SportdiPiù magazine Veneto 63_2020

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ANNO 12 - N. 63 - APRILE / MAGGIO 2020 - Periodico Testata giornalistica iBarcoder Trial registrata al Tribunale di Verona n. 1807/2008 iBarcoder Trial

I PAOLO BARGIGGIA

I SARA SIMEONI

I ANDREA LUCCHETTA

I www.sportdipiu.net

# 63

E 5,00

magazine

#MAIMOLÀR

Ex rugbista passato all’hockey, autore televisivo, storico di rock e sport britannici, Luca Tramontin, la faccia ‘cattiva’ del Veneto nella serie TV internazionale Sport Crime. Simbolo di una terra che non molla mai, soprattutto nei momenti difficili.


Tdi SPORvenetoPIÙ

BL

promuove l’iniziativa

Sportivi veneti in aiuto degli Ospedali del Veneto per fronteggiare insieme l’emergenza COVID-19

TV

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VE

VR PD RO

In questo momento particolarmente difficile per l’emergenza Covid-19, la redazione di SportdiPiù magazine Veneto ritiene doveroso attivarsi al fine di poter aiutare, in modo tangibile, la Sanità della Regione Veneto. La nostra regione è tra le più sportive a livello nazionale per numero di praticanti/tesserati. In questi giorni (e ahimè chissà fino a quando) praticare sport è impossibile.

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Possiamo però essere ugualmente sportivi attivi partecipando a questa speciale ‘maratona’ solidale. Se tutti gli sportivi veneti, dal professionista all’amatoriale, dall’atleta al dirigente, dal tifoso al simpatizzante, donassero un euro, raggiungeremo la cifra stabilita in brevissimo tempo. E - molto probabilmente - potremo superarla alla grande. SportdiPiù magazine Veneto da oltre 12 anni racconta lo sport andando a conoscere da vicino i protagonisti, ovvero coloro che scendono in campo per giocare la loro partita e per cercare di vincerla. Tutti siamo protagonisti e scendiamo in campo per vincere la nostra sfida contro il Coronavirus.

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Dobbiamo aiutare chi ci sta aiutando: medici, infermieri, la nostra Sanità ha bisogno di NOI! Forza sportivi veneti, iniziamo a correre! La sfida, impegnativa, è iniziata ma insieme ce la faremo!

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#IORESTOACASA

4 Anche PallavoloSupervolley aderisce alla raccolta fondi

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L'editoriale

di Alberto Cristani Facebook-Square @albertobrunocristanivr instagram alberto.cristani70

Tiki-taka, melina, Covid-19 È davvero difficile scrivere qualcosa di originale sul Coronavirus (o Covid-19, chiamatelo come volete…), virus che da quasi tre mesi è entrato a gamba tesa nelle nostre vite, imponendoci un cambio radicale delle nostre abitudini. Ci abbiamo provato a evitarlo/esorcizzarlo: prima facendo finta che fosse una semplice influenza stagionale, poi dicendo che in pochi giorni sarebbe #andatotuttobene (con tanto di arcobaleni e serenate sui balconi) e infine disobbedendo alle restrizioni dimostrando che il senso civico, per una parte della popolazione, è utile solo per le esigenze personali. Il Covid-19, giorno dopo giorno, ci ha fatto però capire che le regole della partita le dettava (e le detta) lui. Non voglio entrare nel merito di cosa si poteva fare e di cosa si è fatto (e si sta facendo) per evitare/limitare i i danni. Certo è che un'emergenza del genere nessuno se l'aspettava e poteva prevederla. Per quanto riguarda l’aspetto socio-economico, questa pandemia lascerà nel nostro Paese, e nel resto del mondo, una ferita che riusciremo a sanare solo con il sacrificio e la pazienza di tutti. Ripeto: di tutti. Nei prossimi mesi dovremo rivedere molte delle nostre vecchie (e non per forza giuste) abitudini. Un esempio su tutti: lo stare insieme non sarà più un semplice momento di conviviale spensieratezza: distanze di sicurezza, mascherine, gel alcolici, guanti e pannelli vari ci impediranno di abbracciarci, stringerci le mani, di stare vicini. E cambierà pure il modo di lavorare, fare la spesa, andare in palestra, al ristorante, in vacanza, al cinema, dal barbiere, dalla

parrucchiera. Anche praticare sport - e assistere ad eventi sportivi - non sarà più come prima. Ad oggi i campionati sono (quasi tutti…) annullati, dalle eccellenze ai dilettanti, con buona pace di classifiche, scudetti, promozioni e retrocessioni. Ripartire presenta numerosi punti di domanda. In tal senso il Coni Veneto - con una lettera inviata al Presidente Zaia in data 21 aprile - ha espresso i dubbi e presentato le richieste affinché si possa cercare di programmare l'attività pro, dilettantistica, amatoriale e giovanile per la stagione 2020/2021. Si attendono risposte. Lo sport, è un comparto tra i più massacrati dal Covid-19 e in Italia vale l’1,7% del Pil, quantificabile in 30 miliardi di euro, che diventano il doppio se si considera anche l’indotto. L’impatto sull’economia nazionale sarà quindi davvero considerevole. Che fare? La formula 'magica', soprattutto se non arrivano risposte concrete da chi deve rimettere in piedi lo sport e, in generale, tutta l’economia italiana. Usando un gergo sportivo, probabilmente la cosa migliore da fare in questo momento è affidarsi a un propositivo tiki-taka (termine spagnolo tiki-taka con il quale si indica uno stile di gioco caratterizzato da una lunga serie di passaggi ravvicinati svolti con estrema calma in modo da imporre il proprio possesso di palla per la maggior parte della durata della partita n.d.r) mixato con una buona dose di attendistica melina (tattica di gioco consistente nel trattenere a lungo la palla mediante ripetuti passaggi da un giocatore all’altro allo scopo di far passare il tempo e conservare il risultato favorevole conseguito n.d.r.). Perchè quello che conta, soprattutto in questo momento, portare a casa il risultato. Tradotto in linguaggio comune: organizziamoci per ripartire, non buttiamoci a capofitto su nuove avventate iniziative ma nemmeno trinceriamoci in un controproducente immobilismo. Facciamo trascorrere questo tempo ma non sprechiamolo. Risparmiamo ma allo stesso tempo investiamo in aggiornamento e nuovi strumenti di comunicazione. Confidiamo nelle Istituzioni ma, allo stesso tempo, rimbocchiamoci le maniche. Non andrà tutto bene, ma non sarà nemmeno una disfatta. Il nostro futuro passa da questi step ma anche dalla mentalità sportiva perchè si scende in campo sempre per vincere, anche se l’avversario è più forte. E per farlo non basta solo correre ma serve intelligenza, tecnica, preparazione, coraggio. E anche un po’ di culo. Che, in questi casi, non guasta mai.

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Sommario

# 63 - APRILE/MAGGIO 2020 20 Luca Tramontin

COVER STO RY

48

Intervista

50

Intervista

56

#ROADTO2026

58

Intervista

62

Sport life

64

Intervista

68

Intervista

70

Intervista

72

Intervista

74

Intervista

Reportage fotografico

Giuseppe Nanu Galderisi (calcio)

Gianni Bellini (collezionismo figurine)

Andrea Lucchetta

Tiziano De Toni (pallamano)

Esca Mondiale

Virginia Tortella (nuoto)

Sofia Bommartini (vela)

Mattia Benamati (vela)

Giulia Salin (nuoto)

Alessio Marconi (freccette)

26

Sport Life

76

28

Intervista

80

Sport Life

32

Intervista

83

Intervista

10

Il corner di Tommasi

84

Intervista

11

Stare Bene

86

Stare Bene

3

Editoriale

8

Bar Toletti light

9

Uscita Verona Sud

12 14 16

Tiki-taka, melina e Covid-19

Mortacci e bontà

La prospettiva dello sportivo

Ciak, si gira!

Davide Campigotto (basket acrobatico)

Paolo Bargiggia (giornalista)

Mi dà pena, un ricorso va

Il mal di schiena

Città in quarantena

Donne e motori: gioie e solidarietà

Sabrina Tumolo (rally)

Pierpaolo Romani (editoria sportiva)

Questo tempo è strano

SPECIALE

Focus

CONI e CIP: "Lo sport del Veneto ha bisogno di aiuto

Hellas Verona

Difesa schierata

Il Premio di Preparazione: come agire in caso di mancato pagamento

Stare Bene

Come mantenersi in forma ai tempi dell'isolamento

18

Focus

20

Cover Story

ASD: è ora di cambiare!

Luca Tramontin (Sport Crime)

35

Speciale Hellas Verona

44

Intervista

Graziano Battistini (calcio)

Maurizio

35 Setti


87

Intervista

92

Intervista

94

Sport Life

96

132

Federica Brignone (sci)

Sport Life

Resia e il 'mistero' del campanile sommerso

Marco Castioni (sci)

Anno 12 - Numero 63

Il mio corpo è un giocattolo meraviglioso!

APRILE / MAGGIO 2020

Testata giornalistica registrata al Tribunale di Verona n. 1807/2008

Sport Life

Un motore, due ruote e la passione... si accende!

100

Intervista

102

Intervista

104

#ROADTO2026

Tdi SPORmagazinePIÙ Direttore Responsabile Alberto Cristani

Anna Signorini (padel)

Vice Direttore Daniela Scalia Caporedattore Andrea Etrari

Davide Posenato (badminton)

134

Sara Simeoni

Intervista

Fabio Franceschi (editoria)

Direttore della fotografia Maurilio Boldrini In Redazione Alberto Braioni, Andrea Etrari, Bruno Mostaffi, Damiano Tommasi, Daniela Scalia, Giorgio Vincenzi, Marina Soave, Matteo Lerco, Matteo Zanon, Marco Hrabar, Paola Gilberti, Jacopo Pellegrini Foto SportdiPiù magazine Veneto Maurilio Boldrini, Mirko Barbieri, Paolo Schiesaro, Simone Pizzini Contatti redazione@sportdipiu.com alberto.cristani@sportdipiu.com www.sportdipiu.com Progetto grafico e impaginazione Francesca Finotti

Genitorinrete

108

Intervista

136

112

Intervista

137

Genitorinrete

114

Intervista

138

Evento

139

Sport Books

120

Intervista

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Sport Songs

124

Intervista

143

Sport Life

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Sport Life

145

#SPORTIVISTATEACASA

118

130

Jerry Calà (attore)

Laura Reani (pallacanestro)

Michele Pettene (editoria sportiva)

Sportiva-mente

Come gestire lo sport durante la quarantena del Coronavirus Matteo Giunta (nuoto)

Francesco Borgo (tennis)

La PandeDynos

Stare Bene

TAPING: che cos'è, perchè si usa e dove applicarlo

Magazine partner dell'Hellas Verona

con il patrocinio

Come organizzare una giornata di lavoro con i figli a casa Tecnologia ai tempi del Coronavirus

SDP Live, la social Tv dello sport veneto

Il grande cuore di Federica

Stampa e distribuzione Mediaprint Srl Sede operativa di San Giovanni L. Via Brenta, 7 - 37057 Verona Cell. 345.5665706 Pubblicità marketing@sportdipiu.com Cell. 348.4425256 Abbonamenti abbonamenti@sportdipiu.com Cell. 345.5665706 Hanno collaborato Alberto Braioni, Andrea Etrari, Arianna Del Sordo, Bruno Mostaffi, Cecilia Zonta, Daniela Scalia, Federica Delli Noci, Francesca Viesentini, Gian Paolo Zaffani, Gigi Vesentini, Giorgio Vincenzi, Jacopo Pellegrini, Marino Bartoletti, Matteo Lerco, Matteo Zanon, Micheal Coli, Paola Gilberti, Tommaso Franzoso, Ufficio stampa Hellas Verona, YouSport Venezia. Foto Archivio SportdiPiù magazine Veneto, BPE agenzia fotografica, Fotolia, crediti singoli articoli

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STO RI ES

Bar Toletti light

di Marino Bartoletti instagram marinobartoletti Facebook-Square Marino Bartoletti

Mortacci e bontà

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ome si fa a non voler bene a uno che è andato sotto la curva degli ultrà avversari - leone tra le pecore - a urlare “Li mortacci vostra”? Aggiungendo dopo: “Perché l’ho fatto? Perché avevano insultato mia madre. E mia madre non si tocca!”. Dubito che, fuori dal branco (o dal gregge, fate voi) uno solo di quei galantuomini avrebbe avuto il coraggio di dirgli in faccia le stesse cose. Nel giorno della festa del papà, si celebrano gli ottant’anni di uno dei grandi Padri della Patria Calcistica, Carlo Mazzone. Quarant’anni di campo come allenatore: record assoluto di panchine in Serie A (795), ma anche di panchine in serie professionistiche (1278). Ha allenato Totti e Antognoni, Pirlo e Baggio. Quest’ultimo, che con lui ha avuto un rapporto da autentico figlio, aveva fatto mettere nel contratto una clausola che se Mazzone avesse lasciato il Brescia, se ne sarebbe andato pure lui. Ancora ieri, in una lettera pubblica

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sul Corriere della Sera, ha scritto: “Caro Mister ti sarò sempre grato e riconoscente, rimpiango solo di averti incontrato troppo tardi”. Con loro il Brescia sfiorò l’Europa. In quel Brescia c’era anche Pep Guardiola, che come Conte, Ranieri, Mihajlovic, Mandorlini, Iachini, Novellino e tanti tanti altri avrebbero imparato il mestiere alla sua bottega. Il 27 maggio del 2009, nella hall dell’Hotel Donna Laura Palace, sul lungotevere, a Roma, incontrai Sor Carletto quasi in lacrime. Tormentava fra le mani due biglietti per la finale di Champion’s fra Manchester United e Barcellona che si sarebbe disputata all’Olimpico e che io avrei dovuto commentare per la Rai. “Ah Bartolè, sai chi m’ha mannati questi? Er Pep! Ha voluto che stessi qua anch’io! Ha’ capito?”. Er Pep gli aveva offerto viaggio, albergo e biglietti per averlo vicino. Quella sera conquistò la prima delle sue due Coppe da allenatore del Barcellona dopo una partita

magistrale, con gol di Eto’o e di Messi. Alla fine dedicò la vittoria a Paolo Maldini che si era appena ritirato dal calcio giocato (“Se ci ripensa, da noi c’è sempre un posto”), ma soprattutto al suo Maestro. Lo conobbi che allenava la Fiorentina (una bella Fiorentina), esattamente quarant’anni fa. Lo frequentai un po’ di più quando, dopo certe sere - come dire - leggermente movimentate del Processo del Lunedì che conducevo nei primi anni ’80, Costantino Rozzi mi costringeva a seguirlo ad Ascoli per passare una giornata con lui (“Facciamo la Salaria, eh! L’ho asfaltata tutta io”). Rozzi fu il presidente che aveva ‘inventato’ il Mazzone allenatore, catapultandolo in panchina quando aveva poco più di trent’anni: ed in panchina lo accompagnava, agitandosi coi suoi celebri calzini rossi. Assieme arrivarono al sesto posto in Serie A! Aveva e avrebbe allenato ovunque, a Firenze, a Lecce, a Catanzaro, a Bologna, a Napoli, a Cagliari, a Perugia, a Livorno, nella sua Roma, ma la sua città sarebbe diventata - ed è ancora - Ascoli. Dove i tifosi, in suo onore, avevano ribattezzato la strada che porta allo stadio ‘Via del calcio spettacolo’. I suoi scudetti non sono stati dei tagliandini tricolori: ma salvezze incredibili e piazzamenti inimmaginabili (“Ammiro tanto Ancelotti che alle parole preferisce i fatti: ho molto ammirato Eriksson anche se ogni tanto mi sono chiesto che avrebbe fatto sulla panchina dell’Ascoli?” Ma mi tengo con orgoglio quello che ho avuto e che ho seminato”). Prima che di sport è stato un maestro di vita. E di calcio ne sapeva tanto, ma proprio tanto! Però, se lo incontrate e tenete alla vostra incolumità non parlategli di ‘transizioni’ e di ‘spazio da attaccare’. Men che meno di ‘seconde palle’ e di ‘sovrapposizioni’. Potrebbe diventare volgare. Buon compleanno Maestro!


L'O PI N I O N E

Uscita Verona Sud di Daniela Scalia instagram dani_seamer TWITTER @DanielaScalia

La prospettiva dello sportivo

...Urto secco e il macchinone è andato via sgommando, i due dentro parlavano come non avessero rovesciato niente, invece l’uomo della bancarella e il figlio piangevano e raccoglievano pezzi, ma senza guardarsi tra loro, erano attenti ai cocci, ai vasetti rotti, alla gamba del tavolo. Non hanno urlato verso la macchina, hanno soccorso il loro banchetto, il loro lavoro di tanto tempo, chissà quanti anni per riprendersi e chissà come ripartire, e chissà cosa mangiare nel frattempo”. Inizio questo Uscita Verona sud in modo strano, con un pezzetto di un libro che uscirà, almeno credo, tra un anno o due. Sia il libro che le righe sopra hanno a che vedere con lo sport, con il nostro Veneto e con il virus di questi giorni, aspettate un po’. Quando sento uno sportivo che ‘mette tutto in prospettiva’ e dice che lo sport viene dopo la salute in realtà penso tra me che il suo pensiero sia più generoso delle apparenze. Da fuori, ed è giusto che sia così, un atleta che rinuncia a una gara o perde una Olimpiade fa un gesto doveroso, viene da dire “e ci mancherebbe altro”.

E l’atleta lo sa. Sa di essere un privilegiato, di svolgere un’attività non primaria, perché anche lui o lei ha famiglia e non vorrebbe mai un parente contagiato per colpa di un evento sportivo, nemmeno il suo. C’è una specie di educazione non detta a sentirsi ‘inferiori’ a chi fa il pane, o l’asfalto, o ancora di più a chi rifà i letti dell’ospedale. Ogni sportivo sia in pubblico - ma vi assicuro anche in privato - ti dice che il vero record è quello del soccorritore che compie 30 anni di servizio, non il suo tempo sui 10.000 ostacoli (butto una disciplina inventata a significare un qualsiasi traguardo sportivo). Resta il fatto che perdere un campionato, magari al primo anno di serie A, magari appena uscito da un infortunio, magari dopo aver fatto le giovanili con l’aiuto del padre imbianchino è molto più pesante ‘da dentro’ che da fuori. Una superstar di 38 anni perde una parte dello stipendio faraonico. Devo essere sincera? Sì, fa parte della mia natura e dell’accordo con questo giornale: mi dispiace. Se lo conosco di persona e so che senza dirlo tiene in vita il suo vecchio club già mi dispiace un po’ di più, se compra una Ferrari in meno, amen. Ma a volte l’atleta è ‘un’azienda singola’ con dietro mamme a pensione minima, mutui, adozioni. E già cambio sentimento. Sia chiaro, se c’è da chiudere si chiude, lo dico proprio per scrupolo, magari potevo risparmiare una riga, ma con i social network non si sa mai. Mi fa pena, e tanta, chi è appeso a un evento quadriennale, magari a un gesto di pochi secondi. Sinceramente, venendo da una cultura di squadra e di partite settimanali, non so nemmeno come facciano a essere così mirati, così determinati. E mi viene quasi da piangere quando penso a una atleta donna che deve fare i conti con la maternità, pensando di poter avere il pancione dopo le Olimpiadi.

Non si dice, non si dichiara, ma succede spesso. Non pretendo che una persona esterna al nostro lavoro capisca al volo: in fondo noi conduttori, commentatori, giornalisti siamo qui per questo, per spiegare quello che c’è dietro. Vorrei parlare con chi dice in automatico “Ma di cosa si lamenta quello/a, con la gente che muore”. E qui veniamo a un meccanismo del giornalismo che sembra così logico da essere stupido, invece è un mistero per tutti. “È un dolore perdere un campionato”. “Ah sì? E chi perde il padre allora? Ma ‘sta gente si rende conto che ci sono i comuni mortali?”. Ma l’atleta nel 99% dei casi ha risposto a una domanda specifica sul suo dispiacere specifico in un contesto specifico, e ripeto la parola apposta. Sembra che sia il suo primo pensiero, invece è solo la risposta contestualizzata alla domanda che gli è stata fatta. So di sportivi che in privato dicono “Per me peccato perchè chissà se ritrovo un ingaggio, ma quelli dei panini? E il custode? Adesso chiamo il presidente per vedere se li paga comunque”. Torniamo al banchetto dell’inizio perché adesso si capisce cosa c’entra. “Guardando padre e figlio tra i loro cocci ho detto al mio socio “mettiamo cinquanta dollari a testa, io dollari Usa tu quelli Aussie che valgono un piffero, dici che se ne facciano qualcosa? Secondo me sì.” Abbiamo telefonato a un’amica del posto per sapere se fosse un buon gesto, lei ha detto di sì ma possibilmente di consegnarli in tagli piccoli, e di non farlo platealmente. Io ho bloccato i due, il mio amico è andato in banca e al negozione a cambiare le banconote. Sono quasi svenuti, con quei soldi avrebbero potuto rifare la bancarella»”. Perdere i vasetti o perdere la bancarella per appoggiarli è molto diverso. Anche se da fuori è roba da poco in entrambi i casi.

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L'O PI N I O N E

Il corner di Tommasi di Damiano Tommasi instagram damiano.tommasi TWITTER @17Tommasi

Mi dà pena, un ricorso va

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ggi, a quasi due mesi dallo stop definitivo dello sport, ci stiamo prodigando tutti per trovare il modo di ripartire in tempo, ma sapendo di dover difendere. Facendo un paragone con il nostro sport mi sembra di essere in barriera in occasione di una punizione dal limite. Pirlo, Totti o Del Piero sono pronti al tiro e il nostro compito, in questo momento, è stare uniti, senza scomporci ed evitare slanci solitari che potrebbero farci prendere gol. Dobbiamo aiutare il nostro portiere (i medici) che ci sta ripetendo di seguire le sue direttive. A Napoli quasi 20 anni fa un movimento sbagliato e Pecchia che fa passare la palla in mezzo alla barriera. Festa rimandata. Ora siamo nella stessa situazione, ogni movimento incauto potrebbe far rimandare la festa. Siamo italiani maestri del catenaccio e, come qualche virologo in questi giorni ha cercato di spiegare, siamo alla fine del primo tempo. Abbiamo sofferto, ci siamo difesi, ci siamo uniti e non siamo crollati. Errore grave iniziare il secondo tempo snaturando il nostro modo di giocare. Si sono convertiti anche gli olandesi mentre i tedeschi, che sembrano più temerari, mi ricordano la notte di Dortmund quando, alla ricerca del pareggio, si sono snaturati. Un rimbalzo 'anomalo' al limite dell’area è stato sufficiente a Cannavaro per prenderli alla sprovvista. Del Piero ha chiuso la partita in un momento in cui gli errori diventano sentenze. Dobbiamo ripartire, dobbiamo dare spe-

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ranza ai tanti che vivono di calcio ma il momento è delicato, è il tempo degli errori che diventano sentenze. Mi dà pena, per questo, pensare che il vero spauracchio è il possibile ricorso. Tanti, troppi, infatti, pronti ad iniziare un 'cam-

pionato parallelo'. Quest’estate (se non già adesso) conterà più il top lawyer del top player. In tanti si sentiranno danneggiati, anzi, più danneggiati di altri. Ci si muove, quindi, per evitare tutto ciò. Non ci si concentra molto sulla sostenibilità del calcio professio-

nistico o del mondo dilettante, su un futuro molto incerto da riprogrammare. Pensare a tenere in piedi il sistema per mantenere lavoro e indotto che stanno rischiando grosso, questo dovrebbe essere il primo dei pensieri. Riprendere o meno in questo momento, fra qualche settimana o fra qualche mese è visto da troppe parti come “l’unico modo per non subire i ricorsi”. Triste constatazione. Ancora non abbiamo metabolizzato come più o meno danneggiati, più o meno colpiti, più o meno responsabili da questa situazione se ne esce tutti insieme, con un buon catenaccio, con una barriera che non si scompone perché se qualcuno pensa da solo i rischi di rimandare la festa e veder sfumare l’obbiettivo è dietro l’angolo. Serve uno sguardo ampio, in larghezza e in lunghezza, dobbiamo stare attenti che potrebbe essere un rimbalzo mal gestito a permetterci di ripartire e portare a casa il risultato. E’ in questi momenti che avverto ancora più forte la mancanza di un grande osservatore del nostro mondo. Ci ha lasciati senza possibilità di salutarlo con dovuto calore il grande Gianni Mura. Tra le tante sue doti e passatempi c’erano gli anagrammi. Nelle parole scrutava l’ordine delle lettere che spesso raccontavano molto delle persone e dei fatti. Ho voluto per questo omaggiarlo”nel titolo di questo editoriale e in effetti 'pandemia' e 'coronavirus' hanno dato una chiave di lettura abbastanza efficace. Grazie di tutto Gianni, il tuo nome dice già in quale categoria ti possiamo collocare della storia del nostro sport. I gran umani.


STARE BEN E

Postural

di Michael Coli Dottore specialista in medicina dello sport e dee'esercizio fisico

Tre sono le certezze della vita: tasse, morte e... mal di schiena!

S

econdo vari studi tra l’80 e il 90% della popolazione mondiale soffre almeno una volta nella vita di mal di schiena e, a causa di questo, andrà incontro ad una disabilità temporanea inattesa e inficiante. Non stupisce quindi che il mal di schiena sia la maggiore causa di perdita di tempo lavorativo nei paesi industrializzati. La lombalgia può essere causata da diversi fattori ed è necessaria anzitutto una adeguata valutazione medica con la formulazione di una diagnosi. Infatti, questo sintomo può essere ricondotto a molte condizioni diverse quali: alterazioni muscolo-scheletriche congenite, condizioni di sovraccarico di dischi intervertebrali e osso, alterazioni posturali ma anche malattie intestinali, renali, ginecologiche o neoplastiche. Nel 90% dei casi, nonostante una visita approfondita ed esami strumentali, non si riuscirà a trovare una causa chiara per cui si parlerà di lombalgia aspecifica. Esistono tre strutture fondamentali per la stabilità della colonna vertebrale:

ossa (vertebre), dischi intervertebrali e legamenti (1), nostra solida base su cui si inseriscono i muscoli (2), i quali vengono controllati dal sistema nervoso (3). Prenderò in considerazione la lombalgia aspecifica in quanto le altre patologie hanno decorso, terapia e prognosi differente. Nella lombalgia aspecifica gli ultimi due fattori sono maggiormente implicati: è stato infatti dimostrato un certo grado di atrofia muscolare (ridotte dimensioni e quindi diminuita funzione muscolare) e un’alterazione del controllo muscolare da parte del sistema nervoso che, insieme, portano ad uno squilibrio della biomeccanica della colonna vertebrale. I due muscoli principali implicati sono il Muscolo Trasverso dell’Addome, che concorre a formare la parete addominale, e il Multifido, che si estende dalle ultime quattro vertebre cervicali fino all’osso sacro. Non bisogna altresì sottovalutare l’apporto dei muscoli Grande e Medio Gluteo, Retto dell’Addome, Obliquo Interno ed Esterno, e tutta la muscolatura dorsale implicata nel

controllo della colonna vertebrale. Una volta stabiliti i deficit che hanno determinato un’alterazione del normale equilibrio della colonna vertebrale, bisogna impostare un programma riabilitativo personalizzato in base a quanto emerso dalla visita. Come prima cosa deve essere tenuto sotto controllo il dolore, anche attraverso l’uso di farmaci. Eseguire esercizi di tonificazione durante questa fase non ha dimostrato ridurre né la durata né l’intensità della lombalgia. La seconda fase consiste nella correzione di deficit di flessibilità e di forza. L’obiettivo principale dovrebbe essere quello di reimpostare corretti schemi di attivazione muscolare e di movimento e la riattivazione dei muscoli “dormienti”. Gli esercizi vanno ponderati e studiati in ogni aspetto, compreso quando eseguirli. Ad esempio non è raccomandato eseguire esercizi di rinforzo dorsale e della parete addominale di mattina a causa dell’aumento di pressione idrostatica all’interno del disco intervertebrale. Il terzo punto è quello di mantenere una forma fisica generale adeguata eseguendo esercizio aerobico, quindi a medio-bassa intensità. Forti evidenze dimostrano che per il riscaldamento da svolgere prima di iniziare gli esercizi, sia meglio una camminata veloce rispetto a una camminata lenta, poiché da una parte l’attivazione muscolare è maggiore, dall’altra la torsione (torque) a livello lombare è minore. Come ultima cosa ci sarà la reintroduzione graduale delle attività sportive precedentemente svolte. Per quanto riguarda la prevenzione un aspetto importante è l’assunzione di posture corrette, soprattutto a sedere e quando si sollevano pesi, mantenendo le normali curve fisiologiche della colonna vertebrale.

SdP / 11


FO CUS

CONI e CIP "Lo sport del Veneto ha bisogno di aiuto" di Bruno Mostaffi

Luca Zaia Presidente Regione Veneto

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l Coni e il Comitato Paralimpico del Veneto sono scesi in campo per sollecitare le istituzioni, e in questo caso la Regione Veneto, affinchè vengano attivate misure di aiuto e di sostegno dello sport, comparto tra i più colpiti dalle restrizioni resesi necessarie per l’emergenza del Covid-19. I presidenti Gianfranco Bardelle (CONI) e Ruggero Vilnai (CIP) hanno inviato lo scorso 21 aprile una comunicazione ufficiale al Presidente della Regione Veneto Zaia e all’Assessore regionale allo sport Cristiano Corazzari nella quale vengono proposte ed evidenziate alcune proposte. “Il mondo dello Sport in questo mese”

– si evidenzia nel documento – “ha dimostrato grande coesione e unità di intenti soprattutto quello facente capo alle Associazioni Sportive Dilettantistiche. Siamo ora tutti proiettati a supportare e a garantire che l’emergenza sanitaria giunga presto al termine della corsa e per questo apprezziamo gli sforzi della Regione Veneto in tal senso. Di pari passo riscontriamo che esistono altre due grandi categorie di emergenze: quella economica e quella facente capo alla sfera umana. “Lo sport” – prosegue il testo – “sta sicuramente in entrambe e sarebbe tempo che la legislazione nazionale prevedesse una nuova regolamentazione, al passo con i tempi e con la situazione


Cristiano Corazzari Assessore sport Veneto

Gianfranco Barelle Presidente Coni Veneto

internazionale, dove Sport significa salute, cultura, turismo, economia, sociale, istruzione e integrazione. Lo scopo della presente nota è quello di far presente alla Regione Veneto, rendendoci sicuramente disponibili ad approfondire ulteriormente le varie tematiche con i nostri esperti ed apprezzando la costituzione di un tavolo dello sport che discuta e proponga azioni concrete per il settore, la necessità di mettere a piano una serie di interventi alle volte anche trasversali ai vari Assessorati della Regione stessa”. Il movimento sportivo veneto vanta 5430 società, 487915 atleti tesserati e 96666 operatori, numeri che collocano la nostra regione al secondo posto italiano dietro la Lombardia. Dopo questa emergenza legata al Covid-19 c’è quindi l’opportunità di far ripartire la nostra Regione attraverso una delle leve più forti che il nostro territorio ovvero lo sport. Un dato su tutti: l’1% del PIL Veneto è rappresentato dallo sport turistico (montagna e Lago di Garda). Quali azioni, dunque, si possono prevedere a sostegno del movimento? Tre le linee d’azione e il target di riferimento individuati dai presidenti CONI e CIP.

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Richieste al Governo Nazionale - I comitati regionali hanno fatto pervenire al Coni centrale affinché poi fosse presentato al Ministro, un documento dove si chiede un intervento sulle Federazioni Sportivi ed Enti per il taglio dei costi federali per il 2020 e 2021 anche con contributi al mondo dello sport. Il sostegno va esteso anche al mondo del Comitato Italiano Paraolimpico. - necessità di creare un fondo nazionale per lo Sport, capiente, stimato in 500 milioni di euro, a favore dello sport di base. - Accesso al credito: Credito Sportivo si è attivato in questi giorni con uno specifico fondo destinato al mondo dello Sport.

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Credito o bonus famiglie per investire nello sport a supporto delle quote di iscrizione. Intera deducibilità del costo sostenuto e non solo credito d’imposta. Voucher per l’accesso alle attività sportive delle persone con disabilità. Cancellazione totale della Tari e IMU per le ASD che hanno in gestione impianti sportivi Intervento presso le compagnie nazionali sui costi delle utenze per il mondo sportivo. Questo tipo di intervento è combinato con interventi presso gli enti locali riconoscimento, a livello fiscale, di un moltiplicatore (es. nella misura del 40%) per i titolari di reddito di impresa che nel 2020 corrispondono a società sportive iscritte al Registro CONI corrispettivi per sponsorizzazione, pubblicità e attività promozionale dello sport (a fronte di 100 euro versati, il costo deducibile per lo sponsor è pari a 140. Rinnovo intervento per collaboratori sportivi la cui ricaduta va necessariamente sui minori costi per le società sportive Interventi specifici a sostegno dello sport eventi collegato al turismo in zone quali ad esempio laghi, mare, montagna Sport e periferie: storno del fondo stanziato per interventi da parte delle società sportive per adeguamento impianti e gestiti direttamente dai destinatari (ASD-SSD)

Richieste agli Enti Locali - Coordinamento con gli enti locali per interventi su riqualificazione per impianti sportivi legati anche al processo di sanificazione ed adeguamento. La cosa va estesa anche alle palestre scolastiche - Ottenere dei bonus su utenze per il mondo sportivo da parte delle municipalizzate - Intervento sul contenimento dei canoni per utilizzo impianti sportivi e adeguamento convenzioni per la

Ruggero Vilnai Presidente CIP Veneto

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concessione degli spazi aperti con l’obbligo di riconoscere alle società sportive una quota per la corretta manutenzione e riqualificazione. Coordinamento con gli Enti locali per intervenire sull’imprenditoria locale con sponsorizzazioni, in particolare la GDO (Grande Distribuzione Alimentare) che secondo una stima Cerved sulle previsioni di fatturato ha avuto crescite stimate attorno al 13% Cancellazione canoni per utilizzo impianti sportivi per il periodo dal 01/01/2020 al 31/12/2020

Richieste alla Regione Veneto - Creazione di un fondo straordinario specifico a favore del mondo dello Sport, anche Paraolimpico, attraverso la riapertura dei bandi regionali mirati al sostegno dello sport di base. Da valutare anche l’ipotesi dell’apertura di un conto corrente appositamente dedicato con l’iniziativa “Il Veneto riparte … dallo Sport” gestito in collaborazione con Il Coni e CIP Regionale - Voucher regionali per incrementare la pratica sportiva in un’ottica di salute pubblica per Under 14 e per le persone con disabilità. - Interventi mirati, gestiti direttamente dalle società sportive competenti, per adeguamento sanitario di impianti pubblici e privati e anche per l’abbattimento delle barriere architettoniche. - Interventi per aziende e società sportive finalizzati a creare eventi ed iniziative per la ripresa delle attività economiche nelle zone turistiche del Veneto - Fornitura alle ASD del Veneto di dispositivi per la protezione in particolare mascherine e disinfettanti - Proroga scadenze visite mediche sportive Lo sport veneto chiama: ora sta alle istituzioni rispondere in tempi rapidi.

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ATA R E I H C S A S E DIF

Il Premio di Preparazione: come agire in caso di mancato pagamento (Seconda parte) a cura degli avvocati Marco Lo Scalzo, Diego Niero, Paolo Romor, Paolo Emilio Rossi

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el numero di SportdiPiù magazine di febbraio/ marzo abbiamo delineato un quadro generale in merito al Premio di Preparazione: il riconoscimento economico che spetta alle società che abbiano contribuito a formare un calciatore e che deve essere pagato dalla squadra che sottoscriva il primo vincolo

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pluriennale con il giovane atleta. Abbiamo quindi analizzato le varie categorie di calciatori che, alla firma del pluriennale, fanno “scattare” il diritto al premio, le categorie nelle quali devono militare le squadre coinvolte, le stagioni sportive di “maturazione” del giovane atleta da tenere in considerazione e la modalità di suddivisione del premio nel caso in cui il ragazzo sia passato

attraverso più squadre e dunque siano più di una le società che abbiano contribuito alla sua crescita agonistica. Da ultimo abbiamo anche visto, sinteticamente, come debba comportarsi la società a cui non venga riconosciuto il premio di preparazione: proprio a questo aspetto vogliamo dedicare questo approfondimento.


Come può tutelarsi una società che abbia diritto a un premio di preparazione, ma che non abbia ricevuto il relativo pagamento? In un caso di questo tipo la società può presentare un ricorso alla Commissione Premi della Federazione Italiana Gioco Calcio, un organo che è nominato dal Presidente Federale. Il ricorso deve contenere la chiara indicazione dei fatti che giustificano la richiesta di pagamento (e cioè il vincolo pluriennale sottoscritto dal giovane e le annualità di tesseramento per la società ricorrente) e, allo stesso, devono essere allegate le tessere rilasciate al calciatore, negli anni precedenti, da parte della società che presenta il ricorso. Questo è un aspetto a cui prestare molta attenzione perchè la normativa ci dice che, in mancanza delle tessere, il ricorso è “inammissibile”, cioè non viene neppure preso in considerazione dalla Commissione Premi. Come si presenta materialmente il ricorso? Il ricorso va spedito, tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, alla società, o alle società (nel caso di trasferimento del calciatore nel corso della stessa stagione), da cui si ritenga di aver diritto di ricevere il pagamento e, successivamente, e sempre tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, alla Commissione Premi. L'invio alla Commissione è successivo a quello alle società “controparti” perchè, nella seconda spedizione, è necessario allegare anche le cartoline che dimostrino, alla Commissione, che le società sportive coinvolte hanno

regolarmente ricevuto la raccomandata a loro inviata. Anche in questo caso si tratta di un obbligo previsto a pena di “inammissibilità” del ricorso: quindi massima attenzione a non dimenticare le cartoline di ritorno delle raccomandate perchè, senza di queste, la Commissione non procederà ad esaminare il vostro caso e, quindi, non potrete ottenere giustizia. E dopo la presentazione cosa succede? La/le società “chiamate in causa” hanno trenta giorni di tempo, dalla data di invio della raccomandata contenente il ricorso, per presentare (sempre a mezzo raccomandata A/R, inviata alla società controparte ed alla Commissione, ed allegando nella seconda spedizione le cartoline di ricevimento della prima) una memoria difensiva e i documenti ritenuti utili per la soluzione del caso. Dopo di che la Commissione prende la sua decisione e, se accoglie il ricorso, condanna la società inadempiente a pagare una penale alla FIGC, ma soprattutto, ed è questo l'aspetto più importante, provvede direttamente a prelevare il premio non pagato, tramite le Leghe, le Divisioni o i Comitati Regionali, dalla società obbligata ed a versare l'importo alla squadra che aveva presentato il ricorso. Quindi la Commissione Premi, oltre a decidere chi ha ragione, provvede poi a fare anche da “esattore”? Sì, è proprio così, e questo è un particolare molto importante, perchè garantisce a chi abbia avuto ragione di raggiungere anche molto velocemente

il concreto risultato economico voluto, e cioè il pagamento del premio di preparazione. Esiste, in ogni caso, la possibilità di fare “appello”, cioè di avere un giudizio di “secondo grado”? E' possibile impugnare la decisione della Commissione Premi avanti al Tribunale Federale Nazionale – sezione vertenze economiche, ma questo è in ogni caso l'ultimo livello. E' necessario stare attenti ai tempi? Esiste un termine per presentare il ricorso? Anche su questo bisogna prestare molta attenzione perchè il diritto al premio di preparazione si prescrive al termine della stagione sportiva successiva a quella in cui il giovane calciatore ha firmato il suo primo pluriennale: questo significa che, dopo tale termine, non è più possibile pretendere nulla e quindi che, in caso di mancato pagamento, è essenziale presentare per tempo il ricorso alla Commissione Premi. Per presentare il ricorso è necessario rivolgersi ad un avvocato, o si può procedere autonomamente? Le norme non obbligano ad avvalersi dell'opera di un avvocato, va però anche detto che la procedura prevede alcuni aspetti insidiosi, dove è possibile scivolare su qualche “buccia di banana” che rischia di rendere inutile il ricorso (e alcune le abbiamo anche messe in evidenza, pur nella necessaria brevità di questo intervento), per cui è certamente prudente affidarsi ad un legale specializzato in materia.


