano condivisibile. GR/ Il tuo lavoro esibisce una composita estetica underground, costruita innestando tra loro scene e appunti visivi prelevati dallo sconfinato archivio della rete. Come si svolge il processo di selezione delle immagini? AM/ La selezione dei soggetti nasce da un lavoro meticoloso di archivio e catalogazione: ricerco costantemente nuove parole chiave e seguo, a suon di like, le mie “muse” digitali. Tutto parte da una sensazione epidermica, da uno screenshot apparentemente casuale. A volte, solo dopo mesi comprendo il motivo che mi ha spinto a congelare una specifica finestra di pixel. Credo che tutto 8

risieda nellʼapprofondimento. Agendo in questo modo evito la noia dei soggetti troppo pensati, concedendomi la libertà e il piacere di lavorare sulle immagini che mi colpiscono. Cerco di capire fino a dove posso spingermi. Voglio che i soggetti ritratti diventino dei performer, in piena sfida con il loro limite. GR/ Giocando con l’effimera sovrabbondanza delle immagini oggi in circolazione, la tua opera sembra in qualche modo esorcizzare le funeste conseguenze di un inesorabile oblio indotto - per dirla con le parole di Vint Cerf - dalla “putrefazione del bit”. In quest’ottica mi piace leggere il tuo lavoro come una singolare riflessione sulla transitorietà… AM/ Non so cosa succederà, molto probabilmente tra qualche anno ci sarà un grande black-out. In fondo, penso che un simile epilogo sia in linea con la logica delle cose, con il destino dellʼuomo, abituato a costruire, distruggere e ricostruire allʼinfinito. È sempre stato così. Anche la distruzione, a mio avviso, non è un momento interpretabile solo in maniera transitoria. Esso merita di essere vissuto e interiorizzato.


GR/ Nella tua opera il confronto tra il mondo analogico e quello digitale avviene non solo su un piano concettuale, ma anche fisico ed operativo. Penso, ad esempio, al progetto Offline (2014-2016) in cui media diversi fra loro, come la pittura e la video installazione, dialogano all’interno di un dispositivo unico. Me ne parli? AM/ Mi piace pensare alla pittura come un medium in grado di ospitare nuove interpretazioni. Con il mio lavoro intendo testare i confini fisici e concettuali della superficie dell’opera. Ho coscientemente deciso di non studiare discipline pittoriche durante il periodo accademico proprio per approfondire i nuovi media e comprenderne le potenzialità. In tal senso, la serie Offline ha segnato un passaggio fondamentale per la mia ricerca. In essa ho verificato le prime connessioni tra la realtà analogica e quella digitale, creando presupposti teorici e pratici della serie .JPEG. GR/ Per realizzare il progetto Mappe (2015) hai seguito un processo di lavoro molto particolare, agendo come un antropologo, con metodo scientifico e documentale. Ricorri con frequenza ad un simile approccio di studio o lo stesso è stato suggerito dalla specificità dell’intervento? AM/ Di fronte a tutto quello che sfioro applico un approccio analitico, soprattutto nei confronti del sensibile e delle storie altrui. Infatti, nel progetto Mappe ho intervistato diverse persone e ascoltato le loro esperienze. Le ho analizzate ricostruendo, con l’ausilio di Google Maps, gli spostamenti che nel tempo hanno segnato la loro esistenza. Anche in questo caso il digitale è stato un vettore che mi ha portato a definire delle linee d’intervento rispetto al layer inferiore del dipinto. In ogni progetto applico un metodo operativo molto pragmatico e lucido. Solo così riesco a generare.

