4 minute read
Intervista
INTERVISTA Rachid Arma
ARMA LETALE
Advertisement
Foto: Maurilio Boldrini/Paolo Schiesaro Virtus Verona
MATTEO LERCO
La fame per raggiungere la fama. La storia umana e calcistica di Rachid Arma è un inno alla perseveranza: ogni singola conquista, ogni singolo successo la punta marocchina, terminale offensivo della Virtus Verona, se l’è assicurato attraverso sacrificio e dedizione al lavoro. Il suo viaggio nel nostro Paese parte da lontano, quando arrivò a Verona da giovane per ricongiungersi col padre arrivato anni prima in Italia col fine di sostentare la propria famiglia. Durante il primo anno alla Sambonifacese ha condiviso le fatiche giornaliere in fabbrica con papà, allenandosi la sera sul campo per coltivare il sogno del grande calcio. Approdato nel professionismo, Arma è stato un fiume capace di inondare di reti ed emozioni ogni piazza che ha rappresentato: Spal, Torino, Carpi, Pisa, Reggiana, Pordenone, Triestina e Vicenza sono state le tappe di un lungo percorso di crescita ancora oggi in divenire. Perché ‘un passo alla volta’ Rachid è arrivato molto distante.
Rachid, dopo la storica promozione in Serie B col Vicenza hai accettato la chiamata della Virtus di Gigi Fresco... quale sono state le motivazioni che hanno condotto a questo matrimonio?
«Conosco Gigi dai tempi dei derby con la Sambo, siamo sempre restati in contatto e quest’estate ho capito che ripartire da Verona poteva essere per me lo stimolo giusto. È proprio vero che alla Virtus ci si sente tutti parte di un qualcosa di più grande: si lavora bene sul campo anche perché c’è una serenità incredibile che permea tutto l’ambiente. C’è una perfetta unione tra familiarità e professionismo».
Se ripensi al recente biennio vicentino che pensieri riaffiorano alla tua mente?
«È stato un onore essere tornato dopo dieci anni a vestire una maglia così pesante. Vicenza è una piazza storica che vive e respira calcio trecentosessantacinque giorni l’anno. Aver scritto un pezzo di storia è un qualcosa che non si dimentica: sono stati due anni dall’indescrivibile impatto emotivo».
Scollinati i trentacinque anni quali pensi siano state le sliding doors dirimenti nella tua carriera?
«Indico in primis la Spal, in quanto da lì è partito il sogno. Ho segnato sedici gol, un bottino soddisfacente considerando che era la mia prima esperienza in Serie C. Nel calcio, e in generale nella vita, partire bene è sempre fondamentale: devo ringraziare eternamente Aldo Dolcetti per la fiducia che ha riposto in me, facendomi subito sentire importante. Sicuramente il picco più alto è stata la rete col Torino nella finale playoff di ritorno a Brescia. Molti ricordano però il gol regolare che mi annullarono nella gara d’andata contro le “rondinelle”, un sigillo che poteva valere la A e che dentro di me grida ancora vendetta. Probabilmente però doveva andare così».
Hai il rammarico di aver solo sfiorato l’accesso al massimo palcoscenico italiano?
«La Massima Serie dev’essere la meta finale per ogni professionista. Personalmente ho la consapevolezza di aver dato sempre il massimo di me stesso, una convinzione che mi appaga completamente, in quanto sono riuscito a togliermi lo stesso delle immense soddisfazioni. Non cambierei niente di ciò che è stato: vittorie e sconfitte hanno contribuito a formare la persona che sono oggi e quindi sono a posto così. Se sai di avere dato tutto non possono esserci rimpianti».
Sei stato protagonista di un’incredibile scalata verticale, partendo dai dilettanti e arrivando all’apice del campionato Cadetto. Ritieni che il tuo ‘partire dal basso’ sia stato un vantaggio?
«Penso che sia stato indubbiamente un fattore positivo. Il dilettantismo ti trasmette la “fame”, una prerogativa fondamentale per arrivare in alto: quando ti alleni, ti confronti con compagni che fanno moltissimi sacrifici, percependo uno stipendio normale. Vivere una realtà del genere ti cambia in positivo la percezione che hai dell’esterno. Ho sempre detto che per me il calcio è innanzitutto una palestra di vita: ti insegna a non voltarti di fonte alle avversità e a faticare per raggiungere uno scopo».
Come ha impattato il Covid 19 nella vita di voi calciatori?
«Il mondo sta attraversando una fase estremamente travagliata e il “Pallone” non fa eccezione. Ogni tre o quattro giorni siamo sottoposti a tamponi e in generale si ha quotidiana cognizione della delicatezza del momento. Per un calciatore giocare senza pubblico è una menomazione non indifferente: esultare davanti ai tifosi e avvertire il loro calore è una delle componenti che apprezzo maggiormente di questo sport. Il calcio, per come la vedo io, è una forma di arte che se non viene percepita direttamente perde molto del suo fascino».
Quanto peso riveste la psiche nell’economia complessiva del gioco?
«È un aspetto decisivo. Banalmente, se devi giocare una partita con un deficit fisico ma sei apposto a livello mentale puoi disputare lo stesso una gara convincente, mentre al contrario se ti manca la testa il resto è pregiudicato. La mente muove tutto.»