STARE BEN E

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Dott.ssa Federica Delli Noci Dietista - Specializzata in Scienze dell’Alimentazione

Come mantenersi in forma ai tempi dell'isolamento

l nostro Paese sta vivendo giorni difficili, di incertezze, di emergenze, di speranze, di timori e di solidarietà. In seguito al Dpcm dell’11 marzo scorso, siamo stati costretti all’isolamento per contenere e fermare il contagio da Covid-19 e mai come ora sembra così difficile per gli Italiani #rimanereacasa. Rinchiusi nelle nostre abitazioni, “inganniamo il tempo” nel miglior modo possibile; chi legge, chi studia, chi riordina giornalmente la casa, chi fa delle maratone di serie tv sul divano e chi si scopre improvvisamente chef! La sedentarietà e la riduzione delle attività quotidiane alla quale siamo costretti, si traducono in stati emotivi negativi quali ansia, tristezza, frustrazione, psicosi associati ad aumento di peso e scarsa motivazione al percorso nutrizionale. Ma come possiamo fronteggiare “l’emergenza nell’emergenza”? Il mio primo consiglio è pianificare la giornata. Questo permette di gestire il tempo in modo più efficiente, riducendo la noia e i tempi morti che spesso si traducono in un aumento dei pasti extra consumati durante la giornata. Un risveglio programmato impostando la sveglia la sera prima, una colazione nutriente e consumata con più calma ci aiuteranno ad affrontare al meglio ogni giorno. Impara a distinguere la “fame fisica” da quella “nervosa”. Nel primo caso avvertiamo un insieme di segnali fisiologici come lo stomaco che brontola e si contrae, ci sentiamo privi di energie e possiamo avvertire mal di testa o un lieve capogiro. Il bisogno di mangiare, in questo caso è

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A tavola con Federica

generalizzato e non si concentra su una tipologia di alimento esclusivo. Quando, invece, l’impulso parte dalla nostra testa anziché dal nostro corpo e ricerchiamo cibi calorici, dolci e pronti da consumare, (i cosiddetti comfort foods), allora siamo in preda ad un vero e proprio attacco di fame nervosa forse generato dall’ansia e della frustrazione del periodo che stiamo vivendo. Mangiamo in modo automatico, quasi inconsapevole e senza neache rendercene conto, abbiamo terminato l’intera confezione di biscotti! Prima di farci ingannare dai segnali che la nostra testa ci invia, cerchiamo di riconoscere le emozioni e mettiamo in atto delle strategie per gestirle ed attenuarle. Programmare l’idratazione giornaliera. Considerando i fabbisogni (circa 1 ml di acqua/kcal introdotta), ogni giorno è possibile raggiungerli consumando più acqua e dedicandoci alla preparazione di tè, infusi e tisane a base di frutta ed erbe da bere nell’arco della giornata (ad esempio a merenda in sostituzione di bevande zuccherate). Partendo dal presupposto che non esista una dieta che ci protegge dall’infezione di Coronavirus, né che contenga i sintomi in caso di contagio, un consumo vario e regolare di frutta e verdura, con i loro fitonutrienti, stimola le nostre difese immunitarie proteggendoci dagli agenti patogeni. È arrivato, quindi, il momento di mettersi all’opera! Utilizzare le giornate che abbiamo a disposizione per cucinare contorni e sughi a base di verdure, zuppe e torte alla frutta che non siamo abituati a preparare perché “non c’è mai tempo per queste cose!”.

Organizzare il proprio menù settimanale! Senza lasciare nessun pasto al caso, è utile pianificare i piatti da preparare durante la settimana, variando quanto più possibile la dieta. Provare e sperimentare nuove ricette e nuovi prodotti da inserire nella lista della spesa, un dolce con farine integrali, il pane o la pasta fatta in casa e provare le ricette che vi suggerisco di seguito. Tanti produttori locali hanno messo a disposizione il servizio di spesa a domicilio che incentiva l’economia del nostro territorio sperimentando prodotti sani e genuini a Km 0! Chi l’ha detto che per mantenersi in forma è necessario uscire di casa? Numerosi personal trainer ed esperti del settore, pubblicano giornalmente sui social network, dei work out adatti a tutti e con diversi livelli di difficoltà da svolgere comodamente a casa a corpo libero o con l’ausilio di piccoli strumenti facilmente reperibili. Pertanto, i trenta minuti di attività fisica quotidiana che ho sempre consigliato a tutti i miei pazienti che vogliono mantenersi in forma, possono essere svolti anche rimanendo a casa. Infine, è fondamentale pensare positivo! Riempiamo la mente di bei pensieri e concentriamoci su tutto quello che ci aspetta quando questo incubo sarà finito! Ritmi intensi e frenetici, necessità di recuperare lavorativamente tutto il tempo “perso” nelle ultime settimane; immagino che non avremo più tanto tempo da dedicare ai fornelli, pertanto provvediamo adesso a preparare qualcosa di sano e nutriente da conservare nel nostro congelatore e da gustare nella fugacità delle nostre future pause pranzo in ufficio. Vi saluto con qualche spunto…


MILLEFOGLIE DI MELANZANE Ingredienti per 2 persone: Una melanzana tonda 2 spicchi d’aglio Salvia e rosmarino freschi q.b. 400 gr salsa di pomodoro 4-5 foglie di basilico Cipolla q.b. Olio extra vergine d’oliva 3 cucchiai Mozzarella a fette 200 gr Parmigiano reggiano grattugiato 4-5 cucchiai Sale q.b. Tagliare le melanzane mantenendo la loro forma rotonda e privarle della buccia. Disporle su una teglia con carta da forno con i 2 spicchi di aglio (interi), la salvia e il rosmarino; condirle con un cucchiaio di olio extra vergine d’oliva, un pizzico di sale e cuocerle in forno statico preriscaldato a 180° per circa 15 minuti. Nel frattempo, in una casseruola, cuocere per almeno

10-15 minuti, la salsa di pomodoro con un po’ di cipolla, un filo d’olio extra vergine d’oliva, un pizzico di sale e qualche foglia di basilico fresco, avendo cura di girare di tanto in tanto. Quando le melanzane avranno terminato la cottura, preparare una pirofila “ungendola” con un mestolo di salsa di pomodoro, disporre il primo strato di melanzane, qualche fetta di mozzarella, un

cucchiaio di parmigiano reggiano grattugiato e un ulterioriore mestolo di salsa di pomodoro. Procedere in questo modo fino ad ultimare gli strati della pirofila. Terminare la preparazione spolverizzando del parmigiano grattugiato sulla superficie della parmigiana. Cuocere in forno statico preriscaldato a 180° per circa 20 minuti.

ZUPPA DI LENTICCHIE Ingredienti per 2 persone: 120 gr lenticchie secche 100 gr zucca 1 carota 3 coste di sedano 1 spicchio d’aglio 2 cipolle piccole (oppure una grande) 4 cucchiai salsa di pomodoro 2 cucchiaini olio extra vergine d’oliva Sale q.b. Pepe q.b.

Sciacquare le lenticchie sotto acqua fredda corrente. In una casseruola capiente, unire gli ingredienti (lenticchie, zucca, aglio, carota, sedano, cipolla) e coprire con acqua. Portare ad ebollizione tutti gli ingredienti e aggiungere la salsa di pomodoro; continuare la cottura per almeno 20-30 minuti assaggiando le lenticchie prima di spegnere il fuoco. A cottura ultimata, spegnere il fuoco, condire con olio extra vergine d’oliva, sale e pepe e servire.

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FO CUS

ASD: è ora di cambiare!

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di Lucio Taschin, Consulente di comunicazione e marketing sportivo - Foto: SportdiPiù

e 7 regole per le Associazione Sportive Dilettantistiche ai tempi di Covid-19, ma non solo. Che siamo in un momento storico difficile lo abbiamo capito tutti. Che sappiamo esattamente cosa fare per avere alla fine solo delle ferite, sperando siano leggere, questo non lo possiamo dire. Per lo Sport c’è una grande opportunità dietro l’angolo, usando una visione ottimistica tipica del nostro mondo. Ho provato a dare qualche spunto che spero Vi siano utili.

1) Riscrivi il tuo piano strategico. Se ce l’hai. Avere un piano è sempre una buona idea ma spesso all’interno delle ASD si è andati un po’ sempre a “tarallucci e vino”. Scrivere un piano non vuol dire narrare un romanzo. È molto di più. Vuol dire abituarsi a capire lo scenario, ascoltare i bisogni che devi soddisfare, condividerli con i tuoi amici dirigenti e pensare delle azioni coerenti che man mano poi ai direttivi discuterete ed attuerete. Una delle tante call dedicale a questo, a capire, a mettersi in discussione e non a lamentarti di quanto sarà difficile la vita dopo il Covid-19. Fai emergere delle idee per il tuo

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futuro a breve, media e lunga distanza, SCRIVILE e continuamente condividile all’interno del direttivo. Ti sarà utile poi per estrapolare un bel COMPANY PROFILE da presentare ai tuoi contatti! E comunque non essere deluso se dei 10 piani o progetti che farai 7/8 li dovrai buttare! 2) Rivedi il budget. Se l’hai preparato con attenzione è figlio del piano strategico Un budget scritto bene va continuamente monitorato. Oggi più che mai. Se hai pianificato entrate per una percentuale alta legata agli sponsor è tempo di: ‘smanettare’ in rete per cercare bandi, opportunità, progetti di finanziamento. In poche parole diversifica - immetti nella seconda parte dell’anno attività che dipendono da Te: eventi, iniziative, tornei

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lavora sui costi, cerca di tagliare spese inutili a favore di quello che è il progetto fondamentale del Tuo club e abbi coraggio! Non è questo il momento di tentennare! stai vicino ai Tuoi Sponsor con discrezione ma stagli vicino

3) Migliora la Tua comunicazione. Fare, fare bene, far sapere Sono parole che ho sentito dire in maniera incisiva una volta dal mio amico Marco Cernaz. Comunicare in modo efficace Ti farà fare la differenza naturalmente se hai contenuti che lo meritano. Scegli bene il Tuo target. Fai come si fa in un giornale: un bel menabò ovvero una pianificazione ragionata di cosa vuoi dire ma soprattutto a chi lo vuoi dire.


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Qualche attività? - studia o fai studiare bene come funzionano i social. Amplia la Tua “offerta” - prepara materiale utile per non improvvisare - scrivi almeno una volta alla settimana alle testate con notizie, storie e informazioni non banali. I media hanno ridotto le pagine dello Sport ma sono lì che aspettano articoli interessanti 4) Migliora la Tua informatizzazione. Sii professionale nella Tua gestione Al di là del sistema informatico della Tua Federazione o Ente probabilmente non hai pensato all’informatica come supporto al Tuo club. - verifica programmi per la gestione delle quote degli atleti - parla con il Tuo commercialista per avere un file cadenzato di controllo dell’andamento economicofinanziario del Tuo club - aiuta i tecnici a lavorare meglio con strumenti messi a disposizione dalla società

costruisci un cloud Tuo dove mettere i documenti importanti da condividere da comunità di persone che li utilizzano continua a pensare a come utilizzare le piattaforme digitali anche dopo il Covid-19

5) Chiedi ai tuoi tecnici di formarsi. E fallo tu per primo, caro dirigente. Ora o mai più! Se non credi nella Tua formazione stai aiutando la decrescita “felice” della Tua Associazione. Formazione su cosa? Prima di tutto di dove andrà lo Sport fra ‘X’ anni in modo tale da intercettare i bisogni dei Tuoi iscritti. Parla anche con il Tuo staff e pianifica con loro corsi per reclutare, per entusiasmare, per fidelizzare, per essere più competenti assolutamente sul piano tecnico ma soprattutto più bravi dal punto di vista umano. Fai far corsi sulla comunicazione sportiva anche ai Tuoi coach perchè, credimi, gli saranno utilissimi. Fai con loro un patto chiaro ed insieme andrete lontano! 6) Stai vicino ai tuoi atleti e non dare nulla per scontato Esserci in questo periodo farà la differenza. Ma come? - tieni unito prima di tutto il Tuo direttivo e incrementa l’attività di confronto per varare piani A, piani B e anche un piano C. tieni unito il Tuo staff tecnico che si ritroverà ad inventare preparazione, piani di allenamento e attività che mai aveva sviluppato finora. - stai vicino COSTANTEMENTE ai Tuoi atleti e alle loro famiglie. Predisponi tutorial per il lavoro possibile da fare a casa, chiedi foto, video. Stimola che proprio da loro partano iniziative di solidarietà

e di comunicazione. Sarà un gioco di squadra che tornerà utile dopo. 7) Anticipa, anticipa, anticipa: tutti! Prepara già una festa per il giorno della Liberazione La Festa sarà una delle cose che verrà naturale fare a tutti. Bene: organizzala fin da subito Tu e il Tuo staff. Può anche essere l’occasione per coinvolgere persone nuove che mai avresti pensato che potessero darti una mano. Individua fin da subito le cose pratiche

che puoi già fare (ad esempio una teeshirt celebrativa) e non pensarci più perchè dopo sarà tutto molto frettoloso e non sai in che terremoto Ti ritroverai ad operare. ANTICIPA, ANTICIPA, ANTICIPA per essere pronto e ripartire al 1000%. Per informazioni: info@luciotaschin.it

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COVER STO RY Luca Tramontin

#MAIMOLÀR di Alberto Cristani - Foto: Luca Tramontin

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uella con Luca Tramontin non sarà un’intervista rilassante. Preparatevi quindi a un’altalena di rivelazioni humor-horror, che ha come caratteristica incredibile il fatto di essere vera e addirittura verificabile. Non ‘sprecheremo’ pagine per chiedere quello che si trova tranquillamente su Wikipedia (quello in inglese è dettagliatissimo, n.d.r.) o in molte altre interviste. Se il libro In onda con 3 dita - in realtà una serie di appunti shock raccolti e editati dalla nostra Daniela Scalia - invita spesso il lettore a deglutire e appoggiare un attimo il libro per ridere da matti o riprendere fiato beh, con questa intervista, si va oltre. Ci siamo permessi di fare a Luca le domande che gli spettatori, e ancora di più le spettatrici, cercano su Google ma non hanno coraggio di porgere direttamente all’autore, rugbista, hockeista, allenatore e rocker dal fisico olimpico. “Sul fisico olimpico” – evidenzia subito Luca – “avrei qualcosa da ridire: guarda le mie radiografie e poi ne riparliamo. In realtà sono pieno di asimmetrie e difetti strutturali. La mano è solo l’ufficio di rappresentanza di un’ossatura rovinata. Ovvio che lavorandoci sopra in maniera scientifica, studiando le compensazioni muscolari e posturali si aggiusta potenzia e parifica tutto”. Ok Luca, capito. Allora facci un esempio pratico di ‘compensazione muscolare’... «Allungo ‘religiosamente’ le aree che tendono a contrarsi, inizio e finisco gli esercizi con la parte di corpo più debole, che può essere destra o sinistra a seconda dell’area anatomica, o metto dei chili extra su un lato. Puntuale come la rotella iridata sul computer, il FIG-ness trainer avvicina il suo pizzetto rasato e mi dice ‘Ehmmm... i pesi sono sbilanciati, devi metterli uguali altrimenti...”. Ho ipersviluppato il deltoide posteriore per evitare di piegarmi in avanti come

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Mai giocato un minuto per pareggiare il numero delle dita. Alla malformazione non ci penso, non mi ricordo. gran parte degli over metro e novanta. Quel piccolo muscolo e le sessioni di extrarotazione impediscono ai pettorali e ai deltoidi anteriori di ingobbirsi in avanti. È inutile gridare ai bambini ‘su bello dritto’ se sono tutti intraruotati». E a te lo dicevano ‘su bello dritto’? «Certo. “Scrivi con la sinistra” e sono destro naturale, “Parla più chiaramente” e avevo un tumore alla gola, deficienti, “Siediti bene” e avevo una chiappa a pelle viva per il trapianto di cute alla mano. Una bastarda di suora mi ha dato uno sculaccione giusto sulla chiappa sinistra, così tutte le garze si sono incollate al mesoderma. Ho tutti i testimoni che vuoi». ...cosa avevi fatto? «Non ricordo, sicuramente qualche discolata, ma non una messa nera o un placcaggio in refettorio! Qualcosa da bambino di sette anni». Stupisce che ne parli in termini ironici. «Me lo dicono spesso ma io non me ne accorgo, parlo sempre così. Non ho rancori, ma neanche interesse a fare il buonista. Uno sculaccione in una zona di trapianto si chiama gesto ‘canchero’, che lo faccia una suora o Alice Cooper». Ecco, parliamo di musica, molti sportivi ascoltano rock o suonano, ma pochi vivono entrambe situazioni... «La ‘Rock life’ si identifica sempre con coca, Jack Daniel’s e frasi biascicate. È un problema italiano, causato dagli importatori, ancora peggio dai traduttori. Le interviste ai rocker hanno sempre doppiaggi da “yeah, dammi una dose”.

Terribile. Alcool e droga sono uno dei molti aspetti, ma non sono il rock. Fa comodo per poter creare delle copie italiane a tavolino siamo diseducati a guardare i rocker come i pittori. Qualcuno è alcolizzato e bohemien ma non tutti. E appena uno si ripulisce, tutti in coro a dire che suona peggio. E poi c’è il razzismo, forse peggiore di quello del calcio». Peggio? «Forse sì. Fischiare un giocatore di colore, per esempio al Bentegodi, almeno si autoqualifica e autosqualifica. Se non sei un viscido perverso ti irriti e ti contrai in automatico, almeno spero. Però nella musica è diverso. Ti faccio un esempio: un rocker bianco sopra i 70 anni merita pannolone, casa di ricovero e parecchio acustico. E tutti ridono. Se dici lo stesso di un bluesman di colore vieni arrestato. Perché il nero ha la musica nel sangue, i campi di cotone, etc. Più invecchia più guadagna verità e soul. Doppio razzismo, verso i neri e verso i bianchi. Vuoi un esempio veronese?». Prego... «Un produttore di film e documentari della tua città mi ha detto di essere un esperto di rock, di avere non so quanti dischi e di aver condotto un programma radio per anni. Dopo mezz’ora ha infilato la perla: “Mick Jagger è vivo per miracolo etc. etc. e gli hanno pure cambiato il sangue”. Ora pro nobis. La leggenda nasce da Keith Richards, quindi ha cambiato padrone, e nasce da una battuta del 1972. “Cosa fai in Svizzera, Keith?” e lui, tipico inglese: “Ho trovato una clinica dove cambiano il sangue”. Ancora adesso,

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...e che ti sei trasferito in Svizzera per comprare il sangue di Keith Richards di seconda mano. «Confermo». Da dove viene il tuo humor? «I due nonni paterni e i Rolling Stones hanno fornito il 99%, ma è un’analisi dei miei amici. Io, ripeto, non ho l’impressione di scherzare. Anche se so che lo faccio sempre, anche nel sonno mi dicono».

Pausa nell'allenamento di Rugball del FC Lugano calcio

lui che ha lasciato la droga nel 1978, l’anno di Papa Luciani, è un simbolo di tossicodipendenza barcollante (ride n.d.r.) mentre il cambio del sangue ha cambiato persona. Questo è il nostro livello generale sulle cose anglosassoni, sport, rock, brexit, soprattutto sport. Negli Anni Settanta i pub e i college del rugby, del cricket, del rock erano gli stessi, l’humus è quello. Clapton, Jagger (col suo sangue, credo), i Kinks, Rod Stewart andavano a scuola, al campo e al pub con gli sportivi. Invece nella nostra Britannia inventata c’era un’Inghilterra per Ozzy Osbourne e una tutta diversa per Jonny Wilkinson. Gli illuminati dei miei insegnanti mi chiamavano dispersivo e mi bocciavano. Qualcuno lo fa ancora adesso, per fortuna in metafora. In realtà mi occupo di musica e sport britannici, in diverse declinazioni. Ma l’argomento è uno solo, come uno si occupasse di cucina, calcio e musica napoletana. Credo la definizione migliore sia ‘completo’ e non ‘dispersivo’. L’equazione è sbagliata alla radice». Però sei e ti senti molto italiano, veneto e bellunese... «Profondamente! Non scimmiotto mai culture che non mi appartengono. Altri bellunesi appena atterrano a Cologno Monzese o Saxa Rubra cambiano le vocali e dicono amisci invece di amici. Mi son da Belun, forza Alleghe! Tutti abbiamo una parte maschile, una femminile e una… dell’Alleghe». Anche per l’università hai scelto il Veneto: Ca’ Foscari e Feltre (con una tesi sui Led Zeppelin) e tra le altre una laurea

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in Lettere: è vero che non hai mai ritirato le lauree? «Si, mi piace l›università, non la zia che canta “dottoreee, dottoreee” o il quadretto appeso. Dà direzione allo studio, mi fa allegria. Sono stato rimandato e bocciato alle elementari, alle medie e soprattutto al Liceo. Poi, dicono per salvarsi, in due mesi sono maturato. La realtà è che all’Università ho trovato grandi insegnanti. Mi avevano anche iscritto a Storia, ma con l’arrivo dei crediti ho lasciato stare». Però parli serbo croato, argentino e chissà quante altre lingue. «Ho preso al volo le opportunità offertemi da compagni di squadra stranieri e dalle occasioni di vita. Senza paura di sbagliare. E senza fare erre mosce o esse sibilanti». È inutile che fai finta di nulla: parli sette lingue, hai tre lauree, qualche master. E poi hai svoto corsi di arbitro e allenatore… «Resto universitario e giocatore, non mi sentirò mai laureato, né dirigente e né poliglotta. Che poi per arrivare a sette lingue devi contare Serbo e Croato come lingue diverse, allora già che ci siamo aggiungi anche il dialetto bellunese e il gergo di spogliatoio, così arriviamo a dieci!». Su IMDb.com (il database di cinema e fiction) oltre a vari fatti curiosi e bellissime fotografie si riporta anche che smentisci di parlare Hindi… «Credo di essere sotto le dieci parole e non so l’alfabeto. Quindi smentisco per forza».

Rolling Stones? «Guarda il testo diabolicamente ironico di Far Away Eyes, un esempio tra tanti, o leggi il libro di Daniela, non è pubblicato ma te lo dà volentieri. È la sua storia con gli Stones conosciuti tardissimo a traino dello sport inglese. Racconta dall’angolo del non sapere, cosa che si pubblica e legge troppo poco. Descrive perfettamente i pregiudizi che aveva prima della “conversione”. Magnifico». Molti sportivi si chiedono se la tua mano destra (la malformazione è dovuta ai tremendi effetti del talidomide, il farmaco che negli anni Sessanta ha causato decine di casi di focomelia n.d.r.) ti abbia limitato nella carriera sportiva o se ti ha dato invece la motivazione per raggiungere, caso unico, la serie A di rugby. Oltre a grandi risultati in altri sport, a un’età in cui gli altri smettono... «Nessuna delle due. Mai giocato un minuto per pareggiare il numero delle dita. Alla malformazione non ci penso, non mi ricordo. Mi viene in mente solo per scherzare o quando devo riaprire il terribile capitolo del non indennizzo (Luca non ha mai preso un centesimo, nemmeno per le enormi spese sostenute per le decine di operazioni subite n.d.r.). Ho perso mesi di sport da piccolo: mi sono storto la schiena per le asportazioni di pelle dalle chiappe. Ma ero scarso per altri motivi, non per la mano. Adesso a volte vengo a sapere di aver perso selezioni od opportunità perché qualcuno contava le dita invece che i palloni vinti. Credo però che, ancora peggio, abbiano influito quelle inossidabili voci di droga che non mi sono mai scrollato di dosso. Forse per questo sono sensibile a quei ‘Jagger gli cambiano il sangue’ di cui parlavamo prima». Da dove viene quell’impressione? «Rock, animali, vestiti, stramberie, il mate. Anche a questa salutare erba sudamericana - che beve anche Papa


Francesco - si attaccavano. Tutto per fare una telecronaca al mio posto o per giocare al mio posto. Qualche volta purtroppo ha funzionato. Mi alleno due volte al giorno, calibro il cibo, unico sgarro la birra, mai nemmeno fumato. Eppure gente con glicemie e panze da iperspazio, che fa gite a Lugano perché la prostituzione è legale, dice tatticamente ai direttori che forse è meglio un ‘normalotto’, cioè uno di loro. Poi tornano dalla loro famigliuola (entità ibrida tra famiglia e aiuola n.d.r) e dalla loro compagna bella come il trapano del dentista. Che quando digerisce male ti lancia i bigodini sul piatto…».

Rugby League, campionato italiano 2011, Maginifici Firenze - Catania, semifinale (ph. Pino Fama)

In realtà tieni conferenze, docenze universitarie, team building aziendali: sei/ti senti un life coach? «No. Detesto quei termini. E detesto pure chi organizza eventi e chi chiama ‘progetto’ anche la pizza del giovedì sera. Sono quasi sempre coperture per gentucola che vive con i soldi dei genitori. Gente che ci contatta per finanziare Sport Crime ma poi deve chiedere i soldi a casa per pagare i mutui». Pochi sanno che hai il morbo di Crohn (infiammazione cronica intestinale che può colpire tutto il tratto gastrointestinale n.d.r.). Se non sbaglio mangi solo uova, pesce. Il resto sono esclusivamente integratori. Eppure giochi a hockey con ventenni di scuola svizzera. Come fai a essere così in forma? «Sì, non mangio un frutto o un pasto normale da quasi sette anni; se lo faccio rischio convulsioni o peggio. Ciononostante mi sento fortunato: ho capito come integrare, posso mangiare anche banane mature e tofu. Il Crohn Scena da «Kick the Junk», con Alice Piano. Episodio sulle verità nascoste della preparazione fisica delle rockstar (ph. Pino Fama)

è tremendo ma ha dei lati positivi. Per esempio per me ogni uovo è diverso dall’altro. Sento sfumature e colori che non conoscevo. Bevo bicchieri di olio per trasformarli in zuccheri, non potendo ingerire carboidrati. Ogni goccia di olio è diversa dall’altra. Devo mangiare ogni 5 ore senza sgarrare e ogni pasto è una festa. La stessa pagnotta di tofu cambia dal lato destro a quello sinistro. Sono costretto a un rigore rigidissimo e questo paradossalmente mi tiene in super forma. Non ho mai dichiarato la malattia per pura sfiducia nel sistema sanitario: se non mi indennizzano la mano figurati una cosa difficile da dimostrare come il morbo di Crohn».

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Apprezzo il tuo spirito, ma sicuramente ci sono lati negativi. In genere i cronizzati smettono di giocare... «Sì, il costo degli integratori è altissimo, senza Chron Sport Crime sarebbe già su Netflix o altra piattaforma! Peggio ancora sono le tentazioni: la nostalgia del cibo, il sognarsi le orecchiette col pesto o lo Skiz (prodotto tipico bellunese n.d.r.). E l’ignoranza della gente che ti attacca con critiche, derisioni e suggerimenti giusto nel momento dei morsi della fame, con frasi tipo: “Ma lo sai che è psicosomatico?”, “Ma secondo me questo puoi mangiarlo”, “Hai provato con l’aloe?”. È tremendo, li vedi mangiare e ti provocano mentre senti il profumo del cibo. Però penso agli altri cronizzati che a differenza mia non trovano ‘la linea del cibo’ e sono condannati a vivere poco. O penso a chi ha malattie che nessuna compensazione può controllare. Io vivrò e giocherò per altri 70 anni, non scherzo. Anche e soprattutto perché non ho mai preso sostanze tossiche, soprattutto dal cibo. Mi dispiace per quelli che – soprattutto nel rugby italiano e nelle tv sportive – non vedono l’ora di intitolarmi un torneo alla memoria». Da quanti anni sai di avere il Chron? «Ufficialmente, anche se in segreto, da sette. Ma se ripenso a certe partite in Serie A in cui mancavo di lucidità, posso risalire a cibi ‘pericolosi’. Credo di averli sofferti meno all’inizio poi sempre di più fino all’intolleranza rischiosa. La mentalità all’epoca però non comprendeva la personalizzazione: se faceva bene a uno faceva bene a tutti. Quindi: giù, magna!». Ritorniamo all’hockey… «Mi dicevano: ”Non puoi giocare a hockey ghiaccio se non inizi a pattinare da

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bambino”. E vai di auto divieti falsi. È come dire che le lingue si imparano solo sul posto: care vecchie idee che danneggiano la società e sembrano vere solo perché si dicono spesso. Ho iniziato a 40 anni, ho un pattinaggio rozzissimo ma gioco con una dignitosa squadra amatoriale svizzera. Sì, ci sono ragazzi giovani che vengono dai grossi vivai locali. Ho voluto farmi una seconda adolescenza partendo dalle cadute goffe, d’altronde era il mio secondo sport, avessi giocato a hockey da bambino a 40 anni sarei passato al rugby. Adesso gioco molti minuti, copro tanto ghiaccio, mi impegno tantissimo, preparo le partite contro la squadra della banca come fosse la finale di Stanley Cup. Faccio allenamenti specifici sull’agilità che poi porto anche ai calciatori. Ah sì, ecco un’altra verità micro borghese: non si diventa più veloci o più agili invecchiando. Io corro e scatto il doppio rispetto agli anni di Casale e Viadana. Ho dei grandi compagni di squadra, mi hanno preso da sotto zero e si vantano molto dei miei progressi, giustamente. Da quest’anno il GGDT Bellinzona hockey è la squadra con la quale ho giocato di più, ha superato il Belluno rugby per 13 anni a 12». Hai mai pensato di smettere di giocare? «Mai. Posso alternare i miei sport, mixarli, tornare al Rugby League o a 7 o a 15, provare l’hurling. Mi piacerebbe rigiocare un po’ di pallanuoto e cricket ma no, smettere mai. Se mi senti parlare di periodo sabbatico significa che sto ascoltando i Black Sabbath». Hai allenato disabili, squadre femminili e le giovanili del calcio Lugano… «Mi mancano, ma so che è un tipo di lavoro compatibile con le riprese, i festival e la vita di chi fa serie TV. Siamo anche produttori, quindi Daniela e il regista possono manipolare il calendario per

continuare ad avere due professioni legate allo sport come lo intendo io. Abbiamo iniziato anche a Verona, tre sessioni magnifiche, speriamo di trovare un accordo presto». Sport Crime, è una serie TV internazionale dedicata all’investigazione sportiva: com’è recitarci? «Macché recitare. Daniela e il boss occulto, che lavora in una grande azienda che ci metterà in onda e se lo nomino scatta il conflitto di interessi, hanno deciso di cucirmi la serie intorno: faccio la parte di me stesso, così come sono. All’inizio non volevo perchè il mio istinto gregario, rugbista e bellunese respinge il protagonismo. Oltre al fatto che mi vedevo ‘bello’ come i mostri di Dario Argento». Cosa non ti piace del Veneto? «Il ‘polentismo’, quello stereotipo generale che fa di tutti noi una specie di ciò, di ostregheta, di furbetto lavorante e ignorante. E le canzoni degli alpini: se i Deep Purple avessero scritto “la me morosa vecia la tegno de riserva” sarebbero stati annegati sul Piave». Vivi in Ticino da molti anni, cosa ti manca della tua terra? «Il congiuntivo dei verbi, nient’altro. Per il resto ci sto benissimo». Possiamo chiudere con la domanda più scomoda? Si sentono nomi di attrici, Hollywood, Bollywood. Il tuo clan scherza continuamente su queste tue amicizie con rockstar e personaggi famosi come, per esempio, Jennifer Lopez... «J.Lo non l’ho mai incontrata nemmeno all’aeroporto, non siamo mai stati nella stessa città contemporaneamente, non ho mai scambiato con lei né una sillaba né una mail. Credo che questa storia nasca da un equivoco tra colleghi a Telepiù/Sky dove lavoravo venti anni fa. Conosco, si, qualche rocker, ma il resto sono tutte balle». Luca, ultima domanda: perché hai accettato di rilasciare a SportdiPiù magazine questa intervista e darci queste risposte esclusive? «Per stima, semplicemente ed esclusivamente per stima.».


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di Gian Paolo Zaffani - Foto: Paolo Schiesaro

SPO RT LI FE

Ciak,

si gira!

L

a volontà di raccontare un periodo particolare, di condividere il momento ma anche di fare riflettere. Bobby Jones, giocatore della Tezenis Verona, ha vissuto una quarantena, per certi versi, speciale. Sicuramente la possiamo definire ‘creativa’. Durante il periodo che ci ha costretto tutti nelle proprie case, Bobby ha pensato bene di trovare un escamotage per ingannare il tempo, per riempire quelle giornate che altrimenti sarebbero diventate ancora più lunghe da vivere. Da qui è nata l’idea di realizzare un documentario video di quasi 15 minuti sulla quarantena in Italia e di pubblicarlo sul proprio canale Youtube. Una raccolta dei momenti più importanti che ci hanno accompagnato: dal primo discorso di Trump, alle decisioni del Premier Conte al cambiamento della quotidianità, condito con tante clip che riescono anche a strappare un sorriso.

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“L’idea di creare questo documentario è nata in maniera spontanea” – ci racconta Jones – “la mia passione è quella di realizzare tanti video e negli ultimi anni mi sono sempre divertito a documentare le mie esperienze. Inoltre, in questo periodo, mi ha mantenuto attivo e lavorare su questo progetto ha avuto degli aspetti positivi”. Anche per un atleta professionista, le giornate sono cambiate. La routine è cambiata. Le giornate scandite dagli allenamenti in palestra sono via via diventate un ricordo e nel frattempo è cambiato tutto. Gli allenamenti si fanno in casa, in videoconferenza. Un modo per ritrovarsi anche con i compagni di squadra e con lo staff. Però il tempo libero a disposizione è tanto, tantissimo. “Non ero sicuro che le persone


che pensiamo di essere”. Per ora il basket passa in secondo piano. La Tezenis, fermata dopo aver ripreso brillantemente la corsa nella seconda parte della stagione, ha dovuto osservare un lungo periodo di stop. Jones, a Verona, è l’ultimo giocatore arrivato in ordine di tempo assieme a Federico Loschi. “Conoscevo già la città” – conclude il numero 15 gialloblu – “e i compagni di squadra, quindi l’arrivo in gialloblù è stato facile. Stavamo giocando il miglior basket in campionato quando è iniziata la pandemia, non importa come finirà la stagione, spero però di raggiungere il traguardo che ci siamo fissati con la Tezenis quando si potrà tornare in campo”. apprezzassero il mio video” – ha proseguito Jones – “ma il mio obiettivo era quello di condividere informazioni e prospettive. Tutti, sul nostro pianeta, sono influenzati in modo diverso, io volevo solamente raccontare la realtà e dare una visione della situazione”. Il racconto dei primi giorni è già stato pubblicato. Ora, però, Bobby è stuzzicato dall’idea di andare oltre. Di raccontare anche la seconda fase e dare quindi un seguito alla sua realizzazione: “Sto pensando a

come mettere assieme la prima parte con la seconda per creare un documentario più generale. Intanto sto documentando tutto e dentro di me ho un sogno che è anche una speranza: cioè di raccontare un lieto fine”. Il lieto fine, passa naturalmente anche da momenti più difficili. Jones, questo momento, l’ha raccolto così: “Questo periodo caratterizzato dal Coronavirus ci deve portare a valutare di più le piccole cose della vita e farci capire bene che non abbiamo il controllo totale di tutto quello

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I NTERVISTA o t t o ig p m a C e David

Canestro volante di Andrea Etrari - Foto: Dunk Italy

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assione, innovazione, fantasia, pazzia. Queste le caratteristiche dei Dunk Italy, parole che appaiono anche nella home page del loro sito www.dunkitaly.com. Stiamo parlando di uno dei più famosi gruppi di basket freestyle in Italia e in Europa che si cimenta in evoluzioni con il pallone da basket e schiacciate spettacolari, in gergo chiamate con il termine dunk. Pochi sanno che il leader dei Dunk Italy è un trentenne veronese, Davide Campigotto. “La passione per il basket” – spiega Davide – “mi ha portato a voler migliorare costantemente, concentrandomi molto sulla parte atletica e tecnica. A 13 anni sono riuscito a schiacciare per la prima volta nella palestra della scuola, con una palla da pallavolo e canestro regolamentare: ero al settimo cielo! Da li in avanti il mio obiettivo è stato quello di migliorare

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sempre più il gesto atletico del salto, cercando ogni giorno di inserire qualcosa di nuovo nel mio repertorio”. La svolta però arriva quando Davide viene chiamato dai DaMove, all’epoca l’unica crew di basket in Italia. “Ho cominciato ad esibirmi con loro” – spiega – “e lì iniziò la mia strada nel mondo del basket freestyle, imparando nuovi salti, nuovi trick di freestyle, a rapportarmi con il pubblico e gestire l’ansia di esibirmi davanti a centinaia di persone. Dopodiché fui invitato da un team di soli schiacciatori, i Dunk Italy, a portare la mia esperienza di dunker nel loro gruppo e a crescere insieme cercando show nelle società di basket. Nel susseguirsi delle situazioni, mi trovai a prendere in mano completamente la gestione del team, sfruttando l’esperienza pregressa: la mia visione di show era quella di offrire al pubblico uno spettacolo vario e coinvolgente, che potesse intrattenere un pubblico di bambini ma anche adulti”. Il team fece così un altro passo in avanti, ingrandendosi e accorpando altri atleti. Spiega Davide: “Da quel momento entrarono a far parte del team vari freestylers dal gruppo Urban Tricks, per creare un format più versatile e interessante. Negli ultimi 9 anni le cose si sono fatte serie perché i Dunk Italy si sono fatti conoscere in tutta Italia grazie a molto lavoro di marketing, ma anche qualità sul campo grazie ad atleti di

spicco che hanno lavorato sempre con molta passione e dedizione. Nel 2013 decisi di aprire l’Associazione Sportiva Dunk Italy di cui sono il presidente: lo show continuava a crescere di livello, perfezionando coreografie e collaborazioni che potessero stupire il nostro pubblico durante i tour di show”. Nel 2014 un’altra svolta, con l’uscita dai confini nazionali. “Ci esibimmo ai Mondiali di Basket in Spagna davanti ad oltre 30.000 spettatori a

partita, poi agli Europei Under 16 e U18. Al rientro dalla FIBA World Cup, la svolta: iniziammo a testare il trampolino elastico, per poter offrire al grande pubblico uno show altamente spettacolare, acrobatico e adrenalinico. Grazie al cambio di rotta i nostri show sono aumentati di anno in anno, regalandoci grandissime soddisfazioni e incontrando oltre 300.000 spettatori ogni anno, fino a guadagnarci vari Guinnes World Records tra cui quello

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per la schiacciata con il salto mortale dalla maggior distanza, ovvero 8.10 metri”. “Personalmente” – conclude Campigotto – “credo che i nostri show debbano essere uno strumento per invogliare i ragazzi a divertirsi ed impegnarsi per raggiungere i loro obiettivi, per creare un basket unico e innovativo, sempre in movimento.

