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INTERVISTA Federica Seneghini

Le Giovinette, in campo contro i pregiudizi

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Foto: archivio Francesco Bacigalupo e Rosa Mottino

GIORGIO VINCENZI

Nel 1933 nasceva a Milano il Gruppo femminile calciatrici milanese, la prima squadra di calcio femminile in Italia. Un’esperienza che ebbe una vita breve perché contrastata dal regime fascista. La giornalista Federica Seneghini racconta la loro storia in un romanzo intitolato Le Giovinette – Le calciatrici che sfidarono il Duce (Ed. Solferino Libri, euro 16,50). Una storia di sport, valori e sentimenti che la scrittrice genovese ci spiega in questa intervista esclusiva.

Federica, innanzitutto spiegaci come nasce l’idea di questo romanzo?

«L’idea è nata l’anno scorso poco prima dei mondiali di calcio femminili. Insieme a Marco Giani, che un grande conoscitore di questo mondo, andai da Grazia Barcellona nipote di una di quelle calciatrici che mi raccontò la storia della squadra e da lì ho capito che ne poteva venir fuori una bella storia, poco conosciuta a livello nazionale».

Nel libro si parla di Rosetta, Marta e Giovanna Boccalini e di tante altre che giocando a calcio sfidarono il regime fascista. In che senso si misero contro il potere dell’epoca?

«Queste donne, che avevano per la maggior parte fra i 15 e i 20 anni (la più anziana, secondo le fonti storiche, era la ventisettenne Luisa Boccalini n.d.r.), volevano fare qualcosa di nuovo, che non si vedeva sui giornali dell’epoca e che non era mai stato tentato prima: giocare a calcio. Come accade quando si è pioniere ci sono dei rischi. Queste ragazze sapevano bene qual era la morale dell’epoca e cosa voleva dire vivere in un regime totalitario. Il regime fascista in un primo momento non sa cosa dire rispetto a questa iniziativa, è totalmente spiazzato. I primi ad attaccare le ragazze furono i giornalisti, che erano legati al regime, con una serie di articoli pieni di pregiudizi. L’allora presidente Coni, Leandro Arpinati, diede inizialmente il via libera, ma quando gli subentrò Achille Starace, che aveva una visione diversa dello sport, tutto cambiò. Le donne, a parere suo, dovevano fare degli sport più consoni a loro e per vincere delle medaglie utili alla causa del Paese».

Federica Seneghini

Pur di giocare e di non andare contro la morale dell’epoca si erano date anche delle regole sul campo molto stringenti…

«Scesero in campo con delle gonnellone invece che con dei pantaloncini perché avrebbero dettato scandalo nel far vedere le gambe al pubblico. Si dettero anche delle regole di gioco diverse da quelle del calcio maschile. Innanzitutto la palla era più piccola e leggera, i tempi non erano di 45 minuti ma bensì di 20. I passaggi poi dovevano essere solo rasoterra. In porta fu deciso di mettere dei ragazzi presi dalle giovanili dell’AmbrosianaInter perché il ruolo del portiere era considerato il più a rischio. I medici dell’epoca pensavano che una pallonata al basso ventre avrebbe potuto mettere a rischio la fecondità di queste ragazze e questo non era tollerato dal regime fascista perché far figli era quasi un obbligo per le donne».

L’11 giugno 1933 a Milano si giocò la prima partita di calcio femminile…

«Quella dell’11 giugno fu la prima di due partite che le ragazze giocarono tra di loro. Nel massimo splendore il movimento arrivò ad avere sino a 50 calciatrici».

Che pubblico c’era a vederle?

«Al bordo del campo c’erano circa mille persone tra curiosi, appassionati, parenti, amici… e questo grazie alla stampa che da diversi mesi si occupava di loro».

E chi tra gli sportivi dell’epoca diede il proprio appoggio alle Giovinette?

«Bisogna subito dire che le ragazze, attraverso i giornali, avevano chiesto ai giocatori di Serie A cosa ne pensassero del loro esperimento. Molti calciatori risposero in modo positivo e tra loro anche alcuni famosi all’epoca come Gianpiero Combi, portiere della Juventus e della nazionale italiana. Un sostegno indiretto arrivò anche dai giocatori dell’Ambrosiana-Inter, che coi loro colleghi cecoslovacchi dello Sparta Praga andarono a vederle giocare in occasione della seconda ed ultima partita pubblica, giocata a Milano nei all’inizio del luglio 1933».

Perché finì l’esperienza delle Giovinette?

«Come dicevo prima, l’avvento alla presidenza del Coni di Starace mutò la visione del calcio al femminile. Le ragazze giocarono ancora per qualche mese e poi furono costrette a smettere nel settembre del 1933 e invitate a fare altri sport. Il regime in quel momento guardava ai campionati mondiali di calcio maschile del 1934 e alle Olimpiadi di Berlino del 1936. E proprio in vista di questo appuntamento in Germania voleva formare delle atlete in grado di poter portare a casa delle medaglie più che lasciare delle ragazzine giocare a calcio. E poi questo sport, a detta di molti dell’epoca, non era adatto alle donne per dei pregiudizi che ancora oggi ci portiamo dietro».

Quindi a distanza di 87 anni dai fatti che tu racconti nel libro non sono ancora del tutto spariti i pregiudizi nei confronti del calcio femminile?

«I pregiudizi di oggi sono sempre gli stessi che avevano trovato le ragazze nel 1933. Si pensa ancora che le donne dovrebbero far altro. Fino a poco tempo fa pensavo che la preoccupazione che fare calcio potesse metter a rischio la possibilità di avere figli fosse solo un pregiudizio del 1933, invece di recente un’allenatrice di calcio femminile mi ha confessato che anche a lei glielo avevano detto. Un detrattore ebbe a dire: “non è né calcio, né femminile”».

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