ISSN 2283-9771
Magazine di arte contemporanea / Anno V N. 18 / Trimestrale free press
SMALL ZINE APRILE MAGGIO GIUGNO 2016
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SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea
OMMARIO
TALENT TALENT 3
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FORZE INTERIORI, REAZIONI ESTERIORI Elena Debiasio - Davide Silvioli SEGUENDO CERTE ROTTE IN DIAGONALE Marco Strappato - Gregorio Raspa INASPETTATE FRAGILITÀ Caterina Morigi - Loredana Barillaro
INTERVIEWS 6
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OLTRE LE FORME VUOTE Luigi Massari - Gregorio Raspa IGNARE AZIONI NELLO SPAZIO Annalisa Zegna - Loredana Barillaro
SPECIAL 10
VOLTI E FORME DELLA VIDEOARTE con Giampaolo Penco, Matilde De Feo, Mandra Stella Cerrone, {movimentomilc}, Cosimo Terlizzi, Antonio Romano, Corrada Di Pasquale - Loredana Barillaro
PEOPLE ART 14
LA RIVOLUZIONE DELLE PICCOLE COSE Karin Reisovà
SHOWCASE 16
DARIO CARRATTA con un testo di Manuel Carrera a cura di Pasquale De Sensi
GLOBETROTTER 17
Direttore Responsabile Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Stampa: Gescom s.p.a. Viterbo Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Contatti e info 3393000574 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Valentina Tebala, Gregorio Raspa, Davide Silvioli, Pasquale De Sensi © 2016 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.
RIVER OF FUNDAMENT Il film capolavoro di Matthew Barney - Valentina Tebala
Progetto ART CONTEST 18
Stefano Cescon
In copertina Caterina Morigi, ALLʼETERNAR LE OPERE, Venezia, 2015-2016, installazione (part.). Courtesy dell’artista.
TALENT TALENT
FORZE INTERIORI, REAZIONI ESTERIORI Elena Debiasio
- Davide Silvioli
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quegli evanescenti riflessi luminosi di cui, in base allʼincidenza della luce sulla superficie, i suoi sfondi neri sono dispensatori e i sottili, quasi invisibili, coaguli di pigmento parcellizzato ravvisabili su quelli bianchi. Tali elementi minimali dellʼoperare artistico e della visione, quali possono essere considerati gli atomi cromatici di Debiasio, come seguendo un respiro universale, si addensano e smaterializzano, combinandosi, ininterrottamente, in diagrammi e partiture lineari orizzontali o verticali. Tale aspetto introduce, consequenzialmente, la concezione sensibile dello spazio pittorico riscontrabile in realizzazioni della fattispecie, dove, in un movimento infinitesimale e senza sosta, fluttuazioni di pulviscolari tracce cromatiche si avvicendano assecondando allineamenti simili a costellazioni da cui ci sentiamo inspiegabilmente attratti ma, al contempo, ontologicamente estranei. La prassi di allargare i confini e le capacità della pittura allʼinstallazione e a interventi di carattere spaziale o ambientale, è risolta dallʼartista – la quale nel 2013 ha presentato lʼinstallazione percorribile NellʼAggregazione – con la progettazione di dittici, trittici e polittici ottenuti non mediante lʼaffiancamento di due o più tele, bensì attraverso una procedura di pluralizzazione interna al perimetro di un solo quadro, consistente nel lasciare incontaminata o grezza una sezione di tela in modo da farla funzionare da striscia divisoria, oppure, in maniera altrettanto originale, facendo dialogare le diverse componenti dellʼinsieme con le articolazioni architettoniche di interni.
ʼopera di Elena Debiasio ci presenta unʼartista dalla grande sensibilità esecutiva e dal percorso decisamente personale, tale da condurla, nel 2005, ad approfondire la gestualità studiando con lʼartista e Maestra di calligrafia orientale Paola Billi, nel 2007 a esporre fra i finalisti del premio di pittura contemporanea “Profilo dʼArte” e successivamente a proseguire unʼintensa attività espositiva, accompagnata da una continua evoluzione del suo stile. La sua pittura appare intrisa di concetti filosofici e fisici, portandoci ora ad istituire un legame intellettuale con lʼatomismo di Democrito, la metafisica di Whitehead e la filosofia dello spazio-tempo di Capek, ora a effettuare un parallelismo con la fisica moderna di Stapp e Whipple. Osservando le sue Aggregazioni, serie di lavori che lʼartista ha iniziato nel 2006, ma di cui si possono già notare alcuni spunti nel precedente ciclo Gesti di luce, si noti come ella si muova in direzione di una ricerca dʼessenzialità espressiva ma, allo stesso tempo, di grande profondità comunicativa e semantica, denotabile da una bicromia che sottolinea i rapporti dʼinterazione fra le componenti artistiche. Si tratta di tele dallo sfondo di un solo colore, nero per il periodo iniziale, bianco dal 2011 in poi, teatro del dispiegamento di incalcolabili moltitudini di pulviscolari particelle cromatiche che, come in un ideale evento poietico, nelle prime si ammassano, si modellano e si intensificano fino ad uniformarsi, nelle seconde, invece, ogni unità partecipa sì ad un più ampio disegno comune, ma mantenendo inalterata la propria autonomia semiotica. Il supporto si configura come area originaria degli accadimenti creativi ed estetici, uno spazio vuoto percepibile come gravido di energie magnetiche e immateriali. Difatti la lettura di queste opere deve essere lenta, attenta e graduale, in corrispondenza con i momenti genealogici della pittura stessa, al fine di cogliere
AGGREGAZIONI, 2009. Installazione assemblaggio di tre dittici, pigmenti su tela, 200x364 cm. Galleria Libia, Pontedera (Pi). Courtesy dellʼartista.