Avvicinarci ai ragazzi durante i nostri show ci regala emozioni meravigliose: vederli sorridere dallo stupore, alzarsi in piedi e applaudire, filmarci con i cellulari, correrci incontro per batterci la mano o per chiedere l’autografo è una sensazione indescrivibile”.

Descrizione di Giuseppe Mero

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di Alberto Cristani - Foto: Paolo Bargiggia

I NTERVISTA ia Paolo Bargigg

L’uomo dei segreti

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er lui lo sport non è solo un (il) lavoro, ma una passione che lo accompagna sin da ragazzino: quando gli amici passavano le serate in discoteca lui restava in casa per guardare la Domenica Sportiva.

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Piccoli dettagli, ma che fanno la differenza. In questa intervista si è raccontato e ci ha raccontato il calcio, i suoi protagonisti e svelato I segreti del calciomercato, titolo del suo ultimo libro uscito lo scorso giugno.

Ai lettori di SportdiPiù magazine Paolo Bargiggia ha svelato il suo percorso professionale, ricco di aneddoti e incontri speciali, e analizzando il ruolo del giornalista (sportivo e non), professione sempre in continua evoluzione.


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Negli anni ho avuto tantissimi buoni rapporti, ma non ho mai frequentato nessuno fuori dal campo. Il migliore? Ronaldo O Fenômeno: giocatore e uomo vero Paolo, innanzitutto raccontaci come hai cominciato la tua carriera di giornalista? «Sono sempre stato curioso, critico, con una certa vena polemica. Questa è stata un’evoluzione del mio carattere, andata in parallelo con la mia passione per lo sport. Praticavo infatti tennis a livello agonistico e ho sempre seguito con attenzione lo sport: giusto per capirsi io ero quello che si staccava dal gruppo per leggersi in pace La Gazzetta. Poi è arrivata l’occasione: a Pavia seguivo da tifoso la squadra di calcio in C e la squadra di basket, Annabella, in A1. Ho cominciato a scrivere lettere ai giornali per esprimere i miei pensieri da tifoso, mi piaceva e quello che scrivevo faceva discutere. Ricordo che dopo una mia lettera di analisi un po’ polemica, l’allora allenatore dell’Annabella, Marco Calamai, mi convocò nelle sede per un confronto a quattro occhi. Poi, per qualche mese, ho collaborato per il quotidiano La Provincia Pavese. È nato tutto così... Cosa è cambiato da quando hai iniziato? «Prendo spunto dal mio libro I segreti del calcio mercato dove racconto le mie esperienze di cronista, sia di calciomercato che da inviato, a partire dagli Anni Novanta. In questa narrazione si capisce che si tratta di due diverse epoche: ci sono cambiamenti nel rapporto umano con i protagonisti e nella possibilità di frequentarli. Nel libro racconto che, per esempio, si aspettavano i giocatori sui campi di allenamento e se si riusciva ad avere un buon rapporto con loro, si faceva l’intervista. Ovviamente era una cosa meritocratica, non tutti avevano la possibilità di farla. Io ho fatto per Mediaset l’inviato per l’Inter di Moratti al quale feci un'intervista nel dicembre del 1994. Parlavo poi direttamente con i giocatori, come Ronaldo, con grande confidenza, sempre nel rispetto dei ruoli. Sicuramente c’è stata un’involuzione data dal proliferare dei media nel mondo del calcio e anche una sovrastima

Paolo Bargiggia con l'amico Francesco Gullo

del presunto potere dei club, che trattano i media come se fossero ospiti a casa loro. La nostra categoria si è poi fatta allontanare dal 'tempio' e questo si ripercuote sulla qualità dell’informazione. Inoltre, oggi è tutto filtrato dagli uffici stampa e dalle conferenze conferenze: è più difficile arrivare direttamente ai protagonisti. È più difficile per le nuove generazione perché c’è uno svilimento dell’informazione, della meritocrazia e dei direttori delle testate sportive. Io oggi salvo solo Iacobelli di Tuttosport, gli altri sono montati e passacarte che non insegnano nulla». Oggi poi è più difficile trovare qualcuno disposto a far fare la gavetta a chi vuole imparare questo lavoro: chi diventa giornalista raggiunge il suo obiettivo tende a chiudersi nel suo guscio... «Si, hai ragione, la globalizzazione ha travolto tutti i mestieri abbassandone qualità, merito e retribuzione. Io ho sempre avuto passione e ho sempre cercato di trasferirla. C’è bisogno di un 'anno zero' dove il giornalista torni ad essere veicolo di informazione. Oggi ci sono più strumenti, ma c’è un paradosso. Nei paesi anglosassoni non c’è l’Ordine dei Giornalisti, non è una casta e non ci sono tutele a prescindere e chi è bravo viene premiato. Quindi è stimolato a lavorare e a fare inchieste. In Italia il movimento non cresce».

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Hai mantenuto contatti con gli sportivi che hai conosciuto? «Ni, nel senso che sono stato bravo o opportunista nel creare rapporti di empatia per quello che mi serviva, ma ho sempre messo davanti la notizia. Negli anni ho avuto tantissimi buoni rapporti, ma non ho frequentato nessuno fuori dal campo. Però non ho mai tradito nessuno e ancora oggi se chiamo qualche direttore o dirigente ho dei buoni riscontri». Tra carta stampata e Tv cosa scegli? «Scrivendo si impara di più a fare questo mestiere, anche se oggi la carta stampata è in ginocchio e ne risente la qualità di insegnamento. La Tv è più facile, non scrivi nulla, basta avere buone immagini e buon montatore. Io sono arrivato in TV dopo aver lavorato al Corriere dello Sport con un vantaggio pazzesco, perchè in redazione ho imparato il mestiere. Sulle notizie non avevo concorrenti: non

avevo concorrenti, infatti devo dire grazie al direttore di allora Ettore Rognoni che mi affidò l’Inter e il calciomercato. Il giornale insegna di più, ma in una società edonistica come la nostra la gente cerca di lavorare in TV. Oggi poi, molti editori hanno cominciato a mettere come conduttrici belle ragazze, dando a loro l’illusione di sentirsi giornaliste e di acquisire credibilità professionale».

stato nell’aprile del 1997, quando al Tg5 delle 20 raccontai in esclusiva che l’Inter aveva acquistato Ronaldo. Un altro episodio importante fu quando dissi che Higuaín aveva detto no a Napoli nel marzo 2016. Oppure nel 1994 al Corriere dello Sport, titolo in prima pagina, Il Milan ricompra Gullit. Queste sono un po’ le tre cose principali, poi ce ne sono tante altre».

Rapporto con i social? «È stato tardivo, pian piano mi son fatto convincere anche dai miei figli. Li uso tutti e tre: Twitter per lavoro mentre Instagram e Facebook soprattutto per svago».

Oggi ci sono meno scoop e notizie che possono far la differenza? «Purtroppo, oggi il mercato è diventato globalizzato, quindi è più difficile nascondere fonti, controllare, arrivare prima».

Calciomercato: ne hai viste di ogni. Qual è stato il colpo di mercato che hai dato in anticipo? «Sono tutti raccolti nel mio libro, ma sicuramente per la risonanza mediatica è

Il tuo rapporto con i colleghi? «È un mestiere molto competitivo, dove per una firma ti becchi delle coltellate. È una categoria che sviluppa l’ego delle persone ed è poco solidale. Meglio avere un’etica propria, rispettando i colleghi». Professione e famiglia? «I miei figli ora sono gradi e vivono fuori casa. Hanno cercato di trovare la loro autonomia e zona di luce per non farsi fare ombra da un padre ingombrante. Per la mia professione posso dire di non aver goduto a pieno della famiglia e dei figli perché spesso ero in trasferta». Tra i personaggi che hai conosciuto, con chi andresti a cena? «Ti dico Ronaldo O Fenômeno brasiliano. Ha una storia affascinane e un vissuto incredibile. I giocatori di oggi sono figli del tempo, più finti e artefatti: quelli come Ronaldo erano giocatori e uomini veri»».

Paolo Bargiggia con Ronaldo O Fenômeno

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magazineinserto speciale Speciale realizzato in collaborazione con l'Area Comunicazione Hellas Verona F.C. - Responsabile Andrea Anselmi.

A N O R E V S A L HEL SERIE A

Maurizio Setti GIOVANILI

o t n o c Vi rac a n o r e V o i il m

Adama Sane

WOMEN

Giorgia Motta

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Foto: Francesco Grigolini

Maurizio Setti

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Setti: “Vi racconto il mio Verona più bello”

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Il periodo storico che stiamo vivendo sta mettendo tutti noi a dura prova. In questo momento è preponderante la preoccupazione per la salute e per la situazione sanitaria del nostro Paese. Ma contestualmente dobbiamo trovare la forza per guardare avanti. A Maurizio Setti, che è padre, imprenditore e uomo di calcio, le responsabilità non hanno mai spaventato. Se le è sempre assunte, in prima persona. Per sé e per gli altri. “E’ un momento delicatissimo – esordisce il Presidente dell’Hellas Verona -. Ma dobbiamo trovare la forza di rialzarci. E di lottare. Io l’ho sempre fatto. Se vogliamo anche per necessità. Sono figlio di operai, nessuno mi ha mai regalato niente…”. Presidente, come sta vivendo questo momento? «Con preoccupazione, come tutti. Anzitutto per la salute. Che è un requisito imprescindibile e un bene primario. In assoluto e mai come ora». È un momento difficile per tutti: prima va tutelata la salute e aiutata la sanità, come ha giustamente premesso lei, ma bisogna anche pensare responsabilmente a come contribuire al rilancio economico del Paese. L’Italia avrà la forza e la capacità di rialzarsi? «Non ho dubbi, in merito. Gli italiani hanno il DNA per trovare soluzioni per ogni sfida, ecco perché c’è una quantità spropositata di contributi degli italiani all’umanità. L’Italia ha prodotto più inventori, esploratori, artisti, ingegneri e molti altri geni pro capite di qualsiasi altro paese al mondo…». Il calcio, in Italia, potrà essere uno dei motori della ripresa economica? «Certamente. Il calcio italiano, per fatturato prodotto, valore d’impresa e clienti interessati, è una delle principali industrie del nostro Paese e dà lavoro a centinaia di migliaia di persone. Ma non solo: è anche lo sport per eccellenza in Italia e ha un grande impatto e valore a livello sociale, aspetto quest’ultimo da non trascurare, anche – se non soprattutto – in considerazione dei momenti difficili e di grande sacrificio cui dovremo fare fronte nei prossimi mesi. Il calcio è da sempre fonte di gioia, di intrattenimento e di svago per milioni e milioni di italiani».

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Il presidente Setti con il DS D'Amico e mister Juric

E l’Hellas Verona è un patrimonio di una intera città… «Di una città profondamente, meglio ancora visceralmente innamorata della propria squadra. Mi vengono ancora i brividi a pensare all’impresa dello scorso febbraio contro la Juventus. Un’impresa fortemente cercata e voluta. Un intero stadio, traboccante di tifo e di calore per la nostra squadra, ci ha letteralmente spinto, anzi trascinato, consentendoci di conquistare, in rimonta, una vittoria memorabile». Una vittoria che è stata il culmine di una stagione bellissima, sino alla brusca ma doverosa interruzione… «Sì, vero, stagione bellissima. E squadra entusiasmante. La possiamo paragonare al mio primo Verona in Serie A, anche se questa squadra, in più, ha una consapevolezza diversa, che ci permette di giocarcela anche con le grandi. Ecco perché la considero la più bella della mia gestione, visto che – oltretutto – incarna anche perfettamente lo spirito che appartiene alla nostra città e alla nostra tifoseria. Lo spirito del combattente. Ma non siamo solo questo, tengo a sottolinearlo e a rimarcarlo. Mister Juric è stato bravissimo: oltre all’agonismo, anzi al furore agonistico, è riuscito

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progressivamente a trasmettere una bellissima impronta di gioco alla nostra squadra. Un piacere vederla in azione. Contro la Juve, certo, ma fra le partite simbolo della nostra stagione metto anche quella a Roma, contro la Lazio, in un turno infrasettimanale nel quale abbiamo sfoderato un’autentica prova di forza, reggendo l’urto di un avversario fortissimo e di una serissima candidata per la vittoria dello scudetto». Tanti i meriti di Juric, ma anche di chi questo Verona l’ha costruito? «Indubbiamente. E mi permetto di prendermi un merito. Perché anche Tony D’Amico è una mia personale scommessa. Vinta. Lo dicono i fatti, ancor prima delle mie parole. Ha condotto un ottimo mercato estivo e ha completato l’opera in gennaio. A lui vanno ascritte le intuizioni che ci hanno permesso di portare a Verona due calciatori inizialmente poco conosciuti come Rrahmani e Amrabat, il cui valore assoluto è ben presto emerso, diventando anche un valore aggiunto per il nostro Club. Ma è il lavoro d’assieme di Tony che è stato eccellente, nella costruzione della squadra e poi nella gestione. Con lui ho un ottimo rapporto. Di stima e fiducia reciproche. Mi coinvolge molto e con lui il confronto è schietto e costruttivo».


Foto: Francesco Grigolini

Giovanili

Adama Sane e il ‘vizietto’ del gol

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entidue presenze, diciotto gol: basterebbe andare su Trasfermarkt e cercare il suo nome, per capire che stagione straordinaria è stato capace di mettere assieme. Eppure Adama Sane non lo puoi raccontare e capire solo dalle fredde cifre. Quelle è abituato ad averle fuori dal comune, da quando segnava 25 reti in 26 apparizioni con l’Under 17. Ma non basta, perché di questo ragazzo del 2000 arrivato dal Senegal ha una vicenda umana talmente diversa e particolare che, per capirlo appieno, merita di essere raccontata. Adama, raccontaci la tua storia. Partendo da quando eri bambino, in Senegal. «Il mio percorso è stato davvero particolare. Mio padre è arrivato in Italia, in provincia di Treviso, più di trent’anni

fa, e mia madre l’ha seguito poco dopo. Il caso ha voluto che, proprio al momento del parto, mia madre si trovasse in Senegal in visita ad alcuni parenti. Ed è proprio con questi parenti che io sono cresciuto, in Africa, fino all’età di quattordici anni. I miei genitori in Italia, a lavorare, io e i miei cinque fratelli e sorelle in Senegal». Proprio lì, quindi, hai iniziato a giocare a calcio. «Sì, lì non esiste un vero e proprio campionato, facevo parte di una formazione che girava di città in città, di torneo in torneo. Adoravo giocare lì, mi dava una gioia immensa. Poi, quando avevo 14 anni, i miei genitori decisero di riunire la famiglia in Italia, a Conegliano. Senza sapere una parola di italiano mi ritrovai così a giocare nella squadra del mio quartiere, ma ci rimasi ben poco».

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Dopo cosa accadde? «Finii dopo un paio di mesi nella Rappresentativa Regionale Under 15, e nel contesto di un torneo venni notato dagli osservatori del Verona. Dopo una settimana in prova ero già un giocatore dell’Hellas, a settanta giorni dalla mia partenza in Senegal. Da lì è iniziato il mio percorso, categoria dopo categoria, fino al prestito alla Juventus». Raccontaci dei sei mesi in bianconero. «Rientrai nell’affare Kean, una sorta di scambio di prestiti, e in quel contesto diventai calciatore professionista. Ma la Primavera della Juve aveva altri cinque attaccanti, tutti più vecchi di me, e così non vidi mai il campo. A gennaio chiamai il Verona e dissi che volevo tornare. Non esiste Juve che tenga, ho bisogno del gol per stare bene, in quel momento avevo bisogno di ritrovare quella che da quattro anni era una famiglia. Conservo comunque un bel ricordo di quel periodo, allenarsi con la prima squadra della Juve mi ha insegnato molto ed è una cosa che pochi possono dire di aver fatto». E qui veniamo ai giorni nostri. 8 gol lo scorso anno, 18 con 10 assist questo. È stato come

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ritrovare sé stessi? «È stato come tornare a fare il mio lavoro, ovvero gol. Non potevo fare scelta migliore che tornare e non potevo trovare un allenatore migliore di Corrent per le mie caratteristiche. Adoro ripartire in velocità e il mister chiede a tutti noi attaccanti di aggredire sistematicamente la difesa, con palle rubate alte sono arrivate tante soddisfazioni. La gioia più grande è ovviamente stata il raggiungimento della finale di TIM Cup contro la Fiorentina, non vedo l’ora di giocarla quando sarà possibile». Il tuo presente e il tuo futuro. «Da quando sono tornato, è stata fondamentale la vicinanza del direttore Massimo Margiotta, oltre a quella di tutta la famiglia dell’Hellas. Il mio sogno è quello di arrivare a giocare in Serie A, come stanno facendo diversi miei ex compagni di squadra. So che le cose vanno guadagnate sul campo e che questo, comunque finisca, è stato il mio ultimo anno di Primavera. Sono pronto a giocarmi le mie carte e fare il mio percorso, dovunque mi porti, per arrivare un giorno ad esordire al Bentegodi».


Foto: Riccardo Donatoni

Women

Motta, una calciatrice di sangue (giallo)blu

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iorgia Motta è una delle migliori riposte a chi pensa che il calcio femminile sia nato negli ultimi anni. Una zona del calcio rimasta a lungo inesplorata - sorretta dalla passione di chi per tanto tempo l’ha curata - e che, ora, vive un’evoluzione tanto repentina quanto… attesa. Sono cambiati i club che compongono la Serie A, tra cui l’Hellas Verona che è tra le 7 società italiane a poter vantare la propria presenza nel massimo campionato sia a livello maschile che a livello femminile, ma non sono cambiate anche le giocatrici: Giorgia Motta, che ha esordito in A nel 1998, porta con sé il peso di questa tradizione e di questi cambiamenti, il disegno di un mutamento che deve ancora compiere mille dei suoi progressi, narrato da una giocatrice che è tra le più vincenti della storia del calcio femminile italiano.

6 Scudetti, 4 Coppe Italia, 8 Supercoppe Italiane: ti guardi mai indietro? «A ripensarci sono davvero contenta della carriera che ho fatto fino ad oggi, ma devo essere onesta: non sono mai stata una che ha guardato spesso ai propri successi. Eppure penso che, forse, solo io e Cristiana Girelli fra le giocatrici ancora in attività possiamo aver vinto così tanto negli ultimi anni. Sicuramente i primi trofei sono tra i più belli da ricordare e, ogni nuova esperienza, ha portato tantissime gioie, penso per esempio alla Torres che è stato un periodo importantissimo della mia vita. Spero, più di ogni altra cosa, di poter trasmettere alle ragazze più giovani dell’Hellas Verona Women qualche frammento dei miei tanti anni. L’esperienza dicono non mi manchi (scherza, ndr), ma è bellissimo trovare ancora il piacere di condividere lo spogliatoio con una vera squadra e un

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grande gruppo come siamo quest’anno: ben assortite, tra giocatrici che da anni giocano in Serie A e altre che si lanciano in questo campionato». Hellas Verona: non solo la gioia di essere arrivata in questa squadra, ma anche una fede che ti accompagna da tutta la vita «L’Hellas Verona è anzitutto la passione più grande. Non riesco a vederla come la squadra per cui gioco, o meglio, all’inizio di quest’anno era strano: per me rimane sempre quella fede per cui soffrire e tifare dagli spalti del Bentegodi. E quanto mi manca poter andare al Bentegodi. È sempre stato così, da quando ero bambina, e devo dire che negli anni al Bardolino Verona comunque ci sentivamo, un po’, il Verona. Specie in quelle notti incredibili di Champions League allo stadio, con migliaia e migliaia di persone a tifare per noi insieme agli amici e ai parenti più fedeli, quelli che ti seguono a ogni partita. L’Hellas Verona, come gli altri club professionistici che sono entrati in Serie A negli ultimi anni, ci hanno dato la possibilità di sentirci veramente appartenenti a queste società. Per me è stata un’emozione, sempre con il ciondolo a forma di scala attorno al collo e con l’onore di portare la maglia gialloblù in campo». Una fede condivisa con Michela Ledri? «Ho conosciuto moltissime giovani, compreso quest’anno, che si presentano al massimo campionato. Certo è che come Michi Ledri non me ne ricordo nessuna. Lei era un caso particolare, ha esordito a 14 anni con l’atteggiamento e la sicurezza di una veterana, è una sua vera peculiarità. La sua prima partita europea è stata la semifinale di Champions League, questo ci fa capire ancora di più quello che intendo. Io mi sento la sua sorella maggiore, abbiamo giocato insieme per anni al Bardolino e poi, quando sono andata alla Torres, ho provato per anni a convincerla a venire in Sardegna con me, ma non ce l’ho mai fatta. Ci siamo ritrovate all’Atalanta Mozzanica, poi al Valpo e oggi all’Hellas Verona, che è un sogno per entrambe visto che condividiamo anche questa enorme passione per i colori gialloblù. Insieme abbiamo vinto partite pazzesche, alzato trofei, festeggiato e trascorso emozioni indescrivibili. Oggi anche lei ha tante stagioni sportive alle spalle, ma in tutti questi anni non ho ancora visto qualcuna esordire come lei». La chiamata dell’Hellas la scorsa estate? «Quando ho ricevuto la chiamata dell’Hellas Verona è stato come realizzare un sogno, è sempre la squadra del mio cuore, una sorta di educazione che ho ricevuto in famiglia. Il fatto di pensare di poter indossare quella ma-

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glia è stato come aggiungere in bacheca un’altra grande vittoria oltre ai successi avuti in carriera. Ho detto subito di sì. E poi vedere il mio nome lì sopra, in giallo sul blu, per quanto possa aver amato altre squadre in cui ho giocato, la maglia del Verona è tutta un’altra storia. È un’emozione paragonabile a quella di indossare la maglia della Nazionale». Hai parlato spesso di un grande gruppo… «Quest’anno abbiamo trovato un equilibrio importante, tante giocatrici che da anni giocano in Serie A e tante giovani. Non solo stiamo bene fra di noi, ma abbiamo parlato tantissimo. Anche nelle difficoltà. Non è scontato, perché in tanti anni di calcio ho imparato che il dialogo e il confronto diretto all’interno della squadra non avviene spesso, ma qui c’è spontaneità e franchezza fra di noi, volontà di raggiungere insieme l’obiettivo e di migliorare ciò che possiamo migliorare. Credo che l’Hellas, con tutte le giovani così importanti che ha in squadra, possa stabilizzarsi come una realtà importante nella Serie A femminile, tolto che da cittadina veronese mi sento orgogliosa di vedere entrambe le prime squadre nel massimo campionato. Spero inoltre che i tifosi dell’Hellas come lo sono io, conoscendo sempre più la nostra realtà, possano organizzarsi per sostenerci al meglio durante le nostre partite». Giorgia Motta e la Nazionale? «La prima chiamata in Nazionale arrivò subito dopo la mia esperienza in Spagna, dove sono andata nel 2004/05 per migliorarmi come calciatrice e per studiare. Sono grata di aver indossato quella maglia per vari anni, mi ha permesso di viaggiare in Corea, in Australia, in Brasile, di conoscere tantissime nuove realtà e di capire che, per un’atleta, i colori azzurri non sono un traguardo ma un nuovo inizio. Per uno sportivo l’Italia è un salto di qualità, ti fa capire l’importanza del lavoro quotidiano per rimanere ad alti livelli».


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I NTERVISTA i in t is t t a B o n ia Graz

di Alberto Cristani - Foto: Graziano Battistini / Francesco Grigolini

Cuore (e mani) gialloblu

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raziano Battistini è senza dubbio uno dei giocatori e portieri più amati dalla tifoseria dell’Hellas Verona. Debutta in serie A nel 1993, con la maglia dell’Udinese, dopo le esperienze nelle serie minori

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con Seregno, SPAL e Alessandria. Nel 1997 Battistini arriva all’Hellas Verona, in serie B. In gialloblu sarà titolare indiscusso per 2 stagioni risultando tra i protagonisti del ritorno della compagine scaligera in Serie A nel 1999, con Cesare Prandelli in

panchina. Nella stagione 1999-2000 parte titolare in Serie A ma poi perdere il posto a favore della giovanissima promessa Sébastien Frey. Per Battistini non c’è più spazio a Verona. Nell’ottobre 2000 firma un contratto annuale con il Treviso, in Serie B, ma a fine stagione


contratto. Battistini approfitta della pausa forzata per intraprendere gli studi universitari. Chiude la carriera con la maglia del Casale, in Serie C2 nella stagione 2005-2006. Dopo il ritiro diventa procuratore e, ad oggi, è uno dei più apprezzati e competenti conoscitori di calcio italiano ed europeo. Con questa intervista SportdiPiù magazine lo ha incontrato e ha analizzato il momento particolare del calcio durante l’emergenza Coronavirus. Partiamo da questo momento. Le indicazioni sono abbastanza restrittive ed è giusto che anche il mondo dello sport paghi si allinei… «Viviamo tutti nello stesso mondo e di conseguenza se dobbiamo fermarci tutti per una giusta causa, anche il mondo dello sport deve farlo».

sarà retrocessione. Nel 2001 viene ingaggiato dal Bari, in qualità di secondo portiere per le prime 2 stagioni, promosso titolare nel 20032004, e messo fuori rosa nella stagione successiva, non rientrando più nei piani della società pugliese, prigioniero del

Molti campionati, vedi per esempio volley e basket, sono stati annullati. Il calcio per ora non sembra aver trovato la ‘quadra’… «Nel calcio gli interessi economici ci sono e sono importanti. È quindi giusto provare a difenderli, sempre però nel rispetto della salute di tutti e nella salvaguardia di quello che è lo sport e i suoi protagonisti».

Graziano Battistini con la maglia dell'Hellas Verona

I tuoi assistiti come stanno? «In questo momento di stand by, li sento comunque sereni e in attesa di sviluppi. Sono ragazzi maturi, consapevoli del momento storico che stiamo vivendo. Si sono adeguati con molta serenità alla realtà dei fatti». Per te invece che momento è? «A livello professionale c’è da capire come mantenere vivo il motore del proprio lavoro e capire come venirne fuori. Ogni club non sa di che ‘morte deve morire’, non si capisce ancora il danno oggettivo di tutto. Per il resto ne approfitto per rilassarmi un po’ e ricaricare le batterie, pronto per ripartire a mille non appena ce ne sarà la possibilità».

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Battistini insieme all'amico Frey

Gli scenari che si prospettano sono comunque due: il campionato riprende o viene sospeso… «Assolutamente. Io però credo che la cosa più giusta da fare sia di provare a farlo riprendere nel rispetto degli investimenti fatti. Resterebbe comunque un campionato particolare. Sarà difficile per i giocatori che hanno già preso accordi e che magari da luglio dovrebbero essere in altri club. Starà all’intelligenza di tutti gestire al meglio queste situazioni. Se, al contrario, non dovesse ripartire ci saranno danni importanti perchè in Italia i club si sorreggono quasi esclusivamente grazie alle TV le quali non pagheranno o pagheranno meno rispetto agli accordi. Sarà un bel caos: tanti club soffriranno e qualcuno sta già utilizzando crediti dei prossimi anni». Potrebbe essere un anno zero, un nuovo punto di ripartenza? «Quando ti devi fermare hai la possibilità di riflettere e ripartire. Dobbiamo prendere atto della situazione e

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fare in modo di sfruttarla, renderla positiva, capire cosa fare per un calcio e un sistema più sostenibile. Io penso, per esempio, ad avere meno club professionisti, alzandone il livello, in modo da aumentare il dilettantismo». A livello umano questo stop cosa significa? «Sinceramente non pensavo fosse così importante la situazione: quello che si è sviluppato mi ha lasciato un po’ perplesso e anche un po’ spaventato. Ora cerco di viverla serenamente, rispettando le regole imposte, con speranza per il futuro. Dobbiamo essere bravi a trovare il modo per convivere con il virus con le misure giuste, confidando nella ricerca e nella medicina». Ormai sei un veronese acquisito: che rapporti hai maturato con la città, con i veronesi e con i veneti in generale? «È un rapporto eccezionale, con la gente e con la città. Il Veneto poi, in questa situazione, si sta dimostrando una regione che funziona. Tutto quello che è stato fatto è avvenuto con tempestività». Un tuo giudizio su Hellas e Chievo? «L’Hellas è la squadra rivelazione del campionato, ha fatto cose incredibili. L’allenatore si è integrato subito con i tifosi e ha fatto un grande lavoro con i giocatori. Può utilizzare questo per creare un circolo virtuoso e inserirsi nel calcio che conta. Stimo molto anche il direttore sportivo, sempre al lavoro per l’azienda. Per il Chievo dopo la retrocessione dell’anno scorso, poco combattuta, è difficile ricompattare l’ambiente. Forse serviva una scossa per riprendersi. Sembra che ultimamente

abbia trovato un po’ la quadra, ma ora è tutto in standby». E Aglietti può essere la persona giusta? «Sì, lui e pragmatico e intelligente, sa quello che fa. A Verona in un mese ha fatto un miracolo. Credo abbia le caratteristiche per compattare e ridare equilibrio a una situazione difficile. Un ricordo che ti viene in mente pensando all’Hellas? «Il clima e il calore del Bentegodi. Il tifoso del Verona ha reso l’atmosfera dell’Hellas unica nel suo genere». La partita con la maglia del Verona che ricordi con più piacere? «Sicuramente la partita giocata al Bentegodi contro il Napoli (6 giugno 1999 vittoria 1-0 con gol di Marasco n.d.r.), che ci ha consegnato la matematica promozione in serie A. Poi ricordo la partita a Salerno al debutto in campionato dove ho fatto una ‘cagata’ con i piedi (30 agosto 1997 SalernitanaVerona: 2-0. L’errore di Battistini permise a Di Vaio di realizzare il secondo gol). Da quella partita i tifosi inventarono il coro “Battistini coi piè” che è diventato unico». Quali sono i portieri più forti attualmente in circolazione? «Credo che Leali e Micai meriterebbero di giocare in serie A, ma non hanno ancora avuto la possibilità, come tanti altri. In serie A ci sono tanti stranieri: mi piacerebbe si ritornasse ad avere un occhio di riguardo per i portieri italiani, storicamente quelli con maggiore tradizione. E comunque, nel panorama attuale dopo Donnarumma, Cragno a mio avviso è il più forte».


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I NTERVISTA risi Giuseppe Galde

di Matteo Viscione - Foto: Vis Pesaro/Francesco Grigolini

Forever

Nanu volta abbandonato il Settore Giovanile, visto che fisicamente gli assomigliavo, hanno iniziato a chiamarmi come lui».

Giuseppe 'Nanu' Galderisi con la maglie dell'Hellas Verona conquistò uno storico scudetto al termine del campionato 1984-1985

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iao mister, posso chiamarti Nanu? «Decidi tu, ma se mi chiami Giuseppe non mi giro (ride n.d.r.). Nanu sono io, ci sono molto affezionato. Tutto è iniziato quando ero nel Settore Giovanile della Juventus. C’era un ragazzo, Francesco Della Monica, soprannominato ‘Nanu’ che era davvero molto bravo. Una

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Innanzitutto come stai e come procede la tua quarantena? «Sto abbastanza bene. Come tutti sono preoccupato per quello che vedo e sento, però dentro ho tante cose positive. Sono dell’idea che non serva piangersi addosso, ma dobbiamo essere forti e trasmettere questa forza alle persone che lottano per noi. In casa poi ci sono tante cose da fare, ho qui vicino a me mio figlio e questo mi dà grande forza. Cerco di passare questo momento nel miglior modo possibile, rimango sempre in contatto con la Vis Pesaro e con il nostro Direttore Sportivo, Dario Crespini. Non mollo un secondo il mio staff e i miei ai ragazzi, cerco di dargli le indicazioni migliori per farci trovare pronti, qualsiasi sia il futuro che ci attende». Rimanendo sulla situazione attuale, cosa ci lascerà questo virus una volta passato? «Voglio guardare il bicchiere mezzo pieno, quindi credo che ci lascerà anche tante cose positive. Ti faccio un esempio: prima di questo stop forzato, quando tornavo a casa e mi mettevo a letto, dopo

aver passato giornate piene e circondato da tante persone, mi sentivo solo. Adesso, invece, non ho più questa sensazione e nel mio letto adesso mi sento più forte. Il nostro modo di vivere è cambiato e credo anche il nostro futuro. Il mondo non sarà più lo stesso, dovremmo essere bravi a capire quanto questo disastro ci ha portato di buono e ripartire da lì. Personalmente ho ritrovato il piacere di coltivare maggiormente i rapporti con le persone a cui voglio bene, una vicinanza diversa, ma comunque altrettanto completa. Vedo che la gente si sta riscoprendo solidale e pronta ad aiutarsi, anche se tanti ancora soffrono, spero che le istituzioni riescano a trovare delle soluzioni». La tua esperienza alla Vis Pesaro è durante il tempo di una partita, quanto ti manca il campo? «Sono arrivato a Pesaro solo 3 giorni prima della partita contro la Fermana. In quei pochi giorno, però, i ragazzi si sono allenati davvero bene e abbiamo fatto una grande prestazione, soprattutto nella ripresa (la partita è terminata 1-1, n.d.r). Sono felice perché ho trovato un gruppo che ha voglia di lavorare e una società che mi ha responsabilizzato, che era quello che cercavo. Questo mi trasmettono sia il Presidente che il direttore generale Vado Borozan, assieme, ovviamente, al Direttore Sportivo. Ripeto, sono contento perché ci sono tutti i presupposti per fare bene. Non so se questo campionato ripartirà o meno, ma sono convinto che a Pesaro si possa fare un gran bel lavoro. Detto questo, aggiungo anche che il campo mi manca tantissimo. Chiamo i mei calciatori, e non solo, tutti i giorni. Sono convinto che questa situazione particolare si possa trasformare in entusiasmo, serietà, attenzione e in riflessioni importanti, perché è un momento di cambiamento e in questi


al meglio, trovare una società seria che creda in te e non abbattersi mai».

momenti c’è solo bisogno di buone idee e di persone serie». Cosa spinge un calciatore che ha ottenuto tanto nella sua carriera a continuare a scendere in campo ed allenare? «La passione, non riesco a farne a meno, il calcio è la mia vita. Nella mia carriera da allenatore credo di non aver ancora raccolto quello che ho seminato, ma io sono uno testardo e non mi arrendo. Devo dire però che di soddisfazioni me ne sono tolte parecchie: Urbino, Foggia, Pescara, Arezzo, Lucca e anche Olhão (Città del Portogallo nella quale ha allenato, n.d.r.), solo per citarne alcune. Oggi tutti cercano di fare strada per sentirsi affermati come allenatori, ma io sono convinto che, al di là degli obiettivi personali, sia importante sentirsi vivi e trasmettere qualcosa di vero ai propri calciatori. Sono orgoglioso di quello che ho fatto in questi anni, le soddisfazioni maggiori arrivano sempre dai riconoscimenti delle persone che lavorano con te. Detto questo, credo di avere ancora tanta strada da fare come allenatore e l’unica maniera che conosco per farla è andare in campo e allenare Galderisi esulta dopo un gol segnato con la maglia del Padova

Qual è l’obiettivo del Galderisi allenatore? «Sono tanti anni che alleno e che vivo il mondo del calcio. Sono partito da molto lontano, ho avuto la fortuna di fare un percorso importante: iniziando dal Settore Giovanile della Juventus, passando per allenatori del calibro di Bagnoli, Trapattoni, Bearzot, Maldini e tanti altri, fino a vivere gruppi unici come quello di Padova e di Verona. Questo percorso mi ha trasmesso valori importanti e insegnato tanto, io vorrei portare questi insegnamenti in campo e farli convivere con la mia idea di calcio: voglio vedere una squadra propositiva, organizzata, coraggiosa e che giochi con cuore, passione e rispetto. Ai ragazzi dico sempre che in spogliatoio non voglio mai sentire due cose: speriamo e mi dispiace. Se speri di vincere hai già perso, devi andare in campo convinto di poter vincere. Non credo nemmeno nel mi dispiace, quando sai di aver dato tutto non devi dispiacerti, ma tornare a lavorare nella consapevolezza di aver fatto il massimo». Ritornando con la memoria a quel Verona, a distanza di tanti anni siete riusciti a realizzare quello che avete fatto? «Siamo orgogliosi di quello che abbiamo realizzato. Ero uno dei più giovani di quel Verona, ma ricordo che la gestione di Bagnoli e Mascetti unita alle qualità umane di quel gruppo hanno fatto la differenza e sono ancora molto attuali. Poi in campo giocavamo un calcio propositivo, con 3 passaggi arrivavamo in porta. C’erano 2 marcatori straordinari, un libero che diventava un centrocampista aggiunto, fisico e cervello in mezzo, una forza pazzesca sulle fasce, sull’attacco non mi esprimo

Galderisi dirige un allenamento della Vis Pesaro

(ride n.d.r.), caratteristiche importanti e ancora molto attuali. Certo, non eravamo in assoluto i più forti, basta pensare che in quella stagione è retrocessa la Lazio con Laudrup e Batista per capire il livello di quel campionato. Ma la nostra forza umana non ce l’aveva nessuno, per forza umana intendo valori che vanno oltre il campo, c’era un rispetto assoluto delle regole e l’uno dell’altro, riuscivamo ad influire sui nostri compagni in maniera positiva, e tutti si esprimevano al massimo. Inoltre vivevamo tanto la città e il suo entusiasmo ci ha contagiati». La Verona sportiva è sempre stata abituata a soffrire. Oggi però sta soffrendo tutta Verona e non solo: qual è il messaggio che ti senti di trasmettere? «C’è poco da dire, mi sento legato al Verona e a Verona, io come tutti i ragazzi di quel gruppo. I veronesi hanno qualità pazzesche, sono convinto che ne usciranno alla grande e che ripartiranno anche più forti di prima, sempre nel rispetto delle regole. Ho vissuto in prima persona la passione di questa gente e ho grande rispetto per loro, voglio solo dirgli di tenere duro e di volersi bene». Per un attimo abbandoniamo la realtà e torniamo al campo, hai rivisto il tuo Verona in quello allenato da Juric? «Ogni volta che vedo Juric vorrei abbracciarlo, perché guardare le sue partite mi diverte moltissimo, a me è sempre piaciuto. Il suo modo di fare calcio esalta una piazza come Verona, e non solo, però Verona è magica per come sa farti emozionare. Juric è riuscito a trasmettere la sua mentalità e la sua cultura calcistica: guardare sempre avanti senza paura, ma anche con organizzazione, coraggio e spavalderia. La squadra dimostra di avere le idee giuste, poi può perdere o vincere, perché il calcio a volte è imprevedibile, anche se alla fine tutto torna. Quindi complimenti al mister, ai ragazzi e alla società per quello che stanno facendo. Ci vediamo presto. Nanu».