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GR/ Al centro della tua pratica artistica vi è un ripensamento dell’odierno sistema dei valori che orienta i comportamenti sociali e condiziona i meccanismi di comunicazione. Il tuo atteggiamento artistico che posizione assume rispetto a tali temi? AM/ Come accennavo allʼinizio, osservando la realtà attorno a me riesco a scoprire dei nuovi valori. Mi sento un veicolo di traduzione rispetto a tutto questo. Credo che il mio lavoro sia solo un modo per giustificare il mio passaggio nella storia del mondo. Per intendere, negli ultimi lavori ho realizzato un intervento a parete dove recitavo un paradigma contemporaneo che parte dalla nota filosofia socratica trasformata in “I know that I know”. Non sono io a dirlo ma provo piacere nellʼutilizzare parole altrui modificate, vestite e interpretate in soggettiva. Sarà arroganza? Io mi diverto. GR/ La tua ricerca compendia gli elementi tipici di una cultura visuale fortemente legata alla specificità dell’attuale contesto tecnologico e culturale. Temi mai che la tua opera possa “invecchiare” con la stessa velocità con cui avanza l’obsolescenza dei mezzi e dei contenuti che la ispirano? AM/ Voglio invecchiare, voglio segnare nuove forme sul mio corpo. Desidero fare tutto ciò mantenendo il mio pensiero libero da condizionamenti esterni. Se saprò accogliere in me nuove visioni e nuove interpretazioni del fare non avrò simili problemi. Muterò mille volte, e poi altre mille volte ancora.

Da sinistra: 22012018.JPEG, 2018. Acrilico e grafite su tela, 120x200 cm. 270118.JPEG, 2018. Acrilico e grafite su tela, 100x140 cm + tela aggiunta, 50x60 cm. Per entrambe courtesy dellʼartista e Renata Fabbri Arte Contemporanea, Milano.


SPECIAL

ARTE & IDENTITÀ AZIENDALE

È

Loredana Barillaro

indubbio, ormai, che per alcuni marchi aziendali molta riconoscibilità sia legata ad una serrata vicinanza all’arte, tanto da suscitarne, nel corso del tempo, una “brand identity” inconfondibile oltre che di incontrovertibile successo, a prova che strategia e lungimiranza in questa direzione hanno ragion d’essere. Nella maggior parte dei casi si può parlare di politiche di

mecenatismo prima ancora che di promozione aziendale. Ebbene, che cosa aggiunge in termini di immagine - ma anche in termini di fatturato - puntare sull’arte e su artisti soprattutto contemporanei? Strategie di questo tipo quanto possono incidere sulla “fidelizzazione” del pubblico?

CARLO GIORDANETTI

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er noi di Swatch investire sull’arte vuol dire investire in un dialogo con gli artisti, innanzitutto. Questo perché crediamo fermamente che gli artisti siano tra coloro che possono contribuire a stimolare la società. Dar loro un’opportunità per allargare il raggio d’azione della loro opera e della loro visione ci sembra importante per un marchio come Swatch, che si vuole per definizione sin dalla sua fondazione aperto, democratico, dinamico e interlocutorio. Per questo, l’interazione di Swatch con il mondo dell’arte contemporanea (una scelta chiara e definitiva) ha diversi aspetti: il coinvolgimento di artisti nella creazione di orologi in edizione limitata (una costante delle attività di Swatch fin dal 1984, cui hanno aderito grandi nomi da Sam Francis a Annie Leibovitz, da Damien Hirst a

Joana Vasconcelos, da Akira Kurosawa a Vivienne Westwood, da Philip Glass a Yoko Ono, da David Lachapelle ad Alfred Hofkunst, e molti altri ancora - generando idee che chiunque può sfoggiare al polso, e grazie a Swatch portando la loro opera nelle strade e nel quotidiano!); la commissione di opere site specific per progetti prestigiosi quali la Biennale di Venezia, la Fondazione Beyeler a Basilea, la FIAC di Parigi, e altri; il dialogo con un pubblico di studenti e altre categorie, attorno a un progetto creativo che serve da modello e ispirazione (ultimamente, a Milano, a Hong Kong, a Taiwan); la “sfida” ad entrare con il messaggio artistico nel mondo del retail del marchio (progetto recente e di grande successo, che trasforma il negozio in opera d’arte contenitore); una rappresentazione fisica e di grande dimensione 10

con il progetto “Swatch Art Peace Hotel” a Shanghai, una residenza per artisti con 18 stazioni di vita e lavoro, che dal 2011 ad oggi ha ospitato più di 300 artisti, cui offriamo un luogo di lavoro e di libertà di espressione, in totale indipendenza. Dal mix di questi progetti, di queste interazioni, di queste “avventure nell’arte” nascono stimoli, idee, provocazioni, nasce la vita sotto la forma che solo gli artisti le sanno dare.