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TALENT TALENT
SEGUENDO CERTE ROTTE IN DIAGONALE Marco Strappato
- Gregorio Raspa
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succede nella serie FakeLake o Not yet titled). In queste opere il paesaggio esposto dilata - anche solo idealmente - i confini della sua rappresentazione assumendo una posa tridimensionale appositamente studiata per invadere lo spazio del reale. In altri casi, invece, Strappato pone le sue immagini in stretta relazione con dispositivi e strumenti tecnologici - monitor, tablet, cavi, proiettori e computer - che non solo permettono il compimento dellʼopera per mezzo della loro funzionalità, ma completano la stessa ostentando improvvisa dignità estetica ed artistica. Ciò è particolarmente evidente in lavori come Untitled (Ground) o X,Y,Z - dove un iPad e un MacBook Pro caratterizzano fortemente lʼidentità dellʼopera - o, in maniera ancora più incisiva, nella meta-scultura Laocoön composta da due bracci meccanici, originariamente pensati per sostenere dei monitor, trasformati in misteriosi elementi post-duchampiani suggeritori di una rappresentazione possibile o irrimediabilmente mancata, di una visione aperta e in cerca di direzione. Un simile approccio, basato sulla manipolazione formale e simbolica di iconografie esauste, valorizza il potenziale paradigmatico delle immagini e conduce lʼartista alla creazione di un universo recettivo e aperto alla contaminazione. Non a caso Strappato riversa nei suoi lavori tanto la cosmogonia visionaria di Battiato quanto lo spericolato approccio documentaristico di Herzog; cita lʼesperienza artistica di Klein e lʼeterna, eroica giovinezza di Pascali. Perché lʼopera di Strappato non rispecchia mai un solo tema o un singolo soggetto, ma ricerca la sintesi dei linguaggi nel potere della visione riconoscendo nellʼimmagine quel luogo in cui precipita il senso.
ʼopera di Marco Strappato evoca mondi lontani e distrattamente utopici in cui lʼimmagine mette in discussione il suo statuto sino ad assumere lʼessenza aurorale di un tutto, evanescente e fuggevole, in continua caduta sullo sguardo contemporaneo. La produzione artistica di Strappato - specie la più recente - indaga infatti sui tradizionali meccanismi di lettura che interessano specifiche rappresentazioni visive esasperando agli occhi dello spettatore le dicotomie percettive noto/ignoto, reale/immaginato, astratto/figurativo generalmente abbinate al processo di decodifica figurale. Per fare ciò Strappato ricorre prevalentemente allʼimmagine del paesaggio - soggetto centrale della sua poetica - sfruttando di questʼultima lʼambiguità tipica della sua riproduzione. Una tale ricerca pone in evidenza un mondo in cui la comprensione avviene attraverso processi di stratificazione progressiva e il confine fra unʼimmagine autentica ed una artificiale - costruita ex novo o appositamente modificata - diventa sempre più labile. Ricorrendo ad una sorta di metafisica post-web, in cui il paesaggio - evocato, rubato o immaginato - diventa foglio di scrittura, deposito di desideri ed esotiche fantasie dʼevasione, Strappato propone una ricerca basata sulla ri-rappresentazione della realtà effettuata per mezzo di sottilissimi slittamenti iconografici. Per realizzare la sua opera egli ricorre ad un linguaggio multimediale e densamente strutturato che sfrutta il collage, la fotografia, il video e lʼinstallazione manipolando immagini prelevate da fonti eterogenee (web, riviste, reperti dʼarchivio o materiale inedito) e successivamente riposizionate in originali dispositivi di senso dallʼidentità vergine e mesmerizzante. In alcuni casi le immagini - soprattutto fotografiche - vengono installate allʼinterno di complesse strutture dotate di unʼestetica potenzialmente scultorea (come
UNTITLED (GROUND), 2015. Concrete, Portoro marble 10cm Ø, iPad (video in loop), size varible. Courtesy dellʼartista.
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TALENT TALENT
INASPETTATE FRAGILITÀ Caterina Morigi
- Loredana Barillaro
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Per entrambe: ALLʼETERNAR LE OPERE, Venezia, 2015-2016. Installazione: pietre della città di Venezia, light box, stampa a getto dʼinchiostro, mensola in plexiglass, inchiostri. Courtesy dellʼartista.
a sempre siamo portati a pensare che la fragilità e la caducità delle membra appartengano solo agli esseri viventi. Caterina Morigi con il suo lavoro sembra voler dimostrare il contrario e cioè che la ferita di un corpo, la sua cicatrizzazione, il fluire da esso del suo liquido vitale, il sangue, non appartengano solo a chi respira, si muove, si nutre; ma ciò che pare dato per l’eternità ha insita, in fondo, la stessa fragilità. Il tempo e lo spazio non agiscono sempre e ovunque allo stesso modo e lo studio che compie l’artista ne sottolinea i meccanismi: All’eternar le opere è un lavoro trasversale poiché si avvale della collaborazione di altre figure professionali per meglio comprendere la consistenza e la durata dei marmi veneziani. Si pensa che la roccia, il marmo siano eterni e che, per loro natura, non vengano incisi dallʼazione del tempo, ma a Venezia questo meccanismo di “durata” subisce un’evoluzione, una sorta di accelerazione, un fondamentale cambiamento; sono i marmi delle facciate dei palazzi veneziani infatti l’oggetto dell’approccio di lavoro di Caterina Morigi. Ella ne studia la natura più intima mettendo in risalto quello che sembra naturale definire come una “geografia della materia” evidenziando il “sistema linfatico” dei rivestimenti lapidei, consumati e levigati dal microclima della laguna. L’acqua salmastra accelera infatti notevolmente il fenomeno di corrosione e deterioramento della pietra, seppur in modo impercettibile, ed è lʼazione dell’artista a farci notare come ciò avvenga, instillando degli inchiostri molto diluiti dentro le crepe, e quello che risulta dal suo assorbimento è una superficie frammentata, erosa. È un fare incessante quello che viene registrato, una sorta di radiografia che riesce a mostrarci la natura della pietra dal suo interno senza intaccarne artificialmente la struttura. Questo lavoro mette in risalto non solo un inaspettato luogo della materia dunque ma, ancora una volta, la relatività del tempo in relazione allo spazio. All’interno della pietra è un sommovimento che avviene, è un dilatarsi e un respirare come un polmone che assimila e al contempo rigetta ciò che vi giunge dall’esterno, strati, substrati, zone d’ombra, è letteralmente un insolito paesaggio quello che evolve dall’analisi dell’artista, un paesaggio che – comprendiamo – non è mai dato per scontato e per sempre. Un lavoro realizzato letteralmente per frammenti, a raccontare l’insieme di una storia millenaria, quella della città di Venezia.
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INTERVIEWS
OLTRE LE FORME VUOTE Luigi Massari
- Gregorio Raspa
della creazione artistica, sia quella più genericamente riconducibile ad una sfera di valori storici/filosofici condivisi dalla nostra civiltà. Mi puoi dire qualcosa di più su questo tuo approccio metodologico?
