ISSN 2283-9771
Magazine di arte contemporanea / Anno IX N. 34 / Trimestrale free press
SMALL ZINE
Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale 70% Cosenza Aut S/CS/19/2016/C
APRILE MAGGIO GIUGNO 2020
SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea
SOMMARIO TALENT TALENT 3
UNA RICERCA SENSIBILE Sveva Angeletti - Davide Silvioli
INTERVIEWS 4
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LA MIA ARTE È UNA PREGHIERA UNIVERSALE Alberto Di Fabio - Sabino Maria Frassà IL SAPORE DELL’ASFALTO Marco Ceroni - Gregorio Raspa MEMORIA E REALTÀ Federica Giulianini - Carla Sollazzo
SPECIAL 10
DIREZIONE MUSEO con Marco Tonelli, Luigi Fassi, Riccardo Passoni - Loredana Barillaro
PEOPLE ART 12
CONOSCENZA E INTROSPEZIONE DELL’ARTE Alberto Salvadori
DESIGN.ER 14
LA VERITÀ DELL’IMMAGINAZIONE Sara Ricciardi - Loredana Barillaro
PHOTO.&.FOOD 16
IL RACCONTO FOTOGRAFICO DEL GUSTO Chiara Daniele - Luca Cofone
SMALL TALK 18
L’INDOMITO ATTO DEL DIPINGERE Alessandro Scarabello - Valentina Tebala
Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Stampa: Gescom s.p.a. Viterbo Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Contatti e info 3393000574 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Sabino Maria Frassà, Gregorio Raspa, Davide Silvioli, Carla Sollazzo, Valentina Tebala Con il contributo di: Alberto Salvadori © 2020 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.
In copertina Alberto Di Fabio NEURONE DI FIDIA, 2009 (part.) Mosaico, 100x80,5 cm Courtesy dell’artista
TALENT TALENT
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UNA RICERCA SENSIBILE Sveva Angeletti
no degli aspetti più ricorsivi e, allo stato delle cose, sembra lecito sostenere, maggiormente consolidati proposti dalla contemporaneità è l’attitudine a un certo grado di interdisciplinarità. Tuttavia, quando in tanta pluralità stilistica si riscontra logica speculativa verso i contenuti affrontati e consapevolezza dei mezzi impiegati, come nel lavoro di Sveva Angeletti, è possibile cogliere, seppure nel rispetto delle specificità di ogni singolo progetto, la primogenitura di una medesima sensibilità. L’artista approfondisce il complesso sistema di relazioni, emotive e fisiche, che disciplinano i rapporti fra individui, investigandone la natura più profonda, le cause, le reazioni e le manifestazioni. Coltivando un approccio eterogeneo nei confronti della pratica artistica, lo strumento narrativo principale da lei adottato è la fotografia. Difatti, in molti suoi esiti la si ritrova commistionata ad altri media, sfociando, frequentemente, in installazioni. Interessante osservare come lei non segua metodi mirati a finalità già stabilite, lasciandosi guidare dalla sperimentazione e dal momento creativo stesso verso destinazioni estetiche anche, inizialmente, inaspettate. In A casa ovunque (2015), l’immagine e l’oggetto acquisiscono un valore esistenziale derivante dal vissuto
- Davide Silvioli
dell’autrice, tuttavia emotivamente permeabile da chiunque, poiché tutti siamo depositari di un’esperienza di vita formata dal susseguirsi di frammenti e parzialità. Con Fotografia (2016), l’obiettivo qualifica i dettagli di parti anatomiche, tuttavia prevedendo un certo margine di ambiguità nella decifrazione dell’immagine finale, tale da conferire alla composizione pesantezza e leggerezza al contempo; si è come al cospetto di un corpo inerme, si è come di fronte a un orizzonte. Simile senso di indeterminazione si rileva in Fiuto la forma ma sul più bello mi distraggo (2017), qui la corporeità è indagata negli effetti visivi e chiaroscurali delle sue morfologie. L’uso della fotografia in chiave narrativa è confermato in Dal ciglio dell’ombra mi sporgo e svanisco (2018), dove delle istantanee dall’aura introspettiva e intima, inserite in esili teche trasparenti, raccontano brani di vita e moti dell’animo. Con Niente (2019), sottili lastre di vetro poggiate a parete recanti la scritta “Niente”, l’artista definisce una perfetta tautologia, abbandonando l’immagine a favore di una totale autoreferenzialità linguistica fra gli elementi utilizzati e la semantica dell’opera, forse intraprendendo una direzione di ricerca ulteriore. In merito ai risultati più recenti, come le tre opere presentate in occasione della 3
mostra “Quando cade la magia rimane la disinvoltura”, curata da Porter Ducrist presso Spazio in Situ, a Roma, l’autrice sembra attribuire maggiore fisicità al proprio lavoro. Conseguimenti come Dieci colpi 5 €, !, e Natura morta, tutti del 2020, destrutturano idealmente e materialmente uno stand di quelli dove si spara a dei bersagli presenti nei parchi divertimento. In questa famiglia di lavori, Sveva Angeletti sembra perpetuare, con un alfabeto nuovo caratterizzato sì dalla fotografia ma unita alla corruttibilità di un oggetto aperto a nuovi orientamenti di significato, la propria riflessione sulle forme di interazione umana: nel gioco della vita, l’attuale precarietà delle relazioni ci rende tutti bersaglio di qualcuno. Non c’è vittoria che ci possa riscattare. 10 COLPI 5 €, 2020. Foto © Eleonora Cerri Pecorella. Courtesy dell’artista.
INTERVIEWS
LA MIA ARTE È UNA PREGHIERA UNIVERSALE Alberto Di Fabio
- Sabino Maria Frassà
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lberto Di Fabio è uno tra gli artisti italiani più famosi al Mondo. È una persona anche molto generosa: cominciò a lavorare con me anni fa, quando ero all’inizio dell’attività da curatore. È uno di quegli artisti a cui devo molto di quello che sono adesso. È perciò un onore avere la possibilità di tornare ancora una volta a parlare con lui e far conoscere ancora di più il suo “mondo”. L’ho intervistato nel nuovo spazio Gaggenau a Roma in occasione della presentazione del volume In-Material, promosso dal brand tedesco e Cramum, per documentare le mostre milanesi, tra cui anche la sua mostra personale “Trascendenza” che ho avuto il piacere di curare. Tanto è stato detto sul suo lavoro, oggi raccontiamo l’evoluzione della sua ricerca in relazione ai Maestri che l’hanno maggiormente influenzato.
