So Wine So Food - 7th year - N.9 - Magazine

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NUOVE SFIDE DELLA RISTORAZIONE ELEGANZA E STILE, IN CUCINA E IN SALA

#9 - 7 TH YEAR MAGAZINE NOVEMBER 2022 LE

SO WINE SO FOOD

Redazione

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English: Marcos Ghaly

French: Francesca Zeppieri

Spanish: Samanta Ghaly

Arabic : Ahmed Abdeldaim

Russian: Nataliya Shkykava

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PHOTO COVER

Al milanese Pacifico si combinano eleganza, stile, raffinatezza, nel solco di una cucina nikkei di grande modernità.

Mezzo pieno? Mezzo vuoto?

uante volte ce lo siamo chiesti: il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Vince l’ottimismo o il pessimismo? Come uscirà la ristorazione dall’ennesimo momento difficile? Mentre siamo tutti pronti, il 13 di questo mese, ad acclamare i nuovi stellati dell’edizione 2023 della Michelin (o a piangere con chi le stelle, invece, le perderà), le riflessioni sul presente, ma soprattutto sul futuro, si caricano di ansie, preoccupazioni, incertezze. Bollette, energia, personale, costi delle materie prime: il ritornello, ormai, lo conosciamo a memoria. Eppure, nell’incertezza o nella paura di non farcela, una sicurezza, concreta e indiscutibile, c’è: la clientela internazionale continuerà a venire in Italia, ad amare l’Italia, a ricercare le nostre fantastiche materie prime nelle cucine di chef talentuosi, che operano in ristoranti e resort belli e bellissimi, in location che sono e continueranno ad essere vere e proprie destinazioni eccellenti. Questa è l’Italia del 20% in più rispetto al pre-covid, l’Italia che è cresciuta e non può (o non dovrebbe) lamentarsi troppo. Dalla Costiera amalfitana fino all’Alto Adige, passando per Roma, Milano, Firenze, le città d’arte e la campagna, le isole e le riviere, l’offerta di serie A resta magistrale, si snoda

per lo stivale con una sola parola d’ordine: passione, competenze e business. La stagione turistica della scorsa estate ha visto crescere esponenzialmente presenze, volumi e valori nella nostra industria dell’ospitalità. Ho visto chef e brigate stremate da ritmi di lavoro incessanti, “caricati” da soddisfazioni e successi, premiati per i loro meriti professionali. Ristoranti sempre pieni, tavoli introvabili, prenotazioni da due mesi prima ecc.

Ma ho visto anche gestioni prossime alla chiusura, sale ridotte al lumicino dalla mancanza di personale qualificato, dalla disaffezione al lavoro e dalla conseguente impossibilità di investire sull’attività.

Il mercato, come sempre, è bifronte, ha due facce, due volti, proprio come il bicchiere di cui parlavo all’inizio. Mezzo pieno o mezzo vuoto? Brillante o spento? Da parte nostra, noi continueremo a vederlo mezzo pieno, guardando al futuro con spirito positivo. Nonostante le bollette da paura, vergognosamente quintuplicate. Nonostante gli affitti da strozzini, in linea con un mercato pompato da speculazioni indegne. Ma in fondo, questo è sempre stato il nostro pensiero, la nostra parola d’ordine, quasi un mantra: lavoro di qualità, gioco di squadra, motivazioni e passione allontanano il più possibile ogni tipo di negatività.

COMUNICAZIONE
THE EDITORIAL
8 I ristoranti di carne entrano in una nuova stagione di Paola Chiasserini 14 Pacifico Milano, nikkei di alta classe di Andrea Matteucci 10 Hélène Darroze, porta il suo mondo al Connaught di Londra di Gualtiero Spotti 26 La Lunigiana come non l’avete mai vista di Lorenzo Braschi 28 Le nostre etichette iconiche: dieci vini mitologici di Adriana Blanc 23 Riscoprire lo stinco di maiale in tre abbinamenti affascinanti di Eros Teboni 4 SWSF
ALBERTO'S CHOICE 32 Piccini 1882, viticoltori da cinque generazioni di Daniele De Nicola 36 Alto Adige, ogni volta una scoperta fantastica di Uomo delle Stelle 40 Ronin a Milano, il Sol Levante abita qui di Alberto Schieppati
SO FOOD
1. I ristoranti di carne entrano in una nuova stagione
2. Hélène Darroze, porta il suo mondo al Connaught di Londra
3. Pacifico Milano, nikkei di alta classe

I ristoranti di carne entrano in una nuova stagione

Anche le steakhouse di impronta tricolore prestano maggiore attenzione a valori di sostenibilità e sperimentazione. E la ricerca sulla migliore materia prima è sempre l’imperativo dei professionisti più seri

fine di settembre a Dublino si è tenuta l’ottava edizione del World Steak Challenge, la competizione che vede coinvolti i tagli di carne più pregiati e di qualità del mondo. Quest’anno ha trionfato la Wagyu giapponese, proveniente dalla regione di Kagoshima, un'area che si dice sia nota per il suo clima caldo e l'abbondanza di acqua. La carne Wagyu è stata incoronata vincitrice assoluta con il titolo di “Migliore bistecca del mondo” ma anche di “Miglior controfiletto del mondo” e “Migliore carne di manzo Grain Fed”. Tra i vincitori delle medaglie d’oro c’è un distributore italiano, Mfc Carni, il più importante distributore della provincia di Avellino, che ha ottenuto il premio per il “Miglior Filetto del mondo” con la sua Poland Grain Fed, e una medaglia d’oro per ciascuno dei suoi prodotti presentati in gara. Questa è un’ulteriore dimostrazione che il mercato della carne sta conoscendo una nuova vivacità, grazie a consumatori e ristoratori sempre più attenti alla qualità delle carni, alla sostenibilità nella produzione lungo tutta la filiera, ed alla sperimentazione nei metodi di cottura (con un ritorno alle vecchie tecniche di cottura sul fuoco) che riescano ad esaltare i sapori dei vari tagli. È quanto emerge anche dai dati di una ricerca di Astra Ricerche, secondo cui 5 italiani su 10 consuma ancora carne 1-2 volte alla settimana. È evidente che c’è stata una riduzione (di lungo periodo) ma che è

Alla

rimasto uno zoccolo-duro ampio e convinto. Tra i forti users ci sono uomini, di classe superiore e di età 18-34enni. La ricerca evidenzia come il 35% degli intervistati esclude categoricamente di ridurre, o persino di eliminare, la carne dall’alimentazione. Un altro aspetto interessante è a livello geografico, dove i più 'attaccati' positivamente alla carne sono nel Nord. Si nota dunque una certa polarizzazione anche su come mangiare carne: chi la consuma vuole una carne di qualità più elevata che in passato, in parte con disponibilità a spendere di più. Tra i medi e forti consumatori di carne, il 54% desidera carne di qualità maggiore. Ma le specialties etniche (12%) sono ampiamente battute dalla tradizione italiana di tagli e preparazioni (69%) come gradimento dichiarato. E tra tutti gli intervistati (anche chi è in calo di consumi) il 71% concorda con "la carne è uno dei veri, grandi piaceri della vita".

Via dunque alle offerte di carne, l’importante che siano pregiate e di altissima qualità, preparate con invecchiature diverse, dalla dry aged (che letteralmente significa mando invecchiato a secco, con uno dei metodi più antichi, la frollatura e stagionatura per essicazione, per far perdere l’acqua contenuta all’interno della carne e renderla più secca e con un sapore più intenso), alla wet aging (ovvero la stagionatura a umido, tecnica più recente che prevede che i tagli di carne dopo la macellazione vengano sigillati sottovuoto, quindi senza ossigeno, e conservati in celle

di Paola Chiasserini
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frigorifere a temperatura costante). Sarà per questo, quindi, che crescono le nuove offerte di ristorazione a base di carne, che puntano a proporre pezzi pregiati per consentire esperienze gastronomiche di alto livello. È il caso ad esempio de l’Affinatore di Milano che propone una selezione di carni bovine da tutto il mondo, dry aged e preparate in maniera sapiente per esaltarne i sapori. Tra l’altro il ristorante è uno dei pochi italiani ad essere autorizzato dal consorzio ufficiale giapponese KOBE alla commercializzazione e lavorazione della carne Wagyu Kobe.

Un’altra interessante offerta di carne si trova presso Arzaga Bistrot di Calvagese della Riviera, tra Brescia e Salò. In questo ristorante, all’interno dei campi da golf,

propone carni frollate selezionate presso allevatori del territorio nazionale e internazionale. Le carni proposte sono stagionate dry aged, con diversi periodi di maturazione (minimo 40 giorni, massimo 100) e conservate nelle celle a temperature controllata. Come non citare anche la Griglia di Varrone, del patron Massimo Minutelli, con tre ristoranti che offrono proposte di carne alla griglia a Milano, Lucca e Pietrasanta, scegliendo i migliori tagli a livello mondiale. Un lavoro certosino per trovare sempre il meglio sul mercato e rispondere alle esigenze di una clientela sempre più attenta e consapevole della qualità. Come, ad esempio, l’inserimento, avvenuto recentemente, tra le proposte della Chuleta di Joselito, un

produttore spagnolo dalla lunga storia, che sarà distribuito in esclusiva per l’Italia proprio da Griglia di Varrone.

Loro stessi si definiscono il paradiso dei buongustai. Sono il Ristorante Macelleria Motta, nato a Bellinzago Lombardo, tra la provincia di Milano e quella di Bergamo. Già dall’ingresso del locale, la cella frigorifera a vista rende chiara la filosofia di Sergio Motta, offrire le migliori carni piemontesi ai propri clienti.

E per chiudere attendiamo lo sbarco in Italia di Salt Bae, il re della carne Salt Bae noto grazie alla sua idea originale di salare le bistecche facendo scivolare i granelli dalla mano al gomito. Secondo voci sempre più insistenti l’apertura del suo ristorante a Milano dovrebbe avvenire nel 2023.

