Magazine di arte contemporanea / Anno II N. 6 / Trimestrale free press
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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut: 170/ CBPA-SUD/CS
APRILE MAGGIO GIUGNO 2013
FRANCESCO PETRONE
Eugenio Borroni - Hernàn Chavar - Alice Colombo Arianna Angeloni - Francesco Correggia - Paolo Bini Maurizio Cariati - Luca Beatrice - Francesco Petrone Alessandro Fonte - La percezione collettiva dell’arte
TALENT TALENT
SOTTO IL FUOCO INCROCIATO DELLE EMOZIONI Alessandro Fonte
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...è il tentativo di nobilitare e rendere longevo ciò che altrimenti finirebbe col deperire, accendere i riflettori su un luogo forse dimenticato ma ancora pregno di memoria, cristallizzare in un gesto un’emozione, specie se effimera e irripetibile.”
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on è semplice dar forma all’intangibile, descrivere un’emozione, tradurre in un segno uno stato d’animo, inseguire tutto ciò che è effimero e invisibile. Eppure, con il suo lavoro, Alessandro Fonte da sempre si cimenta in esercizi tanto difficili sperimentando un linguaggio deputato alla narrazione dell’assente. Creando una sensazione di vuoto percettivo, e offrendo al contempo gli strumenti utili a colmarlo, Fonte regala allo spettatore gli spunti necessari all’elaborazione di una storia che, sganciata da ogni riferimento reale, racconta l’uomo e i suoi moti interiori. Così facendo, l’artista reggino trascrive sulla superficie dei propri lavori la traccia di un’epica quotidiana che ha luogo sotto il fuoco incrociato delle emozioni, evocando sentimenti e stati d’animo per loro natura sfuggenti e poco inclini alla
- Gregorio Raspa
formalizzazione. Ed è proprio sulla capacità evocativa di un complesso, strutturato ed ampio repertorio simbolico che Fonte deposita le ambizioni della sua poetica. Sono diversi, a tal proposito, i riferimenti che questo giovane artista usa, dando vita ad un codice espressivo che pone al centro delle proprie intenzioni la ricerca dell’uomo e dell’umano, due “concetti” evocati per mezzo di strumenti iconografici che, come la seduta - vera e propria struttura emblematica dell’opera di Alessandro Fonte - testimoniano l’allegoria di una presenza creata per neutralizzare la materialità di un vuoto lasciato dall’assente. Pur lavorando con il video, la fotografia, la performance, l’opera installativa e la scultura, l’arista mantiene intatti i motivi della sua ricerca che, declinati in una forma direttamente suggerita dal mezzo scelto per l’esecuzione del gesto artistico, appaiono sempre fedeli ad un’unica linea concettuale e ispirati dalla stessa intenzione iconografica. Uno degli aspetti che, forse meglio di ogni altro, conferma tale coerenza linguistica è dato dalla predilezione che egli manifesta per i materiali e gli ambienti “poveri” utilizzati, rispettivamente, come il supporto con cui realizzare sculture e installazioni, ed il luogo in cui ambientare video, performance e fotografie. È così che la materia depauperata, esausta e consunta, trova nuova vita nell’arte di Fonte e gli spazi abbandonati e/o degradati acquista2
no rinnovata dignità divenendo set delle sue “azioni”. Tutto ciò che questo giovane artista utilizza si avvolge di mistero e ambiguità, fascino primordiale e silenzio, assumendo la luce di un’inedita e suggestiva bellezza. Il suo è il tentativo di nobilitare e rendere longevo ciò che altrimenti finirebbe col deperire, accendere i riflettori su un luogo forse dimenticato ma ancora pregno di memoria, cristallizzare in un gesto un’emozione, specie se effimera e irripetibile. Tentativi, quelli appena descritti, dotati di un carattere poetico sottolineato - anche dalla scelta dei titoli delle opere che, lungi dall’avere una funzione didascalica, assumono spesso un valore autonomo, il più delle volte complementare all’opera stessa e finalizzato, come ogni altro componente del lavoro di questo artista, ad instaurare un dialogo emozionale con il pubblico. Tale aspetto è centrale nella ricerca di Alessandro Fonte che, da sempre, guarda con interesse all’uomo e alle sue passioni, alla società e ai suoi umori cercando di provocare nell’osservatore una reazione “sentimentale” prima ancora che razionale. Del resto, l’artista stesso ha confessato “l’arte che mi interessa è un pulsante”. LA NOSTRA ALBA, 2012. Video digitale 3’43’’ loop, Courtesy dell’artista.
TALENT TALENT
TRA FAVOLA E REALTÀ Alice Colombo
- Martina Adamuccio
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na favola nata anni fa, quella di Alice Colombo, in cui la semplicità d’animo e la magia del gesto non lasciano spazio ad un mondo spesso malsano. Le sue opere nascono da una stratificazione del collage, unito, poi, alla pittura e al disegno. L’artista impiega la carta utilizzata per foderare i mobili antichi, in cui ricorre il tema del giglio. Il giglio è stato protagonista di numerose credenze di ispirazione religiosa, non a caso è il fiore scelto dal cristianesimo per simboleggiare la purezza della Madonna. La leggenda narra, infatti, che Maria abbia scelto il suo sposo proprio perché lo aveva notato tra la gente con un giglio tra le mani, e questo spiegherebbe perché nella storia dell’arte Giuseppe molto spesso sia raffigurato con un bastone da cui sbocciano dei gigli bianchi. Il significato di purezza e castità che il giglio si porta dietro, però, è superato da quello di dignità e nobiltà d’atteggiamento e animo; in amore, infatti, è il fiore ideale da donare alle donne fiere, oneste e di grande classe, per dire loro: “sei una regina”, ed è questo lo spirito con cui Alice Colombo pare farne uso. Sulla carta gigliata Alice inizia il lavoro di collage, che dà nuova vita a pagine di riviste e libri antichi che una storia hanno avuto ma che ora non hanno più, per trasformarli in alberi e foreste. I paesaggi sono un riflesso del nostro vivere quotidiano, e le storie che l’artista racconta si popolano di figure di bambine. La bambina è silenziosa viaggiatrice di un mondo fuori da ogni realtà. Libera da pregiudizi osserva attentamente ogni cosa e attraverso linee sottili entra in rapporto con la natura e ciò che la circonda. Una ricerca di equilibrio, quella di Alice, che porta ad una sua armonia estetica e spirituale. La figura umana, seppur piccola, rappresenta il punto di contatto con chi osserva il quadro, ma in particolar modo, tra noi e la natura, e a ricordarlo è il filo, un motivo ricorrente nelle sue opere. Un filo che permette di salire su un albero o che permette di tenere legati oggetti o storie invisibili, ma soprattutto, un filo che permette di tener legato l’uomo alla terra, simbolo delle nostre origini. L’eleganza del gesto e della manualità fanno dei suoi lavori favole dal dolce lieto fine. In fondo, è il nome stesso dell’artista che ci ricorda la bellissima favola di Alice nel paese delle meraviglie. Un paese in un luogo che luogo non è.
