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INTERVISTA Luigi Guelpa

Pallone nero

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GIORGIO VINCENZI

Luigi Guelpa, giornalista e grande conoscitore del calcio africano che segue da trent’anni, ha pubblicato a fine giugno Pallone nero (Ed. Urbone publishing, euro 15) per raccontare, come dice il sottotitolo “le storie di vincitori, di vinti e di stregoni”. Abbiamo intervistato l’autore che ci ha ‘svelato’ alcune delle storie e degli aneddoti, alcuni assai curiosi, raccontati nel suo bellissimo libro.

Perché un libro sul calcio africano?

«Il desiderio di Gianni Mura, l’ideatore di questa pubblicazione, era quello di mettere assieme tutto il panorama calcistico africano con un occhio di riguardo per le storie, gli aspetti sociali e persino antropologici».

Racconti tante storie di giocatori che grazie al calcio sono diventati famosi e hanno vinto la miseria, ma prima di questo hanno conosciuto la guerra, uccidendo anche persone…

«È il caso di Bruce Grobbelaar (ex portiere del Liverpool, n.d.r.), soldato nella guerra di Rodhesia. Il pallone l’ha salvato da una fine ingrata, ma durante il conflitto ha sparato, ferito e ucciso. Lo racconta, seppur malvolentieri, nella sua biografia, ricordando quando durante una licenza incontrò sull’uscio di casa un amico, ma anche soldato nemico. I due parlarono, promettendosi che dopo la tregua si sarebbero ritrovati al fronte. Grobbelaar chiosa rivelando che “lui oggi non c’è più, io sono ancora in vita».

In “Pallone nero” proponi anche storie di calciatori africani “vinti”. Che cosa intendi? Ci fai dei nomi?

«Vinti nel senso che, seppur promettenti e destinati in linea teorica a un futuro radioso, si sono persi per strada oppure sono durati nell’olimpo del pallone per una sola notte. Penso a Obapunmi, attaccante nigeriano ai mondiali del 2002. Aveva appena 17 anni e il mondo ai suoi piedi. Poco tempo dopo, per via di una grave malattia agli occhi, ha perso tutto. Oggi è un mendicante».

Qual è la storia che meriterebbe di essere maggiormente conosciuta?

«Sicuramente la storia di Ephrem M’Bom, il difensore del Camerun che marcò Paolo Rossi in Spagna nel 1982. Le zampate di alcuni di quei Leoni Indomabili lasciarono segni così profondi da non passare inosservati nella nomenclatura del calcio mondiale. Qualcuno entrò nella casta e trovò ingaggi milionari in Europa, del ‘carceriere’ di Pablito invece si persero

Luigi Guelpa

le tracce, almeno fino alla primavera del 2014 quando un tubo difettoso del bagno di un’associazione umanitaria portò a galla una di quelle storie nate sotto il sole dell’Africa. Padre Auguste Bourgeois, un cistercense con la passione per il calcio, non ha avuto la minima esitazione a riconoscere l’ex calciatore che ai mondiali di Spagna indossava la maglia numero sette in quell’idraulico attempato che armeggiava sotto il lavandino con tenaglie e chiave inglese. È stato il religioso francese a raccontare del sorprendente incontro alla stampa d’oltralpe, che però ha relegato la notizia in un trafiletto anonimo tra le pillole degli sport minori».

Un calciatore africano che ha calcato i campi della Serie A e che poteva avere più fortuna?

«Mi viene in mente Tchangai Massamesso detto Komi, difensore centrale togolese. Giocò nell’Udinese, aveva numeri importanti. Non riuscì però a gestire in maniera positiva l’improvvisa notorietà e scelse la strada della tossicodipendenza. È morto nel 2010 ad appena 32 anni. Dimenticato da tutti».

Tra tutti i giocatori che hai conosciuto, quello più strano?

«Adebayor, l’attaccante del Togo. Ho avuto modo di intervistarlo, un calciatore davvero strano, un personaggio sopra le righe. Accadde quando tornai a Lomé, la capitale del Togo, nella sua villa. Una costruzione pacchiana sul cui tetto svettava una Statua della Libertà in miniatura. Solo che in questo caso la Dea Ragione non sorreggeva nella mano destra una fiaccola, il simbolo del fuoco eterno della libertà, ma un pallone. Intorno alle mura di casa Adebayor sorgevano alcuni mercatini con una serie di venditori che tentavano di piazzare accessori sportivi rigorosamente taroccati. I prezzi erano maggiorati rispetto a quelli di altre zone della città, e fu lo stesso Adebayor a spiegarmi che: “scarpe e magliette costano un po’ di più perché sono impregnate del mio spirito”. Avevo capito ben presto di trovarmi di fronte a un personaggio bizzarro. Non a caso Adebayor a un certo punto della sua esistenza decise di abbandonare il pallone perché i parenti, a suo dire invidiosi, gli avevano scagliato contro la maledizione di un potente stregone del posto».

In questo calcio c’è spazio anche per la superstizione…

«L’Africa nera è una terra dove voodoo e sortilegi valgono più del fiuto del gol di un attaccante o delle acrobazie di un portiere. Racconto un aneddoto. Cyrille Makanaky era l’ala destra del Camerun a Italia ’90, il team che con Roger Milla in attacco sfiorò il podio. Prima dell’inizio di ogni gara il fantasista faceva disporre in cerchio i compagni, e lontano dalle telecamere e da occhi indiscreti, orinava sul terreno di gioco. Poche gocce per tenere lontano gli spiriti negativi. Makanaky, che ora vive in Belgio e fa il sindacalista, ben si guarda dal bollarlo come gesto stravagante. Nei quarti di finale contro l’Inghilterra un’improvvisa ritenzione idrica non gli permise di espletare le normali funzioni fisiologiche. L’episodio fu interpretato negativamente da tutta la squadra. Il Camerun, per la cronaca, perse dopo essere stato ad un passo dalla vittoria, per colpa di una vescica capricciosa».

Perché una squadra africana non è ancora riuscita a vincere la Coppa del Mondo?

«Camerun, Senegal e Ghana hanno raggiunto i quarti di finale, ma per

vedere un’africana sul podio ci vorrà ancora troppo tempo. Le squadre sono divise in clan. I premi di qualificazione ai mondiali vengono spesso sottratti dai dirigenti. Gli allenatori, stranieri, non vengono pagati, oppure subiscono tutta una serie di ingerenze insostenibili. Anche in questo caso mi affido a un episodio poco conosciuto. Nel 1993 il ct belga Jean Thissen allenava il Gabon, ma dopo la sconfitta contro il Senegal e la fallita qualificazione ai mondiali americani, il presidente Omar Bongo decise di punirlo sequestrandogli il passaporto. Glielo avrebbe riconsegnato solo in cambio della restituzione degli stipendi versati nei due anni di lavoro. Dopo un braccio di ferro tra il governo belga e quello del Gabon, Thissen fu prelevato con un blitz dei caschi blu dell’Onu dall’hotel di Brazaville, in cui di fatto si trovava ai domiciliari, e portato in salvo».

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