Carlo Giordanetti è Direttore Creativo di Swatch. Carlo Giordanetti davanti allʼopera GIARDINI COLOURFALL di Ian Davenport, Biennale di Venezia, 2017. Courtesy Swatch.


CARLO BACH

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uello di illycaffè con il mondo dell’arte è un legame profondo, una sinergia naturale che nasce dalla condivisione di valori e intenti. Uno dei principi cardine dell’azienda è infatti da sempre il perseguimento del bello - insieme al buono, in una costante tensione all’eccellenza - perché crediamo che la qualità estetica contribuisca al successo di ogni nostro progetto. In questo senso possiamo dire che l’arte e la creatività siano parte integrante del nostro DNA, e concorrano alla definizione dell’identità aziendale. A partire proprio dal nostro logo, che è stato disegnato nel 1996 dall’artista americano James Rosenquist. Passando per illy Art Collection, il progetto che ha visto artisti di tutto il mondo, da Marina Abramović, Michelangelo

Pistoletto a Louis Bourgeois, Joseph Kosuth e Mark Quinn, decorare l’iconica tazzina disegnata da Matteo Thun. Fino al sostegno di mostre, istituzioni e fiere d’arte internazionali - una su tutte la Biennale di Venezia, con cui collaboriamo dal 2003. O ancora i riconoscimenti a favore dei giovani talenti che promuoviamo ogni anno, come il premio “illy SustainArt” istituito nel 2008 in occasione di ARCO Madrid, dedicato ai giovani artisti provenienti da paesi produttori di caffè e assegnato quest’anno a Sheroanawë Hakihiiwë. Queste sono alcune delle iniziative attraverso cui la costante ricerca del bello si concretizza, e che hanno contribuito nel tempo a definire l’immagine dell’azienda e ad aumentare la riconoscibilità del marchio, legandolo indissolubilmente al mondo dell’arte e della creatività. Un rapporto forte e duraturo che si esprime in un circolo virtuoso che investe nel mondo dell’arte portando benefici reciproci. Un approccio strategico sicuramente, ma anche una strada connaturata nell’identità dell’azienda e nei valori di cui si fa portavoce. Come direttore creativo di illycaffè, mi sento di affermare che questo connubio è fondamentale per riuscire ad avere un occhio anticipatore sulle nuove 11

tendenze, oltre a portare grandi risultati in termini di visibilità per gli artisti che collaborano con la nostra realtà. Inoltre ritengo che, in termini di fidelizzazione, la vicinanza tra i due mondi, azienda e arte, sia un enorme valore aggiunto che ci permette non solo di farci scegliere, ma di conquistare, chi come noi crede nell’importanza del bello e della creatività in ogni aspetto della vita, anche nel gesto quotidiano di sorseggiare una tazzina di caffè.

Carlo Bach è Direttore Creativo di illycaffè. Un ritratto di Carlo Bach. Courtesy illycaffè.


UNA STRAORDINARIA EREDITÀ Karole Vail

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on è un fatto scontato che ci si innamori dellʼarte, sia che si tratti di un dipinto, che di un brano musicale, di un romanzo, o di un artista, quindi mi sento fortunata che lʼarte sia sempre stata parte integrante della mia vita, sia a livello personale che professionale. Questo è in parte grazie alla mia educazione e alle circostanze, poiché ho avuto la fortuna di vivere in parti del mondo in cui la cultura è un premio, la storia è sempre presente e gli artisti abbondano. Sono cresciuta a Parigi, lì era consuetudine per me visitare molti musei e mi piaceva vedere mostre. Penso che lʼassoluta grandiosità delle istituzioni mi abbia sempre attratto e musei come il Louvre erano un posto meraviglioso in cui perdersi e sognare guardando la Gioconda, che allʼepoca era semplicemente incorniciata