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di Giorgio Vincenzi - Foto: Gianni Bellini

I NTERVISTA Gianni Bellini

Il giro del mondo in 4000 album

C

hi da bambino non ha fatto la raccolta delle figurine? E chi non ha ripetuto la cantilena (per molti poesia) 'celo, celo, manca…' osservando le 'doppie' di un amico alla ricerca della 'figu' per completare la squadra del cuore o l’album? Credo tutti. C’è, però, una persona, Gianni Bellini, 56 anni, tipografo di San Felice sul Panaro (Modena), che della raccolta di figurine di calcio ne ha fatto più di un hobby: una missione culturale, così la definisce. Possiede quattromila album e serie di cards di calciatori e di questi il novanta

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per cento è completo mentre il restante dieci non lo è perché le figurine sono introvabili, ma già il fatto di possederli è una rarità.

mondiali come per esempio Bbc, Cnn, History Channel, Bild, Times mi continuino a cercare credo che sia la dimostrazione più lampante».

Bellini, è corretto dire che sei il più grande collezionista al mondo di figurine di calcio? «Secondo molti sono ritenuto il più importante collezionista al mondo di album e cards di calciatori: avere 4000 album non è cosa da tutti. In pratica possiedo tutte le raccolte dedicate al calcio uscite sul pianeta dal 1970 a oggi. Il fatto poi che i maggiori network

Sei stato a un passo dal far parte del Guinness dei primati… «Esatto. Nel 2018 fui contattato dalla redazione del Guinness dei primati perché volevano certificare la mia raccolta. Sul momento ero disponibile, poi entrando nello specifico ho capito che sarebbe stato un lavoro di mesi. Avrei dovuto riprendere con una telecamera album per album e sfogliarlo. Facendo


un rapido calcolo ci sarebbero voluti quattro mesi lavorando 24 ore al giorno. Rifiutai. Il fatto, comunque, di essere stato contattato sta a significare che sono un personaggio unico nel mio hobby!» Hai appena pubblicato assieme al giornalista Lorenzo Longhi un libro che racconta la tua storia di collezionista: '500 figu' per un Bordon' (Ed. Urbone Publishing). Perché hai citato nel titolo il portiere dell’Inter degli anni Settanta? «Il libro è la storia del mio inizio da collezionista e che vede come protagonista Bordon. Era il 1973 e in edicola usciva l’album Calciatori, il primo con le figurine adesive realizzato dalla Panini. A forza di acquistare bustine ero arrivato al punto che mi mancava una sola figurina per completare la raccolta: quella di Ivano Bordon. Un mio compagno di classe la possedeva, ma in cambio voleva 500 'figu'. Nessun problema per me, ne avevo tante. Andai a casa contai le mie doppie, ma per arrivare a quota 500 dovevo comprare una bustina. La mattina successiva vado in edicola acquisto la bustina, la apro e dentro mi trovo il buon Ivano. Contentissimo, ovviamente, ma una parola data va rispettata e quindi al mio amico diedi le 500 doppie. Lui fu molto felice e anch’io. Avevo terminato il mio primo album con le mie sole forze. Ecco perché c’è Bordon nel titolo. La cosa più incredibile è che nel libro c’è una sua prefazione e ho avuto anche il piacere di averlo alla presentazione ufficiale del libro il 30 agosto scorso».

«Un giorno, ero ancora minorenne, prendo la corriera e vado alla Panini per vedere di persona dove 'nascono' le figurine e visto che sono lì ne acquisto alcune che mi servivano per completare un album. Casualmente vedo su un tavolo l’album del Belgio 1977. Che faccio? Lo prendo ovviamente, a costo di spendere in anticipo la paghetta delle settimane successive. Arrivato a casa apro l’album e mi faccio una domanda semplice: se c’è un album del Belgio, molto probabilmente ci possono essere album anche di altri Paesi. E da lì ho scatenato l’inferno». Scrivi anche che hai ancora 700mila figurine da attaccare. Perché? «Il motivo delle oltre 700mila figurine da attaccare è presto detto. Mi ritengo un collezionista 'professionista', se

vogliamo usare questo termine, e quindi devo possedere tutto o quasi quello che esce. Il problema non è avere le figurine, ma il tempo per attaccarle. Quando mi arrivano i pacchi controllo che ci siano tutte le 'figu' che poi attaccherò non so quando, ma lo farò». I quattromila album che compongono la tua collezione da quanti e quali nazioni provengono? «Gli album provengono da oltre ottanta Paesi di tutto il mondo: dalle nazioni calcisticamente più evolute, agli album dei campionati di Tunisia, Marocco, ma anche Cina Canada, Papua Nuova Guinea, Estonia tanto per citare alcuni. Pensa che di album sui Campionati del Mondo ne posseggo oltre 400 a partire da quello del 1950».

Nel libro racconti che è tutta colpa del Belgio se ora collezioni album di calcio da tutto il mondo…

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Gianni Bellini insieme a Roberto Boninsegna

Come fai a procurarteli da tutto il mondo? «In oltre 35 anni di collezionismo mi sono fatto una cerchia di oltre 200 corrispondenti da tutto il mondo. Con loro ho contatti periodici e ci scambiamo info e album. Questa rete nasce nei primi anni ’80 quando facevo annunci sui giornali di tutto il mondo, come per esempio: Onze per la Francia, Don Balon per Spagna e Cile, Placar per il Brasile e altri ancora. E così mi arrivarono centinaia di lettere. Da allora ho mantenuto una cerchia fidata di amici collezionisti». Nel caso degli album russi ti sei fatto aiutare anche da calciatori di Serie A per poter inserire le figurine negli spazi esatti… «Nel 1996 ho acquistato la raccolta Panini relativa al campionato russo, ma Album 1934

c’era un problema: tradurre il nome dei calciatori (in cirillico, n.d.r.) per attaccare le figurine nel posto giusto. Come risolvere il problema? A Bologna giocavano due calciatori russi, Shalimov e Kolivanov, e un giorno mi presento a Calsteldebole dove la squadra rossoblù si allenava. Aspetto i miei due 'traduttori' nel parcheggio delle auto e gli spiego il mio problema. Sul momento mi guardano e pensano che sia matto, ma poi capiscono e divertiti mi traducono i nomi di tutti i calciatori. Un calcio di altri tempi, adesso sarebbe impossibile una cosa del genere».

questa raccolta è che i calciatori sono in caricatura e posizionati in una foresta. La fantasia non ha confini».

Quanto spendi ogni anno per questa passione? «Per fortuna non tengo il conto di quello che spendo, ma sono certo che con quello che ho speso e che continuo a spendere mi sarei comprato due case, ma vuoi mettere la soddisfazione di avere la storia del calcio Mondiale in casa? Non c’è paragone».

Che rarità hai nella tua collezione? «Ne ho diverse, ma la cosa che mi fa più piacere è quella di essere l’unica persona al mondo, per ammissione della stessa ditta, ad avere tutti gli album che ha pubblicato la Panini in tutto il pianeta. Di alcuni album non sanno nemmeno loro dell’esistenza perché lasciano i diritti a piccoli editori locali».

Qual è l’album più vecchio che possiedi? «Ho un album inglese del 1934: erano cigarette cards, che si trovavano all’interno delle confezioni delle sigarette!»

Non mancheranno anche album con errori clamorosi… «Ci sono stati tanti errori più o meno clamorosi nelle raccolte. Negli anni ’70 erano all’ordine del giorno, adesso ovviamente le cose sono cambiate, ma non troppo. Il più recente lo si trova nella raccolta Calciatori attualmente in edicola: i dati statistici di Atalanta (pag.5) e Brescia (pag.13) sono pressoché identici. In questo caso più che un errore è da ritenersi un refuso. L’errore più grottesco è quello fatto da una ditta venezuelana per la raccolta relativa al Mondiale 2006. Nella pagina dedicata alla Croazia ha messo tutti i calciatori dell’Ungheria, che peraltro non era presente alla competizione. Un altro errore addirittura in copertina di un album edito in Venezuela in occasione del Mondiale 2002: tutti i calciatori sono ritratti con la maglia della propria nazionale e così anche Crespo con la maglia biancoceleste, peccato però che invece di essere quella dell’Argentina e quella della Lazio».

Il più curioso? «Sono diversi. Il più recente in tema è quello edito in Croazia dalla FiguPlay per il Mondiale 2010. La particolarità di

Quello che ha il valore economico più elevato? «Non esiste un album che ha un valore più alto di un altro. Una cosa è certa, non venderei mai la mia raccolta. Anche se ho avuto delle offerte interessanti. Una decina di anni fa il figlio di un noto industriale italiano volle venire a casa mia a vedere la raccolta e ne rimase entusiasta, tanto che a un certo punto prese il blocchetto degli assegni e lo firmò in bianco dicendomi di mettere la cifra che sarebbe servita per portato via il tutto. Per qualche millesimo di secondo ho vacillato, ma anche grazie all’approvazione di mia moglie ho rifiutato l’offerta e non ne sono pentito».

Parlando sempre di figurine, se ti dico Boninsegna, Selvaggi e Schillaci tu cosa mi racconti? «Queste sono tre figurine che hanno

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una loro storia a parte. Boninsegna è l’unico calciatore che ha segnato in una finale di un Mondiale e che non appare sull’album di quella competizione. Qui però ho rimediato io. All’inaugurazione di una mia mostra a Viadana (Mantova) nel 2015 realizzata in collaborazione con la Panini gli ho creato la figurina della raccolta di Mexico 70 dove lui è stato protagonista. Per Franco Selvaggi la storia è leggermente diversa. Anche lui, come Boninsegna, venne convocato all’ultimo minuto per la spedizione al mondiale spagnolo del 1982. Nessuno quindi si aspettava il suo inserimento nella rosa, tranne la ditta portoghese Sorcacius che nella raccolta inserisce la sua figurina. Le notti magiche di Italia ’90 sono state anche quelle di Totò Schillaci. Anche in questo caso nessuno si aspettava la sua convocazione e quindi niente figurina in nessun album del 1990. In compenso, però, la IP Petroli, sponsor della nazionale a Usa ’94 fa uscire un album dove inserisce anche una appendice storica dedicata ai giocatori dei passati mondiali inserendo la figurina, prima e unica, di 'Totò' con la maglia della nazionale. Meglio tardi che mai...» Collezionando figurine di calciatori hai sottomano anche l’evoluzione delle acconciature e delle maglie. Quali curiosità ci puoi raccontare? «Le figurine di calcio, e non solo, non sono solo sport, ma anche storia di un Paese, basta osservare l’evolversi delle maglie dei club o le acconciature: i capelloni olandesi nella finale del 1974 credo siano una cosa unica. Una volta le maglie, molto semplici, non riportavano nemmeno il logo del club e spesso la stessa maglia veniva usate più volte nel corso del campionato! Oggi sono, assolutamente, marchiate da sponsor tecnici e main sponsor. È così che si perde il fascino del calcio». Da diversi anni fai mostre in molte città; ne ricordo una a Malcesine sul lago di Garda. Come sono strutturate? «L’idea di fare mostre non è mia, ma bensì di Fabrizio Frizzi. Nel 2008 fui ospite a una sua trasmissione (Cominciamo bene su Rai Tre) e ovviamente portai gli album. Finita la puntata ci fermammo a parlare e Frizzi mi disse: 'hai mai pensato di fare mostre con questo materiale?'. A dire il vero no, perché ritenevo la cosa troppo banale. Il mio fiore all’occhiello rimane il grande evento creato a Cattolica nel 2014, durato

cinque settimane, dove con alcune difficoltà sono state coinvolte le strutture alberghiere, i bagnini e tutto l’indotto turistico. Ne parlarono tutti i media italiani e il prestigioso Times, addirittura, inviò un suo giornalista per capire il fenomeno figurine. Parteciparono anche diversi ex calciatori: Paolo Conti, Eraldo Pecci, Massimo Bonini, Lorenzo Minotti. Per assurdo sono più conosciuto all’estero che in Italia. Nel 2018 ho fatto una mini esposizione al FIFA Museum di Zurigo in occasione della presentazione europea dell’album Panini World Cup 2018. Ero l’unico italiano presente tra le star del calcio giocato quali Chapuisat, Figo, Raul per dirne alcuni. Altra soddisfazione l’ho avuta con l’album del campionato Cipriota della stagione 201617: Panini Cipro mi chiese se potevo posare per uno spot con il loro album in mano. Lo spot diceva, più o meno, questo: 'Anche Gianni Bellini colleziona Football 2016-17'». Come può un ente o una associazione contattarti per una mostra? «Premesso che per me fare delle mostre è puro divertimento e che quindi i miei costi sono veramente irrisori, sono sempre disponibile basta scrivermi (email: sg.bellini@alice.it) oppure andare sulle mie pagine facebook: la mia personale oppure Azzurri in figurine (www.facebook.com/figurineinmostra), la pagina tratta essenzialmente i miei eventi, oppure Bellini’s Museum (www. facebook.com/albumcardsbellini), dove metto in evidenza alcune delle raccolte più 'strane' che posseggo». Quanta pazienza ha dovuto mettere in campo tua moglie per assecondarti in questa passione? «Mia moglie Giovanna è il vero 'motore' della mia passione, nel senso che mi lascia fare. Negli ultimi due anni credo di essere rimasto a casa un solo weekend, perché fra mostre, convegni, fiere e mercatini i miei fine settimana sono sempre 'pieni' e lei non si è mai messa in mezzo alla mia passione, anzi in alcune occasioni mi ha aiutato a migliorare alcuni eventi che avevo in programma».

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SPORTING CLUB FOOD & PIZZA


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Forever Lucky di Matteo Lerco - Foto: Andrea Lucchetta

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iocatore, capitano, icona, esempio. Andrea Lucchetta per anni ha rappresentato una delle stelle più splendenti del firmamento pallavolistico italiano, un leader by example in grado di trascinare la nazionale azzurra sulle vette più alte del pianeta. Su tutte, l’impresa più risonante compiuta da quella «generazione di fenomeni» fu il mondiale a Rio De Janeiro nel 1990, kermesse in cui ‘Crazy Lucky’ fu incoronato miglior atleta. Qualunque percorso Lucchetta abbia intrapreso nella sua carriera ha sempre lasciato le orme del suo passaggio. Una delle iniziative che meglio dipingono i contorni del suo personaggio è la serie animata Spike Team prodotta da Rai Fiction, un cartone che celebra lo sport come momento di crescita e inclusione, capace di abbattere qualsiasi genere di barriera. In questa produzione Lucky è l’allenatore di sei piccole pallavoliste che, puntata dopo puntata, diventano sempre più consapevoli dei propri mezzi, imparando il valore del collettivo e l’importanza del sacrificio. Andrea, hai dedicato una vita alla pallavolo, prima sul campo e successivamente indossando altre vesti: se ti fermi e guardi indietro cosa vedi? «Talmente tanti ricordi che è difficile elencarli tutti. Nel bene e nel male hanno tutti contribuito a formare la persona che sono ora e mi hanno dato l’ispirazione per il cartone animato in cui racconto la mia visione della pallavolo. Certo è che nonostante siano passati diversi anni mi manca molto la pallavolo giocata, dal cambio palla allo spogliatoio, passando per l’MG Mikasa bianco. Fortunatamente non ho nostalgia del pubblico in quanto, in maniera chiaramente diversa, lo vivo ancora da un’altra zona del palazzetto».

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Nonostante siano passati diversi anni mi manca molto la pallavolo giocata, dal cambio palla allo spogliatoio Con la serie animata «Spike Team» hai avvicinato in maniera impattante le nuove generazioni alla pallavolo. Come siamo messi a livello di «Giovanile» in Italia e su quale aspetto dobbiamo migliorare? «Penso che i giovani abbiano sempre dovuto pagare dazio ad un nonnismo esasperato. In questo senso ho sempre riscontrato una tensione tra la volontà di innovazione del “nuovo” ed il conservazionismo tecnico di allenatori in un certo senso reticenti a dare spazio al cambiamento. Al giorno d’oggi osservo

però una generazione coraggiosa, desiderosa di prendersi le luci della ribalta. Lo spazio c’è: serve creare un percorso lungimirante che permetta ai giovani di andare a conquistarselo». Ti cito una frase di Batman: «Cadiamo per imparare a rimetterci in piedi». Quanto è importante capire il valore della sconfitta nella vita di un’atleta? «È un aspetto fondamentale dello sport e della vita. Ogni processo di crescita, soprattutto nei ragazzi, parte dall’umiltà di riconoscere i propri errori.

Nel cartone Lucky rappresenta valori come forza, coraggio, lealtà, equilibrio e sacrificio, virtù che, se conciliate con la capacità di essere assolutisti dentro il campo, possono portare allo sviluppo di grandi campioni». Perché Andrea Lucchetta entra a far parte del mondo delle telecronache? «La mission che mi ero proposto di perseguire era quella di cambiare il linguaggio del racconto, portando nelle telecronache un sentimento di innovazione. Il primo prototipo di contaminazione l’ho fatto con Lorenzo Dallari, Bruno Imovilli e Marco Nosotti ai tempi in cui andavamo a fare interviste in una bocciofila a Modena. Ricordo che entrai vestito da cinese per agganciare Lang Ping e venni preso e mandato a terra da suo marito, cintura nera di karate!» C’è un fil rouge che ti proponi di seguire durante le telecronache? «Ti rispondo dicendo che il rapporto tra me e le telecronache è inquadrabile in uno scontro frontale. Parlare al pubblico è per me un laboratorio di ricerca costante, che mi permette di affinare la visione che ho del mondo. In dieci secondi ti viene richiesto di spiegare, riassumere, enfatizzare e sviluppare un concetto. Per come la vedo io è una prospettiva molto più appassionante di impattare semplicemente il pallone, in quanto hai il dovere di coinvolgere ed educare, valorizzando il tempo di chi ti ascolta». Senti il peso di questa responsabilità? «Per tutta la mia vita mi sono relazionato col peso delle mie azioni. Mi sento un ambasciatore della pallavolo, investito della responsabilità di ciò che rappresento. Il segreto per restare sempre al passo delle nuove sfide è quello di continuare a migliorarsi, restando sempre aggiornati. Guardo al futuro sempre con questo spirito».

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I NTERVISTA i Tiziano De Ton

Il globetrotter della pallamano

di Alberto Braioni - Foto: Maurilio Boldrini

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na corrente di pensiero impone un dogma: allenatori si nasce, non si diventa. Si può condividere o obiettare questo pensiero, ma Tiziano De Toni, originario di Conegliano e attualmente residente a San Fior, in provincia di Treviso, probabilmente può essere uno degli emblemi di questa filosofia, mai così calzante come nel caso del mister della Venplast Dossobuono in Serie A2 femminile. Allenatore fin da giovanissimo, in questa stagione la potenza del richiamo di una nuova sfida ha superato ogni difficoltà logistica: pendolare tra San Fior e Dossobuono per un campionato intero, ha macinato migliaia di chilometri pur di riprendersi la guida di una squadra femminile.

Tiziano, nonostante l’età (classe 1963 n.d.r.) hai una mole di esperienza da poterne distribuire a chiunque: come mai? «Semplice, ho iniziato ad allenare a 17 anni. Iniziai a giocare a pallamano nei primissimi anni di questa disciplina in Italia, nel 1972, trovando un buon collegamento con il mio sport precedente, il basket. Iniziai a Conegliano, sotto la guida di Pino Sindoni, in una squadra che, grazie ad uno sponsor esagerato, ci trattava come dei professionisti». Qualcosa di fantastico quindi? «Per certi versi si, tuttavia la concorrenza con i miei compagni di reparto era insostenibile. Mi ritrovavo spesso in tribuna, ma nell’intervallo scendevo sempre negli spogliatoi a dare delle indicazioni. Era qualcosa che non riuscivo a controllare, un istinto naturale. Proprio Pino Sindoni mi propose allora di iniziare ad allenare e lì cominciò la mia avventura in panchina».

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Come furono gli inizi da tecnico? «Il principio fu piuttosto particolare, perchè talvolta mi trovai ad allenare anche giocatori più vecchi di me. A 21 anni arrivò la proposta di una Serie C a San Vendemiano, vicino a casa: da lì iniziò la mia avventura con le ragazze. Ho sempre preferito il femminile. Ne apprezzo di più i gesti tecnici e tattici di questo sport. Se mi chiedessero di vedere una qualsiasi partita di pallamano ad alto livello, sicuramente preferirei che fosse al femminile». L’esperienza non ti manca, ma nemmeno la preparazione, visto il tuo patentino da allenatore di terzo livello che ti consente di allenare qualunque squadra in Italia! «A 28 anni diventai allenatore di 3 livello, ma successivamente presi una pausa dalla pallamano. Al mio rientro quel titolo non era più valido e dunque frequentai nuovamente il corso qualche anno fa. Sono esperienze che ricordo con estremo piacere». Un’esperienza che ricordi con piacere e che tra gli ultimi partecipanti ha visto Alessandro Tarafino, uomo da 14 scudetti in Italia: mai nessuno come lui. «Chiaramente lui è un personaggio di spicco per il suo passato da giocatore, ma erano 19 gli allenatori importanti in quel corso. Un modo di vedere la pallamano di caratura superiore; attualmente abbiamo ancora una chat WhatsApp con cui ci teniamo in contatto. Probabilmente la passione per questo sport rende ancora più facile l’instaurazione di rapporti tra le persone che lo vivono». Nella tua carriera in giro per il Veneto tanti ricordi, quali sono i più belli? «Paradossalmente i ricordi più belli sono arrivati fuori dal campo. Qualche anno fa allenavo in provincia di Treviso, ad Oderzo, e una mamma, che spesso vedevo

osservare degli spezzoni di allenamento, mi si avvicinò accompagnata dalle sue due figlie piccole che avevano appena finito la loro seduta di pattinaggio. Mi guardò e mi disse: “Tiziano, tu non ti ricordi di me!”. Io ammisi di non riconoscerla. Si presentò: era una delle ragazze che allenai per la prima volta circa 30 anni prima, a San Vendemiano. Mi volle presentare alle sue figlie piccole come una persona che stimava profondamente e che insegnò alla madre i valori dello sport. Poche settimane fa, un mio ex atleta di Conegliano, ora in Brasile, mi ha scritto un messaggio simile tramite Facebook. Queste cose per me sono qualcosa di impagabile, più di qualunque risultato sul campo». In tanti anni da allenatore, sicuramente avrai altrettanti aneddoti da raccontare.

Uno su tutti? «Il mio rapporto con i cappotti! A Cassano Magnago, uscendo dal palazzetto, un signore me lo sporcò volontariamente con la pece, mentre a Cologne il giubbotto societario praticamente si vaporizzò per colpa di una sigaretta. Era la stagione 1991/92: allenavo il Treviso e ribaltammo molti pronostici in quel campionato di Serie B. Probabilmente non tutti la presero con filosofia. Altri tempi». L’estate scorsa la chiamata del presidente Beghini per allenare il Dossobuono: come hai reagito? «Il mio desiderio di tornare ad allenare nel femminile era fortissimo. Non ho potuto dire di no. Ho lasciato Belluno, una piazza che nel maschile sta crescendo tantissimo, e che in futuro saprà togliersi delle soddisfazioni». Con una stagione anticipatamente in archivio a causa del Coronavirus (promozione del Brescia in serie A1 senza la conclusione dei play off n.d.r) qual è il tuo giudizio sulla tua nuova squadra e sulla piazza? «Ho trovato un ambiente ottimo a Dossobuono, disponibile e nel quale lavorare serenamente. La squadra ad agosto era molto eterogenea per esperienze individuali. Trovare il giusto equilibrio nelle sedute di allenamento è stato difficile: un certo esercizio per alcune giocatrici poteva essere banale e noioso, per altre addirittura complicato.

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Dosare divertimento, tecnica e insegnamento è stato difficile, ma spero di aver infuso una certa mentalità: quella del lavoro, dalla quale non si scappa mai».

palazzetto difficile, ma le ragazze avevano talmente tanta voglia di dimostrare il loro valore che fornirono una prestazione veramente straordinaria».

In sette mesi a Dossobuono qual è stata la soddisfazione più bella sul campo? «Sicuramente la partita contro la Lions Sassari di metà novembre. Fu una trasferta impegnativa, era uno scontro diretto contro una squadra forte, in un

Prima delle partite spesso ti si vede da solo in campo a tirare nella porta vuota: è un rito scaramantico? «Non la considero scaramanzia, perchè ci credo ben poco. Quando giocavo, il mio allenatore mi diceva di tirare in

una certa maniera e che la palla sarebbe finita sempre all’incrocio dei pali. Tutt’ora ci provo: è un modo per avere la consapevolezza che la partita sia stata preparata bene. Ammetto che dopo 40 anni quel tiro mi riesce solo al primo tentativo e poi non riesco a ripeterlo. Forse la carriera da giocatore non faceva veramente per me. Sono contentissimo delle scelte che ho fatto e se tornassi indietro non le cambierei».

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Tiziano Begal

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ual è la Federazione più medagliata del CONI? Chiaramente il titolo e le foto di questo articolo sono un pesante indizio ma, onestamente, avreste mai pensato che potesse essere la Federazione Italiana Pesca e Attività Subacquee? Io no, ma ormai sapete che mi piace contribuire a erodere i luoghi comuni, facendo io per prima le mie aperte ammissioni di ignoranza o di pregiudizio. Per questo tanto di più la chiacchierata con il presidente della FIPSAS provinciale di Verona Tiziano Begal, si è trasformata in una piacevole scoperta. Punto di partenza sono i Mondiali di Pesca al colpo previsti per il prossimo settembre (dal 7 al 13) a Peschiera e Valeggio. “Al momento non abbiamo indicazioni su un possibile annullamento o rinvio della manifestazione” – dice Begal – “certo dovremo vedere come usciremo da questo periodo e come si comporteranno anche le altre nazioni”.

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Sono 35 infatti le delegazioni internazionali attese per questa 67^ edizione che riporta la rassegna iridata sul Mincio dopo il Mondiale del ‘96 in un appuntamento di eccellenza, inserito tra i grandi eventi della Regione Veneto. “La Regione” – puntualizza Begal – “ci ha dato un grande sostegno. Portare in Veneto questo Mondiale è stato uno dei miei sogni, sia per fare conoscere il nostro sport nella sua più alta tecnica, che per fare ammirare ai partecipanti e spettatori le straordinarie bellezze dei nostri territori. In questo senso è significativa anche la collaborazione con il Comune di Verona che ci ha permesso di potere usufruire delle strade del centro per la sfilata delle varie delegazioni partecipanti”. Amore e rispetto per l’ambiente sono la linfa naturale delle varie discipline che compongo la FIPSAS che oltre alla pesca sportiva raggruppa sotto il proprio cappello anche il nuoto pinnato e la subacquea (a loro volta diramate in diverse altre specialità agonistiche) ma anche il

Begal Tiziano 1965 coppa San Donà di Piave primo classificato e prima associazione classificata.

settore ‘Acque, Impianti e Ambiente’. “La Federazione” – spiega il presidente FIPSAS Verona – “è riconosciuta dal Ministero dell’Ambiente ed è impegnata


in prima linea nel contrasto alla pesca di frodo. Il fenomeno del bracconaggio nelle acque interne esiste, è in piena espansione ed è una grossa ferita, sulla quale si deve intervenire per evitare ulteriori e irreversibili disastri. Per fortuna ci sono anche tanti giovani che si stanno dedicando a questa attività e si rendono disponibili a uscire e controllare anche di notte”. Oltre a questo impegno specifico c’è quel-

lo di sostenibilità ambientale e di cura delle acque federali. In questo la federazione provinciale veronese può vantare un fiore all’occhiello. Evidenzia Begal: “Abbiamo in concessione demaniale la sponda sinistra del Mincio, la curiamo direttamente e possiamo orgogliosamente dire che è un po’ il San Siro della pesca sportiva”. Con un ulteriore tocco di sensibilità, visto

che sono accessibili anche quattro pedane dedicate ai pescatori in sedia a rotelle. Una passione, quella di Tiziano Begal, che arriva da lontano, quando da ragazzino autodidatta, con la prima canna di bambù, pescava con gli amici a Castelvecchio: “Ci si trovava al pomeriggio e si pescava. D’estate si andava sul lago, poi l’idea di associarsi, quindi l’agonismo, l’impegno con la Federazione e a un certo punto una scelta, quella di restare a Verona invece che trasferirmi a Roma, per sviluppare l’attività qui”. Sul territorio provinciale la FIPSAS conta 40 associazioni e 4500 tesserati (sono 30mila in Veneto e circa 179mila in Italia). “La pesca” – conclude Begal – “è un’attività costosa, tra attrezzatura e trasferte, ma i numeri restano comunque significativi e per fortuna è in atto un ricambio generazionale, i giovani tengono molto all’ambiente e questo è un bene chiaramente non solo per le nostre attività ma anche e soprattutto per la società in generale”.


I NTERVISTA a Virginia Tortell

Sportiva per caso Rana per amore

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di Matteo Lerco - Foto: Virginia Tortella

o intervistato Virginia Tortella, la Rana nel Garda, in un pomeriggio di profonda difficoltà per il nostro Paese e per il Mondo intero. Il Covid-19 come una scure inarrestabile si è abbattuto

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ferocemente sulla nostra quotidianità, portandoci a riflettere sulle ramificazioni che prenderà il nostro domani. Nell’oblio di questa quarantena la storia di Virginia ha rappresentato per me un inaspettato bagliore, un fragoroso stimolo a credere costantemente che ciò che abbiamo

davanti possa sempre essere migliore di quello che ci lasciamo alle spalle. A riprova della consapevolezza che un 'perché' abbastanza forte, può superare qualsiasi 'come'. Virginia, inizio quest’intervista con


una domanda che ti avranno rivolto un milione di volte: come nasce il mito della Rana del Garda? «La mia storia comincia da una premessa che forse può sembrare sorprendente: per gran parte della mia esistenza non sono stata una sportiva. Ciò che cambia la mia vita accade ormai nove anni fa: mio fratello Massimiliano viene a mancare a causa di una malattia rara. Passa del tempo e sul calare del 2014 decido che è giunto il momento di fare qualcosa in sua memoria, celebrando così il suo sconfinato amore per lo sport. L’idea in realtà ha cominciato a balenarmi per la testa durante una vacanza di quello stesso anno, in uno dei classici percorsi della salute che si fanno al mare: camminare velocemente ha iniziato a piacermi sempre di più, tanto da far sorgere in me la convinzione di poter partecipare alla maratona di New York. Dal dire al fare ci sono di mezzo però tanto allenamento e sudore, così decido di contattare Orlando Pizzolato, un “guru” che in passato la Grande Mela è riuscito a “mangiarsela” per due volte…» E arriviamo così al primo grande snodo cruciale della tua carriera sportiva… «Chiudo la maratona con un tempo biblico, ma l’importante per me è tagliare il traguardo, in onore di mio fratello. Orlando per me è stato davvero un angelo, considerando tutto il lavoro che ha dovuto fare su una persona che partiva da un livello zero. L’anno successivo partecipo alla maratona di Amsterdam e anche lì riesco a centrare l’obiettivo, anche se con una fatica immane. Su consiglio di mio marito mi convinco del fatto che probabilmente la corsa non sia la mia vocazione e in quell’esatto momento scatta in me qualcosa, come se tuffarmi nel lago fosse l’approdo inevitabile del mio destino. Ripenso all’impresa che compì mio

fratello in passato, ossia la traversata a nuoto in stile rana da Sirmione a Pacengo e realizzo che l’unico modo per lasciarlo veramente andare sia quello di replicare un’opera del genere». La prima Rana del Garda non sei stata dunque te, giusto? «La vera Rana sarà sempre lui. La sua “Pacengo-Sirmione” resta un pezzo di storia. La mia replica a oltre venticinque anni di distanza è stato un omaggio che mi ha riempito di orgoglio. Per realizzare quel sogno si è composto un team formato allenatore, preparatore atletico, psicoterapeuta sportivo e nutrizionista che anche oggi rappresenta il cuore pulsante di ogni mia attività». Fermarsi a riposare a quel punto non era più un’ipotesi contemplata, correggimi se sbaglio… «Dici benissimo! Completata la PacengoSirmione prende piede in me la follia di attraversare il Lago prima in largo e poi in lungo. Le lunghe distanze diventano così il nuovo confine delle mie ambizioni e dopo otto mesi di preparazione mi tuffo in acqua per tentare la traversata Padenghe – Lazise – Peschiera, trenta chilometri in totale. Parto in una notte di metà settembre del 2018, da previsioni doveva essere una giornata dalle condizioni atmosferiche favorevoli, ma il vento si fa sentire e grava inevitabilmente sugli sforzi che tale progetto richiede. Approdo nella sponda veronese dopo nove ore ininterrotte di nuotata, recupero le forze per qualche minuto e riparto alla volta di Peschiera, ritrovandomi a combattere con uno strappo muscolare che mi provoca un dolore allucinante. In quei momenti di sconforto penso alla “mission” che mi aveva spinta a quell’impresa: la dedica era all’Uildm, associazione di Verona che si erge nella lotta a delle malattie rare, tra cui la

polimiosite, cui è affetta Ornella Giusti, una mia cara amica di Pacengo. Dei giorni prima mi ero recata proprio con lei nella sede di questa organizzazione e ho conosciuto dei bambini che stavano attraversando delle situazioni davvero da far gelare il sangue. Quel solo pensiero basta a restituirmi tutta la motivazione esistente a questo mondo. Stringo i denti e giungo finalmente a destinazione». Chi ti accompagna generalmente in queste tue 'lucide follie'? «Oltre alla mia famiglia e al mio splendido team di cui parlavo prima, un grosso grazie lo voglio rivolgere alle mie amiche che ha istituito il “Fan Club della Rana”, gruppo che si occupa di vendere gadget e magliette con il mio logo creato in collaborazione con Emanuele Aramini, fondi che devolviamo sempre a finalità benefiche. Ovviamente poi tutto quello che faccio è reso possibile dallo straordinario supporto di Croce Rossa,

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Vigili del fuoco e Protezione Civile di Bussolengo: il loro aiuto da concretezza a ogni cosa». Mi ha colpito particolarmente il tuo motto «Fare del bene fa bene». Allargando lo spettro alla nostra società, soprattutto in un momento di difficoltà e stenti come questo, ritengo che positività e solidarietà siano due valori che dobbiamo necessariamente riscoprire. Cosa ne pensi? «Condivido in toto ciò che dici. Il risvolto più straordinario della mia attività in acqua è stato proprio l’inaspettato feedback che ho ricevuto da tante donne che hanno visto in me un punto di riferimento. “Se ce l’ha fatta lei a cinquant’anni, senza mai aver fatto sport

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in vita, perché non posso farlo io?”: è questa la morale che si può ricavare dalla mia storia e che spero possa dare forza e coraggio a tante persone. La volontà muove sempre tutto». Se scruti all’orizzonte che cosa vedi? «Tante sfide con cui non vedo l’ora di potermi misurare. A maggio era in programma il progetto “Leoni del Triveneto - Staffetta per la solidarietà”, iniziativa che coinvolgeva oltre a me anche l’ultraironman Giampaolo Bendinelli e l’ultrarunner Fabrizio Amicabile, ma che a causa della recente vicissitudine con cui stiamo tutti facendo i conti verrà verosimilmente rimandato. Non mi resta che prepararmi per la traversata il verticale del Lago di

Garda, la quale con tutta probabilità dal prossimo ottobre slitterà al 2021. Una promessa è una promessa». La tua vita fino a qui mi è sembrata un film: se ti chiedessi di catturare un frame a cui sei particolarmente legata, quale sceglieresti? «È un episodio legato alla “Padenghe – Lazise – Peschiera”. Stavo nuotando nel cuore della notte, attorniata da una tranquillità quasi surreale. Il cielo era stellato e in lontananza si scorgeva un temporale che, fortunatamente, mi ha schivata di poco. Ho colto l’occasione per fermarmi in mezzo al lago per godermi quel momento quasi fuori dal tempo. È uno dei ricordi a cui sono più legata».


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I NTERVISTA tini Sofia Bommar

La principessa delle onde di Jacopo Pellegrini - Foto: Sofia Bommartini

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nche se molto giovane ha già una bacheca d’oro: Sofia Bommartini, classe 2009 della Fraglia Vela Malcesine, compete nella Categoria Juniores con il suo Optimist ed è uno dei migliori prospetti nella vela a livello giovanile. Il 2019 è stato per lei un anno ricco di trofei (Categoria Cadetti) con l’apice a settembre quando si è classificata prima femmina (terza assoluta considerando anche i ragazzi) al Campionato Italiano classe 2009. I risultati, comunque, parlano per lei:

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1ª femmina (2ª assoluta) al Meeting Internazionale della Gioventù di Alassio, 1ª femmina (5ª assoluta) al Trofeo Simone Lombardi, 1ª femmina (3ª assoluta) al Trofeo Torboli e 3ª classificata assoluta al Meeting del Garda (con regatanti provenienti da tutto il mondo). A che età hai iniziato vela e perché hai scelto proprio questo sport? «Ho iniziato a 6 anni circa, per caso con la scuola. Quando ho cominciato mi è piaciuto molto e quindi ho voluto continuare».

Cos’è che ti piace di più quando sei sul tuo Optimist? «La cosa che mi piace di più è essere fuori in acqua e divertirmi con i miei amici, ed essere libera di fare quello che voglio». Quali sono le condizioni che preferisci per regatare: sei più una velista da mare o lago, acqua piatta o mossa? Vento forte o calmo? «Preferisco lago e acqua con onde, ma non troppe. I nodi dai 12 ai 15 (vento medio-forte, n.d.r.)».


Sofia con gli allenatori

La cosa che balza subito all’occhio guardando la tua bacheca dei trofei è che sei sempre classificata come 1ª femmina. Qual è il tuo segreto dietro a tutti questi successi? «Soprattutto la voglia di divertirmi e l’allenamento. Gli allenamenti li faccio con l’obiettivo di vincere, ma comunque sono già contenta di essere lì in barca e di divertirmi. L’obiettivo per me è arrivare prima: cercare di fare sempre il meglio possibile. In allenamento facciamo tanto: dalle 9.00 alle 16.30 il fine settimana (sia il sabato che la domenica). Durante la settimana facciamo due allenamenti dalle 14.00 alle 17.30 circa». Lo scorso autunno hai vinto il titolo di 1ª femmina (3ª classificata assoluta) al Campionato Italiano classe 2009. Come ti sei sentita una volta terminata la regata? «Un po’ stanca ma contenta del risultato. Essere lì a podio mi ha reso molto felice, soprattutto essermi classificata 1ª femmina. È stato difficile, più per i regatanti che per le condizioni di regata». Tra i vari trofei e competizioni a cui hai partecipato nel corso degli anni ce n’è uno che ti porti particolarmente nel cuore? «I due che ricordo con più piacere sono quello di Reggio Calabria (Campionato Italiano classe 2009) e il Meeting del Garda (3ª classificata assoluta)». Quali sono i tuoi prossimi obiettivi in ambito sportivo? «Cercare di fare bene al Meeting del Garda e di qualificarmi per Como (accedere alle selezioni per gli Europei e i Mondiali) e per il campionato Juniores». Tra qualche anno dovrai cambiare classe

velica. Ti stai già facendo una mezza idea su che strada intraprenderai (singolo o doppio)? «Si, sto pensando alla mia strada che è quella di andare in Laser perché in doppio non sono molto brava a parlare con l’altro velista. Mi trovo meglio da sola».

