Almost Arctic

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ALMOST ARCTIC Fotografie STEFANO CHIOR R I MARTINICA GIOR A Testo STEFANO CHIOR R I

Tutte le immagini ed il testo sono proprietà esclusiva degli autori. E’ vietata la riproduzione anche parziale di immagini o testo senza il consenso degli autori

Scritto nel 2017. Stampato 2018 per informazioni e contatti: stefano.chiorri@gmail.com


DEDICHIAMO QUESTE LIBRO AI NOSTRI FIGLI CON LA SPERANZA CHE ANCHE LORO POSSANO UN GIORNO GODERE DI QUESTE BELLEZZE


SOMMARIO/ CONTENTS

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Giorno 1 DI GHIACCIO E DI FUOCO

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Giorno 2 THE GOLDEN RING

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Giorno 3 LA TEMPESTA PERFETTA

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Giorno 4 JOKUSARLON E LA CAVERNA DI GHIACCIO

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Giorno 5 NEL REGNO DEI GIGANTI


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Giorno 6 SPIAGGE, RELITTI ABBANDONATI E LA DANZA DELL’AURORA

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Giorno 7 UN AMARO FINALE

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JUMPING ON ICELAND

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CONSIDERAZIONI IN ORDINE SPARSO

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INDICE DELLE FOTO


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DI GHIACCIO E DI FUOCO Nevica. Piccoli fiocchi spazzati da un vento impetuoso ci accolgono all’aeroporto Keflavik in un pomeriggio che sembra quasi sera. Scendiamo le scalette dell’aereo sotto un cielo plumbeo e pesante che acuisce in noi il senso di stanchezza che ci portiamo dietro fin da Copenhagen. Partiti da quasi ventiquattro ore, causa una scalo in Danimarca, abbia trascorso la notte in aeroporto, tra bagagli accatastati e monitor accesi riuscendo a riposare poco e male purtroppo cercare

di risparmiare qualche euro ha alcune piccole controindicazioni. Il volo è stato abbastanza noioso, una lunga traversata sul grigiore indefinito del Mare del Nord e dell’oceano Atlantico settentrionale, l’unico sussulto è stata la prima visione dell’Islanda, un diadema incastonato sotto il circolo polare artico, completamente imbiancata dai rigori dell’inverno artico. Una volta a terra ci rechiamo a ritirare i nostri bagagli con

una certa celerità e con impazienza ci fiondiamo a ritirare la macchina che abbiamo noleggiato. Espletate le pratiche di rito usciamo dall’aeroporto pronti e carichi per iniziare questa nuova avventura. Il cielo è arrabbiato e nevica copiosamente, dalle vetrate possiamo vedere i fiocchi cadere copiosi accompagnati da un vento rabbioso. Un benvenuto fatto da una miriade di piccoli fiocchi spazzati da un vento impetuoso che ci accompagnano subito fuori dall’aeroporto


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in un pomeriggio sempre più confuso con la sera. Senza indugiare oltre e oltrepassiamo le porte automatiche ci prepariamo ad affrontare i primi temuti venti artici ma, con nostra sorpresa, scopriamo che non fa eccessivamente freddo, o meglio, non troviamo quella temperatura polare che temevamo di trovare. I nostri primi passi sul giovane suolo islandese sono attutiti da un soffice manto che, con il trascorrere dei minuti, si fa sempre più spesso. Naturalmente la nostra macchina ci attende, parcheggiata, dall’altra parte del piazzale, nell’angolo più distante dalla nostra posizione. Nessun problema, non è il caso di fare drammi, anzi, il breve tratto a piedi ci servirà per acclimatarci e calarci appieno nello spirito del luogo. Ad attenderci, parzialmente nascosto dalla neve, troviamo un bel fuoristrada, molto più consono, rispetto ad una comune berlina, ad affrontare il clima notoriamente bizzoso di queste latitudini. Ora non ci resta che perdere qualche minuto, giusto il tempo per sistemare i bagagli eppoi siamo subito pronti per metterci in rotta verso l’ignoto. Non abbiamo piani prestabiliti, da qui in avanti navigheremo praticamente a vista. Il nostro obiettivo immediato è quello di lasciare la zona dell’aeroporto per lasciarci alle spalle la visione poco romantica di una terra di mezzo vittima del cemento e dell’abbandono. Una volta sulla strada principale decidiamo di ignorare le indicazioni per Reykjavik, abbiamo deciso per tempo che non sarà quella la nostra meta e quindi ci immettiamo su una piccola strada laterale che punta verso sud. Prima di proseguire oltre nella narrazione ci sembra importante fare una breve precisazione per rendere il racconto al meglio parlando proprio della rete stradale che in Islanda è un capitolo a se stante, perché di strade in realtà ce ne sono veramente poche, praticamente solo una che,visto il percorso circolare viene comunemente chiamato il ring, un anello, che come si può intuire dal nome abbraccia e circonda l’intera isola e non sia allontana

mai troppo dalla costa. Il ring è l’unica strada quasi sempre aperta, tutte le altre in inverno vengono abbandonate alla mercé degli elementi, in attesa che la primavera ed il ritorno del bel tempo si sostituiscano all’uomo facendo la maggior parte del lavoro. In Islanda, tra sottili nastri d’asfalto ed incerte piste sterrate che si abbracciano e confondono tra il ghiaccio e la neve, non è raro trovarsi alla guida tra i cumuli di neve cercando di seguire gli incerti paletti nivometrici di una carreggiata sommersa dalle ingiurie dell’inverno. L’Islanda è anche questo, prendere o lasciare, bella e sfacciata, affascinante e scorbutica ed anche pò puttana per come, languidamente, si sveste e si vende agli occhi avidi della moltitudine di turisti che, da tutto il mondo, accorrono per ammirarne la bellezza altera e selvaggia. Oggi l’isola si gode il suo periodo di notorietà, sfruttando in ogni modo il momento di gloria agli occhi del mondo prima che il vento inizi nuovamente a cambiare e l’insaziabile flusso di turisti, passata l’onda, si indirizzi verso altri, nuovi, lidi. Oggi L’Islanda, anche se ancora in gran parte spopolata, nasconde un lato oscuro che scoprirete se decidete di percorrere le classiche strade del ring. In questo caso dimenticate l’idea romantica della cavalcata solitaria perché l’onda lunga del turismo globale è arrivata prepotentemente fin quassù e non sarà affatto raro imbattersi in grandi carovane di turisti che affollano i luoghi più noti e raggiungibili. Eppure non è sempre stato così, un tempo l’Islanda era una frontiera, una terra vergine ed un pò grezza dove il turismo era sempre stato un fattore marginale, una voce secondaria nella piatta economia di un’isola per anni testardamente avvinghiata allo sfruttamento dei pescosi mari circostanti. Il turismo era niente più di un semplice rigagnolo, in fondo si è sempre pensato che fosse roba da intenditori; una meta per esploratori, avventurieri e scienziati, per viaggiatori estremi con la passione per il grande nord ed il pallino della geologia. Un viaggio per gente tosta insomma, pronta ad affron-

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tare e scontrarsi con avventure decisamente fuori norma. Il passare degli anni ha cambiato un pò le cose ed ha portato con sé un lento disgelo che ha trasformato il rivolo d’acqua in un torrente che è divenuto una specie di fiume in piena. L’era Glaciale, che da sempre ha imprigionato l’isola, ha lasciato il posto alla primavera e l’Islanda si è destata magicamente dal suo secolare torpore. Sono finiti i tempi in cui veniva considerata semplicemente un freddo scoglio alla periferia dell’impero e d’incanto, si è ritrovata ad essere proiettata nel ventunesimo secolo. L’isola, travolta da un insolito destino, si è risvegliata dal proprio sonno per accogliere i numerosi viaggiatori facendone un volano importate per la propria economia. Oggi un numero sempre più grande di turisti attraversa rumorosamente i varchi di Keflavik per avventurarsi in questo regno di ghiaccio e di fuoco mettendo sotto assedio un fragile ecosistema già provato dalla dominazione dei Vichinghi all’inizio del secondo millennio. Finite tutte queste digressioni è ora di riprendere la marcia sulla strada che ci conduce, costeggiando l’oceano, verso l’estremo sud, della penisola del Reykjanes che è anche una delle zone geotermali più attive di tutta l’isola. Dopo qualche chilometro, in lontananza avvistiamo uno sbuffo di vapore che si perde tra le nuvole all’orizzonte. Di fronte a noi la strada si dispiega in un lungo rettilineo che punta verso il mare. Tutto intorno è solo un’arida distesa di sterile magma freddo, contorto e tagliente come un deposito di vecchi rottami ferrosi. Stranamente la neve, caduta fino a pochi istanti prima, ha già iniziato a sciogliersi e nel breve volgere di poche decine minuti il panorama subisce una miracolosa trasformazione e da totalmente bianco lascia riemergere le tracce incontrovertibili della natura vulcanica dell’isola. Ci fermiamo in una piazzolaabbozzata al margine della strada per iniziare



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a prendere un pò di confidenza con il territorio e ci arrampichiamo sulla sommità di uno dei numerosi piccoli coni vulcanici che costeggiano la strada. Questa prima visione del panorama Islandese ci lascia capire quale sarà la natura degli scorci che incontreremo sull’isola. Sotto i nostri occhi si distende un terreno tormentato, plasmato dal calore della terra, un suolo vergine non ancora intaccato dall’erosione degli elementi, ostico da colonizzare anche per le più coriacee specie vegetali. Ci troviamo al cospetto di un deserto arido ed aspro, imbiancato dalla neve, sterile ed ostile alla vita che, verso occidente, si inabissa nelle profondità oceaniche. Un panorama che affascina ma che al tempo stesso incute anche timore. Immediatamente ci confrontiamo con il turbolento cielo Islandese ed in pochi minuti la luce cambia e da bianca cinerea vira verso il giallo. I raggi del pallido sole nordico riescono a penetrare nella disordinata coltre di nubi, lacerata da un impetuoso vento che spira dal mare. Il timido sole, epicamente, si sforza per fare breccia tra le nuvole e cercare di illuminare con i suoi tiepidi raggi l’incoerente panorama. Il cupo rumore del mare fa da cupa colonna sonora, null’altro turba l’inquietante tranquillità di questo desolato angolo d’Islanda. Dalla sommità della piccola bocca eruttiva, in lontananza, riusciamo a scorgere il solitario camino della centrale geotermica di Gunnuhver situata proprio nei pressi del punto in cui la dorsale medio atlantica si tuffa negli abissi marini. Decidiamo di dirigersi verso il campo geotermale ma, appena ripartiti, dopo sole poche centinaia di metri decidiamo di fermarci nuovamente. In questo percorso a tappe raggiungiamo così un parcheggio da dove, un breve sentiero, ci conduce fino ad un ponte dal nome piuttosto altisonante che sembrerebbe unire Europa ed America. Tutto vero, il ponte è un’idea, un simbolo ma anche un vero punto d’incontro dove due continenti, due zolle si toccano. In Islanda è possi-

bile ammirare anche questo; qui le due sponde della dorsale atlantica che, per quel fenomeno geologico chiamato deriva tettonica, emergono dalle acque oceaniche. Con qualche breve passo passiamo dalla placca Nordamericana a quella Europea. L’Islanda è proprio questo, figlia di un lento processo di formazione geologica, il prodotto del magma che, risalendo dalle profondità della terra, erutta e crea sempre nuova crosta allontanando sempre più i due continenti. Questo è il ponte, il simbolo di unione tra due continenti che qui, sul suolo islandese, si sfiorano per allontanarsi anche se in maniera impercettibile. Le pareti basaltiche un giorno saranno le linee di costa dei due continenti, sponde distanti che manterranno solo la memoria geologica della loro origine e che oggi si sfiorano proseguendo in maniera pressoché rettilinea dal mare verso l’entroterra. La visita dura una manciata di minuti e dopo aver effettuato qualche scatto siamo di nuovo in macchina, attratti sempre dai pennacchi di vapore del campo di Gunnuhver. Poco più avanti, ad un bivio ci immettiamo su una strada sterrata molto disconnessa che conduce ad un parcheggio piuttosto approssimativo da cui parte un percorso da intraprendere solo a piedi. Pochi passi ed eccoci al cospetto di un potente getto di vapore che ci accoglie riempiendo l’aria di un acre odore sulfureo. Tutto intorno il terreno fuma, sbuffa riempiendo l’aria delle mefitiche esalazioni degli inferi. E’ il gemito della nuova terra che nasce, che cerca di rimarginare la ferita sempre aperta della dorsale Atlantica. Ad uno sguardo più attento si possono notare le prime anomalie, questo luogo, infatti, è per metà attrazione turistica e per l’altra metà un sito industriale, come dimostrano le numerose tubazioni che, dal sottosuolo, catturano e convogliano il calore della terra per generare sempre nuova energia. Energia pulita. Il grande getto di vapore altro non è che un effetto collaterale dello sfruttamento di quel cuore caldo che pulsa nel sottosuolo, il motore primordiale che sta spingendo l’Islanda nella

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sua transizione verso un futuro energeticamente sostenibile. Tutto intorno il terreno è coperto da uno sgargiante manto multicolore a tinte calde, segno della presenza dei minerali di ferro, zolfo, manganese ed altri elementi che fuoriescono disciolti nelle calde acque sotterranee. Poco più in là le ultime propaggini delle terre d’Islanda sprofondano in mare svanendo tra i flutti inquieti dell’oceano. Verso occidente, sulla cima di una piccola collina il faro di Reykjanes si erge solitario ad avvisare ed ammonire i naviganti sulla pericolosità delle acque antistanti la penisola. Procedendo su una strada per meta coperta di fango e per il resto ancora innevata arriviamo al cospetto dell’oceano dove i marosi aggrediscono il basalto facendo precipitare le rocce più instabili tra i flutti dove finiscono in balia delle grandi onde che martellano continuamente la costa. E’ Il grande mulino che non smette mai di girare, che sgretola la terra in una continua lotta e che inonda l’aria di una fine ed appiccicosa nebbia salmastra. Un forte vento dal mare irrompe con veemenza sulla terraferma accompagnato da un sordo rombo che rende difficoltoso persino parlarsi a breve distanza. E’ difficile non rimanere affascinati dal carattere duro ed aspro del burrascoso Atlantico del nord e della sua essenza altera e mai troppo scontata, con quell’odore forte e pungente di iodio e salsedine che impregna i vestiti, ti rimane addosso riempiendo il cuore e lo sguardo. Purtroppo questa affascinante atmosfera selvaggia e salmastra è anche grande nemica dell’attrezzatura fotografica così, dopo aver tirato fuori l’attrezzatura, bastano pochissimi minuti per trovarsi con le lenti piene di goccioline d’acqua e microcristalli di sale. C’est la vie, nessun pasto è gratis, specialmente in Islanda. Quando ci rimettiamo in viaggio decidiamo di fare tutta una tirata fino alla sistemazione prenotata per questa prima notte Islandese. Il passare delle ore, dopo, l’entusiasmo iniziale, ha fatto tornare a galla tutta quella stanchezza accumulata durante la pessima notte trascorsa, precariamente, all’aero-


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porto di Capenhagen. Purtroppo per arrivare a destinazione mancano ancora diversi chilometri anche se fortunatamente da qui in avanti potremo procedere più spediti, la strada infatti si fa più larga costeggiando la costa meridionale della penisola di Rejkyanes. Attraversiamo Grindavik, almeno così il cartello indica, ed è questo il nostro primo impatto con una cittadina Islandese, rarefatta e dispersa come un città mineraria di frontiera, un avamposto di lamiere e navi tirate in secca. Non c’è nessuno in giro. Incrociamo qualche macchina solitaria e le poche fugaci presenze che gravitano intorno ad un supermercato sono gli unici segnali di vita. Oltre c’è solo silenzio. Decidiamo di entrare nel market per dare una prima rapida occhiata. Confrontarsi con un supermercato Islandese è quantomai singolare per chi non vive a queste latitudini. Gli scaffali non sono fornitissimi secondo i normali standard ed i prezzi sono decisamente più alti della media e quindi fare acquisti, a patto di trovare qualcosa di commestibile, è un affare per ricchi. Stando così la situazione decidiamo di prendere solo quanto strettamente necessario. Eventualmente ci adegueremo alla situazione, adottando uno stile di vita al limite della sussistenza. Presa la decisione, nel nostro carrello finiscono solo qualche zuppa liofilizzata, del pane e un pò di cibo in scatola. La razione minima per sopravvivere. Ripresa la marcia percorriamo in perfetta solitudine, strade che sembrano perdersi verso temporali lontani. Viaggiamo accompagnati da folate di vento ed affrontiamo qualche tratto in cui la neve reinizia a cadere davanti ai fari della nostra macchina, fortunatamente il fuoristrada non sembra risentire affatto delle condizioni del manto stradale anche quando queste si fanno più precarie. Raggiungiamo il nostro riparo per la notte quando la sera si è quasi completamente appropriata della scena. La nostra destinazione è in mezzo al nulla, una grande casa nella pianura Islandese, nei pressi di un incrocio stradale. Intorno solo qualche casa dispersa nel bianco incerto del panorama

ed i fari di qualcuno che vaga nella piatta pianura circostante. Al nostro arrivo non troviamo nessun ad accoglierci, solo un piccolo biglietto appiccicato sulla porta d’ingresso che ci informa sull’ubicazione della nostra stanza e poche altre semplici norme di comportamento da adottare nella struttura. Una volta entrati ci rendiamo conto che non c’è nessuno oltre noi, siamo soli e visto il posto non ci saremmo potuti aspettare qualcosa di diverso. Il B&B, seppur semplice ed essenziale, ci appare comodo ed accogliente ed una volta sistemati è una vera liberazione poter fare una doccia per toglierci di dosso le scorie del viaggio e tutti i postumi della notte insonne in Danimarca. Arrivare fin qui non è stata una passeggiata. Prima di addormentarci, nonostante la stanchezza, decidiamo però di sfruttare il poco tempo rimasto per raggiungere Selfoss e fare un breve giro esplorativo in città. Distante una decina di chilometri dal nostro B&B, Selfoss, è anche uno dei centri più importanti e popolosi, se così si può dire, dell’intera isola. Con le tenebre, con il calare delle tenebre, le condizioni meteo sono decisamente peggiorate e così ci troviamo a percorrere una stretta strada secondaria con la neve che cade trasportata da un rabbioso vento che promette tempesta. Non si può negare che, in certe situazioni, guidare può anche essere divertente specialmente avendo a disposizione un mezzo appropriato e così in breve, nonostante le evidenti difficoltà, siamo in città. Selfoss è moderna e funzionale, insomma tipicamente Islandese, ovvero spartana ed essenziale ma questo è forzosamente dettato dal doversi continuamente confrontare con un ambiente estremamente ostile. La visita è breve, dura giusto il tempo di percorrere la strada principale, sfidando il ghiaccio, in entrambe le direzioni. Non incrociamo nessuno, tutti i negozi, vista l’ora, sono già chiusi e l’unico punto dove incontriamo anima viva è presso una stazione di servizio dove effettuiamo una breve so-

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sta per il rifornimento. Oltre questo c’è ben poco e così ben presto decidiamo che è già ora di rientrare, così abbandonando l’abitato, riprendiamo la piccola strada di campagna nuovamente accompagnati dalla violenta nevicata che, in precedenza, sembrava aver perso vigore. Lentamente raggiungiamo il B&B, illuminato solo dalla debole luce che brilla fiocamente sotto il portico d’ingresso ed in men che non si dica ci infiliamo sotto le calde coperte, pronti per la notte. Vista l’ora e la stanchezza nemmeno ci rendiamo conto del sonno in cui sprofondiamo quasi immediatamente. E’ tempo di sognare, finalmente siamo in Islanda.


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THE GOLDEN RING La nostra prima mattina in Islanda inizia con le gocce di condensa che imperlano il finestra e brillano, rischiarate dalla tenue luce del sole che annuncia l’alba tardiva. Tutto il resto è silenzio. Non un suono proviene dal resto della casa ne tantomeno dall’esterno dove tutto è ancora più attutito, se possibile, dallo spesso manto di neve caduta durante la notte. La coltre bianca è ovunque, fin dove i nostri sguardi riescono ad arrivare, fino a quell’orizzonte dove la noiosa pianura Islandese si confonde con le nuvole. Ci mettiamo in macchina ad un’ora incerta; fuori c’è un’atmosfera grigia, sospesa ed indefinita. Mancano i punti di riferimento, il sole è nascosto e la pianura circostante si perde tra il mare e le montagne imbiancate. Ogni tanto la monotonia del paesaggio candido è interrotta da piccole macchie di colore scuro, sono i cavalli Islandesi che stoicamente pascolano e resistono nel gelo artico cercando di scaldarsi rimanendo gli uni vicino gli altri. Dicono siano di indole docile e mansueta ma francamente non riusciamo ad appurarlo, infatti, se ne stanno lontano dalla strada immersi in quell’unico, quieto, oceano bianco. Raggiungiamo e superiamo Selfoss per poi svoltare verso l’interno seguendo la strada che conduce verso il parco di Pingvellir dove, per la precisione, non arriveremo mai. Durante la nostra marcia ci imbattiamo in un piccolo cratere vulcanico proprio di fianco la strada, è il Kedid. Qualche auto e un bus turistico sono parcheggiati nel piccolo spiazzo antistante così decidiamo di concederci, anche noi,

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una sosta. La mattina è fredda e l’umidità residua del giorno precedente è congelata durante la notte sui rami di piccoli arbusti che orlano l’intero margine del cratere rendendoli simili a spettri contorti. Il fondo del cratere è occupato da un lago parzialmente coperto di ghiaccio tranne nel punto in cui il sole già ha iniziato ad accarezzarne le acque. Il cratere è completamente imbiancato dalla copiosa nevicata notturna così siamo costretti a percorrere l’intero perimetro in cresta senza poter ammirare i mille colori delle rocce vulcaniche che precipitano nelle acque azzurre. Il generale inverno, da queste parti, è ancora implacabile e purtroppo, o per fortuna, non fa sconti a nessuno, copre ed ammanta ogni luogo con la sua veste candida ed immacolata. Affrontare questo viaggio in inverno, se da un lato restituisce le sensazioni e le emozioni di vivere in una piccola era glaciale, dall’altro sterilizza le cromie restituendo un panorama fatto unicamente di contrasti, quasi fosse un unico, enorme quadro in bianco e nero. Un’isola, due mondi completamente diversi, è facile capire perché l’Islanda è un paradiso per i fotografi. Ritorniamo in strada puntando verso nord, i nostri obiettivi sono chiari fin dalla mattina, il gigante Strokkur, il grande geyser e la cascata di Gulfoss. La strada che ci troveremo a percorrere è quella del golden ring, il circuito più turistico che unisce e conduce ad alcune delle meraviglie geologiche che si trovano nei primi dintorni di Reykjavik. Il panorama davanti a noi è piuttosto piatto, un’indefinita landa in cui la strada si lancia fino all’orizzonte. Alla nostra destra una serie di rilievi ammantati di bianco scorrono parallelamente al senso di marcia, è la grande dorsale oceanica che qui emerge dal fondo oceanico da sud ovest verso nord est, tagliando diagonalmente, come fosse la colonna vertebrale, dell’intera isola. L’Islanda è figlia del fuoco, un pezzo di fondale oceanico finito in secca tra le acque settentrionali dell’oceano Atlantico. L’isola è solo un piccolo tassello del

lungo sistema di dorsali oceaniche in perenne movimento sparato, chissà per quale motivo, in alto fuori dalle acque. Questa è la natura intrinseca dell’Islanda, un caos di colate basaltiche prodotte della tettonica a zolle; un’isola plasmata dalle potenti correnti convettive del mantello che, dal profondo, ruggiscono per emergere allontanando, ogni anno, sempre più, le due sponde dell’oceano Atlantico. Un’isola al tempo stessa lacerata e maltrattata dagli elementi quasi fosse una figlia indesiderata, un effetto collaterale non previsto, di un esperimento fuori controllo. L’Islanda è genesi allo stato puro, un terra in continua formazione, minacciata continuamente da imponenti vulcani e segnata profondamente da grandi campi lavici eruttati da gigantesche fratture lineari. In macchina percorriamo un pò di chilometri, quaranta o cinquanta non ci è dato sapere dal momento che a causa del fondo ghiacciato procediamo con cautela senza spingere troppo sull’acceleratore, il contachilometri non è la nostra priorità principale. La strada continua ad attraversare un’anonima piana innevata per finire ai piedi delle montagne, costeggiandole per un tratto, in lontananza, nel grigiore di una giornata senza sole vediamo comparire dei pennacchi di vapore che al nostro avvicinarsi si fanno sempre più imponenti. E’ il calore del terra che fugge via dal campo termale di Strokkur, il geyser più famoso d’Islanda ed uno dei più conosciuti al mondo che, come un vecchio burbero, sbuffa con regolarità ogni cinque minuti. Una colonna di vapore caldo sale e si perde nel cielo con volute che man mano si confondono nel grigio dell’uggiosa mattinata islandese. Acceleriamo quando siamo in vista della nostra meta ed appena arriviamo lasciamo la macchina nell’affollato parcheggio per raggiungere il sito. Non impieghiamo molto, il campo termale è proprio adiacente la strada e così basta percorrere un breve tratto ed eccoci al limitare del bagnato campo d’azione del geyser. Vapore e schizzi d’acqua sono ovunque e bisogna scegliere attenta-

