SMALL ZINE

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ISSN 2283-9771

Magazine di arte contemporanea / Anno IX N. 36 / Trimestrale free press

SMALL ZINE

Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale 70% Cosenza Aut S/CS/19/2016/C

OTTOBRE NOVEMBRE DICEMBRE 2020


SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea

SOMMARIO TALENT TALENT 3

LA MATERIA NECESSARIA Franco Paternostro - Loredana Barillaro

INTERVIEWS 4

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FRA PROGETTO E MUTABILITÀ Francesca Mussi - Davide Silvioli IL FASCINO DEL SUBLIME Giovanni Gastel - Sabino Maria Frassà IL VUOTO È LA FORMA Sebastiano Dammone Sessa - Gregorio Raspa

SPECIAL 10

IBRIDAZIONI FRA ARTE E ARCHITETTURA con Emanuele Fidone, Annalisa Metta - Loredana Barillaro

PEOPLE ART 12

EXPO-SÉ - NOTAMENTI E (DIS)CORSI BIOGRAFICI Angelo Bianco Chiaromonte

DESIGN.ER 14

GENERARE CONNESSIONI EMOTIVE Alessandra Baldereschi - Loredana Barillaro

PHOTO.&.FOOD 16

LA FOTOGRAFIA COME PROGETTO DI VITA Matteo Marioli - Luca Cofone

SMALL TALK 18

L’ARTE DELLA CRITICA Renato Barilli - Valentina Tebala

Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Stampa Gescom s.p.a. Viterbo Contatti e info +39 3393000574 +39 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Sabino Maria Frassà, Gregorio Raspa, Davide Silvioli, Valentina Tebala Con il contributo di: Angelo Bianco Chiaromonte © 2020 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.

In copertina Francesca Mussi AN ERRANT IDEA, 2019 Serigrafia su stoffa, 130x63 cm Courtesy dell’artista


TALENT TALENT

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LA MATERIA NECESSARIA Franco Paternostro

na ricerca - quella dell’artista Franco Paternostro - che parte innanzitutto dalla bellezza e da un’identità interiore molto forte; da una chiara influenza degli anni Cinquanta e Sessanta e del periodo italiano delle Avanguardie, quando ci si apriva alla sperimentazione con i più svariati materiali. E grazie ad un mentore d’eccezione, Alberto Burri, il cui lavoro e la cui ricerca hanno esercitato su di lui una grande e positiva influenza. Quelle di Franco Paternostro sono opere di chiara derivazione informale, con una forte riconoscibilità, così importante per l’artista stesso affinché egli - così come ci dice - possa trovare una chiara collocazione nel mondo del contemporaneo. Un mondo in cui tanto è stato detto, e in cui trovare uno spazio con la propria arte e il proprio linguaggio non è affatto facile o scontato, “ci vuole studio, ricerca e tanta sperimentazione”. Un lavoro con la carta - scelta nel tempo come materiale d’elezione - che egli avvia un po’ di anni fa, quasi per caso, ma con la chiara intenzione di non voler essere uno fra tanti e, nel tentativo costante di speri-

- Loredana Barillaro

mentare carte di fattura diversa, l’artista giunge, oggi, ad utilizzare la carta di uso alimentare, la cui trattazione necessita di un’intensa trasformazione materica, dalla pigmentazione ad inchiostro alla trasparenza, fino a giungere alla plasticità della forma. Non parliamo però di riuso, bensì di una connotazione prima e unica. Un elemento familiare dunque, così tipico della nostra quotidianità, muta il suo stato, la sua natura per divenire un’opera d’arte modellata e curata dall’artista che la plasma quasi come uno specchio, atto a restituire l’immagine di sé sotto l’effetto mutevole della luce. “Osservando i miei lavori il fruitore ha la percezione di essere davanti a soluzioni plastiche che invogliano quasi ad essere toccate”. Ma quali sono stati gli inizi? L’artista è partito da lontano, quando da ragazzino si dilettava già con disegni e sculture di creta; il vero percorso artistico però nasce più tardi allorché, per lavoro, inizia a dedicarsi all’arte orafa e gemmologica. “La mia vera passione è da sempre l’informale, ho cominciato a studiare da autodi3

datta e non avendo una formazione accademica ho agito sperimentando sulla “forma non forma” e sui materiali. Oggi sono un artista convinto di voler continuare questo percorso verso un futuro in evoluzione e in crescita, stando al passo con i tempi per cercare ogni giorno la mia dimensione”. Ebbene, il lavoro di Franco Paternostro, aprendosi a più chiavi di lettura, si svolge in piena sintonia con una riflessione costante e sempre più attuale sull’utilizzo della materia e sullo sfruttamento delle risorse e su come, tale riflessione, si declini non solo in quanto estetica, quanto e soprattutto etica. LEGGERE FRAGILITÀ, 2020. Carta oleata pigmentata a inchiostro, resina industriale, 40x30 cm. Courtesy dell’artista.


INTERVIEWS

FRA PROGETTO E MUTABILITÀ Francesca Mussi

- Davide Silvioli

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a pratica artistica di Francesca Mussi si distingue per un’evidente versatilità procedurale, accompagnata, tuttavia, da punti fermi molto saldi. Capiamo ora, dalle sue parole, le ragioni alla base della sua ricerca.