A chi volesse iniziare a praticare questo sport, cosa diresti per convincerlo? «Gli direi che è un bellissimo sport che serve per crescere e per divertirsi. Inoltre conosci anche molti nuovi amici».

Sei legata ai tuoi compagni di squadra? Ti aiutano anche loro ad ottenere queste vittorie? «Ci sono alcuni compagni che mi aiutano più di altri, ma mi trovo bene con tutti». Hai fatto parte del GAN (Gruppo Agonistico Nazionale) lo scorso anno: ci puoi raccontare qualcosa a riguardo? «È stata una bella esperienza: c’era un bel gruppo e potevo confrontarmi con gente brava. Era anche divertente stare lì ed essere con compagni e allenatori nuovi. Il GAN mi ha aiutato anche a migliorarmi nel mio percorso di crescita nella vela».

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I NTERVISTA ati Mattia Benam

Vento, vela e fantasia di Jacopo Pellegrini - Foto: Mattia Benamati

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attia Benamati è un atleta della Fraglia Malcesine e ha iniziato a regatare a livello agonistico nella categoria Optimist da poco più di un anno e precisamente da febbraio 2019. Nonostante la giovanissima età (appena 10 anni…) Mattia, tesserato con la Fraglia Malcesine, ha già la stoffa del Campione. Classificatosi al primo posto al Meeting giovanile di Cervia nel luglio dello scorso anno, a settembre guadagna il titolo di Campione Italiano classe 2010. Tra le tante regate vinte, l’ultima in ordine cronologico risale al 23 febbraio scorso ad Alassio nella quale

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si è classificato ancora una volta 1°, guadagnandosi di nuovo il pass per il prossimo Gruppo Agonistico Nazionale. Perché hai iniziato a fare vela? «Perché con mio papà andavamo a vedere le regate di mia sorella maggiore. Avevo sei anni e andavo all’asilo. Da lì ho voluto provare anche io. Così ho iniziato e da allora non ho più smesso». Qual è la cosa che ti piace di più di questo sport? «Il lasco e la bolina, perché cinghi e vai molto veloce». Sei più un velista che preferisce regatare con tanto o con poco vento, sul lago o sul mare? «Preferisco regatare con poco vento. A

volte sul lago, a volte sul mare». Quanto ti alleni per arrivare pronto alle varie regate? «Con la mia squadra ci alleniamo tanto. Usciamo in acqua tutti i mercoledì e giovedì il pomeriggio, dalle 14.00 alle 17.30. Il sabato e domenica dalla mattina fino alle 16.30». L’estate scorsa ti sei classificato 1° al Meeting giovanile di Cervia. Cos’hai provato in quell’occasione? «è stato difficile arrivare a quel risultato ma sono stato molto contento perché mi sono classificato 1° e dopo, quando ero sul podio, mi sono sentito tanto felice».


Mattia e Nicole, l'allenatrice

Sei Campione Italiano classe 2010: è stato semplice ottenere questo titolo o hai avuto difficoltà? Chi ti ha creato più problemi tra i tuoi avversari? «è stato un po’ difficile ottenere questo risultato, anche se non troppo. Chi mi ha creato più problemi sono stati Sparagna e Livoti (2° e 3° classificato)». Qual è il successo a cui sei più legato e che ricordi con più piacere in ambito velistico? «Sicuramente il Campionato italiano classe 2010 a Reggio Calabria dello scorso settembre. Anche il Meeting Internazionale della Gioventù di Alassio, che è stata la mia prima regata e ho fatto 8° (Febbraio 2019), è un successo che ricordo con tanti piacere». Parlando di Alassio, il 23 Febbraio 2020 hai ottenuto un altro podio. Puoi raccontarci qualcosa a riguardo?

«Ho fatto tre primi posti nelle tre prove, classificandomi 1°. E’ stato bellissimo e mi sono divertito molto».

compagno».

Qual è, invece, il prossimo obiettivo che ti poni? «Cercare di arrivare a podio al prossimo Meeting di Riva del Garda. Poi cercare sempre di arrivare tra i primi tre classificati anche nelle regate successive».

Hai fatto parte del GAN (Gruppo Agonistico Nazionale) l’anno scorso: mi puoi raccontare qualcosa a riguardo? «Mi sono trovato bene e mi è piaciuto tanto perché mi hanno insegnato molte nuove cose. Anche quest’anno andrò perché mi sono qualificato grazie al 1° posto ad Alassio».

Sei legato ai tuoi compagni di squadra? Ti aiutano anche loro ad ottenere queste vittorie? «Mi trovo bene con tutti, infatti passiamo anche molto tempo insieme tra allenamenti e regate. Mi trovo soprattutto bene con Nicole Galazzini, la mia allenatrice, e con Davide, un mio

Cosa diresti ad altri ragazzi più giovani di te per convincerli a provare la vela? «Direi che è bello e di provare perché quando sei in acqua senti il vento, l’aria fresca e che sei in mezzo alla natura. Quindi consiglierei a tutti di provare perché ti fa stare bene, è bello e ti diverti. E si va molto veloci!».

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I NTERVISTA Giulia Salin

Giulia, che stile! di Jacopo Pellegrini - Foto: Giulia Salin

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a Società A.S.D Nuoto Venezia ha un vero e proprio ‘gioiello’ tra i propri tesserati: classe 2002 originaria di Mestre, Giulia Salin, sebbene sia un giovane promessa, può già vantare un palmares di tutto rispetto. Dopo il debutto europeo ai Campionati Junior nel 2016, nel 2019 che si consacra con ben 3 medaglie. Da Kazan, in Russia, infatti porta a casa un argento nei 400 stile libero e due ori negli 800 e nei 1500 stile libero. Il tempo segnato negli 800 (8:29.19) le vale anche il record europeo della manifestazione. Sempre nel 2019, ad agosto, Giulia conquista un bronzo negli 800 e un argento nei 1500, sempre nello stile libero, ai Campionati Mondiali Junior tenutisi a Budapest, in Ungheria.

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Risultati importanti frutto di sacrificio, costanza e, indubbiamente, di doti non indifferenti. Giulia fa ‘conoscenza’ con l’acqua della piscina all’età di quattro anni. “Fin da piccina” – racconta – “i miei genitori mi hanno portata in piscina per i vari corsi. Principalmente per farmi imparare a stare a galla e a nuotare un po’, con la scusa che ogni estate la passavamo in campeggio vicino al mare. Però con il tempo ho avuto la possibilità di conoscere meglio questo sport e di capire che era perfetto per me. Ho così deciso di continuare. Ed eccomi qua…”. Giulia, che sensazioni provi quando sei in acqua? «Quando nuoto è come se fossi

solamente io e la piscina: come se tutti i problemi, le ansie e lo stress rimanessero fuori. È un ambiente in cui mi sento veramente bene». La famiglia ti ha supportata nel tuo percorso? «I miei familiari sono i miei sostenitori numero uno: mi hanno seguito in ogni gara, sono sempre stati con me e sono fondamentali. Per questo, infatti, vorrei ringraziarli tantissimo». Quanti allenamenti fai a settimana? «Principalmente dipende dal periodo dell’anno: in estate, finita la scuola, mi alleno 13 volte a settimana in acqua (2 sessioni al giorno e 1 la domenica) e 3 in palestra. Durante l’anno scolastico,


invece, mi alleno 8 in piscina e 2 in palestra. Le sessioni in acqua durano 2 ore e 15 minuti; in palestra 1 ora». Come riesci a far coincidere nuoto e scuola? «In realtà è molto complicato, perché la scuola non aiuta e non comprende il fatto che io faccia sport ad alto livello. Però, organizzando e razionalizzando bene il tempo, avendo un orario ben preciso e determinato riesco a gestire bene entrambi, senza trascurare l’uno o l’altra». Quali sono i tuoi idoli a cui ti ispiri? «In primo piano sicuramente c’è Federica Pellegrini, in quanto anche lei è una nuotatrice veneta che ha avuto grandissimi risultati e la stimo tantissimo sia come atleta che come persona». Prossimi obiettivi, Coronavirus permettendo? «Con la scusa di questo enorme problema tutti gli obiettivi sono notevolmente cambiati: il primo è di riuscire a tornare a nuotare, quindi trovare una piscina aperta e ricominciare da lì. Riprendere da dove mi sono interrotta e tornare a recuperare la condizione fisica persa restando a casa». Come ti sei allenata in questo periodo? «Ogni giorno faccio corpo libero e della cyclette. Quindi cerco di tenermi in forma sia muscolarmente che dal punto di vista aerobico». Che cosa ha significato per te questa quarantena? «Un problema bello grosso, uno stop forzato. Questa quarantena ha significato obiettivi e sogni infranti».

Il nuoto è considerato da tutti lo sport più completo dal punto di vista fisico e mentale. Quanta concentrazione ed impegno richiede? «Non nego che il nuoto sia uno sport veramente faticoso. Bisogna avere questa consapevolezza: non è uno sport di squadra in cui principalmente ti diverti e socializzi, ma è uno sport in cui ci sei solamente te e la piscina. Però nonostante possa sembrare faticoso e difficile ti regala tante emozioni e soddisfazioni. Richiede un grande impegno, ma ti fa stare bene».

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I NTERVISTA ni Alessio Marco

Centro di questi giorni di Jacopo Pellegrini - Foto: Alessio Marconi

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lessio Marconi, classe 1996, è uno dei volti più noti nel mondo delle freccette italiane: vanta successi in tutte le competizioni di Soft, nel singolo (campione U16 e Serie C), nel doppio con Mattia Bersani (campioni Serie B e A) e a squadre con i Pro Dart Verona (due volte campioni Serie A). Oltre a numerosi altri podi, degni di nota sono anche i due primi posti in Coppa Italia. A livello Europeo, a squadre, si è classificato 3° in Champions League e 2° nell’Eurocup. Convocato nella Nazionale Italiana per tre anni di fila, da poco più di un anno si è anche affacciato al mondo dello Steel con un gruppo di amici, i Made in Italy.

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Alessio, perché le freccette? «Diciamo che è ‘colpa’ di mio padre e i miei zii: sono stati loro a tramandarmi questa passione. Ho fatto la prima iscrizione nella FIDART nel 2003, a 7 anni. Mi sono fermato, tranne qualche competizione come gli Italiani Under 16, riprendendo seriamente dal 2016». In pochi anni sei passato dalla Serie C alla A. Ora è il terzo anno che sei nella ‘Categoria Regina. Ci sono stati anni più semplici o più complessi? «Nessuno degli anni in realtà è stato semplice: i più difficili però sono stati gli ultimi. Il primo anno di Serie A hai più voglia di dimostrare, gli anni seguenti sono più difficili perché devi riconfermarti. Il

problema più grosso è dimostrare di riuscire a mantenere un certo livello». Giochi anche la Coppa Italia a squadre: nel 2017 e 2018 avete vinto, mentre lo scorso anno vi siete fermati in semifinale. «Peccato, perchè non riuscire a centrare la ‘tripletta’ personale mi è dispiaciuto. Inutile negarlo: vincere è sempre piacevole. Detto ciò, credo che, alla fine, non abbiamo demeritato la nostra posizione: ci siamo battuti ma hanno vinto i più forti». Dal 2017 al 2019 hai fatto parte anche della Nazionale Italiana. Cosa hai provato alla tua prima convocazione? «La convocazione in Nazionale è stata una sorpresa e un grandissimo orgoglio. Dopo


averla guadagnata ho fatto di tutto per arrivare ad essere pronto all’Europeo». Nel 2018 avete sfiorato il podio all’Europeo… «Già, quello è stato l’anno in cui mi sono divertito di più e siamo riusciti a raggiungere risultati che la Nazionale Italiana non raggiungeva da tempo. Nel sistema di eliminazione a doppio ko abbiamo perso contro la Repubblica Ceca (vincitrice dell’Europeo, ndr) al secondo turno. Riuscendo a vincere contro la Germania siamo arrivati tra i primi 4, vincendo nettamente. Forse perché in generale non avevo nulla da perdere, ho giocato sopra le mie aspettative chiudendo l’ultima partita contro i tedeschi. Solo la Russia, al sesto turno, ci ha impedito di arrivare a podio». Da poco hai anche iniziato a giocare a Steel: come ti stai trovando? (Steel, disciplina praticata con freccette con punta in acciaio appunto le steel darts n.d.r.) «Ho avuto un paio di problemi: il primo è che i conti non sono automatici ma li devi tenere a mente; il secondo sono state le freccette perché ho dovuto cambiare tipologia. QQQquindi ho avuto un periodo di adattamento, ma comunque sono riuscito a togliermi delle belle soddisfazioni con importanti prestazioni nel Development Youth Tour».

livello personale, di gioco e di quello che è stato sfiorato come risultato, è il momento più importante del mio percorso».

importantissimo. Fuori non ci sono particolari problematiche anzi, tante volte l’amicizia prende il posto della rivalità».

Quali sono le difficoltà maggiori che riscontri in questo sport, sia in pedana che fuori? «In pedana le difficoltà maggiori sono sicuramente la costanza nell’allenamento e la concentrazione, che hanno un ruolo

Prossimi obiettivi? «Il mio obiettivo più grande è di continuare a divertirmi, e non è una cosa scontata. Poi c’è la voglia di provare a fare qualcosa di più nello Steel e di alzare ancora il livello di gioco».

Qual è il ricordo di cui vai più orgoglioso? «Sceglierne uno è difficile perché sono stati anni molto importanti e pieni di emozioni. Però direi che non è una vittoria il momento di cui vado più fiero: infatti l’orgoglio maggiore è stato quando a Vienna, lo scorso novembre: sono arrivato ad un passo dal qualificarmi al Mondiale e nel mondo dei professionisti. A

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I CO F A R G O T O F E REPO RTAG a n e t n a r a u q in CittÃ

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SPO RT LI FE

Donne e motori: gioie e solidarietà di Daniela Scalia - Foto: Lady Rally Verona

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onne speciali, donne a tutto gas. Impossibile non restare contagiati dalle Lady Rally Verona, che tutto quello che fanno lo fanno con un’energia travolgente, dalle competizioni alla missione di sensibilizzazione tutta al femminile ai gesti di sostegno e solidarietà. D’altra parte il motore dietro all’idea e all’attività del gruppo veronese di rallyste che porta in giro il messaggio della lotta alla violenza di genere c’è l’inesauribile carica di Sabrina Tumolo, pilota, istruttrice di guida sicura ACI e titolare della scuderia Company Rally Team. “Sono la più ‘vecchia’, ma anche la più matta”. Così si presenta Sabrina che ci racconta la recente ma vivace vita del gruppo veronese: “Sono tante le donne veronesi nel del rally. Nel 2016 la comune passione per i motori ci ha portato a riunirci una sera a cena. Da lì un’idea semplice, spontanea, subito concretizzata, quella di creare un gruppo tutto al femminile con

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la finalità di portare nel nostro mondo e attraverso la nostra attività un messaggio e un sostegno a favore delle donne vittime di violenza”. Le ragazze del Lady Rally Verona si presentano così come donne che mantengono la loro femminilità anche a bordo di un’auto da gara, donne che quando si tratta di mettersi in gioco non ci pensano due volte, donne che sanno cosa vogliono. E la comune passione per il rally ha fatto da motore anche per l’iniziativa che le Lady Rally hanno avviato con il Comune di Verona per la raccolta di fondi a favore del Centro Antiviolenza Petra. “All’epoca era Assessore alla Cultura Anna Leso” - racconta Sabrina Tumolo – “per lei il rally è un affare di famiglia e trovarci in sintonia è stato immediato. La nostra idea di raccogliere fondi da destinare alla Casa Rifugio è stata accolta e veicolata

attraverso i canali istituzionali ed è diventata per noi un appuntamento e un impegno fisso”. Così come quello di continuare l’opera di sensibilizzazione sul tutto il territorio nazionale nelle varie partecipazioni alle competizioni sia come equipaggi completi sia come pilotesse o navigatrici. Il mondo dei motori è tradizionalmente declinato al maschile, ma negli ultimi anni la presenza di equipaggi femminili


ha iniziato a lavorare dal di dentro a un graduale cambio di mentalità: “Ormai ci conoscono, ci stimano e rispettano. Non solo per il messaggio che portiamo di aiuto e sostegno alle donne vittime di oscenità, denigrazione e violenza, ma anche come atlete che vogliono dimostrare di poter combattere, superare i propri limiti e vincere. Come Lady Rally Verona siamo sempre presentate con attenzione prima delle gare e ci viene sempre concesso di fare un piccolo intervento al momento delle premiazioni”. Tanti sono tradizionalmente anche gli appuntamenti sul territorio veronese, il calendario naturalmente in questo periodo è completamente da rivedere, ma intanto le Lady Rally non sono certo rimaste ferme, anzi. Un rapido sondaggio interno, l’accordo con l’Assessore alle Pari Opportunità Francesca Briani e il ricavato dell’attività del 2019 e dei primi mesi del 2020 è stato consegnato all’Ospedale Sacro Cuore di Negrar per aiutare a fronteggiare l’emergenza da Covid-19. Un gesto significativo che non annulla la missione del gruppo: di questo Sabrina Tumolo non ama parlare, ma alcune delle ragazze hanno aggiunto anche donazioni personali e un’altra parte di fondi verrà comunque destinata al Centro Petra.

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Questo spiega perché le Lady Rally Verona abbiano scelto per rappresentarsi una frase di Rita Levi Montalcini: “Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente. Hanno sempre dovuto portare due pesi, quello privato e quello sociale. Le donne sono la colonna vertebrale delle società”.

COME SI DIVENTA PILOTA

Che tipo di licenze bisogna conseguire? Per entrare nel mondo dell’automobilismo sportivo occorre essere tesserati alla Federazione Sportiva Automobilistica che in Italia è rappresentata da ACI Sport. La tessera, che si chiama “licenza”, consente appunto di partecipare allo sport automobilistico a livello sia amatoriale che agonistico. Le licenze Aci Sport auto: 1) Licenza di conduttore (pilota) nazionale o internazionale. 2) Licenza di concorrente (colui che iscrive la vettura alla gara) persona fisica o persona giuridica. Il Pilota per iscrivere una vettura deve conseguire la licenza di Concorrente

Condutture (la prima Licenza sarà tipo C/ Naz)

A che età si può iniziare? È necessario avere la patente? Sì, per gareggiare la patente di guida è obbligatoria (grado B o superiore). Si può iniziare appena conseguita la patente di grado B. Si può iniziare anche a 16 anni con il consenso dei genitori facendo un corso specifico alla Scuola Federale. Quante sono le tappe della formazione? Si deve frequentare un corso teorico che illustra il mondo e le regole dello sport automobilistico presso la sede dell’Automobile Club e superare un test attitudinale.

Quali sono i costi? Si paga fino a 114€ per il Karting e da 30 a 701€ per le auto, a seconda della licenza scelta che varia dal tipo di specialità alla quale si intende partecipare e dal tipo di vettura con cui si gareggia. La licenza AC è collegata all’associazione ACI che comprende tutti i servizi base previsti per i Soci ACI, quindi Conc/cond. C Nazionale € 291,00 + Tessera Aci obbligatoria Quali documenti servono? Si deve avere un certificato di idoneità all’attività agonistica rilasciato dai Centri di Medicina dello Sport della F.M.S.I, dalle ASL o dalle strutture e/o da medici espressamente autorizzati dalle Regioni secondo le rispettive normative. Documentazione: 1. La patente di guida di grado B o superiore 2. La tessera associativa ACI 3. La tassa di licenza 4. Certificato di idoneità all’attività agonistica Come ci si approccia a una scuderia? Semplicemente presentandosi. Le Scuderie sono disponibili a integrarvi in questo sport ma dovrete essere disponibili anche voi ad aiutare per imparare, seguendo le gare magari nei parchi assistenza anche solo a pulire vetri o a cambiare gomme.

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I NTERVISTA Sabrina Tumolo

Alla scoperta della 'Pres'

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di Daniela Scalia - Foto: Sabrina Tumolo

ilota di Rally dal ‘93, cofondatrice e presidente della Scuderia Company Rally Team, istruttore Rally 2° Livello ACI Sport, membro attivo e co-fondatrice del gruppo Lady Rally Verona. Sabrina Tumolo è una persona entusiasta e coinvolgente oltre che una sportiva di successo. Conosciamola insieme. Come è nata la tua passione? «È stato il mio compagno Cesare (per i ragazzi Company il Comandante) a introdurmi nell’agonismo come Navigatrice, per poi passare al volante. Dal 2005 gareggio in coppia con Linda Tripi». A quante gare hai partecipato? «Non le ho contate ma dovrebbero essere tra le 180 e le 200 nelle varie specialità». Che cos’è Company Rally Team? «È una scuderia automobilistica che si occupa di Motorport in particolare cose su strada rally, slalom, salite, di formazione, attiva nelle problematiche sociali, tenendo sempre al primo posto l’amicizia e il divertimento». Qual è la tua gara del cuore? «La Ronde del Gallo Cedrone e il Rally della Romagna, questi sono i due che mi appartengono di più per le mie caratteristiche di guida perché particolarmente veloci. Ma ovviamente il mio rally del cuore è il Rally Due Valli». Qual è il tuo traguardo sportivo più importante? «Nel 2011 il primo posto del Ranking dell’International Rally Drivers Association per i risultati nei Rally riconosciuti da FIA e Aci Sport.

Non da meno le Tre Finali disputate al Motor Show di Bologna». E quello affettivo? «Vedere negli occhi delle persone a cui ho insegnato o donato, la gioia di Vincere ma soprattutto di averci provato e avercela fatta».

LADY RALLY VERONA Componenti del gruppo e ruolo in gara - Benedetti Arianna (navigatrice) - Benedetti Erika Pilota (1 gara da navigatrice) - Campostrini Michela (pilota) - Dalla Chiara Miriam Navigatrice (1 gara da pilota) - Danese Milena (navigatrice) - Dusi Anna (navigatrice e pilota) - Lonardi Federica (pilota e navigatrice) - Olivieri Nancy (navigatrice) - Poddi Virginia (navigatrice) - Refondini Sara (navigatrice) - Stizzoli Martina Navigatrice (qualche gara da pilota) - Tripi Linda (navigatrice) - Tumolo Sabrina (pilota) - Zamperini Nadia (pilota) Equipaggi in gara - Benedetti Erika Danese Milena Clio Williams 2000 Gruppo N N3 - Campostrini Michela Poddi Virginia Peugeot 106 1600 Gruppo N N2 - Lonardi Federica Dusi Anna Clio Williams 2000 Gruppo A A7 - Tumolo Sabrina Tripi Linda Renault Clio Rs 2000 Gruppo R R3

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I NTERVISTA ani Pierpaolo Rom

Il pallone infangato di Giorgio Vincenzi - Foto: Pierpaolo Romani

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artite truccate, campionati falsati, gestione delle scommesse lecite e illecite, riciclaggio di denaro sporco, bagarinaggio, estorsioni mascherate da sponsorizzazioni, minacce a giocatori, allenatori e dirigenti, utilizzo delle tifoserie per scopi poco nobili, controllo dei servizi e delle attività interne ed esterne agli stadi. Sono queste alcune delle azioni messe in campo da quel sistema criminal-sportivo in cui operano sportivi disonesti, criminali, mafiosi e insospettabili colletti bianchi. Questo mondo fatto di imbrogli, slealtà, corruzione, omertà, violenza e minacce, in cui girano grandi quantità di denaro, è stato portato alla luce dalle inchieste svolte da nord a sud Italia”. Questo è l’incipit del libro Calcio criminale (Ed. Rubbettino) scritto da Pierpaolo Romani, Coordinatore nazionale di Avviso Pubblico – che opera con enti locali e regioni per la formazione civile contro le mafie – e che ha la prefazione di Damiano Tommasi, presidente dell’Associazione italiana calciatori. Romani, sono passati alcuni anni dall’uscita del libro ma possiamo ancora dire che le mafie controllano grandi spazi legati al calcio? «Certamente sì. La Commissione parlamentare antimafia della passata legislatura ha dedicato nel 2017 una relazione sul rapporto calcio-mafia con cui ha confermato che è ancora tutto attuale e che si è esteso persino alla Serie A. Pensate alla recente indagine della Direzione distrettuale antimafia di Torino sull’infiltrazione della ’ndrangheta nella tifoseria della Juventus, ma anche quella del 2018 denominata ‘Barbarossa’, ad Asti, che ha attestato come sempre la ’ndrangheta fosse penetrata nel mondo del calcio locale».

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attraverso l’acquisizione di società, per coltivare il consenso sociale, ma anche per controllare lo spaccio della droga nelle curve. Un esempio? Recentemente il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha dichiarato che in provincia di Cosenza una ‘ndrina non solo controllava una squadra di calcio dilettantistica, ma riforniva direttamente di cocaina alcuni suoi calciatori. Altro esempio: accade talvolta che dietro le sponsorizzazioni delle squadre si nascondano delle vere e proprie estorsioni ai danni di imprenditori e commercianti. E potrei continuare…».

Nel Veneto come stanno le cose? «Il Veneto, come hanno dimostrato gli investigatori in tempi recenti, le mafie hanno messo radici. Non si sono semplicemente infiltrate. I mafiosi si sono mossi su due versanti: il traffico e lo spaccio di droga, da una parte, l’apporto di risorse finanziarie, dall’altra. Inchieste svolte dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo e di Venezia hanno evidenziato come alcune cosche di mafia siciliana e della camorra casalese abbiamo finanziato squadre di calcio dilettantistiche in provincia di Padova e di Venezia. Questo lo hanno fatto per acquisire consenso sociale tra la popolazione, per avere contatti più facili con esponenti politici locali, come ha dimostrato il caso del Comune di Eraclea, dove è stato arrestato il Sindaco e, infine, per fare affari». Perché le mafie s’interessano al calcio? «Oltre che per riciclare il denaro sporco

Cosa intendi per consenso sociale? «Usando un’espressione di un famoso boss mafioso siciliano ‘Se ti fai volere bene, anziché essere temuto’, puoi commettere delle azioni illegali, ma la gente non parlerà male di te. Il pallone apre molte porte che garantiscono ricchezza, omertà e impunità. Il consenso sociale, per alcuni personaggi, diventa anche consenso elettorale: controllando una fetta della popolazione, a partire dalla tifoseria, si potranno condizionare, per esempio, le elezioni del sindaco. Il consenso sociale, infine, serve anche per fare affari. Ecco perché i mafiosi acquistano le squadre di calcio specie quelle che partecipano ai campionati minori, dalla Serie D in giù, e nel giro di qualche anno le portano in categorie superiori. Grazie ai soldi di cui dispongono, derivanti dal narcotraffico, acquistano buoni giocatori e allenatori. Il successo della squadra genererà visibilità mediatica e consenso sociale per chi la presiede. Da ultimo, non scordiamoci che, come evidenziato da alcune inchieste giudiziarie, ai fini della gestione delle scommesse è più facile alterare una partita a livello semiprofessionistico che nelle serie maggiori».


A proposito di scommesse, come siamo messi? «In Italia, a partire dagli anni novanta, scommettere è diventato legale. Il legislatore ha pensato che legalizzando scommesse e gioco d’azzardo si sarebbe potuto sottrarre il mercato alla criminalità organizzata. Così non è stato, purtroppo. Oggi le mafie operano sia nel settore legale che in quello clandestino». Sono sempre più all’ordine del giorno le intimidazioni a giocatori e allenatori: qual è il fine? «Negli ultimi cinque anni l’Associazione italiana calciatori attraverso il Rapporto Calciatori sotto tiro ha censito più di 500 atti intimidatori, avvenuti soprattutto nel Sud Italia all’interno degli impianti sportivi. In diversi casi, le minacce e le

intimidazioni sono giunte ai calciatori per opera dei propri tifosi, anche mediante l’utilizzo dei social network, oltre che con cori, striscioni, scritte sui muri e, in certi casi, aggressioni fisiche. Da questo Rapporto, già uscito in cinque edizioni, emerge che i giocatori vengono minacciati o intimiditi per vari motivi: scarso rendimento, ripetute sconfitte, retrocessioni. A volte, alcuni calciatori sono stati minacciati perché non hanno mantenuto dei patti illeciti fatti con personaggi legati alla criminalità, con cui avevano stabilito di alterare i risultati delle partite ai fini della gestione delle scommesse. Talvolta si assiste a una connivenza tra ultras e società. Nel mio libro racconto, per esempio, come una società del Nord Italia, che anni fa giocava in Serie C, abbia fatto minacciare e intimidire alcuni suoi giocatori da personaggi criminali per indurli a rescindere il contratto unilateralmente. In questo modo, la società non avrebbe più dovuto pagargli lo stipendio». Gianni Mura, uno dei più grandi giornalisti sportivi che da poco ci ha lasciati, così scriveva nel Rapporto Calciatori sotto tiro: “…S’è visto un tifoso della Juve prendere a schiaffi Andrea Fortunato perché correva poco, perché era sempre stanco, automatica l’accusa di allenarsi poco. Aveva la leucemia, Fortunato. Morì pochi mesi dopo quegli schiaffi che ancora oggi dovrebbero far vergognare chi li tirò”. Romani, perché tanto odio e violenza? «L’odio si sta diffondendo nella società

presentandosi sotto forma di razzismo e antisemitismo. Si odiano i diversi, considerati dei nemici, una minaccia. Il calcio è parte della società e gli stadi sono considerati da troppo tempo delle zone franche in cui tutto è permesso perché territorialmente circoscritto e, quindi, si pensa controllabile. I calciatori si devono ribellare a questo clima culturale e devono non accettare come normali comportamenti che tali non sono. Le società devono impedire che i delinquenti e i criminali siano presenti sugli spalti». Come può il calcio difendersi dalle mafie? «Occorre impegnarsi molto sulla prevenzione, iniziando dai ragazzini. Occorre fargli comprendere che esiste una cultura della legalità e della responsabilità e che le regole vanno rispettate perché servono per proteggerci e non per crearci degli ostacoli. In tal senso sta operando molto bene da alcuni anni il Dipartimento Junior dell’Associazione italiana calciatori presieduta dal veronese Damiano Tommasi, ex calciatore dell’Hellas e della Roma. L’intento è quello di portare una nuova cultura sportiva nel calcio formando allenatori e tecnici che siano in grado di preparare buoni atleti, ma anche di contribuire a educare dei cittadini responsabili. Questo lo devono capire anche i genitori. In Italia ci sono tante famiglie che sperano di avere un figlio calciatore per risolvere i loro problemi economici. La realtà qual è? Diventa professionista un ragazzo su trentamila».

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STARE BEN E

instagram coffeetumbler

Questo tempo è strano di Cecilia Zonta - Foto: coffeetumbler

C’

C’è chi lo vede come una condanna, e chi come un’opportunità. Io voto per la seconda opzione. Non ignoro ciò che di grave sta avvenendo fuori dalle mura sicure di casa, ogni giorno pensieri e preoccupazioni invadono la mia mente, ma non se ne impossessano. Quante volte al suono della sveglia all’alba necessaria per attraversare la città per recarci al lavoro (o addirittura per cambiare città e fare il pendolare per seguire lezioni universitarie), avremmo voluto spegnerla e girarci dall’altra parte? Ora per alcuni la sveglia c’è ancora ma con la possibilità e la fortuna di poter lavorare/studiare da casa; tutto quel tempo investito negli spostamenti, e nel traffico, ora è nostro e ne siamo davvero padroni solo se riusciamo a farlo comunque fruttare e a renderlo produttivo. Il mattino ha l’oro in bocca, si dice, e allora perché non approfittarne investendo quel tempo risparmiato da spostamenti/traffico iniziando la giornata al meglio con un bell’allenamento? C’è chi preferisce partire con delicatezza scegliendo un’energizzante sessione di yoga. C’è chi invece punta ad un allenamento ad intervalli così da risvegliare corpo e mente. Si prosegue con una colazione nutriente e completa per poter così iniziare il proprio smart working/studio solo con le migliori energie. Purtroppo però la scrivania non è amica della nostra postura e del nostro benessere, per cui l’ideale sarebbe impostare un timer così da ricordarci ogni mezzora di prenderci 3-5’ per sgranchirci le gambe e approfittarne per bere un bicchier d’acqua. A fine giornata lavorativa/di studio sarebbe consigliato dedicarsi 5/10’ per qualche lavoro di mobilità della colonna, delle spalle e magari per sdraiarci per terra e stendere le gambe alte appoggiandole al muro, così da favorire la circolazione rallentata dalle tante ore trascorse seduti. Questi sono solo alcuni degli

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spunti che possono tornarci utili in questo periodo così particolare al quale nessuno era preparato e forse nel quale all’inizio ci siamo sentiti un po’ spaesati e abbandonati. Questa situazione ha tolto a tutti qualcosa, alcune libertà (che prima magari davamo per scontate), alcune possibilità di portare avanti o di iniziare percorsi (lavorativi, di studio, di salute, culturali…), alcune occasioni (lavorative o di vita) che ci avrebbero permesso di crescere. Senza dimenticare che ad alcuni sono stati tolti dei cari. È vero, non si potrà uscire di casa, ma finché

ci possiamo rimanere significa anche che siamo in salute che è la cosa più importante. E finché siamo in salute abbiamo il dovere morale di rendere produttivo al meglio il tempo che abbiamo a disposizione, perchè ci lamentiamo sempre di non averne mai abbastanza, e ora che ci troviamo in questa situazione non possiamo e non dobbiamo farci prendere dalla pigrizia. Questo tempo è strano e ce lo ricorderemo per sempre. Non per quello che ci ha tolto ma per quello che ci ha saputo dare.

Per altri consigli su come affrontare questo periodo vi aspetto sul mio profilo Instagram @coffeetumbler


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I NTERVISTA one Federica Brign

Sorpresa Mondiale Coppa... totale! di Alberto Cristani/Andrea Etrari - Foto: Pentaphoto

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La Coppa? Non ci ho mai veramente pensato fino alle ultime gare

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utti in piedi per Federica Brignone! La sciatrice valdostana è entrata nella storia: per la prima volta un’italiana ha conquistato la Coppa del Mondo generale di sci alpino. Prima di lei erano riusciti solo, nel maschile, icone dello sport nazionale che rispondono ai nomi di Gustavo Thoeni, Piero Gros e Alberto Tomba. Non era mai successo nel femminile, ora Federica ha colmato questa lacuna, seppur giovandosi dell’assenza dalle gare, da gennaio, di Mikaela Shiffrin e dell’annullamento delle ultime due tappe di Coppa del Mondo di Are e di Cortina. E non è tutto perché l’atleta dei Carabinieri ha portato a casa, in questa indimenticabile stagione 2019/2020 costellata da 5 vittorie, la Coppa di specialità di Gigante e quella di Combinata. Ventinove anni, nata a Milano ma

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residente a La Salle (AO), Fede è figlia d’arte: sua mamma, Maria Rosa Quario, faceva parte della cosiddetta ‘Valanga rosa’ e gareggiò a livello internazionale tra il 1979 e il 1986, vincendo quattro gare di Coppa del Mondo. Federica ha esordito in Coppa del Mondo nella stagione 2007/2008, totalizzando a oggi 15 vittorie (seconda assoluta nella storia italiana dietro Deborah Compagnoni n.d.r.) e 39 podi complessivi. Ha partecipato a tre Olimpiadi, conquistando un bronzo in Gigante nel 2018 a Pyeong Chang e cinque Mondiali, portando a casa un argento in Gigante nel 2011 a Garmisch. SportdiPiù magazine l’ha incontrata (virtualmente…) per questa intervista esclusiva. Federica, cosa si prova ad essere la prima italiana della storia a vincere la Coppa del Mondo? «È un grande onore per me e, penso,

una gioia per tanti tifosi che dai giorni successivi alla vittoria mi stanno dimostrando il loro affetto in ogni modo. È stata una stagione molto difficile, per tanti motivi, e trovarsi davanti a tutte dopo l’ultima gara è stato un sogno». Vincere la coppa grazie all’assenza della Shiffrin da gennaio e grazie alla cancellazione delle gare di Are e Cortina, è la stessa cosa? «Siamo agoniste, ci piace gareggiare e


certo l’idea di poter festeggiare davanti al pubblico di casa sarebbe stata un’emozione fortissima. Purtroppo non è stato possibile, ma abbiamo comunque disputato 25 gare sulle 30 previste: non credo siano mancate le occasioni di confronto. Mikaela ha vissuto un dolore fortissimo, ed ha scelto di rimanere per un po’ con se stessa. Ho cercato, più volte di mandarle messaggi di conforto. A tutte noi sarebbe piaciuto poterla ritrovare sul campo di gara».