Sabino Maria Frassà/ Il tuo percorso artistico si è sempre caratterizzato per una forte coerenza, non sei mai stato ripetitivo, ma hai sviluppato un’idea centrale, un tema dall’inizio ad oggi, sbaglio? Alberto Di Fabio/ Mi sveglio ogni giorno e ringrazio il Cielo per il lavoro che faccio. Non è sempre facile per una persona che come me va ogni giorno in studio e si impone di starci ore. Essere creativi è un lavoro faticoso, l’ansia della tela bianca, di quel che si vuole dire senza parole è forte, ma ci torno ogni giorno da trent’anni. Amo tutto il mio lavoro e le mie opere, che mi circondano in studio: dalle prime degli anni ’90 a quelle più recenti. Sono cambiato tanto, ma sono sempre rimasto Alberto Di Fabio. Paradossalmente è più difficile rimanere coerente oggi, che sono più noto e che ho più richieste di produrre, ma io dico no, ricerco la perfezione, non la quantità. Ho imparato ad amare e rispettare in primo luogo il mio lavoro e a dire anche a malincuore a volte dei no. Non ragiono mai mosso dall’oggi, ma dal domani. SMF/ Il tuo lavoro affascina perché è fuori dal tempo,
ed è forse proprio l’aspetto di contemporaneità del tuo lavoro che più apprezza la critica e il collezionismo di tutto il Mondo. Il tuo essere e raccontare l’essenza delle cose travalica il tempo, ma si nutre di tanti spunti del passato. Si vede nel tuo linguaggio visivo un rispetto e un amore per alcuni Maestri del passato. Raccontaci di questi Maestri. ADF/ I miei primi Maestri sono stati senz’altro i miei genitori e la mia famiglia. Sono un artista cresciuto in bottega con mio padre artista, che mi ha sempre spronato a continuare questo lavoro. Le mie sorelle - una medico e l’altra poetessa - lo seguivano nella comunicazione e nelle mostre, io nella pratica quotidiana. La mia capacità tecnica viene da lì, ma è stata mia madre - insegnante di matematica e scienze naturali - a contagiarmi con il suo amore per l’analisi scientifica. Infatti il mio lavoro è spesso interpretato come ricerca del sapere, di quel “chi siamo” e di quel “dove andiamo” che caratterizza da sempre l’essere umano. Poi a livello formale ovviamente negli anni ho amato la plasticità di Sironi e la metafisica di De Chirico, ma anche il ritmo e la matericità degli statunitensi Motherwell e de Kooning. 4
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i sveglio ogni giorno e ringrazio il Cielo per il lavoro che faccio. Non è sempre facile per una persona che come me va ogni giorno in studio e si impone di starci ore. Essere creativi è un lavoro faticoso, l’ansia della tela bianca, di quel che si vuole dire senza parole è forte, ma ci torno ogni giorno da trent’anni.”
SMF/ Non hai citato Jackson Pollock eppure il dripping è una tecnica spesso da te impiegata…
in grandi dimensioni, ma più vado avanti e più mi libero da tale limite: il piccolo e il grande sono un punto di vista umano, non dell’essenza delle cose. L’essenza non ha misura.
ADF/ Jackson Pollock è un grande Maestro, ma la distruzione dell’immagine non mi appartiene. Da sempre compongo immagini e, se per il dripping è vero che siamo tutti figli di Pollock, un artista è molto altro dallo strumento con cui dipinge. Il mio dipingere non ha nulla di distruttivo. La mia arte è una preghiera universale per elevarsi, per cogliere e rappresentare quell’essenza che l’uomo non sempre riesce ad afferrare. Impiego, non a caso, tecniche di rilassamento e meditazione, dipingo parallelamente alla tela perché arrivi più sangue al cervello, sento musica classica e lavoro in solitudine.
SMF/ Da quando ti conosco parli della tua arte per i posteri, della volontà non solo di essere ricordato, ma di lasciare qualcosa al Mondo di domani. Cosa vorresti lasciare? Quale lavoro è la tua preghiera per il futuro? ADF/ Ti stupirà da un uomo che ha fatto della raffigurazione e dell’immagine la sua vita, ma se penso a cosa lasciare ai posteri del mio piccolo passo nel percorso dell’umanità è un libro che spieghi le mie opere. Ho passato la mia intera esistenza a sintetizzare nelle opere lo sforzo e il bisogno dell’essere umano di elevarsi, di non perdersi nelle bassezze quotidiane, di vedere le opportunità e non i limiti. Dietro al mio mondo artistico c’è un mondo spirituale, che vorrei donare ad un Mondo sempre più caotico e concentrato solo sull’oggi.
SMF/ In trent’anni di percorso spirituale e di esercizio costante della meditazione come sei cambiato e come si è palesata questa tua trasformazione e/o introspezione nella tua arte? ADF/ Oggi voglio raccontare e rappresentare la materia di cui siamo fatti al 96%, ovvero di materia invisibile, l’antimateria. All’inizio, negli anni ’90 ero ancora interessato alla crosta terrestre, al Pangea; rappresentavo le montagne e l’origine del nostro mondo, raccontavo come siamo un tutt’uno con la Terra. Sono gli anni del plasticismo ripreso da Sironi, del silenzio del tempo vuoto di De Chirico. Poi non mi è più bastato e ho guardato in alto al cielo. Non ho più potuto rappresentare la Terra se non come parte di un tutto più grande, dell’Universo. E più studio più il mio lavoro è ispirato e spirituale. Dalle montagne, alle stelle, all’universo all’oro, alla luce e ai Mandala protagonisti delle mie ultime opere. Così capita che in passato pensavo al mio lavoro
Da sinistra: CORPO ASTRALE CORPO FISICO, 2015. Acrilico su tela, 200x130 cm. INCONTRI TRA MONTAGNE, 1994. Acrilico su carta, 90,5x70 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
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INTERVIEWS
IL SAPORE DELL’ASFALTO Marco Ceroni
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elle azioni ricerco un impatto contro elementi che diventano poi feticci all’interno della mia produzione. Le vedo come disegni, dove l’istinto ha la meglio sulla ragione.”