SO FOOD
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Hélène Darroze, porta il suo mondo al Connaught di Londra

Francia, Asia e Gran Bretagna: di ogni luogo ne ha fatto pozzo da cui attingere ispirazione e le sue creazioni oggi ne riflettono profumi. Ma il rigore della tradizione parigina ne resta filo conduttore

L’Hotel

Connaught a Londra, nell’elegante quartiere di Mayfair, è assurto a gloria internazionale negli ultimi anni soprattutto per aver raggiunto il vertice apicale della prestigiosa lista internazionale dei 50 Best Bar, con la guida dell’italiano Agostino Perrone e del suo affiatato team dietro al banco, tra litri di Martini (e non solo) confezionati magistralmente per una clientela di affezionati e di curiosi.

Ma le sale eleganti del pianterreno, tra boiserie di pregio e finestre dalle quali si osserva la curiosa fontana Silence, opera dell’architetto Tadao Ando, celano anche sorprese per gli amanti della cucina.

Superata la soglia d’ingresso, se si svolta a sinistra, si entra nella sala occupata da Jean- Georges Vongerichten, chef francese pluripremiato che a Londra si destreggia tra piatti al grill (ormai una tendenza moderna abbracciata da molti) e menù all-day dining, mentre dall’altro lato, a destra (ed è stata la nostra scelta), si finisce dritti tra le braccia di una campionessa della cucina d’Oltralpe, Hélène Darroze. Originaria delle Landes, nel sud-ovest di Francia, Hélène Darroze è ormai quasi londinese d’adozione. Era infatti il lontano 2008 quando arriva all’ombra del Big Ben per sostituire ai fornelli una gloria locale, Angela Hartnett.

di Gualtiero Spotti Foto credits: Interiors and portrait ©Jérôme Galland Dishes ©Justin De Souza
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Una carriera ricca che ha visto i suoi momenti clou nell’esperienza a fianco di Alain Ducasse al Louis XV di Monaco a partire dal 1990. Il nuovo millennio, le porta invece l’avventura parigina a proprio nome in Rue d’Assas, alla guida di un ristorante in seguito ribattezzato Marsan, in onore delle proprie radici (è nata a Mont-de-Marsan), e con una forte connotazione gastronomica legata alla tradizione di famiglia. Anche se la memoria gustativa perfezionata negli anni ha portato, forse soprattutto nel ristorante al Connaught, a uno stile più sbarazzino. Che se da un lato mette in mostra i muscoli della cucina francese classica, dall’altro vive di contrappunti e dettagli non banali presi in prestito da altre culture, come nel caso dei pepi e delle spezie sempre dosati con giudizio. Ma veniamo ai piatti. Gli amuse-bouche che aprono le danze sono costituiti da un trittico gustoso, con il Porcino e aglio nero, il mais con Parmigiano Reggiano e la Tartelletta di trota con petali di dalia e agrumi. Tutti interpretati giocando con pepi diversi. Poi si prosegue con il menù principale che mette in fila prima il Caviale Kristal accompagnato da scampi scozzesi, cavolo rapa e mela, per un piatto presente al ristorante lungo diverse stagioni, cui fa seguito la Lamella di Porcino con cocco, lumache di Dover, guanciale e timo al limone. Non mancano nel percorso accenni un po’ esotici e richiami asiatici o indiani, ma una costante, oltre alla matrice stilistica francese, è la grande attenzione verso la materia prima locale di qualità.

Così l’Astice della Cornovaglia diventa impertinente grazie alle spezie Tandoori, agli agrumi e al coriandolo, mentre l’Agnello del Galles si sposta in Marocco tra ras-elhanout, finocchi, albicocca e farro.

La conclusione del pasto però, dopo un assaggio del foie gras di Dupérier con melone Piel de Sapo, koji rice e pepe sansho, non può che essere affidata a un signature della casa, il definitivo Baba ma non con

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rum bensì con il Bas-Armagnac firmato Darroze (e possibilità di scelta tra diverse annate) impreziosito dal lampone e dal pepe di Sarawak.

La sala del ristorante completa l’esperienza con tocchi di professionalità in un ambiente

senza tovaglie e toni informali e il piacere, in alcuni casi, dell’impiattamento al tavolo, come nel caso del caviale che viene adagiato sugli scampi. È una sala dove, oltretutto, si parla molto l’italiano con il bravo Mirko Benzo che detta i ritmi del servizio.

Carta dei vini monumentale perfetta per chi ama pasteggiare di fronte a un RomenéeConti o a grandi maisons, ma anche aperta a curiosità e scelte meno impegnative, come nel caso di alcune etichette del Nuovo Mondo.

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 #9 - 2022 NOVEMBER 13

Pacifico Milano, nikkei di alta classe

Giappone e Sud America, con Perù in prima linea. Qui le origini della cucina si combinano in una linea di proposte eleganti e raffinate. Un successo senza precedenti, che si replica anche nel Pacifico di Roma

Di primo acchito si potrebbe pensare che il nome Pacifico, proprio di un elegante e originale ristorante declinato in tre località, rimandi a mete e mari lontani, e in parte è così. Ma nel lemma stesso è racchiuso anche un concetto di quiete, di bien vivre gastronomico, fatto di gusto e glamour accennato con garbo e ritmi lenti, cadenzati ma più che corretti e quasi dovuti a una ristorazione di livello. Il naming non è quindi casuale, e ha una precisa ragione, anzi più d’una, d’essere. Pacifico è un’idea di cucina fortemente originale che si snoda tra il pieno centro di Milano, un’elegante dimora di fine Ottocento a Roma e una terrazza boschiva

di Andrea Matteucci
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di Porto Cervo. Una idea che va oltre quella Nikkei: un DNA gastronomico proprio che non copia nessuno ma, al contrario, crea il proprio percorso per una precisa cifra stilistica e di gusto.

Tre differenti location per un format comune ma, nel contempo, personalizzato in virtù di target di ospiti, posizione del locale e architettura degli edifici che ospita i singoli ristoranti. Ingredienti e piatti, però, sono sostanzialmente gli stessi, belli per occhio e palato, e rendono omaggio con un lieve inchino, quasi un cameo, all’Italia, alle sue proposte e alla sua cultura a tavola; ma non si parli di cucina fusion.

Inizia tutto nel 2015 con Milano, dopo due anni è la volta di Roma. Successivamente Pacifico apre in Costa Smeralda, a Porto Cervo. Nel capoluogo meneghino, dove chi scrive ha scoperto un locale dalle tante sfumature color del mare e dell’oceano in cui nulla è fuori posto né tantomeno

si scivola in facili ostentazioni, Pacifico si presenta giovane, elegante, quasi intimo. Nell’Urbe è invece formale, quasi sontuoso, mentre nell’isola sarda è più cosmopolita e “frizzante”.

L’imprinting, che profuma di tecnica giapponese contaminata da sapori peruviani, lo si deve a Jaime Pesaque, che ha dettato la linea di Pacifico: crudo, soprattutto di mare, frutti del Perù, salse particolari, spezie e aromi lontani che raccontano l’altra parte del mondo.

Da poco più di un anno a Milano è nelle mani dello chef Joseph Valenzuela.

La sua creatività presenta in tavola, (ma non è certo tutto), causa catalana, ceviche in mille declinazioni, spigola tamales e il celebre tiradito, anch’esso in diverse versioni.

Sono proposte da accompagnarsi a una carta dei vini, circa 250, di grande tenore, cui sovrintende il sommelier.

È un ambiente, quello meneghino, elegante senza inutile sfarzo, silenzioso e da toni, colori e luci morbidi e caldi, che implicitamente invitano al relax per immergersi in una cucina che altrove proprio non c’è, come conferma lo stesso Valenzuela, 35 anni di passione e talento: “stiamo trovando sempre più una nostra identità specifica, per un DNA che rimanda sia al Giappone sia al Perù, senza mai dimenticare che siamo in Italia, con i suoi sapori e profumi e le sue materie prime”. La curiosità è così forte che è sfociata in una intervista.

Se parli della tavola e dei prodotti del nostro Paese viene istintivo chiederti quanto tu ne possa essere influenzato Non più di tanto, Pacifico è un mélange che rimanda alla cucina Nikkei; di certo usiamo molto il fresco del vostro paese, che completa idealmente la nostra idea di gastronomia, ma non vogliamo che nulla ci condizioni e prenda il sopravvento sulle idee del menù.

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Quindi, tra Giappone, Perù e una contaminazione italiana, possiamo parlare di proposte fusion?

Preferisco pensare a una cucina in costante evoluzione; noi di Pacifico non cerchiamo di riproporre ciò che già c’è.

No, non chiamiamola fusion: non sempre quest’ultima contiene identità particolari. Noi invece ne abbiamo una nostra.

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Evidentemente siete lontani da un “copia e incolla” dei più blasonati e importanti competitors…

Non vogliamo assolutamente sovrapporci né guardare ad alcuno: non è un ristorante peruviano e neppure solo Nikkei.

Noi siamo Pacifico, è un percorso esclusivamente nostro che non è mai fermo, ma risponde sempre a una ricerca continua, partendo dalla tradizione

culinaria e dal rispetto dei singoli paesi e delle loro gastronomie, per noi muse ispiratrici ma niente più.

Accenni, nelle tue parole, a una ricerca continua, a menù mai definitivi. Che futuro vedremo nei piatti di Pacifico? Senza rinunciare a noi stessi, ci stiamo concentrando sempre di più sulla qualità dei singoli alimenti, cercando il giusto

compromesso tra i sapori peruviani conditi da tecnica giapponese, decisamente “importanti”, e quelli europei, notevolmente differenti. In questo senso, ma non solo, prossimamente ci saranno novità, e non di poco conto. Ma è presto per parlarne. Identità e sostanza, raffinata eleganza e sussurrata atmosfera quasi retrò: l’oceano dai mille verdi e blu profuma di Pacifico.

 SO FOOD #9 - 2022 NOVEMBER 19

La brigata della Refezione Maurizio Galligani, chef e patron della Refezione di Garbagnate Milanese, con una parte della sua giovane brigata. Il ristorante, già stella Michelin, ha fatto la storia della “nuova”ristorazione italiana e ancor oggi si conferma un riferimento della classicità.

LA FOTO DEL MESE DI SWSF

SO WINE

1. Riscoprire lo stinco di maiale in tre abbinamenti affascinanti
2. La Lunigiana come non l’avete mai vista
3. Le nostre etichette iconiche: dieci vini mitologici
4. Piccini 1882, viticoltori da cinque generazioni
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Riscoprire lo stinco di maiale in tre abbinamenti affascinanti

Quando la tradizione chiama, risponde Il nostro Eros Teboni, il grande sommelier, con i suoi pairing di vini piemontesi, franciacortini e bolgheresi

Nella

sua storia millenaria il Sus scrofa domesticus non ha certo avuto vita facile.