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Non aver ricevuto la Coppa sul “campo” senza premiazione e senza aver sentito l'Inno italiano, ma averla ricevuta a casa, ti è pesato tanto? «Beh, non vedevo l’ora che arrivasse. Come ho detto, poter festeggiare con il pubblico, con il fan club, con la squadra sarebbe stato il massimo. Lo faremo appena sarà possibile». Ti saresti mai aspettata di vincere la coppa generale? Sinceramente non ci ho mai veramente pensato fino alle ultime gare. Quest’anno ho trovato la forza di cercare di fare risultato gara per gara e i risultati sono arrivati. Con essi sono arrivati i punti e poi la Coppa. E’ andato tutto in crescendo. E quelle di gigante e di combinata? Quella di combinata è una vera soddisfazione, perché premia la mia polivalenza, una cosa per la quale ho lavorato tantissimo. Quella di gigante la inseguivo da una vita e non vale meno di quella generale. Quando hai capito che potevi farcela di conquistare la coppa? Solo quando il mio allenatore, Gianluca Rulfi, mi ha mandato un messaggino che diceva che le gare di Are erano cancellate e la Coppa era vinta. Chi ti senti di ringraziare per questo trionfo? Sono tantissime le persone da ringraziare, a partire dalla mia famiglia, dallo staff tecnico della Nazionale, la Federazione che ci mette in condizione di avere il meglio per poterci allenare, il gruppo sportivo dei Carabinieri, il fan club, i tifosi... tanta roba. Cosa è cambiato in te, in questa stagione, rispetto alle scorse annate? Credo di essere riuscita a trovare la giusta via di mezzo fra l’aggressività in pista e la tranquillità in me stessa. Il tutto si è trasformato nel poter fare in pista ciò che volevo e sapevo fare. Stiamo vivendo un momento particolarmente complicato: il Coronavirus ci ha praticamente bloccato in casa, cambiando completamente le nostre abitudini. Come vivi questo stop forzato, da sportiva e, in generale, da cittadina? Questo contagio ha messo ko il mondo intero. Io ho la fortuna di avere un po’ di spazio a casa mia dove poter continuare a fare preparazione fisica. Continuo

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naturalmente a vivere da atleta, anche se ci sarà molto da fare appena questa brutta storia sarà finita. Come ne uscirà l’Italia? E come cambierà secondo te la nostra vita? Sarà difficile ma ne usciremo. L’Italia ha sempre saputo reagire ai momenti più difficili, sarà così anche questa volta. Probabilmente, per molto tempo dovremo limitare il nostro affetto nei confronti delle altre persone, rimanerne un po’ a distanza, pensare solo a lavorare e poi tornare a casa. Ma mi auguro che tutto ciò possa servire a tornare alla completa normalità il più presto possibile. Un messaggio a tutti gli sportivi... Siamo fortunati, facciamo quello che ci piace: mandate messaggi positivi alla gente che sta male e soffre, agli

anziani e a chi è solo. Lo sport deve unire sempre, soprattutto nei momenti di difficoltà. Federica Brignone posa con la Coppa del Mondo nel salotto di casa sua (Instagram @federicabrignone credits @davidebrignone)


www.girolagodiresia.it

21 Giro Lago di Resia o

Sa. 18.07.2020 ore 17.00 15,3 km

Corsa JUST FOR FUN Corsa delle mele per Bambini Nordic Walking


I NTERVISTA i Marco Castion

Il richiamo della neve

C

di Paola Gilberti - Foto: Marco Castioni

i avviciniamo all’estate, ma la Fisi Verona (Federazione italiana sport invernali) guarda oltre, per pianificare con anticipo la prossima stagione, dopo la sospensione delle attività in corso nell’inverno appena passato. In questa intervista il presidente Marco Castioni tracciare il bilancio di quanto organizzato fino ad oggi, con uno sguardo rivolto al passato e, sopratutto, uno rivolto al futuro. Stiamo vivendo una situazione particolare, una situazione che ci preoccupa, ma dalla quale si può ripartire più forti. Tu come vedi il dopo Coronavirus per quel che riguarda gli

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sport invernali? «La nostra è una disciplina individuale, che si svolge all’aperto, quindi dovremmo avere qualche problema in meno rispetto a chi pratica nelle palestre o in un ambiente chiuso. Certo, sarà necessario prendere delle precauzioni, dal momento che un minimo di assembramento è presente anche nel nostro sport. Aspettiamo anche di sapere quali saranno le direttive per preservare gli atleti e le persone coinvolte nelle varie attività». Avete già pensato a qualche progetto per la prossima stagione? «A livello veneto ci stiamo confrontando e stiamo valutando varie iniziative per

la stagione a venire, ovviamente con tutti i punti di domanda del caso perché ancora non sappiamo come e quando questa emergenza rientrerà. Al momento abbiamo sospeso alcuni incontri di preparazione estiva, ma appena possibile ci organizzeremo per rispettare gli appuntamenti previsti dal calendario». Bene, ora concentriamoci su quanto fatto a livello provinciale dalla Federazioni. Quanti tesserati avete al momento e quali sono state le principali attività del 2019/2020? «I nostri tesserati sono circa 2000, divisi nelle varie discipline. Per quanto riguarda la disciplina più partecipata, lo sci alpino, abbiamo


Marco Castioni

avviato tre anni fa un’iniziativa rivolta ai bambini dagli 8 ai 10 anni: si tratta del corso biennale Winter 60x60, che ha lo scopo di insegnare ai ragazzi a sciare vivendo, apprezzando e conoscendo l’ambiente montano. La Fisi Verona offre a 12 ragazzi due anni di lezioni gratuite, tenute da maestri delle scuole di sci, per affinare la tecnica sciistica ma anche per apprezzare la montagna in un ambiente sano e divertente. Purtroppo quest’anno non abbiamo potuto completare le giornate di scuola prefissate, ma abbiamo comunque garantito il recupero nella prossima stagione. Winter 60x60 ha anche creato una piccola squadra di neo-agonisti: i ragazzi del primo corso, concluso il biennio offerto da Fisi Verona, hanno voluto proseguire l’esperienza collettiva formando un gruppo che intende prepararsi ad affrontare le competizioni tra i pali. Il principio base di questo gruppo, comunque, rimane quello del sano divertimento e non dell’esasperata ricerca dei risultati. Nella disciplina dello sci alpino abbiamo anche agonisti Master, “ragazzi” oltre i 30 anni, che ottengono risultati di prestigio sia a livello regionale che nazionale. Il cameratismo che si respira nelle competizioni di questa categoria difficilmente si riscontra in altri sport non di squadra. Punta di diamante delle nostre attività è comunque lo sci di fondo, frequentato soprattutto nei nostri Monti Lessini. Nelle categorie giovanili continuiamo a vantare numerosi podi individuali e di squadra sia in ambito

regionale che nazionale. L’esempio lampante di quanto sia proficuo il lavoro svolto dagli Sci Club Lessini è la presenza di tanti atleti, anche nel passato, che hanno raggiunto traguardi di tutta eccellenza alle Olimpiadi o nelle competizioni mondiali. Attualmente una nostra conterranea di Boscochiesanuova, Lucia Scardoni, è componente fissa nella Squadra Nazionale». Torniamo a guardare avanti: 2026 Olimpiadi Invernali. Cosa pensi che porteranno a Verona? Credi che daranno una buona visibilità agli sport invernali? «Penso che la cerimonia di chiusura prevista qui in Arena avrà un impatto enorme a livello mediatico e turistico.

Sono un po’ più dubbioso sui riflessi diretti per gli sport invernali veronesi. Mi spiego meglio: se per benefici da visibilità intendiamo più persone tesserati alla Fisi, ritengo possibile un incremento degli appassionati e di conseguenza anche di tesserati, ma i benefici maggiori delle Olimpiadi saranno goduti dalle località che ospitano le gare e forniti di impianti, Cortina e Bormio in testa. Più che le manifestazioni agonistiche, l’incremento degli appassionati ritengo sia più collegato alla presenza di campioni in cui la gente possa identificarsi. Attualmente in Italia qualcosa si sta vedendo, soprattutto a livello femminile: un esempio è Federica Brignone (vedi intervista pag. 88), prima donna italiana a vincere la Coppa del Mondo di sci alpino, ma anche Michela Moioli nello snowboard e Dorothea Wierer nel biathlon. Speriamo quindi che questi risultati portino qualcosa di significativo a tutto il movimento». Ultimissima domanda: il tuo rapporto con gli sport invernali? «Sono un grande appassionato di sci alpino e appena posso salgo sulle piste per godermi la bellezza di questa disciplina. Mi riprometto spesso di affrontare anche altre tipologie di sci, ma alla fine torno sempre alla mia passione».

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SPO RT LI FE

Il mio corpo è un giocattolo meraviglioso!

L’

di Arianna Del Sordo - Foto: King Rock

arrampicata al King Rock comincia in tenerissima età. E comincia giocando. Integrare la disciplina sportiva con la psicomotricità e renderla irresistibile attraverso il gioco è la formula vincente che, da oltre 10 anni, permette alla palestra di arrampicata veronese di iniziare i bambini al gesto verticale sin dall’età di 4/5 anni. Enrico Sartori, collaboratore dell’ “Associazione Professionale Arcobaleno”, da diversi anni tiene i corsi di psicomotricità per i piccoli iscritti del King Rock. Il suo contributo ci aiuta a comprendere bene quanto sia importante la psicomotricità come attività propedeutica non solo all’arrampicata, ma a tutte le discipline sportive. Enrico, sei psicomotricista dal 1993. Ci aiuti a comprendere cos’è la psicomotricità? La psicomotricità è una disciplina che lavora sull’armonizzazione delle funzionalità del corpo e della mente, focalizzandosi in particolar modo sulle azioni intese come “movimenti in relazione”. Attraverso questo percorso, i bambini imparano gradualmente a relazionarsi con vari interlocutori che sono, oltre alle altre persone, gli oggetti, lo spazio e il tempo. E’ una vera e propria esperienza del corpo in azione: esplorando l’ambiente, il corpo impara a conoscere e a conoscersi. Quali sono le differenze tra psicomotricità ed educazione fisica? In apparenza, può sembrare che non ci siano differenze. In realtà la differenza è sostanziale e consiste nella finalità educativa: la ginnastica mira ad educare il corpo e punta alla migliore performance, mentre la psicomotricità mira a fare da collettore tra corpo, pensieri, bisogni e desideri, attraverso la leva della consapevolezza. Il bambino tende a scoprire la propria identità, il modo unico ed irripetibile con cui si rapporta al mondo che lo circonda e impara ad esprimersi secondo le proprie capacità. Giocare invece di fare esercizi: perché è così importante? Il gioco è il mezzo più efficace per l’appren-

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dimento del bambino. Mentre gioca, egli fa esperienza di due processi fondamentali: “adatta l’ambiente a sé” e ai propri bisogni e al contempo, “adatta il sé all’ambiente”, contribuendo ad estendere progressivamente il proprio livello di sviluppo fisico ed emotivo. Durante il gioco, il movimento è sempre collegato alle emozioni: l’intensità di un salto, di un lancio, di una corsa o di una capriola non sono solo azioni motorie ma anche espressione di emozioni. Ogni bambino ha dentro di sé un ricco bagaglio di emozioni: noi psicomotricisti dobbiamo trovare il modo di farle affiorare, giocando. Esattamente, in cosa consiste la tua professione? Il mio intervento educativo è caratterizzato da diversi aspetti. Prima di tutto, mi pongo come un ‘”garante”: ricordo le regole del gioco al gruppo, stabilisco un certo ordine per ridurre eventuali conflitti e mantenere la loro sicurezza. In secondo luogo, sono un ascoltatore empatico: accolgo i giochi dei bambini, ne comprendo il loro significato funzionale o simbolico e metto delle parole sui loro vissuti. Ovviamente, sono anche un compagno di giochi, sapendo scegliere quando “entrare” e quando “uscire” durante un loro gioco motorio o simbolico. Non utilizzo una lista preconfezionata di esercizi e giochi: complice l’esperienza, creo delle dinamiche di gioco sempre nuove e studiate su casi specifici. Infine, posso definirmi un vero e proprio “regista” degli spazi e dei materiali, poiché mi occupo dell’allestimento della palestra tenendo conto delle esigenze e delle caratteristiche del gruppo. La psicomotrici-

tà è un passaggio propedeutico all’arrampicata molto importante. Perché? La formula creata per i bambini del King Rock permette di sperimentare le due fondamentali forme di adattamento che stanno alla base delle teorie dello sviluppo in età evolutiva. Durante una prima parte degli incontri, lo spazio del gioco e l’adulto si adeguano ai bambini, creando un ambiente versatile che può adattarsi ai loro bisogni. In una seconda fase, ai bambini viene chiesto di adattarsi alle regole e, più precisamente, alle tecniche specifiche di scalata e alle buone pratiche per farlo in totale sicurezza. I bambini si trovano così a dover controllare il loro corpo, gestire la fatica fisica, accogliere le loro emozioni (successi e fallimenti), entrare in contatto con la paura e trovare il modo per superarla o tenerla sotto controllo. Dunque: giocando si impara! Assolutamente sì. Che il bambino percepisca l’atto di arrampicarsi come un gesto naturale o no, poco importa: in entrambi i casi, l’intento della psicomotricità è quello di instaurare una relazione di fiducia e rassicurazione tra i bambini e gli adulti che li conducono in questa esperienza. Così, i piccoli climbers imparano ad avere fiducia in se stessi, negli adulti e nei loro coetanei: imparano perché giocano, coinvolti totalmente, “anima e corpo”, a sperimentare le potenzialità del loro meraviglioso giocattolo.



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Un motore, due ruote e la passione... si accende! di Gigi Vesentini - Foto: Paolo Ermini

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aolo Ermini, veronese classe1998 nasce in una famiglia di sportivi. Fin da piccolo nonostante gli avvicinamenti a molti sport quali nuoto, sci, calcio o arti marziali di cui il papà Simone è appassionato e

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praticante - i suoi occhi si illuminavano solo quando vedeva “due ruote”, di qualsiasi tipologia esse fossero. Viso fresco faccia pulita, muscoli d’acciaio (d’altra parte pilotare la sua Husqvarna 250cc non deve essere semplice, soprattutto domarla in volo

durante le gare fatte di salti e voli ad altissima velocità n.d.r) lo conosciamo durante una manifestazione di beneficenza alla Piccola Fraternità nel quartiere Borgo Roma di Verona, dove Paolo offre la propria immagine e disponibilità alle Associazioni impegnate


a sostegno della disabilità. Ci racconta della sua passione per il motocross e i suoi inizi a soli otto anni. Le prime gare, i primi risultati importanti, i primi trofei fino a quando, sostenuto dalla famiglia e incoraggiato dai suoi tecnici, entra nel Moto Club Bisso Galeto di Verona e con l’aiuto del Presidente Giovanni Martini già nel 2007 pratica questo sport a livello agonistico. Partecipa da subito ai Campionati Regionali e Nazionali passando dalle varie categorie del Minicross categoria 65 e 85cc fino al 2012. In questi sei anni di percorso atletico e agonistico viene premiato con risultati appaganti sia in ambito Triveneto che Nazionale, partecipando anche a prove del campionato Europeo nel 2011 e 2012. Nel 2011 diventa Campione Italiano categoria 85 cc. nella Lega Motociclismo UISP. Dal 2013 al 2015 gareggia nella categoria Junior 125cc. sempre in ambito Triveneto e Nazionale con alcune prove Europee e nel 2014 è convocato dalla Federazione Italiana come rappresentanza con i primi 20 piloti a carattere nazionale nel Trofeo Italo/ Francese Dal 2016 ad oggi entra nel mondo “dei grandi” e dei “professionisti” nella categoria MX2 – 250cc. partecipando sempre a

competizioni regionali, nazionali ed europee. Nel 2018 entra a far parte del M.B.T. Racing Team di Vicenza ed è subito Campione Italiano a Squadre con la compagine Regione Veneto. Nel 2019 Paolo entra a far parte di un programma triennale seguito dal tecnico federale Danilo Marasca nella scuola Off Road Matelica, parte integrante di Federazione Italiana Motociclistica e riconosciuta dal CONI. L’atleta è inserito anche tra i migliori piloti italiani sia nel motocross che nel supercross (specialità “americana” che ama) e fa parte infatti dei piloti di interesse Nazionale FIM. Ad oggi, con i campionati Regionali, Nazionali e Internazionali conclusi, Paolo può stilare con orgoglio i sui risultati dell’annata 2019: 3° assoluto nel Campionato Invernale Motocross of Brands categoria MX2, 3° assoluto nel Campionato Internazionali d’Italia SuperCross categoria SX2, 6° assoluto nel Campionato Italiano Prestige MX2 categoria MX2-Fast, 2° assoluto nel Campionato Regionale Veneto categoria MX2-Fast, 4° assoluto nel Campionato Triveneto Top Rider categoria MX2-Fast. Paolo vive la sua carriera con grande passione: questa sua vita da pilota è stata

accompagnata con grande impegno e risultati con il diploma di Liceo Scientifico mentre oggi sta affrontando il 3° anno all’Università Cattolica di Milano per la laurea in Scienze Motorie e dello Sport. Paolo infine non dimentica di ringraziare la sua famiglia, il coach e tecnico federale Danilo Marasca con la sua scuola Off Road Matelica, il meccanico e accompagnatore Gabriele Pretto, il Moto Club Bisso Galeto e gli sponsor: è anche grazie a loro che il suo futuro potrà riservargli grandi soddisfazioni.

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Cos’è il

MOTOCROSS?

Il Motocross è una disciplina sportiva e un’attività motociclistica che si pratica su circuiti sterrati chiusi con lunghezza dai 1,5 ai 2,5 Km dove, a zone “naturali” sono affiancati salti, whopps e wawe create artificialmente. Si differenzia da altre specialità offroad nella partenza “di massa” dove 40 piloti sono allineati dietro un cancelletto di partenza sulla stessa linea e con gare dalla durata di circa 30 minuti (a seconda della categoria e livello) Oltre alla tecnica e all’esperienza, il pilota deve essere molto allenato e in condizioni fisiche e mentali perfette; studi fatti in America asseriscono che il cuore dei “crossisti” è sollecitato e allenato più di altre discipline sportive esaminate. Verona annovera nella propria lista di atleti agonistici di rilevanza anche piloti non solo delle “4 ruote” ma anche delle “2 ruote”. Il Moto Club “Bisso Galeto” nasce a Verona nel 1989 (quest’anno si festeggiano i 31 anni), grazie ad un gruppo di amici che condividevano la passione per la moto. Un nome particolare per gente particolare, un nome simpatico, allegro,

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ma nello stesso tempo che incute timore e attenzione, un nome da ricordare! Agli inizi, l’attività agonistica del Moto Club, affiliato regolarmente alla federazione motociclistica italiana F.M.I. era prevalentemente legata al mondo del fuoristrada e si dedicava soprattutto alle gare rally. Emanuele Cristanelli ha partecipato a varie edizioni dalle mitiche Parigi-Dakar. Negli anni il Moto Club ha supportato molte altre attività motociclistiche, dalla velocità su pista al motocross, all’enduro fino ad arrivare al motard. La volontà del Moto Club Bisso Galeto è sempre stata quella di promuovere l’attività motociclistica nelle sue varie discipline, puntando oltre che al vero e proprio agonismo, anche

sull’aggregazione e amicizia, fattori vitali per la vitalità di una associazione sportiva. Nell’anno 2006 è iniziato un percorso riguardante l’attività del “minicross”, creando una struttura polivalente che potesse seguire i ragazzini dai primi approcci con la moto fino alle competizioni agonistiche. Oggi questi ragazzini sono cresciuti, qualcuno ha smesso, ma molti continuano a frequentare l’ambiente e sono diventati dei veri piloti.


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I NTERVISTA i Anna Signorin

Signorini: tra padel e tennis una vita sottorete! di Matto Zanon - Foto: Anna Signorini

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l gioco del padel si sta diffondendo a macchia d’olio e gli appassionati crescono sempre di più. Nato negli Anni Settanta inizialmente era uno sport d’élite ma con il passare degli anni si diffuse in tutte le latitudini. In Italia la federazione del padel nacque nel 1991 e cominciò a prendere piede grazie ai primi tornei e ai campi (possono essere indoor o outdoor) che iniziarono ad essere costruiti. A Verona non mancano i centri che offrono le possibilità di cimentarsi con questo sport che sta portando alla luce dei giocatori di primissimo livello, come ad esempio Anna Signorini che, grazie anche alla sua carriera da tennista, su un invito di amici ha provato questo sport e se né subito innamorata. Infatti, partita con classifica 3.2 dopo un anno ha già scalato diverse posizioni arrivando a 2.1, aggiudicandosi diversi tornei e il titolo, assieme alla sua compagna Gabriela D’Errico, il titolo regionale. In esclusiva per SportdiPiù magazine, la maestra di tennis del circolo Scaligero, racconta la sua avventura in questo ‘nuovo mondo’. Anna, quando e come ti sei avvicinata al padel? «A gennaio dell’anno scorso alcuni amici mi hanno invitata a giocare a padel per una partita. Senza pensarci due volte sono andata». Possiamo dire che è stato amore a prima vista? «Assolutamente si: mi è piaciuto subito perchè si tratta di uno sport molto divertente e spettacolare».

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Sin dagli inizi hai ottenuto risultati nei vari tornei che hai disputato: quali sono stati quelli più importanti? «Sì, ne ho vinti diversi ma i più importanti sono tre: un torneo a Milano in cui ho giocato in coppia con la numero uno d’Italia, Giulia Sussarello, e contro diverse giocatrici molto forti; il mio primo torneo vinto con la mia attuale compagna di padel, Gabriela D’Errico, con cui ho anche vinto il master del circuito side spin. A settembre a Limena, io e Gabriela abbiamo ottenuto un grande risultato vincendo il titolo di campionesse regionali torneo Open». Sei stata e sei tutt’ora un’ottima giocatrice di tennis. Questo può averti aiutato ad avere sin da subito una marcia in più in questo sport? «Sì, devo dire che mi ha aiutato soprattutto per il gioco al volo, ma comunque una base tecnica del tennis aiuta in generale per la pratica di questo sport». Quali sono gli aspetti che accomunano il tennis e il padel? «Sono due sport a prima vista molto simili ma in realtà sono molto diversi tra loro. Il campo di padel, al contrario di quello da tennis, è circondato da pareti che rimettono sempre la palla in gioco. Dal punto di vista tecnico nel padel c’è maggiore varietà di colpi,

soprattutto dall’alto: esistono diversi colpi come smash, vibora e bandeja che utilizzi in base alle situazioni di gioco. É fondamentale essere rapidi e avere un’ottima reattività. In questo sport inoltre si gioca solo in coppia e questo accresce ancora di più le variabili del gioco che non dipende solo dai tuoi colpi ma anche da quelli della tua compagna». Seppur sei una neofita di questo sport, come hai trovato il livello delle coppie di giocatrici che hai incontrato? «Il livello è molto alto ma essendo uno sport ancora nuovo si alzerà di più grazie ‘alle giovani’ che decideranno di fare del padel la loro prima scelta». Il tennis è il tuo lavoro e la tua passione più grande: il padel cos’è? «Anche il padel è una passione, una delle cose che mi piace di più è giocare in coppia dove è fondamentale un grande feeling con la compagna. Il punto non è mai finito, gli scambi

sono lunghissimi, la testa è già al colpo successivo da fare in base ai movimenti delle avversarie e alle loro posizioni in campo. Tutto ciò rende il padel molto divertente, mi fa appassionare e mi fa venire voglia di continuare a giocare, cercando di migliorarmi sempre di più». Il tuo sogno nel cassetto nel mondo del padel? «Il mio desiderio è arrivare al massimo che riesco a fare, ma senza dubbio mi piacerebbe giocare in nazionale».

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I NTERVISTA to Davide Posena

Il guerriero coraggioso di Matto Lerco - Foto: Davide Posenato

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avide Posenato è un guerriero coraggioso. Dal 2014 impugna una racchetta da badminton che simboleggia la forza, la volontà e la determinazione con cui si è riappropriato della sua vita dopo un ictus durante un allenamento di calcio che ha stravolto inevitabilmente la sua quotidianità. Il classe 1995 di Montorio col passare delle stagioni è diventato sempre più padrone dei propri mezzi e, nonostante l’inutilizzo di braccio e gamba destra, attualmente riesce a dare

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filo da torcere anche ai normodotati. La sua storia è un grido di speranza che non vuole restare inascoltato. Davide, la passione per il badminton in un certo modo ti ha sempre accompagnato, giusto? «Si, hai perfettamente ragione. Sono sempre stato un appassionato di sport e da quando ho incominciato questa ‘nuova vita’ ho dovuto riscoprire abilità nascoste e dimenticate di quando ero un bambino. Il badminton è una di quelle».

Cosa successe quel pomeriggio del 2010 nel campo di allenamento? «Durante un allenamento non mi sono sentito bene, molto ingenuamente ho pensato ad un mancamento sebbene io non ne abbia mai sofferto. Sicuramente non potevo immaginare quello che in realtà mi stava succedendo». Quando eri sdraiato sul letto d’ospedale quali pensieri ti giravano per la testa? «Dopo un po’ di confusione, nella mia ingenuità di ragazzo, ero convinto fosse una cosa di poco conto e all’inizio


pensavo di riprendere la vita di tutti i giorni dopo una normale degenza. Purtroppo pian piano mi si sono schiarite le idee su ciò che realmente mi era accaduto». Nel 2014 fai conoscenza dell’Itis Marconi, un incontro che in un certo qual modo ti rivoluziona la vita… «Parlare di rivoluzione forse è esagerato, però dopo quello che mi era successo è stato bellissimo trovare un nuovo sport da praticare e, soprattutto, dei compagni di club con cui giocare e divertirsi». Leggevo che gareggi nella categoria SL3 di parabadminton… ci spieghi come si articolano queste classi? «Senza andare nello specifico, le prime due sono per i giocatori in carrozzina (denominate WH1 e WH2), poi ce ne sono altre due, tra cui la mia SL3 - SL4, che procedono per gravità dell’handicap all’arto inferiore. Infine, le ultime due categorie: quella degli SU5 per coloro con disabilità ad un arto superiore e quella degli SS6 per coloro affetti da nanismo».

Le Olimpiadi sono il sogno ultimo di ogni atleta, normodotato o affetto da disabilità che sia: quello olimpico è un orizzonte che in futuro ti piacerebbe inseguire? «Certo che sì, nella vita è giusto porsi obiettivi del genere! Poter rincorrere una tale meta penso sia il sogno di ogni atleta e speriamo un giorno di avere i mezzi per poterlo fare».

fondamentale per non perdersi. Ognuno ha i suoi tempi, ma non bisogna mai staccare gli occhi dalla cima per poterla oltrepassare. È una grande verità».

Mi ha colpito la frase che ti sei tatuato sul braccio: “You will never walk alone”. Il tuo viaggio nella vita e nello sport non lo compirai mai da solo… «Non bisogna mai sentirsi soli, nello sport come nella vita. Io ho la fortuna di aver sempre potuto contare sulla mia famiglia e sui miei amici, e spero di continuare a compiere questo viaggio con loro».

“Le disabilità non devono essere viste come montagne insormontabili, ma come sfide da vincere con coraggio”. Ti ritrovi in queste parole? «Assolutamente sì, il coraggio è

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6 #ROADTO202 Sara Simeoni

Sulle ali dell'entusiasmo di Paola Gilberti - Foto: Sara Simeoni

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a Simeoni è stata forse l’ultima interprete di uno sport romantico. Le sue lacrime di gioia hanno inondato il cuore di milioni di spettatori: ne sentiamo la mancanza”. Così scrive Gianni Merlo di Sara, la ragazzina che sognava di diventare ballerina, ma che poi ha incrociato il mondo dell’atletica, la donna che con le sue ali ai piedi ci ha fatto sognare e commuovere. “Se non fosse stato per la mia insegnante di educazione fisica” – ci racconta l’ex olimpionica veronese – “forse non avrei mai conosciuto il salto in alto. Pur non conoscendo la disciplina, mi accorsi di non essere niente male: a 13 anni saltai 1.35, miglior prestazione italiana di categoria…”. Da lì, Sara comincia a scrivere importanti e luminosi pagine di sport: medaglia d’argento a Montreal nel 1976, record mondiale nel 1978, oro a Mosca nel 1980 e di nuovo Argento a Los Angeles nel 1984. Solo per citare alcune delle storiche tappe di una carriera incredibile. Sara, c’è stato un momento preciso in cui ha capito quanto in alto sarebbe potuta arrivare? «Nella mia prima Olimpiade a Monaco nel 1972: è stato bellissimo arrivare lì, respirare quell’aria e vedere un mondo così diverso da quello di casa. Salto 1.85 e sono sesta. Penso che mi mancano solo 3 centimetri per salire sul podio, così tornata a casa decido di fare sul serio. Comincio a frequentare la Scuola Nazionale di Atletica Leggera di Formia, allenata da Erminio Azzaro, che sarebbe diventato mio marito. E poi, arrivano i primi risultati».

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In questa foto e in quella in bianco e nero il momento in cui Sara Simeoni stabilisce a Brescia il record mondiale del salto in alto femminile con la misura di 2,01 metri. Era il 4 agosto 1978.

Olimpiadi di Los Angeles 1984

Tra questi, sicuramente i più eclatanti sono stati il Record del Mondo del 1978 e l’oro Olimpico di Mosca del 1980… «La medaglia d’oro alle Olimpiade di Mosca rappresenta la mia gioia più grande. Per me le Olimpiadi hanno sempre avuto un significato speciale, essere presente mi faceva sentire quasi immortale. Per il record del mondo non mi ero allenata con l’idea di portarlo via alla tedesca Rosemarie Ackermann, non credevo sarebbe stato possibile batterla. Però, provando e riprovando i miglioramenti arrivavano. In una gara faccio il mio record personale, 1.97, poi provo 2.01. Non passo, ma capisco che non è impossibile. E una settimana dopo, a Brescia, supero i 2 metri al primo tentativo. E replico agli Europei di Praga, nello stesso anno».

Mai avuti momenti difficili in cui ha pensato di smettere? «I momenti no ci sono sempre: a volte hai la testa da un’altra parte, a volte un infortunio ti fa crollare il mondo addosso, a volte non riesci a migliorare… Dopo aver vinto il primo campionato, sono stata isolata da alcune compagne di squadra, probabilmente per gelosia. Volevo smettere, ma il mio allenatore mi ha convinto a non mollare e ho capito che dovevo contare sulla mia motivazione. Alle Olimpiadi di Los Angeles avevo male al tendine, credevo di non riuscire a saltare. Potevo arrendermi, invece ho fatto una delle gare più belle mia vita, conquistato la mia terza medaglia olimpico, di nuovo un argento».

Suo marito Erminio, nonché suo ex allenatore, che ruolo ha avuto in tutto questo? «Io e Erminio siamo sempre stati uniti, prima e dopo il matrimonio. Abbiamo sempre fatto tutto insieme e anche oggi, dopo tanti anni, posso sempre contare su di lui. Siamo riusciti a conciliare i vari aspetti della nostra vita». Dagli anni del suo esordio a oggi, la cultura sportiva è cambiata molto. Lei come vede la situazione dello sport, specialmente quello giovanile? «Solo un esempio: io ho cominciato a praticare atletica a 13 anni, oggi a 13 anni sei già ‘vecchio’. C’è molta più pressione sui ragazzi da parte di allenatori e genitori e il problema principale è che molti di loro rischiano di demoralizzarsi

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se non vedono subito buoni risultati. Questo li porta a smettere per il timore di non farcela, di non essere abbastanza bravi. Ai giovani va ricordato che durante la crescita tante cose cambiano, fisicamente e mentalmente, per questo ognuno deve lavorare in modo diverso, prendendo atto dei propri punti deboli e di forza. Inoltre, per quanto a tutti piaccia vincere, sottolineo che è normale subire delle sconfitte. Io stessa ho perso molte gare, ma forse proprio quelle mi hanno insegnato a ripartire». Parlando del presente, è difficile evitare l’argomento principale: l’emergenza Coronavirus. Crede che il mondo, in particolare quello dello sport, ritroverà il suo equilibrio? «Io spero che tutto questo sacrificio non sia invano. Mi auguro che ci si renda conto che la salute è importante e che con la salute possiamo fare tutto. Da giovane si dà poco peso a certi valori, poi quando ti mancano te ne accorgi. In questi anni c’è stato un eccesso di tutto e questo stop improvviso, che nessuno

si aspettava, deve farci meditare e deve aiutarci a dare un giusto peso alle cose per il futuro». E allora proviamo a guardare avanti, fino a Milano-Cortina 2026. La cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici sarà proprio qui a Verona, la città sarà pronta? «Verona sarà pronta e bellissima! Ho avuto modo di vivere l’atmosfera delle Olimpiadi Invernali di Torino e mi immagino le stesse belle emozioni. Credo che l’aria Olimpica si respirerà un po’ ovunque, non solo nelle località coinvolte direttamente, perché sull’onda dell’evento ci saranno molte altre manifestazioni sportive. Lo scenario sarà eccezionale!».

Per me le Olimpiadi hanno sempre avuto un significato speciale, essere presente mi faceva sentire quasi immortale

Sara Simeoni madrina dei Campionati Studenteschi di corsa campestre di Verona

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nexidia da sempre sostiene lo sport del suo territorio, ed oggi fa il tifo per tutte le persone impegnate contro un avversario mai affrontato prima. torneremo negli stadi, nei palazzetti, sulle piste, e lo faremo con nuove energie, a cui daremo voce, immagine, colore.

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verona

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I NTERVISTA Jerry Calà

Cinquanta sfumature di di Matteo Lerco - Foto: Jerry Calà

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Jerry


J

erry Calà, pseudonimo di Calogero Alessandro Augusto Calà è siciliano di nascita, ma con il cuore a tinte scaligere. Attore, regista, comico, sceneggiatore, cantante: nella sua lunga carriera Jerry (soprannome affibbiatogli da dei compagni di scuola in seguito a delle divertenti imitazioni di Jerry Lewis) ha saputo reinventarsi costantemente con successo, non smarrendo mai quella scintilla grazie alla quale ha saputo catturare la simpatia di tutto il popolo italiano. La «Libidine» è un concetto che ha ammantato un’epoca e che, col passare delle Primavere, non è mai sbiadito, tanto che in questo 2020 l’ex Gatto di Vicolo Miracoli alza il calice ai cinquant’anni di attività. In una diretta Instagram abbiamo provato a tracciare i contorni di questo intramontabile personaggio,

tra ricordi di un passato glorioso e sogni sempre pronti ad uscire dal cassetto. Jerry, questo 2020 è molto particolare per te: con l’apertura del nuovo decennio festeggiamo i tuoi primi cinquant’anni di carriera… «Esattamente! Insieme alla Fondazione Arena e RTL 102.5 era già partita l’organizzazione di dell’evento Cinquant’anni di libidine, Jerry Calà and Friends, in programma in Arena di Verona il 10 settembre. Tengo molto a questa data, in quanto rappresenta una sorta di consacrazione nella mia città di adozione: nonostante sia nato a Catania, mi ritengo un veronese a tutti gli effetti. Vediamo come si evolve la situazione che stiamo vivendo, al momento sia indoor che outdoor è tutto fermo, speriamo dunque che tutto ritorni in breve tempo alla normalità».

Quest’anno festeggiamo anche i tuoi venticinque anni di Capannina a Forte dei Marmi. Hai osservato da vicino l’evoluzione della gioventù e del divertimento, com’è cambiato il modo di divertirsi col passare del tempo? «Una volta i ragazzi andavano in discoteca principalmente per ballare e socializzare, ora purtroppo molti di loro alzano troppo il gomito e il volume esasperato della musica nei locali non aiuta a creare la giusta atmosfera. Spero che dopo questo stravolgimento epocale la gente cambi un po’ il proprio approccio a delle dinamiche quotidiane che, talvolta, vengono sottovalutate. Nelle mie serate per fortuna si riesce ancora a preservare lo spirito dei vecchi tempi». Qual è la canzone che senti più tua e che la gente ti associa maggiormente? «È incredibile pensare come il singolo in cui tutti mi identificano sia Maracaibo, canzone di Lu Colombo. Potrebbe anche farmela una telefonata di ringraziamento per tutto il successo che gli ho portato (ride n.d.r.). In molti spettacoli ho provato ad uscire da teatro senza cantarla e ho rischiato davvero il linciaggio. Altri pezzi tuttora molto richiesti sono Ancora di Luciano De Crescenzo e La Pelle Nera di Nino Ferrer. Ho riadattato queste canzoni alle mie caratteristiche vocali e direi che il risultato finale è stato, ed è tuttora, molto gradito…». Che rapporto hai con lo sport in generale? «Non sono mai stato un grande sportivo, da ragazzo ho giocato un po’ a calcio e praticato atletica. Negli anni ’90 mi appassionai molto di “rampichino”, l’odierna mountain bike, tant’è che coi miei amici ci facevamo anche trenta chilometri al giorno su e giù per le Torricelle. Ultimamente mi sono comprato una bici per riavvicinarmi alle due ruote, ma il Coronavirus ha interrotto questa riscoperta».

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Tuo figlio Johnny è un grande appassionato di Chievo, sbaglio? «Certo, Johnny fin da piccolo si è sempre guardato moltissime partite. Si è affezionato alla sponda Chievo e ho dovuto seguirlo, avvicinandomi stadio. Per quanto riguarda l’Hellas ricordo quando all’Excalibur festeggiai lo storico scudetto del 1984-85. con Bagnoli e tutta quella fantastica squadra. Elkjaer e Briegel riempirono il portaombrelli di birra e se lo scolarono tra il giubilo generale! Stupendo. Erano altri tempi. Sempre quell’anno fui protagonista di un episodio allo stadio, quando i tifosi gialloblu, vedendomi per la prima volta al Betengodi, mi dissero che se l’Hellas avesse perso quella partita sarebbe stata colpa mia. Non ti dico come vissi quei novanta minuti. Alla fine Fanna e compagni vinsero e io potei uscire dallo stadio a testa alta. Ma non finì li: infatti, quando mi sentivo ormai ‘al sicuro’, fui avvicinato da uno dei capi delle Brigate che mi disse: “Calà, dobbiamo organizzare la festa per lo scudetto, ci aiuti vero?”. Cosa potevo rispondere? Fu così che donai volentieri un milione delle vecchie lire: soldi spesi bene visto che servirono per festeggiare un’impresa unica e irripetibile!». C’è uno sportivo a cui sei particolarmente legato? «Sicuramente Livio Berruti, velocista che

J&J ovvero Jerry e Johnny Calà

sempre qualcosa che bolle in pentola…». Qual è infine il messaggio di Jerry Calà agli sportivi del Veneto? «Spero che i sani principi dello sport come la lealtà, la competizione e il rispetto diventino anche le virtù della società post Covid-19. È questo il mio grande auspicio».

batté il record mondiale dei 100 metri. Lo ammiravo per la sua semplicità e per la sua professionalità: non aveva un grande fisico, ma grazie alla sua passione arrivò lontano. Indico poi Sergio Pellissier, un caro amico, nonché punto di riferimento per questa città. È un “grande” sotto ogni punto di vista».

Jerry al tempo del Coronavirus tra tv, relax e nuove idee

Quali sono i tuoi obiettivi per il prossimo futuro? «Intanto vediamo se riusciamo a fare questo evento in Arena, poi ho in ballo il progetto di un film che ha illuminato questi miei giorni di quarantena. C’è

❛❛ Sergio Pellissier

Jerry Calà con Bud Spencer. Protagonisti in 'Bomber'

è un caro amico, nonché punto di riferimento per questa città. Un 'grande' sotto ogni punto di vista Jerry calà, Lino Banfi sul set di 'Al bar dello sport'

Jerry con il compianto Guido Nicheli alias Commendator Zampetti

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I NTERVISTA Laura Reani

di Andrea Etrari - Foto: Paolo Schiesaro

L'Usignolo di Borgo Roma

L

a storia di Laura Reani la conosciamo tutti: veronesissima, del quartiere Borgo Roma, classe 1996, inizia a giocare nel Buster Basket per poi passare nel settore giovanile del Famila Schio, dove gioca in tutte le categorie ‘under’. A 19 anni si trasferisce a La Spezia in A2 e conquista subito la promozione nella massima categoria, nell’estate 2016 si laurea vice campionessa d’Europa con la Nazionale Under 20 e subito dopo firma con l’Alpo Basket. Dopo la stagione in biancoblu, due anni a Campobasso in A2 e la scorsa estate il ritorno a Verona. «Sì, ad Alpo avevo lasciato il cuore – Sono stata molto contenta di tornare qui, volevo proseguire

il discorso in una società formata da persone fantastiche». Discorso che si è purtroppo interrotto lo scorso 8 febbraio, data dell’ultima partita ufficiale dell’Ecodent Point Mep Alpo: le successive partite sono state dapprima rinviate e poi annullate, prima della chiusura anticipata della stagione a causa del corona virus... «Purtroppo aver concluso la stagione così presto ci ha lasciato l’amaro in bocca – Eravamo cariche e pronte a disputare la final eight di Coppa Italia, avevamo vinto bene a Castelnuovo Scrivia e il finale di stagione lasciava ben sperare. Peccato, ora non ci resta che rimboccarci le maniche e pensare già alla prossima annata». Come hai passato il periodo di quarantena forzata? «Ho fatto un po’ di allenamento a casa, qualche corsa intorno a casa, guardato video, però quello che mi è mancato di più è stato l’allenamento in palestra: tante volte si va al palazzo anche per sfogarsi, il basket è uno sport di contatto, di agonismo, e tutto ciò è venuto meno negli ultimi due mesi…».