Gregorio Raspa/ Marco, il tuo lavoro ibrida elementi della subcultura metropolitana, stimoli neopop e riflessioni sociali. Non mancano, poi, i riferimenti al cinema e alla letteratura. Pur dimostrando una forte attitudine per l’immaginifico e il futuribile, sembri dunque attingere a piene mani dalla realtà che ti circonda e dal vissuto quotidiano. Quanto contano, nella tua prassi operativa, i riferimenti estetici e formali preesistenti? Marco Ceroni/ Tutto nasce dal mio vissuto. Il contatto fisico ed emotivo con
- Gregorio Raspa
esperienze e oggetti reali è ciò che innesca la mia ricerca. Questa affezione viscerale per le situazioni che mi circondano si ibrida con riferimenti di vario tipo ma non è un’addizione, è un movimento iperbolico. GR/ Il mondo dei motori, e il suo ricco immaginario materiale e simbolico, ricorre con frequenza nei tuoi lavori, divenendo metafora di una dimensione urbana continuamente evocata. Da cosa nasce questa suggestione? C’è un elemento, ad esempio autobiografico, che ti lega allo scooter, vero e proprio elemento iconico della tua ricerca? MC/ Io vengo dalla provincia romagnola, da Faenza, e questo già basterebbe a risponderti. Quando sei ragazzino in provincia il motorino è la libertà: il destriero con cui fuggi dai tuoi confini ed esplori un nuovo mondo. Un mondo che non è solo geografico, ma anche interiore. La periferia milanese ha poi fatto il resto. GR/ La maschera è forse uno degli elementi più noti - e rappresentativi - della tua produzione. Penso agli esemplari della serie Cult (2019), o a lavori come Raiders (2018) e Horizon (2019). La loro immagine rimanda a un universo primordiale e magico, a tratti misterico. Mi parli dell’origine di queste opere e delle storie che con esse richiami? MC/ Ognuno di questi lavori ha una sua storia, ma ogni storia nasce dallo stesso terreno. In Raiders mi divertiva che il ge6
sto vandalico dettato dalla noia sulla sella di un motorino creasse un’immagine altra. Due guardiani, tra accelerazione e staticità cosmica, proteggono la soglia di un’altra dimensione in Horizon. Il cortocircuito innescato da Cult tra quotidiano e soprannaturale trasforma alcune carene di scooter in entità conturbanti. L’aggressività che hanno in comune queste sculture si riconfigura anche come una nuova forma di convivialità metropolitana, diversa e oscura. GR/ Un altro elemento che caratterizza il tuo codice estetico è senz’altro la decorazione in oro, da te utilizzata con metodica frequenza e posta alla base di alcuni tra i tuoi lavori più ambiziosi - come la serie Please Don’t go (2017) o le opere The Golden Edge (2013-2016) e Tournament (2018). Quali sono le reali finalità dell’intervento decorativo/pittorico in discussione? MC/ Sono molto affezionato a The Golden Edge e lo sento ancora vivo. Penso che abbia a che vedere con l’amore per il non convenzionale, il non addomesticato e il non finito: storie ai margini, al di là del bene e del male, avventure e luoghi del possibile vengono racchiusi all’interno di queste luccicanti carcasse che creano nuove geografie e ordini all’interno del dispositivo urbano. Il colore oro astrae e trasforma queste auto bruciate e lo spazio circostante. Riconfigura i rapporti di forza. Apre spazi di possibilità.
GR/ Trovo molto interessante il modo in cui giochi con la dimensione temporale e i suoi riferimenti. Molti tuoi lavori, infatti, sembrano appositamente collocati all’interno di un loop nel quale immagini prelevate da un futuro ipotetico coesistono con forme archetipe e simboli ancestrali. Come nascono gli scenari descritti? MC/ Mi piace innescare una torsione temporale in cui viaggiamo tra passato e futuro senza mai trovare un appiglio sicuro, ri-collassando sempre nel momento della visione. Nell’adesso. GR/ Una parte importante della tua ricerca è quella dedicata alla performance. Nel corso del tempo hai realizzato diverse azioni, spesso utilizzate (anche) come traccia per la creazione di opere successive. Nello specifico, come questo particolare linguaggio si colloca all’interno della tua più ampia produzione artistica? MC/ Nelle azioni ricerco un impatto contro elementi che diventano poi feticci all’interno della mia produzione. Le vedo come disegni, dove l’istinto ha la meglio sulla ragione. Sono momenti necessari per interpretare il rapporto viscerale con la “mia” realtà. Per sviluppare temi cool basta aprire google, ma se dai un morso al marciapiede devi sentire l’asfalto sulle papille gustative. Nelle performance lavoro invece dietro le quinte: penso alla più recente Pupa, o a Throw Up del 2014. GR/ Mi parleresti proprio di Pupa (2019), l’intervento da te concepito in occasione di BienNoLo? In esso ho ritrovato la perfetta sintesi di alcuni tra i principali elementi - estetici e tematici - che alimentano la tua ricerca.
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MC/ Pupa è un momento in bilico tra reale e verosimile dove il rituale urbano di una tribù e uno schianto metropolitano si fondono tra sapore di illegalità, odore di gas, senso di sacralità e assordanti rombi. Il frastuono dei motorini dà voce alla ballerina, Sinuo, che oscilla tra entità soprannaturale, eroina e capo banda, mentre i suoi movimenti danno corpo ad essi. Sicuramente l’ambiente dei free party e dei rave è una forte presenza. GR/ Per te che nel lavoro introietti gli umori della città, trasfigurando la sua caotica e ambigua bellezza, cosa vuol dire - oggi - vivere a Milano? MC/ Amo Milano. O meglio, amo le sue periferie. Ho vissuto la maggior parte dei miei anni milanesi tra squat e case occupate, conoscendo e vivendo con persone coraggiose e generose. Sono incatenato affettivamente a Corvetto. Tutto il resto mi annoia. Da sinistra: THE GOLDEN EDGE, 2013-2016. Intervento con vernice oro su auto bruciate. Documentazione fotografica. CULT (ROCKET), 2019. Interventi a tecnica mista su carene di scooter, 46x53x20 cm. Foto © Natalia Trejbalova. Per entrambe courtesy dell’artista e Gallleriapiù, Bologna.