“L
a montagna è simbolo di un centro spirituale... Poiché essa è visibile in lontananza da ogni luogo corrisponde metaforicamente al periodo originario dell’umanità, in cui la verità era potenzialmente accessibile a tutti.”
LM/ È un approccio che nasce dalla consapevolezza della crisi del sistema culturale e di valori della società contemporanea. Il recupero delle origini e la mediazione con la tradizione sono modalità di resistenza ai processi di dissoluzione delle nostre identità. Quella che molti percepiscono come realtà è di fatto un’illusione costantemente imposta da un sistema di potere che tende a sovrapporsi alla realtà autentica in cui viviamo, fatta di territori, tradizioni, individui, culture. È importante intendersi sul significato da attribuire alla parola tradizione. Per me si tratta di qualcosa di più vitale della contemporaneità, perché senza tempo e quindi non negoziabile. Il mio approccio metodologico consiste nel disfare tutte le sovrastrutture per giungere a intravedere un bagliore oltre le forme vuote, in un campo sgombrato dai detriti. Restare in piedi in posizione antitetica tra le rovine, anche quando esse appaiono seducenti.
Gregorio Raspa/ Il tuo lavoro trae nutrimento da un repertorio colto che ricorre tanto alla citazione linguistica quanto alla manipolazione di strutture teoriche preesistenti. Quali sono, a tal proposito, le tue fonti dʼispirazione? Quali i riferimenti culturali a te più cari? Luigi Massari/ Tutto è nel Mythos, inteso come lingua originaria, in opposizione al Logos. In questa opposizione il Mythos corrisponde al pensiero magico/mitico, basato sul predominio delle immagini, sullʼautorità della tradizione, su princìpi condivisi naturalmente, mentre il Logos corrisponde ad un pensiero razionale, critico e materialista. In qualsiasi ambito culturale, filosofico o religioso io intraveda il prevalere del pensiero mitico, lì sono le mie fonti di ispirazione. Partendo dalla lettura delle Apocalissi Gnostiche, procedendo attraverso la poesia di Thomas Eliot, fino ai Canti Pisani di Ezra Pound e agli scritti di René Guénon e di Julius Evola.
GR/ Pittura, scultura, performance, lavori installativi e musica sperimentale. Nel tuo fare artistico ricorri ad un approccio multimediale che privilegia la sinestesia e lʼattraversamento dei generi. Quanto è difficile, al cospetto di una ricerca così ampia, creare un “segno” personale dotato di riconoscibilità e caratterizzazione? LM/ In realtà non è difficile: basta non voler generare razionalmente un’impronta riconoscibile, ma lasciarsi attraversare da forze mirate. Essere un tramite e non un artefice.
GR/ In tutta la tua opera appare forte la volontà di trovare un punto di unione tra contemporaneità e tradizione - intendendo con questʼultima sia quella più strettamente legata allʼoperatività 6
GR/ Tra gli strani strumenti musicali che spesso popolano le tue opere, e le azioni performative che le completano, mi interessava capire come la ricerca musicale si innesta nella tua più ampia produzione legata alle arti visive. Trovo stimolanti e singolari gli accostamenti che proponi e vorrei coglierne il meccanismo di costruzione...
sembra compendiare gli elementi principali della tua ricerca rappresentandoli in maniera esemplare. Mi parli di questo lavoro? LM/ Assiale è un’installazione ambientale che muta forma e dimensioni in base allo spazio che la accoglie. La struttura replica un ambiente abitabile o un tavolo da lavoro e accoglie al suo interno un dipinto e alcune sculture in argilla legate tra loro da velati rapporti di equilibrio. L’opera si ispira agli scritti di Guénon sui significati simbolici celati nelle forme architettoniche, in particolare ad elementi archetipici come la pietra angolare, e si basa su una lettura critica dell’organizzazione razionale dello spazio. Ne ho realizzato una prima versione in occasione del progetto di residenza di Simbolismo Costruttivo per Progetto Città Ideale, presso la Fabbrica del Vapore a Milano lo scorso luglio.
LM/ Il suono costituisce per me una modalità primeva di dire il mondo e riorganizzarne le forme. È in costante rapporto dialogico con le immagini, le installazioni e le performance concepite e concorre alla formazione di una mitografia contemporanea, una riscrittura del presente in forma di epica degradata. I meccanismi di costruzione di questi accostamenti si basano sulla capacità di attivare uno stato di concentrazione simile ad un rito mentale di evocazione. A quel punto si tratta solo di aggregare le immagini e i suoni percepiti ai margini del caos in configurazioni coerenti.
GR/ In questo momento stai lavorando a qualche progetto in particolare? Me ne vuoi parlare?
GR/ Nellʼampio repertorio simbolico che caratterizza la tua ricerca - soprattutto pittorica e scultorea - ricorre con frequenza lʼicona della “montagna”. Quale valore attribuisci a tale elemento?
LM/ Sto lavorando ad una pubblicazione che raccoglierà la documentazione relativa alle performance del progetto Terzo Fuoco (http://terzofuoco.tumblr.com/) accanto ai testi dei brani musicali composti. Inoltre assieme a Luigi Presicce e Matteo Fato, sotto la guida di Lorenzo Madaro, stiamo concependo una mostra che dovrebbe vedere la luce quest’estate in uno spazio pubblico in Puglia.
LM/ La montagna è simbolo di un centro spirituale, come tutti i simboli assiali, ma presenta un carattere primordiale. Poiché essa è visibile in lontananza da ogni luogo corrisponde metaforicamente al periodo originario dell’umanità, in cui la verità era potenzialmente accessibile a tutti. Per le sue proprietà formali, connette l’elemento terreno con quello celeste attraverso il suo vertice.
Da sinistra: BORDER BALLADS, 2015, stampa inkjet su carta cotone, 28x18 cm. MONTE DELTA, 2015, stampa inkjet su carta cotone, 30x22 cm. Per entrambe courtesy dellʼartista.
