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Bar Toletti light

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Intervista

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Addio, caro vecchio Giampiero

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Se n’è andato a 93 anni Giampiero Boniperti, personaggio di classe, simbolo di una juventinità rigorosa e monogamica. Grandissimo calciatore, grandissimo presidente: ha sempre considerato i calciatori come dei figli e come tali li ha trattati, con amore e severità. È stato un uomo austero e gentile. Mi ha voluto bene e io a lui. Merita quel rispetto dal quale non ha mai derogato. Mi piace ricordarlo col post che gli dedicai proprio qui su FB il giorno dei suoi novant’anni Ho telefonato a Giampiero Boniperti per il suo novantesimo compleanno. Pensavo di dover fare la fila: invece mi ha risposto subito, con la cordialità e con l’amicizia di sempre (pari, per la verità, anche alla ruvida franchezza di un paio di scontri che io non ho dimenticato e certamente neanche lui: né lo hanno dimenticato i muri del Guerin Sportivo che ne furono muti e - come dire - sbigottiti testimoni). La chiacchierata ha avuto anche un paio di passaggi commoventi, perché l’uomo è rimasto così, scaltro, ma tenero. Ho ritrovato il “Presidente”: amabile, furbo, paterno, attento, dolce persino nel suo vecchio trucco di rispondere con una domanda a una tua domanda (neanche la mia fosse un’intervista invece che un delicato e affettuoso saluto). “Contento di questa ipotesi-Ronaldo?”. “Tu cosa dici, Marino?”. Io? Dai vecchio Giampiero, tu avrai fatto novant’anni, ma anch’io sto per arrivare ai settanta. E ci conosciamo da una vita! Che ci rimettiamo a giocare ora che abbiamo i capelli bianchi? Boniperti è una fetta vera della Storia del calcio italiano. La Storia con la S maiuscola. Ha fatto in tempo a giocare in Nazionale - anzi ad esordire in Nazionale a 19 anni - col blocco del Grande Torino (la squadra che la sua juventinità l’obbligava a “odiare” sportivamente più di tutte). Ma ha anche fatto in tempo a piangere come pochi altri Valentino Mazzola nei giorni di Superga e a continuare ad amarlo tanto da proporre a suo figlio Sandro di concludere la sua carriera a Torino con la maglia bianconera. Ha fatto della Juventus la sua vita, la sua bandiera, la sua forse fanatica, ma coerente, monogamica, leale essenza di vita. Cinque scudetti da calciatore (anzi, da capitano). Nove, più tutti i trofei esistenti, da presidente. Ha detto cose censurabili nell’ottica dello spirito sportivo (“Vincere non è importante, è tutto”), che però, al contrario di certe “interpretazioni” successive, nascevano dalla distorsiva purezza di un amore irraggiungibile. Ha anche detto, frasi più utili a capire: “La Juventus non è la squadra del mio cuore: è il mio stesso cuore”

Cinico, certo: determinato e spregiudicato nel raggiungere gli obiettivi, nel ritenere la “famiglia” (espressione che non uso a caso, visti i valori autentici della sua vita sia dal punto di vista professionale che dal punto di vista umano) l’entità più importante di tutte, ma anche soverchiabile da tratti di umanità non sempre rivelati. Nella notte insanguinata dell’Heysel (anzi nell’alba livida del giorno dopo), davanti a 39 morti innocenti allineati in un angolo desolato di un capannone, mi confidò su quella vittoria un’opinione che poi non ho più sentito da altri dirigenti juventini. Eppure per quella Coppa che tanto sognava avrebbe e forse aveva dato un pezzo di vita. Ha sempre capito quand’era il momento di smettere (pratica, evidentemente, un po’ passata di moda). A neanche 33 anni, con lo scudetto sul petto, il 10 giugno del 1961 alla fine dell’ultima partita del campionato, chiamò il magazziniere Crova gli allungò le scarpe da gioco e disse:”Io ho finito: queste sono le tue”. “Vai via, falabrac” (più o meno “non fare lo stupido”, oppure, a seconda delle correnti di pensiero “tu sei scemo, vattene pure via”) gli rispose interdetto il suo interlocutore basito e impalato con quei due strani trofei in mano. “Trofei” che Boniperti non avrebbe calzato mai più. Neanche per una partitella in giardino. E lo stesso fece da Presidente vincente (e se avesse voluto, a vita). Il 5 febbraio del 1990 telefonò direttamente a tre direttori (uno, modestissimamente ero io e in quel periodo mi teneva pure il broncio perché diceva che parlavo più del Milan e del Napoli che della Juve) dicendo, a me come credo agli altri due: “Vi considero amici veri: sappiate che da oggi non sono più il Presidente della Juventus”. Perché? “Perché la Juve bisogna amarla: e invece può darsi che arrivi qualcuno che non la ama come me”. Ha portato alla Juve campioni immensi: le frasi più dolci e paterne le ha spese per Scirea e Del Piero (che sicuramente, con lui a capo della Società, sarebbe stato “congedato” con più eleganza): e Alex ieri gli ha dedicato una lettera di struggente riconoscenza Congedandomi mi ha detto: “Dai Marino, perché non mi vieni a trovare? Così mi racconti ancora quella storia di tuo padre”. Incredibile: se n’era ricordato! Sapendo che mio padre era juventino, in uno dei nostri incontri (credo all’inizio degli anni ‘80) mi consegnò un distintivo d’oro da regalargli: accompagnato da una lettera bellissima scritta di suo pugno. Dopo un po’ di anni gli rivelai che mio padre, quel distintivo, lo aveva voluto portare per sempre con sé. Mi abbracciò piangendo. Sì, credo che appena posso lo andrò a trovare. Dai “cinici” c’è sempre qualcosa da imparare. Perlomeno da quelli che hanno un cuore.

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