Dall’alto: ADDOMESTICARE, 2012. Tecnica mista e collage su tela, 40x50 cm. IL NIDO, 2011. Tecnica mista e collage su tela, 40x50 cm e 18x24 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
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INTERVIEWS
UN INTENSO RAPPORTO A DUE Maurizio Cariati
- Luca Cofone
Luca Cofone/ Partiamo dal principio, perché la tela estroflessa, nasce prima l’idea o il supporto? Maurizio Cariati/ L’idea della tela estroflessa è stata una scelta consequenziale, nata durante i miei anni accademici. In quel periodo sentivo l’esigenza di andare oltre la superficie bidimensionale, che alle volte sembrava realmente starmi stretta, e così, ispirandomi ai grandi maestri come Bonalumi, Castellani e Fontana ho cercato di andare oltre ciò che la bidimensionalità poteva offrirmi. L’estroflessione mi permette di creare un rapporto e una comunicazione più diretta e di impatto con i miei volti e il fruitore stesso, che diventa così parte integrante di quel rapporto a due. Nei miei lavori nasce quasi sempre prima l’idea o il particolare che mi colpisce in un soggetto rispetto ad un altro. Successivamente costruisco il supporto e studio per bene il soggetto a cui darò vita. LC/ La maggior parte dei tuoi lavori è costituita da ritratti, vi è infatti un variegato campionario di umanità, chi sono questi personaggi e cosa raccontano? MC/ Il ritratto è uno dei più antichi generi pittorici. Quando l’uomo acquista coscienza di sé, il ritratto diventa mezzo per esprimere il vissuto interiore di ogni singolo individuo e non vi è volto che non esprima qualcosa di più profondo di ciò che appare guardandolo anche solo superficialmente. I miei personaggi nascono nel vissuto quotidiano, dai giornali, da internet, dalle riviste e per strada. Molte persone amano farsi raffigurare accentuando quelli che potrebbero essere, apparentemente, dei difetti, dimostrando in questo modo di essere coscienti di alcune imperfezioni capaci, però, di renderli belli per ciò che sono. Un difetto, una stranezza, diventano così il punto forte di una persona e ne definiscono spesso modi di fare e carattere. Il ritratto è, dunque, insieme allo sguardo, per me fondamentale, è il modo più semplice e allo stesso tempo più complesso per arrivare dritti al cuore delle persone che rappresento.
Qui sopra e a sinistra: IL GUARDIANO!, 2012. Acrilico su tessuto estroflesso, 30x20x9 cm. In alto: PIOGGIA DI CORIANDOLI!!!, 2009. Acrilico su tessuto estroflesso, 18x24x8 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
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LC/ Facce “deformi”, un po’ buffe, alle prese con una società volta sempre di più alla perfezione. Sono felici o fanno fatica ad esserlo? MC/ Se i miei volti, a primo impatto, trasmettono una sensazione di ilarità, dopo un’attenta analisi attraverso i tratti e gli sguardi, essi ci conducono ad una riflessione sui i canoni di “bellezza e bruttezza” più profondi. I miei volti non sono mai belli, sono particolari. Sono fuori dai canoni di bellezza rinascimentali, per me è bello un particolare soggetto rispetto ad un altro in base alla peculiarità del volto. Sono alla continua ricerca di quei canoni di fisionomia che trasmettono monomanie, follie, stati d’animo angosciosi, disperati ecc… per cui, l’ironia è solo una, nessuna, mille o centomila maschere del volto che rappresento. Fare di un proprio difetto un punto forte e di bellezza è per me la vera perfezione. LC/ Pare ci sia sempre uno “schermo” a separarti da loro, ed è ciò che forse gli fornisce una connotazione. Non li guardi mai direttamente? MC/ Non credo ci sia uno schermo, tutt’altro. I miei lavori sono presenze costanti della mia vita e del mio essere. Sono me, in diversi volti, in diversi stati, in diverse pose. Sono io che mi ritraggo attraverso loro, esprimendo caratteristiche e manie della contemporaneità. Qui non vi è presenza di schermo ma presenza e basta. Loro escono dalla tela cercando un dialogo continuo con chi sta ad osservarli. Li guardo in continuazione, attraverso la pittura e attraverso la semplice osservazione una volta terminati. Gli occhi per me sono fondamentali, perché sono il vero volto dell’anima e del soggetto stesso.
sono delle cose e spero di riuscire a realizzarle. Per scaramanzia preferisco non dir nulla. In questo mondo non si è mai certi di niente fino alla fine. Comunque diciamo che sono molto… work in progress!
LC/ Come si sta evolvendo la tua ricerca negli ultimi mesi, a cosa lavori?
Dall’alto: OPS, HO PRESO TROPPO SOLE, 2012. Acrilico su tessuto estroflesso, 30x30x6cm. FIERA DI ESSERE UNA CAPRA!, 2012. Acrilico e fili su juta estroflessa, 120x140x22 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
MC/ Da qualche tempo sto lavorando a diversi cicli pittorici e sperimento materiali molto differenti fra loro. In cantiere ci
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ono alla continua ricerca di quei canoni di fisionomia che trasmettono monomanie, follie, stati d’animo angosciosi, disperati ecc…per cui, l’ironia è solo una, nessuna, mille o centomila maschere del volto che rappresento.”
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INTERVIEWS
UNA CERTA CONFIDENZA CON IL VERO Paolo Bini
- Gregorio Raspa
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aolo Bini è un giovane artista campano che, con i suoi lavori, ha saputo innovare la lunga tradizione del paesaggio una volta di più. Attraverso l’utilizzo di ampie e fluide pennellate, che si stendono sul supporto con una forza quasi “corrosiva”, Bini ricerca e vanifica, al tempo stesso, ogni riferimento figurale, tracciando sulla tela nuove geografie mentali, definendo i luoghi di un “altrove” inaccessibile a chi abitualmente guarda il mondo solo con gli occhi.