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Che stagione stava disputando l'Alpo? «Direi buona sino al momento dello stop, stavamo giocando bene, avevamo battuto Crema e avremmo potuto giocarcela con tutti nel nostro girone. In Coppa Italia e nei play off avremmo potuto dire la nostra e magari arrivare fino in fondo in entrambe le competizioni». E a livello tuo personale? «Molto contenta, forse è stata la stagione in cui ho dato più continuità e ho avuto meno alti e bassi. L’esperienza a Campobasso mi è servita, ho potuto vedere com’è il mondo e sono tornata più matura, diciamo». A 24 anni a che punto è la tua carriera, cosa vedi davanti a te? «Credo di essere a metà carriera, diciamo una sorta di via di mezzo: sono questa, esperienza ne ho, guardo avanti e guardo sempre in alto…».

Mi hai lanciato l’assist: una veronese che porta una squadra di Verona in A1, come la vedi? «Sarebbe un sogno, non solo mio ma di tutti: una cosa non impossibile, secondo me, che però è rinviata almeno di un anno». Laura e la musica: che rapporto hai? «Ultimamente ho dedicato più tempo

alla musica, con il fatto che non si poteva uscire di casa. La mia è una passione molto grande, che mi fa star bene e che esercito tutti i giorni anche quando si gioca regolarmente. Suono la chitarra da autodidatta e il pianoforte, vado a lezione di canto che non ho interrotto nemmeno durante la quarantena dato che l’ho fatta grazie alla didattica a distanza…».

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I NTERVISTA e Michele Petten

Alla scoperta del basket USA di Matteo Zanon - Foto: Michele Pettene

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n viaggio on the road tra la storia e i luoghi del basket e la freschezza del mondo dei college universitari, da dove è partito tutto. È il percorso ricco ed emozionante che hanno intrapreso Alessandro Mamoli (ex cestista) e Michele Pettene per scrivere a quattro mani il libro Basket Journey, edito da Rizzoli. Non si tratta solamente di un libro ma, pagina dopo pagina, di una vera e propria guida per gli amanti della palla a spicchi.

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In esclusiva per SportdiPiù Magazine, il veronese Pettene ci accompagna in questo viaggio a stelle e strisce attraverso incontri con grandi personaggi e visite nei luoghi dove è nato e arde il basket.

sarebbe stato di qualità. Poi l’opportunità di scrivere per una grande casa editrice come Rizzoli e, naturalmente, quella di poter viaggiare per gli Stati Uniti in cerca di storie: un vero sogno».

Cosa ti ha spinto, oltre alla tua passione per il basket, a scrivere questo libro? «Soprattutto l’amicizia con Alessandro Mamoli; lo conosco e lo stimo da tanto tempo. La sua passione è pari, se non superiore, alla mia e la sua professionalità e competenza certificavano che il progetto

Nei primi due capitoli - tra Springfield dell’inventore della pallacanestro e Philadelphia del giovane Kobe Bryant e il Wilt Chamberlain da 100 punti - traspare come nonostante siano personaggi che hanno fatto la storia di questo sport, al giorno d’oggi molti non li conoscano e non


esempio – di LeBron James la gente ne parlerebbe molto di più e in modo ancora più epico. Kobe fortunatamente si è salvato da questo semi-oblio avendo raggiunto l’apice nel Duemila».

sappiano che la loro terra ha ospitato dei veri e propri monumenti del basket. Secondo te si tratta di non voler ricordare per non far riemergere la nostalgia o semplicemente perché ‘tutto passa e va’? «Purtroppo credo sia più il secondo caso, per motivi ben precisi e con delle distinzioni. James Naismith e Chamberlain sono nati, cresciuti e ahimè scomparsi nell’era pre-Internet, quindi senza telecamere e smartphone ovunque. I video, le immagini e le foto a loro dedicati sono pochi e a bassa definizione. La loro eredità è soprattutto orale o tramandata attraverso i libri che, come ben sappiamo, hanno da tempo tristemente ceduto il passo agli schermi luminosi. Inoltre The Doc (Naismith n.d.r.) non amava parlare di sé come inventore del gioco, aggiungendo anche l’ostacolo dell’umiltà e della timidezza ai già pochi ricordi che abbiamo di lui. Sono sicuro che se potessimo avere di Wilt lo stesso materiale in HD che abbiamo – per

Com’è stato assistere alla Goodman League, il torneo on the road più famoso e dal quale sono passati grandi campioni? «Sicuramente mi sono divertito, oltre che sentirmi privilegiato per essere finito proprio lì, a Washington, a raccontare agli italiani una delle leghe estive più uniche e leggendarie del mondo. Nonostante fossi l’unico bianco in mezzo a centinaia di afroamericani in una delle aree più povere e malfamate della capitale, non mi sono mai sentito in pericolo, anzi. Sin dal mio ingresso all’interno della rete metallica che circonda il playground mi sono sentito parte di una famiglia, con il ‘boss’ del torneo Mr.Miles Rawls che durante le partite annunciava col microfono la mia presenza alla platea, divertita e incuriosita da questo ‘intruso’ venuto per conoscere la loro comunità e il loro quartiere». North Carolina e Kentucky sono le terre delle rivalità più sentite della NCAA. Tra miti, pazzie e scandali nazionali sono l’élite del basket universitario. Tu ne hai studiato le storie da vicino. Cosa ha permesso a questi college di rimanere ai vertici nonostante gli anni che passano?

«Il prestigio del nome, innanzitutto. Stabilita la propria superiorità sull’intero panorama NCAA nel passato più remoto, le due università sono riuscite a conservare quest’aura di prime potenze collegiali d’America, autoalimentandosi con i successi e le recruiting class sempre di livello assoluto: chiunque voleva e vuole giocare per loro e i loro coach. E, ovviamente, più talenti arrivano più si vince e più confermi il tuo status. Le strutture e l’atmosfera poi sono meravigliose, lo spettacolo nelle due arene è incredibile, la ricchezza dei due atenei è storia nota e la nomea anche non sportiva di college al top nelle classifiche mondiali contribuisce. Due paradisi che però si odiano veramente! (ride n.d.r.)».

‘L’Indiana era fatta per il basket e il basket per l’Indiana’: è una mezza verità o l’aria che si respira nella terra di Larry Bird ha proprio questo sapore? «Per chi non l’ha vissuta può sembrare una definizione esagerata ma, credetemi, è la pura verità. Lo stato dell’Indiana vive per la pallacanestro da sempre, praticamente da quando è stato inventato. Lo si percepisce anche semplicemente viaggiando tra le infinite cittadine di 3-4mila abitanti, ognuna con una o più storie pazzesche da raccontare sul basket. Sembra che tutti sappiano giocare, un buon 80% delle case ha un canestro installato e ancora oggi ci tengono a dirti che in 49 stati il basket è uno sport, nel loro invece è una religione. Larry Bird, bianco, biondo, ‘sfigatino’, introverso, magretto, ma con un tiro infallibile, poteva nascere solo lì». Il libro si apre si chiude con la storia di James Naismith, inventore della pallacanestro. Un doveroso riconoscimento? «Sì, decisamente. James Naismith è letteralmente la ragione per cui abbiamo scritto questo libro: senza di lui e la sua invenzione non solo non ci saremmo mai incontrati, ma non avremmo nemmeno avuto la nostra vita cambiata (in meglio) dalla pallacanestro che, in un modo o nell’altro, ci coinvolge da quando eravamo bambini». La NBA dei giorni nostri, probabilmente non sarebbe piaciuta a The Doc. Però la favola dei Toronto Raptors campioni Nba 2018-2019 gli avrebbe strappato un sorriso, non credi? «Probabilmente sì, anche perché Toronto dista pochi chilometri da Almonte, luogo natio di Naismith, sempre nell’Ontario. Pensare al gioco d’infanzia che ha ispirato l’invenzione della sua pallacanestro e vedere poco distante, anche se più di un

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zio mi portava al PalaOlimpia a vedere la Mash. Quest’anno devo dire che my man il GM Alessandro Giuliani aveva fatto un ottimo lavoro, costruendo una squadra completa e di talento. Peccato per alcuni intoppi come il cambio di coach, ma sicuramente Verona l’avrei vista molto bene nella fase finale, quella dei playoff, con tutti i suoi migliori giocatori recuperati fisicamente. Nulla però toglie che possano raccogliere nella prossima stagione quanto di ben seminato in questi mesi».

Statua James Naismith nel Campus dello Springfield College (MA)

secolo dopo, l’unica squadra canadese dell’Nba aggiudicarsi il titolo penso l’avrebbe divertito molto». Tra le pagine si nota come non avete lesinato a raccontare, oltre alle vicende legate alla terra del basket, anche le emozioni e le sensazioni che vi hanno trasmesso le città e i luoghi che avete visitato. Possiamo dire che il libro è una vera e propria guida per gli amanti della palla a spicchi? «Assolutamente. Volevamo esattamente questo risultato, anzi noi l’avremmo voluto fare ancora più con la dimensione on the road in primo piano, ma Rizzoli, giustamente, ha voluto dare la priorità ai racconti cestistici. Nel libro però si possono comunque trovare tante informazioni: da dove andare a cena a Philadelphia, se si vuole avere un’ottima chance di incontrare Allen Iverson, a dove dormire nell’Indiana, se si vuole visitare il paese di Larry Bird, passando da luoghi storici sia per lo sport che per la cultura degli Stati Uniti d’America, un mondo infinito, affascinante e pieno di contraddizioni». Sei veronese, di Cerea, e ami il basket, quindi doverosa è una domanda sul basket gialloblu: al momento della sospensione del campionato la Scaligera era terza in

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classifica con 30 punti. Poteva essere l’annata giusta per provare a giocarsi tutte le carte per il salto nella massima serie? «Seguo sempre la Scaligera. Posso dire che in Italia è l’unica squadra che al cor sempre mi è stata, fin da quando mio

Concludiamo con una domanda doverosa: cos’hai provato alla notizia della morte di Kobe Bryant? «Un senso di vuoto, una tristezza infinita, sono rimasto a lungo senza parole. Ero a cena con alcuni amici a Trieste e quando è arrivata la notizia sostanzialmente a tavola non ha più parlato nessuno, tutti cercavamo di elaborare la cosa senza ovviamente riuscirci. Uno shock immenso. Mi sono ripromesso di portare in suo onore il libro a Philadelphia, alla Lower Merion, il suo liceo e dove la leggenda di Kobe Bryant è iniziata».


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SPO RTIVA-M E

NTE

Psicologia sportiva

Dr. Tommaso Franzoso Psicologo dello Sport - Sport Mental Trainer Venezia Soccer Academy e Venezia FC

Come gestire lo sport durante la quarantena del Coronavirus

L

o Psicologo, Psicoterapeuta e Psicologo dello Sport del Venezia Football Academy e del Venezia Football Club Tommaso Franzoso, insieme al suo team, ha redatto un attuale ed interessantissimo articolo sul come gestire l’attività sportiva in questo periodo di Covid-19. Alcuni consigli utili per superare al meglio queste settimane di indispensabile reclusione forzata e per prepararci al meglio a riprendere l’attività sportiva quando l’emergenza sarà finita, con l’obiettivo di ritornare in campo con nuovi stimoli, nuovi obiettivi e, possibilmente, con una mentalità migliore. Un articolo da leggere con attenzione. Il mondo, ormai da qualche mese, è stato drammaticamente destabilizzato dal propagarsi della pandemia dovuta al Covid-19. Essa ha causato ripercussioni negative in tutti i settori produttivi della società, mettendo in ginocchio l’economia e la sanità mondiale, impattando fortemente anche sulla sfera socio-affettiva dei singoli individui. A questo proposito, è normale percepire squilibri emotivi causati dalla perdita della normalità e della consueta routine quotidiana, dalla preoccupazione concernente la salute nostra e dei nostri cari, dall’incertezza circa la durata totale dell’epidemia e dello stato d’allerta e dalla povertà di stimoli eterogenei e diversificati disponibili causata dalle restrizioni imposteci da questa quarantena forzata. Tutto ciò porta a sentimenti comuni quali: paura, confusione, stanchezza, noia, apatia, delusione, collasso motivazionale, insonnia, ansia, frustrazione, rabbia e alienazione

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che mettono a dura prova la stabilità psicologica di ognuno. Tutte queste criticità sono riscontrabili anche negli sportivi. Essi, infatti, vista l’emergenza sociosanitaria in atto, hanno dovuto interrompere il regolare svolgimento degli allenamenti e delle competizioni. È dunque comprensibile che in questo momento molti atleti possano sentirsi scoraggiati, preoccupati o in ansia rispetto all’esito della propria stagione sportiva, sia che si parli di amatori che di professionisti. Non può essere altrimenti: hanno speso mesi strutturando e perseguendo i propri obiettivi, si sono allenati a lungo e hanno fatto sacrifici. Dal proprio sport traevano benessere, soddisfazione e divertimento, aspetti molto importanti per la mente di un individuo. Ora invece si ritrovano in una situazione di stop che presenta molte analogie con quella dell’infortunio sportivo. In

entrambe le situazioni, infatti, gli atleti devono cercare di rivedere i propri obiettivi, sopportare la lontananza temporanea dal proprio sport e avere il coraggio di chiedere aiuto. L’atleta in questa situazione deve potenziare il proprio locus of control interno, inteso come percezione di poter influenzare in modo positivo gli eventi in base alle scelte prese. È quindi fondamentale effettuare una ristrutturazione degli obiettivi stagionali per evitare di incorrere in una percezione di fallimento personale dovuta al mancato raggiungimento dell’obiettivo fissato ad inizio stagione. Ora è il momento di avere la forza mentale per mettere in stand by quei piani ed essere resilienti ponendoci la seguente domanda: “Compatibilmente con la situazione in cui mi trovo, quali obiettivi sono in grado di raggiungere?”. Gli obiettivi infatti fungono da bussola per gli atleti di ogni livello e disciplina.


Essi però devono essere flessibili e vanno continuamente aggiornati sulla base dei mutamenti del contesto. Al pari di quanto succede in un infortunio sportivo, stare lontani dal proprio sport per misure restrittive contro il contagio può generare una reazione di scoramento nell’atleta. Essere resilienti in un frangente simile significa anche avere la creatività e (il coraggio) la forza di sostituire lo sport con altre attività in grado di darci simili sensazioni, creando nuove routine che scandiscano le giornate. Incaponirsi sull’impossibilità di allenarsi non renderà la situazione più facile da affrontare, anzi. È molto più funzionale assumere un atteggiamento proattivo e propositivo, valutando la possibilità di allenare la propria mente leggendo, guardando e approfondendo argomenti legati o meno al proprio sport, che possono tornarci utili in altri ambiti della vita o anche in quello sportivo. Nutrirsi non di chilometri (nel caso degli atleti di discipline di resistenza, per esempio), ma di nozioni, storie e curiosità. Tuttavia, non tutti hanno le risorse e la resilienza sufficiente per far fronte a momenti così critici, indipendentemente dall’astensione dall’attività sportiva. Se ci si accorge di non saper reagire, o intorno a noi abbiamo persone in difficoltà, è bene chiedere aiuto a professionisti competenti e preparati. A tal proposito molti psicologi che si occupano di psicologia dello sport, si stanno dotando della possibilità di offrire (il) un servizio di sostegno psicologico anche a distanza attraverso mezzi telematici. È una situazione nuova e inedita per tutti e anche per questo dobbiamo mostrare coraggio nel saper chiedere aiuto se necessario. In tutta questa situazione quello che può fare l’allenatore, che molto spesso fa anche le veci della società, è restare in connessione con l’atleta e con il suo team, creare quindi uno spazio con

loro per poter condividere, ascoltare e chiedere come può essere d’aiuto. In questo senso, infatti, la tecnologia ci consente di “eliminare” le distanze tra allenatori e atleti per mezzo di strumenti quali Zoom, Skype, Whatsapp etc. Questi strumenti permettono all’allenatore e allo staff di condurre sedute di allenamento alternative, con la possibilità di correggere le esecuzioni errate e di rendersi disponibili a domande ed eventuali chiarimenti. È opportuno che il mister riconosca il grado d’impatto che questa situazione può avere sulla motivazione dell’atleta e capisca le esigenze di ogni singolo atleta, in modo da aiutarlo in modo appropriato alle sue singole esigenze. Dal momento

che gli allenatori rappresentano un punto di riferimento per i loro atleti, è di fondamentale importanza che mantengano compostezza e resilienza, rimanendo neutrali rispetto alle decisioni degli organi di governo di annullare e posticipare eventi; in tal modo aiuteranno gli atleti a reagire in maniera adeguata a questa crisi. Provando a mettere in atto questi consigli, l’atleta e le società dovrebbero essere in grado di affrontare questa emergenza e farsi trovare pronti quando ci sarà il graduale ritorno alla normalità. Perché ci sarà, e quel giorno riusciremo senz’altro ad apprezzare ed assaporare al meglio ogni istante speso sul campo da gioco della vita.

FONTI BIBLIOGRAFICHE/ SITOGRAFICHE: - https://psicologodellosport-toscana.it/atleti-agonisti-15-difficolta-riscontrate-nellemergenza-covid-19 - https://www.psicologidellosport.it/psicologia-applicata-allo-sport-per-covid-19-linee-guida-atleti-allenatori-genitori/ • • • • •

AUTORI: Dr. Tommaso Franzoso Psicologo, Psicoterapeuta e Psicologo dello Sport del Venezia Football Academy e del Venezia Football Club; in collaborazione con il gruppo di lavoro tirocinanti in Psicologia dello Sport del Venezia Football Club: Dr. Alirio Riccardo Bonetti: Psicologo dell’Approccio Cognitivo Applicato; Dr. Francesco Minio: Psicologo Triennale dello Sviluppo e dell’Educazione, Masterizzando del Master in Psicologia dello Sport dello IUSVE; Dr. Massimiliano Chimento: Laureando in Psicologia Clinica, Masterizzando del Master in Psicologia dello Sport dello IUSVE; Alessandro Pinaffo: Laureando in Psicologia Cognitiva Applicata.

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I NTERVISTA Matteo Giunta

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Te le do io le Olimpiadi di Alberto Cristani - Foto: Andrea Staccioli

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e Federica Pellegrini sta vivendo una seconda giovinezza, sportivamente parlando, il merito è senza dubbio anche suo. Matteo Giunta, pesarese classe 1982, ha fatto della sua passione per lo sport una professione, diventando allenatore di nuoto. Esperto e molto preparato, ha seguito da vicino moltissimi atleti, alcuni anche di caratura mondiale come Evgeny Korothyskin nei 100 delfino alle Olimpiadi di Londra nel 2012. Dal 2014 la sua ‘base operativa’ è il Centro Federale Castagnetti di Verona dove sta confermando il suo valore e sta accompagnando Federica Pellegrini alle prossime Olimpiadi del 2021. Per cercare di scrivere, insieme, un’altra pagina della storia sportiva mondiale. In questa intervista esclusiva a SportdiPiù magazine Veneto, Matteo si racconta a cuore aperto, togliendosi qualche sassolino dalla scarpa e mettendo a tacere alcune voci riguardanti la sua vita privata.

Partiamo da Matteo Giunta adolescente: che rapporto avevi con lo sport? «Da piccolo ho iniziato con il nuoto e ho sempre nuotato fino ai 26 anni. Poi sono passata all’arte della preparazione. La mia aspirazione era quella di rimanere nell’ambito dello sport di alto livello. Ho avuto l’opportunità di lavorare con una squadra con questi requisiti, l’ADN Swim Project di Andrea Di Nino, che allenava atleti internazionali, da vice-campioni Olimpici, campioni del mondo. Il contesto che volevo io. Ci son entrato in punta di piedi perché non avevo grosse esperienze alle spalle, eccezion fatta la mia esperienza da nuotatore. Mi ha dato una mano la laurea in Scienze Motorie. Partivo quindi da basi teoriche generali, specifiche ma da atleta. Con questa squadra ho trascorso un quadriennio. Nel 2009 ho partecipato ai campionati mondiali di Roma nello staff tecnico della nazionale tedesca e due anni dopo ai campionati mondiali di Shanghai come responsabile tecnico del Kenya.

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Al termine di questa esperienza ho partecipato alle Olimpiadi di Londra come coach con il Kenya. Poi ho avuto l’opportunità di venire a Verona al Centro Federale e seguire il gruppo qui con Federica Pellegrini in testa. I primi due anni ho fatto il vice e seguivo la preparazione atletica. Dal 2014 ho iniziato a seguire anche l’allenamento in acqua». Dove si esprime maggiormente il ruolo di allenatore in vasca? «Sempre di più rispetto a prima, si è vista l’importanza della gestione dell’atleta a 360 gradi. L’allenatore deve avere un informatore per tutti gli aspetti: psicologico, fisioterapico, nutrizionale... L’allenatore vive con l’atleta 6 ore al giorno e deve essere in grado di gestirlo. Deve capire l’atleta e conoscerlo il più possibile, instaurare un rapporto di fiducia estrema. Posso programmare e confezionare il percorso perfetto, ma se l’atleta non crede in me questo percorso

non sarà mai perfetto al 100% e i risultati mancheranno. L’allenatore deve sapere come tirare fuori il meglio dell’atleta, far esprimere all’atleta il suo massimo potenziale».

Nel nuoto l’aspetto mentale è fondamentale. Alcuni nuotatori dicono che si dà il meglio finché la testa regge. Come si fa a tenere un atleta sempre concentrato sulla vasca? «Il nuoto è uno sport di prestazione ed è difficile perché dipende dalla concentrazione, dall’impegno e allenamento. Puoi avere talento, ma se non ti alleni bene non avrai risultai. Devi amarlo questo sport, in tutte le sfaccettature, anche quando non ottieni il risultato che vorresti. Quando sei giovane magari tutto è più facile, poi crescendo servono impegno e costanza. É lì che si crea la differenza fra i veri campioni e quelli che rimarranno mediocri, a parità di possibilità ovviamente. Quando fai tante stagioni al massimo è comunque difficile perchè vai incontri a grandi sacrifici che fai per un motivo, però quando diventano pesanti devi capire se ancora questo sport è il tuo obiettivo principale». Entriamo nel discorso Federica, l’esempio di questa costanza fisica e mentale che l’ha portata al top... «É un’atleta incredibile, rispetto a quello che ha vinto è famosa per la sua longevità, per essere ai vertici del nuoto mondiale da 17 anni. É qualcosa di unico Io spesso faccio l’esempio col calcio, sport nazionale: lì se hai talento vai avanti anche fino ai 40. In questo sport non basta il talento: deve esserci costanza, allenamento, precisione perchè hai a che fare con i centesimi di secondo. Ogni anni ci sono nuove leve, Federica negli ultimi Mondiali aveva gente giovanissima contro di lei». Lei come gestisce l’aspetto mentale? «Più cresci e più hai la possibilità di

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conoscere te stesso e capisci sempre di più cosa fare e come farlo. Lei ha imparato a conosce se stessa, il suo corpo, quando allenarsi, quando spingere, quando deve staccare la spina. Quando sei giovane il fisico sopporta tutto e si adatta, a 30 anni devi essere in grado di gestirti al meglio e centellinare ogni singola energia e il recupero diventa fondamentale. Anche lei ha giornate in cui è stanca, ma poi entra in acqua e parte. Lascia fuori i problemi che potrebbero condizionarla». A livello fisico il nuotatore dove trova più difficoltà? Dove si sentono gli anni che passano? «Nel nuoto è un po’ come con la pallavolo, i movimenti ciclici sopra la linea della spalla possono provocare problemi. La spalla “lassa” è tipica del nuotatore, per questo servono tanti esercizi di prevenzione, potenziamento cuffia dei rotatori per far sì che la spalla tenga. Il secondo punto debole è la schiena: acqua diminuisce il peso

specifico, quindi usiamo meno i muscoli addominale del core. Questa assenza di peso fa sì che gli addominali siano più rilassati e alla lunga questo provoca problemi al rachide, soprattutto la parte lombare. A te viene mai voglia di riprendere il nuoto? «No, preferisco praticare altri sport. Sono un appassionato di beach volley e appena posso gioco». Altri sport che segui? «Mi piace tutto lo sport, Il beach è la mia passione, sono amico di Daniele Lupo e lo seguo spesso nei tornei. Sono tifoso dello Juve, ma non sono quello che va allo stadio ogni weekend. Mi piace il tennis, il Motomondiale e Motogp, anche se mi piaceva di più qualche anno fa. Mi sono appassionato anche del rugby, che secondo me è uno sport bellissimo, mi piacerebbe vedere una Nazionale più competitiva. Per il Basket, Nba tutta la vita, ma più ai tempi di Michael Jordan».

A Verona come ti trovi? «Benissimo, mi son trasferita qui più di 8 anni, non mi sembrava nemmeno così tanto. Abito a San Zeno, un contesto centrale, con tutti i comfort. Mi trovo molto bene anche con i veronesi che vengono spessi considerati chiusi, ma sono molto altruisti». Come stai vivendo questo periodo? Cosa porterà al cittadino e allo sport? «Siamo in una situazione che non ha precedenti, da film apocalittico. Io all’inizio prendevo tutto con sorpresa, adesso sono un po’ preoccupato. Io spero che ci si possa risollevare al meglio, ma più passa il tempo e più penso che sarà molto dura. Dalla parte sportiva, sono contento del rinvio delle Olimpiadi, così il nostro mondo può respirare. E poi spero si possa tornare agli allenamenti con le giuste cautele, per recuperare confidenza con l’acqua». Federica come sta vivendo? «Era preoccupata perché inizialmente si pensava di rimandare le Olimpiadi al 2022 e in quel caso credo non avesse proseguito la rincorsa alla quinta Olimpiade. Ora è più tranquilla e aspetta con impazienza l’annuncio di rientrare, allenandosi a casa come gli altri atleti». Il tuo rapporto con Federica fuori dalla vasca? «C’è una fortissima amicizia perché in questi otto anni abbiamo condiviso tanti momenti belli e meno belli. Oltre a questo c’è solo tanta stima». Ultima domanda cosa ti piace di più di Verona? «Rimango sempre affascinato da Piazza Erbe. Però amo anche le colline veronesi, mi piace questa unione tra architettura e natura».

❛❛ Federica è un’atleta

incredibile, rispetto a quello che ha vinto è famosa per la sua longevità: è unica

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I NTERVISTA go Francesco Bor

I professionisti del tennis di Matteo Zanon - Foto: Francesco Borgo

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rancesco Borgo, dopo una carriera di ottimo livello da tennista, ha deciso di smettere con le competizioni per dedicarsi al ruolo di coach, arrivando, due anni fa, a creare il team Ptn – Pro Tennis Network, un gruppo di professionisti con il compito di seguire a 360° gli allievi. L’entusiasmo e la professionalità porteranno il Ptn a togliersi piacevoli soddisfazioni. Borgo, in esclusiva per Sportdipiù Magazine racconta questa sua splendida creatura. Quando e come è nato il vostro team? «Il nostro team è nato a Settembre 2018 da un’idea che avevo già da anni, ossia quella che di creare uno staff in grado di formare e seguire giocatori professionisti attraverso un percorso di crescita a 360° creato su misura del giocatore. Avevo iniziato come allenatore nel 2014 allenando 2 ragazzi appena usciti

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dall’attività junior, poi sono stato notato dalla federazione che mi ha offerto un incarico al centro tecnico periferico di Vicenza per allenare atleti under 18 ed ho accettato, per cui ho messo da parte questo progetto. Quanto ho saputo di diventare padre ho però deciso di riprendere a fare l’allenatore in privato, per gestirmi in maniera autonoma, per cui ho ripreso quello che avevo iniziato cercando di creare il miglior team possibile». Qual è la vostra “mission”? «La nostra mission è in primis quella di insegnare i valori formativi fondamentali per diventare uno sportivo professionista, un atleta e un giocatore di alto livello. Trasmettiamo le competenze per poter arrivare all’alto livello grazie ad una precisa conoscenza del modello di prestazione. Parallelamente vogliamo creare un network di allenatori che

collaborino per dare ai propri atleti il miglior servizio possibile e con un obiettivo comune». Ci presenti il tuo staff? «Il nostro staff è formato da me, head coach che sono responsabile di tutto lo staff oltre che di definire gli obiettivi per ogni giocatore. Tommaso Lago come assistant coach. Marco Speronello e Alessio Paro come sparring partner, Mirko Gelmetti nel ruolo di preparatore atletico, Marco Montresor preparatore fisico, Eleonora Gianfilippi fisioterapista e osteopata, Weronika Veronesi nel ruolo di responsabile sitoweb e organizzazione logistica accomodation e viaggi e Peter Borgo nel ruolo di consultant coach». In soldoni, in cosa consiste il vostro lavoro? «Il nostro lavoro consiste nel formare e seguire i ragazzi. Dedichiamo


tantissimo tempo a questo sia in campo che fuori occupandoci moltissimo della formazione emotiva, caratteriale e mentale dei ragazzi. Cerchiamo di curare tutto ciò che circonda i ragazzi anche con riunioni formative per il ruolo della famiglia in questo percorso. Ci teniamo molto anche alla crescita sul piano culturale in quanto prendiamo in considerazione anche la formazione nei college americani qualora i ragazzi al termine dell’attività junior non siano pronti ad affrontare l’attività “pro”». Ci presenti gli allievi che hai sotto la tua guida? Per quanto riguarda i risultati come si è concluso il 2019? «Al momento seguiamo 13 giocatori tra i 12 e i 23 anni, oltre a due new entry come Ksenia Laskutova numero 600 della classifica Wta e Luca Giacomini che oltre ad allenarsi da noi lo seguiamo anche durante i tornei. Nel complesso sono ragazzi che affrontano attività Tennis Europe, ITF under 18 e World Tennis Tour. L’anno scorso abbiamo ottenuto vittorie in tornei ITF sia maschili che femminili, oltre che titoli regionali giovanili. Inoltre con il servizio di coaching abbiamo portato alla vittoria anche ragazzi di altri circoli come nel caso della vittoria all’importante ITF under 18 di Firenze». Sei stato un giocatore di alto livello (2.1) e ora fai il coach. Quali sono le caratteristiche che deve avere un

tennista per emergere e per rimanere ad alti livelli? «Sicuramente deve avere un talento, cioè almeno una capacità che spicca su cui costruire il giocatore. Può essere la coordinazione, come un colpo specifico, una capacità fisica, mentale o caratteriale. Dopo di che deve imparare a pensare in maniera diversa da tutti, e qui è nostro compito insegnare come deve ragionare un tennista professionista. Non da meno è anche imparare gradualmente a vivere la vita del tennista in quanto questa è una delle cose più complicate di questo sport». Viaggi molto portando i tuoi atleti a svolgere tornei. Che idea ti sei fatto del livello tennistico europeo e mondiale? «È assolutamente fondamentale che i ragazzi vadano a giocare tornei “veri”, ossia attività internazionale possibilmente all’estero. Li dobbiamo preparare a diventare giocatori e perciò è impensabile che un ragazzo a 18 anni cominci da zero e sia in grado di essere fisicamente e mentalmente competitivo per 30 settimane all’anno in contesto internazionale. Il livello è sempre più alto, soprattutto in paesi dove qualche anno fa non lo era, ma che grazie ai circuiti che hanno creato hanno alzato tantissimo le competenze dei propri maestri e dei giocatori (vedi Turchia, Tunisia, Grecia, ecc.). L’attività junior Tennis Europe, ma soprattutto ITF è a nostro avviso fondamentale per creare la

giusta mentalità che non puoi costruirti nell’attività under o open. Non è tanto una differenza di livello, che in Italia è molto buono, ma di contesto e mentalità. Non è importante che i ragazzi vincano, ma che arrivino a 18/19 anni con un bagaglio di partite affrontate nel giusto modo e contesto.» Che progetti avete per il 2020? «Per il 2020 abbiamo in progetto di ampliare lo staff e la struttura oltre a collaborare con più maestri possibili. Abbiamo poi progetti singoli per ogni atleta con obiettivi annuali e pluriennali. La nostra mission è rendere i ragazzi pronti ad affrontare l’attività professionistica e cerchiamo di prepararli nel migliore dei modi».

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SPO RT LI FE

di Stefano Castagna Presidente della Dynos Verona Baseball Softball Foto: Andrea Piccolboni

La Pande

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uesto 2020 ce lo ricorderemo a lungo. Eravamo tutti pronti, dopo la lunga attività invernale, ad iniziare la nuova stagione e a scendere in campo sui nostri diamanti e invece, ecco il Coronavirus e il conseguente stop totale all’attività sportiva. Purtroppo questa situazione va a vanificare l’ottimo lavoro svolto dai tecnici e dai ragazzi in fase di preparazione. Si, vanificata perché il baseball si gioca da aprile a ottobre all’aperto. Quest’anno si era fatto un notevole lavoro sia con le seniores di Baseball e Softball sia con le squadre giovanili. La serie B di Baseball si era allenata in palestra con il preparatore atletico Filippo Mastini e i Tecnici Alexander e Jorge, mentre le ragazze del Softball avevano sostenuto la preparazione atletica e tecnica con la loro Manager Emanuela Giovinazzo.

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Per quanto riguarda i più piccoli, sempre in palestra, l’Under 12 con Oliva Jorge, e l’Under 15 con Infante Cruz Alexander. Già ai primi di febbraio ci siamo visti annullare i primi Tornei Indoor promozionali Under 12 e costretti ad annullare anche il nostro torneo “Giulietta e Romeo” al Palazzetto di Scienze Motorie Universitarie di Borgo Venezia: un vero peccato! Ma la salute viene prima di tutto: per il gioco c’è tempo e ci rifaremo più avanti, ne sono sicuro, tornando a trascorrere stupende giornate di sport e aggregazione presso i nostri campi da gioco. La FIBS ci tiene settimanalmente informati sulle novità Ministeriali e ci aggiorna per prepararci a ripartire al meglio, in sicurezza e senza rischi inutili per nessuno. In questo periodo attraverso, i canali web, abbiamo organizzato lezioni di allenamento fisico e teorico, in modo che i giocatori e le giocatrici si sentano seguiti e si

rendano conto che la società c’è e che non abbandona nessuno. I più grandi, tre volte la settimana, tramite le piattaforme web, sono seguiti dal preparatore atletico e dai loro tecnici, le ragazze assistono alle lezioni impartite da Emanuela Giovinazzo e per i ragazzini e ragazzine con il ritorno da Londra del Tecnico Giacomo Piccolboni. Sono statati organizzati filmati work out di allenamenti e lezioni settimanali curati da Andrea Piccolboni a supporto della preparazione che servirà dopo sui campi. Si è cercato di tenere uniti tutti gli atleti con filmati, giochi, quiz su Baseball e Softball mondiale. Gli atleti più tecnologici hanno creato figurine da collezione dei giocatori Dynos. Insomma, siamo sul pezzo! Confido che al più presto ci si possa ritrovare e tornare a giocare sui nostri amati diamanti! Un abbraccio a tutti.


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I NTERVISTA Sofia Trombin

Al galoppo con Sofia di Paola Gilberti - Foto: Sofia Trombin

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hi da bambino non ha mai sognato di montare a cavallo e galoppare libero nella natura? Sofia Trombin, ha trasformato questo sogno in realtà. Questa giovanissima veronese, diciottenne da pochissimi giorni, è già una campionessa di equitazione, con un futuro luminoso e tanti traguardi ancora da raggiungere davanti a lei.

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Siamo curiosi di sapere come hai cominciato. Com’è nata la passione per l’equitazione? «Grazie a mia sorella. Quando ero piccola, io e mia madre la accompagnavamo al maneggio per le lezioni di equitazione. Anche se ero molto piccola, quell’ambiente mi ha subito entusiasmato e ho capito che volevo farne parte. A sei anni sono salita

per la prima volta a cavallo e non ho più smesso». E poi? Come hai continuato? «Sono entrata nello Sporting Club Paradiso di Caselle di Sommacampagna e ho cominciato a prendere lezioni di equitazione. Comincio presto anche a gareggiare: nella prima gare avevo otto anni e ho saltato 40 centimetri».


Una curiosità: anche tua sorella ha continuato? «No, Enrica ha smesso. Gareggiava fino a tre anni fa, ma poi ha deciso di dedicarsi all’università. Anzi, ne approfitto per dire che si è appena laureata in infermieristica». Congratulazioni a Enrica allora! Tornando a te, come si svolge una giornata di allenamento? Ti alleni ogni giorno? «Sì, tutti i giorni qui nel mio maneggio e, prima dell’emergenza Coronavirus, vedevo il mio istruttore due volte a settimana. In più andavo spesso anche in piscina e a correre qui nel verde». Sappiamo che avete anche una scuderia di famiglia a Rosegaferro di Villafranca… «Esatto. Mio padre comprò anche un cavallo a mia sorella e al mio decimo compleanno mi regalò un pony. Da lì ho cominciato le gare più importanti. Poi sono diventata troppo grande per montare un pony, dovevo fare un salto di qualità». E quindi? «Ho iniziato a montare il cavallo di mia sorella, dato che lei era abbastanza impegnata con la scuola. Purtroppo, dopo due anni il cavallo si è infortunato e sono rimasta ferma per un paio di mesi. Ho proseguito le gare con il cavallo di un amico di famiglia e poi con un mio

cavallo, regalato con sacrifici da mamma e papà. Ho iniziato a saltare 1.15 e poi 1.20 dopo aver preso la patente di primo grado, che serve per accedere alle categorie più alte». Parliamo di risultati: qualcosa che ti rende orgogliosa? «Sono orgogliosa di tutto il mio percorso. Gareggio a livello nazionale e ho vinto varie competizioni lo scorso anno. Inoltre, mi sono qualificata prima nella classifica nazionale di categoria. Per tutto questo devo anche ringraziare il mio coach Mark Antrobus, istruttore di Fise (Federazione italiana sport equestri) di terzo livello».

Hai altre passioni? Oppure, in questo periodo, hai avuto modo di scoprire nuovi hobbies casalinghi? «In realtà ne approfitto per pulire e sistemare la scuderia, fare piccoli lavoretti di manutenzione. In più, mi alleno in casa, con qualche esercizio di tonificazione». Ultimissima domanda: il tuo sogno nel cassetto? «Il mio obiettivo è quello salire di categoria per partecipare alle manifestazioni agonistiche più importanti, come il Gran Premio. Nel mio futuro, mi piacerebbe diventare un’atleta professionista o comunque continuare a lavorare in questo mondo».