Davide Silvioli/ Osservando il corpus dei tuoi risultati, Francesca, si riscontra l’impiego di tecniche e soluzioni espressive diversificate. Qual è l’esigenza alla base di tanta pluralità? Francesca Mussi/ Mi affascina lavorare con soluzioni diverse, la coerenza sta proprio nella libertà di passare da una soluzione all’altra, e questo è un approccio molto naturale che ho sempre avuto. Ogni mio progetto ha una mutabilità e una diversificazione rispetto al lavoro precedente, lo concepisco come un’isola indipendente e come una sfida nuova. Se non fosse così probabilmente mi annoierei. Infine, il mio lavoro si forma molto spesso ispirandosi al luogo in cui viene esposto, e questo è un fattore molto influente. DS/ Tuttavia, senti sia possibile individuare un comune denominatore operativo e/o semantico? FM/ È sempre onnipresente in quello che faccio la sensibilità della grafica d’arte, con la quale mi sono formata per diversi anni all’Accademia di Brera a Milano e la quale mi ha indotto a considerare lo spazio e il lavoro in-situ in contrapposizione alla restrizione del foglio. Alcuni miei lavori nascono da azioni che compio privatamente e che concepisco come matrici:

dai diversi movimenti genero immagini sequenziali. Le pose e i gesti sono semplici ma portano ad un principio di origine generativa che penso sia comune a tutti, come un mito. Molti miei lavori hanno una radice intima ma che appartiene alla collettività, passano per una successione e una trasformazione di immagini, per la quale molto spesso il risultato finale è un frammento, una silhouette, un residuo. DS/ In relazione al rapporto con lo spazio espositivo, come approcci la realizzazione di un nuovo progetto da affrontare? FM/ È molto importante per me che l’opera sia liquida con lo spazio, che il lavoro abbia a che fare con il punto in cui si trova, per coinvolgere chiunque visiti la mostra nel “qui e ora” di quel preciso istante. Cosa totalmente stravolta con la maniera di fruizione delle immagini dei social network. Per cercare questa sorta di aderenza fisica con lo spazio espositivo parto spesso dalla storia del luogo. Amo andare alla ricerca di piccole storie e miti che si possano leggere nel presente in maniera aperta per poi essere re-interpretati e letti in maniera altra. A volte intervengo con una mia narrazione personale riversando la sfera privata in quella collettiva e mescolando periodi temporali diversi. 4


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olti miei lavori hanno una radice intima ma che appartiene alla collettività, passano per una successione e una trasformazione di immagini, per la quale molto spesso il risultato finale è un frammento, una silhouette, un residuo.”

DS/ Anche a fronte della tua formazione e del tuo operato nell’ambito della grafica e della stampa d’arte, quale pensi, oggigiorno, sia il valore delle immagini e della visualità? FM/ Penso che il valore dell’immagine sia quello di far soffermare la gente. Mi importa la potenza di sospensione delle immagini, la loro capacità di rallentare il tempo. Penso siano intramontabili i modelli dell’arte classica ereditate successivamente dall’arte rinascimentale per le quali la grafica d’arte ha sempre ricoperto un ruolo importante di trasmissione e diffusione dei modelli, che influiscono ancora oggi sul modo in cui guardiamo una composizione contemporanea. Nella scelta delle immagini di alcuni lavori mi ritrovo spesso a optare indirettamente per le pose iconografiche del passato. DS/ Infine, in quale direzione, attualmente, ti sta conducendo la tua ricerca? FM/ Sto cercando di utilizzare più processi di stampa alternativi come la gum print e soprattutto sempre meno materiali tossici non riciclabili. Penso che sia lo sforzo che tutti debbano cercare di fare, e l’artista deve essere portatore primario di questi valori. Penso sia sempre più urgente creare con i materiali che abbiamo a disposizione, in maniera ciclica, come ho optato per il mio ultimo lavoro Il libro di Beth (2020) presentato per la residenza “Sciame Project”, in cui vertevo proprio sul concetto di essere tutti “com-panis”. Da sinistra: UNSEEN PERFORMANCE, 2018. Gum print su carta. IL LIBRO DI BETH, 2020. Stampe alla barbabietola su pane. Per entrambe courtesy dell’artista.

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INTERVIEWS

IL FASCINO DEL SUBLIME Giovanni Gastel

- Sabino Maria FrassÃ

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G

iovanni Gastel, classe 1955, è tra i fotografi italiani più noti e apprezzati a livello internazionale. Nipote di Luchino Visconti, si avvicina alla fotografia per caso e per necessità, dovendo mantenersi dopo aver lasciato rocambolescamente la famiglia paterna. L’inizio come fotografo professionista avviene con le case d’asta, ma la sua carriera subisce la vera svolta con la moda e i primi still life pubblicati su “Annabella” nel 1981. Da allora non si è più fermato e ha ritratto i personaggi più illustri degli ultimi quarant’anni secondo una sua cifra che lo rende riconoscibile, ma che è anche cambiata nel tempo. La sua evoluzione artistica è al centro di questa intervista realizzata - in amicizia e in modo informale - in occasione della mostra “The people i like” che il MAXXI di Roma gli dedica e che sarà aperta fino al 22 novembre.