e meravigliosamente solitaria. Ricordo quando attraversavo la grande sala con i monumentali dipinti di Rubens, le cui voluttuose figure femminili trovavo quasi repellenti. Amavo guardare in estasi le sculture di Michelangelo che si trovavano nel Pavillon de Flore e mi chiedevo come fosse riuscito a realizzarle. Naturalmente sono stata attratta dagli impressionisti e dai dipinti del tardo XIX secolo al Jeu de Paume, con una predilezione - prima che venisse trasferito al Musée dʼOrsay - per I piallatori di Parquet del 1875 di Gustave Caillebotte, uomini senza camicia che sembravano così belli e stranamente romantici. Il Musée Marmottan era uno dei miei favoriti con le sue gloriose tele di Monet dai colori brillanti; e non vedevo lʼora di visitare Giverny e i suoi giardini incantati. Adoravo il Grand Palais per le sue esposizioni di così enorme successo, una novità a quei tempi; al Museo d’arte moderna della città di Parigi ricordo il brivido di visitare lʼeccezionale collezione di dipinti di antichi maestri del barone ThyssenBornemisza, in particolare Ritratto di cavaliere di Vittore Carpaccio, del 1510, ne assaporavo la meticolosa resa 12

PEOPLE ART

del paesaggio e pensavo, allora, che il cavaliere fosse troppo giovane e innocente per impegnarsi in battaglia. Altri grandi ricordi artistici sono indubbiamente legati al tempo trascorso a Venezia nella casa di mia nonna paterna, Peggy Guggenheim. Qui ho incontrato quelle che a me sembravano terrificanti visioni di strane creature del mondo nei tetri quadri di Max Ernst e Paul Delvaux. Non riuscivo a capire il misterioso Impero della luce di Magritte, ma le sue dimensioni monumentali sembravano invitare a penetrarlo letteralmente e a sperimentare notte e giorno proprio come Magritte lo avesse così meravigliosamente creato. Sono sempre stata attratta dai toni grigi e dai colori dei primi dipinti cubisti di Georges Braque e Pablo Picasso e rimasi affascinata dal modo in cui gli artisti scomponevano lʼoggetto in una moltitudine di forme sul piano della tela; adoravo il dipinto di finestre luminose di Robert Delaunay, un invito a godere del colore puro. Gli spruzzi e le gocce grondanti di Jackson Pollock avevano un fascino speciale, li ho trovati straordinariamente rivoluzionari e liberatori, ciò mi ha mostrato che tutto era possibile nellʼarte.


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ra mi trovo a Venezia al timone della superba e singolare collezione di mia nonna, in quello che potrebbe essere un sogno, e ho la responsabilità di essere guardiana della sua eredità.”

ueste esperienze alla fine scatenarono un maggiore interesse e desiderio nel perseguire una carriera nel mondo dell’arte. Ho trascorso alcuni anni a Firenze lavorando al Centro Di, una casa editrice e centro di documentazione, e dilettandomi anche in altre attività. Eppure lo devo a New York se ho raggiunto un profondo e ricco legame professionale con l’arte e gli artisti. Ho iniziato davvero a trovare la mia strada quando ho avviato la mia carriera di curatrice al Solomon R. Guggenheim Museum. Uno degli aspetti più eccitanti di quel lavoro è stato confrontarmi con l’edificio di Frank Lloyd Wright in tutta la sua gloria architettonica e scoprire la storia dell’istituzione grazie al mio lavoro su Hilla Rebay, fondatrice e consigliera di Solomon Guggenheim, lo zio di Peggy Guggenheim, che stava creando il suo museo di arte moderna con un focus sulla pittura non oggettiva. Imparare a conoscere Rebay, e a riconoscerla come artista a pieno titolo, è diventata una sorta di missione e ha occupato la maggior parte del mio tempo al Guggenheim. È stato emozionante rendermi conto che i pilastri del Guggenheim erano davvero centrati attorno a due donne straordinarie, Peggy Guggenheim e Hilla Rebay, la cui lungimirante visione costituiva l’istituzione che conosciamo oggi, anche se le loro idee sull’arte erano lontane nonostante provassero entrambe un grande amore e una grande ammirazione per gli artisti. Il momento clou della mia carriera curatoriale è stata la retrospettiva dell’artista di origini ungheresi Laszló Moholy-Nagy al Guggenheim, che si è poi spostata all’Art Institute di Chicago e al Los Angeles County Museum of Art. Moholy-Nagy era uno dei preferiti di Solomon Guggenheim e Hilla Rebay e mi dispiace, un po’ scherzosamente, che Peggy Guggenheim non ab-