GR/ Lʼimmagine della montagna è assolutamente centrale anche nella tua installazione Assiale che, a mio parere, rappresenta unʼopera centrale della tua produzione. Essa, infatti,
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INTERVIEWS
IGNARE AZIONI NELLO SPAZIO Annalisa Zegna
Loredana Barillaro/ Annalisa, a Venezia mi hai mostrato un modo singolare di indagare la pittura, partendo da un lavoro di allontanamento da certi canoni e facendo tuo un approccio inconsueto al colore, me ne parli? Annalisa Zegna/ Dopo anni di studio sul disegno e sulla pittura, ho sentito l’esigenza di confrontarmi con altri linguaggi che rispecchiassero meglio la mia attitudine e mi permettessero di sviluppare la mia ricerca in modo più ampio. Ho iniziato a sperimentare con la fotografia e il video, l’installazione e la performance. Ho mantenuto però sempre un’attenzione pittorica all’interno dei vari progetti su cui lavoro. Per esempio, come hai visto nel lavoro Studio per un paesaggio, ho indagato un paesaggio possibile di Venezia, città in cui sono stata tre anni, con strumenti pittorici non tradizionali: si tratta di una raccolta di fogli acchiappacolore utilizzati nei lavaggi in lavatrice effettuati nella casa in cui ho vissuto. Ho scelto un metodo basato su un’attività quotidiana legata ai tessuti che utilizziamo, prelevando il colore che casualmente si perde ad ogni lavaggio. Mi interessava lavorare e porre l’attenzione sul residuo e la perdita
- Loredana Barillaro
di saturazione dovuta allo scorrere del tempo, ma anche sulle complesse dinamiche sociali ed economiche legate al commercio, che mettono in relazione zone geografiche e ambienti molto distanti fra loro: i pigmenti utilizzati sono quelli del processo di tintura che avviene spesso in paesi più poveri, essendo la produzione del tessuto dislocata in varie regioni del mondo. Inoltre, essendo realizzato grazie al contributo delle persone con cui ho vissuto in questi anni, il lavoro riflette sui legami che si instaurano in una convivenza: sempre più spesso persone provenienti da contesti diversi studenti, lavoratori, migranti - si trovano a convivere per periodi più o meno lunghi in uno spazio. I colori archiviati nel lavoro sono tonalità che creano una sorta di paesaggio cromatico “collettivo”, risultante dall’amalgama dei vestiti indossati da me e dai miei coinquilini. Un altro mio lavoro, Monocromo, consiste in una distesa di polvere di gesso bianco sul pavimento. Anche in questo caso non è il gesto della mia mano a dipingere, ma le persone che attraversano lo spazio espositivo. Si tratta di una pittura effimera e transitoria, che riflette sui movimenti spesso inconsapevoli del corpo nello spazio.
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LB/ Un fattore caratterizzante il tuo lavoro è il rapporto con il pubblico, il suo fondamentale coinvolgimento nella realizzazione dei tuoi progetti, la tua potrebbe definirsi “arte relazionale”? AZ/ Quello relazionale è un aspetto centrale nella mia pratica. Mi interessa l’esperienza diretta del pubblico e, nel processo di creazione, mi confronto molto con il punto di vista di chi vedrà o assisterà all’opera. Come in Anche le belve nella foresta hanno una tana, dove l’installazione è progettata secondo il percorso fisico di fruizione, di avvicinamento e graduale scoperta dell’immagine. Altre volte ho lavorato direttamente nello spazio pubblico: a Venezia per esempio ho organizzato un workshop, in cui le persone - tra cui molti bambini - erano invitate a immaginare un giardino che avrebbero voluto e a crearlo, disegnandolo con i gessetti colorati sul pavimento di un cortile pubblico. In questo modo mi interessava confrontarmi con il desiderio e l’immaginazione - ma anche le necessità delle persone, ed entrare in relazione con loro attraverso il disegno. Oppure il progetto Pozzi Sonori, che porto avanti dal 2013, in cui organizzo degli
eventi performativi in collaborazzione con musicisti, riattivando temporaneamente dei pozzi presenti nella città di Venezia, inutilizzati dal momento della costruzione dell’acquedotto di fine Ottocento. Si tratta di un momento di riattivazione della piazza come luogo di condivisione, dove in questo caso non è più la necessità dell’acqua potabile a riunire le persone - come nel passato - ma una fruizione collettiva sonora. In questo contesto ho invitato diversi musicisti a utilizzare il pozzo come cassa di risonanza, strumento “musicale” da attivare con una performance dal vivo o con un’installazione temporanea. La partecipazione e la presenza delle
persone mettono in pratica una modalità di vivere lo spazio pubblico diversa da quella abituale. LB/ Sembra in fondo che il lavoro dell’artista stia perdendo quel carattere di solitudine che nell’immaginario collettivo lo contraddistingue, mentre egli diventa sempre di più una sorta di “coordinatore”, forse un regista, uno strumento di raccolta delle “informazioni”, è così? AZ/ Sono modalità diverse di attività, dove la figura dell’artista non agisce in modo autonomo, ma si situa in un contesto molto spesso “esterno” alla dimensione specificatamente artistica. 9
Mi interessa molto confrontarmi con la situazione sociale in cui vivo, che mi richiede spesso “adattamento” ma allo stesso tempo anche una riflessione critica, personale, propositiva. L’artista ha una responsabilità nei confronti del mondo - a mio parere - sia che scelga di agire in studio sia che scelga strumenti più partecipativi. Non credo sia questione di rifiutare la solitudine, piuttosto di immettere una dimensione collettiva nel processo di creazione o realizzazione. Lavoro spesso con altri artisti e musicisti, per creare situazioni di dialogo e confronto attraverso la pratica. È estremamente fertile collaborare con persone che si occupano di altre discipline: si possono affrontare le problematiche attraverso punti di vista e strumenti differenti di ricerca ed espressione. Inoltre è un modo per mettere in discussione la figura dell’autore, o almeno di renderla più complessa, plurale e condivisa.
Da sinistra in senso antiorario: MONOCROMO, 2014. Installazione site specific, gesso in polvere. STUDIO PER UN PAESAGGIO, 2015. Fogli acchiappacolore. POZZI SONORI, 2015. Campo del Ghetto Nuovo, Venezia, performance sonora con Roberto Paci Dalò e Moulaye Niang. © Nina Harrasser. Per tutte courtesy dellʼartista.