Sabino Maria Frassà/ Giovanni Gastel artista: non è facile per un famoso fotografo di moda smarcarsi da tale mondo ed essere riconosciuto e acclamato come artista. Eppure tu ci sei riuscito, complice forse anche la ventennale collaborazione con Germano Celant. Quali sono i passaggi più significativi di questa collaborazione? Giovanni Gastel/ Con la morte improvvisa di Germano mi è venuta a mancare una guida, oltre che un amico. Non è stato infatti solo il curatore di tanti progetti, ma colui che mi ha condotto per tanti anni in una crescita personale oltre che professionale. La prima mostra in Triennale nel 1997 è stata per me la svolta: lavoravo da oltre vent’anni come fotografo di moda, ma Celant vide in me qualcosa di più, apprezzando l’artista che riuscivo ad essere al di là della committenza. Mi definiva infatti come un fotografo “diarroico” e “incompreso”. Lui seppe andare oltre alle apparenze anche del mio lavoro, cogliendo quanto di indipendente e artistico io mettessi in tutti gli scatti, anche in quelli “commissionati”. Se ci pensiamo, tantissima arte del rinascimento era “commissionata” e la bravura dell’artista consisteva anche nel riuscire a esprimere il proprio genio in un’opera realizzata per denaro. Detto ciò, Germano mi spinse ad andare anche oltre il mio modo di essere con la mostra “Maschere e Spettri” del 2007. Fu una mostra non capita dalla maggior parte del pubblico, perché fu l’unica occasione in cui indagai ciò che da sempre tengo lontano da me, ovvero il buio della violenza e della morte. SMF/ Buio, luce, contrasti. In fondo sono i tre elementi che nel tempo hanno fatto di Gastel un’icona globalmente riconosciuta della fotografia contemporanea. GG/ Lo staccarsi dal buio senz’altro. In fondo tutta la mia ricerca estetica è una fuga dal buio verso la luce. Cerco di tenere in secondo piano il dolore, lo rifiuto e da sempre mi rifugio nel sublime attraverso il bello e la mia arte. Come dice l’etimologia stessa della parola “sublime” c’è una tensione drammatica costante verso qualcosa di alto a cui si tende. Nel tempo sono cambiato, anche perché la tecnica a disposizione è cambiata e con essa l’estetica stessa, ma i contorni netti, la luce e il distacco dallo sfondo e dal “buio” sono rimasti. Più che dalla fotografia e dallo studio dell’immagine la mia evoluzione e ispirazione ancora oggi proviene dalla pittura e dall’arte figurativa: se le fotografie degli anni ’80 erano ispirate ai chiaroscuri di Caravaggio, oggi continuo ad essere stregato dalla luce diffusa del Mantegna. SMF/ Ti sei distinto per la padronanza tanto del bianco-nero quanto dei colori, del digitale ma anche dell’analogico, da cui sei partito. Che rapporto hai con la tecnica della fotografia? GG/ Ogni tecnica ha una propria estetica e proprie potenzialità, se penso alle polaroid di oggi, a causa dei necessari limiti dovuti all’inquinamento, non sono espressive come quelle degli anni ’80 e non ha più senso per me utilizzarle. Bisogna ricordarsi che la tecnica non è il fine della fotografia, ma il tramite per raccontare come si vede la realtà: io ogni scatto lo “sento”, decido a priori nella mia testa se sarà in bianco e nero o a colori. Devo però essere onesto, questo approccio istintivo è il risultato di anni di lavoro e del fatto che sono cresciuto con la fotografia analogica, non scatto mai tanto né eccedo nella post-produzione. Del resto sono convinto che uno scatto riesca non in base alla tecnica impiegata ma se scatta l’empatia, la fascinazione tra fotografo e soggetto ritratto, sia esso una persona, un oggetto, ma anche il mio cane (il cui ritratto è in mostra - ndr). Perciò non penso mai a cosa vorrebbe vedere lo spettatore, ma cerco di catturare chi ritraggo, di coglierne e rappresentarne l’essenza. Ogni tecnica è così, semplicemente, solo lo strumento per provare quella tensione al sublime che è la ragione per cui ancora oggi, ogni giorno, sono spinto a fare nuovi “scatti”.

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n fondo tutta la mia ricerca estetica è una fuga dal buio verso la luce. Cerco di tenere in secondo piano il dolore, lo rifiuto e da sempre mi rifugio nel sublime attraverso il bello e la mia arte.”

BEBE VIO, 2017. Courtesy Giovanni Gastel.

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INTERVIEWS

IL VUOTO È LA FORMA Sebastiano Dammone Sessa

Gregorio Raspa/ Sebastiano, comincerei dal metodo. Mi interessa capire come, nel tuo lavoro, tutto ha inizio. Affronti studi particolari prima di un progetto o ti lasci guidare dall’operatività?

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’idea di lavorare con una materia organica, come ad esempio la ruggine, è una sfida che so già che perderò ma che con tenacia tento di gestire. Non c’è mai la volontà di riprodurre qualcosa, osservare le conseguenze delle mie azioni mi aiuta a misurare il tempo.”

Sebastiano Dammone Sessa/ Tutto parte sempre dal supporto, dalle sue caratteristiche, dalla sua conformazione, questo determina immediatamente il filone di ricerca che mi interessa approfondire. I formati sono per me molto importanti. Il rapporto tra la base, l’altezza e lo spessore, ad esempio, deve essere stabilito prima, è una questione di armonia. Lo stesso vale anche per gli angoli, il verso delle venature o la grammatura della carta. Non ci sono nuove idee, ma solo cicli di ricerca che si susseguono l’uno con l’altro rigenerandosi continuamente. GR/ Nel corso degli anni hai condotto una lunga e attenta riflessione sui materiali, sperimentando - tra gli altri - l’uso di diversi pigmenti e collanti, del ferro, del legno e della carta. Soprattutto con quest’ultimo elemento sembri aver sviluppato un legame privilegiato, ottenendo esiti tecnici e formali talvolta sorprendenti. Puoi dirmi qualcosa, in termini più generali, sul ruolo che la carta occupa nell’ambito della tua prassi operativa? 8

- Gregorio Raspa

SDS/ Ho un rapporto particolare con questo materiale e ancora oggi mi affascina la sua natura. La carta spesso viene considerata solo in qualità di supporto, uno dei tanti materiali utili nella costruzione di qualcos’altro. A mio avviso essa stessa è opera, racchiude in sé tutti gli aspetti formali che ricerco in quello che faccio. È una materia organica in continuo movimento, contiene segno, sostanza, colore, trama. GR/ La tua è, in primo luogo, una ricerca condotta sul linguaggio e le potenzialità dei suoi strumenti. In quanto tale, essa mantiene un’identità astratta, incline alla speculazione teorica. Ciononostante, molte tue opere sembrano custodire il fascino di un pensiero intimo, che rimanda necessariamente all’esperienza del quotidiano. Quanto conta nel tuo lavoro il riferimento con il reale? SDS/ Il riferimento con il reale è costante. Sembrerà strano, ma ne ho bisogno per non perdermi. Ho bisogno di punti, di coordinate ben precise che sistematicamente ignoro, ma il fatto che ci siano mi dà sicurezza. Cerco l’armonia, l’identità dell’aderenza che ritrovo molto spesso nel paesaggio e nell’architettura della natura.


GR/ Mi parleresti della tua ricerca segnica? È un tema che, specie se declinato in riferimento alla tua produzione più recente, trovo molto interessante. SDS/ Il segno è una costante, me ne servo per delimitare i margini/argini di ciò che voglio velare. Rappresenta una presa di posizione importante, perché diventa una scelta indelebile destinata a condizionare l’aspetto di tutta la superficie dell’opera. Questa situazione è irrimediabile e mi costringe quindi a trovare soluzioni formali, percettive - e spesso anche tattili sempre diverse. Tutto ciò mi porta al confronto con variabili multiple, con combinazioni apparentemente incompatibili tra di loro. Ogni scelta è un rischio da correre, una sorta di sfida che mi stimola molto.