INTERVIEWS
MEMORIA E REALTÀ Federica Giulianini
- Carla Sollazzo
Carla Sollazzo/ Federica, la tua poesia pittorica è fatta di memoria e di realtà; di cosa si nutre la tua memoria e di cosa la tua realtà? Federica Giulianini/ Credo che memoria e realtà siano il connubio perfetto nella mia pittura; senza passato non si può esistere nella realtà, intesa come presente e senza entrambi di certo non potremmo avere futuro. La mia memoria si nutre di tutte quelle visioni che avrei voluto dipingere quando ancora non dipingevo come volevo e anche di quelle emozioni, di quelle sensazioni, di quei ricordi estetici che necessitano di essere trasmessi ad un pubblico di spettatori/fruitori. La realtà, invece, è l’aspetto di oggi, è lì che nutre il tempo sospeso, dove la memoria si consuma. CS/ Nelle tue opere si mescolano conoscenze culturali e scientifiche e piacere estetico, uno dei due aspetti prende il sopravvento oppure si equivalgono? FG/ Per me sono importanti entrambi, ma a schiacciare il sapere è sicuramente il piacere estetico, che considero un “grosso mattone” in senso positivo (lo ritengo sia significato che significante, causa ed effetto, luogo di ritrovamento e di perdizione); la mia indagine pittorica ha come linea guida l’ostinata ricerca di voler riscrivere il linguaggio estetico della pittura in chiave contemporanea. 8
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miei paesaggi sono un invito al carpe diem; l’evento irripetibile che dà la possibilità di accedere ad un paesaggio che io definisco un nuovo micromondo.”
CS/ I tuoi paesaggi raffigurano l’incontro tra memoria privata e memoria culturale, qual è il messaggio primario che vuoi trasmettere?
anche da altri e trovo giusto rendere fruibile ciò che tende verso il bene; per questo Micromondi è un progetto etico, così come tutta la mia arte.
FG/ C’è una citazione di Duchamp che mi trascino dall’Accademia e che mi piace associare ai miei paesaggi, soprattutto quando viene messa in dubbio la loro connessione con la natura: “L’opera d’arte la fa chi la guarda”. I miei paesaggi sono un invito al carpe diem; l’evento irripetibile che dà la possibilità di accedere ad un paesaggio che io definisco un nuovo “micromondo”, penso che tutto questo sia un messaggio magico, primordiale, trovo che sia un’opportunità di bellezza.
CS/ Quella del tempo è una lavagna metaforica e dilatata, piena di possibilità di (ri)scrittura; una “parola” che aggiungeresti al tuo tempo e una che toglieresti.
CS/ Hai definito quello di Micromondi un “progetto etico”, ce ne parli? FG/ Micromondi è stato uno dei miei primissimi progetti, una serie di insiemi di miei disegni e miei dipinti. È un progetto in continua evoluzione, un progetto dinamico. Ed è un progetto etico. Etico perché mi richiede tre cose fondamentali: attenzione, impegno e costanza. Non parlo solo della ricerca tecnica, ma anche di quella ricerca legata alla poetica pittorica. Per dare forma ai minuziosi dettagli e non solo, metto insieme più frammenti di tempo: odori del mondo, memorie, frammenti di natura, per ottenere una pittura dal tempo sospeso. E per fare questo mi occorre etica, poiché lo ritengo un dovere morale. Ci vogliono delle regole e il giusto equilibrio, perché Micromondi, che è alla base di tutti i miei lavori, sarà un progetto che verrà visto e condiviso
FG/ Inizio dalla seconda. La parola, anzi le parole che toglierei sono “senza tempo”; il “senza tempo”, ultimamente, vicino al mio “tempo” mi disturba. La parola che aggiungerei, invece, è “interstizio”, inteso come “il mio tempo interstizio”, quello spazio sospeso tra due fatti, tra due cose, uno spazio che, in qualche modo, favorisce e offre un “tempo nuovo”.
Da sinistra: PARADISE CIRCUS, 2019. Tecnica mista su tela, 210x210 cm. SACHALIN, 2018. Tecnica mista su lino, 120x80 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
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SPECIAL
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DIREZIONE MUSEO
he cosa vuol dire “direzione museo”? Che forse si sta andando nella direzione giusta, o semplicemente indica un luogo, un concetto, uno spazio fisico? Un gioco di parole, a metà fra “chi dirige un museo” e “la direzione che sta prendendo la sua gestione”. La parola museo richiama alla mente significati talora
Loredana Barillaro d’altri tempi, in fondo un museo ha sempre avuto a che fare con la conservazione e con una fruizione delle opere troppo spesso considerata passiva da parte del pubblico. Ma i musei certo non fermano il loro percorso di crescita, sia in termini di ampliamento del loro patrimonio sia in termini più propriamente concettuali, ossia legati alla molteplicità di significati e azioni che cambiano e si evolvono nel tempo. Ci siamo occupati dell’argomento anche in passato,
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itengo che i musei non debbano necessariamente “stare al passo coi tempi” ma produrre essi stessi un tempo proprio e specifico di ricerca e proposta all’interno di quello più generale dell’epoca e delle mode del momento. Un museo è tanto più funzionale quanto più bilancia la sua inevitabile vocazione storico-territoriale (collezioni permanenti, città in cui è collocato, vicende della sua stessa origine) con esigenze di cambiamento e innovazione sollecitate da modalità sempre mutevoli di produrre opere d’arte o concepire la storia dell’arte. Non credo esista un percorso ideale ma ogni museo deve inventare, tracciare o istituire il proprio, per mantenere una sua specificità e differenziarsi dalle offerte dei tanti musei esistenti. Il percorso migliore è offrire qualcosa altrove non fruibile e relazionarsi il più possibile con la fisicità stessa dello spazio del museo, mai neutro o indifferente, ma sempre attivo e influente su opere e allestimenti, anche quando non sembra. Esporre la stessa opera in una sala “white cube” o in un salone affrescato non è la stessa cosa. La figura del Direttore ovviamente fa parte di queste relazioni di bilanciamenti e mediazioni tra passato, presente e futuro. Il Direttore deve saper continuare ciò che riceve in eredità, senza snaturarlo ma innovandolo e contribuendo a espandere la narrazione inconscia del museo. Non si può pensare di trasformare un museo di arte antica in un museo della performance o un museo modernista all’interno di un palazzo storico (pensiamo su tutti al Castello di Rivoli) in un museo alternativo riempiendolo, ad esempio, di graffiti underground. Il Direttore, almeno in Italia, è multitasking spesso suo malgrado, nel senso che non può occuparsi solo di ideare mostre, curare allestimenti e rivedere i percorsi delle collezioni e pensare a un programma scientifico a lungo raggio ma, per mancanza ora di personale qualificato e specializzato, ora di risorse, ora di certezze di budget deve lavorare navigando a vista, anticipare le idee in mancanza di fondi, sottomettendosi a una politica di piccoli passi per raggiungere obiettivi che possono essere ambiziosi, ma faticosi, impervi e incerti loro malgrado. Come però diceva Bernini “chi vuol sapere quel che un uomo sa, bisogna metterlo in necessità”. Per questo potenzialmente i Direttori che hanno fatto esperienza in Italia potrebbero essere tra i migliori al mondo! Marco Tonelli 10
un po’ di anni fa, oggi ci torniamo su per fare il punto della situazione con i Direttori dei musei fra i più rappresentativi d’Italia e con nuovi punti di vista. Che cosa è necessario fare perché un museo sia al passo con i tempi? Che percorsi occorre intraprendere? Come si è trasformata, negli ultimi decenni, la figura del Direttore, sempre più “multitasking” nel panorama complesso e vario della gestione museale?