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mente il punto d’osservazione per evitare di finire investiti dalle grandi nubi di vapore che con regolarità riscaldano la fredda aria del mattino. Naturalmente non manca qualcuno che di proposito si posizione proprio dove il getto ricade a terra ma considerando la temperatura dell’aria non proprio primaverile, non reputiamo sia una scelta da prendere con leggerezza. Strokkur è una sicurezza, non tradisce mai, è grande, potente ed anche un pò scorbutico proprio come un vecchio brontolone, a tratti sembra di poterne sentire il respiro affannoso mentre cerca di espellere via l’acqua in eccesso. Mormora, rimbrotta, brontola eppoi esplode tra la meraviglia e gli applausi dei presenti. E’ un vero spettacolo della natura. Il cuore pulsante di Strokkur è nel ventre della terra, decine di metri nel sottosuolo dove l’acqua, per misteriose vie, rifluisce per poi essere espulsa quando magicamente si trasforma in vapore schizzando via come fuoriuscisse dello sfiatatoio di una enorme balena. Anche noi siamo estasiati; essere al cospetto di un simile spettacolo della natura non può lasciare indifferenti. Il getto esplode in aria e nella ricaduta diventa freddo, alcuni schizzi si trasformano velocemente in timidi fiocchi di neve che si sciolgono appena toccano il terreno caldo. Il leggero odore sulfureo, il cuore di un azzurro profondo da dove viene espulso il getto, tutto contribuisce a creare quell’atmosfera che, anche se inquadrata nel carrozzone del turismo di massa, riesce ad esercitare il fascino primordiale di un pianeta in formazione. Strokkur va visitato, è parte dell’Islanda, un marchio di fabbrica che, anche se solo per una volta, deve rimanere impresso nei ricordi di viaggio di ogni visitatore. Tanta gente si accalca tutto intorno al perimetro ma, fortunatamente, di spazio ce n’è in abbondanza per tutti e quindi, anche noi, partecipiamo allo spettacolo più volte. Poi, vista l’ora, decidiamo di tornare verso la macchina camminando tra pozze di acqua gorgogliante e sbuffi di vapore che si levano, un pò ovunque, dal terreno circostante. Qui, in questa zona d’I-



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slanda, la terra ha la febbre ed anche in pieno inverno la neve non riesce ad attecchire in tutta la zona circostante. Una volta in macchina ci rimettiamo in marcia verso un’altra meraviglia, Gulfoss, la cascata dorata, probabilmente per i colori che riesce ad assumere durante i tramonti delle giornate più assolate. Purtroppo per noi non sarà una di quelle giornate e spingendoci verso l’interno il cielo si fà sempre più cupo e la temperatura inizia a precipitare. Quando arriviamo siamo qualche grado sotto zero; il mare è ormai distante e davanti a noi si aprono gli altopiani interni dell’isola, freddi ed innevati fino a primavera inoltrata. Proseguendo, non è difficile capire quando si è prossimi alla cascata. Davanti a noi, avvistiamo una sottile nebbia che si alza dalla terra, questa volta però non è un vapore caldo che svanisce silenziosamente nel cielo ma si tratta di una nube fredda e pesante accompagnata da un rombo sordo che si fa sempre più potente. Gullfoss è una ferita gelida che si apre improvvisamente nell’altopiano Islandese dove le tumultuose acque del fiume Olfusà precipitano sul duro basalto sottostante. La nebbia e gli schizzi che si formano quando l’acqua impatta sulle rocce congelano immediatamente a contatto con l’aria fredda finendo così per imprigionare le scure pareti di roccia che delimitano il canyon condannandolo in un’impenetrabile prigione di ghiaccio. Lo scenario è maestoso ma, anche qui, la natura superba e primordiale di questa parte d’Islanda è intaccata e sacrificata sull’altare del profitto dall’ennesimo grande parcheggio che accompagna lo spettacolo. Nonostante sia piuttosto grande trovare un posto non è così semplice e scontato; decine di autobus e centinaia di macchine sono sparse disordinatamente nell’improvvisato spiazzo coperto dalla neve. Ognuno vende quello che può e l’Islanda ha scelto di barattare la sua anima di terra primordiale a noi turisti ben sapendo che quella è una delle sue poche armi. L’Islanda cala una delle migliori carte che si possa giocare. Sicuramente una

mano vincente. Una terra in balia degli elementi, fustigata da freddi venti artici, schiaffeggiata continuamente da un mare; freddo ed altezzoso e plasmata dall’inesauribile calore che risale dal centro della terra, questa è l’Islanda, un’isola sul mercato che si offre nuda e cruda nella sua maestosa incompletezza e precarietà, una terra sempre al margine, squassata dalle potenti correnti convettive del mantello che qui hanno trovato la forza di squarciare una crosta sottile e che, anno dopo anno, allontana sempre più le due sponde dell’atlantico. Questa è l’essenza dell’Islanda, puro divenire, terra nova, un esperimento a cielo aperto, un laboratorio che attira scienziati e ricercatori alla ricerca di risposte sul come la geologia abbia plasmato il nostro mondo. Abbandonata la macchina tra i cumuli di neve sporca, ci incamminiamo verso la cascata, il rumore si fà sempre più assordante, giungendo a sommergere il chiacchiericcio dei numerosi turisti che sfidano un freddo amplificato ancora di più dalla presenza dell’impalpabile nebbiolina trasportata dal vento. Una passerella di legno, resa scivolosa dal ghiaccio, ci accompagna fino al punto più alto, proprio di fronte alla cascata. E’ tutto molto scenografico e per questo anche estremamente affollato. Un cartello ci avverte che nell’area della cascata non è consentito far volare droni, segno, anche questo, dei tempi che stanno mutando rapidamente. Accostarsi al parapetto è difficile, se non impossibile, per via della folla ma spostandoci solamente di qualche metro riusciamo a conquistare la vista sulla cascata. Finalmente otteniamo anche noi il nostro meritato premio, il nostro posto in prima fila. Gullfoss è anche il limite ultimo dove ci si può spingere, oltre la neve ed il ghiaccio la fanno da padroni. La cascata è il confine del mondo civile, quello del turismo su asfalto, oltre c’è l’altra Islanda, quella dove la neve domina ancora il paesaggio e che con la complicità dei rigori invernali resiste

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all’assalto del carrozzone turistico del golden ring. La strada termina contro una sbarra abbassata, oltre non si può andare, o meglio, lo si potrebbe anche fare sobbarcandosi in prima persona tutti i rischi. Così, contro una barriera termina la nostra corsa, oltre la strada è abbandonata a se stessa, sommersa dalla neve di un inverno che da poco ha iniziato a farsi prepotente e tiranno. Durante la stagione fredda gli altopiani interni restano celati alla maggior parte dei visitatori, solo i più arditi e motivati riescono a spingersi oltre, verso il cuore artico dell’isola. In Islanda il confine è netto, gli altopiani interni restano celati alla maggior parte dei visitatori. Quel piccolo cartello appeso malamente ad una sbarra ci costringe a voltarci non prima però di aver lanciato un ultimo sguardo verso quell’orizzonte indistinto fatto solo di tanta neve. Così anche noi siamo costretti ad accontentarci decidendo di continuare la nostra visita percorrendo il percorso panoramico che consente di esplorare la cascata da molti prospettive differenti ma, con il sole coperto da una compatta coltre di nubi e il vento che spira da nord trascinando con se il gelido abbraccio degli altopiani innevati, scattare delle foto diventa un’impresa difficoltosa. Le gambe del treppiede sembrano soffrire le temperature rigide mentre le batterie della macchina fotografica devono arrendersi alle lunghe esposizioni sotto zero. Riguadagnare la rotta verso sud è un cammino incerto, si potrebbe provare a ripercorrere all’indietro i nostri passi ma avrebbe il sapore di una inutile perdita di tempo. Immagini già viste, noi abbiamo bisogno e voglia di panorami sempre nuovi così, giunti all’altezza di un anonimo bivio, ci immettiamo su una stretta stradina di campagna completamente coperta di neve e ghiaccio con la segreta speranza che si possa trattare solamente di un breve tratto di strada innevato. La macchina sembra reagire prontamente e gli pneumatici invernali aggrediscono bene il fondo incerto e sconnesso.



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Incontriamo uomini a cavallo che sfilano silenziosamente in sella ai loro animali e proseguiamo verso un altrove indistintamente ammantato di bianco. Il traffico è inesistente anche se immancabilmente nei punti in cui il passaggio si fa più difficoltoso ecco spuntare una macchina in transito. Non so se questa sia una semplice casualità, una circostanza dettata solamente dalla malasorte o la conferma della legge di Murphy ma nei tratti più impervi si ha la certezza di non essere mai soli. Ci troviamo in mezzo al nulla, su di una stretta strada appena segnata sulla cartina, senza alcun punto di riferimento ma quando incrociamo un piccolo cartello posizionato a bordo strada vengo colto da un deja vu. Dopo aver percorso qualche decina di metri ricordo di aver letto il nome di quella località che custodisce gelosamente un piccolo segreto. Torniamo sui nostri passi, facendo retromarcia e ci inoltriamo per una strada, se possibile, ancora più stretta di quella appena lasciata e che ben presto inizia ad arrampicarsi sui ripidi versante delle colline. Incerto sulla decisione presa, ostento sicurezza anche quando la strada sembra diventare poco più di un’incerta traccia tra i paletti nivometrici. Il sole compare come in una visione mistica per poi venire nuovamente oscurato dalle nuvole e quando oltrepassiamo una collina veniamo investiti da un’improvvisa, quanto breve, raffica di neve gelata. Si tratta di un momento, di una rapida parentesi ed ecco che in men che non si dica riemergiamo dalla breve tormenta per finire quasi accecati da un sole che domina in uno spettacolare cielo azzurro. Hruni è poco oltre, nei pressi di una piccola chiesa di campagna adagiata placidamente sulla sommità di una collinetta circondata da alberi. Un cartello scritto approssimativamente a mano indica che siamo prossimi alla meta. Un paio di macchine parcheggiate sul ciglio della strada tradiscono tracce di presenza umana che evidentemente ci hanno preceduto. Tutto intorno è silenzio e pace. Il lento cammino di un sole

pigro ci accompagna in una luce dorata che rimbalza impazzita sulla neve candida. Un cartello invita i frequentatori al rispetto del luogo ed alla sua preservazione in maniera abbastanza esplicita. Uno stretto sentiero, una traccia nella neve, ci guida per le ultime, poche, decine di metri fino ad un piccolo riparo sul fianco di una collina dove sgorga una calda sorgente termale. Hruni è uno mille segreti nascosti d’Islanda. Non siamo soli ma è come se lo fossimo, i pochi presenti si stanno godendo il momento magico lontani dal fracasso e dalle folle del classico circuito turistico immersi nel corroborante tepore delle calde acque termali. Non ci sono strutture organizzate, non ci sono spogliatoi, bisogna dimenticarsi per un attimo dei classici comfort della civiltà ed immaginarsi il caldo abbraccio di un torrente che sgorga tra le pietre e che cerca di guadagnarsi la strada verso il mare attraverso un panorama immacolato ricoperto dalla neve. Il tiepido respiro della terra è presente ovunque e le ampie volute di vapore segnano il percorso dell’acqua che si perde verso valle. Se l’ambientazione è da favola, il resto della situazione è piuttosto essenziale, anzi spartana a voler essere più precisi ma racchiude in sé il fascino dell’Islanda più autentica. La frugalità del momento sembra prendere il sopravvento ed in fondo è solo una questione di organizzazione, di trovare quel coraggio per tornare un pò allo vita allo stato brado. Bisognerà gettare il cuore oltre l’ostacolo e combattere con la durezza del primo impatto tornando ad una dimensione più selvaggia. Non bisogna soffermarsi troppo sui particolari, sulle regole e le apparenze quando si è giunti fin qui, sfidando il freddo, il vento e la neve, l’ultima cosa che deve essere presa in considerazione è il pudore. Quando ancora tutte queste considerazioni si rincorrono nella mia mente mi rendo conto di essere praticamente pronto per entrare in acqua. L’abbigliamento e la presenza scenica forse non saranno da rivista patinata ma ritengo che le mutande

in luogo del costume possano essere confacenti per questo fuori programma un pò sopra le righe. Basta qualche passo nel fango e subito sono in acqua. Martinica, invece, è più meditativa ed ha bisogno di tempi più dilatati, e necessita di prendere confidenza con i luoghi in maniera più circospetta, quasi con diffidenza. E’ solo una questione di convinzione, di credere profondamente che il freddo possa essere affrontato in maniera accettabile, so che impiegherà qualche minuto in più per motivi di semplice acclimatamento. E’ sufficiente non farle fretta, ormai conosco i suoi approcci in queste situazioni, lei ha la necessità di avere tutte le sue cose in ordine e, soprattutto, deve essere pienamente convinta prima di trovare la forza per fare il primo passo e affrontare simili sbalzi termici. E’ inutile nasconderci, Martinica non ha mai amato troppo il freddo sulla pelle e questa situazione non gli si addice troppo, anche perché per noi, animali ormai urbanizzati, situazioni come questa risultano essere piuttosto inusuali. Qualche mio rimbrotto viene fermato sul nascere da un sguardo perentorio, poi finalmente arriva anche il momento del suo ingresso in acqua. In realtà parlare di immersione è una vera enfatizzazione del gesto, dettato prevalentemente dalla particolarità del luogo. La piccola pozza però riesce a contenere, più o meno, comodamente entrambi e permette di cullarci per un pò, scaldati dal piacevole tepore delle acque termali, accarezzati da un tramonto che sembra non voler finire mai. La sorgente sgorga dal fianco della collina dove posizionando delle pietre si è provveduto a costruire una vasca più ampia e profonda ma che a quest’ora è immersa nell’ombra oltre che, momentaneamente, occupata da altre persone. Dopo le folle di Strokkur e Gullfoss trovarsi nella quasi completa solitudine di Hruni ha un sapore magico ed arcano. Sdraiati nel morbido letto di sabbia vulcanica e coccolati dal l’abbraccio dell’acqua calda assaporiamo momenti irripetibili e vista la situazione non posso esimermi dal completare

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l’opera provando ad esibirmi in un corroborante tuffo nella neve. Tra l’ilarità dei presenti mi lancio, sgraziatamente, nella gelida morsa della neve che, al primo impatto, sembra quasi non avere temperatura. L’acqua calda sulla mia pelle evapora dandomi l’aspetto onirico ed anche pò demenziale del supereroe da fumetto fuoriuscito dalle fiamme dell’inferno. L’azione non passa comunque inosservata e genera un inaspettato effetto emulativo con tanto di tuffi e piroette nella neve quasi fosse una gara a chi voglia rendersi più ridicolo. Come prevedibile quei momenti generano una sfida senza vincitori in quanto, nel cercare di raggiungere livelli di dignità infimi, alla fine si riesce a stare tutti indegnamente sullo stesso, basso, gradino. A questo punto decido di provare l’impossibile invitando anche Martinica ad unirsi alla singolar tenzone o almeno a provare a sfidare i propri limiti. Cerco di spronarla ad un passeggiata fuori programma sulla neve ma ogni tentativo cade nel vuoto, troppo invitante e rilassante il caldo abbraccio della sorgente per abbandonarlo. Fin dall’inizio sapevo che sarebbe stato un tentativo vano così dopo alcuni minuti decidiamo che per noi è giunto il momento di abbandonare Hruni e raggiungere la nostra prossima meta. Qualche altro sparuto turista, nel frattempo, ha seguito le nostre tracce ed ha raggiunto la sorgente e ci sembra giusto lasciar godere di un simile meraviglia anche loro. Le operazioni di vestizione, vista la precarietà del luogo, sono piuttosto macchinose e così, non senza difficoltà, torniamo ad indossare i nostri vestiti e riprendiamo il viaggio in macchina. Il tragitto prosegue in una continua alternanza di sole, nebbia, neve e vento senza senso. Tutte le stagioni in una ma sono comunque inconvenienti di breve durata, dopo alcuni chilometri infatti riusciamo a raggiungere finalmente una strada che possa essere nuovamente definita tale. Una volta tornati a calcare un asfalto più consono a tale definizione iniziamo a macinare chilometri con maggior velocità ed in breve riusciamo a raggiungere il ring che in questo

tratto attraversa, secondo noi, la parte meno interessante dell’isola. Non c’è mare all’orizzonte, tantomeno sono in vista montagne, così seguendo il nastro d’asfalto ci dirigiamo ad oriente verso Porsmork ed i grandi vulcani meridionali. Un lungo tramonto artico ci sorprende mentre siamo ancora in strada. In lontananza le calotte glaciali dei grandi vulcani cominciano a dominare il panorama. Sul far della sera il ring diventa, se possibile, ancora meno affollato di quanto di solito non sia. Incrociamo gli ultimi bus turistici che puntano in direzione Reykjavik dopodiché ci troviamo ad essere i padroni assoluti della strada. Quando ormai la calotta dell’Eyjafjallajokull sovrasta l’orizzonte capiamo di essere in prossimità della nostra metà. La vallata di Porsmork si addentra verso il centro dell’isola sfiorando le pendici del grande vulcano che ha eruttato per l’ultima volta nel 2010. Illuminata da un potente faro, la cascata di Seljalandsfoss ci indica che è il momento di svoltare e così imbocchiamo la strada che ci condurrà al nostro albergo. Nel bianco più assoluto della copiosa neve caduta nelle giornate precedenti, ci addentriamo in una notte rischiarata quasi a giorno e quando la strada termina capiamo anche di essere giunti al termine delle nostre fatiche giornaliere. Lasciamo l’auto e ci accingiamo a trascorrere la nottata in un bel bed&breakfast di cui siamo gli unici ospiti, la proprietaria ci racconta che visto l’imminente peggioramento delle condizioni meteo non ci sono state moltissime prenotazioni e, di quelle poche che c’erano, quasi tutte erano state preventivamente cancellate. Gettando uno sguardo al cielo veniamo rassicurati dalla vista delle stelle che brillano in cielo anche se la TV locale continua a parlare di una potente tempesta artica prevista per l’indomani mattina e che starebbe mettendo in allerta tutto il paese. Guardiamo il notiziario ed effettivamente una tempesta di neve accompagnata da fortissimi venti è prevista per la metà del mattino successivo ed andrà ad imperversare sull’intera parte meridionale dell’i-

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sola, proprio nel tratto che avevamo deciso di percorrere il giorno successivo. Ci troviamo così ad affrontare il dilemma se restare nel B&B o tentare la sorte cercando di raggiungere Vik. Le notizie che riusciamo a reperire non sembrerebbero delle migliori ed infatti la polizia prevede di dover chiudere il ring fino al termine dell’allerta meteo. Non sembrano esserci molte soluzioni se non restare oppure, penso, bisognerebbe alzarsi molto presto per anticipare gli eventi avversi. Così decidiamo di lasciare le valigie intatte e sfidare la fortuna l’indomani mattina. Prima però di goderci il nostro meritato riposo decidiamo di cucinare una cena calda, la prima in Islanda, per poi raggiungere la cascata di Seljalandsfoss non troppo distante. Con il sole ormai tramontato e le stelle che brillano alte nel cielo, la strada da innevata è diventata completamente ghiacciata causa della temperatura precipitata di molto gradi sotto lo zero. Procedendo con prudenza riusciamo a raggiungere l’ampio parcheggio che permette una comoda visione di questo spettacolo naturale. Seljalandsfoss è famosa per diverse ragioni non ultima quella di essere facilmente raggiungibile essendo proprio a ridosso del ring anche se la caratteristica che attrae il maggior numero di turisti è la possibilità di visionarla praticamente a trecentosessanta gradi. Un sentiero, infatti, permette di raggiungere la parte posteriore della caduta d’acqua avendo un punto di vista davvero inusuale specie durante le ultime ore del giorno quando la luce infiltrandosi nella colonna d’acqua in caduta crea effetti cromatici multicolore. Purtroppo quando giungiamo sul posto l’unica luce presente è quella del grande faro che illumina a giorno la cascata donandogli un aspetto vitreo, quasi metallico; una visione decisamente meno romantica ed affascinante di quanto ci potessimo aspettare; l’unica cosa positiva è che vista l’ora tarda siamo praticamente soli. La tentazione di scendere per provare l’avventura è molto forte ma subito ricevo il diniego di Martinica che tra freddo e stanchezza


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proprio non se la sente di scendere ma preferisce, giustamente, il caldo tepore della macchina. Naturalmente io non sono d’accordo e appena sceso dalla macchina mi avvio in solitaria verso la cascata con il ghiaccio che scricchiola sotto i piedi ad ogni mio passo. Purtroppo mi rendo conto che fare il giro intorno alla cascata è estremamente impegnativo per via della neve e del ghiaccio che vi si è accumulato. Provo qualche scatto cercando di mettere in risalto qualche particolare ma senza essere mai realmente soddisfatto. Vista la situazione ritengo sia meglio chiudere il cavalletto e, con un bottino fotografico piuttosto magro, dirigersi a testa bassa verso la macchina quando, in un cielo ormai non più limpidissimo, comincia una danza surreale. Inizialmente faccio fatica a rendermi conto di quanto stia realmente accadendo, il cielo sembra vibrare come scosso da un impalpabile fremito elettrico. Una danza eterea e surreale, quasi intangibile mi lascia il dubbio e la perplessità dello spettacolo che sta andando in scena sopra le nostre teste. Un sottile strato di nuvole rende la scena ancora più incerta, e non riesco a definire chiaramente il lungo serpente bianco che si snoda nel cielo. La mia perplessità è alimentata anche dal fatto che non sembrano esserci colori a brillare nel cielo. E’ una strana notte, quasi in bianco e nero, e così per avere una conferma di quello che sta succedendo sopra la mia testa, decido di aprire il cavalletto e posizionare la macchina selezionando un tempo d’esposizione adeguatamente lungo. Fatto ciò non resta che attendere comparire l’immagine sul display e magicamente quel sottile nastro nel cielo si trasforma e perde la triste patina grigia per accendersi e brillare di un verde intenso. Ora finalmente tutto ha un senso, stiamo ammirando la nostra prima aurora boreale nonostante qualche iniziale difficoltà per le nubi e la sua improvvisa comparsa che ci aveva colti completamente impreparati. No ci possiamo lamentare, un finale con i fuochi d’artificio per chiudere la degnamente la serata.