SDS/ Il vuoto è la forma, il vuoto detiene la forma. Me ne servo per descrivere i miei pensieri, lo ricavo dai miei esuberi: i fori, i chiodi così come i segni generano il vuoto e, nel mio caso, danno vita alla forma. GR/ Il rapporto tra opera e ambiente connota in maniera decisiva anche il tuo linguaggio pittorico. Penso alle ampie installazioni modulari ottenute con il ciclo degli Appunti, in cui la sagomatura variabile dei supporti aggiunge una componente ritmica a quella spaziale. Come nasce la logica organizzativa di questi lavori?

GR/ Molti tuoi lavori - penso, ad esempio, agli esemplari della serie Tracce - sembrano costruiti per esplorare il territorio dell’ignoto, strutturati sfruttando l’imprevisto e le sue possibilità. Imprescindibile per la loro definizione appare - mi sembra di capire - il valore ideale, prima ancora che logico e formale, da te attribuito all’immagine e allo spazio. In quest’ottica, è come se la tua ricerca inseguisse il senso della trasformazione delle cose, il fascino della mutevolezza. È realmente così? SDS/ Assolutamente sì, la mutevolezza delle cose, dell’uomo e della natura è un tema ricorrente nei miei pensieri. L’idea di lavorare con una materia organica, come ad esempio la ruggine, è una sfida che so già che perderò ma che con tenacia tento di gestire. Non c’è mai la volontà di riprodurre qualcosa, osservare le conseguenze delle mie azioni mi aiuta a misurare il tempo. GR/ Nel tuo approccio scultoreo, sempre più orientato verso la sintesi espressiva e la valorizzazione della componente progettuale dell’opera, appare fondamentale la relazione con lo spazio reale. Mi parleresti di questo aspetto e del modo in cui interagisci con il vuoto, componente essenziale del tuo codice scultoreo/installativo?

SDS/ Ogni singolo pezzo è concepito come una forma chiusa. Ognuno di essi rappresenta una sorta di annotazione, ecco perché il nome Appunti. In quel periodo sentivo l’esigenza di determinare una forma di equazione, di rapporto ideale tra il colore e il suo peso specifico, tra il segno e la forma, tra la materia e il materiale, tra il gesto e la sua traduzione in superficie. GR/ Il tuo approccio spaziale, l’organizzazione della composizione basata sull’unità del modulo, l’attenzione per la materia intesa come elemento strutturale, sono tutti elementi che avvicinano il tuo lavoro al mondo dell’architettura. Hai mai pensato - o stai pensando - di cimentarti in quest’ultimo ambito? SDS/ Mi affascina quello che l’architettura rappresenta: una sfida all’ingegno umano che dovrebbe essere densa di valori etici e antropologici. Credo che le arti visive debbano necessariamente interagire con essa perché, per definizione, sono contenitore e contenuto. Da sinistra: APPUNTI, 2016. Olio, ecoline su tavola sagomata, dimensioni variabili, part. Foto © Antonio Cilurzo. Courtesy Fondazione Rocco Guglielmo. Veduta della mostra “Tracce” 2018, a cura di Chiara Ronchini, CRAC GALLERY, Terni. Foto © Alberto Bravini. Courtesy dell’artista.

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SPECIAL

IBRIDAZIONI FRA ARTE E ARCHITETTURA Loredana Barillaro

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n passato il rapporto fra arte e architettura è sempre stato “simbiotico”, almeno fino a quando una certa austerità delle linee ha preso il sopravvento. Una riflessione, questa, da cui possono scaturire infinite domande. È certo comunque che nella contemporaneità non sia del tutto svanita l’interazione fra questi due “ambiti”, anzi in tempi recenti si assiste sempre di più a interventi tesi a diminuirne la distanza all’interno di una visione in divenire, che ha spostato in parte l’arco di azione dal concetto di monumentalità degli edifici a soluzioni legate alla mutevolezza e alla trasformazione del paesaggio basato, sempre di più, sull’idea di comunità. Quindi non più e non solo spazi “conclusi”, ma soluzioni in cui arte e architettura interagiscono in contesti che mutano in virtù di numerose variabili.

EMANUELE FIDONE

È

inconfutabile che un divario si sia inevitabilmente venuto a creare tra quella che è la figura dell’artista (“artista” intenso come percepito dall’immaginario collettivo), e quella dell’architetto. In passato l’artista era spesso anche architetto (Michelangelo è un perfetto esempio di questo dualismo), verso la prima metà del Novecento tuttavia l’architetto abbandona gradualmente il rapporto con l’arte e l’apparato decorativo dell’architettura che perdurava da secoli, in favore di uno stile razionale, e funzionalità. Gli aspetti artistici vengono relegati a meri elementi separati e secondari. Volendo spiegare meglio questo fenomeno è impossibile non citare Adolf Loos e il suo saggio del 1908 Ornamento e delitto, in cui si decreta la completa separazione tra arte e architettura come era stata da sempre concepita. Questa relazione tra arte e architettura è a mio parere riconquistabile oggi in un piano diverso; un piano nel quale la relazione tra artista e architetto deve venire intesa come organica già nella fase progettuale:

nella concezione stessa dell’architettura. Oggi, in questa nuova fase “antropocenica”, si pone una nuova e impellente “sfida” dell’architettura contemporanea nella sua relazione con l’ambiente naturale sempre più devastato. Il distacco tra natura e artificio si può risolvere in favore di una nuova visione progettuale, un nuovo paradigma, nella quale è la natura stessa a determinare le scelte dell’architettura; anche le limitazioni imposte da una potenziale mancanza di risorse, spinge a reinventarsi in favore di una nuova estetica che favorisce l’uso di materiali poveri, dà importanza all’aspetto tattile, diventa consapevole dello spazio e, nella visione del minimo intervento, implementando l’architettura all’interno dello spazio naturale in maniera sempre più organica. Riguardo al rapporto tra spazi museali, espositivi e le opere d’arte è importante ricordare che i primi assumono un ruolo di contenitori, mentre i secondi sono il vero contenuto da valorizzare. È innanzitutto importante separare l’arte contemporanea dall’antica e trattarla 10

in modo adeguato, poiché la separazione è sempre più netta e i valori estetici sono profondamente differenti. Quindi per quanto concerne il ruolo del museo come contenitore invece, specialmente in relazione all’arte contemporanea, l’architettura deve avere un mero ruolo passivo per dare così risalto al contenuto e presentare la massima flessibilità e neutralità. Riallacciandomi al discorso iniziale, nel momento in cui un museo assume invece un’identità propria, iconica, indipendentemente dalle opere che contiene, l’arte esposta diventa quasi un mero ornamento accessorio. Emanuele Fidone Emanuele Fidone è Architetto e Professore di Progettazione Architettonica all’Università degli Studi di Catania. Un ritratto di Emanuele Fidone. Foto © Anna Fava. Courtesy Emanuele Fidone.


