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Intervista
INTERVISTA Fabio Caressa Il Boss del Club
Foto: Sky
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MATTEO LERCO
Una voce, una passione, un viaggio. La carriera professionale di Fabio Caressa, una delle stelle più splendenti nel firmamento giornalistico nostrano, si può racchiudere in tre sostantivi. Attraverso la parola ha dato forma al suo amore per lo sport, facendo da tramite tra gli Italiani e un mondo, il Calcio, osannato, ma spesso percepito come distaccato e inaccessibile ai più. Il Club domenicale è diventato un collante tra Serie A e spettatori, una grande tavola rotonda in cui tutti i ‘commensali’ sono parimenti protagonisti e la qualità del dibattito che ne emerge è figlia principalmente di questa trasversalità di pensiero. Un format di successo, sorretto dalla mentalità vincente degli attori che più o meno continuativamente ne prendono parte.
Fabio, inizio quest’intervista dalla fine: nel 2015 prende vita Il Club, uno spogliatoio composto da amici, prima che
«Ti rispondo alla domanda partendo da un libro che ho scritto intitolato: ‘Sono tutte finali’. Credo profondamente nel fatto che il calcio sia una performante metafora di vita, ed è stato proprio questa la convinzione che mi ha portato a scrivere quest’opera: dalla mentalità vincente e dalle scelte di tanti personaggi del pallone si possono trarre degli insegnamenti assolutamente spendibili nella quotidianità di ognuno di noi. Fortunatamente ho avuto il privilegio di conoscere persone come Capello, Costacurta, Marchegiani, Beppe (Bergomi, n.d.r.) e tanti altri, che mi hanno fatto capire come il successo sia prima di tutto uno state of mind». «Tendenzialmente non credo nel rapporto di amicizia tra giocatori e giornalisti. Reputo corretto che ci sia una divisione tra i due ruoli: la mia posizione richiede una professionalità che esige a sua volta un certo tipo di distacco. Terminata la carriera sportiva si apre però una nuova fase in cui è possibile tessere dei legami d’amicizia, oltre che di lavoro: il primo riferimento che mi viene in mente è il ‘Cuchu’ Cambiasso, persona squisita, che stimavo da centrocampista e ancora di più oggi nei panni di collega».
Respiriamo un calcio europeo in costante evoluzione. Il ritmo delle partite diventa sempre più incalzante e in generale si propende ad attaccare piuttosto che a conservare il risultato. Stai notando questo vento di cambiamento?
«È una considerazione corretta, il calcio negli ultimi anni si sta evolvendo e anche
da professionisti del settore. Come nasce questo progetto?
il nostro campionato si sta adeguando
Sei entrato in contatto con tanti calciatori e allenatori che successivamente sono passati dall’altra parte della tavolata, diventando tuoi colleghi. C’è stato qualcuno che ti ha particolarmente colpito in questa transizione dal campo allo studio?
a questa nuova rotta. Gli esempi più lampanti sono Atalanta e Sassuolo, realtà con meno disponibilità economiche delle big, ma che con lucidità e lungimiranza hanno deciso di intraprendere una strada inesplorata che poi si è rivelata essere il “futuro”. Penso che comunque l’assenza di pubblico stia stimolando i calciatori ad assumersi maggiori responsabilità: le squadre tendono maggiormente ad ‘osare’ e il riflesso di questo sta nel numero sempre crescente di gol che si realizzano. Non so se questo ci porterà come “calcio italiano” ad avere un vantaggio in ambito internazionale, in quanto ogni rivoluzione sportiva è sempre frutto del contesto culturale in cui viene elaborata. Per come la vedo
io comunque a sollevare i trofei sono e saranno sempre i collettivi che subiscono meno reti».
Lele Adani ha indicato un’unica possibile soluzione per la salvezza del calcio dilettantistico: i giocatori si dovrebbero autotassare del 5% lo stipendio e donare quella percentuale ad un movimento in estrema difficoltà, che costituisce la base di tutto il sistema. Condividi la sua posizione?
«Sposo appieno la sua considerazione e ritengo che un gesto del genere, oltre all’intrinseca bellezza, rappresenterebbe davvero un segnale generazionale. E ti dirò di più: penso che se una proposta del genere venisse rivolta concretamente ai giocatori, avrebbe un’adesione pressoché totale».
In una telecronaca come fai a scindere l’aspetto emotivo della partita dalla professionalità correlata alla veste imparziale che indossi?
«Quando commento un incontro per me ci sono delle ‘formiche bianche’ contro delle ‘formiche nere’. L’obiettività del commento è una prerogativa che deve mai venire meno. In epoca Covid ho cambiato l’approccio alla telecronaca, sfruttando molto di più i rumori del campo e cercando di far immergere lo spettatore nel rettangolo verde. Quando parlo di “immersione” mi riferisco proprio a questo modus operandi: se prima la colonna sonora della partita era composta dal commento e dall’atmosfera dello stadio, ora, essendo venuta meno questa seconda componente, a farla da padrone sono principalmente i suoni provenienti dal terreno di gioco».
Caressa-Bergomi è un binomio che da Germania 2006 è entrato a far parte del patrimonio culturale e calcistico della Nazione. Come si è evoluta negli anni la vostra simbiosi?
«Beppe è una persona speciale, un fratello che mi accompagna dal lontano 1999 e che mi stimola a migliorarmi costantemente come uomo e come professionista. Il segreto del nostro duo risiede nella complementarità: siamo persone diverse che attraverso il lavoro condiviso hanno limato i propri spigoli, riuscendo a raggiungere un solido equilibrio. La parola che lo identifica meglio penso sia proprio capitano. Oltre a quello con mia moglie è stato l’incontro più importante della mia vita».
“I Mondiali hanno scandito i tempi della nostra vita e scandiranno quella di chi verrà”: così Federico Buffa ha descritto la portata di una manifestazione che ciclicamente si fonde con le nostre esistenze…
«Come al solito l’avvocato trova la sintassi perfetta per esprimere dei concetti assolutamente non scontati ed è per questo che ho provato una rabbia infinita in seguito alla mancata qualificazione ai Mondiali di Russia 2018. Per mio figlio sarebbe stata la prima edizione, uno step comunque importante nel processo di crescita personale e di avvicinamento al gioco. A tutta quella generazione quel passo falso è costato molto caro. Si rifaranno sicuramente col tempo».