Ancora oggi, a mente fredda, quel nostro primo incontro con l’aurora boreale è un’emozione difficile da raccontare. Una visione che ha fatto passare tutto in secondo piano, anche il fatto che, con l’avanzare della sera, il freddo si era fatto molto più pungente. Non è il caso di tergiversare troppo così decido di affrettarmi a raggiungere la macchina per avvisare Martinica che lo spettacolo che ci aveva spinto fino a queste latitudini aveva avuto inizio. Trovo Martinica vicino la macchina, al gelo, anche lei sembra essere rapita da quanto sta accadendo sopra le nostre teste. Francamente non avevo idea a cosa saremmo potuti andare incontro e la cosa che più mi colpisce è l’essenza stessa dell’aurora, un’immateriale spirito etereo che sembra essere dotata di vita propria, sembra quasi danzare solcando il cielo in un moto armonico governato da oscure leggi celesti. Provo a fare ancora qualche foto ma mi rendo subito conto che non saranno gli scatti della vita, non ci aspettavamo di vederla stasera ed in realtà non sapevamo cosa cercare e così rimaniamo estasiati ad ammirare lo spettacolo finché il cielo sembra gradualmente spegnersi. Emozionati e soddisfatti decidiamo di tornare verso l’albergo anche perché l’ora si è fatta piuttosto tarda. Facciamo fatica a trovare la strada che, con la notte, si è fatta tutt’uno con il bianco panorama circostante. Di tanto in tanto qualche paletto e alcuni cartelli ci ricordano di essere ancora su una pista segnata anche perché, sotto il ghiaccio, non c’è traccia d’asfalto ma solo un lungo tratto di una strada sterrata. La valle di Porsmork è circondata da due grandi castelli vulcanici, due calotte che ricoprono caldere vulcaniche e da cui, spesso, si sono originati i temuti jökulhlaup, le potenti ed inarrestabili alluvioni glaciali che hanno la forza e la potenza di spazzare via qualsiasi cosa incontrino sul proprio cammino. La genesi di uno jökulhlaup è tanto singolare quanto violenta ed avviene quando si sviluppa un’eruzione vulcanica

sub glaciale in grado di fondere il ghiacciaio dalla base, minandone le fondamenta. Purtroppo in Islanda questa non è un’eventualità rara dal momento che i maggiori vulcani sono celati al di sotto di grandi masse di ghiaccio dello spessore anche di diverse centinaia di metri. Queste alluvioni sono veri e propri mostri della natura in grado di sprigionare una forza devastante capace di distruggere qualsiasi cosa si trovi sul loro cammino. Uno spettacolo terribile ma al tempo stesso affascinante in tutta la sua forza distruttrice. Procediamo la marcia lentamente quando ad un tratto l’aurora si riaccende di nuovo anche se il cielo sembra voler minacciare nuovamente neve. Proviamo uno scatto, due ma poi decidiamo di raggiungere l’albergo, l’indomani il meteo non sembra promettere nulla di buono, non dobbiamo dimenticare dell’arrivo della tempesta artica che si abbatterà sull’intera costa meridionale impedendo quasi tutte le attività. Sperando per il meglio ci infiliamo nel letto per dormire ma nella notte, il vento che scende dalle montagne, sembra volerci annunciare, quello che sarà l’indomani. Rumori sinistri e stridii inquietanti disturbano il nostro sonno. Gli spiriti dell’inverno artico sembrano bussare alla nostra porta e quando le prime luci di un’alba, tardiva a queste latitudini, rischiarano la nostra stanza ci troviamo di fronte ad un panorama inaspettato.

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LA TEMPESTA PERFETTA Il forte vento della notte sembra aver avuto un effetto caotico sul panorama circostante, spazzando e liberando alcune zone per sommergerne altre. Sembra di osservare una caotica distesa di onde congelate, un mare pietrificato. Non è il momento di sorprendersi ed indugiare troppo, bisogna avere la prontezza di sfruttare ogni singolo minuto e quindi, dopo aver consumato una velocissima colazione, siamo già pronti per tentare l’avventura e sfidare i venti polari. Per ogni possibile evenienza la proprietaria del bed e breakfast ci ha promesso ospitalità nel caso fossimo ricacciati indietro dalla tempesta e con questa ulteriore rassicurazione partiamo un pò più tranquilli. La strada è coperta da una coltre di neve vergine che la macchina percorre agevolmente nell’ovattato

silenzio del mattino. Siamo i primi a affrontare la strada in parte gelata ed in parte sepolta sotto la neve fresca. Attraversare quel paesaggio ibernato dà la sensazione di essere gli ultimi sopravvissuti in mondo post apocalittico. Ci sentiamo come dei fuggitivi alla fine del mondo. Abbandonato il tratto innevato, quando arriviamo sulla strada principale, non abbiamo la sensazione di trovarci in condizioni climatiche e di percorribilità troppo proibitive, sicuramente difficoltose ma non tali da rendere impossibile la marcia. Ci sono neve e vento ma quando si viene a ridosso del circolo polare artico non si possono pretendere condizioni meteorologiche troppo clementi. Senza indugiare oltre imbocchiamo il ring direzione est, davanti a noi la strada è

deserta. Così inizia la nostra sfida controvento. Dopo qualche chilometro le condizioni iniziano a peggiorare drasticamente, forse finora eravamo stati eccessivamente ottimisti. Forti raffiche di vento trasportano minuscoli grani gelati che non possiamo neanche definire neve. Il fondo stradale, dapprima parzialmente libero viene inghiottito dal ghiaccio e dalla neve che rendono sempre più difficoltoso procedere. I paletti nivometrici ci scortano come un’infinità di derelitti soldati di un esercito in penosa ritirata. Tutto intorno il panorama perde di significato, indistinto e confuso nella tormenta. La velocità di marcia si abbassa drasticamente e, dopo venti minuti, ci troviamo ad avanzare a trenta chilometri orari. L’ottimismo in questi frangenti finisce in secondo


LA TEMPESTA PERFETTA

piano mentre guido cercando di ostentare una sicurezza che viene sempre meno e spesso sono costretto a tenere talmente stretto il volante da sentire i tricipiti indurirsi per lo sforzo e la tensione. La nostra meta Vik, è novanta chilometri più ad est, facendo dei rapidi calcoli procedendo a questa velocità ci vorranno quasi tre ore. Il nervosismo c’è ed ora è chiaramente percepibile, quasi come fosse un terzo, ingombrante, compagno di viaggio. Le battute per sdrammatizzare sono inutili ed in certi momenti sembrano persino peggiorare la situazione. Io sono ostinatamente convinto che proseguire, nonostante le evidenti difficoltà, sia stata la decisione migliore e non solo per un mero calcolo di convenienza. Tornare indietro avrebbe poco senso e comunque anche in caso di difficoltà insormontabili avremmo sempre la possibilità di fermarci ed aspettare un miglioramento delle condizioni meteo. Martinica non è completamente d’accordo con la mia analisi, ha paura ed ha ragione ma si fida e questo mi dà forza. In certi frangenti non si può avere paura in due, o meglio, uno dei due deve avere meno timore. Bisogna essere più temerari e non si tratta di coraggio ma semplicemente di convinzione, di gettare il cuore oltre l’ostacolo ed avere l’incoscienza di osare. In fondo sulla strada siamo soli e questo è già un fattore a nostro favore, padroni del nostro destino, la solitudine scongiura molti dei rischi legati alla presenza di altri veicoli. La marcia procede a rilento tra folate che spostano vistosamente la macchina e vecchie tracce di pneumatici ormai ghiacciate che, a volte, ci guidano come un treno senza controllo lanciato su binari incerti. La difficoltà è estrema ed è molto più facile parlarne oggi, a giochi conclusi, che essere presente in quel momento. La guida richiede una elevata concentrazione tanto che, dopo un’ora inizio a sentire le braccia farmi male per colpa dell’acido lattico. A tratti perdo il controllo della macchina e per alcuni, interminabili secondi, restiamo in balia degli elementi ma, tutto sommato, ci rincuora il fatto che ogni minuto che passa au-

menta la strada messa alle nostre spalle. La trazione permanente del nostro fuoristrada ci dà un grosso aiuto e forse solamente la mancanza di confidenza con condizioni così al limite rende il nostro viaggio più difficoltoso. Martinica a questo punto comincia ad avere veramente paura, non fa nulla per nasconderlo e non sarebbe nemmeno giusto farlo. Ho sempre reputato la paura come un stato d’animo nobile che permette di avere una migliore percezione del rischio. Ha paura solo chi ha una prospettiva per il domani. Non sono più i giorni dell’oggi senza pensare al domani, non siamo più bambini sprovveduti. Ormai ad ogni andata deve corrispondere un ritorno, non abbiamo più voglia d’improvvisare, non più, non ora. Anche qui, in mezzo alla tempesta, non dobbiamo dimenticare che non siamo più fini a noi stessi, siamo qualcosa di più, ormai siamo parte di una famiglia ed a casa, molto lontano da qui, abbiamo qualcuno che, anche se, inconsapevolmente, ci aspetta. Anche per questo la paura non è sempre un male necessario, in alcuni casi è anche una polizza stipulata inconsapevolmente per non smarrire mai la strada verso casa. Due lampeggianti in lontananza rappresentano l’unico segno di presenza umana negli ultimi chilometri, chilometri in verità estremamente duri. Avanzare è stata principalmente una questione di volontà. Ora possiamo anche dirlo con serenità, in certe condizioni la circolazione stradale dovrebbe essere interrotta. Il pensiero che la strada fosse, in realtà, chiusa è un dubbio che mi accompagna fin dal mattino, in questo caso noi saremmo in violazione di qualche disposizione locale e questo fatto aggiunge ulteriore tensione. Gli Islandesi su certe cose non sono soliti scherzare troppo. Un brivido freddo mi corre lungo la schiena al solo pensiero di una eventuale contravvenzione, anche perchè visto il tenore delle tariffe Islandesi ci potrebbero essere tutti i presupposti per rovinarsi la giornata, se non l’intera vacanza. La macchina della polizia procede veloce ed in breve ci raggiunge e sorpassa, completamente incurante della nostra

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presenza sulla faccia della Terra, inondando il nostro parabrezza di neve. Tiriamo un sospiro di sollievo rispetto al potenziale pericolo scampato e continuiamo la marcia sfidando il vento e la neve. Qualche chilometro più avanti torniamo a scorgere i lampeggianti squarciare il caos della tempesta, scorgiamo le brillanti luci blu alternate ad altre di colore arancio e non capiamo cosa stia accadendo fin quando non siamo nei pressi della scena. Un pesante carro gru, di traverso, blocca l’intera carreggiata mentre con il grande braccio tenta di sollevare e rimettere in carreggiata un bus turistico finito adagiato su un lato nella scarpata. Subito dopo il nostro arrivo due ambulanze partono in fretta e furia mentre uomini infagottati nelle loro sgargianti divise ad alta visibilità continuano a lavorare in condizioni a dir poco sfavorevoli. Rimaniamo a distanza di sicurezza per non ostacolare le operazioni di recupero anche perchè, arrivati a questo punto, non ci resta fare molto altro che attendere che la strada venga liberata. Attraverso i vetri appannati della macchina, tra neve e goccioline d’acqua osserviamo l’intera scena quasi fossimo spettatori sbadati di una qualsiasi serie televisiva e non ci resta che sperare che non ci siano stati feriti gravi. Questo è il solo pensiero che scorre nei nostri pensieri, anche se, per dovere di cronaca, va detto che, spesso, molti bus turistici, per completare i loro tour, procedono a velocità che non sono proprio consone a questo tipo di strade, in special modo con cattive condizioni meteo, giungendo ad essere non solo un pericolo per sè ma anche per tutti gli altri veicoli sulla strada. I soccorritori lavorano febbrilmente ed in breve riescono a liberare la strada cosicché non siamo costretti ad attendere troppo. Quando il pullman piuttosto malconcio viene riportato sulla carreggiata, veniamo fatti passare per continuare il nostro viaggio in direzione Vik. Fortunatamente da questo punto in avanti la strada sembra essere in condizioni leggermente migliori così decidiamo anche di aumentare un pò l’andatura. Sono tre ore che siamo in macchina e


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finalmente un cartello ci indica che siamo prossimi alla fine di questa nostra odissea su strada. Una ripida discesa che conduce al mare è l’ultimo ostacolo prima di raggiungere la città. La carreggiata, sovrastata dalla montagna è completamente ghiacciata ed è più simile ad una pista da sci che ad una strada vera e propria strada. Procedendo con qualche brivido superiamo anche questo ultimo ostacolo. Al termine della discesa, quando arriviamo nei pressi delle prime casette della città, un posto di controllo della polizia blocca tutte le vetture che avessero intenzione di mettersi in marcia in direzione di Reykjavik. Giunti all’unica stazione di servizio presente per centinaia di chilometri ci rendiamo conto della reale situazione e della nostra sfacciata fortuna. Il traffico nel tratto di strada da noi appena percorso era stato completamente interdetto e la polizia aveva provveduto ad istituire posti di blocco per chiudere la strada. La nostra fortuna, o forse sarebbe meglio parlare di semplice casualità, è stata quella di esserci immessi sul ring in un punto già oltre il blocco della polizia trovandoci, in questo modo, in marcia sulla strada già chiusa. La solitudine, nel mondo moderno, non è mai una mera casualità. Entrare nella stazione di servizio è come entrare in un saloon di confine nel vecchio west, tra avventori bagnati e dipendenti sfacciatamente burberi. Manca il pianista ma un odore di carne arrostita e patatine fritte rapisce il nostro olfatto quasi fosse la pietanza più prelibata del mondo. All’inizio veniamo accolti tra la generale indifferenza, i nostri passi sono sfiorati solo da qualche rapida occhiata distratta. Tutti sono assorti nel fissare il monitor che provvede ad informare in tempo reale i presenti sulle condizioni del meteo e sulla percorribilità delle strade. Solo quando chiediamo di fare rifornimento, perché nel tratto di strada che va da Selfoss a Vik non abbiamo trovato pompe di carburante, i presenti iniziano a capire che abbiamo attraversato la tempesta. Così alcuni dei presenti si fanno coraggio e ci vengono incontro chiedendo informazioni sullo stato della

strada, sui tempi di percorrenza e sulle probabilità di riapertura. A questo punto siamo noi ad intuire quanto successo, capiamo solo allora di essere stati veramente i primi esseri umani ad aver raggiunto Vik attraverso la bufera del mattino. Qualche passo e siamo al centro di un piccolo capannello di improbabili avventori alla fine della galassia. Indico il monitor segnalando i tratti che abbiamo trovato più impegnativi, dò qualche ragguaglio su velocità e tempi cercando di essere il più preciso possibile in un inglese approssimativo anche a causa della tensione che ha prosciugato, non solo letteralmente, molte delle mie energie. Siamo tutti riuniti intorno al televisore, l’iniziale ritrosia è ben presto vinta ed in breve siamo lì a commentare i tratti contrassegnati in nero che sono la maggioranza ma che sembrano essere ormai alle nostre spalle, mentre fortunatamente da Vik verso il parco di skaftafell le condizioni sembrano essere leggermente migliori. Dopo aver effettuato il rifornimento ed aver goduto dei nostri cinque minuti di gloria decidiamo di riprendere la marcia per lasciarci definitivamente la tempesta alle spalle, questo però non prima di un velocissimo passaggio presso la famosa spiaggia nera. Purtroppo, per quanto il tempo sia leggermente più clemente, le condizioni non sono ancora tali da permettere di fare nemmeno un breve giro a piedi. Il vento forte imperversa soffiando rabbiosamente dal mare spazzando ogni cosa e sulla spiaggia imperversa, libero da ostacoli, acquista forza accompagnando una nevicata fin troppo caotica. In simili condizioni è impossibile anche solo pensare di scendere per fare un giro, meglio soprassedere, così concludiamo la breve sosta a Vik e decidiamo che è venuto il tempo di avventurarci nuovamente verso oriente. Dopo Vik la strada procede dritta, parallela alla costa ed effettivamente sembrerebbe essere in condizioni decenti, solo un pò di neve e l’immancabile vento che ci accompagna fin dal primo mattino. Ora procediamo ad una velocità più sostenuta ma quando abbiamo percorso solo qualche decina di chilometri

ci troviamo, di nuovo, in mezzo alla tormenta che sembra riprendere nuovo vigore ed intensità, proprio come quella che ci aveva investito nella mattinata appena trascorsa. Giunti a quel punto, arrivati fin oltre Vik eravamo in ballo e non avevamo troppe possibilità tra cui scegliere. Avremmo potuto proseguire spinti dalla mia testardaggine e dalla convinzione che andando incontro alla tempesta saremmo riusciti a venirne fuori in minor tempo oppure fermarci o tornare indietro. L’attesa non è sempre la tattica migliore ed osare può essere una soluzione tanto avventata quanto intelligente. Così, come nella vita, anche qui decidiamo di scommettere nel proseguire ed affrontare una delle sfide più azzardate che ci siamo trovati ad affrontare finora. Il vento, con il passare dei chilometri, si fa più teso e violento e quando abbandoniamo la costa per inoltrarci nell’arido e piatto deserto artico ci troviamo completamente esposti alla furia degli elementi. Una volta immersi nella desolazione del Sandur ci troviamo isolati in campo aperto dove il vento può dare libero sfogo alla sua potenza con estrema veemenza. E’ un vero e proprio scontro, Davide contro Golia e noi, spavaldamente, affrontiamo il mostro nordico lanciandoci contro vento e neve all’ennesima potenza; la forza e la furia del vento fanno si che la neve non riesca ad accumularsi in quantità tale da rendere le strada del tutto impraticabile. I Sandur Islandesi sono l’analogo di un deserto africano, una fredda distesa di desolata sabbia vulcanica battuta da potenti venti, popolata soltanto da poche stentate piante e rarissimi animali. I Sandur non sono altro che il risultato dell’accumulo nei millenni dei depositi alluvionali di cenere e detriti vulcanici trasportati dalle acque di fusione dei ghiacciai. Polveri, sabbie e ceneri prodotti dalle eruzioni vulcaniche trasportate dal vento e dall’acqua a formare pianure che si estendono per chilometri. Chilometri di nulla solcati soltanto dalla sottile striscia d’asfalto del ring, un piccola cicatrice sulla superficie bruna di un pianeta alieno. Procediamo faticosamente perdendo

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THE GOLDEN RING

quasi la cognizione temporale, i minuti si dilatano e la mente sembra confondersi , quasi ipnotizzata dalla strada che perde inghiottita dalla neve. Come in una bizzarria spazio temporale gli istanti sembrano distorcersi mentre avanziamo, certe volte a sobbalzi, contro il vento che soffia come un toro indemoniato. Tutto quello che ci accade intorno resta celato alla nostra vista, oltre noi stessi e la tempesta è terra incognita, non ci sono d’aiuto nemmeno i cartelli stradali, trasformati dagli elementi in tremolanti fantasmi congelati. Continuiamo percorrendo ancora altri chilometri ma quando arriviamo al cospetto del gigante infuriato siamo costretti ad arrestare la nostra marcia. Inutile nascondere la verità, ammetto, in quel frangente di aver avuto bisogno di una pausa per far riposare gli occhi e le braccia e non sò se sia stata più la tensione o il vento ad avermi provato. Non possiamo proseguire ancora per molto, non vediamo l’ora di arrivare, che tutto sia finito e di tornare a vedere la grigia monotonia di una strada asfaltata sgombra dalla neve. Anche Martinica è stanca, lei, in verità, non sarebbe neanche partita ed a questo punto non posso nemmeno dargli torto ma a questo punto è meglio tacere. Con la vettura in sosta le raffiche di vento si fanno ancora più impressionanti, a tratti la macchina è scossa con tale forza da darci la sensazione ed il timore di poter scaraventata in aria e volare via, quasi fosse un giocattolo. Sono momenti a tratti drammatici ma comunque ripartiamo. Giunti all’ombra di Skaftafell, dove i venti scendono direttamente dalla calotta glaciale del Vatnajokull la tempesta arriva al suo apice. Siamo al gran finale, un crescendo dove le forze della natura in concerto cantano all’unisono e si fanno gioco di noi piccoli umani insolenti. Quando la nostra resistenza è messa dura prova e le nostre forze sono ridotte al lumicino, ecco finalmente la violenta cacofonia giungere alla fine. Gli artigli del vento iniziano a graffiare meno, il ruggito della tempesta comincia a scemare. La strada seppur in condizioni pessime non peggiora e nel cielo le nuvole cominciano a mollare la

presa e la visibilità inizia a migliorare. E’ quasi buio quando, dopo tante difficoltà, iniziamo a scorgere la luce in fondo al tunnel, la strada volge in prossimità del mare e lentamente torniamo a riveder le stelle. La strada non è più un’unica lastra di ghiaccio ma gli pneumatici tornano a calcare l’asfalto. Sorpassata Hof, uno sparuto gruppo di fattorie ai piede delle montagne intuiamo che il peggio è passato, da qui in avanti la strada inizia ad essere in discesa, alla fine la nostra perseveranza è stata ripagata. La tempesta sembra aver ormai mollato la presa. Lentamente la tensione accumulata si sgonfia ma restiamo cauti per prevenire brutte sorprese, meglio essere sempre vigili, almeno fin quando i pneumatici iniziano a mordere un pò d’asfalto e la guida si fà più sicura. Percorriamo il restante tratto di strada con il giorno che ormai volge a sera e quando alla fine arriviamo in vista del ponte che scavalca lo sbocco al mare della laguna di Jokusarlon ormai sta svanendo anche le ultime pallide luci del tardo pomeriggio Islandese. Ci concediamo una sosta per un rapido giro nella solitudine più assoluta. Solo vento e silenzio, al freddo non sembriamo far caso, mentre tra grandi pozzanghere e cumuli di neve facciamo la conoscenza con Jokusarlon. E’ solo una breve sosta giusto per fare una pausa e alleggerire il carico di stanchezza di una giornata, francamente, estenuante. Facciamo pochi, timidi, passi accompagnati da una pessima luce che a malapena riesce a penetrare la spessa coltre di nubi basse e cupe. Vista la pessima visibilità e con lo sguardo che non riesce a spaziare oltre i primi iceberg, decidiamo di salutare la laguna e torniamo in macchina con la certezza che questo sarà soltanto un arrivederci. L’appuntamento è soltanto rimandato all’indomani. Ora mancano gli ultimi chilometri, l’ultimo sforzo di questa giornata che sembra eterna. Quando raggiungiamo il B&B prenotato per la notte siamo completamente sfiniti, praticamente svuotati di qualsiasi energia vitale, il nostro unico desiderio è quello di trovare un letto caldo per poter dormire e

lasciarci definitivamente alle spalle una giornata che, senza esagerare, potremmo definire campale. Nella vita mi è capitato più volte di guidare in situazioni difficili ma, mai prima di questa giornata, mi ero trovato in una situazione così al limite, mai così tante difficoltà concentrate in un unico viaggio. Prima che si chiuda definitivamente il sipario su questa giornata, per non farci mancare proprio nulla, concludiamo con un’ignobile cena a base di zuppa liofilizzata che mal ci ripagata di tutti gli sforzi fatti, ricordo anche confusamente di aver mangiato dei wurstel ma su questo non metterei la mano sul fuoco a causa dei ricordi sbiaditi dalla stanchezza. Non è un gran finale, forse è semplicemente inutile tirarla troppo per le lunghe, a questo punto non desideriamo altro che riposare un po, così cullati nel caldo letto di questo B&B disperso nella pianura meridionale Islandese ci nascondiamo tra le coperte in attesa dell’arrivo di morfeo. Il sonno arriva velocemente, senza far alcun rumore, come un fantasma silenzioso e gentile che viene a rapirci per portarci nel suo mondo con un tocco leggero, senza quasi far sforzo. Noi stremati non abbiamo, ne la forza, ne la volontà di opporci e da qui in avanti sono solo i sogni ad accompagnarci per tutta la notte fino all’indomani.