SPECIAL
VOLTI E FORME DELLA VIDEOARTE
L
a videoarte assume ogni giorno volti e forme diverse, dal documentario, alla narrazione filmica di una performance, alla pura registrazione di un certo ambiente. Un genere che si evolve e muta in virtù del progredire delle tecnologie, oppure affacciandosi ad un passato recente - riscopre strumenti altrimenti considerati obsoleti, e che possono fornire, invece,
Loredana Barillaro rinnovate esperienze nella realizzazione filmica. Ciò che emerge dalla lettura dei contributi ricevuti è quella necessaria libertà di espressione insita nella natura della videoarte - slegata da dinamiche tipiche della cinematografia, con i sui problemi di budget, distribuzione, promozione o entità del pubblico - al contrario più vicina ad un certo cinema sperimentale. Documentazione, memoria; un video può esistere di per sé oppure costituire la registrazione di momenti
e forme altre, poiché è un “genere” - quello della videoarte - in continua mescolanza con altri linguaggi e strumenti, rimanendo un campo d’azione per una sperimentazione continua e sempre in divenire, capace di offrire ogni volta plurimi approcci alla visione. Ma che cosa ruota attorno alla videoarte? Come viene pensata in relazione al mercato e ai contesti museali e che cosa è necessario fare ancora in Italia?
S
econdo me il fatto che la videoarte assuma volti e forme diverse è un fatto positivo, è sinonimo di libertà espressiva. Oggi la televisione, ma anche il web e gli stessi festival, impongono degli standard visivi, contenutistici emozionali, e il cinema, con l’esclusione dei cortometraggi, è schiavo degli alti budget di cui ha bisogno e del pubblico che deve raggiungere. Pertanto la libertà di espressione con l’immagine in movimento, sia a livello formale che contenutistico, l’abbiamo solo nell’ambito di quella che viene chiamata videoarte, che per fortuna non è stata ancora codificata, e riesce a raccogliere una gamma enorme di possibilità espressive e tecniche, e ha inglobato anche quello che una volta veniva definito cinema sperimentale. Potremo porci il problema della sua diffusione. Penso che si debba evitare l’aggancio a un’idea di mercato, che per la copertura del budget di produzione preveda il raggiungimento di un pubblico di una certa entità. Non che debba essere condannata a un rapporto di comunicazione “one on one”, che penso resti un canale di comunicazione di massima intensità, ma semplicemente che le sue possibilità di circolazione non siano predeterminate. Lo spazio dei musei non sempre è il luogo ideale, ma la videoarte può essere una delle chiavi per far circolare l’arte fuori dai musei. Può utilizzare sia gli spazi grandi, dove viene proiettata, sia gli spazi web, dove però deve affrontare la “marmellata del web”. Ovviamente le grandi manifestazioni dell’arte e spesso anche i festival dedicati restano degli spazi privilegiati per gli autori. Rimane il problema del finanziamento. Io penso che debba essere pubblico per i giovani, e poi misto, utilizzando gli stessi canali di finanziamento delle altre forme artistiche, e ben vengano delle nuove idee, come negli ultimi anni il crowdfunding. Giampaolo Penco
Qui sopra: PASSI, 1992. Courtesy Giampaolo Penco. Pagina accanto dallʼalto: LETTER FROM UN IMAGINARY MAN. Courtesy Matilde De Feo. GENEALOGICAL LOVE. Courtesy Mandra Stella Cerrone.
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C
ol mio progetto multimediale mald'è, nato a Napoli nel 2003, progetto che mette in relazione le arti sceniche a quelle visive, ho scelto di lavorare col video come linguaggio, mettendolo in relazione soprattutto al teatro, al corpo dellʼattore; mi interessava la smaterializzazione dei corpi nello spazio, lʼinterazione e la contaminazione. Progressivamente il focus e lʼattenzione dal teatro e dal video si sono spostati sempre più sul video come linguaggio unico, monocanale o multicanale e sempre più vicino al linguaggio cinematografico piuttosto che a quello delle arti sceniche. Ovviamente il documentario, genere cinematografico che più di altri offre grande libertà di espressione, è diventato un campo da esplorare e dove poter sperimentare. Attualmente, se dovessi dare unʼetichetta, una categoria tra i generi al mio lavoro, penserei alla “videoperformance”, allʼincontro in video di soggetti volontari e alla ricerca di storie sul territorio: una documentazione della realtà che si trasforma in visione. Penso che questa modalità di lavoro sia perfettamente in risonanza con quello che sta accadendo in Italia alla ricerca sul video, una contaminazione di generi interessante, causata anche dalla crisi dei modi di produzione e distribuzione generati dal passaggio dalla pellicola al digitale. Lʼultimo progetto documentario Letter from un imaginary man è un esempio riuscito di questo processo dʼincontro videoperformativo, di storytelling fotografico, un lavoro sulla scrittura privata che nasce dalla ricerca e dallʼincontro di soggetti volontari disposti a raccontare in video la propria storia e leggere la propria lettera. Un prodotto non narrativo ma fortemente visivo, con un approccio anticonvenzionale allʼapparato cinema stesso. Matilde De Feo
I
l video dimora fuori e dentro lʼarte da decenni, la sua funzione principale sembra essere la documentazione e la memoria. Ed è così che spesso io uso questo media. Documento le mie azioni psicomagiche, tecnicamente dovrei dire performance, e affido al video la memoria di unʼazione effimera. Molto spesso sono riprese semplici, concentrate sullʼefficacia del gesto in maniera diretta e sintetica, detesto i tecnicismi e gli effetti speciali. Tendo ad attuare una produzione che oltre ad essere documento sia essa stessa unʼopera, lʼazione performantiva, viene documentata e al tempo stesso reinterpretata nel linguaggio cinematografico. In questo modo desidero intervenire nel dibattito sociale lavorando su temi quali il denaro, la famiglia e la psicogenealogia, le relazioni, la religione. Non è un intervento critico in termini di provocazione il mio, piuttosto usare qualunque media o linguaggio per offrire strumenti di cambiamento o riflessione, è per questo che considero le mie performance azioni psicomagiche. In altri lavori invece il video è lʼopera stessa, senza alcun riferimento a performance da tramandare, in questo caso la ricerca estetica, direi poetica, e un utilizzo mirato delle possibilità tecniche di questo linguaggio mi coinvolge maggiormente. Credo non ci sia un confine netto tra cinematografia sperimentale, videoart, corti, videoinstallazione, videoclip, è una contaminazione spesso impercettibile da etichettare. Quanto al mercato direi che la videoarte risente delle stesse variabili prese in considerazione per le altre opere dʼarte, curriculum dellʼartista, potenziale creativo, pregnanza dei contenuti, tecnica, ma anche supporto, packaging, distribuzione, strategie di vendita e distribuzione. Assistiamo sempre più spesso ad uno sconfinamento verso lʼarte interattiva, che a me sembra la normale evoluzione della videoarte e di cui subisco il fascino... Mandra Stella Cerrone 11