MARCO TONELLI
Marco Tonelli è Direttore Artistico di Palazzo Collicola e della Galleria d’Arte Moderna di Spoleto. Un ritratto di Marco Tonelli. Foto © Nicola Malaguti. Courtesy Marco Tonelli.
LUIGI FASSI
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a forza dei musei di arte contemporanea è di essere oggi per loro natura delle istituzioni completamente ibride, dove l’arte visiva in tutte le sue forme incontra la danza, la scrittura, la musica, il cinema. È ormai insita nell’identità stessa dei musei di arte contemporanea una poliedricità di contenuti, presentazioni e format che consente di non porsi limiti formali nella costruzione di un programma. Un museo deve saper intercettare una molteplicità di input per rielaborarli e offrirli al proprio pubblico, all’interno di una visione coerente e informata. Solo così un museo può essere un catalizzatore di attenzione da un pubblico differenziato generazionalmente e per settori di interesse. Penso che questa potenzialità di essere una finestra di innovazione, dove molteplici esperienze artistiche di ricerca trovano visibilità e sintesi, sia particolarmente produttiva in città di dimensioni contenute, dove l’offerta artistica è più ridotta. In un tale contesto tanto più un museo può incidere nel proporsi come veicolo di uno sguardo su un mondo più ampio, quello della creazione artistica, che è completamente globale e non può limitarsi a un’interpretazione in termini locali o nazionali. Dunque, un museo deve operare costantemente su due livelli, in dialogo serrato con la comunità locale di riferimento, e in rapporto di network con uno scenario il più ampio possibile, con cui operare e collaborare per nutrire un flusso di input, stimoli e aggiornamenti. Quanto al ruolo sociale di un museo, ho sempre pensato che uno dei suoi obiettivi debba essere suscitare vocazioni. Veicolare un immaginario artistico ignoto a una parte di pubblico (bambini ma anche adulti) che possa trarre da questo ispirazione per dare un nuovo indirizzo alle proprie attitudini e abitudini. Sino a riconoscere in alcuni casi una possibile vocazione, a intraprendere un’attività creativa, un diverso uso del proprio tempo o anche un’ambizione professionale. In due parole, un museo può farci conoscere meglio noi stessi e divenire così il luogo di una vera esperienza trasformativa. Luigi Fassi
Luigi Fassi è Direttore Artistico del MAN_Museo d’Arte Provincia di Nuoro. Un ritratto di Luigi Fassi. Courtesy Luigi Fassi.
RICCARDO PASSONI
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fronte di una domanda all’apparenza semplice, che presupporrebbe una risposta di tipo puramente prospettico, voglio proporre invece un elenco di competenze che riconnettano intanto passato e presente. Più che quali percorsi occorra intraprendere, vorrei qui elencare quali conoscenze siano a mio avviso tuttora indispensabili per “affrontare” un museo: conoscere i linguaggi artistici e la loro mutazione nel corso del tempo; conoscere il linguaggio della conservazione e del restauro delle opere d’arte; avvicinarsi al linguaggio amministrativo e gestionale; conoscere le regole dei rapporti col personale; avere consapevolezza della struttura affidata sotto il profilo della sicurezza e delle procedure di riferimento. E sempre con riferimento a questo binomio passato/presente, occorre: conoscere le collezioni, saperne riconfigurare gli allestimenti; sviluppare politiche di accrescimento delle stesse (se un museo, come il nostro, incrementa le collezioni): progettare e/o organizzare mostre temporanee su temi diversi; prestare attenzione particolare a processi e progetti didattici per tutte le fasce di pubblico. Gli aspetti su cui è ormai evidente che sia necessario puntare, in chiave di sviluppo, sono: pensare a un museo che porga attenzione e proposte espositive e culturali a pubblici differenti, non fossilizzandosi solo sui propri interessi; conoscere meglio le regole della comunicazione, in tutte le sue accezioni; implementare la propria immagine attraverso un uso consistente di risorse come i social media. Un museo connesso con la dimensione che lo circonda deve poi saper affiancare taluni progetti dell’Amministrazione Civica (per esempio Luci d’artista), o del sistemaarte del territorio (per esempio Economia Circolare/Arte Circolare). Sullo sfondo avere sempre presente lo scenario istituzionale, con il suo linguaggio (Statuti, Regolamenti della struttura), con tutto quello che ne consegue sull’azione del museo (e del suo Direttore). Riccardo Passoni 11
Riccardo Passoni è Direttore Artistico di GAM_Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino. Un ritratto di Riccardo Passoni. Courtesy Riccardo Passoni.