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Quando la sveglia suona la stanchezza non ci ha ancora abbandonato ed alzarci dal letto è un’impresa tutt’altro che semplice anche per me, vecchio orso, figurarsi per Martinica per cui la partenza potrebbe tranquillamente essere rimandata di un paio d’ore. Purtroppo non c’è tempo, noi non abbiamo mai tempo, le nostre tabelle di marcia sono sempre troppo compresse per poterci permettere anche le più innocenti perdite di tempo. Simili lungaggini sono affare per turisti non per i viaggiatori. A queste latitudini i primi raggi di luce fanno fatica a prendere possesso del giorno. Verso nord, le ultime propaggini orientali del Vatnajokull, scivolano lentamente verso valle con l’incedere lento ma inarrestabile della poderosa lingua di ghiaccio che si arena nella rinsecchita e giallognola pianura islandese. Dall’alto di una piccola collina scorgiamo un piccolo branco di cavalli che si stringono per combattere il freddo. Sulla cime della collina siamo soli, come stoiche vedette nella fredda steppa siberiana. Tutto intorno silenzio, interrotto solo dal sibilo tagliente e gelido del vento. Holmur è immersa nel freddo e nel nulla che rende tutto il panorama, se possibile, ancora più glaciale. Quando ci mettiamo in macchina il ghiacciaio alle spalle del B&B è ancora immerso nella fredda e sonnacchiosa luce azzurrognola dell’alba. Anche noi, dopo l’impatto iniziale, ci stiamo finalmente abituando alle lunghe albe nordiche. Il ring è ghiacciato ma sgombro, sulla strada non c’è nessuno tranne noi e così puntiamo decisi verso la nostra prossima metà, la spiaggia di Jokusarlon e quella laguna glaciale che abbiamo appena sfiorato solo qualche ora prima. Purtroppo, nonostante la sveglia mattutina, ci rendiamo ben presto conto che, difficilmente, riusciremo ad essere sul posto all’alba. I primi raggi di sole stanno ormai sconfiggendo le nubi pigramente adagiate appena sopra l’orizzonte. Sfiliamo veloci sulla strada deserta ma quando siamo in prossimità della spiaggia troviamo un’amara sorpresa; premesso

che sapevamo fin da principio di non poter essere ne i primi tantomeno gli unici ad arrivare fin qui ma mai ci saremmo aspettati di assistere allo spettacolo che ci si sarebbe prospettato di lì a poco. Giunti nei pressi della spiaggia scorgiamo decine di macchine parcheggiate in maniera disordinata di fronte al mare quasi fossero state spazzate e gettate alla rinfusa da una forte mareggiata improvvisa. Nell’aria del mattino c’è solo il fragore delle grandi onde che si frangono sulla battigia scura di sabbia vulcanica. Di fronte, tra il mare rabbioso e la spiaggia, per metà imbiancata dalla tormenta, centinaia di blocchi di ghiaccio giacciono morenti sulla spiaggia circondati da centinaia di fotografi che sciamano come frenetiche formiche impazzite alla ricerca dello scatto perfetto. C’è un’agitazione febbrile; alcuni fotografi quasi si contendono i blocchi più fotogenici e qualcuno più ardito, preso alla sprovvista, finisce in mare travolto dalle onde. Altri, piantati i treppiedi attendono al freddo mentre cercano e sperano di catturare i riflessi dorati della luce del mattino che attraversa i freddi blocchi di ghiaccio. La spiaggia di Jokusarlon è grande carrozzone, un circo per fotografi, dove tra equilibristi del treppiede ed acrobati delle onde, tutti sono alla ricerca del numero mozzafiato e dello scatto perfetto. Camminiamo anche noi per questo mondo sospeso tra la realtà e l’immaginifica versione che ci siamo costruiti osservando le moltissime foto di libri oppure estratte dalla rete. Il panorama che ci troviamo di fronte è differente, meno romantico ed esotico, i blocchi liberati dall’asettica visione dei fotografi ed inseriti nel reale contesto perdono gran parte del loro fascino esotico per tornare nel più reale mondo del consumismo. Ormai è inutile fare troppa filosofia, siamo anche noi della partita e quindi, sorpassati l’imbarazzo e la sorpresa iniziali ci gettiamo nella mischia. In questi frangenti non bisogna essere troppo severi con se stessi e gli altri e saper godere da quanto abbiamo di fronte e, alla fine, bisogna ammettere

che, al di là di tutto, Jokusarlon è un luogo magico ed unico; La spiaggia e la laguna sono un grande parco giochi per i fotografi da tutto il mondo che si affannano per immortalare e riprodurre caleidoscopici riflessi del sorgere del sole ma al tempo stesso è anche il triste segno del mutare dei tempi, dell’allentarsi della morsa del gelo persino da queste terre. Gli iceberg precipitano in acqua dalle alte pareti del fronte del Breidamerkutjokull, una delle tante lingue glaciali alimentate dal plateau del Vatnajokull. Tutti questi blocchi di ghiaccio, grandi e piccoli, a questo punto iniziano a vagare, trasportati dalle correnti e dai venti, attraverso la grande laguna per poi finire in mare dove tentano di guadagnare il largo dove, immancabilmente, si scontrano con la brutalità dell’oceano perdendo l’impari lotta, venendo così respinti a riva dall’impeto e dalla forza delle correnti. Messe da parte le remore iniziali ormai, anche noi, ci siamo lanciati nell’esplorazione della spiaggia ed in breve anche noi finiamo per essere prede della strana febbre che colpisce tutti i presenti. Confesso di vagare alla ricerca di qualche iceberg particolarmente intrigante e dalle forme interessanti, che possibilmente sia anche libero dalla presenza umana. Naturalmente per non distinguermi troppo dalla massa non posso esimermi di finire in acqua confermando, a questo punto, quanto già noto circa le acque dell’atlantico settentrionale che, seppur mitigate dalla corrente del golfo, non possono definirsi di certo temperate. Con i piedi bagnati e la neve che ha iniziato a cadere accompagnata da un forte vento, facciamo qualche scatto decidendo poi di recarci sulla spiaggia adiacente, decisamente più interessante e sicuramente, non sappiamo per quale misteriosa ragione, molto meno affollata. Per arrivare dobbiamo scendere la scarpata innevata che delimita la strada ma veniamo ripagati da un panorama pieno di iceberg delle più svariate dimensioni che giacciono spiaggiati sulla battigia, fin dove può giungere lo sguardo. Vaghiamo tra i grandi blocchi senza avere una meta pre-

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LA TEMPESTA PERFETTA

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cisa. Nonostante il sole abbia iniziato a salire sopra l’orizzonte continua a fare molto freddo e questo contribuisce ad allungare la lenta agonia dei piccoli iceberg arenati sulla spiaggia. Siamo al cospetto di un mondo che cambia, testimoni inermi di un cambiamento epocale, dell’inesorabile avanzare dell’antropocene, il regno del biossido di carbonio. Osservare tutto quel ghiaccio è come gettare uno sguardo su qualche oscuro passato di cui non possediamo memoria. L’acqua intrappolata e cristallizzata è rimasta prigioniera per millenni nel grande cuore ghiacciato al centro dell’isola per poi lentamente trovare una strada e scivolare verso il mare. Davanti a i nostri occhi si dispiega un’ampia collezione di frammenti della storia della meteorologia mondiale, testimonianze flebili come pagine di un libro che sta, purtroppo, sbiadendo velocemente. Ogni blocco porta i segni del suo passato, strisce blu, alternate ad altre azzurre, alcune più chiare, ed imprigionate al loro interno fini particelle di roccia e piccole pietre più grandi che testimoniano come il ghiacciaio lentamente abbia modificato il paesaggio trascinando verso il mare ciò che dalle profondità del mare era emerso milioni di anni prima. Jokusarlon è il presente, panorama etereo e fragile, prima non c’era. Tutta la laguna è un fenomeno recente anche se noi essere umani senza memoria, nella piccolezza della nostra esistenza, saremmo portati a pensare che sia lì da sempre. In realtà la laguna esiste nella sua forma attuale solo da metà del ventesimo secolo, figlia e prodotto del lento riscaldamento che sta costringendo il fronte del ghiacciaio a ritirarsi sempre più verso l’interno. Ad inizio secolo la lingua glaciale finiva direttamente in mare, un gigante che sommergeva ogni cosa. Un colosso che ghermiva la terra e la spiaggia per poi combattere uno scontro titanico con i marosi dell’oceano. Con la febbre del pianeta che sale sempre più velocemente, il fronte più avanzato del ghiacciaio ha iniziato a ritirarsi, sconfitto. Oggi lo Breidamerkutjokull è ormai

distante quasi otto chilometri dalla spiaggia e continua la sua inesorabile ritirata lasciando dietro di se, Jokusarlon, il lago naturale più grande e profondo dell’intera isola. Jokusarlon è una meraviglia ma è anche un a ferita e al tempo stesso un ammonimento, un avviso sul nostro impatto devastante sulla Terra. Finito il nostro peregrinare nel labirinto di ghiaccio ci lanciamo alla scoperta della laguna, o meglio, delle sue sponde. Anche qui numerosissimi blocchi di ghiaccio, figli inconsapevoli della lenta agonia del ghiacciaio, vagano sulle acque dando al panorama un aspetto maestoso che rende la visione la cosa più simile ad un panorama artico che abbiamo mai potuto osservare. Montagne innevate fanno da cornice all’immenso ghiacciaio che si getta nella laguna, il fronte largo qualche chilometro costituisce una muraglia invalicabile da cui si staccano i numerosi blocchi che poi iniziano a vagabondare attraverso le acque del lago prima di finire in mare. Oltre, la grande lingua glaciale si perde nella nebbia restituendo ancor di più un senso d’immensità che, raramente, abbiamo avuto modo di percepire altrove. Siamo rapiti dalla bellezza del luogo e così ci perdiamo nell’esplorazione e nello scattare foto. Comitive di turisti vengono scaricate in continuazione dai numerosissimi bus che percorrendo il ring fanno tappa nel parcheggio antistante la laguna. C’è tanta gente ma, nella maestosità del luogo, le numerose presenze si diluiscono attenuando sensibilmente quel fastidioso senso di affollamento che abbiamo percepito altrove. Camminiamo nella neve, saltiamo tra le rocce, ci esaltiamo ed emozioniamo immergendoci in una dimensione da favola e non nascondiamo che durante momenti così intensi è molto facile perdere la cognizione del tempo, fatto questo, che non possiamo sempre permetterci. Avendo pochi giorni a disposizione, infatti, abbiamo organizzato un viaggio che, spesso, propone escursioni molto ravvicinate ed anche durante questa giornata abbiamo un

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programma talmente fitto da non avere un attimo di respiro. Nel pomeriggio, infatti, ci avventureremo nell’esplorazione di una caverna di glaciale che si venuta a formare in una delle lingue glaciali che si trovano all’interno del parco di Skaftafell. Prima però dobbiamo raggiungere la base delle guide che ci accompagneranno sul luogo. Scattiamo le ultime foto per poi muoverci verso ovest. Il posto dove abbiamo concordato l’appuntamento è nei pressi di una delle rarissime pompe di carburante dell’isola. Le guide ci aspettano in un ufficio spartano ma caldo e accogliente dove appesi alle pareti possiamo ammirare dei bellissimi scatti catturati sul ghiacciaio. Nutriamo grandi aspettative per questa escursione anche perché, come la maggior parte delle cose qui in Islanda, non è stata proprio a buon mercato. Non ci resta che sperare che questa grotta siano stati soldi ben spesi. Dopo averci offerto un corroborante tè ci prepariamo per salire su uno dei tanti furgoni, appositamente modificati, che abbiamo, più volte, incontrato durante il nostro viaggio. Visti con i nostri occhi di modesti conducenti di piccole autovetture utilitarie, questi autoveicoli sembrano più simili ai monster truck americani che normali mezzi stradali, una specie di bisonti della strada. Alla spicciolata si raduna l’intero equipaggio; l’autista è un biondo ragazzo islandese, molto giovane e molto ciarliero ed anche se parla rigorosamente inglese si lascia capire molto bene. Il resto dei passeggeri è melting pot, un insieme eterogeneo di culture e paesi lontani. Oltre noi ci sono una coppia di Statunitensi, un paio di Tedeschi, l’immancabile giapponese e un paio di brasiliani, quasi a comporre un l’equipaggio di una nave cargo battente bandiera di un lontano paese equatoriale. Sono attimi frenetici ma l’autista perde giusto il tempo per ricordarci le più basilari norme di comportamento e di sicurezza oltre che alcune caratteristiche del mezzo. Subito dopo partiamo alla volta della caverna di ghiaccio. Il viaggio non è dei più comodi per via dei grossi pneumatici. Nel furgone c’è un rumore




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assordante ed inoltre con il riscaldamento al massimo ed i nostri abiti invernali dopo qualche minuto iniziamo ad avere un caldo che potremmo definire infernale. Bisogna soltanto avere un pò di pazienza in fondo non dovrebbe essere un viaggio eterno. Percorreremo qualche rumoroso chilometro su asfalto per poi inoltrarci su una qualche pista innevata che ci porterà verso l’interno dove gli pneumatici chiodati avranno modo di compiere al meglio il proprio compito. Dopo una decina di chilometri, come preventivato, abbandoniamo l’asfalto per iniziare ad affrontare una pista innevata. Neve vera questa volta, un percorso improvvisato segnato dalle profonde tracce lasciate dai mezzi che ci hanno preceduto. Il sole ha iniziato da tempo la sua parabola discendente e il pomeriggio ormai lentamente volge alla sera, noi abbiamo scelto questo orario per un motivo semplicissimo, era l’unica possibilità di poter avere due posti, scegliere altro non era un’alternativa praticabile, per quanto costosa la gita era sold out da diversi mesi. In certe condizioni la scelta non è troppo complicata. Una volta sulla neve il nostro autista arresta il veicolo per alcuni secondi, giusto il tempo per darci gli ultimi ragguagli, poche avvertenze che possono riassumersi in vietato distrarsi e tenersi ben saldi perché nonostante le cinture andremo incontro ad alcuni tratti molto sconnessi. Un minuto e le ruote già tornano ad aggredire il ghiaccio che, con l’avanzare del giorno, si è in più punti trasformato in una fanghiglia che rende estremamente difficoltoso avanzare. Procedere è come navigare in un burrascoso oceano bianco, veniamo sballottati un pò ovunque e se non fosse per le cinture saremmo volati via più di qualche volta. Qualcuno incappa in una testata quando si affrontano i salti e i dossi più alti nascosti dalla neve. Nel biglietto dell’escursione probabilmente è stato conteggiato anche questo giro sull’otto volante. Tutt’intorno solo una quieta distesa bianca che si distende a perdita d’occhio. Anche la strada alle nostre spalle

è stata inghiottita dalla marea bianca ed ora siamo soli nella nostra rotta di avvicinamento al ghiacciaio del Vatnajokull. Poi, all’improvviso ci appare una strana visione, uno di quegli incontri che pensi possano essere possibili solo nei film. Ci fermiamo ad un posto di controllo, un ragazzo in perfetta solitudine piantato nel mezzo del freddo nulla probabilmente tiene il conto e gestisce i transiti da e verso il parco. Solo, imperterrito nel suo piccolo riparo in alluminio sembra essere stato catapultato qui da una scena di un qualche film surreale. Stiamo fermi alcuni secondi, il tempo di trascrivere la targa eppoi siamo di nuovo in corsa per percorrere l’ultimo tratto prima del ghiacciaio. Saltiamo un paio di volte come fossimo a surfare su un’enorme onda per poi giungere ai piedi del gigante. Qui la nostra corsa praticamente finisce, in un ampio spiazzo diversi furgoni sono allineati in attesa di riaccompagnare i turisti. C’è affollamento anche qui, c’è tanta gente anche alla fine del mondo, dove la lingua glaciale termina quasi inginocchiandosi gentilmente, sulla piana innevata. Non è un ghiacciaio che incute timore, non somiglia minimamente a uno di quei mostri in grado di scavare le montagne nel loro farsi strada verso il basso trascinati della gravità e del caldo. Qui la lingua glaciale finisce discretamente, quasi in un inchino, sembra prostrarsi ed alzare bandiera bianca, come una resa senza condizioni. Qui dove il freddo ed il ghiaccio dovrebbero farla da padroni l’uomo ha creato il suo ennesimo parco giochi. Scuoto amaramente la testa, forse abbiamo veramente imboccato la strada del non ritorno e nonostante qualche sforzo per tirarci indietro dal bordo del baratro, non ci siamo nemmeno resi conto di aver già iniziato la caduta. Anche la brusca discesa non era che l’ennesima conferma del declino in atto, il fianco ormai scoperto della morena glaciale, traccia di antichi splendori ormai passati. Il ghiaccio continua inesorabile il suo percorso a ritroso verso altre altitudini, il generale inverno che cede il passo al regno dell’uomo, a quell’antropocene che sarà un viaggio

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di sola andata verso il riscaldamento globale. Anche questa grotta di ghiaccio ne è l’ennesima prova, mai troppo sicura d’estate, rimane ufficialmente aperta solo d’inverno per minimizzare gli inevitabili rischi di crollo ed il percorso si modifica ed accorcia ogni anno. Quando ci apprestiamo ad entrare, la guida, ci consiglia di aspettare che la folla all’interno diminuisca un pò, ci sono ancora una decina di furgoni nella zona ed entrare insieme ad un altro centinaio di persone non è una buona soluzione. Esploriamo nel frattempo un altro ramo della caverna, un piccolo ramo fossile che si inoltra nel ghiaccio solo per una decina di metri, degno antipasto di quello che ci aspetterà da lì a pochi minuti. E’ incredibile osservare polvere e detriti imprigionati come insetti nell’ambra, prove immacolate dell’erosione e che un giorno finiranno nel terreno brullo di una distesa arida di un sandur. Le pareti e la volta sono un unico gioco di specchi in cui i riflessi e le luci giocano a nascondersi in un continuo inseguimento modificato dal variare delle temperature. Facciamo degli scatti, rubiamo qualche ricordo, poi ci apprestiamo ad uscire per raggiungere la nostra agognata meta. Quando siamo fuori, con nostra sorpresa, ci accorgiamo che quasi tutti gli altri veicoli hanno abbandonato il sito. Inaspettatamente saremo in pochi e con la luce del sole che, lentamente, scivola verso l’orizzonte potremmo riuscire a cogliere effetti di luce particolari. Forse, alla fine, l’orario pomeridiano, capitato quasi per caso avrà anche i suoi vantaggi. Siamo veramente eccitati così Indossiamo tutti le dotazioni di sicurezza, casco e ramponi, ed entriamo. Non ci sono state date istruzioni particolari se non quelle di fare attenzione, per il resto ci viene data un’ora d’aria per poter vagabondare in piena libertà. Bisogna dire subito che di spazio per scorrazzare, in realtà, c’è ne ben poco ed anche se siamo in pochi, siamo comunque in tanti, quasi da avere la chiara sensazione di essere in un posto affollato, tutto questo almeno per i nostri canoni; possiamo facilmente intuire che esperienza catartica debba


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essere giungere qui nell’affollato orario di punta. Appena dentro osserviamo che la caverna di ghiaccio si snoda in maniera rettilinea nel ventre del ghiacciaio, purtroppo solo il primo tratto è percorribile in tutta sicurezza, sul fondo i crolli e la pressione del ghiaccio riducono la grotta ad uno stretto budello percorribile soltanto dagli speleologi. La caverna di ghiaccio è una bellezza effimera, un tempio alle stagioni che si susseguono ed alle bizzarrie del clima. E’ la testimonianza stessa della vita del ghiacciaio, le acque che da qui scorrono via quando le temperature si innalzano e la pressione aumenta favorendo ed accentuando il lento scivolare del ghiaccio verso valle sul fondo roccioso. Nei periodi estivi e durante le piogge la caverna è chiusa al pubblico e la continua azione dell’acqua mina le fondamenta del gigante di ghiaccio dall’interno quasi fosse un tarlo, scava, scioglie e favorisce il lento scivolare della massa glaciale verso il mare. Più il ghiaccio accelera più il suo spessore diminuisce, più il suo spesso diminuisce e più velocemente si avvia verso lo scioglimento. E’ un processo che una volta avviato è estremamente difficile da arrestare. Nei minuti in cui rimaniamo nel ventre del ghiacciaio la folla lentamente scema ed alla fine rimaniamo in pochi a gustarci le visioni di quest’ambientazione onirica. La luce del sole pomeridiano riesce ad infiltrarsi e rimbalza sulle sfaccettature del ghiaccio che si accende e sembra brillare di un’intensa tonalità blu. Piccole gocce d’acqua cadono dal soffitto e così bisogna sempre prestare attenzione alla propria attrezzatura fotografica, non fa troppo freddo e potremmo dire che tutto sommato l’ambiente è anche abbastanza confortevole. La galleria a tratti è liscia, quasi seguisse le morbide geometrie di curve gaussiane mentre in altri punti sembra avere la superficie poliedrica che riporta alla mente la corazza a scaglie di un rettile preistorico, quasi fosse l’antro di un drago di una qualche saga nordica ed effettivamente, come ci aveva già detto la nostra guida, tutta la zona non è nuova dall’essere

utilizzata come ambientazione in numerosi pellicole cinematografiche ed in effetti, in questi ultimi anni, è tutta l’isola che sta vivendo un nuovo rinascimento e non si può negare che, anche tra i turisti c’è tanta voglia d’Islanda forse proprio per questo suo fascino di luogo fermo nel tempo, dei suoi ghiacci perenni e del suo essere semplicemente un luogo quasi artico. Con questo fascino ecco che immagini dell’isola, quasi inconsapevolmente finiscono davanti ai nostri occhi quasi tutti i giorni in una miriade di spot pubblicitari e pellicole cinematografiche, un palcoscenico senza dubbio affascinante e ancora oggi, ai più, completamente sconosciuto. La grotta di ghiaccio ci lascia strane sensazioni, Martinica non è del tutto soddisfatta, si aspettava molto di più, viste le tante aspettative e, non ultimo il costo, e non posso darle nemmeno torto. Prezzo alto per un percorso estremamente limitato Forse non siamo stati fortunati ed anche se il percorso è stato breve, si tratta comunque di un passaggio che doveva essere fatto. Qui, come a Jokusarlon, ho potuto toccare con mano e sperimentare tutti quei discorsi sentiti mille volte sugli effetti del cambiamento climatico. Qui, quelle che altrove possono sembrare semplici teorie o speculazioni di ambientalisti integralisti, sono divenute materia tangibile; il ghiaccio è come se fosse vivo, si muove ma non avanza, arretra, sconfitto. Il grande nord si è già arreso e batte in ritirata sempre più velocemente verso altre quote e latitudini, forse in un futuro non troppo distante, magari solo tra qualche anno, le caverne di ghiaccio saranno divenute realtà isolate, nascoste in alto, sui pendi più impervi, in quell’entroterra più difficile da raggiungere ed esplorare. Abbiamo deciso di catturare l’attimo fuggente di un mondo che scompare, di un favola arcana che forse tornerà ad esser avvolta nelle nebbie dei racconti dei miti nordici, di future saghe norrene post apocalittiche. Di questo, del disastro verso cui rapidamente ci stiamo avviando, nessuno potrà dirsi senza colpa, nessuno potrà tirarsi indietro dall’assumersi le proprie respon-

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sabilità. Siamo tutti colpevoli alla stessa maniera ed il solo essere qui sul posto ci rende complici, forse più degli altri, di un delitto ai danni del pianeta. Ecocidio colposo. Questo pensiero è inquietante e la semplice realizzazione dell’idea di essere complice mi disturba e mi rende malinconico. Resto sorpreso nel capire che la nostra curiosità, quella forza invisibile che ci ha spinto fin qui e che dovrebbe guidare ogni essere umano nel percorso alla scoperta dell’ignoto, è in parte corresponsabile di un cambiamento che non sarà stato a costo zero. Quando un giorno riusciremo a liberarci dalla tecnologica basata sull’utilizzo dei combustibili fossili potremo forse dire di aver fatto quel passo decisivo in avanti per il nostro pianeta. Fino ad allora ogni nostro tentativo che non andrà in quella direzione sarà stato un tentativo vano. La Blu ice cave è stata una medaglia dalle due facce che, alla fine, ci lascia con una maledetta sensazione di amaro in bocca, un pugno nello stomaco che faccio ancora fatica ad dimenticare. Un colpo da far barcollare, la visita è stata una presa di coscienza che resta come una presenza scomoda ed ingombrante nei miei pensieri, una sorta di monolito inquietante e misterioso disseppellito dai ghiacci islandesi. Questa scoperta è stata un effetto secondario di questo viaggio che non avevamo tenuto nella giusta considerazione, purtroppo. Tornati sulla terra ci accorgiamo che un’ora passa presto ed anche se la nostra guida si dimostra molto benevola nel chiudere un occhio e non essere troppo ligia agli orari alla fine, recalcitranti, ci raduniamo per tornare verso il veicolo. Una volta fuori ci rendiamo conto di essere rimasti praticamente soli nell’ampio spazio innevato ormai maltrattato e segnato dalle innumerevoli tracce dei grandi pneumatici. Senza il brusio di sottofondo dei tanti turisti e il bianco cangiante che riflette la luce dorata di un sole ormai è quasi prossimo all’orizzonte siamo pervasi da una sensazione di pace e tranquillità.