L
a videoarte sta assumendo un ruolo fondamentale nel panorama internazionale riguardo alla sua influenza nel linguaggio cinematografico. Parliamo di cinema di ricerca, dove molti autori identificano attraverso la non-narrazione una forma di espressione libera e senza dogmi o tecniche. Nel nostro caso, non facciamo uso di una tecnologia innovativa per la creazione delle opere, ma utilizziamo lʼarchivio come strumento di indagine sul contemporaneo. Da qui deriva tutta la ricerca che guarda al futuro del cinema/video con un linguaggio nuovo e distaccato dai canoni classici. Non crediamo che identificandosi in un genere lo si possa esportare come “un proprio contenitore identificativo”. Stiamo arrivando ad unʼibridazione dei linguaggi e nello specifico alla sua essenza più pura, dove non ci sarà più distinzione tra un genere cinematografico o artistico. La videoarte si inserisce in questo contesto con una forza dirompente tale da influenzarne la forma ed il concetto. Il sistema museale pubblico in Italia ha fatto ben poco riguardo alla divulgazione, alla fruizione e soprattutto alla conservazione della videoarte. Al di là di qualche eccezione, manca ancora una forte attenzione e rivalutazione di questa forma dʼarte e dei suoi artisti. Di recente è stata resa pubblica una lettera, su iniziativa di Enrico Tomaselli, (Magmart videoart festival) e firmata da centinaia tra artisti, critici e curatori riguardo i temi appena citati legati al panorama nazionale della videoarte, indirizzata alla Direzione Generale per lʼArte e lʼArchitettura Contemporanee del MiBACT. Questo potrebbe diventare un passo importante in Italia per il futuro della videoarte. Nel frattempo, e nella speranza di una risposta pubblica da parte dellʼarch. Galloni, noi continuiamo il nostro lavoro. {movimentomilc}
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enso che la natura di un’opera d’arte, in questo caso intendo il supporto che poi potrebbe essere il corpo stesso, sia come le spoglie di un essere in divenire. Molto probabilmente un essere che non sarà mai, perché ciò che fugge dal supporto è proprio l’opera d’arte che appare come un fantasma slegato dal corpo. La tecnologia del video, che sia anche definita cinematografica, è un aspetto dell’opera audiovisiva che nell’uso diventa presto obsoleta. Per questo motivo un artista, pur utilizzando i supporti audiovisivi del proprio tempo, spera di superare in bravura o astuzia il supporto stesso perché sempre limitato. Di conseguenza la sperimentazione è anche in questo processo. Anche guardando un’opera di videoarte la si osserva in silenzio, parlando sottovoce, nei musei. Questo a riprova che lo spettatore come un credente teme di destare bruscamente la verità del corpo. L’audiovisivo è un volatile. In Italia bisogna solo crederci un po’ di più. Cosimo Terlizzi 12
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ideoarte, documentario, cinema - registrazione di una performance o di un luogo o di uno spazio o di una realtà - tutte discipline che hanno bisogno di almeno due strumenti: uno per registrare (la telecamera, o chi per essa) e uno per riprodurre (lo schermo o il proiettore). Altri due strumenti potrebbero essere chi registra e chi fruisce, al di sopra delle parti invece l’intuizione, il concetto e l’intenzione. I media cambiano a livello tecnologico e in noi non cambia l’approccio alla novità, poi ci abituiamo e tutto riprende a funzionare. Se penso a come ascoltavo la musica qualche anno fa, strumenti obsoleti riprendono vita. Le musicassette, che se non avevi una penna Bic per riavvolgere il nastro quando il mangianastri si impallava eri fregato, il lettore CD portatile che ti obbligava a uscire con una valigia per i CD e una per le batterie, poi è arrivato il lettore MP3: la luce in fondo al tunnel. Negli ultimi vent’anni non si è smesso di ascoltare musica ma è cambiato il modo in cui la si ascolta, e così è avvenuto anche per il video: sono cambiati gli strumenti, è cambiato l’approccio nel fare e nel fruire. Non è più “solo ascoltare” musica ma anche leggerla o guardarla attraverso i video o le informazioni che le nuove piattaforme ci forniscono nell’esatto momento in cui il nostro dispositivo multimediale riproduce il nostro brano preferito. Ascoltare una canzone alla radio, scoprirne titolo e autore per poi aggiungerla automaticamente alla nostra playlist preferita, adesso è possibile e ci piace. Gli strumenti di cui ci serviamo non sempre assolvono ad un’unica funzione e nel caso della videoarte, del cinema d’autore o del documentario, non credo sia utile una distinzione del prodotto ma mi concentrerei solo su intuizione, concetto e intenzione e sull’efficacia del terzetto. Le etichette sono il modo più diretto e immediato per riconoscere un prodotto e poterlo vendere ma l’epoca che stiamo vivendo pare dirci che non deve più essere così - per fortuna - quindi non stupiamoci se il nostro smartphone regola la temperatura interna della nostra casa o se ha il pollice più verde del nostro, anzi, impariamo dai nostri dispositivi ad essere più smart e multitasking così da non doverci attaccare solo all’etichetta per sentirci più al sicuro. Antonio Romano
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l video è la testimonianza del nostro “oggi” come qualsiasi espressione dell’arte. Il video rappresenta “l’azione immediata”, non è un film, è importante cucire la realtà per “impatto”. Si pensa troppo e si agisce poco… L’opera non è solo una vendita, e il museo deve essere un esempio perché è la storia dell’arte. “Un Vasari oggi”. Credo che l’Italia sia una realtà silenziosa che deve essere ascoltata. È necessario avere il coraggio di modificare il sistema, senza essere conservatori né imitatori, l’Italia è conosciuta per la sua realtà visionaria, ironica e soprattutto unitaria. Corrada Di Pasquale
Dallʼalto a sinistra in senso antiorario: NO MAN IS AN ISLAND, 2013. Courtesy {movimentomilc}. FRATELLI FAVA, 2007. Lʼartista ne LA BENEDIZIONE DEGLI ANIMALI, 2013. Courtesy Cosimo Terlizzi. Ciuri Ciuri, 2014. Courtesy Corrada Di Pasquale. RUSSIHHJATI, 2015. Courtesy Antonio Romano.