Gregorio Raspa/ I paesaggi dipinti nei tuoi lavori sono tratti da luoghi reali o immaginati? La fluidità delle forme, il più delle volte prive di peso, l’atmosfera di sospensione che governa la composizione, sono tutti elementi che fanno pensare a luoghi e spazi mentali più che fisici. È così? Paolo Bini/ Trovo fondamentale una certa confidenza con il “vero”. Anche per un pittore non figurativo ritengo sia indispensabile acquisire una disciplina. Il mio lavoro è basato su di un sedimento reale che si trasfigura e, successivamente, diventa ciò che rappresento nelle mie opere. Ciò che racconto attraverso la pittura è lo sviluppo del lavoro figurativo che oltrepassa il filtro della mente, transita per il ricordo di un’emozione ed arriva a compiersi in un lavoro che definisco posto al confine tra il reale e lo spirituale. GR/ La scelta di non inserire la figura umana nelle tue opere mi pare uno degli elementi caratterizzanti della tua poetica. In tal senso, i luoghi che dipingi mi sembrano post-urbani, in alcuni casi, addirittura, post-umani... PB/ Qualcuno ha definito i miei dipinti “antropo-metrici”. Probabilmente la forma dei miei lavori, sempre più verticali e sempre più grandi, ad altezza d’uomo, misurano quest’ultimo e lo raccontano in una vera e propria proiezione sulla tela.
Infatti, sulla superficie dei miei quadri troviamo il trascorso dell’uomo, il suo sentimento, le sue inquietudini. Il dipinto è un divenire di emozioni che cerco di narrare nella maniera più personale possibile interessandomi principalmente al racconto di un’esperienza. GR/ La tua pittura sembra voler conciliare i cieli tormentati di Turner e la più recente tradizione dell’action panting. Quali sono i tuoi punti di riferimento? Quali gli autori che hanno maggiormente influenzato il tuo lavoro? PB/ Hai colto nel segno citando un mio idolo: Turner. Amo il suo lavoro. In ogni caso, attraverso l’utilizzo di forti e vivaci gradazioni cromatiche, come il verde ed il magenta, provo ad introdurmi in un contesto attuale e definire un tipo di paesaggio “nuovo”. Quando dico “nuovo” intendo qualcosa che ancora non è stato fatto e che sia la precisa traduzione pittorica di un racconto attuale e allo stesso tempo riconoscibile. Guardo con interesse ad artisti contemporanei già storicizzati come Richter, Kiefer, Barcelò o Schnabel. Tra i più giovani, invece, ammiro Alberto Di Fabio e Matteo Montani. GR/ A volte dipingi su più supporti che poi assembli in un’unica opera. Perché un simile procedimento? PB/ Quando adotto questo procedimento 6
cerco “l’unione delle cose”. Penso ai vari supporti (la carta, la tela ecc.) come a delle persone diverse che, utopicamente, cerco di riunire in un unico quadro. Anche in questi lavori effettuo un’analisi sull’uomo pur senza rappresentarlo. GR/ Un colore che ricorre spesso nella tua pittura è il verde, proposto con dei timbri quasi fluorescenti. Cosa ti lega a questa tonalità? PB/ Il colore di cui parli nasce come racconto d’identità. Il verde è il colore caratteristico della macchia mediterranea, assai diffusa nella zona a sud di Salerno, dove vivo. Col tempo sono passato da una stesura del verde a pennello a quella con compressore. Infatti, la possibilità di nebulizzare il colore sulla superficie determina maggiormente quella leggerezza, quell’evanescenza con la quale cerco di stabilire il mio personale alfabeto pittorico. GR/ Progetti futuri? PB/ Nell’ultimo periodo sto lavorando molto in teatro come scenografo, un’esperienza che mi aiuta a sviluppare nuove idee da tradurre in progetti pittorici e installativi. Da sinistra: NOTTURNO, 2012. Acrilico e mica su tela, 150x100 cm. PLACE 01, 2012. Acrilico e mica su tela, 50x70 cm. Per entrambe courtesy Cerruti Arte, Genova.
INTERVIEWS
VIVERE CON L’ARTE Luca Beatrice
Loredana Barillaro/ Luca Beatrice è fra le voci più autorevoli della critica italiana. A che punto è il sistema Italia oggi? Si può dire che esiste un “sistema Italia”? Luca Beatrice/ Non credo nelle definizioni. Anche se possono servire a individuare e semplificare dei fenomeni alla lunga dimostrano tutta la loro fragilità. È successo anche a quello che fino a poco tempo fa qualcuno chiamava “il sistema dell’arte”. Sono stanco di sentire parlare di crisi, quello che è successo è un cambiamento inevitabile di un mondo che evidentemente non aveva basi abbastanza solide. Una bolla, insomma, che a un certo punto è scoppiata. Ora tocca a noi, addetti ai lavori, trovare un nuovo equilibrio che ci permetta di vivere con l’arte. Il segreto è quello di reinventarsi. Io sono aperto alle più varie esperienze, certo sempre basate sul mio bagaglio culturale e la mia voglia di esplorare territori diversi. In aprile esce nelle librerie per Rizzoli il mio libro Sex. Erotismi nell’arte da Courbet a YouPorn, nello stesso mese inauguro al Palazzo della Penna di Perugia una mostra dedicata al rapporto tra arte e letteratura “L’arte è un romanzo. La straordinaria storia delle parole che diventano immagini”. Intanto continuo a portare avanti con passione il mio incarico di Presidente del Circolo dei Lettori di Torino, importante progetto voluto dalla Regione Piemonte. Insomma, se qualche anno fa mi dedicavo principalmente alla critica d’arte ora mi diverto nell’affrontare sfide sempre nuove. LBa/Credo tu abbia avuto modo di vedere o sentire cosa succede in Calabria da un po’ di mesi attorno all’arte contemporanea, pensi come me che si tratti di un fatto “estemporaneo” quindi legato ad un certa disponibilità di fondi pubblici o magari che possa attecchire sul territorio? LBe/Non credo che le cose succedano in modo, come dici tu, “estemporaneo”: le risorse non cadono dal cielo, è una questione di abilità a procurarsele e di capacità di gestirle. Quello che è successo in Calabria è ammirevole. Dal bando di oltre tre milioni di euro indetto dalla Regione e messo a disposizione di eventi legati all’arte contemporanea, allo sviluppo del MACA, Villa Zerbi, La città Museo, Intersezioni... insomma, il tanto criticato Sud ci sta dando davvero un ottimo esempio di come l’arte possa essere una risorsa, anche economica, capace di creare movimento e opportunità di lavoro. Mi auguro che i calabresi che operano nel settore capiscano la grande opportunità che stanno vivendo e sappiano sfruttarla al meglio. LBa/ In realtà ad oggi credo siano pochi i
- Loredana Barillaro
