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INTERVISTA Alice Solange Scapin

Foto: Francesca Bottazin

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Bomberina inside mum

Alice Solange Scapin, classe 1989, è nata in Brasile, la patria del futsal. Il suo sangue brasileiro non mente: laureata in scienze motorie e in magistrale in Management dello sport e delle attività motorie, quando non lavora e non sta con il suo compagno e con la piccola Ariel di due anni, si diverte a calciare la bola insieme alle amiche/compagne di squadra della F.C. Bomberine di Padova.

Alice perché hai deciso di giocare a calcio a 5?

«Ho scelto di praticare il calcio a 5 perché mi è sempre piaciuto mettermi alla prova, soprattutto quando si tratta di una novità. Avevo 22 anni quando ho partecipato al primo torneo estivo organizzato dal mio allenatore e non sapevo niente riguardo il calcio, non mi piaceva nemmeno guardare le partite in televisione perché non mi entusiasmava l’idea di dover assistere a una partita passivamente: preferisco partecipare piuttosto che guardare. Inizialmente eravamo pochissime agli allenamenti, e non è stato facile, tanto che ho smesso per un periodo. Quando sono tornata la squadra era cambiata e da quel momento mi è piaciuto sempre di più, mi divertivo non solo a giocare ma anche in compagnia di queste nuove ragazze, tutte straordinarie».

Di sicuro, per cultura italiana, il calcio è visto ancora come uno sport prevalentemente maschile: questa cosa ti ha pesato e/o ti pesa ancora?

«Il fatto che il calcio sia visto ancora come uno sport prevalentemente maschile non mi pesa e non mi è mai pesato, ma lo trovo assurdo. Il calcio è uno sport come un altro, è fatto di movimento e divertimento in modo sano, soprattutto essendo uno sport di squadra si impara a vincere e a perdere insieme, ed è molto importante. Mi dispiace tanto per quelle bambine e ragazze che vorrebbero avvicinarsi al calcio ma per certi pregiudizi non sono appoggiate dai genitori e quindi non hanno alcun sostegno o incoraggiamento per provare e di conseguenza ci rinunciano».

Hai mai avuto ripensamenti sulla scelta di giocare a calcio?

«Non ho mai avuto ripensamenti sulla scelta di giocare a calcio, quando ho smesso è successo perché finivamo per essere spesso in due ad allenamento e imparavo poco. Per il resto mi è sempre piaciuto giocare, ho sempre pensato che il calcio fosse uno degli sport più facili da imparare. E senza nulla togliere ad altri sport individuali e più statici, preferisco uno sport in cui ci sia un po’ di sana competizione, in cui si può vincere o perdere, in cui si impara anche dalle sconfitte e in cui provi soddisfazione per le vittorie».

Ci sono altre discipline sportive che hai praticato o che ti sarebbe piaciuto praticare?

«Mi sarebbe piaciuto provare lo sport dei tuffi, ma la ginnastica artistica mi ha rubato il cuore per quindici anni, farà sempre parte di me».

Le Bomberine, è una squadra particolare, che va oltre l’aspetto sportivo: perché?

«Come dice il mio allenatore le Bomberine sono un concetto che va oltre lo sport in sé. Siamo abituate ad uscire insieme anche fuori dal campo, quindi facciamo squadra sia in campo che nella vita. Posso dire anche che le Bomberine è una squadra particolare perché Bobby prova in tutti i modi a farci apparire non tanto come calciatrici ma come donne, che poi è quello che siamo, ma dobbiamo ancora scontrarci con tanti pregiudizi che Bobby tenta di abbattere. Dopotutto siamo delle campionesse, e ci sarà un perché».

Cosa ti ha spinto ad indossare la casacca delle Bomberine?

«Tramite la mia amica Francesca Vianello ho conosciuto mister Bobby che mi ha chiesto di far parte della squadra e ho accettato per la curiosità verso uno sport che non avevo mai praticato prima».