CONOSCENZA E INTROSPEZIONE DELL’ARTE Alberto Salvadori
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are disordine e creare problematiche per cercare e scatenare risposte adeguate: sono convinto che l’arte e la cultura abbiano questo ruolo e noi dobbiamo essere capaci di interpretarlo e compierlo.”
uella strana zona che chiamiamo “arte” è come una sala tutta specchi, o una galleria acustica in cui sono percettibili da lontano i minimi sussurri. Ogni forma evoca mille ricordi e immagini secondarie. Non appena un’immagine è assegnata all’arte, viene a crearsi un nuovo nesso di rapporti al quale l’immagine non può sfuggire.” (E.H. Gombrich). Nella mia giovinezza incontrai anche questo libro dal titolo eccezionale A cavallo di un manico di scopa dal quale sono tratte le parole con le quali ho iniziato questa breve introduzione al mio lavoro. Decisi di studiare Storia dell’arte per poter conoscere, o almeno pensare di imparare un po’ a conoscere, la storia degli Uomini attraverso l’arte, grazie alle molteplici manifestazioni del fare arte. A cavallo di un manico di scopa si desidera stare fin da piccoli, si può volare, sognare, incontrare e conoscere senza limiti e confini tutto e tutti. Per me l’arte è questo: poter stare con i piedi per terra volando in continuazione. Da quegli anni è passato un bel po’ di tempo, ho compiuto un percorso di studi classico e pieno di incontri fortunati. Individui eccezionali hanno contribuito affinché capissi meglio le mie passioni e trasmesso un grande senso di necessità di sviluppare una coscienza della conoscenza come elemento determinante al fine di sentirsi liberi e affrontare al meglio ciò che siamo e ciò che facciamo. Ho avuto la fortuna di condividere gli anni della formazione con persone molto intelligenti e preparate; questa fortuna ha continuato ad assistermi anche in seguito nel contesto dove ho lavorato e continuo ad averla, poiché credo fermamente che ci si debba impegnare per convivere con soggetti di grande qualità umana e professionale al fine di migliorare la propria condizione di vita. Non amo lo specialismo e il tecnicismo e ho posto sempre al centro delle mie ricerche e della mia professione una visione e interpretazione umanistica della cultura e della vita; il vivente in tutte le sue forme ed espressioni è adesso il centro dei miei interessi. Negli anni trascorsi a Palazzo Pitti alla Galleria di arte moderna - ben sette - ho imparato molto dal silenzio che mi circondava ogni volta che attraversavo le sale della Palatina per poi salire alla Moderna, da solo. Osservavo tutti i giorni un’infinita rassegna di capolavori, allestiti per la maggior parte ancora, per fortuna a mio parere, senza seguire la monotona e oggi politically correct museografia che affligge quasi tutti i musei. Mi sentivo esattamente in quella sala di specchi di cui scriveva Gombrich: i dipinti e le sculture, gli arredi straordinari, i dettagli meravigliosi di quegli ambienti mi ponevano in ascolto con me stesso. Ho imparato lì più che altrove come l’arte possa essere uno strumento potentissimo di conoscenza e introspezione, come possa metterti di fronte al reale e alla realtà senza un problema di tempo; come sia fondamen12
PEOPLE ART
tale il concetto di universalità e come altrettanto sia necessario fuggire dal giudizio e costruire una propria consapevole identità. Finito questo periodo ho iniziato a lavorare alla Fondazione Marino Marini di Firenze: un luogo straordinario. Proprio dal concetto di identità sono partito per costruire un percorso lungo dieci anni realizzato assieme a un presidente illuminato e soprattutto agli artisti da tutto il mondo che hanno reso possibile quella scommessa. In quel luogo ho trovato la condizione ideale: essere all’interno di un’architettura medievale reinterpretata da un genio umanista come Alberti e aver riaperto al pubblico, dopo duecento anni, il suo gioiello architettonico concettuale, la Cappella Rucellai. Lavorare poi su un dialogo a quattro sul fattore tempo, ossia il rinascimento, il tardo modernismo intriso di arcaismo di Marino Marini, il tardo brutalismo dell’ultimo restauro a cui venne sottoposto l’edificio dedicato al museo e gli inviti a realizzare progetti ad hoc a decine di artisti contemporanei da tutto il mondo, è stato il compimento di quell’universalità che tanto mi attrae e dalla quale non riesco ad allontanarmi. Alcuni curatori e direttori di musei dichiarano che sono interessati alle opere non agli artisti, ecco io non la penso così: mi interessano le persone e le loro opere. Avere un’identità è fondamentale e il museo o l’istituzione culturale deve averla per assolvere al meglio la sua funzione che è quella di servizio pubblico. Da questo percorso nasce la mia pratica di lavoro come un esercizio collettivo di produzione culturale per la comunità: ecco come nasce anche ICA Milano. Il tutto si realizza attraverso un modello di compartecipazione di molti soggetti che stanno mettendo a disposizione del progetto la loro professionalità e le loro esperienze. Credo molto che l’obiettivo principale del nostro mestiere, del nostro mondo sia fare kin ovvero generare parentele grazie alle connessioni inventive di tutti i partecipanti. Fare disordine e creare problematiche per cercare e scatenare risposte adeguate: sono convinto che l’arte e la cultura abbiano questo ruolo e noi dobbiamo essere capaci di interpretarlo e compierlo. Firenze, 15 marzo 2020, XVII giorno di isolamento COVID19.
Alberto Salvadori è Direttore Artistico di ICA Milano. A destra: Alberto Salvadori in un ritratto di © Dario Lasagni. Courtesy Alberto Salvadori.
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DESIGN.ER
LA VERITÀ DELL’IMMAGINAZIONE Sara Ricciardi
- Loredana Barillaro
“S
e la narrativa che noi sviluppiamo è potente non potremo che creare magia. La grande regola del saper creare feticci è dare un mantello di verità alla propria immaginazione, o quanto meno questa è la mia tattica, anche nel lavoro.”