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allora, partendo da queste considerazioni come si definisce nuovamente quel percorso comune, in che modo, con quali metodologie? Quali sono le frontiere dell’architettura contemporanea fra esigenze ambientali ed esigenze estetiche sempre più pressanti? Come agisce il progetto quando si lavora su contesti che l’arte dovranno contenerla e custodirla, quale è il caso, ad esempio, dei musei, con le loro imprescindibili esigenze di accessibilità? E come l’architettura, oggi, è in grado di fornire risposte?

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ANNALISA METTA

Annalisa Metta è Professore Associato di Architettura del Paesaggio all’Università degli Studi Roma Tre. Un ritratto di Annalisa Metta, 2019. Foto © Luca Catalano. Courtesy Annalisa Metta.

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e riferita allo spazio pubblico urbano contemporaneo, la complicità tra arte e progetto appare progressivamente corroborata dalla condivisione di una simile postura: la tensione a costruire condizioni immersive che superano le tradizionali distinzioni tra artista e pubblico, opera e luogo, oggetto e paesaggio. È la dimensione relazionale dell’arte rilanciata da Nicolas Bourriaud, sulla traccia di genealogie comprensive, tra gli altri, di Gilles Deleuze, Umberto Eco e Felix Guattari. “Si prega di toccare”, uno dei motti del Gruppo T, traduce la gioiosa rinuncia al pathos della distanza - l’aura ottenuta per via di esposizione e rappresentazione - a favore di una partecipazione del pubblico empatica, sensuale, cinestetica. Dentro e fuori le gallerie, per compiersi l’arte richiede di essere usata, toccata, che ci si entri e ci si arrampichi su. Lungi da essere apparato decorativo o ornamento, non si accontenta di essere compresa attraverso un confronto estetico o letterario, ma vuole essere abitata. Perciò, non può prescindere da una condizione fondante: la presenza collaborante dei corpi. Trasposta sullo spazio pubblico, allontana il progetto dalla costruzione di scene (“guardare ma non toccare”, ancora oggi cuore di molti regolamenti di decoro urbano, in un’accezione purovisibilista indissolubilmente estetica e morale) e lo orienta verso architetture dei comportamenti, che attribuiscono alla competenza del corpo progettante la definizione spaziale della città. Qualsiasi ricognizione di esperienze recenti restituisce il quadro ampio e maturo di una tendenza la cui cifra è l’attitudine alla contraddizione deliberata, mescolanza, ibridazione, alla creazione di cadaveri squisiti in cui combinare elementi diversissimi e incoerenti, capaci di riattivare il significato etico ed estetico del paesaggio urbano. Nel 2007, Maider Lopez dispone 366 sdraio nella Plazas de la Villa y las Descalzas a Madrid, lasciando che siano poi liberamente spostate dal pubblico, ciascuno secondo le proprie esigenze e il proprio temperamento; per l’edizione 2009 della Biennale di Sharjah, disegna il layout di un campo da calcio cremisi sulla pavimentazione della piazza più importante della città, senza rimuoverne gli arredi già presenti (panchine, lampioni) e rivelando il potere creativo della pluralità stridente. Così l’hackeraggio urbano di Florian Rivière: la sua “segnaletica ricreativa” offre la città come un playground diffuso, mescolando il codice stradale con schemi di gioco e innescandone interpretazioni inedite. Si tratta di occasioni in cui l’arte plastica si sovrappone a quella visuale e coreutica, in fine unendosi al progetto di architettura del paesaggio e perciò sfuggendo a ogni tassonomia. Ma comunque la si voglia intendere, il suo ruolo è interrogare le corrispondenze ovvie tra forma, destinazione e codici di comportamento dello spazio pubblico, con irriverenti sovversioni espressive e funzionali. L’arte dunque agisce nei paesaggi quotidiani per rinegoziare vocazioni e identità e provocare contraddizioni senza ambire alla quiete, giacché è nell’abbondanza (polys) e nel conflitto (polemos) la radice di ciò che chiamiamo città. Annalisa Metta


EXPO-SÉ - NOTAMENTI E (DIS)CORSI BIOGRAFICI Angelo Bianco Chiaromonte

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o sempre creduto che lavorare con le mostre fosse una delle cose più interessanti perché considero i musei e le istituzioni vocate all’arte le uniche organizzazioni della nostra società che si occupino ancora di produzione di valore, più efficaci anche di un parlamento.”