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di Francesca Visentini

STARE BEN E

TAPING: che cos'è, perchè si usa e dove applicarlo

I

l Kinesio taping nasce nel 1973 grazie all’intuizione del dottor Kenzo Kase che, basandosi sullo studio delle scienze kinesiologiche, elaborò un metodo naturale di autoguarigione del corpo soggetto a traumi con l’ausilio di una tecnica non invasiva e non farmacologica, sostenendo che si potesse aiutare la funzione muscolare attraverso l’uso di un nastro elastico, materiale molto simile per elasticità alla nostra pelle e ai nostri muscoli. Il Taping elastico nasce e si sviluppa soprattutto in campo atletico, la vera diffusione di questa tecnica fu in occasione delle olimpiadi di Seul tenutesi nel 1988, quando atleti giapponesi si mostrarono al pubblico ricoperti dai bendaggi. Soltanto alla fine degli anni ’90 però si è affermata a livello mondiale Il Taping elastico è un nastro elastico (TAPE), che, applicato nella maniera corretta, si è rivelato in grado di migliorare l’assetto posturale, favorendo sensibilmente una migliore condizione di benessere fisico. Il relativo trattamento consente di stimolare le naturali capacità di guarigione insite nel nostro organismo e, come anticipato, migliorare la performance sportiva negli atleti. Generalmente si parla di Taping in senso generico ma esistono tante differenti tipologie di Taping elastico che variano in base alle modalità di applicazione ed in funzione della patologia e/o del dolore sui quali si intende intervenire. Il taping elastico può essere: • DRENANTE che è in grado di favorire il drenaggio dei liquidi accumulati in un’area del corpo determinata. La superficie corporea coperta dal taping

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forma convoluzioni nella pelle che aumentano lo spazio interstiziale. La riduzione di pressione permette al sistema linfatico e sanguigno di drenare liberamente i fluidi creando così un sistema di azioni che permettono al corpo di “auto guarirsi” biomeccanicamente. • DECONTRATTURANTE o sia a livello cutaneo che sottocutaneo, aumenta l’elasticità della cute, ripristinando in tal

modo la normale estensione del muscolo; • STABILIZZANTE: riduce l’eventuale presenza di uno stimolo di accorciamento sia a livello cutaneo che sottocutaneo, nello specifico: a) sostiene il muscolo per migliorare la contrazione nei muscoli indeboliti, riduce l’affaticamento muscolare, riduce l’eccessiva estensione e contrazione del muscolo, riduce i crampi e la possibile lesione dei muscoli;


b) corregge i problemi di articolazioni e tendini per migliorare gli allineamenti imprecisi causati da spasmi e muscoli accorciati; c) sostiene muscolo, legamento, articolazione o osso post trauma, durante l’attività sportiva. Questa tecnica mira a ottenere un effetto globale di normalità a livello muscolo-tendineo e articolare: una attività fisica sostenuta è alleviata dal dolore. Dopo la fase agonistica il bendaggio viene rimosso per evitare delle controindicazioni. • PER CORREZIONI POSTURALI il quale, come chiarito, è in grado di attutire i problemi legati alla cattiva postura, favorendo al contempo la trazione della muscolatura per la rieducazione posturale di tutti i muscoli che rivestono la zona della schiena e della cervicale. Il principio sul quale si basa il funzionamento del Taping è la stimolazione dei recettori cutanei e muscolari: è lo stesso principio su cui si basa il massaggio con l’approccio terapeutico manuale ma, al contrario del massaggio, lo stimolo dura per tutto il tempo che la benda resta applicata sulla pelle. Mediamente un’applicazione del nastro può durare dai 3 fino a 5 giorni, fatta eccezione per i bendaggi appositi e specifici applicati a scopo agonistico, che vengono invece rimossi immediatamente dopo la gara. L’applicazione del bendaggio è determinante per la corretta stimolazione meccanica/propriocettiva: mediante la tensione che viene data al taping al momento dell’applicazione non è lasciata al caso né, tantomeno, alla discrezione del chi esegue il trattamento. Sarà l’operatore a decidere i base alla funzione specifica dell’applicazione e all’obiettivo del trattamento, quanta tensione dare al taping e come posizionarlo sul corpo di volta in volta. Quali sono le principali patologie per le quali viene utilizzata questa tecnica? • Articolazioni: il Taping rappresenta un metodo completamente indolore ed estremamente efficace per le patologie legate al ginocchio, spesso colpito da infortuni, tendiniti, etc. Anche la caviglia rappresenta uno dei punti maggiormente trattati con il Taping, gonfiore ed edemi sono solo alcune delle patologie più diffuse nella popolazione, specie tra gli sportivi (distorsioni della

caviglia, debolezza in questa parte e tendine d’Achille). Trattamento delle sintomatologie dolorose legate al piede: i casi d’utilizzo vanno dai dolori alla parte plantare, a quelli localizzati sopra la pianta del piede e intorno al tallone. • Schiena: strappi, posizione scorretta, contrazioni sono ormai all’ordine del giorno. Grazie al Taping è possibile contenere e, se eseguito con regolarità, anche risolvere il problema una volta per tutte. Il tape è poi anche in grado di esercitare sulla muscolatura vertebrale anche una piccola trazione che consente di migliorare la postura, favorendo un “tiraggio” lento, delicato e graduale della muscolatura della schiena. • Il dolore della zona cervico-dorsale è uno dei più diffusi oggi nella popolazione non solo italiana, ma anche, più in generale, mondiale. La cervicalgia consiste in una serie di alterazioni, più o meno gravi, delle strutture nella regione delle articolazioni posteriori del collo e dei dischi intervertebrali. Il mal di testa da cervicale, temuto da noi tutti, è una patologia sempre più comune. Per fortuna, il Taping cervicale può attutire questi sintomi riducendo l’infiammazione in questa zona a beneficio di tutte le persone affette da questo disturbo, spesso limitate nelle proprie attività quotidiane e lavorative.

Questo trattamento si rivela, infatti, estremamente utile per ridurre il dolore e correggere la biomeccanica articolare così da consentire ad ogni atleta la migliore prestazione possibile. Il Taping è utilizzato, sia pur in minore misura, anche nella fase post-gara, al fine di favorire il drenaggio e diminuire edema e dolore.

USO NELLO SPORT L’utilizzo del Taping tra gli sportivi sta spopolando un po’ tra tutti gli atleti del mondo. Qualsiasi sia il livello della competizione e qualsiasi sia la disciplina sportiva, l’applicazione del tape si sta diffondendo negli ultimi anni, soprattutto nella fase pre-gara.

Il consiglio, che vale per tutti, è quello di fare prima una prova applicando un quadratino di tape sulla pelle così da poter verificare l’eventuale insorgere di eventuali arrossamenti prima su una piccola parte del corpo.

PERCHÉ FUNZIONA? Come chiarito, il Taping si compone di fasce elastiche estremamente confortevoli che vengono applicate sulla pelle formando delle pieghe cutanee. Queste ultime, aumentano lo spazio interstiziale e, così facendo, permettendo al sistema sanguigno e linfatico l’ottimale drenaggio dei tessuti. Quello che rende il Taping unico nel suo genere è la sua capacità di stimolare continuamente la circolazione linfatica, già subito dopo aver applicato il nastro, non appena il soggetto riprende la sua normale attività motoria. Esistono delle controindicazioni? Come tutte i trattamenti finalizzati ad intervenire sul corpo per garantire benefici, anche il Taping presenta alcune precauzioni. In particolare se ne sconsiglia l’uso in caso di: • ferite aperte, eczemi, infezioni di vario genere; • allergie alla colla del cerotto, anche ipotizzate; • capillari fragili, vene varicose, trombosi acuta, flebite; • patologie vascolari.

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SPO RT LI FE

Resia e il 'mistero' del campanile sommerso di Alberto Cristani - Foto: Lago di Resia

I

n Alta Val Venosta, fino al confine italo-austriaco, si estende il territorio comunale di Curon. Poco a sud del Passo Resia si trova Resia, paese a 1.500 m di altitudine, che conta circa 900 abitanti e che si sviluppa sulla sponda settentrionale del lago omonimo. Resia offre ai suoi ospiti un paesaggio unico come le montagne con le cime Piz Clopai (2.920 m) nelle Alpi venostane e il Piz Lad (2.809 m) al confine con la Svizzera. In queste zone, in estate, si possono intraprendere escursioni di vari livelli di difficoltà e lunghezza mentre d’inverno l’offerta sciistica è di assoluto livello grazie alla ski area Belprato (Schöneben) tra il Lago di Resia e la Val di Roia davanti alle porte, e pochi km più a nord, già in Austria, le piste di Nauders. Il simbolo della Val Venosta, e in particolare di Resia, è però Il Campanile sommerso che spunta dal chiaro delle acque del lago. La storia che sta dietro a quest’immagine da cartolina quasi fiabesca è, però, molto meno idilliaca. La chiesetta romanica del XXIV secolo è muta testimone dell’irresponsabile costruzione della diga avvenuta subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Tutto però si sviluppò in modo completamente diverso. Un bacino artificiale per la produzione di energia elettrica era il progetto successivo ancora sotto l’impero austro - ungarico. Il governo italiano (dopo la prima guerra mondiale, nel 1919, il Tirolo è stato diviso col patto pacifico di St. Germain, e l’Alto Adige annesso dall’Italia) nel 1920 ha ripreso il progetto e ha concesso una elevazione del livello d’acqua fino a 5 metri. La dimensione di questo progetto non era tanto preoccupante perché non aveva un immediato

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pericolo per i paesi Curon e Resia. Nel 1939 lo Stato concesse al consorzio Montecatini la costruzione di una diga in basso al Mittersee, la quale doveva permettere un ristagno d’acqua fino a 22 metri. La popolazione di Curon e Resia, con questo progetto, veniva

totalmente trascurata. Con l’inizio della seconda guerra mondiale il progetto fu temporaneamente abbandonato e gli abitanti dell’alta Val Venosta credettero che il progetto del bacino artificiale fosse sepolto per sempre. Nel 1947 però, sbalordendo le popolazioni dei due paesi,


L'unico pezzo rimasto in vita, per ricordare il pittoresco paesino di Curon è il campanile, sotto la protezione delle belle arti e oggi il simbolo del comune di Curon.

Netflix all’ombra del campanile Curon è la nuova produzione Netflix Original per l’Italia che sarà disponibile entro il 2020 su Netflix in tutti i territori dove il servizio è disponibile. Anche se non sono stati resi noti pochi dettagli, si tratta di una serie drammatica con incursioni nel sovrannaturale e nel thriller. Misteri, segreti e leggende sono gli ingredienti principali di questa nuova serie tv. Il mood di mistero in bilico tra leggenda e realtà viene amplificato dalla frase che accompagna il primo teaser di Curon, che recita: “Ogni luogo ha un segreto sotto la superficie“.

la Montecatini annunció l’immediato proseguimento della costruzione del lago artificiale. Nell’estate del 1950 l’opera fu completata; le chiuse furono serrate e il livello dell’acqua si alzò. Ben 677 ettari di terreno furono sommersi e quasi 150 famiglie persero i loro averi (la metà di

queste fu costretta all’emigrazione). I risarcimenti per questo esproprio furono assai modesti: gli abitanti di Curon furono sistemati in baracche di fortuna costruite in fretta e furia all’inizio di Vallelunga. Oggi il campanile nel lago a Curon è stato messo sotto protezione

ed è diventato un’incredibile attrattiva per turisti e il simbolo del comune. Una bellezza unica figlia, però, di una pagina di storia non particolarmente felice e che in molti avrebbero preferito non venisse scritta.

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I NTERVISTA chi Fabio Frances

Solidarietà Veneta di Alberto Cristani - Foto: Grafica Veneta

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rafica Veneta Spa è la più importante azienda produttrice di libri in Italia e la prima d’Europa per redditività. Serve oltre 200 case editrici e attraverso il suo know-how avanzato realizza in totale autonomia energetica l’intero ciclo produttivo per riviste, testi, cataloghi pari a 150 milioni di volumi l’anno. Dalla stampa sino alla legatoria e al confezionamento finale, l’azienda che ha sede in provincia di Padova, garantisce un servizio specializzato giorno e notte riuscendo a consegnare in 24 ore migliaia di copie ovunque nel mondo. Alla guida di Grafica Veneta Spa c’è il Presidente Fabio Franceschi che in soli dieci anni insieme a 250 collaboratori è riuscito ad ampliare l’attività con audacia e fantasia diventando monopolista degli elenchi telefonici in tutta l’Africa, il riferimento per la tiratura del Corano e altre opere religiose di ogni popolo del pianeta. Oltre ad avere il controllo di tutti i tomi della scolastica in Libia, si è occupato dell’enciclopedia russa e degli allegati ai giornali italiani, dei Paesi dell’Est e dell’America del Sud. Ha inventato il libro ecologico e quello profumato e una linea di bloc-notes abbinata ad altri accessori da cartoleria per differenziare la produzione al fine di sostenere, con la lettura, anche la passione per la scrittura. Lo stabilimento di Grafica Veneta Spa consuma quotidianamente 500 tonnellate di carta certificata per la tutela ambientale e forestale. Dalle rotative di nuova generazione e dall’ area digitale escono in media 40 titoli al giorno. Dalla sede industriale partono quasi quotidianamente 50 autotreni carichi di romanzi, saggi, gialli, dizionari, narrativa, etc. diretti nel Regno Unito, Francia, Germania e Scandinavia. Grazie

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Il Presidente Fabio Franceschi

a 39mila pannelli fotovoltaici installati sul tetto dell’intera area di 100mila metri quadrati, l’azienda mantiene ancora il primato del più grande sito italiano carbon free. Quello di Grafica Veneta Spa è un concreto impegno a sostegno della crescita culturale e sociale dell’umanità attraverso la diffusione dell’informazione e il supporto alle iniziative di contenuto prettamente educativo. Un impegno che si è concretizzato anche in questo difficile periodo con una donazione gratuita alla popolazione del Veneto di milioni di mascherine di protezione, utili per contenimento della diffusione del Covid-19. Il Presidente Fabio Franceschi, in questa intervista a SportdiPiù magazine, si è raccontato e ci ha raccontato le sue passioni, tra le quali trova spazio anche lo sport. Dott. Franceschi, innanzitutto complimenti per quanto state facendo per

i veneti in questo momento di emergenza. Com’è è nata l’opportunità di produrre mascherine e come si è sviluppata? «Tutti gli imprenditori portano rispetto per il territorio e se il tessuto sociale manifesta un’esigenza a cui si può rispondere è responsabilità, nei limiti di ognuno, dare il proprio contributo. Così è cominciata la riflessione su quanto Grafica Veneta Spa poteva fare per mettere in campo il suo potenziale produttivo a favore delle introvabili “mascherine”. Dopo un confronto con il Presidente della Regione da un ragionamento iniziale alle prove concrete fino alla distribuzione degli schermi protettivi è passato poco tempo». Una decisione dettata dal cuore... «Per un passato di sofferenza personale principalmente, ma soprattutto per essere d’aiuto in qualche modo alla gente e ad una terra che alla mia attività ha dato tanto. Chi ha avuto successo nella


vita deve restituire un po’ di fortuna e dimostrare riconoscenza».

Da destra: Franceschini, il Presidente Veneto Zaia, gli assessori Lanzarin e Bottaccin

Come e quando nasce Grafica Veneta? «L’azienda nasce sulla base di un laboratorio di famiglia che stampava bollettini per l’amministrazione pubblica. Dopo alcune vicissitudini e trasferimenti, nel comune di Trebaseleghe fonda le radici l’attuale stabilimento che dall’anno 2000 si occupa di libri. Una sfida imprenditoriale che ha prodotto best seller nel mondo, allegati ai quotidiani dall’Est Europa fino all’America del Sud, enciclopedie in Russia, testi scolastici in Libia ed elenchi telefonici per tutta l’Africa».

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Produzione di mascherine

Il vostro core business è la stampa di libri: quanti ne avete stampati a oggi? «Nonostante la contrazione del mercato la produzione aziendale si attesta sempre intorno alle 150milioni di copie l’anno». A quale pubblicazione è particolarmente legato e quale, invece, avrebbe voluto stampare o vorrebbe stampare in futuro? «Al primo testo stampato e a quella casa editrice che ci diede fiducia: Est che ordinò mille copie de La donna Lakota. Dal Corano ai testi sacri per l’India fino all’edizione della Bibbia per una piccola comunità religiosa dell’Irlanda sembra che non manchi nulla. In dieci anni abbiamo persino realizzato il libro profumato e quello ecosostenibile». Domanda da un milione di euro: che futuro avrà la carta stampata? «Con la crisi degli editori dovuta all’emergenza sanitaria, se non ci saranno aiuti pubblici, i lettori non avranno pagine da sfogliare ma neanche titoli nuovi da digitare su e-book. L’Associazione Italiana degli Editori parla di 18.600 titoli pubblicati in meno in un anno: significa che 39,3 milioni di copie che non saranno stampate e 2.500 titoli che non verranno tradotti».

SportdiPiù magazine racconta da oltre un decennio gli sportivi della Regione Veneto: qual è il suo rapporto con lo sport? Lo pratica, lo segue? «Ho sempre definito i miei collaboratori di “centometristi delle rotative”. Per attraversare 150mila metri quadri di fabbrica uso la bici. In Grafica Veneta si corre e si pedala tutti i giorni». Nel 2026 la nostra Regione sarà protagonista delle Olimpiadi invernali: che ripercussioni potranno esserci sull’economia e sul turismo del nostro territorio? «Si tratta di un’opportunità per tutti. Una manifestazione che avrà dei ritorni importanti dal punto di vista della bellezza del paesaggio, della capacità dei veneti di ospitare e accogliere, di organizzare servizi, di offrire il meglio della bontà enogastronomica». C’è uno sportivo o un evento sportivo al quale è particolarmente legato? «Le biografie dei personaggi sportivi sono sempre ben accolte dal pubblico. Ecco la mia cultura sportiva parte da li, dalle storie di uomini che hanno fatto grande il nostro Paese. E se proprio devo fare dei noni dico Alex Zanardi, Bebe

Chi ha avuto successo nella vita deve restituire un po’ di fortuna e dimostrare riconoscenza Vio e Federica Pellegrini». Torniamo ad oggi: Europei di calcio rinviati, Olimpiadi di Tokyo rinviate, campionati sospesi e, forse, annullati. Giusto così? «In un clima di incertezza sanitaria meglio tutelare la salute principalmente. Certe decisioni che ora sembrano drastiche e incomprensibili potranno essere comprese meglio con il senno di poi». Dott. Franceschi, che scenario prevede per il nostro Paese nel post Coronavirus? «Credo che niente sarà più come prima. In prospettiva mi auguro che con il buon senso etico e civico il sistema riprenda il controllo. Vale per l’Italia e per il Veneto». Un messaggio ai nostri lettori e agli sportivi del veneto? «Anche dopo una partita, o una corsa o una gara di pesca meglio addormentarsi leggendo un libro. Come scriveva Umberto Eco: “Il libro da leggere appartiene a quei miracoli di una tecnologia eterna di cui fan parte la ruota, il coltello, il cucchiaio, il martello, la pentola, la bicicletta”».

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FO CUS GENITORINRETE

di Paola Tursi

Come organizzare una giornata di lavoro con i figli a casa

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ome organizzare il lavoro da casa in questo periodo in cui la nostra vita scorre online? Dal lavoro alla socialità, dalle informazioni allo svago, siamo collegati quasi 24 ore al giorno. Le cose si complicano se i genitori devono lavorare e seguire i figli, senza l’aiuto di nessuno. Vediamo allora come organizzare una giornata di lavoro produttiva. Preparare lo spazio domestico per lavorare concentrati Bisogna fare pace col fatto che essere efficienti e produttivi come in ufficio è molto difficile. Si può ripensare la casa e spostare temporaneamente i mobili in modo da creare delle postazioni di lavoro in cui riuscire a concentrarsi. L’ideale sarebbe creare degli angoli di lavoro/ studio per tutti i familiari, in modo che tutti abbiano la propria privacy. Se questo non fosse possibile, si può creare almeno una stanza per le conference call così che gli altri non siano disturbati dalla telefonata. Tecniche di gestione del tempo condivise C’è una tecnica di gestione del tempo chiamata “Tecnica del Pomodoro”: dice che bisogna impostare un timer per 25 minuti, disattivare tutte le fonti di distrazione (ad esempio spegnere i telefoni e le notifiche) e durante questo tempo dedicarsi a una sola attività alla volta. Terminati i 25 minuti, se ne fanno 5 di pausa (vera pausa: alzarsi e sgranchirsi le gambe, non smanettare sullo smartphone!) e poi riprendere con altri 25 minuti di timer. Stabilire con i familiari di entrare “nel Pomodoro” vuol dire che tutti si applicano per rimanere focalizzati sull’attività che stanno facendo senza disturbare gli altri. Al termine del Pomodoro si fanno

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insieme i 5 minuti di pausa e i 25 minuti successivi possono essere dedicati alle domande e ai chiarimenti. Lavorare a turno Chi ha figli piccoli sa che rimanere al computer senza costanti interruzioni è impossibile. Se entrambi i genitori cercano di lavorare contemporaneamente, saranno distratti entrambi dalle richieste della prole. La tentazione è quella di metterli davanti a uno schermo per avere qualche ora di pace. La soluzione più facile è molto rischiosa: in pochi giorni si abituerebbero alla nuova consuetudine e sarà sempre più difficile staccarli dai dispositivi. Meglio dividersi i turni per organizzare la giornata di lavoro: un genitore lavora e l’altro si occupa dei piccoli. Coinvolgere i figli nell’attività domestica è un buon modo di tenerli occupati e renderli autonomi. Cucinare, impastare, mettere a posto, curare le piante possono essere degli ottimi passatempi, soprattutto se sono resi divertenti con dei giochi. Ritagliarsi momenti smartphone free

Anche la nostra socialità ormai passa dal web: aperitivi online, cene da remoto, pranzi da remoto con parenti più o meno tecnologici. Diventano sempre più necessari dei momenti smartphone-free che ci diano la libertà di conversare anche con i familiari che abbiamo sotto lo stesso tetto. Questa situazione, per quanto faticosa e surreale, ci regala la possibilità di passare del tempo con la famiglia. Tempo, che fino a qualche settimana fa sembrava non bastare mai. Quindi scegliete tutti insieme dei momenti di condivisione in cui lo smartphone o gli altri dispositivi non sono ammessi. Ad esempio durante i pasti. Distinguere i momenti di socialità da quelli del lavoro senza sovrapporli è cruciale. Se vuoi approfondire i temi legati all’organizzazione personale puoi seguire Paola Tursi, consulente di organizzazione personale, sul blog Organizzatessen.it.


FO CUS GENITORINRETE

di Irene Zardini

Tecnologia ai tempi del Coronavirus: vicini da lontano

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are di necessità, virtù. In questi tempi strani, in cui l’emergenza Coronavirus ci ha imposto di cambiare le nostre abitudini di vita, è un detto popolare che torna come un incoraggiamento. Nessuno è preparato ad affrontare l’ignoto, ma quando serve cambiare per sopravvivere, è necessario farlo, e in fretta. Ora, siamo rinchiusi tutti in casa. Sentiamo scivolare via la nostra libertà personale e non possiamo vivere come sempre. È un cambiamento radicale e, in quanto tale, dovrebbe indurci a riflettere, per apprezzare quello che davamo per

scontato: uscire, parlare con qualcuno, fare shopping in un centro commerciale, bere un caffè con un amico, fare uno sport di squadra. Pochi giorni e le nostre granitiche certezze si sono sgretolate. L’isolamento forzato induce a trovare delle alternative, per risolvere la moltitudine di problemi che sorgono. Dobbiamo rimette in moto il nostro spirito di sopravvivenza: ora che la famosa zona di comfort ha assunto i contorni di una gabbia. In tutto questo, la tecnologia, di cui tanto si è parlato in questi nostri articoli, nel bene e nel male, torna utile. Oh, sì. Mostra i muscoli, palesa la sua ragione d’essere e si posiziona al centro della nostra vita. La tecnologia ci permette di essere vicini, laddove dobbiamo stare lontani, ci permette di dare una mano a chi ne ha bisogno e di continuare a lavorare a distanza. Boccate d’ossigeno. La scuola stessa sta implementando modalità di insegnamento a distanza. Possiamo vedere come le risorse “buone” della tecnologia e del web possano essere utili. Ma nella frenesia dell’emergenza Coronavirus, è emerso con prepotenza anche il lato oscuro del web: le fakenews sbocciano e girano in rete con una facilità impressionante.

Condivisioni schizofreniche da parte di chi, colto dalla paura del contagio, si è lasciato prendere dal panico e ha diffuso notizie fasulle, contribuendo al loro proliferare. Un girone infernale alimentato dall’incertezza, dalla paura e dall’ignoranza, che non ha certo aiutato a fare chiarezza. Anzi, ha alimentato timori e ansie, senza dimenticare che, in realtà, ha esposto molte persone a essere perseguibili penalmente, commettendo un reato senza saperlo. Noi di Genitorinrete viviamo questa situazione proprio come ognuno di voi. Abbiamo, famigliari, amici e bambini da proteggere. Sappiamo quanto sia difficile distinguere la realtà dalla menzogna in questo turbinio di informazioni che spuntano come funghi velenosi, mentre siamo affamati di notizie. Da sempre raccomandiamo un uso consapevole della rete. Prima di allarmarvi e condividere le notizie, accertatevi che le fonti siano attendibili e che le informazioni siano veritiere. Non fatevi prendere dall’ansia e non contribuite a crearla. Così come il Coronavirus, anche le notizie false muoiono se non c’è condivisione. Nel mezzo di questa emergenza, che ci unisce tutti, pur allontanandoci fisicamente, l’iniziativa, le scelte e le capacità del singolo diventano importanti per il gruppo, proprio come nello sport. Le nostre decisioni hanno conseguenze che possono fare del bene o del male agli altri. Non perdiamo tutto quello che abbiamo costruito con fatica come esseri umani, cerchiamo di fare scelte ponderate. Usiamo la tecnologia a nostra disposizione per aiutare e aiutarci. Troviamo la forza di essere migliori e dare un esempio importante ai nostri ragazzi. Possiamo, dobbiamo. Facciamolo insieme.

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EVENTO

SDP Live, la social Tv dello sport veneto

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di Alberto Cristani - Foto: dalla redazione

portdiPiù magazine Veneto sbarca sui social con SDP Live, progetto social di dirette giornaliere che coinvolge sportivi, istituzioni e imprenditori del Veneto. Dal 14 aprile il direttore Alberto Cristani, coadiuvato dalla redazione, affronta insieme agli ospiti tematiche legate al mondo dello sport e non solo. Partecipano alle dirette anche i giornalisti Matteo Lerco, Giorgio Vincenzi, Andrea Etrari, Paola Gilberti e Alberto Braioni. SDP Live si avvale della prestigiosa collaborazione di Young Sport & Cultura Community di San Martino Buon Albergo. “Il progetto SDP Live” – spiega Cristani

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– “era in fase di programmazione già da tempo e aspettavamo il momento giusto per inaugurarlo. La quarantena imposta dall’emergenza Covid-19 in un certo senso ci ha aiutato, accorciare i tempi. Così, dopo qualche test e con almeno un paio di mesi di anticipo sulla tabella di marcia, il 10 aprile siamo andati in onda con il primo appuntamento, intervistando il giornalista sportivo Paolo Bargiggia”. “SDP Live” – prosegue il Cristani – “è una vera e propria social Tv con appuntamenti giornalieri di un’ora. I riscontri sono davvero positivi sia da parte di chi assiste alle dirette

sia da parte degli ospiti, tutti di grande preparazione e livello. Ad oggi il nostro palinsesto è ‘tutto esaurito’ fino al 31 maggio. Siamo molto soddisfatti anche se possiamo e vogliamo migliorare ancora, per offrire ai nostri lettori e a tutti gli amanti dello sport, un prodotto di qualità sempre maggiore”. Le dirette SDP Live vengono trasmesse da lunedì a venerdì, a partire dalle ore 17, dalle pagine Facebook: - SportdiPiù magazine Veneto: https://www.facebook.com/ SportdipiuVr - Young Sport & Cultura Community: https://www.facebook.com/ youngcomofficial Prossimamente le dirette verranno trasmesse anche da Youtube e Linkedin. Durante le dirette gli ospiti e i giornalisti rispondono alle domande che vengono rivolte dai follower.


S SPO RT BO O K

500 “figu” per un Bordon

The Mamba mentality Il mio basket

Fragile Marco Van Basten

di Gianni Bellini e Lorenzo Longhi

Kobe Bryant

L

’odore della bustina che si apre, l’emozione della prima figurina attaccata, gli scambi e i giochi con gli amici: come tutti i bambini, Gianni Bellini ha cominciato così ad appassionarsi alle “figu”. Poi, come tutti, è cresciuto. Solo che quella passione, invece che interrompersi, è cresciuta con lui e ora possiede quattromila album di figurine di calcio proveniente da ogni parte del pianeta. Possiede tutti gli album di calcio usciti dal 1970 a oggi, molti anche prima. È un libro ricco di aneddoti e curiosità, come l'album venezuelano per la raccolta del Mondiale 2006 che riporta nella pagina dedicata alla Croazia i calciatori dell’Ungheria. Ma va anche oltre perché le figurine non parlano solo di calcio, ma raccontano un po' della storia di un intero popolo… Un libro che farà tornare la voglia di collezionare figurine.

Dettagli - Genere: calcio - Prezzo: e 13,00 - Editore: Urbone Publishing - Pagine: 106 - Anno pubblicazione: Luglio 2019

A

San Siro, in una triste sera d'estate del 1995, Marco van Basten disse addio al calciatore che era stato, dopo aver lottato invano contro le sue caviglie di cristallo. Per tutti, non solo per lui, fu l'addio alla bellezza, alla perfezione, alla determinazione, alla vittoria come cifra stilistica. Quell'addio arrivò all'improvviso e lasciò tutti con la tristezza nel cuore e migliaia di domande che nessuno ebbe la forza di fargli. "Fragile" è l'autobiografia che risponde a tutte le curiosità degli appassionati di sport, e delle sfumature umane che colorano le imprese sportive. In queste pagine, scritte con il suo piglio da centravanti infallibile, Van Basten ripercorre la sua vita e la sua carriera, prima, dopo e durante il grande buio che si è impossessato del suo corpo salendo implacabile dalle caviglie. L'infanzia a Utrecht con un padre allenatore-tifoso, il passaggio del testimone con Cruijff, il Milan degli Invincibili, il gol più bello del mondo con la Nazionale olandese («con una caviglia sana non avrei mai calciato in quel modo»), l'operazione galeotta, il recupero impossibile, le notti a carponi per conquistare il bagno e la battaglia esistenziale per recuperare una normalità dopo essere stato eccezionale.

Dettagli - Genere: Biografie e Memoir - Prezzo: e 20,00 - Editore: Mondadori - Pagine: 384 - Anno pubblicazione: Marzo 2020

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ent’anni di carriera nella stessa squadra, i Los Angeles Lakers, cinque titoli NBA, due ori olimpici, un’infinità di record personali. Kobe Bryant ha letteralmente rivoluzionato la pallacanestro, prima di ritirarsi nel 2016 scrivendo una toccante lettera d’addio al basket che è diventata un cortometraggio animato premio Oscar nel 2018. In questo libro illustrato Kobe (autosoprannominatosi “Black Mamba” dal nome di uno dei serpenti più letali e rapidi in natura) racconta il suo modo di intendere il basket: le sfide sempre più dure lanciate a sé stesso e ai compagni in ogni allenamento, i riti per trovare la carica o la concentrazione, tutti i retroscena della preparazione ai match e i motivi per cui, semplicemente, per lui perdere non è mai stata un’opzione. E ancora: la volontà di superare il dolore e rinascere ogni volta più forte dopo i tanti infortuni patiti in carriera, i suoi maestri, lo studio maniacale degli avversari – da Michael Jordan a LeBron James – per carpire loro ogni segreto possibile e migliorare, migliorare ancora e ancora fino all’ultimo minuto dell’ultima partita disputata. The Mamba Mentality, impreziosito dalle fotografie di Andrew D. Bernstein, fotografo ufficiale dei Lakers che ha seguito Kobe fin dai suoi primi passi allo Staples Center, è un viaggio per parole e immagini nella mente di un artista tra i più geniali e vincenti della storia dello sport. Dettagli - Genere: altri sport - Prezzo: e 25 - Editore: Rizzoli - Pagine: 208 - Formato: rilegato - Lingua: italiano - Anno pubblicazione: 2018

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S SPO RT SO N G

Ripercorriamo la storia dello sport riascoltando le note di canzoni che, bene o male un po’ a tutti, hanno procurato brividi e, magari, fatto scendere qualche lacrimuccia (di gioia o di dolore…).

Titles dall’album Chariots of Fire (1981) Vangelis

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’album Chariots of Fire fu realizzato del musicista greco Vangelis e fu la colonna sonora del film Momenti di gloria del regista Hugh Hudson e pubblicato dalla Polydor nel 1981. Diciassettesima uscita discografica ufficiale, l'album ha vinto il Premio oscar alla migliore colonna sonora 1982. Il film ha invece vinto l'oscar al miglior film dello stesso anno. L'album restò nella classifica Billboard Top 200 per 4 settimane e il brano Titles, pubblicato come singolo, rimase nella Billboard Hot 100 per 5 mesi,

raggiungendone la prima posizione e mantenendola per una settimana. Lo stesso brano raggiunse la seconda posizione in Canada, la 12^ posizione in Gran Bretagna, dove l'album restò per 107 settimane raggiungendo come miglior posizione la quinta, la sesta in Nuova Zelanda, la nona in Olanda e la ventunesima nella classifica australiana.

L'inno della Champions League Tony Britten (1992)

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’inno della Champions League è un brano scritto in inglese, tedesco e francese nel 1992 dal compositore inglese Tony Britten. È usato come sigla delle trasmissioni televisive dedicate alla competizione nei vari paesi e viene suonato prima, sui campi, prima dell’inizio delle partite. Il brano è un arrangiamento in chiave moderna di un inno di Georg Friedrich Händel, intitolato Zadok the Priest, facente parte della raccolta denominata "Coronation Anthems". Nella versione ufficiale è eseguito dall’Academy of St. Martin in the Fields e dalla Royal Philharmonic

Orchestra di Londra. Spiega Britten: “Uefa e Team Marketing, che hanno ideato l'inno nel 1992, pensavano a qualcosa simile ai Tre Tenori, che allora spopolavano. Presentai una serie di musiche su cui lavorare e a loro piacque molto Zadok the Priest: da Händel ho 'preso' i violini e li ho usati per scrivere il brano, che comunque usa lo stile dell'inno originale. Per le parole ho pensato a una serie di superlativi inglesi, poi trasformati in un testo che il coro poteva cantare in modo credibile, con quel celebre finale che tutti conoscono".

Gaetano e Giacinto dall’album Diamanti e caramelle (2011) Stadio

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aetano e Giacinto è un singolo degli Stadio, pubblicato dalla EMI Italiana nel 2011, che anticipa l'album Diamanti e caramelle. Dedicato ai due campioni del mondo del calcio Gaetano Scirea e Giacinto Facchetti, con i proventi derivati dalle vendite devoluti alle fondazioni intitolate agli stessi giocatori. “Il legame con due personaggi come Scirea e Facchetti” – spiega il leader degli

Stadio – “è bene impresso nella mia memoria. Per l'amore che ho per il calcio, mi è sembrato bello raccontare le loro storie che "nascono dal basso", dalla vita vera di periferia. Le storie di quei calciatori "veri", che riescono a fare di un sogno la loro realtà. Sono campioni che aiutano i bambini a sognare e che oggi vanno riscoperti: Facchetti e Scirea sono punti di riferimento ideali”.

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SPO RT LI FE

Il grande cuore di Federica

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di Bruno Mostaffi

el pomeriggio di martedì 14 aprile dovevano essere due ore, sono state molto di più. In un’asta in streaming mai vista prima, Federica Pellegrini – con il contributo appassionato di Frank Matano – ha raggiunto la cifra di 66.100 euro, interamente destinata all’ospedale civile di Bergamo “ASST Papa Giovanni XXIII”. L’asta di 59 speciali cimeli dell’olimpionica di nuoto è stata caratterizzata da momenti divertenti e rimandi storici alla carriera della Pellegrini e, per restare in ambito sportivo, questo il “podio” dei lotti che sono stati aggiudicati alle cifre più alte: 1) Tuta podio Campionati Mondiali di Gwangju 2019 (battuto alla cifra di 5100 euro); 2) Occhialini dell’oro olimpico a Pechino 2008 (battuto alla cifra di 4550 euro); 3) Bomber corto indossato a Italia’s Got Talent (venduto a 3400 euro). Il ricavato dell’asta – integrato da una libera donazione del presidente del CONI, Giovanni Malagò, e dal compenso dell’ultima partecipazione di Federica al programma televisivo “Che Tempo che Fa” – consentirà l’acquisto di ulteriori ventilatori e dispositivi di protezione, utili al personale sanitario bergamasco, formato da oltre 1300 valorosi infermieri e medici, quotidianamente impegnati ad assistere al meglio le persone colpite da Covid-19. “Aiuteremo Bergamo in una maniera che nemmeno io mi sarei aspettata. Ringrazio tutte le persone che mi hanno aiutato a realizzare quest’asta”, ha dichiarato in chiusura Federica Pellegrini. L’evento è stato realizzato in collaborazione col

brand Rossorame di Bruno Simeone e Daniele Del Genio, i cui abiti indossati da Federica durante “Italia’s Got Talent” sono stati battuti all’asta insieme ai cimeli sportivi e a 9 pannelli fotografici dell’agenzia fotografica Deepbluemedia,

con immagini dell’atleta autografate da Federica stessa. Il tutto è stato realizzato con il supporto tecnico e tecnologico di 6enough, piattaforma di aste live streaming.

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Una galleria di videomessaggi per SportdiPiù magazine

allo scorso 13 marzo SportdiPiù magazine ha lanciato dalla pagina Facebook SportdipiuVr e dal profilo Istagram @sdpveneto l’hastag #SPORTIVISTATEACASA. Si tratta di brevi video messaggi che gli sportivi di eccellenza del Veneto lanciano agli sportivi amatoriali e, in generale, a tutti i cittadini. In questo momento di emergenza Coronavirus la cosa più importante che tutti debbono fare è rimanere a casa, per salvaguardare la

salute propria e quella degli altri. Un altro messaggio importante è che, soprattutto per chi è abituato a praticare attività fisica con costanza, ci si può allenare anche tra le mura di casa. Tra i testimonial della campagna #SPORTIVISTATEACASA ex calciatori come Piero Fanna, Sergio Pellissier, Antonio Di Gennaro, Gigi Sacchetti, Nanu Galderisi, calciatrici come Valentina Boni, Giorgia Motta, la bergamasca Alessia Gritti, gli olimpionici Andrea Lucchetta, Xenia Palazzo, Sara Simeoni, Luciano Zerbini, Manuel De

Vecchi, Rossano Galtarossa. E poi amici di SportdiPiù come l’ex rugbysta Luca Tramontin, l’ex stella di Campioni – Il reality del calcio Francesco Gullo, il giornalista Mediaset Paolo Bargiggia e i giornalisti veronesi Gigi Vesentini, Gianluca Vighini, Giovanni Vitacchio, Elisabetta Gallina, Alice Cristiano, Mario Poli e Alessandro Betteghella. Tanti visi, tante voci per un unico grande messaggio: SPORTIVI, STATE A CASA!

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