calabresi che hanno trovato lavoro grazie a questi fondi, e mi chiedo, quando i soldi saranno finiti potrà durare questo “momento felice”? Inoltre penso che siano stati distribuiti male, troppi soldi a pochi progetti; anche gli spazi espositivi che hai citato si rivolgono davvero poco al territorio e il funzionamento di qualche struttura è davvero “singolare” e ci sarebbe molto da dire; ancor di più, quando si è in presenza di finanziamenti pubblici a contesti altrettanto pubblici la trasparenza è doverosa. Il punto è che gli operatori del settore lavorano sì tutto l’anno, ma a fatica e senza soldi, credo sia questo ciò che è davvero ammirevole... LBe/ Essendo spettatore esterno alla realtà della Regione non posso esprimere un giudizio su come poi siano state usate nello specifico le risorse, sicuramente il punto di partenza è buono. Ai posteri l’ardua sentenza. LBa/ Pensi che nell’arte conti ancora il talento o basta solo una buona strategia di marketing per entrare nell’agognato star system? Qualcuno paventa un manuale d’uso… LBe/ Anche avere una buona strategia di marketing è un talento! Nel mio libro Pop. L’invenzione dell’artista come star (Rizzoli, 2012) scrivo proprio di quegli artisti che hanno saputo intuire e sfruttare in modo geniale il potenziale della società dello spettacolo per affermarsi e accrescere la propria popolarità. Dalí, Warhol, Basquiat, Koons, Hirst, Cattelan: forse più rockstar che artisti visivi, sicuramente protagonisti della storia dell’arte, talmente scaltri da saper cogliere le potenzialità dei mass media. Personaggi indimenticabili che hanno deciso di andare oltre alla, lasciami dire, scontata visione romantica che legge l’artista come figura pura e ispirata. LBa/ Tre giovani artisti di cui volentieri seguiresti il lavoro… LBe/ Insegnando all’Accademia Albertina di Torino sto riscontrando ottime energie proprio tra i miei studenti o ex-studenti, sono nomi che magari non dicono ancora molto al grande pubblico ma su cui scommetto almeno un euro ciascuno. Ecco i 7
nomi: Nadir Valente, the Bounty Killart, Alfredo Aceto, Guglielmo Castelli (lui più noto), Erik Saglia. Luca Beatrice fotografato da Stefano Cerio. In alto, Mel Ramos, PEPSI COLA, 2005.
SPECIAL
LA PERCEZIONE COLLETTIVA DELL’ARTE Loredana Barillaro • Luca Cofone
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on c’è dubbio che siamo in un momento storico molto particolare, in cui molte cose stanno cambiando e facciamo fatica a tenere il passo con gli eventi della storia. L’arte che conosciamo, quella dei musei, delle gallerie e delle fiere, rischia di essere superata dai fatti. Solo per fare un esempio stranoto a tutti, basti guardare a cosa Beppe Grillo ha innescato con la sua attività di blogger: un processo che va ben al di là di qualsiasi esperienza pur innovativa di net art. Di solito l’arte è stata sempre in grado di capire in anticipo dove va il mondo, e di interpretarne i cambiamenti epocali. Non credo che oggi abbia perduto questa capacità. Semplicemente siamo noi che, seppelliti dall'enorme quantità di informazioni, non siamo in grado di riconoscere dove sono i segnali artistici più importanti. Forse le novità più interessanti si trovano tra gli artisti/attivisti dell’est europeo, dove l’arte è spesso un mezzo di reinterpretazione della condizione dell’individuo nella società, un mezzo di azione politica persino. O forse nella ricerca di un rapporto con lo spirituale, anche come critica alla religione tradizionale, che si percepisce in molti paesi del mondo. Fabio Cavallucci
MARIA ROSA SOSSAI FABIO CAVALLUCCI CARMELO CIPRIANI
Arte come voce della società. Arte come strumento di lotta. Arte come specchio del quotidiano. Tre semplici affermazioni e una domanda altrettanto semplice: ’arte, oggi, cosa vuole dirci?”
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rte come processo educativo, spazio di libertà creativa e azione di responsabilità condivisa dalla collettività. Arte come dialogo tra pubblici diversi e riflessione sul potere di chi insegna. Arte come contratto tra artisti, docenti e studenti di tutti gli ordini di scuola, nonché adulti che attraverso l’arte contemporanea intendono vivere un’esperienza di crescita libera, autonoma, qualificata, soggettiva e al tempo stesso collettiva. Arte come didattica del desiderio e del piacere di incontrarsi, meccanismo virtuoso di riconoscimento delle potenzialità creative in grado di produrre felicità. Arte come prototipo educativo che possa essere sperimentato da più soggetti. Arte come produzione culturale diffusa. Arte come produzione di immaginari sociali alternativi che attivano un cambio di prospettiva e guardano al di là dell’ordine costituito. *I modelli educativi di riferimento e le esperienze a cui ALAgroup si ispira sono storici e recenti. Tra gli altri il Free International College creato da Joseph Beuys a cui fece seguito insieme al poeta Heinrich Böll la Free International University for Creativity and Interdisciplinary Research (FIU); la didattica del desiderio sviluppata da Gina Pane durante gli anni di insegnamento; the Theatre of the Oppressed di Augusto Boal. (www.alagroup.org) Maria Rosa Sossai
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ematiche eterogenee e disparati mezzi espressivi rendono l’Arte un prezioso strumento di comunicazione, ricettivo e accattivante. Tuttavia nel linguaggio comune – e la domanda lo conferma – siamo soliti riferirci all’Arte come entità categoriale sovrasensibile, dimenticando il suo profondo legame con il territorio di appartenenza, l’epoca di produzione e, in extrema ratio, la centralità del pubblico. Credo, infatti, che non sia tanto l’Arte a raccontare, a “dirci”, quanto lo spettatore a percepire. L’esperienza ci insegna che il messaggio artistico non può – e non vuole – essere unico, né monosensoriale. Esso si presta a molteplici interpretazioni, a volte complementari, non di rado antitetiche. Non sempre, infatti, l’intenzione che genera il gesto artistico è realmente compresa dal fruitore. Ma questo nulla toglie alla capacità comunicativa dell’opera, che, il più delle volte, è travisata – o meglio reinterpretata – dal pubblico in funzione della propria sensibilità, del ruolo sociale, del background culturale. È in questa infinita potenzialità percettiva che risiede il reale merito dell’Arte, insostituibile testimonianza di civiltà, capace di tramandare, in una visione polisemantica, attitudini, certezze e inquietudini della società contemporanea. Carmelo Cipriani 8
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lla fine degli anni Settanta il pensiero postmoderno esalta le differenze, perché l’artista deve misurarsi con un mondo molto complesso, si utilizzano elementi formali tratti dal passato, dal territorio o dalla storia personale dell’artista; oggi l’arte segue un processo inarrestabile di contaminazione dei diversi linguaggi sia dal punto di vista tecnico che espressivo offrendosi ad una continua sperimentazione, la tecnologia sempre più sofisticata è entrata nella società e di conseguenza nell’arte, nella creazione di un’opera d’arte. Oggi, nonostante una diffusa frammentazione dei linguaggi ed una certa elitarietà degli stessi, nell’epoca dei media avanzati, pare comunque conclusa l’era del conflitto tra arte e società, anche se resta alto il rischio della reciproca indifferenza se non della separazione tra l’arte ed il suo pubblico. Parlando del ruolo dell’arte nella storia dell’umanità e della società civile, è inevitabile chiedersi quale sia il ruolo dell’artista, perché, se è vero, come dice Ernst H. Gombrich, che non esiste una “cosa” chiamata arte, ma esistono gli artisti e le loro opere, appare possibile che, dopotutto, possa essere più importante capire in prima battuta il ruolo degli artisti e poi di ciò che essi producono, che convenzionalmente chiamiamo arte. Ma oggi, come ieri, il ruolo fondamentale dell’artista resta quello del ricercatore, quand’anche impegnato in una ricerca inutile, dimenticata, oscura, per diventare alla fine il protagonista e l’interprete dell’evoluzione culturale, attualmente mediata e supportata da efficaci forme di comunicazione. La ricerca dell’artista di oggi, il suo ruolo in una società moderna, può voler dire proprio questo: la capacità di integrare sul piano formale linguaggi specifici di due mondi diversi, quello tecnologico - economico e quello creativo e artistico. Stefania Bosco