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aterano (di nascita), potentino (di seconda nascita), fiorentino (di adozione), lucano (per ritorno), francese (per antropologia), meridionale imperfetto (per attitudine), europeo (per amore), magno greco (per elezione), italiano (per stato), architetto (per formazione), consulente culturale (per tassonomia), collezionista (per philia), bibliofilo (per cupidigia), cinefilo (per pigrizia), viaggiatore (per dispersione nello spazio), giornalista (per esperienza). **Ho studiato architettura a Firenze perché è la patria dell’Architettura Radicale dell’utopia negativa di Superstudio, Archizoom, 9999, Zziggurat (gruppi di architetti interessati a mettere fuori gioco le convenzioni dell’architettura e a dissolvere i confini disciplinari). Tutto ciò ha fattorizzato inevitabilmente la mia ricerca che si fonda sulla centralità dell’architetto e non dell’architettura, dove il progetto, liberato dai limiti costruttivi, diventa attività concettuale, comportamento. Infatti, anche se ha una conoscenza specifica nel campo del costruire, l’architetto è in realtà in ogni campo un “laico”, forse nel caso di un’abitazione privata egli può ancora ritenersi uno specialista, ma se la commessa diventa ad esempio un ospedale, sono molte di più le cose che ignora che quelle che conosce in merito. Per questo

credo che egli non è mai un esperto ma proprio per questo ha la possibilità di effettuare delle sintesi che altri specialisti da tempo non possono fare. Questo significa lasciare spazio alla concettualizzazione, a un livello di coerenza e sintesi teorica che nessun tecnico riesce a raggiungere, proprio perché in architettura la ricerca è così importante, che alla fine quello che si ottiene non sono tanto edifici quanto piuttosto sapere. In questo quadro, il mio utilizzo della curatela (cioè quella che non vive dell’equivoco che attribuisce ad una pratica le valenze di una professione), appare come un mettere a sistema il pensiero, sottolineare posizioni teoriche non separabili dal mondo del progetto. ***Esibire è uno dei media migliori per chiarire una posizione del pensiero, soprattutto quando lo si fa con opere non proprie ma con pezzi di altri, anche se avere una teoria e cercare con le opere di dimostrarla o “illustrarla”, non è fare una mostra. Per fare una mostra è necessaria quella cosa che chiamo “scrittura visiva” (cosa più vicina alla regia e ai temi dello spazio che alla saggistica). Alla fine l’opera d’arte è un oggetto nello spazio che agisce sullo spettatore in virtù della sua fisicità e del modo in cui è presentata. In questa chiave, la mostra diventa quella scrittura nello spazio che fornisce all’esposizione gli strumenti per farsi discorso, spazio sceneggiato, molto vicino ad un masterplan di una città e al metodo progettuale dell’urbanistica. Infatti, riflettere oggi su cosa significhi produrre una mostra equivale a interrogarsi sullo spazio che la mostra apre. È uno spazio reale? È uno spazio eventuale? Quale rapporto intrattiene con la struttura museale ed espositiva? È un museo di “n” giorni? È uno spazio flessibile? È uno spazio per l’azione? È uno spazio di educazione? È uno spazio di modellizzazione? Estremizzando possiamo dire che collocare un’opera è ricreare l’opera, oppure possiamo dire che l’opera è anche lo spazio intorno ad essa. Spostare un’opera d’arte da una collocazione a un’altra è modificare il suo valore del tempo, il quale va inteso in senso materiale, come massa. In un certo senso avviene qualcosa di simile alla transustanziazione: muta l’essenza ma non la forma. Questa è la ragione per cui, descrivendo i miei progetti espositivi, cerco di omettere la dicitura “a cura di” prediligendo il più incisivo “creato da…, con…”. ****Ho sempre creduto che lavorare con le mostre fosse una delle cose più interessanti perché considero i musei e le istituzioni vocate all’arte le uniche organizzazioni della nostra società che si occupino ancora di produzione di valore, più efficaci anche di un parlamento. Esse permettono di lavorare su più formati e muoversi in spazi diversi e in questo quadro, per fare alcuni esempi concreti della mia esperienza, con la Fondazione SoutHeritage per 12

PEOPLE ART

l’arte contemporanea di Matera, che dirigo dal 2003, ho iniziato a lavorare su un’idea di istituzione senza uno spazio permanente, che riscopre luoghi di questa città patrimonio UNESCO per creare spazi in base ai diversi bisogni espositivi. Una modalità che ci ha permesso di “esporre” un intero territorio e sottolineare, in un certo senso, che gli spazi espositivi, il “museo”, sono la città nella sua totalità (una visione questa, “Matera Museo City”, con la quale, come fondazione, abbiamo contribuito al progetto di nomina della città a “Capitale Europea della Cultura 2019”). Su queste linee i progetti espositivi, oltre al loro significato di esposizioni di “oggetti d’arte”, hanno come obiettivo quello di proporre una diversa interpretazione degli stessi in vari contesti e sviluppare una riflessione sull’arte attraverso modelli critici e museografici volti a creare una sorta di laboratori per la produzione di formule culturali, contribuendo allo stesso tempo anche alla vivificazione della memoria storico-architettonica. In questa chiave le mostre rappresentano delle vere e proprie “architetture eventuali” volte alla presentazione di una serie di opere e azioni quali vettori di un messaggio che costruiscono il loro spazio attraverso l’allestimento di un contesto, la composizione e la sistemazione di documenti e oggetti che, nella logica delle esposizioni, acquistano nuovo senso e significato fino a costruire essi stessi un’architettura complessa di visioni. Di conseguenza, la prossemica, le matrici architettoniche dei luoghi, finiscono per diventare essi stessi un prodotto attivo e attivato, in cui la produzione e la presentazione sono in diretto dialogo per una configurazione estetica e cognitiva di ciò che ci circonda. Questo testo è un merzbau di note e riflessioni assemblate tra il 7 e il 22 settembre 2020 tra Firenze e le spiagge di Pisticci (MT) e Rocca Imperiale (CS). Alcune sono già apparse a corredo di personali note biografiche o progetti redatti e realizzati per i FRAC - Fonds Régional d’Art Contemporain di: Lorraine (Metz_F), Bourgogne (Dijon_F), Franche-Comté (Besançon_F), Champagne-Ardenne (Reims_F) e Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (Torino_I). Angelo Bianco Chiaromonte è Direttore dei programmi culturali e istituzionali della Fondazione SoutHeritage per l’arte contemporanea di Matera. A destra: Angelo Bianco Chiaromonte in un ritratto di © Beatrice Lomurno_nStudio, 2019. Courtesy Archivio Fondazione SoutHeritage per l’arte contemporanea, Matera.