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bia mai acquistato un Moholy per la sua collezione di opere d’arte moderna. Se dovessi criticarla per questa lacuna nella sua collezione potrei dire che il non aver incluso un’opera di Moholy-Nagy è stato forse un errore di giudizio da parte sua, perché enorme è la mia ammirazione per questo artista, così visionario e pioneristico, con i tanti media con cui ha lavorato. Ora mi trovo a Venezia al timone della superba e singolare collezione di mia nonna, in quello che potrebbe essere un sogno, e ho la responsabilità di essere guardiana della sua eredità. È un suo grande merito aver lasciato in eredità la sua collezione e il palazzo alla Fondazione Guggenheim, assicurando così - grazie alla sua visione, allo spirito e all’impegno senza paura nell’arte del suo tempo - che la sua collezione rimanesse nel suo insieme e fosse a disposizione dei visitatori provenienti da tutto il mondo. È mio dovere assicurarmi che sia goduta e rispettata dalle generazioni a venire, poiché l’arte è sempre un essere vivente da scoprire e riscoprire più e più volte. Sono anche fortunata ad essere sposata con un artista che mi dà intuizioni e forza per perseguire questo percorso nel miglior modo possibile. L’arte è sicuramente parte integrante della mia vita in tutti i modi possibili e per questo non potrei essere più felice e soddisfatta.

Karole Vail è Direttrice della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia.

Da sinistra: Karole Vail in una foto di Matteo de Fina. © Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. Una delle sale del Museo, © Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. Foto Matteo de Fina.


DESIGN.ER

LE REGOLE DELLA BELLEZZA Vincenzo D’Alba

- Loredana Barillaro

Loredana Barillaro/ La bellezza al servizio della quotidianità, in fondo il design fa questo, fa si che l’arte sia anche “materialmente” utile, è così Vincenzo? Vincenzo D’Alba/ Non è così. L’arte mantiene un’assolutezza che non può essere materiale e soprattutto quotidiana. Il prodotto seriale, artigianale, industriale o di design, al contrario, si fonda sulla matericità e utilità. Si può quindi portare la quotidianità al servizio della bellezza, mai l’arte al servizio della razionalità e della chiarezza. Gli sconfinamenti tra le arti hanno un valore culturale non materiale; ogni disciplina ha le sue regole. LB/ Quando si parla di design si parla anche di riproducibilità come elemento di differenziazione dall’arte, connotata nella maggior parte dei casi dall’aspetto di unicità. In termini di numeri cos’è che conferisce a un oggetto di design la preziosità tipica del “pezzo unico”? VDʼA/ Nel design un “pezzo unico” è un prodotto perfettamente industrializzato. Può essere un’icona non un’opera d’arte; paradossalmente il valore della riproducibilità lo rende unico. Confondere volontariamente arte e design non è una conquista. LB/ Cos’è Kiasmo? Che cosa fa? VDʼA/ Kiasmo è un’azienda costituita da una cultura e una vocazione interdisciplinare. Lo scopo è di creare una collezione di opere e prodotti che abbiano stile, e non uno stile. La nostra produzione è costituita da opere, pezzi unici, prodotti e oggetti realizzati in serie. Il nostro obiettivo è di ricreare, attraverso una produzione fondata sulla “quantità”, un insieme di oggetti che, seppur distanti tra loro, siano in grado di restituire una visione unitaria e invisibile.