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arte sta producendo la miglior chiave di lettura della realtà. Ha un obbligo morale e spirituale, rifiuta qualunque tipo di finzione e parla direttamente. L’estrema vitalità di una ricerca, che fa parte di un progetto più ampio, diciamo di una strategia articolata, per questo si chiama Arte. Mi interessa proprio rendere conto di questa pluralità, alla base vi è la convinzione che il linguaggio ha un’attenzione ed è consapevole del proprio ruolo, importantissimo rispetto al mondo e alla società. Perché l’arte possiede un carattere fondamentalmente critico rispetto alle condizioni di produzione dell’ambiente in cui è stata portata a termine. In tutti i casi, si tratta di meccanismi complessi che, operando dentro il territorio dell’estetica, sono in grado di mettere in questione la sua logica e problematizzare la sua relazione con lo spazio sociale; oppone soluzioni ed interpretazioni imprevedibili. Atmosfere di perpetuo disordine che evidenziano e segnano le pagine di un romanzo che non vogliamo dimenticare, così come si sottolinea un verso che vogliamo conservare nella nostra memoria. Antonio Arévalo
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el corso del secolo passato l’arte ha lottato contro il suo statuto di “significato senza realtà” (Mario Perniola) in cui le civiltà storiche l’hanno relegata, tentando di superare l’arte nella vita, ma quello che è avvenuto è stato piuttosto un superamento della vita nell’arte. La sparizione dell’arte di cui parla Jean Baudrillard non costituisce infatti che «l’immensa impresa di riproduzione museografica della realtà, l’immensa impresa di stoccaggio estetico, di risimulazione e reprografia estetica di tutte le forme che ci circondano» tipica della cultura dominante. Oggi l’arte vive la celebrazione libertaria della sua cattività, la sua promessa di felicità condizionata, la sovversione della forma che si è mutata in forma della sovranità. L’efficientismo collezionistico di dati, l’attitudine iperarchivistica pare supplire all’impotenza fattuale della conoscenza, eppure, come insegna Socrate, sa di sapere solo colui che non sa. Se una frontiera da oltrepassare esiste nella misura in cui avvertiamo l’eccedenza incatenata delle nostre vite, il nodo risiede nel discernere i suoi tratti tra i risvolti dell’esistente, ove essa è radicalmente mimetizzata. Si tratta forse di un lavorare per via di levare, più che di aggiungere, come per la Pietà che, già presente nel blocco di marmo, attendeva solo un Michelangelo che le facesse da levatrice. Stefano Taccone 9
STEFANIA BOSCO ANTONIO ARÉVALO STEFANO TACCONE
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UN ORIZZONTE FRA MARE E CIELO Francesco Correggia
PEOPLE ART
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a mia formazione artistica nasce con l’amore per il mare, la navigazione, i miti letterari. Ciò per me voleva dire mettermi in viaggio, trovare una via di fuga e soprattutto lasciare la città in cui ero nato, Catanzaro, ventosa, turbata, strana, folle. Avevo 16 anni, mentre cominciava una rivoluzione giovanile, quella del ‘68, gravida di conseguenze, io seguivo un’altra rotta, mi arruolavo volontario nella Marina Militare. La letteratura mi ha sempre affascinato. Ho cominciato a leggere da subito. Credo di avere letto già a 14 anni da Conrad a Melville fino a Dostoyevsky, Proust, Musil, Mann, Joyce, poeti come Mallarmé, Baudelaire, Eliot, Rilke. Insomma i libri mi hanno confortato e liberato da una propensione malinconica, saturnina che già allora era estenuante, in fondo per me la vera felicità consisteva, allora come oggi, nell’assenza di desideri. In sostanza sia la letteratura sia la filosofia mi hanno aiutato a combattere una specie di propensione giovanile al suicidio che forse ancora adesso continua a turbarmi. La ricerca costante di un orizzonte fra mare e cielo, lo sconfinamento, la zona neutra, questo essere insieme di acqua, vento e cielo, dove a volte non si può distinguere alcun orizzonte, dove si è lontani da tutto e da tutti, ma soprattutto dalla terra, hanno segnato il mio percorso pittorico, oltre a essere per me ancora una fonte inesauribile cui nutrirmi. Né posso dimenticare il mio debito nei confronti di pittori come Rembrandt, Friedrich, Turner, Monet, Soutine. Al mio ritorno dalla Marina mi dedicai completamente all’arte. Quegli anni erano caratterizzati da un profondo impegno politico e sociale. Bisognava fare qualcosa a cominciare dal proprio territorio, dalla propria condizione. L’Accademia di Belle Arti di Catanzaro fu un luogo dove potersi incontrare, scambiare idee, progetti, mettersi insieme, lavorare in gruppo e soprattutto muoversi a livello istituzionale, creare spazi di dibattito pubblico sull’arte contemporanea, insomma creare le condizioni per non fuggire davanti alla propria realtà, da quell’eterno sud, croce e delizia di tutti noi. I miei compagni di viaggio di allora erano Lugi Magli, Francesca Alfano Miglietti, Rocco Pangaro e altri. Personalmente preferivo intervenire sul territorio, nel luogo, oggi si dice “in situ”, su antropologia e cultura, segno, sangue e territorio con una serie di azioni-performance in alcuni paesini del Sud. Ricordo soprattutto la performance a Cervicati, quella a Taverna, il lavoro con Tonino Sicoli con cui si condividevano idee e progetti. In quei primi anni Ottanta nascevano almeno quattro progetti importanti destinati a lasciare un’impronta nel tempo: Lo studio Garage, prima Galleria di Arte contemporanea di Catanzaro, lo spazio espositivo dell’Accademia, Il progetto Marginalia che raccoglieva un gruppo di artisti su l’opera e il luogo - il luogo e l’opera, e poi nel 1983 il progetto “Eleusis” su Archeologia e Arte contemporanea nel parco Archeologico della Roccelletta. Quest’ultimo fallì per una sorta d’incapacità da parte istituzionale a capirne il senso e forse anche perché non era il tempo e non c’erano ancora le condizioni politiche per poterlo realizzare. Da qui alla constatazione di una difficoltà a lavorare insieme, di fare qualcosa in un territorio ancora alieno, il mio esilio a Milano, dove mi trasferii nel 1985. Altri avrebbero poi realizzato quel progetto, come Maurizio Rubino, a quel tempo mio giovane studente di Arte contemporanea, che divenne assessore alla Provincia di Catanzaro.