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LA RIVOLUZIONE DELLE PICCOLE COSE Karin Reisovà
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a prima mostra che ho organizzato aveva il titolo “La rivoluzione delle piccole cose” e ruotava intorno all’opera di Felice Casorati del 1920 Studio per il ritratto di Renato Gualino, un quadro indimenticabile e il titolo della mostra era un po’ la mia bandiera. Oggi, attraverso piccole cose, ho la possibilità di vivere il mio sogno di viaggiare con l’arte, viaggiare in tanti sensi, con la mente alla ricerca di nuovi progetti, per vedere gli atelier e le opere degli artisti, per fare incontri nuovi e progettare nuove mostre e collaborazioni e ogni giorno è una cosa nuova. In uno di questi viaggi ho incontrato SMALL ZINE che ho apprezzato subito per la freschezza, ed eccomi con il privilegio di poter raccontare ai lettori chi sono e cosa ho fatto per meritare attenzione. Sono nata in Boemia, da padre mitteleuropeo, madre ceca, e allevata da una nonna triestina. Nel 1968 dopo la Primavera di Praga la mia famiglia si è trasferita in Piemonte dove ho messo un po’ di radici anche se negli ultimi anni lavoro tra l’Italia e la Repubblica Ceca. È stato così che nel 2008 ho deciso di affacciarmi con timidezza e umiltà al mondo dell’arte, mettendo a disposizione la mia casa, il mio background e soprattutto la mia passione per l’arte. Tutto questo condito da una quasi inconsapevole tenacia e da un pochino di autoironia per affrontare meglio le difficoltà.
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PEOPLE ART
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alla mia dimensione “privata” via via mi sono aperta ad un pubblico sempre più vasto e ho scoperto che il fascino della Casa Toesca, la mia casa settecentesca a trenta chilometri da Torino, (una bomboniera nella quale si perde la percezione del tempo per immergersi nell’arte) si caricava sempre di più del mio modo di essere e di proporre “arte”. Il mio è stato un viaggio libero da connotazioni, solitario e indipendente e a chi mi chiede come scelgo le mostre e gli artisti rispondo che “scelgo possibilmente di fare quello che non conosco così mentre lo faccio lo studio”. Ho lavorato a mostre istituzionali, per enti e fondazioni, sia storiche che d’arte contemporanea senza distinzione tra gli argomenti, da “Barba e Baffi” a “da Durer a Morandi”. Ho istituito il Premio biennale Carlo Bonatto Minella, oggi Art Prize CBM, che è cresciuto grazie alla collaborazione del curatore Antonio D’Amico e all’incessante lavoro di organizzazione e coordinamento di mia figlia Elisabetta Chiono. Da ultimo, a gennaio abbiamo portato le opere degli artisti vincitori e finalisti in mostra nella Galleria della Casa Danzante di Frank Gehry e nel fantastico Spazio Nod a Praga. News? A fine aprile inauguriamo la nuova galleria a Torino: CRAG Chiono Reisovà art gallery, anche qui una scelta legata al “nostro” modo di essere, concreta, forte, però più caratterizzata dalla personalità di Elisabetta e concentrata sugli artisti emergenti. Non posso che essere felice.
Qui accanto e a sinsitra Karin Reisovà. Nelle altre immagini due sale di Casa Toesca con le opere dei vincitori della III Edizione dellʼArt Prize CBM, © Elena Datrino. Per tutte courtesy Karin Reisovà.
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SHOWCASE
DARIO CARRATTA | a cura di Pasquale De Sensi
di Manuel Carrera
È
una strana sensazione di familiarità, quella che ho avvertito trovandomi per la prima volta faccia a faccia con uno dei lavori di Dario Carratta: e non solo perché ne avevo sentito tanto parlare o per il richiamo del suo linguaggio visivo, assolutamente inconfondibile. Si trattava di qualcosa di più profondo e misterioso: aggettivi che, del resto, basterebbero da soli a descrivere il suo immaginario. Con il filtro aulico della pittura su grandi formati, le visioni immediate e nervose dei lavori su carta paiono maturare: diventano monumentali, si ammantano di silenzio. E così, un nudo di donna con un crostaceo sulla gamba che sembra in qualche modo connotarne la sessualità assume la maestosità di un grande ritratto rinascimentale. Quando li vediamo avanzare sullo sfondo di paesaggi surreali, questi personaggi senza nome sembrano incedere in un corteo solenne e oscuro, del quale l’autore non intende che restituire una suggestione: un’illusione, inquietante forse, ma del tutto familiare.
Dallʼalto: LA VITA NOTTURNA DEI CROSTACEI, 2015. Olio su tela, 150x100 cm. IL MIO CANE SI CHIAMA NEWTON, 2015. Olio su tela, 160x150 cm. Per entrambe courtesy dellʼartista.
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GLOBETROTTER
RIVER OF FUNDAMENT
Il film capolavoro di Matthew Barney - Valentina Tebala
29/01/2016, Bologna
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RIVER OF FUNDAMENT. Prima e seconda immagine dallʼalto © Hugo Glendinning. Per la terza © Rof Chris Winget.