Vincenzo D’Alba è Designer del marchio Kiasmo.

Dallʼalto: Parete della sede di Kiasmo, Torrepaduli (Le). Courtesy Kiasmo Archive 2019. Vincenzo DʼAlba durante la lavorazione dei vasi. Courtesy Kiasmo Archive 2016.

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SHOWCASE

FLAMINIA CAVAGNARO | a cura di Pasquale De Sensi

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uando disegno mi piace spaziare affrontando tutti i temi che mi vengono in mente. Gli animali sono sempre presenti nella mia produzione. Amo disegnare ciò che sul momento ho voglia di disegnare. Nei miei primi disegni ho provato a riportare le visioni oniriche di sogni meravigliosi o incubosi, ma ultimamente sento l’esigenza di esprimere altre specifiche emozioni, quelle che più amo, come la gioia, la tenerezza, il buffo e la pace...

Dallʼalto: ST, 2016. Acquerello e matita, 42x30 cm. DOG GOD 2016. Pennarelli e matite, 30x21 cm. Per entrambe courtesy dellʼartista.

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SMALL TALK

UN’IPERCROMATICA VISIONE Giulio Zanet

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ʼattenzione è sempre rivolta al rapporto che intercorre tra gli elementi che compongono l’opera. Riflettere sul modo in cui nasce un’opera, sul suo farsi, sulla pratica della pittura...”

- Luca Cofone

prima dell’accademia, e poi il lavoro si è evoluto; prima togliendo la figura umana e in seguito togliendo qualsiasi forma riconoscibile, nel tentativo di dipingere sempre più in modo che la pittura fosse il vero soggetto del mio lavoro. Il colore, ancor prima delle forme, è il vero protagonista della mia ricerca ed è vero che amo i colori brillanti e vivaci e quindi sì, ipercromatico può essere una definizione calzante. LC/ L’osservatore tipo delle tue opere su cosa vuoi che rifletta?

Luca Cofone/ Giulio, hai frequentato Brera che, per antonomasia forma talenti “inculcando” o “spingendo” gli allievi verso una pittura più propriamente figurativa. Cosa ti ha spinto a intraprendere il tuo astrattismo ipercromatico? Ti riconosci in questa “definizione”? Giulio Zanet/ Non credo che Brera mi abbia spinto verso una pittura figurativa, ho cominciato io il mio percorso dal figurativo, come spesso accade, ancora

GZ/ Non lo so esattamente, spero che prima di tutto rifletta su cosa lascio completa libertà al pubblico. Personalmente rifletto sull’equilibrio, sulla convivenza di opposti, sull’insensatezza vera o presunta della nostra esistenza. Lʼattenzione è sempre rivolta al rapporto che intercorre tra gli elementi che compongono l’opera. Riflettere sul modo in cui nasce un’opera, sul suo farsi, sulla pratica della pittura; è chiaro che il prodotto finito ha la sua naturale importanza ma ho sempre badato di più al processo che al fine. E questo spero che in qualche modo si legga nelle mie opere. Considero ogni opera un tassello di un’opera più ampia, mai finita e in continuo divenire. 16

LC/ Cosa ti aspetti dall’arte contemporanea? Come si pone il tuo lavoro nel rapporto con la moda e il design? GZ/ Dall’arte contemporanea mi aspetto che mi dia degli strumenti per leggere meglio la realtà. Questo purtroppo non sempre accade. In questo senso io interpreto il mio lavoro come uno strumento per conoscere il mondo e quindi sono felice quando esso riesce a intercettare aspetti non propriamente legati all’arte contemporanea e si crea una commistione con linguaggi quali la moda o il design. E inoltre confrontarsi con mondi paralleli a quello dell’arte offre sempre stimoli e spunti di riflessione interessanti.