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Il viaggio di ritorno è sulla falsa riga dell’andata, un’esperienza più simile ad un giro a dorso di cammello che ad un normale viaggio in macchina ma, ormai, abbiamo ben afferrato il concetto che in Islanda sono poche le cose che rientrano negli schemi della normalità. Tornati alla base, scatta un rapido rompete le righe e tutti i presenti scivolano via veloci, ognuno diretto per le proprie destinazioni, vicine e lontane, come, d’altronde, ci affrettiamo a fare anche noi. Saliti in macchina vediamo che la lancetta del serbatoio è, pericolosamente, vicina al minimo e di conseguenza non abbiamo molta autonomia. Non c’è tempo, così ci mettiamo all’affannosa ricerca di un distributore di carburante prima che scenda la notte e l’isola, come un animale selvaggio, con il buio vada in letargo. Giunti a questo punto della narrazione mi sembra utile, nonché doveroso, dover spendere due parole sul carburante e sulla sua reperibilità, infatti, l’isola è praticamente disabitata, se si escludono le poche zone urbanizzate lungo le coste, di conseguenza le stazioni di servizio sono estremamente rare e mal distribuite e quindi non è inusuale che due punti di rifornimento possano distare anche più di cento chilometri. In una tale situazione monitorare il livello del serbatoio non è un vezzo è semplicemente una pura questione di sopravvivenza per evitare di rimanere a secco in mezzo alla desolazione ed al nulla, per di più al freddo. Fortunatamente a Skaftafell riusciamo ad evitare la beffa appena qualche minuto prima della chiusura, un evento che ad un certo punto non ritenevamo così scontato. Con il serbatoio finalmente pieno possiamo rimetterci in marcia con più tranquillità. Raggiungiamo Hofn, verso i fiordi occidentali, che è già notte da un’ora. Nella strade non incontriamo nessuno, nemmeno qualche ombra fugace. La monotonia è spezzata solo dalla fredda luce dei lampioni e da un asettico market di una stazione di servizio dove incontriamo solo svogliati dipendenti. Umano, troppo umano. Non acquistiamo

molto, anche perché in vendita c’è veramente poco, per di più a prezzi troppo elevati ed anzi, se vogliamo proprio dirla tutta, non è che l’isola possa definirsi una metà per gourmet; i punti forti e le attrazioni Islandesi sono decisamente altre. Per pietanze appetitose pregasi rivolgersi altrove. Ci sistemiamo ad Hofn in un ostello moderno e molto pulito, il proprietario, un omone simpatico ed estremamente espansivo per i canoni nordici dopo averci mostrato la nostra sistemazione ci offre del pesce appena pescato da cucinare per la sera. Prima di salutarci però non può esimersi dal renderci edotti sul modo di riconoscere il sesso dei prelibati pesciolini. Un simpatico intermezzo nella generale riservatezza della popolazione che, per il poco che abbiamo avuto modo di appurare, non è che abbia brillato per simpatia ed espansività . Così è se vi pare. Il porto occidentale di Hofn rappresenta il punto più orientale che riusciamo a raggiungere durante questo viaggio, probabilmente se non fossimo incappati nel giorno di tempesta avremmo potuto spingerci oltre ed inoltrarci più in profondità nella zona dei fiordi e magari, esagerando ed osando un po, avremmo potuto valutare la possibilità di percorrere per intero il ring. Ma ogni viaggio, si sà, è un continuo work in progress, con programmi che non possono mai essere troppo rigidi, specie in luoghi, come questo, dove siamo costretti a sottostare alle bizze di un meteo oltremodo dispettoso. Nessun problema, nel tempo abbiamo imparato a prendere tutti gli accadimenti con filosofia, così, ricordando che nella lunga giornata della traversata dell’Islanda meridionale a causa delle pessime condizioni meteo, ci era stata preclusa la possibilità di ammirare molti dei panorami per cui ci siamo spinti fin qui, tornare sui nostri passi non sarà un problema insormontabile, lasciarli indietro sarebbe stato un delitto. Non completare il giro è una decisione conseguenziale ed abbastanza facile da prendere, non abbiamo voglia di percorrere chilometri per il semplice gusto di farlo, quasi

fossero un effimero vessillo da sventolare al nostro ritorno. E’ sempre la nostra curiosità che non ci permette di lasciare indietro i ghiacciai meridionali, i più grandi e scenografici dell’intera isola.

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Il mattino successivo puliti e riposati come mai ci era capitato negli ultimi giorni, ci rimettiamo in marcia verso occidente. Passiamo nuovamente per la laguna di Jokusarlon che, per quanto già vista, merita comunque un ultimo veloce passaggio, nel pomeriggio abbiamo in programma la visita ad una delle cascate più famose dell’intera isola. Svartifoss, la cascata di basalto, nel parco nazionale di Skaftafell. Il meteo è decisamente buono e ci aspetta una bella giornata di sole che ci mostrerà una terra decisamente diversa. Alte montagne innevate troneggiano verso l’entroterra da cui si staccano imponenti lingue glaciali che scendono fino al livello del mare. Dopo l’esperienza nella caverna di ghiaccio ci piacerebbe provare una nuova esperienza sui ghiacci ma la tempistica e, soprattutto, i costi ci avevano indotto a desistere. I nostri sguardi sono comunque rapiti dalla maestosità del panorama e di tanto in tanto Martinica è costretta a richiamarmi all’ordine per prestare maggiore attenzione alla guida. Non possiamo che constatare che la tempesta ci aveva privato della visione di scenari veramente maestosi ed incantevoli. Poco prima di giungere a Skaftafell notiamo una traccia appena accennata che dalla strada principale si dirama e sembra condurre verso l’interno, verso una delle tante lingue graciali che si staccano dal plateau del Vatnajokull. Fermiamo la macchina per fare una valutazione della situazione, tentare l’avventura o proseguire è questo il dilemma. Abbiamo un fuoristrada e lo sterrato non sembra in condizioni proibitive. Lo scuro suolo vulcanico ha la peculiare proprietà di attrarre la radiazione solare facendo modo così che la neve inizi a sciogliersi in tempi molto ristretti diquelli a cui siamo abituati. Prendere la decisione non è difficile, basta unsemplice giro dello sterzo e già siamo con il muso della macchina verso la montagna. Lasciamo quel poco di civiltà residua alle nostre spalle e ci avventuriamo verso l’ignoto, stavolta senza guide e programmi prestabiliti ma soli ed in libertà. La strada

è facilmente percorribile e sembra condurre proprio dove volevamo arrivare, alla pendici del monte dove il ghiacciaio incontra la morena. Ne in strada, ne sul percorso abbiamo visto un cartello che indicasse la direzione o la minima indicazione ed iniziamo ad avere il forte sospetto che questo sia un atto deliberato, una strategia per non pubblicizzare i luoghi in modo da non renderli troppo fruibili in piena libertà dai turisti. Infatti non incontriamo ne divieti ne impedimenti che ci possano far pensare che stessimo facendo qualcosa di non consentito quindi decidiamo di proseguire e di percorrere la strada fin dove sarà possibile, oltre, indosseremo gli scarponi e proseguiremo a piedi, in barba a tabelle ed orari. La strada termina dove il terreno si fà più accidentato ed i detriti morenici si confondono con il margine della strada. In un piccolo parcheggio una macchina delle guide locali indica che, in fondo, non avevamo sbagliato ed eravamo sulla strada giusta. Un volta arrestata la macchina ci serve giusto il tempo di praparci con l’equipaggiamento e siamo già in marcia su una traccia di sentiero che in breve ci conduce alla base del ghiacciaio. Siamo immersi in un panorama del bianco più cangiante. Lungo il percorso finalmente un cartello ci illumina sul nome della nostra destinazione, è il ghiacciaio di Virkisjökull, un ramo laterale del grande Vatnajokull che precipita dal grande plateau soprastante. In alto possiamo ammirare un paesaggio contorto fatto di cuspidi affilate raggruppate quasi a formare una testuggine macedone. Qui, in basso nella valle, morbide dune di neve sono disseminate nel paesaggio e fanno da cornice ad una laguna glaciale nascosta da un timido strato di ghiaccio martoriato dallo strano caldo di questo atipico febbraio Islandese. Ancora non siamo a mezzogiorno e nel cielo azzurro il sole già picchia come un martello. Nonostante l’aria fredda, i raggi del nostro astro sono caldi e il riverbero della luce riflessa potrebbe essere estramamente fastidioso se non indossassimo degli occhiali adeguati.

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Per raggiungere la base del ghiacciaio ci resta da attraversare solo un ponte piuttosto improvvisato fatto con tubi di metallo e malfermi assi di legno che scavalca un torrente alimentato dalle fredde acque di fusione che sgorgano da una caverna glaciale dalla volta visibilmente instabile. Oltre il ponte le tracce iniziano a salire, segno anche questo che ormai siamo giunti in prossimità della nostra destinazione. A questo punto i nostri scarponi non calcano più il terreno compatto, sotto la neve non c’è più sabbia vulcanica o detriti ma solo ghiaccio. Nella nostra salita incontriamo vari gruppi di escursionisti di ritorno dal ghiacciaio, per la maggior parte sono asiatici e non sembrano troppo avvezzi all’ambiente che stanno attraversando. Molti, anche in discesa, tengono in mano smartphone e macchine fotografiche e, distratti dal panorama, sembrano volontariamente ignorare le più banali norme di comportamento in montagna. Il montagna il pericolo è un compagno di viaggio indiscreto Il sentiero sale in maniera costante fino al punto in cui attacca la lingua glaciale in maniera più verticale, questo passaggio è agevolato da una scala i cui gradini sono stati scavati nel ghiaccio ed attrezzata con delle corde fisse. Oltrepassata questa piccola difficoltà la progressione sul ghiacciaio procede con una pendenza moderata. Incrociamo un altro gruppo di escursionisti anchessi in prevalenza orientali e proseguiamo fin dove si può procedere in sicurezza. Raggiungiamo le prime propaggini di ghiaccio vivo, dove il gigante inizia a contorcersi e farsi più ostico, brutalizzato dalle onde di pressione che la gravità imprime all’enorme massa in scivolamento. Una disordinata giungla di guglie ghiacciate indica le asperita del declivio celate dalla massa ghiacciata. In alcuni punti sembra di essere al cospetto di un manto di aculei cristallizzati. Lo scenario in cui ci troviamo immersi è di una bellezza sconcertante, dominato da un silenzio rotto soltanto dai cupi suoni provenienti dal ghiacciaio. E’ il lento respiro del gigante Tutta l’enorme massa di ghiaccio, impercettibilmente, si muove generan-


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do attriti e mormorii che si propagano nell’aria. Nell’ombra un gruppo di turisti si esercita nell’arrampicata sul ghiaccio, probabilmente parte di uno di quei pacchetti che ci era stato proposto nei giorni precedenti. Per alcuni brevi momenti coltiviamo l’illusione di trovare anche le tracce per proseguire oltre, ripercorrendo i passi delle guide che ci hanno precedeuto durante il mattino. Non riusciamo a trovare nulla, probabilmente l’effimero sentiero è celato, come la grotta dei quaranta ladroni, dietro qualche blocco di ghiaccio magico e così decidiamo di goderci il momento e questa inaspettata escursione glaciale. Il sole, in alto nel cielo sembra brillare con rinnovato vigore e da quando stiamo percorrendo il sentiero tra la neve possiamo sentire tutto il suo calore e la sua potenza sulla nostra pelle. Dall’alto del ghiacciaio, volgendo lo sguardo verso valle, possiamo ammirare la laguna in tutta la sua interezza ed arriviamo a posare lo sguardo fin quasi oltre il promontorio di Ingòlfshofdi confuso tra la bruma che sale costantemente dal turbolento mare d’Islanda. Veniamo rapiti dalle molteplici forme che il ghiaccio riesce ad assumere, dalle sgargianti tonalità che vanno dal celeste, all’azzurro ed in alcuni casi fino all’indaco. E’ come gettare uno sguardo nel passato, leggere un libro di storia, in quel ghiaccio è impressa e racchiusa la storia della nostra terra, del clima degli ultimi millenni. Il ghiaccio ha conservato i segreti del nostro passato tramandandoli fino ad oggi. Ovunque si susseguono forme dalle curve sinuose alternate a giganti astratti che sembrano forgiati da mani giganti, il ghiaccio riesce ad assumere una sua plasticità, generando le forme più diverse figlie di logiche e geometrie, a tratti, incomprensibili. Tutto è in uno stato di equilibrio precario, una calma apparente che sembra celare il rischio che la grande massa incombente dalla montagna sulla piana sottostante. Alla nostra sinistra, sul fianco occidentale, il ghiacciaio è delimitato da una alta parete verticale di roccia che, inondata della calda luce solare di questo caldo mattino, si sta

riscaldando dopo la fredda notte. Sulle rocce, grandi stalattiti e colonne di ghiaccio, in precario equilibrio si staccano quasi volessero suicidarsi lasciandosi cadere nel vuoto fino a schiantarsi sui pendii sottostanti. Le cadute provocano rumori che rimbombano attraverso la valle assumendo tonalità sinistre che inquietano. In realtà sono solo il prodotto delle dinamiche legate ai normali cicli del gelo e del disgelo che martellano e plasmano incessantemente la roccia. Quando siamo oltre mezzogiorno lo strato più superficiale di neve, in alcuni tratti, inizia a manifestare tutti i principali sintomi del disgelo, niente di preoccupante dal momento che qui il ghiaccio sembra essere spesso oltre un centinaio di metri. Nonostante tutto decidiamo di tornare verso la macchina ripercorrendo all’indietro tutto il sentiero. Nel percorso a ritroso incontriamo altri gruppi in ascesa condotti da guide locali, segno che non ci siano pericoli rilevanti. Le guide sono le stesse che al mattino stavano accompagnando altri gruppi verso valle ed è, quindi, evidente che ogni attività in Islanda sia sfruttata fin quasi al proprio limite fisiologico e tutti si impegnano allo spasimo per riuscire ad ottenere il massimo da questa corsa all’oro che sta vivendo l’isola. This is Hollywood, baby. Giunti in macchina non ci resta che salutare, a malincuore, questo regno dei ghiacci e riguadagniamo la strada asfaltata. La tracci sterrata ora è completamente libera dalla neve ed è solcata da mille rivoli d’acqua. Non abbiamo dimenticato che la nostra metà giornaliera è sempre la cascata di Svartifoss ma prima di arrivare veniamo nuovamente distratti da altre devizioni non previste. Questa volta la località è indicata da un cartello così decidiamo di inoltrarci in direzione di un altro ghiacciaio. Davanti a noi si distende un altro gigante ghiacciato, lo Svinafellsjokull. Un parcheggio innevato ci annuncia che il percorso automobilistico termina e che per andare oltre bisogna proseguire a piedi. Passiamo nei pressi di una targa che ricorda il tragico destino di due giovani escursionisti tedeschi

nel luogo in cui furono visti per l’ultima volta. Un monito che ci ricorda che nonostante l’apparente aspetto turistico non bisogna mai sottovalutare i pericoli e le insidie celati in simili scenari montani. Il sentiero termina poco più avanti, dove una sorta di terrazza panoramica affaccia e permette la vista sul tratto finale del ghiacciaio, dove enormi blocchi di ghiaccio finiscono per arenarsi agonizzanti nella laguna glaciale poco profonda delimitata dall’alta morena terminale, segno di glorie passate. Lo Svinafellsjokull è ancora più maestoso del Virkisjökull, così non volendoci limitare a questa visione decidiamo di proseguire sul sentiero che si arrampica sulla montagna aggirando un bastione roccioso. Dopo pochi metri siamo soli al cospetto del gigante. Tutti gli altri turisti hanno preferito rimanere saldi nella sicurezza data dalla piccola staccionata di legno che delimita l’area. Non c’è niente di pericoloso nell’andare più avanti ed i nostri passi avanzano sicuri sui blocchi di rossa roccia vulcanica. Percorsi diverse decine di metri giungiamo su alcune rocce a strapiombo ed abbastanza panoramiche che ci consentono di avere un splendida vista sull’intero fiume di ghiaccio. La superficie di questo fiume di ghiaccio si presenta molto più aspra e tormentata di quello che abbiamo visitato in precedenza. Nel tratto terminale, il ghiaccio si sfalda in gigantesce guglie di ghiaccio dalla sommità tagliente come lame d’acciaio. E’ come trovarsi al cospetto di una gigantesca mano ghiacciata che affonda i suoi temibili artigli nella vergine terra d’Islanda. Seguendo con lo sguardo a ritroso il flusso glaciale vediamo solo crepacci che formano un intricato labirinto di seracchi dove il ghiaccio brilla delle mille tonalità dell’azzurro. Martinica è impressionata, emozionata ed estasiata dal panorama, che si distende davanti ai nostri occhi, una visione che aveva sempre sognato di avere. Abbiamo la netta sensazione di essere protagonisti di uno dei tanti documentari visti molte volte in televisione.Ad osservare simili scenari viene voglia di proseguire sempre oltre, per scoprire cosa si celi

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oltre quell’altro masso, oltre la salita, in fondo al sentiero; per cercare di vedere se è possibile spingersi ancora oltre ed arrivare dove il ghiaccio aggredisce la roccia, frantumandola e corrodendola. Ci rendiamo conto però che per proseguire bisognerebbe programmare meglio l’escursione, studiare il terreno in maniera tale da evitare rischi inutili, così ci accontiamo di quanto raggiunto e visto finora e scattiamo le ultime foto prima di tornare sui nostri passi. I nostri passi a ritroso sono accompagnati da un drone indiscreto che ci sorvola ed accompagna fino al nostro ritorno all’area delimitata e che scopriamo essere di proprietà di una turista americana che ci decanta tutte le sue avveniristiche caratteristiche. Tutto molto bello ed un giorno non escludo la possibilità di comprare un simile gioiello elettronico che, non nascondo, mi entusiasma ma restando con la consapevolezza e la netta la preferenza di dare priorità all’esperienza diretta del mondo e non per interposta persona, sia essa umana o robotica. Detto questo, ora sembra giunto il momento di dedicarci a Svartifoss, il salto d’acqua nel nostro mirino fin dal primo mattino ma finora sempre rimandato. La strada non è molta e ben presto raggiungiamo l’area parcheggio. Fermiamo la macchina ai piedi della montagna dove inizia il sentiero che si inerpica subito ripido per raggiungere la vallata scavata dalle acque del fiume. La traccia è larga e ben segnalata ed è già pomeriggio inoltrato quando affrontiamo i primi tornati. Alcuni tratti, nonostante il sole caldo, sono ancora pericolosamente ghiacciati e a causa del sole,della pendenza e della stanchezza il sentiero è meno agevole di quando previsto. Martinica rallenta vistosamente il passo, fino a quando, scivolando su una lastra ghiacciata, inizia a procedere a rilento a causa di un forte dolore al ginocchio. Sopportando lo sforzo e il dolore, seppur lentamente, riusciamo a raggiungere il punto in cui il sentiero inizia un tratto di falso piano intervallato da leggeri sali scendi, intuiamo che la nostra meta non sia molto lontana dal momento che ora riusciamo persino a sen-

tire il rumore dell’acqua che precipita sulle rocce sottostanti. Molte persone in ordine sparso percorrono il sentiero in direzione opposta alla nostra anche perchè ormai il pomeriggio sta volgendo al suo tratto finale ed il sole è ormai quasi adagiato sull’orizzonte del grande Sandur sottostante. Un tratto in discesa, reso molto scivoloso dal ghiaccio ci conduce verso gli ultimi metri di sentiero, oltrepassati i quali, si rivela al nostro sguardo la cascata di basalto nero. Tante volte ritratto in numerose foto, il salto d’acqua è meno impressionante di quanto ci potessimo aspettare principalmente per colpa della limitata portata d’acqua ancora imprigionata sulle alture a monte a causa dei rigori dell’inverno che, in quota, sono decisamente più inclementi. La colonna d’acqua precipita in un anfiteatro formato dalle colonne di basalto, memoria ancestrale di antiche colate raffredatesi lentamente. Questa è la spiegazione sulla formazione delle colonne di basalto, parto della combinazione perfetta di lava e giusti tempi di solidificazione, che hanno portato alla formazione della peculiare forma di fessurazione a schema esagonale. Nel silenzio dei pochi presenti il rumore dell’acqua è amplificato dalla forma semircolare della valle, una sorta di scuro anfiteatro naturale. Scatto alcune foto anche se vista l’ora tarda ormai il sole gioca a nascondino con le pareti rocciose ed ormai la luce migliore sembra essere definitivamente svanita. Non importa, penso tra me e me, il ricordo rimarrà anche se gli scatti non saranno di quelli memorabili, resteranno comunque come testimonianza del nostro passaggio in queste terre. Quando l’intera valle diventa orfana del sole sostituito da una fredda ombra e tutto sembra farsi più oscuro e minaccioso. Il freddo cristallizza ogni cosa e così decido di ripiegare il cavalletto, che in queste situazioni diventa un freddo e scomodo compagno di viaggio, e lentamente iniziamo a risalire il sentiero per tornare verso il parcheggio. Sono quasi le sei quando torniamo alla macchina e questa volta possiamo veramente dire che la giornata è pressoche

giunta al termine. Giornata piene ed intensa, con sorprese e scenari ben oltre le aspettative. Le ombre della rada vegetazione Islandese hanno già iniziato ad allungarsi quando riprendiamo la strada in direzione Vik dove ci auguriamo di trovare una sistemazione per la notte. Sul far della sera le strada islandesi diventano, se possibile, ancora più solitarie acuendo in noi il piacevole senso di isolamento e distacco dalla civiltà che ci segue fin dal nostro arrivo. Il sole che muore vicino all’orizzonte lascia filtrare solo i più caldi raggi che, rosseggiando, finiscono per incendiare le montagne ammantante di bianco che fanno da sfondo perfetto riflettendo splendide sfumature rosa che si perdono nel cielo tinto di un azzurro che vira verso il blu della notte. Raramente, fari distanti, illuminano la strada incrociando il nostro cammino. Dopo una giornata ricca di soddisfazioni attraversiamo placidamenete i Sandur meridionali osservando splendidi panorami che nel viaggio di andata ci era stati negati dalla tempesta. L’idea di invertire la marcia ad Hofn si è rivelata essere, secondo noi, una scelta indovinata, consentendoci di vivere due giorni, come quelli appena trascorsi, alla scoperta dei grandi ghiacciai meridionali. L’esperienza “più artica” della nostra vita. A volte bisogna sapersi accontentare e godere anche di questi momenti. Tornare sui propri passi, a volte, può essere una scelta intelligente. Giunti a Vik i Mirdal decidiamo di consumare il nostro primo pasto Islandese e così ci concediamo un piatto con hamburger e patatine, non un piatto da urlo ma comunque una gradevole parentesi calda in un triste susseguirsi di zuppe pronte e pasti improvvisati. Il panino è un piacevole intermezzo prima di iniziare la ricerca di una sistemazione per la notte. Chiediamo un pò in giro e ben presto ci dobbiamo rassegnare al fatto che non ci siano più camere libere per la notte tranne nell’hotel più caro che, alla fine, siamo così costretti a prendere mancando, evidentemente, altre possibilità. Cose che in Islanda possono accadere.