Due parole su Marco Bobby Cecolin…

«È una persona generosa e

intraprendente. Mi ha sempre ispirato la sua voglia di fare, provare, mettersi in gioco, rischiare, esagerare. È coraggioso e le sue idee sono pazze. È uno che quando pensa e propone di fare una cosa o si fa o si fa. È difficile fargli cambiare idea».

Fuori dal campo come passi le tue giornate?

«Quando non lavoro le mie giornate fuori dal campo le passo con la mia famiglia e/o con gli amici. Mi piace molto stare all’aria aperta, adoro andare a fare giri in bicicletta lungo gli argini e andare al mare. Nell’ambito lavorativo invece insegnare ginnastica artistica è una delle cose che amo di più, e quando la insegno il tempo vola, mi piace davvero tanto. Inoltre mi piace molto disegnare, mi rilassa particolarmente, anche se purtroppo non riesco a trovare molto tempo da dedicarci. Mentre per mia figlia, e insieme a lei, creo tantissimi lavoretti».

Sei mamma di una splendida bambina: come è cambiata la tua vita, anche in ambito sportivo, con la nascita di Ariel?

«Con la nascita di mia figlia, in ambito sportivo, la mia vita non è cambiata. Purtroppo ho dovuto smettere di praticare calcio a 5 quando ho saputo di essere incinta e ho ripreso a giocare quando lei aveva 5 mesi. Sono una persona molto determinata, non ho mai pensato che con un figlio venga meno la possibilità di praticare sport, anzi, spero di trasmetterle questa passione».

È difficile gestire lavoro, famiglia, figlia e sport?

«Non è facile, ma se hai un bravo compagno si può riuscire a fare tutto. È una questione di organizzazione e di collaborazione, ma so che non tutte le donne hanno questa fortuna. Al giorno d’oggi la nostra società ci mette di fronte alcuni modelli da imitare che nessuno dovrebbe accettare, per esempio: “diventare madre significa dover rinunciare a tutto altrimenti non sei una brava madre”, oppure “bisogna fare sport in gravidanza per non ingrassare”, o anche “bisogna essere magre per essere belle” non pensando che invece lo sport porta milioni di benefici, e non solo fisici. Per fortuna non la pensano tutti così e il concetto di Sport si sta evolvendo, infatti organizzandosi e pianificando per bene i propri impegni una donna può essere tutto ciò che vuole: madre, moglie e anche sportiva, senza sentirsi in colpa. Lo sport rende felici, ed è meglio che una madre investa un’ora del suo tempo nel suo benessere se ne sente il bisogno. Svagandosi un po’ sarà più serena lei e ciò si rifletterà sulla famiglia».

Hai mai pensato di appendere le scarpe al chiodo dopo la nascita di tua figlia?

«Ho sempre detto che sarei tornata a giocare fin dal giorno in cui ho dato la buona notizia alla mia squadra. Dopo la nascita di mia figlia ho continuato a pensare di non voler appendere le scarpe al chiodo, anzi, non vedevo l’ora di tornare, un po’ per poter riprendere la mia forma fisica ma soprattutto per poter rivivere le emozioni del campo. Emozioni che, senza nulla togliere ad altre discipline individuali (come per esempio il Pilates) che donano ugualmente ottimi benefici, non si possono provare senza la competizione e lo “scontro diretto».

Il tuo momento più bello da calciatrice e quello più brutto?

«Il momento più bello da calciatrice è stato quando ho segnato l’ultimo goal sapendo che sarebbe stata l’ultima partita che avrei fatto prima di tornare di nuovo a giocare dopo la gravidanza. Ariel era già dentro di me ed è stato come averlo fatto insieme. Il momento più brutto da giocatrice l’ho vissuto i primi anni, quando ci ritrovavamo spesso solo in due ad allenarci. Mi chiedevo perché dovessi continuare ad allenarmi, ma ho continuato a farlo fino al giorno del mio compleanno in cui mi sono ritrovata a mangiare le pastine insieme a Nicola, che era il secondo allenatore all’epoca, e a Valentina, che era il capitano. Paste che avevo portato per un’intera squadra e che proprio loro me lo avevano chiesto per festeggiare. Ma non sono venute e da quel momento non ho più trovato la giusta motivazione e ho detto basta».