Loredana Barillaro/ Sara, leggendo di te, e guardando le foto che ti ritraggono sovente assieme alle tue creazioni, si sente subito che esiste una relazione molto forte con quello che fai, un movimento, una sorta di “fluido vitale” che ti rende una cosa sola con il tuo mondo lavorativo, è così? Sara Ricciardi/ Cara, è una bellissima suggestione che mi rivolgi, credo di non riuscire a tracciare mai dei confini di separazione. Trovo che tutto sia un impasto unico fatto di amore, ricerca, sforzo, sudore e passione. Mi piace ci sia un approccio olistico alla propria esistenza, di iper connessione tra le parti. Il lavoro è una parte di questo racconto ed è per me una forma di relazione con me stessa e con gli altri, lo porto avanti con molto entusiasmo e con grande generosità quotidiana in maniera da trarne un profondo beneficio. Più intensità metti in moto e più ne ricevi. Uno slancio proporzionale continuo; e allora il “fluido vitale”, come tu lo definisci in maniera stupenda, ha profonde radici in questa carica energetica. 14
LB/ Credo di non sbagliare dicendo che mi sembri una persona molto felice, è il tuo lavoro che fa questo effetto? SR/ Sono molto felice, amo ridere e sono anche piena di gratitudine. Non intravedo benefici nel galleggiare su zattere di lamento e abbattimento, né per sé né per gli altri intorno. Il lavoro è solo uno strumento, non è mai l’artefice della felicità. Sono io che contagio quotidianamente il mio lavoro con elettricità umorale positiva, perché altrimenti ne avrei di motivi per odiarlo! Se la narrativa che noi sviluppiamo è potente non potremo che creare magia. La grande regola del saper creare feticci è dare un mantello di verità alla propria immaginazione, o quanto meno questa è la mia tattica, anche nel lavoro. LB/ Che tipo di Designer sei? Cos’è che caratterizza il tuo percorso “progettuale” quotidiano? SR/ Se sapessi bene definirmi forse comincerei ad annoiarmi. So che sono in continuo fermento progettuale, recepisco stimoli, accetto a braccia aperte il caos, il tempo che passa, il mutamento. Elaboro con fiducia e riporto tutto nel lavoro. In maniera onesta. Ho iniziato con il design autoprodotto, poi ho creduto alla storia dell’approccio industriale massivo, poi sono passata alla scultura elitaria, poi la mia ricerca sul corpo mi ha portato all’installazione e poi sono arrivata all’indagine prossemica e alla progettazione di spazi. Quest’anno mi dedicherò molto di più
all’azione performativa. La cosa meravigliosa è che non abbandoni nulla ma trasformi il tuo percorso in base a nuovi principi conditi di esperienze personali e visioni storiche. LB/ Che cos’è il Social Design? SR/ Io tu egli noi voi essi. Il social design comprende tutti i pronomi personali. È sviluppo collettivo, è co-progettazione, è relazione sentita, è ascolto continuo, ricezione indomita. È saper operare la riqualificazione urbana e morale, è senso civico, è profonda bellezza collettiva. È una grande gestione del contrasto, è fluidificare i pensieri, per tutte le età, trasversalmente partecipazione. È bellezza, è vivere insieme con consapevolezza.
Sara Ricciardi è Designer and Creative Director.
Da sinistra in senso orario: Un ritratto di Sara Ricciardi. Foto © Laura Baiardini. MATERIA CATANZARO, Progetto CONDIMENTO CALABRO di Sara Ricciardi. Foto © Cartacarbone. Progetto ARCADIA, per Alice Stori Liechtenstein, installazione di Sara Ricciardi. Distretto 5 Vie, Milano Design Week 2018. Foto © Delfino Sisto Legnani. Per tutte courtesy Sara Ricciardi.
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PHOTO.&.FOOD
IL RACCONTO FOTOGRAFICO DEL GUSTO Chiara Daniele
“Q
uello che domina e fa da comune denominatore credo potrebbe essere proprio l’intento di ricercare un’eleganza essenziale, l’armonia nella geometria, l’esaltazione della luce e dei colori.”
- Luca Cofone
cultura ad esso legata, la tradizione, la tecnica. Oltre a questo piano “semantico” della fotografia un po’ celato, sotteso, spesso coesiste un piano più “commerciale”, più immediato e vicino all’osservatore in grado di risvegliare in lui emozioni e desiderio. La fotografia di cibo può raccontare tante cose, può raccontare una ricetta, può raccontare di una terra, può raccontare di una materia prima, o perfino di innovazione e tradizione. LC/ Quali sono i “lati” personali delle tue foto, e quali invece quelli più propriamente al servizio del pubblico, inteso come committenza? Quale dei due aspetti pensi che emerga maggiormente?
Luca Cofone/ Chiara, cosa significa, per te, fare Food Photography? Chiara Daniele/ Oggigiorno la fotografia è sempre più storytelling, reportage, documentario. Fare Food Photography, cioè fotografare il cibo, per me è disegnare un racconto fatto di profumi, colori e soprattutto sapori, disegnare un racconto in cui il cibo è il protagonista. Fotografare il cibo è raccontare l’arte, il lifestyle, la
CD/ Sicuramente uno dei miei personali aspetti maggiormente dominanti nelle foto di food, come nello still life, sta nella composizione grafica, ovvero la ricerca della veste grafica prima che fotografica del cibo, il voler sfruttare gli elementi di scena, gli ingredienti di una ricetta per creare arte attraverso raffigurazioni grafiche, sia pur ridotte all’essenziale tanto da sembrare casuali e spontanee o, come amo definirlo io “caos ordinato”. A detta di chi osserva le mie foto, sebbene ogni lavoro abbia un’anima e un corpo tutto suo e sia diverso dai precedenti e dai futuri lavori, 16
com’è giusto che sia, sembra emergere uno stile personale. Per ciascun committente cerco sempre di formulare una soluzione ad hoc e cucire il vestito più giusto per la sua corporatura, ma forse quello che domina e fa da comune denominatore credo potrebbe essere proprio l’intento di ricercare un’eleganza essenziale, l’armonia nella geometria, l’esaltazione della luce e dei colori. LC/ Affermi che “per noi italiani il cibo è parte della nostra cultura”, ci racconti cosa ti ispira questa affermazione? CD/ Crescere in una famiglia del sud Italia significa vivere le giornate scandite dal ritmo dei pasti consumati tutti insieme, significa alzarsi la mattina e cominciare a pensare a cosa cucinare per pranzo, per cena, cosa cucinare il giorno dopo e il giorno dopo ancora. Per noi del sud il cibo è quasi un’ossessione, ma un’ossessione buona! Che se vai a vivere al nord, i sapori o i non-sapori degli alimenti da grandi supermercati ti stanno un po’ stretti e allora aspetti a gloria il pacco da giù, con il caffè preferito, le cicorie, i taralli e le frise. Che poi a pensarci bene, non è che al nord si mangi male, ma quando ti arrivano le verdure da giù, sai che ti arriva un pezzo di terra, e per noi è anche un pezzo di cuore.