Dall’alto: SCRITTURE, dalla serie LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DI HEGEL, 2013. Acrilico e matita su tela, 40x50 cm. Frame dal video INTORNO A HEGEL, 2010. Per entrambe courtesy dell’artista.
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A Milano incontrai Mimmo Rotella. Andavo spesso a casa sua in Viale Lombardia, si parlava spesso di pugilato e arte. In realtà continuavo a interessarmi di scrittura e filosofia. I miei spazi di riferimento erano per l’appunto Il mercato del Sale di Carrega e la Galleria Bellora. L’interesse a quel tempo era molto orientato verso la semiotica, la filosofia del linguaggio e i media. Incontrai artisti come V. Ferrari, Isgrò, Xerra, Sarenco, V. Accame. I discorsi fra gli artisti che praticavano la scrittura erano moto accesi, la questione girava intorno al medesimo problema: il rapporto fra pittura e scrittura, fra la poesia visiva e la scrittura visuale. Molte volte dopo bevute interminabili, gli scontri e le discussioni diventavano accesi e inesauribili. In fondo è anche da questa esperienza che parte il mio lavoro attuale. Con altri artisti della mia generazione aprii uno spazio a Milano, Studio Veder arte contemporanea. Lo spazio si occupava di giovani artisti ma soprattutto del rapporto fra arte, filosofia e scrittura. Conobbi filosofi come Carlo Sini, Galimberti, Cacciari, Agamben, Massimo Donà. Con Sini c’è stata un’amicizia molto intensa. Andavo spesso a casa sua a discutere di Arte e Filosofia. Amava suonare il piano e dipingere con l’acquarello. Ricordo il suo entusiasmo quando gli portai dei pennelli cinesi adatti per quella tecnica. L’esperienza maturata nello spazio Veder finì per concludersi con la pubblicazione di un libro dal titolo Insulae. L’arte dell’esilio, che vedeva insieme artisti e filosofi sul rapporto fra pittura e dimensione teoretica dell’arte. Il libro approdò con una mostra degli artisti presenti in esso e una conferenza su arte e filosofia alla Biennale di Venezia del 1993. L’inaugurazione fu terribile. Oltre all’umidità veneziana, la folla, gli incontri, le interviste, alla conferenza ci fu una disputa vivace con toni accesi fra curatori e filosofi. Non posso dimenticare in particolare lo scontro fra Sini e Bonito Oliva sulla dimensione ontologica e veritativa dell’arte. Il mio impegno di docente all’Accademia di Brera ha marcato di molto la mia esistenza. Mi sono da sempre battuto per il passaggio delle Accademie nel sistema universitario e su questa questione ho avuto le delusioni più cocenti. Ho sempre pensato 11
che la dimensione dell’arte dovesse svolgersi non solo nel contesto del suo mondo, del suo cosiddetto sistema ma, soprattutto in quell0 istituzionale, pubblico. Insieme a dei colleghi, ne cito solo alcuni, Vincenzo Ferrari, Alberto Garutti, Carlo Tognolina, Vito Bucciarelli, avviammo un’esperienza singolare, quella di un Dipartimento di ricerca internazionale sull’arte che poi divenne Centro di Ricerca di Brera (CRAB) che ho guidato fino a oggi e che doveva essere finalizzato alla creazione di un dottorato di ricerca sulle arti visive. Purtroppo l’incapacità culturale a comprendere la dimensione di una didattica adeguata alla realtà del contemporaneo e di una formazione dell’arte all’interno del sistema universitario da parte di molti dei Ministri che si sono succeduti al Miur, e purtroppo anche di molti miei colleghi, hanno fatto fallire tale progetto. Molti artisti che ho ammirato dal punto di vista del loro lavoro mi hanno deluso sul piano umano, penso a Kiefer. Altri con cui ho allacciato ottimi rapporti di amicizia e reciproca stima come Tremlett. L. Carroll, Ilya Kabakov mi hanno invece molto confortato e stimolato. La mia nuova fuga e avventura artistica e poetica nasce dalle ceneri precedenti e da ciò che è ancora rimasto. Ho sempre pensato che l’artista, oltre ad essere un ricercatore instancabile, fosse chiamato a una specie di responsabilità rispetto all’opera e agli altri, a chi la guarda, la fruisce, la interroga. Responsabilità etica rispetto alla verità, al pianeta, all’immagine e alle sue derive. Penso che oggi l’artista debba sempre di più operare e progettare insieme con altri a più livelli, da una parte gli aspetti multidimensionali dell’arte e dall’altra quelli ontologici dell’opera per una nuova sensibilità estetica ed etica. Questa sensibilità ancora una volta non può che fondarsi a partire dalla pittura e dal suo corpo storico. ADESSO SI MOSTRA, 2011. Pittura ad olio e pastello su tela, 120x180 cm. Courtesy dell’artista.