Errata corrige SICILIA O ALTO ADIGE?

Nello scorso numero di ottobre, nella rubrica di Eros Teboni è stato pubblicato, a pag. 27, nel primo dei tre vini in abbinamento, un testo sulla cantina Tiefenbrunner, protagonista di altri abbinamenti. Si è trattato di un refuso grafico, di cui ci scusiamo con la Azienda agricola Milazzo, produttrice del Federico II, Metodo classico Brut 2015.

Un rapporto controverso con l’uomo, che di volta in volta ha visto il maiale essere ritenuto immondo e repulsivo o viceversa diventare una risorsa straordinaria. Nell’antico Egitto si credeva fosse portatore di lebbra e ai porcari veniva precluso l’ingresso al tempio, ma poi nell’Odissea il porcaro Eumeo viene chiamato divino. Ebrei e islamici ritenevano il maiale impuro. Etruschi e romani se ne cibavano golosamente. “Nessun animale presenta tante utilizzazioni per la cucina e la sua carne ha cinquanta sapori”, scrive Plinio il Vecchio, mentre nell’urbe si gustano salsicce, chiamate tomacula o lucanica, cosce, costolette, piedini, orecchie, mammelle e fegato, pregiatissimo quello di scrofa ingrassata a suon di fichi, chiamato ficatum.

Le classi abbienti romane nell’estremo saluto ai loro cari, offrono in sacrificio maiali, bovini, ovini, per i riti e i banchetti funerari,

un’usanza costosa, riservata a pochi, ma significativa, come ci conferma un recente scavo archeologico a Barcellona in Spagna, dove su 59 sepolture solo 16 conservano tracce di suino.

Nei secoli bui del Medioevo l’allevamento di maiali diverrà retaggio dei ceti umili, che ne traggono sostentamento, grazie all’impiego pressoché totale delle sue carni, coscia, lonza, stinco, nodini, braciole, lardo, guanciale, coppa, pancetta, puntine e naturalmente l’ampio capitolo delle interiora. Se nell’iconografia sacra il maiale è spesso ritratto teneramente accanto a Sant’Antonio, patrono degli animali e dei salumai, granitico nel resistere alle tentazioni inviategli da Satana, nell’arte fiamminga il maiale simboleggia la gola e nelle raffigurazioni cristiane la trasgressione “il maiale ama rivoltarsi nel fango, così come il peccatore si crogiola nella sporcizia dei suoi peccati”. Un antichissimo compagno dell’uomo le cui prime raffigurazioni risalgono a 40.000 anni fa, ma verrà addomesticato e allevato fin dal Neolitico, a partire dal 6.000 a.C. Un animale

SO WINE
di Eros Teboni
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destinato ad essere macellato, lavorato e conservato, per un comparto produttivo ampio e variegato, ma che in questi ultimi anni, in diverse aree d’Italia è diventato oggetto di studio. Dopo allevamenti intensivi e produzioni massive, si fa strada una particolare attenzione verso le razze estinte, ci si preoccupa del benessere dell’animale e si è capito quanto sia importante un’alimentazione naturale.

Anche in Alto Adige ci sono interessanti progetti in tal senso, con la riscoperta del Suino nero delle Alpi, che è una delle poche razze di maiali sud tirolesi ancora in circolazione oggetto di iniziative di tutela e salvaguardia.

Maiali antichi che popolavano le valli a sud del Brennero, di colore nero o nero macchiato, presenti sull’arco alpino, ben prima che si sviluppassero le razze moderne, dotati di una corporatura robusta. Tra i numerosi tagli di carne che si estraggono dal maiale, lo stinco si è guadagnato un posto di rilievo, si ricava dalla zampa ed è un taglio sodo, ricco di collagene, che si presta a cotture lente, a preparazioni morbide e gustose, dai fondi glassati e saporiti per piatti inossidabili della tradizione regionale italiana.

Ecco allora la ricetta dello stinco dello chef Matthias Kirchler, del ristorante ‘Lunaris 1964’ - Hotel Linderhof - Cadipietra (Bolzano), che potremo preparare anche nella nostra cucina. “È una ricetta semplice da cucinare senza ricorrere ad attrezzature professionali, fate solo attenzione ad acquistare gli ingredienti giusti, vicino a casa, come ho fatto io. Non temete per il procedimento, seguite le mie indicazioni e farete un figurone con la vostra famiglia o i vostri amici.

Occorreranno: 1 stinco di maiale, 2 carote, 2 cipolle, 1 porro, ½ sedano rapa, aglio, 200

ml di acqua, 500 ml di birra, rosmarino, bacche di ginepro, bacche di senape, pepe nero in grani, sale. Prima lavate lo stinco con acqua fredda, asciugandolo con la carta, salando leggermente. Lavate e pulite le verdure, sminuzzandole, poi rosolatele in pentola per dieci minuti e sfumate con la birra, aggiungendo spezie, acqua e poco sale. A questo punto mettete le verdure in una casseruola da forno, aggiungete lo stinco e

l’acqua, in modo che la carne sia sommersa per metà. Portare la casseruola a 180°C in forno, lasciando cuocere per 45 minuti e ancora per 1 ora e ½ ma a 140°C. Rimuovete lo stinco dal fondo, spalmate con una salsa barbecue e infine mettete di nuovo in forno per 20 minuti a 180°C. Servite ben caldo con patate.” Un piatto davvero appetitoso! Sono certo che si sposerà al meglio con gli abbinamenti che ho scelto. Prosit!

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Il lavoro di Nicola Gatta, spumantista sui generis che non aderisce al consorzio, si sviluppa su 6 ettari vitati di proprietà, coltivati a Chardonnay e Pinot Nero. Vigne che hanno tra i 25 e i 35 anni, su suoli morenici e colline calcaree che caratterizzano l’area orientale franciacortina, fanno il paio a metodologie che si affidano con rigore e determinazione ai principi della biodinamica, avvalendosi esclusivamente di fermentazioni spontanee con lieviti indigeni, senza impiegare filtrazioni, chiarifiche, diserbanti e prodotti chimici di sintesi. Produzioni artigianali di grande livello, che guardano al territorio ed esprimono un metodo classico Chardonnay 100% senza solfiti aggiunti, dosaggio zero, che “matura 50 lune sui lieviti” (50 mesi) e grazie ai suoli calcarei di origine marina, conferisce mineralità e struttura, anche in annate non straordinarie. Al naso grande freschezza, agrumi e mandorla. Al palato complesso, minerale, sapido, con note lievi di frutta secca, una parte citrica interessante e una buona persistenza.

Risale al 2003 l’acquisizione della Tenuta di Caccia al Piano a Castagneto Carducci, grazie alla visione lungimirante di Franco Ziliani, proprietario della Guido Berlucchi e precursore del metodo classico in Franciacorta. Una casa di caccia costruita nel 1868, circondata da terreni vocati, appartenuta ai Della Gherardesca, dove oggi ha sede la nuova cantina inaugurata nel 2014 mentre proseguono sulle orme del padre, i figli Cristina, Arturo e Paolo. Una limited edition 70% Vermentino e 30% Sauvignon Blanc, che si giova di un inverno mite, una primavera calda e asciutta, un’estate non piovosa. Le uve vengono vendemmiate a mano in due momenti diversi e l’affinamento si protrae per 9 mesi in piccole botti per il Vermentino e in barriques di rovere per il Sauvignon Blanc. Al naso rivela struttura e intensità, con note di macchia mediterranea. In bocca morbidezza, eleganza, lieve presenza di lieviti, vaniglia leggera, buccia d’arancia, crosta di pane, per poi manifestarsi cremoso, tondo, con naso e bocca leggermente simili che si completano in un finale lungo e coinvolgente.

Langhe Nebbiolo Doc "La Chiusa" – Chionetti

Era il 1912 quando Giuseppe Chionetti rilevava la cascina in San Luigi a Dogliani, la capitale del Dolcetto. Un passo che da allora caratterizzerà produzioni mirate di elevata qualità, prima cedendo la produzione ai player dell’epoca, poi affermandosi con una propria identità e più etichette, grazie a Quinto, nipote del fondatore, Andrea, figlio di Quinto; Maria, moglie di Andrea; fino al 2013 quando è Nicola, nipote di Quinto a proseguire nel solco del fondatore. Nel frattempo gli ettari sono diventati 14 con una produzione totale di circa 85.000 bottiglie l’anno, si sono consolidati i mercati esteri, nel 2015 sono state acquistate 3 vigne nell’area del Barolo che hanno fruttato tre nuove etichette, ed è arrivata la certificazione biologico. Un Langhe Doc, prodotto in circa 10.000 bottiglie, costituito da Nebbiolo 100% con uve di San Luigi e Monforte d’Alba, non filtrato e affinato in botte grande di rovere. Al naso e al palato freschezza, piccola frutta, bacche, lamponi, fragoline di bosco, una piccola parte vegetale, il sorso è più minerale che sapido, pulito, piacevole, con tanta lunghezza. 

SO WINE
Lungocosta Bolgheri Doc Bianco – Caccia al Piano 2020 Chardonnay – Nature Blanc De Blancs – Nicola Gatta
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La Lunigiana come non l’avete mai vista

Alla scoperta di una regione storica, ricca di fascino, cultura ed eccellenze enogastronomiche che raccontano magistralmente le peculiarità del territorio “di confine”

Un territorio millenario, sospeso tra un mare cristallino, sognanti resti della civiltà romana e il bianco cuor marmoreo delle le Alpi Apuane. Sto parlando della Lunigiana, regione storica italiana posta fra territori dell’alta Toscana e della bassa Liguria. Una zona ricca di fascino e appeal che prende il nome dalle rovine della città di Luni, antica colonia romana dalla strategica importanza portuale. Molteplici sono le eccellenze in seno a questa meravigliosa terra di confine: dal già citato “oro bianco” di Carrara (per il quale consiglio una visita alle Cave Fantiscritti, un luogo fatato soprattutto al tramonto, quando i caldi raggi solari illuminano questa infinita montagna argentata), al celebre lardo di Colonnata, senza dimenticare grandi vini e soluzioni fine dining di elevato profilo.