Questo vuol dire cultura. Certi cibi risvegliano ricordi di memorie (ancestrali) indelebili, ricordi olfattivi che rimandano direttamente all’infanzia, lì dove sono stati creati, e che quindi scatenano emozioni piacevoli, come i carciofi fritti di mia nonna! LC/ Tra forma e sostanza: nei piatti pensi che “l’aspetto” (foto)grafico sia oggi sottovalutato, ben riconosciuto o sopravvalutato? CD/ A parer mio l’estetica quando applicata all’arte - e il cibo, intendendo la pratica culinaria e la sua cultura, è arte - non è mai frivola, ma è piuttosto un veicolo comunicativo. Un mezzo per comunicare messaggi, valori, emozioni e sentimenti. Cucinare è un atto d’amore per se stessi e per le persone per cui lo si fa, l’ingrediente segreto che ogni mamma mette nei piatti dei propri bimbi. Ecco perché il cibo diventa veicolo di qualcosa di più elevato del semplice nutrimento, un piatto buono e dal bell’aspetto, un piatto che mangi prima con gli occhi e poi con la bocca, è cibo anche per l’anima. Da questo punto di vista ecco che la fotografia del cibo anticipa il processo di “degustazione” nell’osservatore e se alcuni fattori come bellezza del piatto e bellezza della fotografia del piatto stesso sono perfettamente allineati, ecco che ci viene l’acquolina in bocca! LC/ Si dice che fotografare il cibo sia qualcosa che oggi, potenzialmente, potrebbe fare chiunque abbia uno smartphone. La tutela del copyright è uno dei temi più delicati in un’epoca di condivisioni selvagge e di manipolazioni diffuse. In tal senso come ti tuteli e regoli l’uso dei tuoi scatti?
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CD/ Sì, è vero, oggi gli smartphone fanno di ognuno di noi un potenziale fotografo. Ma come per tante cose, anche nella fotografia esiste un livello amatoriale e un livello professionale, e ciò che un fotografo deve perseguire e assicurare è necessariamente la qualità dei risultati. In situazioni di saturazione dei mercati, consumo frenetico di immagini e contenuti, la fugacità fa da padrona. Mentre le aziende si sfidano sui social in battaglie acchiappaclik, la ricetta per una fotografia di qualità necessita di ingredienti come precisione, stile e valore; ingredienti che certamente meritano il giusto compenso e il giusto riconoscimento e, in quanto frutto di tempo, studio, ingegno e talento non possono essere avviliti da speculazioni, abusi, né tanto meno dalla corsa al risparmio. Tuttavia, se all’estero l’uso delle immagini fotografiche prevede grande rispetto del copyright e dei diritti di utilizzo, e contempla sempre compensi proporzionati ai tempi e ai mezzi di utilizzo, in Italia, purtroppo non possiamo godere della stessa mentalità e spesso è difficile far comprendere al committente che i costi di un libero professionista includono anche i valori intangibili di un lavoro artistico-culturale come la fotografia.
Chiara Daniele è Food Photographer.
Da sinistra: UNTITLED, 2019. BRANZINO À LA CARTE, 2019. Per entrambe courtesy Chiara Daniele.
SMALL TALK
L’INDOMITO ATTO DEL DIPINGERE Alessandro Scarabello
- Valentina Tebala
A
lessandro Scarabello (Roma, 1979) vive e lavora tra il Belgio e l’Italia. Ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e poi alla Royal Academy of Fine Arts (Kask) di Gand. Ha esposto in numerose istituzioni pubbliche e private italiane e internazionali tra cui il Royal Museums of Fine Arts e l’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles, il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, Palazzo Collicola di Spoleto e Palazzo delle Esposizioni di Roma.
Valentina Tebala/ Come hai iniziato a dipingere, e che tipo di approccio ha caratterizzato il tuo rapporto con il mezzo pittorico fino ad arrivare ad oggi? Alessandro Scarabello/ Ho sviluppato naturalmente interesse per il disegno e subito dopo per la pittura durante gli anni del liceo, ma tutto parallelamente all’interesse per la musica. Lo dico perché l’attitudine al suonare è stata fondamentale e propedeutica allo sviluppo di un forte interesse verso il medium, e la porto tuttora con me. VT/ La Storia dell’arte: è più una riserva di conoscenza o una fonte di ispirazione da cui attingere? AS/ Penso che la Storia dell’arte sia un flusso che cambia le cose e come tale contamina e si fa contaminare. VT/ E la contemporaneità? Cosa - eventualmente - ti interessa riportare sulla tela rispetto alla precarietà del mondo e del vivere odierni? AS/ Per me la contemporaneità è la tela. Quello che metto sulla tela è il tempo (materializzato) che mi prendo per contemplare la contemporaneità. VT/ Roma, la tua città di nascita, ha avuto un forte influsso sul tuo lavoro e la tua espressione pittorica... AS/ Non può essere diversamente. Nel bene e nel male, Roma è il difetto e insieme la soluzione, insiti nel modo in cui mi rapporto all’arte e alla pittura. VT/ Del tuo gesto pittorico, rapido, talvolta irruento, mi colpiscono in particolare le sferzate di bianco lattiginoso ma anche luminosissimo. Che significato riveste per te il colore, e il colore associato alla forma, alla figura? AS/ Il colore è un veicolo straordinario che, se cessa di essere venerato, diventa un vero strumento di indagine. Ho capito questo quando ho finito di cercare e trarre piacere dal colore. Il ridurre la tavolozza a pochi colori e talvolta riducendola al massimo a uno o due, mi ha permesso di arrivare alle cose in modo più diretto e concentrato per afferrarne lo stato effettivo. L’uso del bianco ricorre molto spesso nelle mie opere e credo abbia la funzione di imprimere/ fermare il momento più viscerale dell’azione panica e instabile del dipingere. Dall’alto: BANQUET, 2018. Olio su tela, 101x89 cm. Collezione privata. UNTITLED, 2017. Olio su tela, 101x89 cm. Collezione privata. Per entrambe courtesy The Gallery Apart.
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IN MEMORIA DI MIA MADRE NATA IN AMERICA, 2020. Olio su tela, 100x100 cm.
FAUSTO CELSO L
a pittura di Fausto Celso è fatta di amore, di costanza, di passione e di legami con il passato, che si tratti di un passato di affetti o come attenzione alla Storia dell’arte recente. Tutto viene eseguito con grande dimestichezza del gesto pittorico; nessun tentennamento, nessuna imperfezione nella stesura del colore, nessuna linea ad interrompersi, e la geometria, nel corretto impiego che ne fa l’artista, consente una perfetta apparente estroflessione del piano pittorico. Perizia e tenacia, dunque, come strumenti in grado di andare oltre. Oltre qualsivoglia difficoltà. E nel dipinto In memoria di mia madre nata in America, del 2020, ecco che l’artista dà forma, in un fare moderno, a un ricordo - prezioso e forse solo idealmente lontano - che conduce a sé un rimembrare di ieri ma al di là dell’oggi. Loredana Barillaro