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NEL REGNO DEI GIGANTI Il mattino successivo puliti e riposati come mai ci era capitato negli ultimi giorni, ci rimettiamo in marcia verso occidente. Passiamo nuovamente per la laguna di Jokusarlon che, per quanto già vista, merita comunque un ultimo veloce passaggio, nel pomeriggio abbiamo in programma la visita ad una delle cascate più famose dell’intera isola. Svartifoss, la cascata di basalto, nel parco nazionale di Skaftafell. Il meteo è decisamente buono e ci aspetta una bella giornata

di sole che ci mostrerà una terra decisamente diversa. Alte montagne innevate troneggiano verso l’entroterra da cui si staccano imponenti lingue glaciali che scendono fino al livello del mare. Dopo l’esperienza nella caverna di ghiaccio ci piacerebbe provare una nuova esperienza sui ghiacci ma la tempistica e, soprattutto, i costi ci avevano indotto a desistere. I nostri sguardi sono comunque rapiti dalla maestosità del panorama e di tanto in tanto Martinica è costretta a

richiamarmi all’ordine per prestare maggiore attenzione alla guida. Non possiamo che constatare che la tempesta ci aveva privato della visione di scenari veramente maestosi ed incantevoli. Poco prima di giungere a Skaftafell notiamo una traccia appena accennata che dalla strada principale si dirama e sembra condurre verso l’interno, verso una delle tante lingue glaciali che si staccano dal plateau del Vatnajokull. Fermiamo la



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macchina per fare una valutazione della situazione, tentare l’avventura o proseguire è questo il dilemma. Abbiamo un fuoristrada e lo sterrato non sembra in condizioni proibitive. Lo scuro suolo vulcanico ha la peculiare proprietà di attrarre la radiazione solare facendo modo così che la neve inizi a sciogliersi in tempi molto ristretti di quelli a cui siamo abituati. Prendere la decisione non è difficile, basta un semplice giro dello sterzo e già siamo con il muso della macchina verso la montagna. Lasciamo quel poco di civiltà residua alle nostre spalle e ci avventuriamo verso l’ignoto, stavolta senza guide e programmi prestabiliti ma soli ed in libertà. La strada è facilmente percorribile e sembra condurre proprio dove volevamo arrivare, alla pendici del monte dove il ghiacciaio incontra la morena. Ne in strada, ne sul percorso abbiamo visto un cartello che indicasse la direzione o la minima indicazione ed iniziamo ad avere il forte sospetto che questo sia un atto deliberato, una strategia per non pubblicizzare i luoghi in modo da non renderli troppo fruibili in piena libertà dai turisti. Infatti non incontriamo ne divieti ne impedimenti che ci possano far pensare che stessimo facendo qualcosa di non consentito quindi decidiamo di proseguire e di percorrere la strada fin dove sarà possibile, oltre, indosseremo gli scarponi e proseguiremo a piedi, in barba a tabelle ed orari. La strada termina dove il terreno si fa più accidentato ed i detriti morenici si confondono con il margine della strada. In un piccolo parcheggio una macchina delle guide locali indica che, in fondo, non avevamo sbagliato ed eravamo sulla strada giusta. Un volta arrestata la macchina ci serve giusto il tempo di prepararci con l’equipaggiamento e siamo già in marcia su una traccia di sentiero che in breve ci conduce alla base del ghiacciaio. Siamo immersi in un panorama del bianco più cangiante. Lungo il percorso finalmente un cartello ci illumina sul nome della nostra destinazione, è il ghiacciaio di Virkisjökull, un ramo laterale del grande Vatnajokull che precipita dal grande plateau soprastante. In alto possiamo

ammirare un paesaggio contorto fatto di cuspidi affilate raggruppate quasi a formare una testuggine macedone. Qui, in basso nella valle, morbide dune di neve sono disseminate nel paesaggio e fanno da cornice ad una laguna glaciale nascosta da un timido strato di ghiaccio martoriato dallo strano caldo di questo atipico febbraio Islandese. Ancora non siamo a mezzogiorno e nel cielo azzurro il sole già picchia come un martello. Nonostante l’aria fredda, i raggi del nostro astro sono caldi e il riverbero della luce riflessa potrebbe essere estremamente fastidioso se non indossassimo degli occhiali adeguati. Per raggiungere la base del ghiacciaio ci resta da attraversare solo un ponte piuttosto improvvisato fatto con tubi di metallo e malfermi assi di legno che scavalca un torrente alimentato dalle fredde acque di fusione che sgorgano da una caverna glaciale dalla volta visibilmente instabile. Oltre il ponte le tracce iniziano a salire, segno anche questo che ormai siamo giunti in prossimità della nostra destinazione. Giunti a questo punto i nostri scarponi non calcano più il terreno compatto, sotto la neve non c’è più la sabbia vulcanica o i detriti, ma solo ghiaccio. Nella nostra salita incontriamo vari gruppi di escursionisti di ritorno dal ghiacciaio, per la maggior parte sono asiatici e non sembrano troppo avvezzi all’ambiente che stanno attraversando. Molti, anche in discesa, tengono in mano smartphone e macchine fotografiche e, distratti dal panorama, sembrano volontariamente ignorare le più elementari norme di sicurezza. In montagna il pericolo è un compagno di viaggio indiscreto. Il sentiero sale in maniera costante fino al punto in cui attacca la lingua glaciale in maniera più verticale, questo passaggio è agevolato da una scala i cui gradini sono stati scavati nel ghiaccio ed attrezzati con delle corde fisse. Oltrepassata questa piccola difficoltà la progressione sul ghiacciaio procede con una pendenza moderata e costante. Incrociamo un altro gruppo di escursionisti anch’essi in prevalenza orientali e proseguia-

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mo fin dove si può procedere in sicurezza. Raggiungiamo le prime propaggini di ghiaccio vivo, dove il gigante inizia a contorcersi e farsi più ostico ed ostile, brutalizzato dalle onde di pressione che la gravità imprime all’enorme massa in scivolamento verso valle. Una disordinata giungla di guglie ghiacciate nasconde le asperità del declivio celate dalla massa glaciale. In alcuni punti sembra di essere al cospetto di una belva feroce con il manto di aculei cristallizzati. Lo scenario in cui ci troviamo immersi è di una bellezza sconcertante, dominato da un silenzio rotto soltanto dai cupi suoni provenienti dal ghiacciaio. E’ il lento respiro del gigante Tutta l’enorme massa di ghiaccio, impercettibilmente, si muove generando attriti e mormorii che si propagano nell’aria. Nell’ombra un gruppo di turisti si esercita nell’arrampicata sul ghiaccio, probabilmente parte di uno di quei pacchetti che ci era stato proposto nei giorni precedenti. Per alcuni brevi momenti coltiviamo l’illusione di trovare anche le tracce per proseguire oltre, ripercorrendo i passi delle guide che ci hanno preceduto durante il mattino. Non riusciamo a trovare nulla, probabilmente l’effimero sentiero è celato, come la grotta dei quaranta ladroni, dietro qualche blocco di ghiaccio magico e così decidiamo di goderci il momento e questa inaspettata escursione glaciale. Il sole, in alto nel cielo sembra brillare con rinnovato vigore e da quando stiamo percorrendo il sentiero tra la neve possiamo sentire tutto il suo calore e la sua potenza sulla nostra pelle. Dall’alto del ghiacciaio, volgendo lo sguardo verso valle, possiamo ammirare la laguna in tutta la sua interezza ed arriviamo a posare lo sguardo fin quasi oltre il promontorio di Ingòlfshofdi confuso tra la bruma che sale costantemente dal turbolento mare d’Islanda. Veniamo rapiti dalle molteplici forme che il ghiaccio riesce ad assumere, dalle sgargianti tonalità che vanno dal celeste, all’azzurro ed in alcuni casi fino all’indaco. E’ come gettare uno sguardo nel passato, leggere un libro di storia, in quel ghiaccio è impressa e racchiusa la storia della nostra




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terra, del clima degli ultimi millenni. Il ghiaccio ha conservato i segreti del nostro passato tramandandoli fino ad oggi. Ovunque si susseguono forme dalle curve sinuose alternate a giganti astratti che sembrano forgiati da mani giganti, il ghiaccio riesce ad assumere una sua plasticità, generando le forme più diverse figlie di logiche e geometrie, a tratti, incomprensibili. Tutto è in uno stato di equilibrio precario, una calma apparente che sembra celare il rischio che la grande massa incombente dalla montagna sulla piana sottostante. Alla nostra sinistra, sul fianco occidentale, il ghiacciaio è delimitato da una alta parete verticale di roccia che, inondata della calda luce solare di questo caldo mattino, si sta riscaldando dopo la fredda notte. Sulle rocce, grandi stalattiti e colonne di ghiaccio, in precario equilibrio si staccano quasi volessero suicidarsi lasciandosi cadere nel vuoto fino a schiantarsi sui pendii sottostanti. Le cadute provocano rumori che rimbombano attraverso la valle assumendo tonalità sinistre che inquietano. In realtà sono solo il prodotto delle dinamiche legate ai normali cicli del gelo e del disgelo che martellano e plasmano incessantemente la roccia. Quando siamo oltre mezzogiorno lo strato più superficiale di neve, in alcuni tratti, inizia a manifestare tutti i principali sintomi del disgelo, niente di preoccupante dal momento che qui il ghiaccio sembra essere spesso oltre un centinaio di metri. Nonostante tutto decidiamo di tornare verso la macchina ripercorrendo all’indietro tutto il sentiero. Nel percorso a ritroso incontriamo altri gruppi in ascesa condotti da guide locali, segno che non ci siano pericoli rilevanti. Le guide sono le stesse che al mattino stavano accompagnando altri gruppi verso valle ed è, quindi, evidente che ogni attività in Islanda sia sfruttata fin quasi al proprio limite fisiologico e tutti si impegnano allo spasimo per riuscire ad ottenere il massimo da questa corsa all’oro che sta vivendo l’isola. This is Hollywood, baby. Giunti in macchina non ci resta che salutare, a malincuore, questo regno dei ghiacci e riguadagniamo la

strada asfaltata. La tracci sterrata ora è completamente libera dalla neve ed è solcata da mille rivoli d’acqua. Non abbiamo dimenticato che la nostra metà giornaliera è sempre la cascata di Svartifoss ma prima di arrivare veniamo nuovamente distratti da altre deviazioni non previste. Questa volta la località è indicata da un cartello così decidiamo di inoltrarci in direzione di un altro ghiacciaio. Davanti a noi si distende un altro gigante ghiacciato, lo Svinafellsjokull. Un parcheggio innevato ci annuncia che il percorso automobilistico termina e che per andare oltre bisogna proseguire a piedi. Passiamo nei pressi di una targa che ricorda il tragico destino di due giovani escursionisti tedeschi nel luogo in cui furono visti per l’ultima volta. Un monito che ci ricorda che nonostante l’apparente aspetto turistico non bisogna mai sottovalutare i pericoli e le insidie celati in simili scenari montani. Il sentiero termina poco più avanti, dove una sorta di terrazza panoramica affaccia e permette la vista sul tratto finale del ghiacciaio, dove enormi blocchi di ghiaccio finiscono per arenarsi agonizzanti nella laguna glaciale poco profonda delimitata dall’alta morena terminale, segno di glorie passate. Lo Svinafellsjokull è ancora più maestoso del Virkisjökull, così non volendoci limitare a questa visione decidiamo di proseguire sul sentiero che si arrampica sulla montagna aggirando un bastione roccioso. Dopo pochi metri siamo soli al cospetto del gigante. Tutti gli altri turisti hanno preferito rimanere saldi nella sicurezza data dalla piccola staccionata di legno che delimita l’area. Non c’è niente di pericoloso nell’andare più avanti ed i nostri passi avanzano sicuri sui blocchi di rossa roccia vulcanica. Percorsi diverse decine di metri giungiamo su alcune rocce a strapiombo ed abbastanza panoramiche che ci consentono di avere un splendida vista sull’intero fiume di ghiaccio. La superficie di questo fiume di ghiaccio si presenta molto più aspra e tormentata di quello che abbiamo visitato in precedenza. Nel tratto terminale, il ghiaccio si sfalda in gigantesche guglie

di ghiaccio dalla sommità tagliente come lame d’acciaio. E’ come trovarsi al cospetto di una gigantesca mano ghiacciata che affonda i suoi temibili artigli nella vergine terra d’Islanda. Seguendo con lo sguardo a ritroso il flusso glaciale vediamo solo crepacci che formano un intricato labirinto di seracchi dove il ghiaccio brilla delle mille tonalità dell’azzurro. Martinica è impressionata, emozionata ed estasiata dal panorama, che si distende davanti ai nostri occhi, una visione che aveva sempre sognato di avere. Abbiamo la netta sensazione di essere protagonisti di uno dei tanti documentari visti molte volte in televisione. Ad osservare simili scenari viene voglia di proseguire sempre oltre, per scoprire cosa si celi oltre quell’altro masso, oltre la salita, in fondo al sentiero; per cercare di vedere se è possibile spingersi ancora oltre ed arrivare dove il ghiaccio aggredisce la roccia, frantumandola e corrodendola. Ci rendiamo conto però che per proseguire bisognerebbe programmare meglio l’escursione, studiare il terreno in maniera tale da evitare rischi inutili, così ci accontiamo di quanto raggiunto e visto finora e scattiamo le ultime foto prima di tornare sui nostri passi. I nostri passi a ritroso sono accompagnati da un drone indiscreto che ci sorvola ed accompagna fino al nostro ritorno all’area delimitata e che scopriamo essere di proprietà di una turista americana che ci decanta tutte le sue avveniristiche caratteristiche. Tutto molto bello ed un giorno non escludo la possibilità di comprare un simile gioiello elettronico che, non nascondo, mi entusiasma ma restando con la consapevolezza e la netta la preferenza di dare priorità all’esperienza diretta del mondo e non per interposta persona, sia essa umana o robotica. Detto questo, ora sembra giunto il momento di dedicarci a Svartifoss, il salto d’acqua nel nostro mirino fin dal primo mattino ma finora sempre rimandato. La strada non è molta e ben presto raggiungiamo l’area parcheggio. Fermiamo la macchina ai piedi della montagna dove inizia il sentiero che si inerpica subito ripido

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per raggiungere la vallata scavata dalle acque del fiume. La traccia è larga e ben segnalata ed è già pomeriggio inoltrato quando affrontiamo i primi tornati. Alcuni tratti, nonostante il sole caldo, sono ancora pericolosamente ghiacciati e a causa del sole,della pendenza e della stanchezza il sentiero è meno agevole di quando previsto. Martinica rallenta vistosamente il passo, fino a quando, scivolando su una lastra ghiacciata, inizia a procedere a rilento a causa di un forte dolore al ginocchio. Sopportando lo sforzo e il dolore, seppur lentamente, riusciamo a raggiungere il punto in cui il sentiero inizia un tratto di falso piano intervallato da leggeri sali scendi, intuiamo che la nostra meta non sia molto lontana dal momento che ora riusciamo persino a sentire il rumore dell’acqua che precipita sulle rocce sottostanti. Molte persone in ordine sparso percorrono il sentiero in direzione opposta alla nostra anche perché ormai il pomeriggio sta volgendo al suo tratto finale ed il sole è ormai quasi adagiato sull’orizzonte del grande Sandur sottostante. Un tratto in discesa, reso molto scivoloso dal ghiaccio ci conduce verso gli ultimi metri di sentiero, oltrepassati i quali, si rivela al nostro sguardo la cascata di basalto nero. Tante volte ritratto in numerose foto, il salto d’acqua è meno impressionante di quanto ci potessimo aspettare principalmente per colpa della limitata portata d’acqua ancora imprigionata sulle alture a monte a causa dei rigori dell’inverno che, in quota, sono decisamente più inclementi. La colonna d’acqua precipita in un anfiteatro formato dalle colonne di basalto, memoria ancestrale di antiche colate raffreddatesi lentamente. Questa è la spiegazione sulla formazione delle colonne di basalto, parto della combinazione perfetta di lava e giusti tempi di solidificazione, che hanno portato alla formazione della peculiare forma di fessurazione a schema esagonale. Nel silenzio dei pochi presenti il rumore dell’acqua è amplificato dalla forma semicircolare della valle, una sorta di scuro anfiteatro naturale. Scatto alcune foto anche se vista l’ora tarda ormai

il sole gioca a nascondino con le pareti rocciose ed ormai la luce migliore sembra essere definitivamente svanita. Non importa, penso tra me e me, il ricordo rimarrà anche se gli scatti non saranno di quelli memorabili, resteranno comunque come testimonianza del nostro passaggio in queste terre. Quando l’intera valle diventa orfana del sole sostituito da una fredda ombra e tutto sembra farsi più oscuro e minaccioso. Il freddo cristallizza ogni cosa e così decido di ripiegare il cavalletto, che in queste situazioni diventa un freddo e scomodo compagno di viaggio, e lentamente iniziamo a risalire il sentiero per tornare verso il parcheggio. Sono quasi le sei quando torniamo alla macchina e questa volta possiamo veramente dire che la giornata è pressoché giunta al termine. Giornata piene ed intensa, con sorprese e scenari ben oltre le aspettative. Le ombre della rada vegetazione Islandese hanno già iniziato ad allungarsi quando riprendiamo la strada in direzione Vik dove ci auguriamo di trovare una sistemazione per la notte. Sul far della sera le strada islandesi diventano, se possibile, ancora più solitarie acuendo in noi il piacevole senso di isolamento e distacco dalla civiltà che ci segue fin dal nostro arrivo. Il sole che muore vicino all’orizzonte lascia filtrare solo i più caldi raggi che, rosseggiando, finiscono per incendiare le montagne ammantante di bianco che fanno da sfondo perfetto riflettendo splendide sfumature rosa che si perdono nel cielo tinto di un azzurro che vira verso il blu della notte. Raramente, fari distanti, illuminano la strada incrociando il nostro cammino. Dopo una giornata ricca di soddisfazioni attraversiamo placidamente i Sandur meridionali osservando splendidi panorami che nel viaggio di andata ci era stati negati dalla tempesta. L’idea di invertire la marcia ad Hofn si è rivelata essere, secondo noi, una scelta indovinata, consentendoci di vivere due giorni, come quelli appena trascorsi, alla scoperta dei grandi ghiacciai meridionali. L’esperienza “più artica” della nostra vita. A volte bisogna sapersi accon-

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tentare e godere anche di questi momenti. Tornare sui propri passi, a volte, può essere una scelta intelligente. Giunti a Vik i Mirdal decidiamo di consumare il nostro primo pasto Islandese e così ci concediamo un piatto con hamburger e patatine, non un piatto da urlo ma comunque una gradevole parentesi calda in un triste susseguirsi di zuppe pronte e pasti improvvisati. Il panino è un piacevole intermezzo prima di iniziare la ricerca di una sistemazione per la notte. Chiediamo un po in giro e ben presto ci dobbiamo rassegnare al fatto che non ci siano più camere libere per la notte tranne nell’hotel più caro che, alla fine, siamo così costretti a prendere mancando, evidentemente, altre possibilità. Cose che in Islanda possono accadere.



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Passiamo una notte tutto sommato tranquilla, nonostante gli interni dell’albergo abbiano un aspetto vagamente inquietante, con stile e tinte che ci portano inevitabilmente alla mente le ambientazioni inquietanti di un film di Kubrik. Al mattino ci svegliamo con l’immancabile nevicata notturna che ha ammantato il glabro panorama del circondario di Vik. Il cielo è ancora buio ma velocemente prepariamo e sistemiamo i bagagli in auto e subito dopo ci rechiamo nel ristorante dell’albergo per consumare la colazione. La sala è piena di comitive e c’è un animato chiacchiericcio di fondo che a tratti si trasforma in vero baccano. Dopo tanti giorni in quasi completa solitudine ci troviamo proiettati nella sala del più grande albergo della zona e non nascondiamo di sentirci un po frastornati. L’appetito, comunque, prevale su tutto e così, pronti ad iniziare un’altra giornata. La necessità ci porta a sfruttare al massimo la situazione e consumare un quanto più ricca colazione possibile. Dopo giorni di sostanziali ristrettezze gastronomiche una simile abbondanza ci è desueta, così ci lasciamo andare a qualche strappo provando un pò di tutto quello proposto nell’abbondante buffet. La colazione è ricca e non sappiamo resistere anche se ben presto ci accorgiamo di essere in buonissima compagnia, molti dei presenti, infatti, si contendono le pietanza senza remora alcuna. Quando la sala inizia a svuotarsi e quasi tutti i bus stanno abbandonando il piazzale antistante decidiamo che è giunto anche il nostro momento di lasciare l’albergo per lanciarci all’esplorazione delle spiagge nei dintorni di Vik. Giungiamo alla spiaggia quando il sole è ancora nascosto dalla linea dell’orizzonte, sulla battigia incontriamo solo un paio di fotografi che scattano con la luce favorevole dell’alba. Il solito mare agitato scaglia furiosamente i marosi contro la spiaggia nera che, però, non sembra essere troppo impressionata dalla rabbia del mare. I faraglioni di Vik troneggiano solitari tra le acque burrascose a guardia della spiaggia, la leggenda narra che due giganti si avventurarono in mare per

raggiungere una nave che navigava nelle acque antistanti ma vennero sorpresi dalle prime luci del giorno e finirono per essere trasformati in pietra. La spiaggia è una distesa di sabbia nera formata dai residui dell’erosione delle rocce vulcaniche ricche di metalli ed a tratti questa sembra riflettere i raggi del sole in una miriade di scintille. Il rumore del mare copre tutti gli altri suoni anche se vista l’ora non è che ce ne siano molti, solo il gracchiare di qualche raro gabbiano che osa sfidare il freddo della mattinata. La fredda sabbia nera è come una tabula rasa su cui lasciare per primi le nostre impronte ma sono solo tracce effimere in una lotta impari, perché ad ogni onda il mare cancella nuovamente ogni segno del nostro passaggio. Lasciamo la spiaggia di Vik con il sole che ha iniziato salire nel cielo anche se ancora non ha la forza per riscaldare la fredda aria del mattino. Puntiamo a raggiungere le spiagge appena oltre il promontorio, all’ombra della montagna che domina il faraglioni. La strada che porta alla spiaggia Reynisfjara è appena oltre il promontorio, dopo una alcuni lunghi e scenografici tornanti in discesa. Dall’alto della salita il nostro sguardo può seguire la traccia d’asfalto che serpeggia verso il basso fino a quando, in lontananza, si perde nella pianura innevata. Proprio dove termina la discesa una stradina svolta sulla sinistra sfiorando i pendii di basalto del promontorio che sovrasta Vik ed arriva fino ad un ampio parcheggio proprio di fronte al mare. La spiaggia di Reynisfjara è all’apparenza una lunga striscia di sabbia nera in cui grandi onde si inseguono e si frangono spumeggiando fin dove le possenti colonne basaltiche affondano le proprie radici sotto il terreno. Anche a Reynisfjara non siamo soli, purtroppo ci sono tanti turisti; questa spiaggia, infatti, gode di una grande notorietà e l’essere di facile accesso permette ai grandi tour operator di far arrivare i propri bus fin quasi sulla battigia. Ci sono cartelli ovunque per ricordare a tutti i frequentatori del luogo il massimo rispetto per l’ambiente e per mettere in guardia

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sulla pericolosità di questo mare. Nonostante i tanti cartelli siano bene in evidenza vediamo accadere di tutto: persone travolte dalle onde per distrazione, altre vittime della mania dei selfie ed altri ancora sconfitti dalla forza imprevedibile delle onde. La spiaggia, turismo di massa a parte, è molto bella, con tutto quel nero costellato di riflessi metallici che brillano alla luce dei raggi del sole del mattino. Calpestiamo la grande distesa nera ma non è sabbia ma basalto frantumato, piccoli sassolini strappati alla terraferma dalla forza del mare, smussati e divenuti arrotondati per via del continuo moto caotico delle onde del mare. E’ il canto del cigno del basalto che giunge quasi alla fine del suo ciclo prima di finire nuovamente sul fondo marino per poi, un giorno, tornare a sprofondare, tra milioni di anni, nelle profondità del mantello terrestre. Niente si crea ne si distrugge, tutto si trasforma in un continuo divenire. E’ il perpetuo ciclo della vita,anche in geologia. La spiaggia è delimitata dai due promontori, quello di Vik ad est, mentre ad occidente si eleva quello di Kap Dyrholaey, facilmente riconoscibile per il grande arco di roccia proprio sotto l’estremità del capo ed proprio quello che abbiamo deciso sarà la nostra prossima meta. Una strada sterrata conduce fino nei pressi del faro che è posizionato nel punto più alto del promontorio. Abituato alla bellezza elegante e slanciata dei fari di Scozia e Bretagna, trovarsi al cospetto di questo faro Islandese fa uno strano effetto. Non possiamo definirlo brutto ma rispetto a tutti gli altri è basso e tozzo, una specie di pigmeo che però sfrutta la felice posizione geografica per avvisare i naviganti della pericolosità delle acque e della costa circostanti. Da entrambi i lati il capo precipita fino al mare con pareti inaccessibili se non alle numerosissime coppie di uccelli marini che qui, numerosi, nidificano. In cielo, è un continuo turbinare caotico di uccelli che nonostante la stagione invernale giocano nel compiere le più ardite evoluzione aeree. Facciamo un veloce giro, anche perché il