A Castelnuovo magra, piccolo comune in provincia di La Spezia, sorge “Ca’ Lunae”, autentico punto di riferimento enologico della zona. Ad attendermi in un magnifico casale del tardo ‘700, c’è Diego Bosoni, cuore e anima, insieme al padre Paolo, di questa virtuosa realtà che fa della qualità in bottiglia il proprio marchio di fabbrica. L’azienda nasce poco dopo la metà del ‘900 con l’idea di riscoprire quei vitigni tradizionali che l’intenso effetto dell’urbanizzazione post bellica stava facendo scomparire.

Tre sono le zone in cui sono divisi, come in un puzzle dall’aspetto picassiano, i sessantacinque ettari di vigna di proprietà di Ca’ Lunae: alla zona collinare, caratterizzata da terreni difficili e rocciosi, si affianca un’area pedecollinare mediamente più morbida, che lascia infine spazio all’incredibile Piana di Luni, con

terreni sabbiosi e vitigni posti nel cuore dell’antica città romana.

Le peculiarità di questi tre suoli si riflettono, ovviamente, sul bouquet di sentori e sapori delle dodici etichette prodotte da Ca’ Lunae, ove il vermentino la fa da padrone.

Vera e propria gemma dell’Azienda, il vermentino risulta essere un vitigno delicato, le cui uve necessitano di esser colte nel momento corretto per ottenere una giusta freschezza e acidità.

Mission del dinamico ed eclettico Diego Bosoni, quella di sfatare l’idea di un vermentino unicamente fresco e atto al consumo estivo, bensì di promuoverlo a prodotto capace di affrontare il tempo, traendone beneficio. È in quest’ottica che “Ca’ Lunae” ha concepito “Numero Chiuso”, piccola chicca enologica (sono solo 2600 le bottiglie prodotte annualmente), che vede luce dopo 18 mesi di affinamento in

di Lorenzo Braschi
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botte e altrettanti in bottiglia Naturalmente, l’essenza fresca e sobria del vermentino non viene dimenticata dall’Azienda; ne è un perfetto esempio “LaBianca”, prodotto figlio della Piana di Luni. Un palato delicato, avvolgente e inebriante, risultato del perfetto sposalizio fra vermentino e malvasia, altro vitigno importante in queste zone.

Dopo una giornata passata fra vigneti, cave di marmo e tintinnanti calici, è il momento di sedersi a tavola; la scelta ricade su un pluripremiato indirizzo in zona.

“Locanda de Banchieri” racconta una bucolica realtà fra le colline di Fosdinovo (MS), un resort di charme ricavato dalle fondamenta di un’antica villa patrizia, circondata dal verde in ogni sua declinazione. Quattro moderne camere, con vista mozzafiato sul Mar Ligure, una moderna piscina di acqua salata e un ristorante di alta

cucina, permettono all’ospite di immergersi appieno nel rilassante mood della Lunigiana. Patron della struttura ed executive chef dell’omonimo fine dining è Giacomo Devoto, sarzanese giramondo che, dopo anni alla guida del Rifugio Belvedere in Valle d’Aosta, ha scelto di tornare con grandi ambizioni nella propria terra. Quella di Giacomo è una cucina in totale simbiosi con il territorio, lambita dai molteplici venti interregionali che accarezzano il territorio lunigianese.

La filosofia di chef Devoto bypassa l’ormai universale binomio tradizioneinnovazione (concetto talmente inflazionato da risultare oramai ben poco interessante e credibile), concentrandosi su un autentico stravolgimento della cucina tradizionale. Gli ingredienti rimangono gli stessi, come il prodotto ittico di prima qualità e un’enorme varietà di erbe e vegetali, rigorosamente

coltivati nel curatissimo orto adiacente al locale. Ciò che muta è l’essenza della ricetta: abbinamenti curiosi e innovativi fanno de “La Locanda de Banchieri” un indirizzo estremamente attuale e coerente con il territorio circostante.

Fulgido esempio di quanto appena scritto lo si ritrova nel Risotto, estratto di zuppa di mare, erbe selvatiche, autentico signature dish di chef Devoto. Riso di ottimo livello, estratto di zuppa di cefalopodi e cinque erbe “di casa” come basilico, finocchietto, tagete, menta, cedrina. A mitigare il tutto, come un navigato direttore d’orchestra, un burro di cipresso dai sentori morbidi e legnosi.

“Ca’ Lunae” e “Locanda de Banchieri” rappresentano, quindi, due eccellenze di un territorio ancora poco battuto dal turismo di massa; un’area “no borders” che può contare su un glorioso passato e su un futuro certamente roseo.

SO WINE
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Le nostre etichette iconiche: dieci vini mitologici

Nella sconfinata vastità del panorama enologico ci sono vini che per le loro caratteristiche e per la loro storia sono entrati a far parte del mito. Vini che mettono quasi tutti d’accordo nel dire che siano in assoluto i migliori; rare chimere che i collezionisti più appassionati inseguono alle aste, rilanciando millino su millino. Sia chiaro, un vino non assurge alla categoria di “vino mitologico” soltanto perché è caro, quanto piuttosto per un insieme di fattori, tra i quali bisogna considerare l’elevato consenso di cui gode, la sua conoscenza diffusa tra gli strati della popolazione, la rarità dello stesso e, ovviamente, il fatto che sia al vertice della piramide qualitativa. Un esempio perfetto di questo fenomeno è rappresentato dal Sassicaia, il “supertuscan” che chiunque ha sentito nominare in Italia e che qualunque straniero appassionato di vino sogna di degustare in Toscana. Il suo prezzo è molto lontano dalle cifre a quattro o cinque zeri che raggiungono certi vini stranieri, ma non per questo è meno iconico. Un’ultima premessa, doverosa, prima di svelarvi quelli che secondo noi sono 10 vini mitologici, è che avremmo avuto bisogno di molti più posti in classifica. Riflettendo su quali siano i vini più iconici di sempre, come non pensare all’Amarone di Quintarelli, allo Château Rayas della Valle del Rodano, o ancora ai produttori di Riesling della Mosella? Abbiamo dunque voluto selezionare i vini più diffusamente conosciuti nello scenario collettivo, gli inarrivabili mostri sacri che meglio rappresentano l’idea del mito.

Sassicaia Tenuta San Guido

Probabilmente il vino italiano più conosciuto al mondo, il Sassicaia di Mario Incisa della Rocchetta e Giacomo Tachis ha dato il via alla produzione di taglio bordolese in Toscana e dal 2013 gode di una Doc a lui soltanto riservata. Zona: Bolgheri, Toscana; Uvaggio: 85% Cabernet Sauvignon, 15% Cabernet Franc; Colore: Rosso rubino; Gradazione Alcolica: 13,5%; Al naso: Amarena, mora, lavanda, tabacco, macchia mediterranea; Al palato: Tannini vellutati, intenso, di grande persistenza.

Ribolla Gialla Gravner

Josko Gravner è considerato il padre – in Italia – dell’antica tradizione georgiana della vinificazione in anfora. I suoi vini, ottenuti secondo i principi della biodinamica, macerano in anfora con le bucce per circa 6 mesi; quindi, vi riposano per altri 6 mesi prima di sostare 6 anni in botte e 6 mesi in bottiglia.

Zona: Oslavia, Friuli-Venezia Giulia; Uvaggio: 100% Ribolla gialla; Colore: Giallo dorato con riflessi ambrati; Gradazione Alcolica: 14%;

Al naso: Albicocca, erbe aromatiche, agrumi canditi, resina; Al palato: Voluminoso e avvolgente, fresco, sapido, lunghissimo.

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di Adriana Blanc Dalle Langhe al Trentino alla pianura padana: arriva la stagione più ambita dagli enoappassionati e dai gourmet. Ecco le dieci etichette più ambite
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Barolo Riserva ‘Monfortino’ Giacomo Conterno

In un tempo in cui il vino veniva venduto sfuso in damigiana, Giacomo Conterno inizia a imbottigliare il suo Barolo ‘Extra’, dando il via alla produzione di Barolo come lo conosciamo oggi. Anni dopo il figlio Giovanni acquista alcuni ettari del vigneto Francia, che ancora oggi dà vita a questo vino, consacrandone il successo.

Zona: Langhe, Piemonte; Uvaggio: 100% Nebbiolo; Colore: Rosso granato; Gradazione Alcolica: 15%;

Al naso: Violetta, rosa canina, cedro, incenso, liquirizia;

Al palato: Profondo e potente, di grande equilibrio e persistenza.

Champagne Dom Pérignon

È pressoché nota a tutti la storia di Pierre Pérignon, l’abate francese che si dice abbia creato lo Champagne. Quel che è certo è che ancora oggi a lui si deve la selezione dei vitigni più vocati per dare alla luce questo vino, ma anche l’ideazione di tecniche che permisero di affinarne la produzione, come l’uso del tappo di sughero.

Zona: Champagne, Francia; Uvaggio: Pinot Nero e Chardonnay in misura variabile; Colore: Giallo dorato; Gradazione Alcolica: 12,5%;

Al naso: Burro, agrumi canditi, pane tostato, erbe aromatiche; Al palato: Cremoso, vivace, con un grande equilibrio tra sapidità e freschezza.

Sauternes Premier Grand Cru Chateau d'Yquem

Da quando nel 1855 questo Sauternes si è guadagnato la classificazione di Premier Grand Cru, si è tramandata la sua fama di miglior vino botritizzato al mondo. La sua produzione è maniacale, con vendemmie che durano almeno un mese e mezzo, effettuate a mano, acino per acino.

Zona: Bordeaux, Francia; Uvaggio: 80% Sémillon, 20% Sauvignon; Colore: Giallo dorato intenso; Gradazione Alcolica: 13,5%;

Al naso: albicocca, zafferano, miele, burro, tè bianco, tabacco; Al palato: Dolce, morbido e avvolgente, di lunghezza infinita.

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Pomerol ‘Petrus’ Grand Vin Petrus

Nato da un’intuizione di madame Loubat, che nel 1920 iniziò a vinificare le uve coltivate su un terreno che al tempo era considerato di seconda categoria, il Petrus batté sul mercato tutti i vicini e altisonanti ‘chateau’ bordolesi, ben presto configurandosi come la chimera di quel territorio.