BEHIND THE SCENES. Veduta dell’installazione, LM Gallery, Latina. Foto © Andrea Menghin. Courtesy dellʼartista.


SMALL TALK

LA PITTURA È NUDA Francesco De Grandi

Valentina Tebala/ Il tuo rapporto con la pittura è d’anima e corpo. La vivi come un’esperienza viscerale e accade come una sorta di atto performativo. Quanto è meditata e sofferta questa pittura? Francesco De Grandi/ Cerco una Pittura onesta, che parli la mia lingua, il mio dialetto. Una lenta digestione della Pittura Romantica, traviata dal Pop, drogata di Ketamina, fecondata dai Barbari. Pittura Anabattista, Apocrifa, Gnostica, Eretica, Dimenticata, Monaca, Pasoliniana. Pittura non identificata come quella di Mathis Grünewald, Pittura Post-Punk-Mistica come il teatro barbarico di Lindo Ferretti. Una Pittura Parafilìaca, il morboso catalogare di modi e tecniche. Un corpo a corpo che trova quiete e tormento, contemplazione e voyerismo. Pittura Francescana, nel totale rifiuto dell’artista imprenditore, ricercando quel fondo di “Animità” necessaria, una spinta mistica, a tratti patologica, che mi sopravvive e che appartiene a una dimensione profonda e ancestrale dell’atto del dipingere, quella cioè di essere mezzo di conoscenza, di trasmissione sciamanica e di rappresentazione della divinità, Pittura rivelatrice dell’Io profondo che odora di sangue e di sudore. Un infinito remoto, una Pittura che soffre e rantola imprecando il nome del Padre. Professo un realismo forsennato, una natura rivelata. La Mela d’Oro.

- Valentina Tebala

VT/ Tendi a mettere a nudo gli umori e le pulsioni più basse ed estreme dell’essere umano, incluso te stesso. FDG/ Un pittore ridisegna il mondo che osserva, se ne appropria, lo scannerizza, di conseguenza lo possiede, lo controlla e lo conosce. Osservando i suoi quadri il pittore osserva se stesso, la realtà, non esistendo se non nella sua forma assente, si materializza nella proiezione della nostra mente, e un quadro ne è la sua mappa più accurata. Fortunato è quel pittore che vede emergere l’inatteso nel groviglio dei suoi segni. VT/ Il sentimento del Sacro è un altro concetto importante per la tua ricerca. Nei soggetti di alcuni recenti lavori a un simbolismo più universale corrisponde la raffigurazione di Cristo. FDG/ Secondo Rudolf Otto si può individuare un momento nell’evoluzione della coscienza che egli definisce come la nascita del sentimento Creaturale, cioè quando nella mente dell’uomo si forma la consapevolezza di non essere altro che “terra e cenere”, di non avere nessuna possibilità di determinarsi volontariamente in vita e morte. Da questa consapevolezza nasce l’idea di essere entità creata da una volontà superiore e nell’uomo comincia a manifestarsi l’idea di Dio, della “domanda” che ininterrottamente ci accompagna. Da questo

avvio le Opere Delle Storie Di Gesù, tele intensissime, frutto del lavoro di questi ultimi anni (2013-2018). Momenti cruciali di una delle storie più potenti mai scritte sulla faccia della terra. In queste opere danzano nei miei sogni Bruegel il vecchio, Ensor, Guttuso dei funerali di Togliatti, Pasolini di Salò, l’Ottocento napoletano. Pitocchi laceri, pidocchiosi e affamati avanzano in una marea inondante ai piedi del Sacro Monte Pellegrino. Una corte dei miracoli, una rivolta civile, la cacciata dei demoni dal ventre putrefatto della città mi conduce nei vicoli di Ballarò dove Lanzichenecchi deformati come demoni frustano un Cristo a carponi come un cane randagio. Infine, a Piazza Marina, in una visione siderale, uno sparuto corteo funebre accompagna il corpo velato dell’eroe morto, in un lentissimo piano sequenza da classico del western. Sto cercando utopisticamente di riscrivere gli archetipi della pittura nella sua forma più viscerale, cercando i momenti cruciali della visione quando l’opera si manifesta ai nostri occhi, presente e inequivocabile. VT/ Mi diresti chi consideri, fuori ogni dubbio, un genio della pittura, e perché? FDG/ Non credo che esista un genio della pittura, credo che invece esista il Genio della pittura che dalle Grotte di Lascaux fino ai giorni nostri si manifesta prodigiosamente nelle opere dei pittori.