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DESIGN.ER

GENERARE CONNESSIONI EMOTIVE Alessandra Baldereschi

Loredana Barillaro/ Alessandra, come ha influito la tua formazione artistica nel tuo lavoro di designer? Alessandra Baldereschi/ La mia formazione ha influenzato il mio modo di vedere le cose, mi ha abituata ad associare libere parole, pensieri e immagini senza freni inibitori e scopi preordinati. Anche il metodo adottato per lo sviluppo dei progetti proviene dalla formazione che ho avuto, dai disegni preparatori, spesso colorati ad acquarello con gli studi della forma dell’oggetto, al modello scolpito. L’attenzione per i particolari compositivi, quanto semplificare e ridurre all’essenziale oppure quanto descrivere, o la sensibilità per il colore sono il risultato dell’educazione artistica ricevuta. LB/ I colori, le forme, gli elementi legati alla natura cosa raccontano di te?

“C

erco di creare con i miei progetti un’atmosfera rarefatta, leggera, come se fossero sospesi in una nuvola, lontani dalla realtà, mondi paralleli che esortano a fantasticare.”

AB/ Raccontano un po’ di nostalgia per la campagna in cui sono cresciuta, raccontano le case in cui ho abitato e gli oggetti a cui sono legata, ricordi che si confondono con la fantasia, con l’invenzione. LB/ Qual è il tratto che meglio ti contraddistingue nel variegato mondo del design? AB/ Ogni oggetto, per me, ha l’impronta sensibile di una storia. Nasce sempre da un’idea 14

- Loredana Barillaro

e ogni idea è come una magia, un sogno che compare all’alba. Attraverso paesaggi illusori, atmosfere sospese e l’assenza del tempo vorrei far emergere una realtà interiore, generare connessioni emotive. LB/ C’è un ambito specifico in cui hai scelto di impostare la tua creatività rispetto ad altri? Che atmosfera si respira nei tuoi progetti? AB/ Lavoro con gli oggetti, gli arredi e gli interni, sono affascinata dal loro potere, da come ci descrivono, da che cosa evocano e se ci fanno stare bene. Come scrive l’antropologo Daniel Miller “Le persone si circondano di oggetti che parlano di loro e con cui intrattengono relazioni molto forti”. Cerco di creare con i miei progetti un’atmosfera rarefatta, leggera, come se fossero sospesi in una nuvola, lontani dalla realtà, mondi paralleli che esortano a fantasticare. Alessandra Baldereschi è Designer, Owner di Alessandra Baldereschi Design Studio. Da sinistra: Sgabello DONUT, 2014. Prodotto da Mogg. Alessandra Baldereschi assieme alla COLLEZIONE VAN GOGH, 2017. Prodotta da Fermob. Per entrambe courtesy Alessandra Baldereschi.


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PHOTO.&.FOOD

LA FOTOGRAFIA COME PROGETTO DI VITA Matteo Marioli

- Luca Cofone

Luca Cofone/ Matteo, sappiamo che il tuo percorso di studi non è propriamente artistico, vuoi rivelarci il “segreto” che ti ha indirizzato verso la fotografia? Quali sono secondo te gli aspetti che rendono inconfondibile il tuo stile? Matteo Marioli/ Vero. Mi sono laureato in Economia e Commercio, il perché ancora oggi non l’ho capito, ma immagino c’entrino gli anni ’80 quelli dei paninari e degli yuppies, tanto per intenderci - e il fatto di essere cresciuto in una città tra le più industrializzate e ricche d’Italia. A quei tempi un percorso quasi scontato, che però sentivo stretto, come se mi fosse mancato qualcosa. Standard e omologazione, parole che non fanno parte del mio vocabolario, sono una persona curiosa di novità, mi piace sperimentare nuove vie per rompere gli schemi. Ricordo i pomeriggi passati dalla nonna paterna a osservare con interesse i quadri appesi alle pareti dipinti dal nonno Francesco Marino Marioli, detto Baldovino, purtroppo non l’ho conosciuto. Mi piacevano le tecniche usate: da quelle materiche alla Burri a quelle cubiste stile Picasso. Sfogliavo gli stessi libri d’arte e quelle riviste fotografiche da cui probabilmente aveva preso spunto e credo sia nato così il mio amore verso la fotografia. Dalla teoria alla pratica a 13-14 anni con una Polaroid, un regalo di mio zio. La prima palestra e i primi scatti, la fotografia come progetto di vita, invece, alla fine dell’Università, dopo aver provato ad adattarmi alla quotidianità dei lavori aziendali, tempi decisamente non miei. Lì decisi di ascoltare il cuore e di trasformare un amore a lungo sopito in una professione. È nella fotografia che ho incanalato il mio desiderio di comunicare e di ricerca. Lo stile inconfondibile che mi contraddistingue? Credo che a questa domanda dovrebbero rispondere gli altri, se riconoscono una mia fotografia tra tante. Ultimamente ho approfondito i grandi artisti come De Chirico e Mondrian, il primo per gli spazi e la luce, l’altro per i colori. Magritte e Dalì per l’immaginazione e la creatività. Insomma il linguaggio della Metafisica e del Surrealismo mi hanno sempre attratto. 16

“L

’ispirazione a volte nasce anche da un fatto del tutto inaspettato, da ricerche fatte in passato, da incontri che ho avuto o attività che ho svolto. Magari anche da un libro che ho letto.”


LC/ Abbiamo potuto constatare che per un fotografo il cibo è un “soggetto” di sicuro interesse, per catturare tutto il suo fascino ci vogliono però tecnica, arte ed esperienza. La pubblicità ha bisogno di fotografi che sappiano ritrarre piatti e prodotti in modo accattivante, ma il cibo è così importante per il fotogiornalismo e la fotografia artistica? MM/ Certamente ci vogliono tecnica ed esperienza per fare una bella fotografia, ma non basta, tutto questo deve adattarsi alla cosa fondamentale: l’idea che sta dietro ad ogni scatto. Se queste componenti trovano un equilibrio tra loro, la strada intrapresa sarà probabilmente quella giusta. Il cibo è sempre stato un soggetto interessante, non fosse altro che ci serve per sopravvivere. Suscita emozioni forti non solo in chi lo assaggia, perché il cibo prima ancora che in bocca si gusta con gli occhi. Fin dai tempi dei primitivi i primi graffiti rupestri rappresentavano la caccia, la pesca o la raccolta di prodotti spontanei oltre che l’ignoto. E così via ripercorrendo la storia dell’arte, soprattutto pittorica, dove troviamo nature morte e banchetti, fino ai tempi della fotografia. Oggi magari siamo oberati dal cibo esposto, ed è proprio il caso di dirlo, in tutte le salse. Ma, ripeto, il cibo per me può essere un mezzo per sviluppare un’idea, una sensazione, un’emozione.