Zona: Bordeaux, Francia;

Uvaggio: 95-100% Merlot, 0-5% Cabernet Franc; Colore: Rosso rubino con riflessi granati; Gradazione Alcolica: 13,5%;

Al naso: Prugna, amarena, grafite, sottobosco, liquirizia; Al palato: Muscoloso, potente, con una bella morbidezza in chiusura.

Romanée Conti Grand Cru Domaine de la Romanée-Conti

I vini di questa cantina sono senza dubbio i più ambiti al mondo e rappresentano un vero e proprio punto di riferimento del panorama enologico. Un ‘domaine’ di origini antiche, a suo tempo conteso addirittura da Louis Francois di Borbone Principe di Conty, il favorito di Luigi XV, e l’amante del Re di Francia, Madame de Pompadour.

Zona: Borgogna, Francia; Uvaggio: 100% Pinot Noir; Colore: Rosso rubino; Gradazione Alcolica: 13%;

Al naso: Mora, arancia sanguinella, grafite, chiodi di garofano, petali di rosa; Al palato: Sferico, tannini di velluto, grande potenza, intensità ed equilibrio e una nitidezza di sapori unica.

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Grange Bin.95 Penfolds

Una storia curiosa quella dell’azienda fondata a fine ‘800 dal medico inglese Christopher Rawson Penfold, che iniziò a produrre vino a scopo curativo. Oggi l’azienda appartiene alla Tooth and Co. che, come il suo predecessore, propone vini realizzati secondo i più alti standard qualitativi.

Zona: Barossa Valley, Australia; Uvaggio: circa 95% Shiraz, 5% Cabernet Sauvignon; Colore: Rosso rubino intenso; Gradazione Alcolica: 14,5%;

Al naso: Mora, ribes nero, anice, cacao, note carnacee;

Al palato: Un ottimo bilanciamento delle varie componenti, con una spiccata morbidezza a chiudere il sorso.

Opus One

Opus One Winery

L’intento di creare un grande taglio bordolese negli Stati Uniti è stato concretizzato da due uomini: il barone Philippe de Rothschild di Chateau Mouton Rothschild e il vignaiolo americano Robert Mondavi. Nel 1982 è nato così Opus One, che in etichetta riporta il profilo dei suoi due stimatissimi padri.

Zona: Napa Valley, California; Uvaggio: 84% Cabernet Sauvignon, 6% Petit Verdot, 5% Merlot, 4% Cabernet Franc, 1% Malbec; Colore: Rosso rubino; Gradazione Alcolica: 14%; Al naso: Ribes, mirtilli, rosa rossa, caffè, cacao; Al palato: Tannini di velluto, freschezza, grande persistenza.

Screaming Eagle

Si conosce poco del vino più chiacchierato e ambito degli Stati Uniti, la cui prima annata – 1992 – nel formato di 6 litri venne battuta a un’asta per mezzo milione di dollari. La proprietà è passata da Jean Phillips a Stanley Kroenke, che oggi continua a produrre soltanto poche bottiglie ogni anno, continuando così ad alimentare la leggenda che circonda questo rarissimo vino.

Zona: Napa Valley, California;

Uvaggio: 100% Cabernet Sauvignon; Colore: Rosso rubino; Gradazione Alcolica: 13,5%;

Al naso: Prugna, lampone, arancia rossa, cuoio, cioccolato fondente, note fumé;

Al palato: Rotondo, elegante, sottile e intenso, con una grande freschezza.

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Piccini 1882, viticoltori da cinque generazioni

Duecento ettari vitati per un’azienda vinicola che punta da sempre sul rispetto assoluto del territorio, valorizzandone le potenzialità. Dal Chianti Classico alla Maremma fino all’Etna e al Vulture

Le cinque generazioni che fanno grande il marchio Piccini 1882 sono sinonimo di fedeltà al territorio, rispetto e visione lungimirante. Per una delle cantine che ha fatto grande il vino Toscano e in particolare il Chianti si parla di numeri da capogiro: 25 milioni di bottiglie, 200 ettari vitati di proprietà circa dove si aggiungono i 500 ettari del chianti geografico, 102 milioni di fatturato di cui circa 70 milioni di export e, la presenza in 80 paesi del mondo. La Fattoria di Valiano immersa nel Chianti, più precisamente nel territorio di Castelnuovo Berardenga, Tenuta Moraia

in provincia di Grosseto e Villa al Cortile a Montalcino, sono i 3 territori toscani dove la famiglia ha valorizzato il concetto di impresa a conduzione familiare apportando, anno dopo anno, qualità e innovazione. 140 anni di storia che iniziano con Angiolo Piccini e la sua acquisizione dei primi 7 ettari di vigneti a Castellina in Chianti nel 1882

Il Re-branding, proprio nel 2021, pone l’azienda come un “unicum”, come dice Mario Piccini, amministratore delegato ed esponente della quarta generazione “È la casa madre che comprende tutte le tenute e l’emblema dell’universo valoriale che da sempre guida il nostro lavoro quotidiano”.

Ne sono ben consapevoli i figli, Ginevra, Benedetta e Michelangelo, pienamente coinvolti in quello che sembra essere un progetto in continua espansione attraverso attività commerciali e comunicative del gruppo. I macchinari di ultima generazione, un ingente investimento nel comparto delle risorse umane e la nuova bottaia di Casole d’Elsa, nuovo polo produttivo, lancia Piccini 1882 ad un continuo miglioramento organizzativo e produttivo.

Regio Cantina, Torre Mora e Porta Rossa

Non solo Toscana e Sangiovese per la cantina che ha inventato il Chianti Etichetta Arancio, celebre in tutto il mondo. Sfide continue che portano produzioni di vini di diversi vitigni autoctoni italiani. È il caso della Regio Cantina del Vulture, nel cuore della Basilicata. Alle pendici di questo vulcano spento infatti, si estendono i 15 ettari vitati acquisiti nel 2010 che permettono una produzione di 70 mila bottiglie di Aglianico. La vendemmia che inizia a Novembre e che risulta essere l’ultima dell’Italia ammalia non solo il mercato Italiano ma anche Giappone, Usa e Olanda.

Torre Mora è la cantina dell’Etna che racchiude il raccolto dei vigneti di proprietà del versante Nord. Il terreno vulcanico caraterizzato dal ph acido rende fertile la viticultura che anno dopo anno rende sempre più piacevole la produzione di questa zona.

Infine l’acquisizione della primavera del 2022 aggiunge al vasto comparto vitivinicolo anche la Cantina Porta Rossa, situata nelle Langhe

Mario Piccini assicura il grande rispetto del

di Daniele De Nicola
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vincolo fra vino e il loro luogo d’origine esaltando sempre la filosofia produttiva locale. Con questa annessione è lecito dire che Piccini 1882 tocca gran parte d’Italia attraverso tutti i suoi vitigni a conduzione biologica e chissà se, nei prossimi anni, un’altra regione avrà l’onore di ospitare la famiglia che entrando sulle punte dei piedi rende grande ciò che tocca.

Il Chianti Geografico

Le stupende e imparagonabili colline toscane hanno sempre richiamato l’attenzione di turisti e curiosi, un inconfondibile scorcio fra viti e boschi che tutto il mondo ci invidia. Negli anni Sessanta, all’ombra di un casolare, un gruppo di 17 agricoltori lungimiranti, decide di unirsi nell’Associazione degli Agricoltori del Chianti Geografico. Si crea cosi, a tutti gli effetti, una cantina sociale che tutela l’identificazione del territorio e soprattutto il rilancio dell’economia locale. Le colline di Gaiole, Radda e Castellina pertanto godono del contributo della cooperativa per far si che il vino che ne deriva venga conosciuto in tutto il mondo. Questo movimento riassunto nel “Metodo Geografico” porta un successo a livello mondiale del Chianti Classico senza mai allontanarsi dal concetto di territorio e dall’appartenenza che ne deriva.

Dopo appena cinque anni da 2000 hl prodotti si è passati a 13000 hl, i conferitori di uve aumentano ogni anno e la cooperativa assume sempre più prestigio e importanza, non solo economica. Negli anni Settanta nasce la prima etichetta della cantina che rappresenta i tre stemmi di Radda, Gaiole e Castellina.

Nella fine degli anni Ottanta diventa una delle realtà di grande successo con una produzione complessiva di 45000 quintali di uva per annata e circa 1,2 milioni di bottiglie vendute in Italia e

all’estero. Negli anni seguenti sebbene la cantina abbia continuato ad innovarsi ed investire, concorrenza e varie contingenze economiche portano la cooperativa ad una sofferenza sul mercato. Nel 2010 iniziano i primi allarmi per giungere al 2015, anno in cui la liquidazione volontaria è alle porte. Proprio in questo momento la storia della famiglia Piccini si intreccia a quella della cooperativa degli Agricoltori del Chianti Geografico: insieme iniziano a scrivere un nuovo capitolo della viticoltura del territorio. Nel 2015 la storica virtuosa famiglia ne assume la gestione per poi prenderne le redini definitivamente nel 2018. Senza mai alterarne la filosofia produttiva e raccogliendone con rispetto l’eredità, Mario Piccini rinnova con estrema attenzione il costante impegno teso alla tutela dei suoi agricoltori ampliandone e migliorandone la gestione. Sceglie la consulenza di uno dei più importanti enologi a livello nazionale, Riccardo Cotarella, che va ad affiancare il talentuoso e giovane enologo Toscano, Alessandro Barabesi

Siamo certi che la loro cooperazione porterà una rinascita della storica cantina sociale e ci auguriamo che la scelta della famiglia Piccini possa trovare lustro per il vino che ci rappresenta in tutto il mondo.

I terzieri

Gli Agricoltori del Chianti Geografico festeggiano quest’anno il loro sessantesimo anniversario e per celebrare questo importante traguardo hanno deciso di svelare una linea che esalta il vitigno principe del territorio: il Sangiovese.

La sfida si propone di raccontare l’immenso patrimonio culturale e vinicolo dei tre storici comuni del chianti Classico, definiti in antico “Terzieri”.