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el giorno in cui si accendono i riflettori e inizia la maratona frenetica dei visitatori – tra appassionati, addetti ai lavori e giornalisti – da un vernissage all’altro del weekend più caldo (benché siamo in pieni giorni della merla) dell’art system fieristico italiano, fra i portici «cosce di mamma Bologna» si corre davvero il rischio di perdersi pur non essendo bambini ormai da un bel pezzo – citando due grandi artisti della magnifica città emiliana. Ma oggi, dal pomeriggio a sera inoltrata, almeno seicento fortunati che sono riusciti ad accaparrarsi il biglietto tra i migliaia di visitatori in arrivo, sapevano benissimo dove andare e fermarsi per circa sei lunghe ore. Al Teatro Comunale, in Largo Respighi, è stata presentata e proiettata in anteprima assoluta nazionale in occasione del quarantesimo anniversario di Arte Fiera – in Italia il più anziano ed importante appuntamento fieristico d’arte moderna e contemporanea – l’ultima impresa filmica di Matthew Barney: il titanico River of Fundament. Un pubblico emozionato ha occupato ogni posto disponibile tra platea e palchi in religiosissimo silenzio, compresa me, illustri ed illustrissimi colleghi tra cui un instancabile Achille Bonito Oliva in pole position. Tutti pronti per le sei ore consecutive del lungometraggio, diviso in tre atti di un paio d’ore ciascuno: quasi una performance collettiva, una prova di resistenza, che dopo la fine del primo atto ha già iniziato a mietere le sue vittime. Certo, a legittimare l’arresa – e quindi la fuga – c’era l’alibi plausibile che in quei giorni lì, si sa, è doveroso se non d’obbligo vedere il più possibile e presenziare per le public relations scappando da un evento all’altro, magari al capo opposto della città. Ma i più determinati e coraggiosi che hanno deciso di immergersi – è il caso di dire – in River of Fundament non se ne pentiranno; inclusa la sottoscritta, che avrà il piacere di raccontarlo a quei lettori che non erano tra i “seicento fortunati”. La nuova opera-film del videoartista americano, musicata da Jonathan Bepler, è un innesto di strumenti narrativi cinematografici tradizionali con live performance (svoltesi a Los Angeles, Detroit e New York), opera e scultura, adatto proprio ad essere presentato nei teatri. È un lavoro epico colmo di riferimenti mitologici. Difatti il film è ispirato al romanzo Ancient Evenings di Norman Mailer ambientato nell’Egitto pre-cristiano e mitico dei faraoni, in cui si sviluppa la storia di un uomo – un non morto – in affannosa ed intricata peregrinazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti, verso la rinascita. Il viaggio diventa per l’autore palcoscenico ideale alla messa in scena delle più subdole e contraddittorie pulsioni dell’animo umano. Così il protagonista di Barney – il defunto Norman accompagnato dai suoi spiriti – tenta il cammino per la resurrezione che avrà luogo nel Fiume di Feci, nel sotterraneo della sua casa. Attraverso una serie di flashback che saltano dalla veglia funebre ancora in corso ai rituali collettivi in cui Norman appare incarnato in diverse automobili, le quali diventano simboli sacrificali di una contemporaneità capitalistica, si sviluppa una trama ricca di rimandi estetici ed iconografici tipici di Barney; che stavolta supera se stesso. Un fluire di acque torbide e secrezioni, orge, canti e colpi di scena in un’atmosfera sempre più tesa e psicotica, alternata spesso da toni lucidi e patinati. Un viaggio nel viaggio mistico condotto dal protagonista, cari globetrotter, che ci restituisce un affresco della società moderna alquanto perturbante, una volta usciti dal teatro e reimmersi nella caotica art night bolognese.
STEFANO CESCON
LANDSCAPE, 2015. Olio su tela, 160x200 cm. Courtesy dellʼartista.
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l giovane Stefano Cescon, nato nel 1989, è l’artista selezionato in questo secondo step del Progetto ART CONTEST; ed è proprio lui che ci introduce al suo lavoro: “Nel tempo è maturata la consapevolezza di come nei miei quadri non fosse determinante raccontare una storia o delle atmosfere strettamente personali, quanto tentare utopisticamente di trovare un’origine che mi aiutasse a connettermi ad un senso di appartenenza comune”. La sua pittura ci appare come il concretizzarsi di un gesto la cui origine si colloca agli albori di luoghi in cui apparentemente non pare esserci traccia dell’uomo, in un lavoro in cui “immagini fotografiche di elementi quotidiani e privi di spettacolarità, sono trasfigurate dal magma pittorico e ricondotte a un carattere quasi primordiale, atavico”. Elementi organici che si depositano sulla tela, sostanza pittorica carnale, tormentata, “agìta” nel suo distribuirsi, nel suo vagare, nel suo disegnare un flusso incessante di energia. E la contaminazione fra natura ed essenza corporea risulta forte e incontrollabile nella sua “collera”. Gradazioni intense, vivaci e innaturali sono poste le une accanto alle altre quasi come tessere di un mosaico umano, vivo, scalpitante, capace di condurre l’osservatore nelle maglie nascoste della sua natura più intima e irrequieta, unʼenergia che si fa sostanza e a cui, il colore, depositandosi sulle sue forme, restituisce una nuova origine. Natura, distruzione, tormento, sembrano questi i concetti chiave del suo lavoro, paesaggi ululanti, trame “cucite” in cui smarrirsi, in cui vagare, e tratto dopo tratto la pennellata, da breve e frenetica si amplia e si disperde. Una pittura, quella di Stefano Cescon, in grado di fermarsi e soffermarsi laddove ve ne sia necessità per creare flussi di masse corporee che proseguono la propria esistenza ramificandosi fino a giungere ad altri stati di evoluzione. L’artista, nel contesto più ampio della sua ricerca, riesce a rendere tangibile, nel medesimo istante, la parte materiale e immateriale di una figura umana che, mutando se stessa, si è via via dissolta. La pittura come punto di partenza, strumento per interrogare se stesso nel tentativo di darsi delle risposte pur continuando a stupirsi di fronte al “potere generativo e mutabile del caso”. 18
Abbònati
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LINEE D’OMBRA E POESIA IN MOSTRA A VICENZA Ricerca, senso del rigore, simmetrie, solitudini, trasparenze, silenzio. Possono essere così definiti i confini del lavoro artistico di Roberto Rampinelli, che vive e lavora tra Milano, Urbino e Amer in Catalogna, e che da sempre si è concentrato su un doppio binario, la pittura e l’incisione. Nella sua ultima mostra “La linea d’ombra” a cura di Marco Fazzini, in corso presso l’Associazione TheArtsBox a Vicenza sino al 22 maggio e inserita nell’ambito della rassegna internazionale di poesia e musica “Poetry Vicenza”, Rampinelli propone 30 opere di piccole e medie dimensioni realizzate con colori ad acqua su tavola, che dialogano con i versi di otto poeti capaci di ricreare le medesime sensibilità e atmosfere: Ryszard Krynicki (Polonia), Ana Luisa Amaral (Portogallo), Douglas Reid Skinner (Sud Africa), Douglas Dunn (Scozia), Julio Llamazares e David Jou (Spagna), Marco Fazzini e Valerio Magrelli (Italia). I soggetti dei quadri di Rampinelli, esteticamente ispirato da Piero Della Francesca e dalla pittura quattrocentesca italiana, così come dalla lirica di De Chirico Carrà Morandi, senza dimenticare Kiefer, sono tulipani, garofani, foglie di ginkgo, conchiglie, scodelle, mestoli, frutta, ma anche paesaggi brulli e senza piante, dove anche la presenza dell’uomo è quasi del tutto scomparsa. Per maggiori informazioni www.theartsbox.com GA