SHOWCASE
HERNÀN CHAVAR | a cura di Pasquale De Sensi
di Giovanni Matteo
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e si perdono. Diventano spiriti, mostri, demoni senza patria e senza storia. Diventano fantasmi di carta ed inchiostro, abitatori di una dimensione a parte, specchi ridotti in frantumi in cui gli archetipi danzano senza trovare un luogo definito dal quale costituire degli affidabili punti di riferimento. Per essere accolti nelle carte di Hernàn Chavar, i soggetti devono subire una trasfigurazione, oltrepassare un confine. Topi ed uccelli stecchiti come soglie incontrate per caso, tra la pretesa normalità della vita e l’insondabilità della morte, silenziosi testimoni del passaggio tra il consueto e l’ignoto. Piume e pelliccia dettagliatamente riportati nella loro terrena bellezza, spogliati della loro funzione originaria, così come avviene nella trasposizione della natura nell’opera d’arte. Da una bellezza accidentale, fatta di aspetti legati alle necessità dell’animale di muoversi, nutrirsi, accoppiarsi, difendersi a quella fine a se stessa del disegno. Negli ultimi lavori l’artista compie un passo ulteriore: le cose che ritrae non hanno effettuato un passaggio tramite il rito magico – religioso o attraverso la morte. Sono nate dall’altra parte, al di là della soglia del quotidiano. Piccoli mostri di pongo che Chavar plasma in preda a raptus degni dell’incontrollabile creatività dell’infanzia vengono trasposti sulla carta con un’attenzione ed una cura dei dettagli che fanno pensare alle incursioni grafiche di Dürer o Leonardo nel mondo animale e vegetale.
e provate a chiedere ad un artista quale sia il messaggio sotteso alle sue opere, quale filo concettuale le leghi o come scelga i suoi soggetti, avrete al novanta per cento una reazione irritata o annoiata. Nel novantanove per cento di questo novanta l’artista sta semplicemente interpretando il suo personaggio, l’intellettuale complicato o il selvaggio istintivo e sanguigno e, a distanza di pochi secondi dalla manifestazione di disappunto, il suo ego emergerà e sarete sommersi da un surplus di informazioni sul suo processo creativo, il suo background culturale, i suoi traumi infantili e le sue caramelle per la gola preferite. Hernàn Chavar appartiene a quell’uno per cento del suddetto novanta: lui si secca seriamente, se gli fate questo genere di domande. E se alla fine vi risponde è solo perché è fondamentalmente una persona gentile. Spiriti, demoni, mostri. Quando il nonno vi raccontava la storia del Babau o di Naso d’Argento eravate anche solo lontanamente sfiorati dall’idea di analizzare, sviscerare, scomporre? La narrazione vi avvolgeva, e quelle creature inquietanti vi si dipingevano nella mente, pennellata per pennellata, e vi incantavano. Chavar sa che è questo l’effetto che fa trovarsi davanti alle creature che evoca. E lo infastidisce pensare che qualcuno stia sprecando quell’incanto, che gli è costato tanta gioiosa fatica. Chavar conduce sulla carta, di segno in segno, sciamani siberiani, danzatori africani, stregoni aborigeni. Dove i volti non sono occultati da maschere rituali, ne omette il capo. Fregi, decorazioni, stoffe e frange colorate ne annullano l’umanità e, nell’uniformarsi nel peculiare linguaggio grafico dell’artista, le loro connotazioni etniche, geografiche, culturali si confondono
Da sinistra: SPIRITO, 2012. Tecnica mista, 35x50 cm. SPIRITO CON FELPA ROSA, 2012. Tecnica mista, 35x50 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.
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PROTAGONISTI
LO SPIRITO ITALIANO Eugenio Borroni
- Loredana Barillaro
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n occasione della quinta edizione di Arte Accessibile Milano abbiamo intervistato Eugenio Borroni, ideatore del progetto Spirito Italiano, che si pone come nuovo modo di concepire la giovane arte all’interno di un sistema in cui ritrovare valori e abitudini quali trasparenza e correttezza, nel tentativo di indicare una nuova possibile strada.
Loredana Barillaro/ Il progetto Spirito Italiano si apre in maniera molto forte, dicendo e additando senza peli sulla lingua… È il sintomo che qualcosa nel sistema dell’arte in Italia non funziona? Eugenio Borroni/ Non solo il sintomo, ma la constatazione che il sistema dell’arte italiano va profondamente rinnovato nei suoi fondamentali, partendo dalla correttezza dei comportamenti e dalla qualità della scelta artistica, con una nuova e più alta attenzione per la giovane arte italiana nel suo complesso, e non per singoli “fenomeni”. LB/ Sembra proprio che si sia oltrepassato un limite e Spirito Italiano pare dunque voler rappresentare un nuovo “format” in cui tutto è chiaro è trasparente… EB/ Spirito Italiano si basa su due pilastri fondamentali: come dicevo, la qualità della scelta artistica e curatoriale, e la trasparenza dei rapporti fra i vari interlocutori (galleristi, artisti, collezionisti, fiere e mercati, musei e fondazioni). Il progetto esecutivo è
in atto da dicembre 2012 e per tutto il 2013, con una serie di Atti (mostre tripersonali) e con una forte iniziativa di comunicazione e di ricerca di collaborazione per ampliare il progetto e portare la novità ovunque sia possibile.
un apparato di esposizioni e fiere frenato e controllato da pochi… Lei pensa dunque ci sia una comunanza di intenti fra la filosofia del suo progetto e la tendenza all’“accessibilità” della kermesse a cui prendete parte anche in questa quinta edizione?
LB/ Il panorama italiano sembra trovarsi in stallo e il suo impegno appare per molti giovani artisti come una boccata d’ossigeno laddove tutto è bloccato. Spirito Italiano appare quindi la manifestazione più tipica della filosofia di Fabbrica Borroni, e l’onestà nei rapporti ne è un segno distintivo molto forte…
EB/ Non solo Arte Accessibile Milano, ma anche Affordable e Step09 sono da considerare seri tentativi di portare una ventata d’aria - e gente - fresca nell’ingessato mondo delle fiere italiane. Cosa che chiaramente non accade all’estero, dove sono avanti sia nel metodo che nella pratica, e i risultati si vedono.
EB/ Oltre ai due pilastri fondamentali, non bisogna dimenticare che Fabbrica Borroni ed Eugenio Borroni come collezionista sono realtà conosciute e ben radicate sul territorio, perciò agiscono in base a concreta esperienza e a dimostrata capacità di comprensione e di scelta nel campo della giovane arte.