Grazie al supporto di Andrea Gori, uno dei piu grandi “wine expert”, che ha orchestrato la degustazione di questi 3 importanti Cru, si è riuscito a capire

le diverse sfaccettature del terroir. È incredibile quanto esposizione, inclinazione, altezza e via discorrendo, possa cambiare il corredo olfattivo e organolettico di un vino di uve raccolte a pochi chilometri di distanza. Terziere di Tramonto ( Radda), Terziere di Levante ( Gaiole) , Terziere di Ponente (Castellina) sono le 3 bottiglie che provengono dai su menzionati luoghi che esaltano le diverse espressioni e profili del Sangiovese. Che dire, quando l’eleganza e la piacevolezza dell’analisi gusto olfattiva trionfa possiamo solo che essere orgogliosi e vantarci di un vitigno cosi maestoso. 

SO WINE
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IL PRIMO VALDOBBIADENE DOCG BIOLOGICO VALDO, LA NOSTRA DICHIARAZIONE D’AMORE ALLE COLLINE DI VALDOBBIADENE.

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UOMO DELLE STELLE

1. Alto Adige, ogni volta una scoperta fantastica

Alto Adige, ogni volta una scoperta fantastica

La Cantina di Kaltern/Caldaro, meta di una mia recente visita, esprime perfettamente il concetto di terroir, cavallo di battaglia dell’offerta enoturistica

L’estate

del 2022 la ricorderò come la più calda degli ultimi dieci anni. Ero in cerca di frescura e senza pensarci sono scappato in Alto Adige. Il Lago

di Caldaro mi ha accolto con le sue tipicità e mi sono lasciato piacevolmente affascinare dai prodotti locali e dai racconti che mi hanno regalato gli abitanti del posto. Andare a Caldaro e non visitare la cantina Kaltern è

UDS
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errore da non commettere. E, ovviamente io, non l’ho commesso! Ad accogliermi è stato il grande Andrea Moser, l’enologo che riesce a declinare l’Alto Adige con un obiettivo costante: fare grandi vini. Cantina Kaltern è l’espressione più grande dell’Alto Adige. Una cantina sociale che abbraccia un universo di mani e menti. Infatti, sono 650 i soci a lavorare e a raccontare 450 ettari di vigneto. Inoltre, nel 2019 Cantina Kaltern è stata la prima cantina italiana a fregiarsi del sigillo FAIR’N GREEN. FAIR’N GREEN è il marchio della viticoltura sostenibile pensato e realizzato da e per

UOMO DELLE STELLE
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produttori di vino. È nato in Germania nel 2013, da allora è stato scelto dalle più importanti aziende vitivinicole tedesche e oggi è tra le più autorevoli certificazioni per la viticoltura sostenibile in Europa. Cantina Kaltern ha puntato a migliorare i propri parametri lavorando ancora meglio sui vigneti, sull’energia solare, sulla gestione dei rifiuti a 360° e infine sulle bottiglie. A coronare le espressioni dell’Alto Adige, c’è la linea d’eccellenza della cantina che parla di vini autorevoli, la linea Selezioni. Un discorso diretto e continuo tra uve autoctone e internazionali che in 15 etichette parlano di tutto il territorio del lago di Caldaro. Ma è Quintessenz, la gamma che esprime all’eccellenza le idee di cantina Kaltern. La linea Quintessenz vinifica in purezza cinque vitigni: Pinot Bianco, Cabernet Sauvignon, Schiava, Cabernet Franc, Moscato Giallo. In quella mattina di caldo afoso, la freschezza di Caldaro mi ha portato a degustare due vini della cantina Kaltern che racconto con piacevole trasporto. Cuore pulsante per ragioni storiche e chiaramente di territorio è la schiava. Già conosciuta nel Medioevo, la schiava oggi è il vitigno più coltivato in Alto Adige. Ed è con queste uve che Moser sfida i luoghi comuni di un vino che per troppo tempo non ha avuto la giusta considerazione, nonché lavorazione, qualitativa. Moser infatti porta la declinazione di questo vitigno a espressioni notevoli che non cadono in un inutile strafare di cantina ma che restano espressioni di quel vitigno che per sempre sarà ambasciatore del territorio altoatesino. Nello specifico, Quintessenz Kalterersee Classico Superiore Doc 2021 è una schiava che viene prodotta nella zona di Caldaro. La spinta qualitativa avvenuta dagli anni 2000 è in maggior parte orgoglio della cantina Kaltern che in questa bottiglia ha interpretato il vitigno ai suoi massimi livelli, puntando non più alla quantità ma all’eccellenza. Un vino semplice che nel

Foto credits: Interni cantina ©Alex Filz
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calice Kaltern si traduce in un racconto empatico di un terreno argilloso, ciottoloso calcareo, ben drenato e caldo che dona alle sue viti la possibilità di diventare un vino con punte degustative notevoli. Un rosso rubino che si lascia trasparire da un naso ricco di ciliegia e lamponi. Un sorso pieno e sapido che nel suo morbido tannino si sposa a un fresco antipasto. Non è un vino di grande struttura, ma un vino che si sceglie per la sua freschezza e bevibilità.

Piccola curiosità, nella cuvée Quintenssenz Kalterasse 2017 ci sono vigneti che hanno anche 100 anni. Dire Alto Adige è dire Pinot bianco. Dire Pinot Bianco è dire eleganza. Kaltern affida al suo Pinot bianco e alla sua produzione che si aggira intorno alle 12-15 mila bottiglie il compito di parlare approfonditamente delle particolarità del territorio altoatesino. Dicevamo eleganza, che Moser riesce a rendere possente. Anche qui l’espressione magistrale è affidata alla linea Quintessenz che nel suo Pinot Bianco esalta in note speciali; un vino che non è mai opulento, ma un calice che riesce a soddisfare una bevuta intensa e nei limiti contemplativa. Finezza è il segreto che Moser riesce a tener ben svelato a ogni sorso. Un vino che diventa possibilità per le sfumature territoriali altoatesine di raggiungere grandi obiettivi. Un colore giallo paglierino che con leggere pennellate verdoline apre il naso su note fruttate ed erbacee, accompagnate da sentori di mela gialla, melone, camomilla e grafite. Un vino armonico che lascia in bocca una bella cremosità in un ricordo fresco e minerale. Nella mia passeggiata a Caldaro ne sono uscito arricchito da quel mondo così sospeso tra l’Italia e il suo opposto, tra persone anime e mani che riescono a raccontare radici che appartengono anche a noi. Un territorio così ricco, così unico che dal punto di vista vitivinicolo riesce a esprimere idee e storie che arricchiscono il nostro patrimonio umano.

UOMO DELLE STELLE
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Ronin a Milano Il Sol Levante abita qui

Un omaggio raffinato alla cultura giapponese. In uno scenografico edificio liberty di quattro piani si sviluppano format differenti, per stile, design e atmosfera. E le proposte di food e beverage sono ben caratterizzate

Premessa

doverosa: non sono solito “scegliere” per questa rubrica ristoranti in cui l’aspetto trendy e modaiolo travalica o sorpassa la qualità della cucina, relegandola a un ruolo secondario. Mi spiego meglio: ai ristoranti che vengono frequentati soprattutto dalla clientela che ama “farsi

notare” preferisco quelli in cui si fanno notare i piatti, per la loro bontà e per la loro bellezza. Beh, Ronin rappresenta entrambi questi valori, perché è un locale di successo (prenotare almeno un mese prima) ma anche un luogo di cucina ben strutturata, più che ragguardevole, in alcuni casi eccelsa. Sì, perché il milanese Ronin esprime in modo straordinario la combinazione di diversi aspetti: taste & trendy verrebbe da dire. Ovvero, da Ronin l’attenzione alla qualità estrema e ricercata delle materie prime e delle tecniche di cottura e servizio, va di pari passo con la tendenza “hot”, in una sorta di offerta eclettica, versatile e rivoluzionaria nei toni, nei sapori, nei colori, nella musica, nell’espressione artistica. A questo va aggiunto un servizio particolarmente gentile e personalizzato, aspetto che proprio non guasta in questi tempi di generale peggioramento della qualità della sala, legato ai noti problemi di personale qualificato.

Diciamo che, questa volta, la nostra “Choice” è dunque caduta su un luogo il cui “piatto-bandiera” si chiama atmosfera: un’atmosfera resa ancora più importante da una linea di cucina particolarmente interessante. E che che ben si adatta a molteplici occasioni, dalla cena intima alla serata conviviale tra amici, all’esperienza gastronomica individuale, alla cena d’affari. In un certo senso, Ronin è la “luna elettrica che brilla nel cielo di Milano”, come si legge in una presentazione del locale, fatta all’apertura, a inizio anno. Tutto parte dalla constatazione di una evidenza che, ancora prima che gastronomica, è sociale. Nella città d’acciaio sembra non esistere più alcuna distinzione tra gaikokujin (ovvero i forestieri, usando uno slang giapponese) e indigeni.

Da questa base si sviluppa la proposta trasversale di Ronin. La cultura giapponese e quella italiana procedono dunque in sincrono: nessuno a Ronin può considerarsi

di Alberto Schieppati La rubrica del Direttore
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straniero, né si sente tale. “Una sorta di tempio in cui avviene un vero e proprio pastiche post-moderno, la nuova Futurama, la più luminosa finestra sul mondo di domani…” ci dice il collega Guido Bernardi che ha fatto di Ronin il suo benchmark di ristorazione contemporanea.

Cinque anni di studio e ricerca hanno dato vita a quattro livelli di questo palazzo nel dinamico quartiere di Chinatown, in zona Sempione-Paolo Sarpi.

“Un risveglio a Tokyo in una delle zone

più popolari di Milano creato da tre imprenditori, veri gaijin-san. Un varco spazio-temporale che unisce oriente ed occidente, tradotto in un viaggio in stile Retro Futurism che guarda al futuro e al passato, ma è fortemente radicato nel presente” aggiunge Guido.

Solo entrando nella palazzina illuminata con le tonalità shocking del rosa ci si rende conto di una realtà completamente atipica per Milano. Troppo avanti? Troppo audace? Troppo estrema? Provare per capire, per

credere, per condividere. Senza diffidenze né pensieri preconcetti.

Il gruppo Salva Tu Alma ha curato anche il restyling della piazza fra via Alfieri e via Canonica su cui si sviluppano i quattro livelli, autentici e multiformi, ognuno di essi simbolo di una Milano/Tokyo diversa e lucente.