MM/ Andare sul set a digiuno! Può stimolare la fantasia. Se approccio una fotografia commerciale cerco di capire l’umore del cliente, cosa vuole comunicare e che tipo di prodotto ho difronte, in questo caso il cibo. L’esperienza, la fantasia e l’impegno non devono mancare. Ma anche l’entusiasmo, la pazienza e la capacità di non arrendersi dovrebbero far parte dell’attrezzatura base di un fotografo. Una volta organizzate le informazioni vado alla ricerca dell’idea che possa materializzarsi in un’immagine reale, quella si spera incontri il gusto del committente, lasciando comunque libere di lavorare la mia creatività e la fantasia. Scavo nel mio background non necessariamente o esclusivamente in ambito fotografico, l’ispirazione a volte nasce anche da un fatto del tutto inaspettato, da ricerche fatte in passato, da incontri che ho avuto o attività che ho svolto. Magari anche da un libro che ho letto. Matteo Marioli è Food and Product photographer. Da sinistra: CILIEGIE DA COGLIERE. CALIFORNIA PALM TREES. Per entrambe courtesy © Matteo Marioli.

LC/ Una buona food photography richiede perizia, fantasia, impegno e cos’altro? Puoi rivelarci qualche curiosità sulla tua routine lavorativa?

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SMALL TALK

L’ARTE DELLA CRITICA Renato Barilli

- Valentina Tebala

R

enato Barilli è tra i maggiori esperti e critici d’arte e letteratura contemporanea, autore di numerosi libri e organizzatore di altrettante importanti mostre. È professore emerito presso l’Università di Bologna, dove ha svolto una lunga carriera insegnando Fenomenologia degli stili al corso DAMS e poi dirigendo il Dipartimento di Arti Visive. Valentina Tebala/ Professor Barilli, come si diventa critici d’arte? Renato Barilli/ In merito uso ricorrere a una similitudine col nostro feto, che quando si forma non ha ancora scelto tra il maschile e il femminile, poi sviluppandosi va più da una parte che dall’altra, ma mantiene qualche carattere pure dell’altro sesso; e da qui tutta la problematica dell’omosessualità. O se si preferisce, pensiamo all’attrazione dei poli: del Nord, che è massima per chi vive nell’emisfero settentrionale, minima per chi è al Sud, e viceversa. Ovvero non è che si nasca critici o artisti, piuttosto si hanno predisposizioni in un senso e nell’altro, tanto è vero che molti critici sono anche pittori - come è anche nel mio caso - mentre, oggi in particolare, gli artisti maneggiano molto bene la teoria. Trovo scellerata la credenza che i critici siano degli artisti falliti. Diciamo meglio che, pur avendo buone predisposizioni anche per fare arte direttamente, a un certo punto della loro vita ritengono di essere più utili alla società, e a loro stessi, se seguono la via della teoria e della critica. È capitato a me nel 1962 dopo che avevo dipinto, fatto mostre, preso pure un diploma all’Accademia di Belle Arti di Bologna; e mezzo secolo dopo sono ritornato alla pittura, ritrovando nel mio corpo un lungo mestiere che vi si era depositato. È come nuotare o andare in bicicletta, magari non lo si fa per decenni, ma poi il nostro corpo ritrova quasi subito le capacità di un tempo. VT/ Perché l’arte ha perso la sua rilevanza, il suo potere di incidere nella società contemporanea? RB/ Non trovo proprio che sia così, oggi l’arte è molto alla moda, dato che a sua volta non se ne sta corrucciata su una torre d’avorio ma si mescola volentieri con i mass media, la pubblicità, la tv, la cultura Pop in genere. VT/ Cosa muterà (in noi, nell’arte) nell’era post-Covid19? RB/ Non credo affatto che il Covid sia un evento così epocale. Ritengo che tra un anno ce ne saremo dimenticati e che la vita - compresa quella dell’arte - riprenderà a scorrere come prima, sul genere del famoso heri dicebamus. Fra l’altro, sconsiglio gli artisti dal prendere come tema ispiratore proprio il coronavirus, tema effimero e provvisorio quanto mai. Approfittino di questi tempi di chiusura per fare arte come prima. Quanto sto per dire esula dalla domanda postami: ritengo che stiamo vivendo un momento eccezionale, davvero di globalizzazione, per la prima volta nella storia dell’umanità tutti i popoli usano gli stessi strumenti, ma con ciò non è che facciano dappertutto la medesima arte. Gli strumenti comuni, la fotografia, il prelievo degli oggetti, le installazioni e la pittura stessa, vengono rivolti a recuperare le proprie radici, ovvero avviene il felice incontro tra il globale e il locale, infatti la parola e nozione dominanti dei nostri anni è quella di “glocalismo”.

“T

rovo scellerata la credenza che i critici siano degli artisti falliti. Diciamo meglio che, pur avendo buone predisposizioni anche per fare arte direttamente, a un certo punto della loro vita ritengono di essere più utili alla società, e a loro stessi, se seguono la via della teoria e della critica.”

Renato Barilli è Critico d’arte e Critico letterario. Un ritratto di Renato Barilli. Courtesy Renato Barilli.

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Il nostro vivere è un inarrestabile viaggio senza alcuna meta prestabilita. L’unica cosa che possiamo fare è imparare a viaggiare con valigie leggere come piume e con un ombrello che ci protegga, permettendoci di continuare a camminare. Julia Bornefeld

Leda e il Cigno nero | Julia Bornefeld a cura di Sabino Maria Frassà Gaggenau DesignElementi Hub, Corso Magenta 2, Milano Aperto da lunedì a venerdì, 10:00 - 19:00 Promosso da Cramum, Gaggenau in collaborazione con DesignElementi, Antonella Cattani Contemporary Art e Goethe-Institut Mailand


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