COME CREATURA, 2018. Olio su tela, 230x340 cm. Courtesy dell’artista.

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SMALL TALK

OPPOSIZIONI PERMEABILI Thomas Scalco

- Davide Silvioli

Davide Silvioli/ Che tipo di rapporto hai con i materiali che utilizzi? Cosa ricerchi in loro?

sembra sottendere a una dimensione di alterità vicina all’insondabile. Quali sono dunque le tue esigenze espressive?

Thomas Scalco/ I materiali che utilizzo sono quelli della tradizione pittorica, ovvero tela, tavola, carta, rame, così com’è tradizionale, in fin dei conti, il modo in cui mi relaziono ad essi. A pensarci mi affascina soprattutto il modo in cui ogni supporto, pur sollecitato dallo stesso stimolo, risponda col suo carattere, condizionando in modo sottile o repentino il tipo di pittura che da esso scaturirà. Da ogni incontro quindi, una nuova esperienza. Emblematico ad esempio il caso della carta e delle sculture, in quanto sono esattamente le proprietà di questo materiale, fragilità, leggerezza e grado di assorbimento, a rendere possibile un discorso che con gli altri supporti risulterebbe meno efficace. Questo perché la carta, che anziché rivestirsi di pittura la fa propria, venendone attraversata da parte a parte, pare modificare la propria struttura restituendo opacità e trasparenze e giungendo ad evocare così una realtà affine, nel caso delle sculture, a quella minerale.

TS/ L’arte che facciamo risente dei nostri moti interiori, e pur mirando all’universalità il nostro vissuto entra inevitabilmente in gioco. Per quanto mi riguarda vivo un profondo interesse per le culture antiche, la religione e il mito e credo ciò traspaia da un certo senso di mistero insito nelle opere. Tramite la pratica artistica, di cui l’opera rimane come testimonianza tangibile, mi preme il restituire almeno in parte il mutare del reale e la reciprocità insita nei fenomeni in cui siamo immersi e partecipi, mettendone in risalto la complementarità. Nelle opere l’interazione tra elementi geometrici e informali, così come tra i chiari e gli scuri, attraverso un gioco di trasparenze originato tramite il ricorso ad una pittura estremamente diluita, svela come le opposizioni siano permeabili l’una all’altra, frutto di confini e categorie labili, riconducibili più alle nostre strutture mentali che alla realtà.

DS/ Complessivamente il tuo lavoro

DS/ Verso quali orientamenti si sta dirigendo la tua sperimentazione e quali sono 18

gli aspetti della pratica artistica che senti attualmente di approfondire? TS/ Con le ultime serie di lavori pittorici e scultorei ho intrapreso un percorso di sintesi rispetto ai lavori precedenti, ciò ha dato alle opere maggior respiro aprendomi al contempo molte possibilità di indagine. Da un punto di vista espressivo, restando fedele a una dimensione pittorica fatta di tempi ampi e sedimentazioni, parte integrante del mio stare al mondo, vorrei sviluppare la ricerca su dimensioni spaziali e ambientali, riprendendo in parte un discorso iniziato con un’opera, Immagine, presentata alcuni anni fa al Premio San Fedele. Per certi versi, le stesse sculture, in cui il piano pittorico si scompone su più direttrici, possono essere viste come un passo avanti in questa direzione.

Da sinistra: SENZA TITOLO, 2018. Olio e acrilico su carta, 21x30x9 cm. Courtesy Villa Contemporanea. IMMAGINE, 2017. Pittura parietale, 300x350 cm. Courtesy Galleria del Premio San Fedele.


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