Al piano terra, l’Izakaya del Piccolo Ronin: un luogo di passaggio, rapido, dove mangiare piccole chicche della cultura gastronomica giapponese e bere veloci drink alcolici

ALBERTO'S CHOICE
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nell’atmosfera loud vibes del Listening Bar “curated by Ultimo Tango”. Salendo al primo piano si entra nel Robatayaki di Ronin: a colpi di shabu shabu, dove lo chef romano Gigi Nastri comunica con le mani, con il fuoco (Robata è il nome della griglia giapponese) e con la materia cruda del Raw bar. Qui si vive l’ esperienza di una cucina vera, con tanto di Chef’s table, in una sorta di fine dining che riesce a trasformarsi (sul filo dell’estremo) in uncooking show permanente. L’anima gourmet delle proposte food sta in un ordinato menú che parte dal Sashimi Ronin, ricco e intrigante, per arrivare a Uramaki di melanzane affumicate, Uramaki di tonno rosso e foie gras, Nigiri di gambero blu passando poi a a Gyoza formidabili ( ai carciofi, al pollo Yakiitori, all’anguilla affumicata) e raggiunge poi il capitolo carne: ottima la Bavetta di manzo alla cenere, così come la mitica Wagyu, proposta in diverse varianti. Noi abbiamo preferito la Ribeye fa 250 grammi ma anche il Controfiletto si presentava succoso e sgargiante. Robata è

il cuore caldo di Ronin, il fuoco vivo che riscalda gli animi degli avventori. E riesce a soddisfare anche le aspettative dei più esigenti cercatori di sapori veri nel piatto. Al secondo piano, su 200 metri quadrati, quattro salette private karaoke per abbandonare corpo e mente e ritrovarli nel canto a squarciagola e nelle proposte food & beverage a base di premium spirits, cocktail & sake bar. In tutte le sale è possibile ordinare il meglio di late night drinks e creazioni di mixology in puro stile “notti a Shinjuku”, curate dal bar manager Riccardo Speranza. Sullo stesso piano, l’altra faccia dell’ultra tradizionalismo Giapponese: l’Omakase, vera e propria boutique dinner experience partita nella seconda fase del progetto, con le suggestioni da remoto del Maestro Katsu Nakaji, lo chef leggendario di Tokyo, e che vede oggi l’alternanza di chef italiani alla guida della cucina. Omakase roulette ha visto, ad ottobre, alternarsi chef italiani ai fornelli, con la presenza di professionisti della cucina ora estrosi ora bizzarri.

Ma Ronin è anche un Member’s Club, un club privato in perfetto stile britannico. Uno spazio ovattato, riservato ed esclusivo, in linea con le nuove tendenze in atto (vedi il Cipriani di via Palestro, il cui accesso è riservato ai soci).

“Ronin è il nuovo ponte immaginifico tra qui e l’altrove, una strada in cui perdersi inebriarsi e ritrovarsi”, continuo a leggere e, in un certo senso, mi sento di confermare, dopo la prima e la seconda visita. Ronin è il ricordo vibrante di un viaggio da cui torni con idee diverse sulla ristorazione. “Si varca la porta e per qualche ora ci si sente lontani, lontanissimi, come se ci si fosse trasferiti in un altro mondo,” ci dice una ragazza che, da quando ha scoperto Ronin, ne ha fatto il proprio luogo di riferimento in città. Un mondo lontano, certo: non sappiamo se necessariamente migliore di altri, ma diverso, diversissimo, luminoso, vivo, fantasmagorico. Lontano dalle omologazioni e, al tempo stesso, almeno fino ad ora, “integralmente” immune da imitazioni e scimmiottamenti. Ci pare già un buon risultato.

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Ronin, melting pot multisensoriale

La visione dei proprietari, tre ragazzi italiani innamorati del Giappone, è quella di un futuro senza più distinzioni nette tra culture e tradizioni locali: non a caso lo chef Luigi Nastri, che è romano, propone nello stesso menù risotto e udon, te pura e wagyu, uramaki e ostriche, gyoza alla mela e piccione con carote. In un tempo in cui il concetto di “appropriazione culturale” fa impazzire il mondo della moda, della musica e della bellezza, Ronin pensa già al dopo. A una Chinatown del 2150, in cui “la cultura giapponese e quella italiana procedono in sincrono”, in cui “nessuno può considerarsi straniero”. In cui la lingua arrosto si mangia dopo il sushi, con un deciso superamento di quelli che, fino ad oggi, abbiamo definito linee identitarie. Ma il motivo per cui questo nuovo ristorante sta facendo letteralmente impazzire i milanesi non è solo legato alla sua cucina, ma anche alle proposte fortemente caratterizzate. Dal piano terra con il Piccolo Ronin, il bar-ristorante informale in cui mangiare e bere in compagnia fino al vero e proprio ristorante Ronin Robata, fino a salire al terzo piano con la sorpresa delle sale private karaoke. Il bar Madame Cheng, poi, ricorda le atmosfere eleganti raffigurate dal regista cinese Wong Kar Wai ed evoca romantiche sedute orientali a base di drink esotici e internazionali. Infine, al quarto piano, sorpresa sulle sorprese, solo per pochi soci, e solamente su invito, si accede al club privato.

ALBERTO'S CHOICE I numeri Cucina: ........................ 8 Vini: ............................. 7 Servizio di sala: .......... 9 Location: ..................... 10 Atmosfera: .................. 10 Totale: 44/50
Dove
Ronin Via Vittorio Alfieri, 17 20154 Milano Tel. 02 89367101 houseofronin.it #9 - 2022 NOVEMBER 43

Le Colture: quando famiglia è sinonimo di eccellenza

La famiglia Ruggeri, nel cuore di Valdobbiadene: una storia di passione, stile e competenze nella produzione di bollicine di alta qualità

uella della famiglia Ruggeri è una storia lunga oltre 500 anni, una straordinaria testimonianza di passione e rispetto.

A Valdobbiadene, nel cuore delle colline del Prosecco Superiore, in una delle cornici geografiche più rilevanti della viticoltura italiana, la famiglia Ruggeri è alla guida dell'azienda agricola La Colture e dedita da generazioni alla produzione di vini di alta qualità.

Situata a Santo Stefano di Valdobbiadene (TV), Le Colture ha saputo nel tempo mettere al servizio di un territorio uno straordinario patrimonio di esperienze nel settore vitivinicolo.

Lungo lo scorrere degli anni, la filosofia della famiglia Ruggeri è rimasta invariata nel tempo: "amore per la propria terra e rispetto per le tradizioni". Dai fondatori dell'azienda fino alle nuove generazioni, questa filosofia si manifesta in ogni singola bottiglia. Negli anni '80 è stato Cesare Ruggeri, supportato dalla moglie Biancarosa, a inaugurare l’attività imprenditoriale della cantina, ereditata dal padre Gerardo, che oggi può contare anche sulla partecipazione

dei tre figli Silvia, Alberto e Veronica, che hanno portato entusiasmo e un forte respiro innovativo nella gestione aziendale. In questo scenario, Le Colture sta affrontando la sfida di affermarsi come portabandiera di uno spumante di assoluto valore, non solo per l’alto profilo qualitativo dei vini prodotti ma anche per la profonda capacità di coltivare la vite sia in un contesto spesso impervio, sui pendii delle colline tra le più belle al mondo, sia in quelle più dolci della vicina zona del Montello. "Il nostro lavoro quotidiano è finalizzato

all’ottenimento della massima espressione delle diverse denominazioni, dal Valdobbiadene Docg al Prosecco Doc Treviso. Crediamo fermamente che la parola d’ordine debba essere eccellenza: le denominazioni del Prosecco sono diverse e la nostra ambizione e il nostro impegno sono quelli di produrre un vino capace di esaltare al meglio le tante sfumature che il vitigno Glera sa offrire. "Le Colture ha sposato infatti il mondo Prosecco in tutte le sue aree con l’obiettivo di elevare il più possibile la qualità e la rappresentatività

la famiglia ruggeri
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delle sue bollicine" rivela Alberto Ruggeri. Oggi, insieme alle sorelle Silvia e Veronica, è impegnato a pieno ritmo in azienda, dove ha portato una ventata di entusiasmo e il necessario respiro innovativo tipico delle giovani generazioni, senza però dimenticare l’amore per la propria terra ed il rispetto per le tradizioni.

La punta di diamante della cantina è il Cartizze, uno spumante dotato di grande ricchezza aromatica e raffinata morbidezza gustativa. L'origine del nome deriva dall'espressione dialettale “gardiz” ovvero il

graticcio sul quale veniva posta ad appassire l’uva. Si tratta di una sottodenominazione che interessa un’area molto ristretta situata nel comune di Valdobbiadene tra le colline più scoscese di Santo Stefano e Saccol. Un piccolo anfiteatro costituito da terreni di marne arenarie ed argille fa sì che la Glera raggiunga quasi una sovramaturazione, garantendo così un’inusuale concentrazione di aromi. Lo spumante, pur mantenendo la freschezza del Valdobbiadene DOCG Classico, diventa più amabile, denso di profumi che ricordano la frutta bianca,

l'albicocca e la pesca e che sfumano in una nota di fiori di agrumi e rosa.

Si contraddistingue per un perlage minuto e persistente, un color giallo paglierino scarico, un profumo intenso ed un sapore fruttato ed amabile.

Realizzato in un luogo prezioso e particolare, il mosto viene fatto fermentare in assenza di bucce a temperatura controllata. La presa di spuma avviene esclusivamente con metodo Charmat con rifermentazione in autoclave, in speciali recipienti a tenuta di pressione e a temperatura controllata per circa 30 giorni.

LE COLTURE
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Sostenibilità: tutti ne parlano, pochi la applicano. L’esempio di Villa Franciacorta

Il valore dell’ambiente si difende a fatti, e non a parole.

Roberta Bianchi e Paolo Pizziol hanno fatto della loro azienda vinicola un esempio eloquente di come si possa produrre nel rispetto assoluto della natura e dei suoi ritmi

Èdiventato

il tema del momento, purtroppo citato spesso a sproposito. Come ricorda il grande Carlin Petrini, fondatore di Slow food, il concetto di “sostenibilità” ha un significato ben più ampio di quello che domina la scena mediatica attuale (e del quale si parla spesso a sproposito). E poche sono le aziende che applicano questo concetto in modo serio e credibile alla propria produzione: in ambito vitivinicolo, ad esempio, ci sarebbero molti spunti da recepire per definire il concetto di sostenibilità in modo compiuto. E possiamo anche individuare realtà imprenditoriali che fanno la differenza, riempiendo di qualità e valore un concetto che, talvolta, rischia di rimanere astratto.