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tempo stringe, in fondo programmando questo viaggio non abbiamo potuto strutturare un percorso articolato per poter esplorare tutto quello che avremmo voluto; inoltre con il passare dei giorni ci siamo resi conto della ricchezze e del fascino che ogni luogo dell’Islanda sembra possedere e che per essere esplorato a fondo necessita molto più tempo di quello che avevamo preventivato. Quando abbandoniamo Kap Dyrholaey non ci resta tantissimo tempo, ormai i tempi si fanno sempre più stringenti ed ai giorni ormai iniziano a sostituirsi le ore, purtroppo non abbiamo più troppe occasioni da sfruttare e così quando giungiamo nei pressi di un piccolo ma affollato parcheggio non capiamo il motivo di tanto interesse. Apparentemente sembra di trovarci in una in prossimità del nulla. In realtà ci troviamo nei pressi della spiaggia di Solheimasandur, anche se il mare si trova decisamente fuori portata, celato alla nostra vista da una linea d’orizzonte piatta e monotona come quella di un deserto. Nonostante l’apparente assenza, incessante, il suono del mare giunge come un rombo sordo, una sotterranea onda sismica che sembra avere la potenza di un’incalzante carica di cavalleria. In Islanda finché si percorre il ring non ci si potrà mai liberare dell’ingombrante presenza dell’Oceano Atlantico. Decidiamo di lasciare la macchina e per avviarci attraverso la piana seguendo un ampia traccia delimitata sui lati da massi ed ometti di pietra. Tutto è organizzato e decine di persone vanno e vengono perdendosi fino al punto in cui le figure umane si fanno minuscole e si confondono con il resto paesaggio. Un insolito caldo sole Islandese continua a perseguitarci con un’insistenza che sembra voler trasformare la brulla piana circostante in una steppa d’altra latitudine. Il terreno scricchiola sotto i nostri passi mentre la neve fatica a resistere al calore che la grossolana sabbia scura restituisce verso il cielo, poche chiazze bianche superstiti si nascondono all’ombra dei massi più grandi. Continuiamo mentre i metri si fanno chilometri e ancora la nostra meta

continua a restare nascosta ai nostri avidi sguardi con cui scrutiamo curiosamente il panorama alla ricerca del seppur minimo indizio rivelatore. Quando oltrepassiamo quella che sembra una specie di duna ma che in realtà si rivela essere solo un altro deposito disordinato di pietrisco alluvionale finalmente riusciamo a scorgere la sagoma inconfondibile di un aereo. Ecco finalmente la nostra meta finale. Decine di figure, piccole come formiche, circondano la carcassa ormai morente di quella che una volta era una macchina volante; frenetiche come predatori si accalcano, ognuna quasi reclamasse, la propria parte di ricompensa, la propria parte di bottino. Sembra di assistere ad una scena di caccia nella savana, con i cacciatori accalcati sulla carcassa in preda ad una sorta di frenesia alimentare. Ci avviciniamo finalmente alla carlinga del vecchio Dakota della marina statunitense che giace ancora abbandonato sulla spiaggia, dove precipitò, un giorno imprecisato del novembre del 1973. Da quel giorno è divenuto un’icona di questa parte dell’isola e negli anni si è trasformato in una vera e propria attrazione turistica per chiunque avesse avuto l’ardire di avventurarsi attraverso questo nulla più assoluto. Una volta bisognava munirsi di pazienza ed ardimento, poi giunse l’era del gps, oggi invece arrivare fino al sito dell’impatto è abbastanza agevole, bisogna solo avere la voglia e la pazienza di camminare per circa tre chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. Avevamo letto da alcuni resoconti che bisognava essere muniti di dispositivi di localizzazione per trovare il sito dell’incidente ma la realtà è mutata nel breve volgere di pochi anni. Il passaparola sulla rete ha prodotto un effetto deflagrante e il luogo è finito per divenire un sito che attira turisti da tutto il mondo. Niente più avventura selvaggia, nessuna esplorazione ma solo puro e semplice turismo. Il sole nel cielo martella la spoglia carlinga senza ali, il metallo è caldo come fosse il fondo di una pentola sul fuoco nonostante il solito vento secco spazzi la piana tuttintorno

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alleviando, solo in parte, la sensazione di calore. Niente da dire, un relitto arenato, una carcassa senza tempo, ha un suo fascino e restituisce al luogo una attrattiva tutta sua ma ci vuole pazienza per attendere il proprio turno e ricavarsi uno spazio per strappare un ricordo anzi, ad essere sinceri, è praticamente impossibile riuscire a fare una serie di scatti decenti. Vista l’ora, l’affollamento è quasi al massimo e tutti cercano di catturare il ricordo da portare a casa, di lasciare la traccia della proprio presenza. Qualcuno esagera così decidiamo così di metterci un pò in disparte ed aspettare che la maggioranza dei presenti decida di far ritorno verso il parcheggio. Ciononostante, alcuni più ostinati, non si arrendono e si accaniscono contro i resti del relitto, quasi a volerne fare una specie di affare privato. Aspettiamo ed aspettiamo ancora ed alla fine la nostra tenacia viene parzialmente premiata. Non nascondiamo che qualche discussione, inevitabilmente, sia nata ma il tempo e l’incomunicabilità linguistica hanno contribuito a disinnescare ogni possibilità di attrito sul nascere. Scattiamo qualche foto, alcune risulteranno più riuscite di altre e fanno si che questa parentesi sul povero Dakota non susciti in noi quelle emozioni provate altrove. Troppo Glamour, troppa confusione, troppo cool lo scatto sul relitto che senza dubbio conserva un suo fascino ma tuttavia è troppo poco in linea con il resto del viaggio. Dopo qualche tentativo preferiamo lasciare il Dakota alla merce degli altri avventori e degli elementi che lentamente lo stanno corrodendo e mestamente facciamo ritorno verso la macchina. La tappa al Dakota è ormai entrata a far parte di quasi tutti tour, un passaggio che andava fatto ma che, a posteriori, non rifaremmo. Forse sarebbe stato più sensato tentare in un altro orario, con altre condizioni meteo e la speranza di non trovarci in un momento troppo affollato. Allora si, in questo caso le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa ma, purtroppo, non è andata così e la storia ha preso un’altra direzione. Non sempre tutte le ciambelle riescono


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con il buco, neanche in Islanda. Come in altri viaggi qualcosa può sempre andare storto. Una volta in strada, sul solito ring, è impossibile non imbattersi nella nostra prossima tappa. Skogafoss, non è molto distante, è qualche chilometro più in là ed è una delle cascate più visitate d’Islanda. Non è la cascata più imponente ma è comunque una delle più scenografiche. Una sosta non la possiamo negare ad una simile meraviglia. Il salto che la cascata compie , verso sera, con le giuste condizioni di luce, genera anche un pittoresco e caratteristico arcobaleno che abbiamo la fortuna di ammirare anche se per pochi minuti. Il terreno ghiacciato non favorisce un avvicinamento specie nella parte che ormai, vista l’ora, è per la maggior parte in ombra. Un fitta nebbiolina originata dalla cascata investe tutti quelli che, in preda ad un avventato slancio di euforia, si avvicinano alle rocce sottostanti la cascata. Vista la situazione preferisco rimanere un pò distante, avventurandomi tra le pietre del letto del fiume per cercare una qualche prospettiva interessante per uno scatto. Niente di mirabolante, siamo verso sera e la stanchezza per il continuo peregrinare ha già iniziato a farsi sentire. Martinica sta accusando la stanchezza ancora più di me, tanto da decidere di cercare un pò di riposo su una delle poche panchine incontrate in tutta l’isola. Il messaggio è chiaro, è ora di concludere la giornata e puntare ad un meritato riposo. Ci rimettiamo in macchina e da qui in poi sarà solo una lunga marcia d’avvicinamento al nostro penultimo albergo. Una sistemazione distante, una tappa fuori dal coro per permetterci l’ultima divagazione di questa saga Islandese. Con un lungo balzo attraversiamo tutta la parte meridionale dell’Isola sfiorando i grandi vulcani. Ammiriamo per l’ultima volta Seljandafoss mentre il tramonto ci accompagna proprio quando attraversiamo Selfoss. Lentamente risaliamo le montagne innevate che ci separano da Rejkyavik prima di ridiscendere, prudentemente, verso la capitale. Il cielo terso ci permette di ammirare panorami

montani innevati ed ibernati nel freddo della notte. Sbuffi di vapore salgono da dietro le colline rivelando le posizioni dei campi termali ed infine arriviamo a Rejkyavik quando è già sera inoltrata. C’è traffico, o forse è solo un’impressione dopo tanti giorni trascorsi in quasi completa solitudine, e un pò di macchine in circolazione ci appaiono come una novità clamorosa. Purtroppo con il traffico notiamo anche che le strade sono in condizioni pessime, neve e ghiaccio sono praticamente ovunque, sulla carreggiate o ammassate ai bordi delle strade e non consentono una circolazione in completa sicurezza. Giunti nella capitale abbiamo avuto la chiara sensazione che le condizioni delle strade siano di gran lunga peggiori di quelle incontrate finora nelle zone rurali. Stranezze tutte Islandesi. Percorriamo tutta la circonvallazione esterna e superiamo la città, la nostra metà non è Reykjavik ma un piccolo punto a nord dove ci aspetta un piccolo motel. Compiamo questo lungo salto per motivi principalmente logistici dovendo l’indomani avventurarci ancora più a nord. Quando la sera ha già rubato la scena al pomeriggio ed il blu intenso riempie il cielo veniamo rapiti dal dall’inizio della danza aggraziata dell’aurora. All’inizio sottile e sinuosa, sale dal mare occidentale per poi aprirsi potentemente a ventaglio proprio allo zenit, danzando flessuosa ed eterea come una ballerine dell’opera. Probabilmente a queste latitudini è uno spettacolo a cui sono abituati ma per noi, semplici girovaghi mediterranei in cerca di avventura, ci appare come uno dei più grandi spettacoli della natura, un’apparizione mistica, quasi divina. Immaginiamo e capiamo lo stupore dei viaggiatori nei tempi andati quando per la prima volta si imbattevano in questo potente spettacolo della natura ed è chiaramente intuibile come il suo etereo fascino potesse rapire l’immaginazione alla stregua delle sirene di Ulisse. Anche oggi, nonostante la spiegazione scientifica abbia ormai svelato il mistero che si cela dietro le luci del nord, non si può negare che conservi in

maniera del tutto immutata il suo fascino. E’ la potenza della terra, del sole e delle forze magnetiche. Una concomitanza di fattori che soggiacciono ad un fenomeno naturale sempre stupefacente. Il viaggio è sempre un continuo apprendere, un modo per conoscere sempre meglio il mondo attraverso l’esperienza diretta, scoprendo l’enorme complessità di questo pianeta che si rivela essere non come un’entità a se stante ma parte di un sistema molto più complesso e dinamico. Un universo popolato e composto da altri corpi celesti. E’ la potenza della fisica e dell’astronomia, che unendosi alla geologia e alla dinamica terrestre si manifestano in tutta la loro complessità. Lo spettacolo è maestoso e speriamo di arrivare a destinazione prima che il fenomeno diminuisca d’intensità. Proseguendo verso nord il traffico diminuisce considerevolmente con l’aumentare della distanza da Reykjavik. Dopo aver superato un’infinità di rotatorie il ring riprende a scorrere in maniera abbastanza scorrevole e verso nord si affievoliscono le luci arancioni delle lampade al sodio, nel cielo le stelle hanno ripreso a brillare in tutta la loro intensità mentre l’aurora continua a brillare senza soluzione di continuità. Vorrei fermarmi ad ammirare lo spettacolo ma non ci sono molto piazzole dove parcheggiare l’auto ed in più bisogna aggiungere che siamo molto in ritardo. Siamo certi che una sosta per osservare il cielo si trasformerebbe in una pausa molto, anzi troppo, lunga. A questo punto decidere di proseguire non è un’opzione ma una scelta quasi obbligata. Quando sopraggiunge la sera abbiamo ancora qualche decina di chilometri da percorrere ed anche se in strada il traffico si fa sempre più rado decidiamo di non aumentare troppo l’andatura per mantenere una guida sicura, con la sera, infatti, immancabilmente si è affacciato il gelo con la temperatura esterna è precipitata sotto lo zero. Più in avanti la strada costeggia il mare eppoi dopo una curva il manto stradale si inarca per precipitare

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letteralmente verso il basso. Giungiamo nei pressi dell’imbocco del tunnel stradale di Hvalfjordur dove gli ingegneri hanno progettato e costruito una galleria sottomarina per oltrepassare un fiordo ed evitare di dover seguire la tortuosa linea di costa risparmiando agli automobilisti un tratto stradale di quasi cinquanta chilometri. Costruire un ponte a certe latitudini, vista anche la larghezza del fiordo nella sua parte terminale prima dello sbocco in mare aperto, sarebbe stato un azzardo ingegneristico che avrebbe fornito più problemi rispetto alle soluzioni che avrebbe dato. In certe condizioni è stato quasi normale valutare la realizzazione di un lungo tunnel sottomarino che sarebbe dovuto scendere fino a centosessantacinque metri sotto il livello del mare, un’impresa ingegneristica degna di nota. I costruttori per raggiungere una simile profondità e tornare in superficie in un tratto di soli cinque chilometri hanno dovuto applicare una pendenza così rilevante che la strada perde quota quasi si fosse su una strada di montagna. L’imbocco del tunnel è ben illuminato ma poco dopo aver iniziato a percorrerlo veniamo colti da qualcosa di veramente inaspettato. Difficile descrivere quello che accadde nei brevi secondi successivi all’ingresso della galleria; improvvisamente l’illuminazione si fa più fioca e la vista comincia ad offuscarsi. Non c’è tempo di pensare, di capire quello che sta accadendo, perché tutto avviene rapidamente, la strada si fa incerta per poi sparire. Una rapida occhiata basta per capire che tutti i vetri si sono appannati mentre la strada si avvita nel sottosuolo. L’ultima cosa che riesco a vedere è la strada che si incurva a sinistra e per questo tengo il volante ben saldo per continuare con quella traiettoria, attraverso i vetri un fascio di luce illumina il finestrino ed intuisco che potrebbe essere una veicolo che procede in senso inverso. Nel tentativo di risolvere l’imprevisto cerchiamo di azionare le ventole dell’aria nel tentativo disperato di cercare di riguadagnare la visibilità perduta. Siamo come chiusi in una capsula del

tempo, isolati dal mondo esterno e non sapendo se qualche altro veicolo è nel frattempo giunto alle nostre spalle non posso nemmeno arrestare immediatamente la marcia. Qualsiasi opzione avessimo messo in campo avrebbe potuto essere un suicidio. Sarebbe potuta essere l’ultima nostra scelta. Nei pochi secondi di stallo procediamo alla cieca e non ci rendiamo conto di quanto stia accadendo. L’adrenalina fa pompare il cuore a mille all’ora quasi stesse esplodendo, anche Martinica al mio fianco, dopo i primi attimi di sorpresa cerca di reagire ed infine aziona le spazzole tergi vetro. Improvvisamente i nostri occhi tornano a rivedere la retta via che avevamo smarrito. Due fari illuminano la strada per poi sfilare, ho l’impressione, anche se piuttosto vaga, del suono di un clacson, non ricordo bene, non ricordo se in quegli istanti fossimo in carreggiata oppure procedessimo sull’altra corsia. Non posso ricordare e ancora oggi decifrare quegli istanti concitati mi provoca angoscia per il grande pericolo scampato. Quei brevi istanti delle nostre vite è come se restassero sospesi nella nostra memoria, come dei ricordi di sottofondo sbiaditi ma indelebili che il mio subconscio volesse cancellare senza poterci riuscire. No, non si può morire per una cazzata del genere. Dopo il pericolo scampato seguì una lunga pausa, un silenzio pesante quasi ancora gravato dal grave pericolo scampato. Apro il finestrino solo un attimo e sento un’aria calda e densa entrare nell’abitacolo ed è subito facile intuire e comprendere finalmente quanto accaduto. Lo sbalzo termico prodotto dal contatto della superficie della macchina esposta al freddo della sera islandese ha fatto si che l’aria calda ed umida ristagnante nel tunnel condensasse immediatamente sui vetri della macchina. Mai avrei potuto pensare potesse avvenire un simile fenomeno ad una velocità così repentina. Non ricordo di aver vissuto momenti di così intensa paura, anzi di panico, per una situazione completamente imprevista e fuori dal nostro controllo. Quando usciamo dal tunnel è notte,

l’aurora imperterrita ancora danza nel cielo ormai buio. Una volta riemersi sotto le stelle ci fermiamo per pagare il pedaggio per il passaggio nel tunnel per poi continuare a viaggiare in direzione nord. Poche parole bisbigliate spezzano un silenzio che a tratti si è fatto pesante e quando le pulsazioni cardiache hanno iniziato a toccare livelli più accettabili riusciamo a parlare nuovamente. Non bisogna fare i fenomeni e negare che la paura è stata veramente tanta. Raggiungiamo e superiamo Akranes ed arriviamo a Borganes, da qui in avanti la strada inizia a piegare verso l’interno ed improvvisamente spariscono anche tutte le luci che, nella notte, seguivano il profilo della costa disegnando nelle tenebre il confine tra il mare e la terra. Con le luci perdiamo anche gli ultimi punti di riferimento, l’Islanda da qui in avanti si fa più buia e misteriosa, una landa sopraffatta dalla neve e ibernata nelle tenebre. Il ring, dopo Borganes, si fà strada verso l’entroterra e punta verso le coste settentrionali, verso Akurery e Husavik anche se noi non giungeremo mai a toccare i porti del nord. Noi ci fermeremo molto prima, in un piccolo motel nascosto in un punto imprecisato ed anonimo senza un perché. Intorno non riusciamo a percepire il panorama, c’è solo neve e la strada continua verso nordest perdendosi nella fredda notte Islandese, asfalto e ghiaccio senza soluzione di continuità in una monotonia scalfita solamente dai fari potenti dei grossi camion che sfidano la notte pestando duro sull’acceleratore. Giunti nei pressi del motel riusciamo faticosamente a guadagnare l’entrata del parcheggio ostruita da mucchi di neve che per il freddo hanno già iniziato a diventare duri come il marmo. Il motel è un avamposto di frontiera, qualcosa che ricorda ad una stazione della posta ed infatti è solo uno scalo tecnico in un luogo strategico nel mezzo del nulla. Un punto sospeso ai confini del mondo, malamente illuminato dall’acida luce delle lampade stradali sopraffatte dai riflessi delle potenti lampade al sodio che contrastano fastidiosamente il buio del cielo stellato illuminando il freddo cielo islandese di

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un’irreale luce color arancio che copre e disturba la visione dell’aurora. Veniamo accolti dal proprietario, un uomo alto, con lunghi capelli grigi e dal volto spigoloso. Indossa un cappello da cowboy che non ci inganna e che non riesce a mascherare il suo antico lignaggio vichingo ancora visibilmente impresso nei geni protetti da secoli di quasi assoluto isolamento. L’albergo non è il massimo del comfort, in Islanda è difficile lo siano. Il bar è quasi deserto e la nostra stanza si dimostra essere ai limiti dell’essenziale, spartana ma funzionale, praticamente in sintonia con il nostro stile di viaggio. Su indicazione del proprietario raggiungiamo una piccola altura proprio alle spalle del motel per poter vedere l’aurora lontano da luci fastidiose ma il posto non si rivelerà essere particolarmente felice per scattare foto degne di nota, così decidiamo di riprendere la macchina nonostante la stanchezza per le molte ore di viaggio. E’ giunta anche per noi l’ora di pretendere la nostra dose di aurora boreale. Non possiamo limitarci a pensare di aver esaurito le nostre possibilità con la fugace apparizione del secondo giorno, di un’aurora che, anche senza la presenza di una discreta coltre nuvolosa, non avrebbe avuto quei crismi da poter essere annoverata tra gli eventi da ricordare. Non adesso, non dopo aver ammirato quanto visto finora nel cielo. Pretendiamo allora che l’atmosfera si prepari al meglio per regalarci uno di quei spettacoli di danza che da tempi immemorabili anima ed inquieta il cuore degli ignari esploratori ed affascina da sempre le popolazioni nordiche. Ma quella notte l’aurora si sarebbe dimostrata magnanima e non sembrava voler risentire della lunga attività, infatti nonostante fossero trascorse ormai più di quattro da quando aveva iniziato a risplendere nel cielo ancora continuava imperterrita a disegnare le proprie trame sulla volta stellata. Cerchiamo più volte luoghi adeguati che possano permettere scatti consoni al momento ma, sfortunatamente, ci accorgiamo di essere finiti intrappolati nel luogo meno fotogenico dell’intera isola. Nessuna vetta, non

un fiume o una cascata, ne spiagge o panorami per fare da degna cornice ad un’aurora intensa e per lunghi tratti veramente spettacolare. Onnipresenti luci parassite continuano ad illuminare le poche nuvole basse che finiscono con il colorarsi di un innaturale colore arancione che contrasta malamente con il verde dell’aurora. Alla fine ci rassegniamo alla consapevolezza di essere stati abbastanza sfortunati nella scelta del motel anche se, ad onor del vero, non è che avessimo avuto moltissima scelta. Confidando e scommettendo sulla scarsità demografica islandese, pensavamo di finire nella tenebra più assoluta ed invece in una terra così anomala e ricca di forti contrasti sarebbe stato meglio non dare mai niente troppo per scontato. Tutti i nostri tentativi di provare luoghi diversi non portano a risultati eclatanti e così alla fine non ci resta che rimanere con il naso all’insù ad ammirare questo regalo della natura, dimenticandoci per lunghi tratti del freddo che, con il trascorrere delle ore, si era fatto estremamente pungente. Molto dopo la mezzanotte anche le mie rudi mani iniziano ad accusare i primi effetti del gelo intenso amplificato dal tocco gelido con il treppiede in alluminio, irrigiditosi e ormai quasi ingestibile dopo le molte ore di esplosione a temperature, questa volta si, polari. Martinica, dal canto suo, ha già da tempo mollato la presa e nonostante il fascino dell’aurora preferisce rimanere al caldo nell’abitacolo della macchina combattuta, nemmeno tanto, tra il sonno che di tanto in tanto riesce a prendere il sopravvento. Per lunghi tratti cerco di resistere, incurante di tutto, spinto dalla recondita consapevolezza di essere, probabilmente, di fronte alla mia ultima aurora boreale. Ma quando il freddo raggiunge punte rimarchevoli decido di aver testato anche abbastanza a lungo la capacità di resistenza e sopportazione della mia compagna e, nonostante continuasse ad affermare il contrario, sul suo viso potevo vedere chiaramente i segni della stanchezza. Di fronte a simili prove d’amore riporre tutta l’attrezzatura fotografica nello zaino per

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andare a letto è l’unica scelta giusta da fare. Una volta fatto ritorno in albergo arrivare dalla macchina fino alla stanza è un’avventura tra i ghiacci, con la neve che con il freddo si è trasformata in una distesa di ghiaccio squassata e fratturata dalle tracce profonde dei pneumatici dei camion. In giro non c’è più nessuno, anche la precaria insegna del motel, una delle poche flebili tracce di presenza umana, è stata ormai spenta. Fa molto freddo quindi è inutile indugiare troppo così in men che non si dica siamo sotto le coperte. Dopo le magiche luci dell’aurora non trascorriamo una notte tranquilla. Rumori, voci e passi nell’albergo contribuiscono a disturbare il nostro sonno. Qualcuno corre nel corridoio, appena oltre la porta della nostra stanza. Delle urla, forse alimentate dall’alcool, si perdono nel freddo della notte. Al mattino impieghiamo qualche minuto in più a liberarci delle scorie della notte e facciamo una gran fatica per recuperare dalla stanchezza accumulata nei giorni precedenti. Inevitabilmente i nodi di una vacanza fatta senza una attimo di tregua stanno venendo al pettine anche se sapevamo, fin dall’inizio, che sarebbe stato il prezzo che avremmo dovuto pagare nella nostra continua ricerca di panorami sempre nuovi, nella impari lotta contro il tempo per cercare di vedere e godere quanto più possibile durante questo viaggio. Nessuna novità dunque, solamente la puntuale riproposizione del nostro consueto stile di viaggio, affascinante ma alla fine anche un pò stancante; in fondo non esiste meta che possa essere raggiunta senza un minimo di sacrificio. Tutto questo lo sapevamo già e preventivamente avevamo accettato questa sfida, simile ad alcune già affrontate in passato e che ci avevano sempre lasciato ricordi indelebili di terre bellissime che, ancora oggi, abbiamo la fortuna di portare sempre con noi. E’ solo una questione di stile e di sapersi arrangiare un pò. Niente di trascendentale.