Dall’alto a sinistra in senso orario: Guido Airoldi, SILENZIO MANIFESTO, 2013. Stampa fotografica su manifesto, 70x100 cm. Marta Fumagalli, GRAVIDA, 2012. Paraffina, 34x24 cm. Simone Durante, INDIA RAJASTHAN #0016, 2009. Stampa su metacrilato (PMMA) trasparente colato, 40x26 cm. Per tutte courtesy Fabbrica Borroni.
LB/ Per chiudere, AAM e Spirito Italiano sono esempi di accessibilità e ribellione ad 13
SMALL TALK
UNA PROBABILE ALTRA ESTETICA Francesco Petrone
Loredana Barillaro/ Francesco, come definisci i tuoi lavori, delle sculture? Francesco Petrone/ Direi installazioni scultoree. Hanno un processo tecnico tipico della scultura e una natura estetica ed espositiva dell’installazione. LB/ Un universo abitato da insetti, molluschi, roditori - accompagnato da titoli dall’aspetto ludico - sembra in realtà un mondo al limite del collasso … FP/ L’immaginario che condivido è assolutamente grottesco e cinico, calca modi e costumi estremamente italiani, sebbene ci sia una componente fortemente occidentale in genere, e raffigura al limite del reale un mondo invaso letteralmente dal cemento, in senso stretto, e l’ossessione economica e consumistica in generale. Il “bug italiano” è inteso come “errore” che gioca con la parola insetto. Nella mia visione l’uomo è identificato in un insetto, perché ne calca i modi, raggruppandosi in comunità stereotipate, prive di autonomia reale. Autore in un’apocalisse economica e industriale. I
- Loredana Barillaro
titoli ironici e talvolta cinici, tratti da uno slang tipicamente italiano, fanno parte integrante dei lavori, senza i quali le opere dall’aspetto crudo e arido dei materiali usati, perderebbero di leggerezza e forza comunicativa. LB/ Qual è lo stato d’animo quando realizzi i tuoi lavori, e quale pensi debba essere l’impatto su chi osserva? FP/ Sono mosso da un’urgenza morale e sociale. Cose di cui mi occupo anche nella vita quotidiana, cose che abitano la vita quotidiana di chiunque, sebbene assuefatti da “pieni” e colori che drogano letteralmente l’oggettività. Estremizzo l’estetica sebbene la viva, paradossalmente, con lo sguardo infantile: gioco con le forme, modello con estrema serenità, tanto quanto sperimento, da sempre, materiali nuovi o raramente usati nella scultura. Approfitto di una necessità, quella sociale e comunicativa, per assecondarne un’altra, il gioco. Mi diverto. Mi piace pensare in modo romantico, ad una maniera ottocentesca di contemporaneità, in cui una forma, 14
un’immagine possano essere un taglio sottile e profondo nelle abitudini di chi osserva, una scossa seppur breve, nel’immaginario e nell’intimo dello spettatore, anche quello meno esperto. L’arte, secondo me, è sempre lo specchio di una società, perché ne è parte integrante. Per questo non condivido il puro estetismo e l’arte ermetica, credo piuttosto che l’arte abbia un compito comunicativo che non può prescindere dall’estetica. Il compromesso a cui ambisco è racchiuso in tre direzioni parallele: la curiosità dell’immagine “scultura”, il sorriso che deriva dalla lettura del titolo, fino ad arrivare alla domanda, più personale ed individuale, che ognuno matura con tempi differenti, davanti ad una mia installazione o scultura. Se a distanza di ore o di giorni, incuriosito, torna ad immaginarla, ha funzionato. LUMACA DA CANTIERE, 2012. Laterizi e gesso, 55x35x35 cm. Courtesy dell’artista
SMALL TALK
L’AUTENTICITÀ DEI LUOGHI VISSUTI Arianna Angeloni
- Teodora Malavenda
Teodora Malavenda/ Arianna, che studi hai fatto? Arianna Angeloni/ Mi sono diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove ho frequentato i corsi di Storia del Cinema tenuti da Francesco Ballo e di Fotografia tenuti da Ken Damy. Terminata l’Accademia ho seguito da vicino le lezioni di Maurizio Montagna allo Spazio Forma e poi un Workshop sul multimedia story telling in Calabria, con Filippo Romano. TM/ Quando hai pensato per la prima volta che avresti fatto la fotografa? AA/ Ci ho pensato a 17 anni mentre frequentavo il Liceo artistico Callisto Piazza, nella città in cui ho sempre vissuto, Lodi. Avevamo a disposizione una camera oscura piccola e meravigliosa in cui passavo molto tempo. Ho un ricordo nitido e sereno di quel periodo. TM/ I nomi di tre fotografi. AA/ Alice Caputo, Camilla Pongiglione, Arianna Arcara. TM/ Lo scorso luglio sei stata in Brasile, dove hai realizzato Some days in Muanà. Di che si tratta? AA/ Sono stata in Marajó, un’enorme isola fluviale situata nella foce del Rio delle Amazzoni, nel nord del Brasile, per conto di un’Associazione di volontariato che si occupa di adozioni a distanza: è stata un’esperienza imprevedibile e straordinaria. Il progetto è nato proprio durante il mio soggiorno a Muanà, una cittadina sulla costa meridionale dell’isola. Aver vissuto a stretto contatto con gli abitanti, giorno per giorno, mi ha permesso di coglierne gli aspetti più peculiari, come la profonda cripticità caratteriale tipica di chi vive nelle foreste dell’Amazzonia. Il lavoro è nato dalla forte incomunicabilità iniziale che mi ha permesso di cogliere le preziose sfaccettature di questo luogo e dei suoi abitanti. TM/ Per il futuro cosa ci riservi? AA/ Attualmente mi sto dedicando ad alcuni progetti fotografici ongoing, concentrandomi soprattutto sullo studio del territorio in cui vivo e indagando in particolar modo la sua relazione - sottile ed intima - con l’universo femminile. Proprio per questo mi interessa molto la riflessione sul ritratto, sempre in stretta relazione con l’autenticità dei luoghi vissuti. Dall’alto: FROM PORTRAITS AND PLACES, 2012. FROM SOME DAYS IN MUANÀ, 2012. FROM SARA, 2012. Per tutte courtesy dell’artista.
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PROGETTO ARTI VISIVE PIER PAOLO NUDI NUNZIA RUFFOLO ASSUNTA MOLLO ILARIA MONTENEGRO