Villa Franciacorta, ad esempio, ha negli anni dimostrato in modo sempre più incisivo la convinzione che non si può prescindere da questi aspetti nella gestione di un’attività che, come in questo caso, ha a che fare con la terra, con i prodotti ad essa legati e con il territorio in cui si è radicati e si opera.

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Di seguito alcuni punti che riassumono ile molteplici sfaccettature dalle quali questa tematica è stata affrontata da parte della famiglia Bianchi-Pizziol, proprietaria di Villa:

• Cura dell’ambiente circostante e recupero conservativo dell’antico borgo.

• Realizzazione delle cantine perfettamente interrate, evitando ulteriore consumo di suolo e minimizzando l’impatto visivo, quest’ultimo rappresentato solo dai portoni d’ingresso adagiati ai piedi della collina.

• Attenzione all’utilizzo di energia rinnovabile, attraverso la realizzazione di un impianto fotovoltaico di 100 pannelli solari sulle coperture in grado di produrre annualmente circa KW 62.000.

• Inerbimento dei vigneti (sin dagli anni ’60) in grado di generare crediti di CO2, grazie a un sequestro permanente di CO2 che un vigneto inerbito garantisce.

• Uso della fisica e non della chimica nella stabilizzazione e nella chiarificazione dei vini con la tecnica del freddo.

• Igienizzazione delle botti e della cantina senza detergenti, ma con il solo uso di getti di acqua bollente.

• Recupero dell’acqua piovana, che prevede il riutilizzo della stessa per irrigare il prato della collina sovrastante, per la pulizia dei locali di cantina e per tutte le operazioni di lavaggio indispensabili in fase di vendemmia.

con riduzione del peso al fine di ridurne l’impronta ecologica. Questo ha comportato la realizzazione di una bottiglia più leggera dal 2016. La bottiglia è entrata nella gamma dei prodotti della vetreria e si tratta di un vero e proprio esempio di “Sviluppo più che Sostenibile: è generativo di valori” (Cit Roberta Bianchi).

• Selezione dei fornitori e sollecitazione degli stessi alla certificazione ambientale.

• Tutela della biodiversità in campagna: il paesaggio a Villa Franciacorta è vario, non omologato. Boschi di querce e noci, siepi, ulivi, parte a seminativo; in vigna inerbimento controllato e semina di specie azotofissatrici; sfalcio dell’erba a filari alterni per permettere la vita agli insetti fitofagi e di conseguenza di quelli entomofagi.

• Biopass: Sistema di verifica e studio della ricchezza del suolo in termini di sostanza organica e biodiversità del suolo: ricchezza di specie e popolazioni diverse.

• Tutela della biodiversità in cantina: utilizzo di lieviti indigeni selezionati all’interno della cantina.

• Presenza di arnie con api che pascolano nei terreni della azienda. Le api sono un indicatore biologico importantissimo, sensibile e capace di evidenziare la totale assenza di fattori inquinanti, pena la morte.

• Distanza dei terreni di tutta la proprietà da arterie stradali ad alta percorribilità.

• Sviluppo e mantenimento di un Sistema di Gestione Ambientale, certificati dal 2015 attraverso il sistema ISO , riesaminandone periodicamente l’adeguatezza e l’efficacia.

• Progetto di alleggerimento della bottiglia

Il Borgo Villa Franciacorta è dunque un esempio concreto di Sviluppo Sostenibile, non a caso l’Università Cattolica di Brescia ha scelto per rappresentare all’università di Cambridge un case history di riferimento sulla sostenibilità ambientale.

VILLA FRANCIACORTA
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Tour of Italy, il progetto Montelvini

Azienda vitivinicola con oltre centoquaranta anni di impegno ed esperienza nel settore, produce vini di qualità da cinque generazioni

Montelvini, con sede a Venegazzù nel cuore della DOCG Asolo Montello, la denominazione più rara ed esclusiva del Prosecco, è una delle realtà vinicole più dinamiche del panorama italiano. La cantina veneta si basa su 141 anni di impegno della famiglia Serena nella produzione di vini di qualità, esperienza tramandata di padre in figli da cinque generazioni.

L’azienda vitivinicola ha una duplice anima che si manifesta con un forte legame alla tradizione e al territorio e al contempo dinamica e moderna, che guarda al futuro con passione.

“La nostra mission - dichiara Alberto Serena, amministratore delegato - è legare lo sviluppo del Gruppo Montelvini al benessere dei nostri «alleati»: collaboratori, clienti e comunità in cui operiamo, rispettando i principi di sostenibilità, correttezza e del merito. Tradurre il valore e la bellezza del nostro territorio, la passione per il vino tramandata da generazioni, il rispetto dell’ambiente nella finezza e

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armonia dei nostri vini.”

In questa ottica, Montelvini ha avviato un progetto social per diffondere la cultura di Asolo e delle sue bollicine lungo l’Italia, grazie al supporto di una selezione di ristoranti e locali che hanno sposato la filosofia dell’azienda.

“A Tour Of Italy” è il nome dell’iniziativa che si è estesa da Nord a Sud, con il proposito di creare una sorta di guida digitale dei locali in cui poter ritrovare le migliori etichette Montelvini, accompagnate da una selezione di piatti capaci di esaltare le qualità organolettiche dei vini e al contempo di raccontare la cucina del territorio e l’esperienza degli chef. Parte della comunicazione è stata dedicata al design, in quanto tutte le location presentano un’estrema cura degli interni e attenzione per i dettagli. Questo è diventato un elemento distintivo per il consumatore che è alla continua ricerca di un’esperienza gratificante, unica e autentica.

La prima tappa è stata in Emilia Romagna, con il Ristorante Tramvia a Casalecchio di Reno. Un locale che condivide con Montelvini una lunga storia famigliare, tramandata da circa 150 anni, con alcuni piatti iconici come la rana e la lumaca, preparata con la stessa ricetta originale degli anni ’60, alla pasta fresca della tradizione emiliana fatta a mano. Un angolo di italianità che si manifesta anche nelle atmosfere calde e accoglienti dei mattoni e delle pietre a vista. Dall’Emilia alla campagna Toscana, nel Ristorante Acquarello, con un tuffo nella gastronomia locale con rivisitazione light e prodotti a km zero, direttamente dai produttori limitrofi, mentre i dolci sono una vera esaltazione del piacere. Lo chef Carlo Maionchi è mastro cioccolatiere, nonché autore di libri dedicati all’irresistibile mondo del cioccolato, le cui creazioni possono essere abbinate con il passito Luna Storta di Montelvini.

In Lombardia le tappe sono state ben tre,

tutte con un’identità ben distinta, a partire dall'Antica Osteria del Ponte immersa nel Parco del Ticino sulle rive del Naviglio Grande con una proposta contemporanea e creativa, ma fortemente radicata alla tradizione lombarda, gestito dallo chef Maurizio Gerola. Stesso approccio con un’ode alla biodiversità, grazie a fornitori locali, veri e propri artigiani del sapore, quello fornito dall’Osteria dei Malnat, nel capoluogo meneghino, che propone da generazioni le ricette milanesi ancora oggi amate e riconosciute ovunque. Dalla città ai monti con il Ristorante della Posta, situato nel cuore di Sondrio, tra le Alpi e il Lago di Como, dalla proposta di piatti della tradizione valtellinese presentati in modo eclettico dallo executive chef Matteo Fanoni.

Sui tetti di Mercato Centrale di Torino, a pochi minuti dal centro della città sabauda circondati dalle iconiche architetture, è possibile assaggiare i piatti dell’Osteria Social, format pensato e sviluppato dai blogger Cantina Social. La selezione di vini è accuratamente fatta da Matteo, Adriano e John, che hanno inserito le bollicine Montelvini per la loro eccellente qualità e la caratteristica struttura e sapidità.

Le eccellenze del territorio campano sono state rappresentante dal rinomato Ristorante Pupa, una chicca affacciata sul lago Miseno, dove tecnica e ingredienti di prima qualità sanciscono un legame valorizzato dalle etichette Montelvini.

La Puglia si inserisce nel progetto con la cucina apulo-nipponica di Chotto Chotto a Molfetta. Il nome del locale significa “a poco a poco”, un incontro da due universi culturali gastronomici fusi insieme dalla bellezza delle cose lente. Il Prosecco DOC

Rosè Treviso Brut Millesimato di Montelvini è sicuramente uno degli abbinamenti perfetti per i creativi piatti fusion.

Nella punta dello stivale, in Calabria, si erge la Terrazza Aragonese, che offre una perfetta esperienza al tramonto con vista mozzafiato

sulla Fortezza di Le Castella. Luogo magico in cui la brezza marina e la gestione dinamica fanno da cornice a fantastici cocktail, vini d’eccellenza e preparazioni culinarie, tra cui cruditè di pesce.

La Tavernetta sulla spiaggia di Porto Taverna è una piccola finestra sullo specchio d’acqua cristallino della Sardegna, con vista mozzafiato sull’isola di Tavolara. Il pescato d’eccellenza, in una delle calette più belle dell’isola, viene elegantemente servito in abbinamento a FM333 Asolo Prosecco

Superiore DOCG Brut Millesimato, si sposa perfettamente alle creazioni dello chef grazie alla sua spiccata acidità e perlage fine e cremoso.

Questo viaggio enogastronomico ha il sapore di un diario di bordo, che promette di svelare piccole perle nascoste del territorio italiano e di Montelvini è orgoglioso di far parte.

 MONTELVINI #9 - 2022 NOVEMBER 49

Partnership

We love to work and collaborate with interesting companies. Let’s have a cup of coffee together (at least a virtual one) and talk about the creative opportunities about becoming a partner of So Wine So Food.

Distribution

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So Wine So Food ha sede in via Roccagiovine 245, 00156 Roma e in Via Mosè Bianchi 22, 20149 Milano

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So Wine So Food è una testata giornalistica registrata Iscrizione al Registro Stampa del Tribunale di Velletri (Roma) n°10/2016 del 13/05/2016 Direttore responsabile: Alberto P. Schieppati

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