Il calcio femminile è spesso, purtroppo, sotto la lente di ingrandimento per fattori extra sportivi e, a volte, viene strumentalizzato per portare avanti campagna a favore dell’omosessualità. Cosa ne pensi?

«Penso che se queste campagne riescono a sensibilizzare concretamente la gente allora ben venga, ma non capisco perché poi venga generalizzato a tutte le calciatrici. Sicuramente nel mondo del calcio a 5 femminile ci sono molte ragazze omosessuali, ma allo stesso modo ci sono anche negli altri sport. Perché quindi proprio il mondo calcistico fa così scalpore e una squadra di ragazze che praticano nuoto sincronizzato ne fa meno? Nella società di oggi ancora il calcio è percepito come uno sport prettamente maschile, per questo vengono fatte campagne pubblicitarie con noi ragazze. Penso che la strada per abbattere certi stereotipi sia ancora lunga. Inoltre, penso che ognuno dovrebbe vivere la propria vita senza doversi nascondere per paura di non essere accettato, soprattutto nel 2021, ma mi rendo anche conto che è un momento molto sensibile per questo tema che merita ancora molta attenzione. Ho potuto constatare che nel calcio a 5 le ragazze non si fanno di questi problemi e vivono liberamente la propria sessualità ma non perché fanno calcio, non perché è un ambiente adatto a far emergere la propria personalità, ma semplicemente perché è normale sentirsi liberi di essere sé stessi in ogni contesto. Credo che la bellezza del mondo calcistico femminile risieda nella libertà di esprimersi come si vuole. Penso sia quasi liberatorio essere consapevoli di non ricevere giudizi, come magari avviene in altri ambiti, o di doversi nascondere per timore di non essere accettati. Questo nel nostro mondo non avviene. Stiamo attraversando un momento storico molto delicato sotto questo punto di vista, è una fase cruciale di cambiamento che dura da molti anni e che durerà ancora per altrettanti, ma se è possibile cambiare qualcosa nel nostro piccolo questo è il momento per farlo».

Cosa deve fare secondo te il calcio femminile per assumere un valore assoluto come sport, andando oltre gli stereotipi e le dicerie?

«Secondo me non è tanto il calcio femminile che può fare qualcosa ma è la gente che deve cambiare mentalità, deve evolversi e liberare questo sport dai paletti sociali in cui è costretto. Secondo me bisognerebbe farlo provare alle bambine fin da piccole, al pari dei maschi, magari nelle scuole nell’ora di educazione motoria, in questo modo avrebbero almeno la possibilità di capire se è uno sport che può piacere e fare per loro o no. I genitori di adesso non credo siano propensi a portare le loro figlie a fare calcio perché c’è ancora questa mentalità che sia uno sport per i maschi. I papà pensano che le bambine non siano fatte per giocare a calcio, e le mamme hanno fatto altri sport e trasmettono sicuramente la loro passione alle figlie. Quindi se questa iniziativa non può partire dalle famiglie almeno può avvenire in ambito scolastico, credo sia molto importante».

Se tua figlia volesse, da grande, giocare a calcio, saresti d’accordo?

«Certo che sarei d’accordo, le auguro solo di trovare una squadra bella come la mia».

Quando smetterai di giocare, ti piacerebbe allenare? Magari Ariel...

«Non riesco ancora ad immaginare il momento in cui smetterò di giocare a calcio perché non mi piace fare attività fisica solo per il mio fisico, ma ci dev’essere anche il divertimento e una sana competizione che si trova negli sport come questo. Non credo mi piacerebbe allenare una squadra di calcio, più che altro non ne sarei in grado dal momento che io stessa ho molto ancora da imparare, ma se mia figlia vorrà potrà andare dalle mie amiche Bomberine».

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