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UN FINALE AMARO Al mattino, nonostante il sole splendente che illumina il panorama, fa un gran freddo e quando ci svegliamo tutto è ancora stretto nella morsa del gelo. Prima di lasciare l’albergo sfruttiamo per l’ultima volta la rete Wifi e prenotiamo quella che sarà la nostra ultima escursione in terra d’Islanda. Abbiamo deciso di concludere il viaggio alla ricerca delle orche, coronando in questa maniera un viaggio memorabile che ci ha riservato molte scoperte ed altrettante sorprese.

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La partenza è fissata per il primo pomeriggio e quindi ci resta ancora abbastanza tempo per raggiungere la cittadina portuale di Grundarfjordur da dove salperemo per le fredde acque dell’Atlantico settentrionale. Con la luce del sole ci appare un’altra Islanda, scintillante e gelida ma meno confusa di quella vista, anzi non vista ma intuita, nella notte precedente. Scopriamo così che proprio a qualche metro dal nostro albergo iniziano le pendici del Ga-

brok, un vulcano non troppo elevato che sorge proprio lungo la strada. Decidiamo di intraprendere la breve camminata che ci condurrà fin sulla sommità del cratere da dove potremo godere di una vista a trecentosessanta gradi sulla valle. La salita è breve e dopo un approccio facilitato da una scala in legno di recente installazione, percorriamo gli ultimi metri calpestando un terreno misto di neve fresca e cenere vulcanica per poi accedere sulla sommità del cono da dove ci af-


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facceremo direttamente sul cratere. Dall’alto ci accorgiamo che il Gabrok non è una struttura singola, nelle immediate vicinanze, infatti, si erge nel paesaggio un cono gemello in parte sfigurato da una vecchia cava ormai in disuso mentre anche altre bocche minori sono celate sotto la neve fresca. Il Gabrok è il testimone di un vulcanesimo più antico rispetto ai grandi e giovani complessi vulcanici della regione meridionale dell’isola, infatti, più ci si allontana verso nord ovest e più antiche diventano le tracce delle attività vulcaniche. Verso nord ovest ci si allontana da quella dorsale medio atlantica che è anche il deus ex macchina dell’isola. A differenza della lande meridionali, qui i segni dell’attività vulcanica, comunque sempre presenti, si fanno meno evidenti, confusi dalla pesante erosione dovuta alla perenne era glaciale che ha imprigionato l’isola per decine di migliaia di anni. I basalti colonnari, scuri e torreggianti, sono parzialmente coperti dai sfasciumi detritici dovuti al continuo ciclo di gelo e disgelo che martella la roccia come un potente maglio. Tracce di ere geologiche passate che si nascondono sotto la neve ma che sono, comunque, evidenti ad una più attenta osservazione. Sulla sommità, il freddo del mattino, si fà persino più pungente e l’immancabile presenza del gelido vento artico spinge la colonnina di mercurio con più forza sotto zero. Qui, lontano dal mare, i rigori dell’inverno Islandese tornano a farsi prepotenti ed in breve sentiamo la necessità di scendere di quota e ritornare dove il vento è meno invadente. Prima di alzare bandiera bianca però cerchiamo di approfittare della luce scattando qualche foto dopodiché cominciamo la breve discesa che ci riconduce alla macchina. Senza l’aurora il panorama innevato d’Islanda torna a riprendersi la scena e facciamo fatica a riconoscere la strada percorsa solo poche ore prima. Uno dei pochi punti di riferimento che riusciamo ad individuare è l’elegante silhouette di un monte dal profilo piramidali e dai pendii estremamente scoscesi che si erge maestosamente sulle più morbide

e tozze montagne circostanti. Sorpassiamo una chiesetta dispersa tra i prati innevati eppoi svoltiamo verso nord fidandoci della nostra fedele carta geografica. La strada inizia ben presto a farsi tortuosa, le pareti della valle si stringono quasi ad accerchiare la strada che inizia a salire con più decisione. Intorno tutto sembra essere imprigionato nella morsa del gelo. Incrociamo un unico bus scende in senso opposto con un velocità francamente azzardata, per il resto regna solo quella solitudine che sembra essere una prerogativa prettamente Islandese. Dopo qualche chilometro raggiungiamo il punto più alto e rimaniamo sospesi per un pò tra l’azzurro del cielo e il bianco cangiante della neve. Niente altro se non la strada che avanza verso l’ignoto per poi gettarsi in discesa in una valle dalla chiara origine glaciale. In fondo alla discesa, parecchi chilometri più in là, dovremmo tornare ad affacciarci sul mare. Al riparo dai freddi venti polari, sul versante sudoccidentale della montagna, boschi stentatati di betulle e conifere sono stati messi a dimora dall’agenzia forestale statale nel tentativo di combattere la pesante erosione del suolo che costituisce un annoso problema in tutta l’isola. Un problema, quello della copertura arborea, sconosciuto quasi a tutti. L’Islanda infatti pur essendo investita da un clima non certo favorevole alla crescita rigogliosa di alberi di alto fusto, un tempo aveva una copertura forestale di tipo sub artico molto più estesa di quella attuale. Il panorama che oggigiorno possiamo ammirare è stato pesantemente influenzato dalla mano dell’uomo che, specialmente, nei primissimi secoli successivi all’anno mille ha deforestato quasi tutta l’isola trasformandola di fatto in un deserto artico spazzato dal vento. In simili condizioni la normale ricrescita di un, seppur minimo, patrimonio forestale è stato praticamente nullo. Negli ultimi anni qualcosa è stato fatto, ampie zone sono state ripiantumate con specie e tipologie di alberi adatte ai climi rigidi delle zone boreali ma non tutti i tentativi hanno avuto i risultati sperati. Alcune operazioni hanno avu-

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to successo mentre altre hanno lasciato come unico segno dell’opera dell’uomo una triste distesa di scheletri di legno aggrediti dal gelo e dal ghiaccio. Mentre sfiliamo tra legioni di alberi morenti la strada riguadagna velocemente quote più prossime al livello del mare ed in fondo ad un lungo rettilineo in discesa giungiamo al primo bivio che ci condurrà ad ovest. Dopo quasi un giorno torniamo a vedere quel mare che praticamente ci ha sempre accompagnato durante tutto il nostro viaggio. Ci immettiamo in una stretta strada che segue il profilo della costa con lunghi rettilinei, sotto le nostre ruote non troviamo asfalto ma solo un fondo sterrato coperto da uno spesso strato di ghiaccio. Ci fermiamo per prendere un pò di aria fresca e quando siamo con i piedi in terra scopriamo che è persino difficile stare in piedi senza scivolare. E’ in questi frangenti che ci si rende conto di quanto possano essere efficaci i pneumatici invernali, infatti durante la marcia, a parte qualche tratto estremamente difficoltoso sono stati rari i momenti in cui siamo incappati in pericolose perdite di aderenza. Se al sud dell’isola, all’ombra dei grandi vulcani, ci eravamo sentiti quasi persi negli ampi spazi dei Sandur, qui la sensazione di solitudine è, se possibile, quasi maggiore. Il panorama, più lieve e meno estremo, nonostante la sua vastità gentile non riesce ad alleviare in noi quel senso di inquietudine dovuto alla pressochè totale assenza di vita umana. Percorriamo chilometri in perfetta solitudine accompagnati dal silenzio di una brughiera ingiallita dall’inverno, di tanto intanto incrociamo qualche deviazione che conduce a misteriose fattorie disperse nella monotonia del panorama di questo remoto angolo di mondo senza riuscire ad immaginare chi possa vivere qui durante tutto l’anno. La rarefazione della presenza umana di questa parte d’Islanda è ancor più acuito dal panorama innevato che incontriamo quando iniziamo a percorrere la strada che si inoltra sulla costa settentrionale della penisola dello Snaeffless. Quando si nasce


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in Islanda si deve far ben presto l’abitudine alla naturale rarefazione dei contatti umani, specie vivendo nelle zone rurali, perché se, nella zona di Rejkyavik si vive tranquillamente su livelli paragonabili a quelli degli altri paesi avanzati, man mano che ci si allontana dalla zona della capitale la presenza umana diventa sempre più diluita e ben presto ci si accorge che l’uomo qui, per sopravvivere, è dovuto scendere a patti con la natura. Il panorama della penisola dello Snaefells è diverso da quello incontrato nella regione dei grandi vulcani ma non per questo meno maestoso. Alte montagne precipitano in mare e la strada fatica non poco per aprirsi un varco verso occidente scavalcando fiordi e valli profonde. Tutto è immerso nella neve e ad ogni curva il paesaggio svela nuovi scorci che ci lasciano senza parole. Il rovescio della medaglia è una velocità di marcia estremamente bassa per via del fondo completamente ghiacciato ed innevato. Più avanziamo verso occidente e maggiori sono le difficoltà nel proseguire su una strada che ormai riusciamo ad individuare solamente dai paletti di segnalazione nivometrici. In pochi chilometri la terra ha cambiato improvvisamente veste, virando dalle tinte gialle dell’erba secca al bianco polare della neve fresca. Fortunatamente ci siamo mossi per tempo e quindi non abbiamo timore di non raggiungere la nostra destinazione finale e quando finalmente la traccia ghiacciata termina ritorniamo a percorrere una strada che si possa essere definire come tale. Da qui in avanti la marcia si fa decisamente più agevole. Percorrendo la statale cinquantaquattro ci inoltriamo nella penisola di Snaefell, una tormentata lingua di terra che si protende nelle pescose acque dell’oceano Atlantico. Grandi montagne si susseguono nella parte centrale formando l’ossatura di una penisola forgiata dal fuoco che si getta nelle acque del mare all’ombra del grande vulcano dello Snaefellsjokull, divenuto noto agli appassionati di letteratura d’avventura di tutto il mondo per essere il luogo da cui

Julius Vernes fa iniziare il fantastico viaggio verso il centro della terra narrato nell’omonimo libro. Nel racconto proprio su questo vulcano si apre l’accesso ad un fantastico mondo sotterraneo che porterà i protagonisti, dopo mille avventure, a riemergere dalla bocca eruttiva di un altro famoso vulcano, questa volta in Italia, l’Etna. Negli ultimi anni lo Snaefellsjokull è tornato ad assurgere alle cronache per motivi meno prosaici e di tutt’altro tenore, gli scienziati islandesi lo stanno tenendo sotto stretta osservazione considerandolo un termometro del cambiamento climatico in atto. Secondo alcuni studi ed i più accurati modelli, stando l’attuale ritmo di crescita delle temperature su scala globale, lo Snaeffellsjokull dovrebbe essere il primo ghiacciaio Islandese a sparire completamente entro il termine del ventunesimo secolo. In termini assoluti non si tratterebbe di una perdita in grado di compromettere troppo l’ambiente circostante, essendo la calotta isolata dagli altri sistemi ed avendo quindi scarsi ricadute sull’ecosistema globale ma sarebbe l’ennesima conferma di una tendenza in atto da oltre mezzo secolo. Questo, però, sarebbe il primo passo che porterebbe ad un più reale sconvolgimento dell’intero emisfero boreale. Un destino che sembra incombere pesantemente, eppure vedendo tutta quella neve ed il gelo che l’accompagna è difficile credere di essere ad un passo dal baratro. Pensieri cupi che da qualche giorno non faticano a riemergere quando la mente torna a rimuginare su certi scenari. La strada verso Grundarfjordur è di recente costruzione, ampia e con morbide curve che si insinuano tra mare e montagna quasi senza disturbare l’irreale paesaggio innevato. Grundarfjordur è poco oltre, dopo aver sorpassato un lungo ponte che separa le acque di un fiordo dal mare e una discesa che aggira una montagna che cela completamente alla vista la cittadina che appare dopo aver effettuato l’ultima curva. In fondo alla baia, oltre i pochi tetti che circondano il

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porto c’è Kirkjufell, la grande guglia che sovrasta la città verso occidente e che in verità, da una prospettiva stradale, non sembra particolarmente maestosa. Confidiamo che il tempo ci possa dare l’opportunità di essere smentiti. Arrivare a Grundarfjordur è anche giungere praticamente alla fine del viaggio, oltre non potremo andare per questioni di tempo. Il giro in nave sarà l’ultimo capitolo di un percorso breve ma intenso. Una volta tornati a terra non ci rimarrà altro che iniziare a riavvicinarsi alla capitale dell’isola per concederci magari anche un pò di relax urbano. Arrivare a Grundarfjordur conferma una caratteristica delle cittadine Islandesi nelle quali è molto difficile perdersi ed in breve siamo padroni del luogo. Non c’è molto da ricordare, c’è una chiesa, la caserma della polizia, i vigili del fuoco, un piccolo supermercato e di fronte la stazione di servizio; oltre questo poco o nulla. A Grundarfjordur però c’è anche un porto che è praticamente il fulcro della vita cittadina nonché la fonte principale di reddito per molti dei suoi cittadini. Pescherecci e navi mercantili sono ormeggiati nel piccolo porticciolo dove arriviamo verso le dodici di un sonnacchioso giorno infrasettimanale. Poca gente in giro. Una famiglia osserva il grande bus dall’aspetto un pò kitsch che è parcheggiato proprio vicino al molo, probabilmente, come noi, saranno turisti in attesa della partenza. Girovaghiamo un pò per il piccolo porticciolo ma visto il largo anticipo con cui siamo giunti decidiamo di fare un giro. In città non c’è molto da vedere quindi oltrepassiamo le ultime case ed in breve siamo ai piedi di Kirkjufell. La montagna torreggia solitaria sulla baia in secca per via della bassa marea. Decidiamo di parcheggiare e concederci una breve passeggiata. La montagna si erge a memoria di antiche glaciazioni che ne hanno profondamente segnato i fianchi. I suoi pendii dalla nostra prospettiva ora si sono fatti più ripidi dando alla montagna un aspetto molto più slanciato e piramidale, una svettante cattedrale sospesa tra la sabbia umida della battigia ed il cielo terso. Bello ma


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non così memorabile da togliere il fiato e spingere fin qui frotte di turisti per ritrarla in migliaia di scatti reperibili praticamente ovunque sul web. Forse saremo ancora noi a non capire, ad essere troppo critici ed un pò fuori dal coro ma il profilo slanciato ed a gradoni di Kirkjufell non ci entusiasma, almeno non più dei moltissimi panorami che abbiamo incontrato lungo la strada per giungere fin qui. Probabilmente le condizioni di luce non sono quelle adatte per immortalare questo monumento naturale e quindi non dedichiamo altro tempo alla montagna cosiccome alle cascate situate proprio di fronte, dall’altra parte della strada, si tratta infatti di semplici salti d’acqua come in Islanda potete trovare praticamente ovunque. Decidiamo, allora, di fare quattro passi sulla sabbia ancora morbida per la marea che si è appena ritirata e poco dopo siamo già in macchina per tornare verso il paese. Salutiamo l’ennesimo bus di cinesi con cucina mobile al seguito che dispensa pasti e bibite nel piccolo parcheggio ed in breve siamo nuovamente al porto. Scendiamo dalla macchina e rimaniamo in attesa. Gli altri nostri probabili compagni di viaggio sono ancora lì e sembrano anche loro impazienti di partire. Ormai non manca tantissimo tempo e nessuno si è fatto ancora vedere. Nel porto le scarne attività procedono stancamente e abbiamo la sensazione che nessuno stia approntando l’imbarcazione per la gita. Chiediamo, in inglese, ad alcuni turisti giapponesi informazioni in merito alle partenze dei tour, ma abbiamo la strana percezione di parlare ad uno specchio, ricevendo solo una risposta vaga e un pò sconclusionata. Alla fine intuisco e propendo per la risposta affermativa dal momento che il mio interlocutore mi ha risposto con tantissimi sorrisi e svariati “yes”. Aspettiamo ed aspettiamo ancora e come noi sembrano attendere anche altri avventori con l’aria ormai spaesata e molto dubbiosa. Alla fine raggiungiamo un bar lì vicino per chiedere lumi e quando siamo a pochi metri intravediamo l’insegna del tour operator che doveva accompagnarci per

l’escursione. Entriamo a chiedere e quando veniamo indirizzati da una cameriera a rivolgerci alla titolare ecco la doccia fredda. Effettivamente il punto di ritrovo non era il molo, come molti oltre noi avevano creduto ma la caffetteria. La titolare ci ragguagliava sul fatto che tramite email avevano provato a contattarci per informarci che la partenza era stata spostata da Grundarfjordur a Olafsvik, circa venticinque chilometri più ad ovest. Inizialmente pensiamo che la situazione sia tutto un equivoco, un contrattempo rimediabile figlio di uno scherzo o di un malinteso anche perchè, per tutto il viaggio, abbiamo utilizzato le reti wifi che i vari alberghi mettevano a disposizione alla clientela, quindi una volta partiti siamo rimasti soli, senza connessioni, isolati come viaggiatori demodè. Ad oggi non ho ancora l’onere della prova ma rimango dell’idea che durante quasi tutta la mattinata abbiamo percorso strade che molto difficilmente avrebbero potuto avere copertura della rete cellulare. Con pazienza cerchiamo di dirimere la contesa cercando di fare presente che inviare una email per spostare la partenza non può essere una giustificazione per scaricare le responsabilità sui clienti ma nessuna giustificazione porta ad una ricomposizione della situazione. Nel frattempo anche altri avventori entrano nel locale apprendendo l’amara verità. Tutti sembrano sorpresi dalla situazione. Così facciamo fronte comune e cerchiamo un confronto costruttivo ma abbiamo la chiara percezione di trovarci di fronte ad un muro. La titolare oppone strenua resistenza e respinge qualsiasi proposta che possa vagamente somigliare un onorevole compromesso. Ci troviamo ad affrontare un vero e proprio muro di gomma e ad ogni giro di lancette del grande orologio affisso sulla parete del locale sento la rabbia salire dentro di me. Martinica è contrariata quanto me anche perché abbiamo la chiara sensazione di essere stati gabbati e sentiamo oltre ad una certa dose di disonestà intellettuale anche quella che non possiamo che definire maleducazione. La signora infatti, ad

un tratto, ci volge le spalle continuando le proprie faccende ignorando del tutto la nostra presenza. Facciamo di tutto e di più, gli spieghiamo di poter leggere le email solo tramite wifi ma ogni tentativo di spiegazione è vano. Riceviamo sempre la stessa risposta: “this is our policy” che tradotto in italiano suona più o meno così: non siete partiti per colpa vostra e non vi ridiamo indietro nemmeno un euro. Anche gli altri presenti provano a fare le loro rimostranze mostrando e dimostrando di non aver ricevuto nessuna email con l’avvenuto cambio di porto di partenza, cosa che ancor oggi ci fa pensare che sia stata una deliberata strategia per gabbare qualche ignaro sprovveduto. Strategia questa peraltro vincente dal momento che ad esservi incappati alla fine siamo stati almeno sette, otto persone. Mettiamo in chiaro subito le cose, si tratta di un errore nostro sicuramente, il punto di ritrovo era indicato come il bar, lo rileggiamo sul sito solo allora ma a nostra parziale giustificazione possiamo dire che stavamo attendendo a trenta metri di distanza e nessuno ci ha avvisato dell’avvenuto cambio. Rimane in noi la sensazione forte di una mossa abbastanza furbesca. Alla fine l’unica soluzione che riusciamo a concordare potrebbe essere quella di partire il giorno seguente, ben sapendo che per molti non potrà essere possibile. Una classica vittoria di Pirro dal momento che giusto tra ventiquattro ore saremo sulla via del ritorno in volo sopra l’oceano. Alla fine, dopo tante discussioni, siamo costretti ad alzare bandiera bianca, a niente serve minacciare anche l’intervento della polizia come ultimo disperato tentativo di riuscire almeno a limitare i danni. Nessun risultato, respinti ed affondati. Sconsolati ed arrabbiati usciamo pronunciando non troppo ripetibili commenti ben sapendo di aver buttato tempo e denaro invano. Purtroppo la rabbia in questi momenti la fa da padrona portando anche ad esasperare le tensioni tra me e Martinica. Sono frangenti in cui il silenzio dovrebbe essere la regola d’oro per evitare che la concitazione del momento possa indurre a dire

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cose di cui poi pentirsi in seguito, quindi amareggiati e delusi raggiungiamo la macchina per decidere come concludere la giornata. Non abbiamo molte possibilità, ormai che la frittata è stata fatta e non abbiamo neanche lo spirito giusto per raccogliere le idee, l’entusiasmo è rimasto fuori dell’uscio della caffetteria cosiccome come la voglia di divertirsi. Niente orche, quindi, l’Islanda selvaggia si chiude qui. Decidiamo di tornare sui nostri passi e puntare verso Reykjavik, l’amaro sapore della sconfitta è difficile da dimenticare ed in più la sensazione di essere stati presi in giro mi mette un senso di disagio che ancor oggi mi provoca fastidio. Non abbiamo voglia di ridere anche se Martinica, lodevolmente, si impegna per tentare, se non di cancellare, almeno di attutire questa brutta esperienza. Purtroppo il tentativo fallisce miseramente per quanto sono accecato dal rancore e dalla rabbia, la sola idea di sapere di essere stato gabbato a queste latitudini mi provoca un fastidio che ben presto si trasforma in bruciore gastrico. La freddezza e la faccia tosta con cui hanno avuto la maestria di scucire denari al prossimo è stato uno dei momenti più irritanti tra le nostre numerose esperienze di viaggio. Incassata la sconfitta diventa difficile cercare di recuperare la giornata anche perché ormai i giorni si sono trasformate in ore ed un certo nervosismo misto a stanchezza ha iniziato ad insinuarsi in maniera strisciante, quindi non ci resta che attenerci a quanto predisposto in precedenza. Così mestamente decidiamo di raggiungere Reykjavik. Il viaggio di ritorno riparte verso sud tra silenzi e montagne innevate, impieghiamo qualche decina di chilometri prima di metabolizzare la delusione frammista a rabbia anche perché un’esperienza del genere rischia di lasciare un marchio indelebile su tutto il viaggio. Bisognava reagire prontamente, evitando che attriti e malumori amplificate dalla stanchezza potessero rendere difficile le ultime ore che precedono la partenza. Lasciata la penisola di Snaefells ritorna il sereno come

se, allontanandoci dal luogo del misfatto, si stesse anche attenuando l’influenza negativa che la brutta esperienza aveva avuto sui nostri umori. Terminiamo il pomeriggio catturati dal traffico della capitale Islandese che raggiungiamo quando è ancora giorno. Le strade, come il giorno precedente, sono ancora prigioniere della neve ed in alcuni tratti è difficoltoso circolare. Parcheggiata l’auto ci apprestiamo a fare un giro per scoprire la città. In realtà capiamo subito che a Reykjavik non è che ci sia molto da scoprire. Architettura essenziale, negozi e ristoranti dai prezzi esorbitanti non costituiscono per noi un’attrattiva troppo stimolante. Intorno non c’è molto da vedere ma probabilmente siamo noi ad aver commesso l’errore imperdonabile di aver lasciato per ultima una città che non può reggere il confronto con le meraviglie naturali dell’isola. Francamente anche a distanza di tempo e dopo lunghe riflessioni, facciamo fatica a fare commenti entusiasti su una città con poche attrattive e a cui però, colpevolmente, non abbiamo nemmeno dato troppe possibilità per poterci smentire. Così va la vita, in fondo non eravamo giunti fin qui per perderci nella scoperta delle bellezze e delle peculiarità architettoniche della città. Reykjavik è stato solo il breve intermezzo prima della nostra partenza, la fugace parentesi di una sera sbiadita ed anche se non ci aspettassimo molto, quel poco che abbiamo trovato ci ha deluso. Questioni di gusti personali senza assolutamente voler offendere nessuno e rendendoci conto di quanto affermato siamo pronti ad assumerci anticipatamente le colpe di un giudizio sommario e, forse, fin troppo superficiale. A futura memoria lasciamo a tutti quelli più volenterosi e curiosi di noi l’annoso onere della prova di smentirci, saremo felici di poterci ricredere. Recuperiamo la macchina che è quasi notte e sfilando per una delle poche superstrade dell’isola raggiungiamo Reykjanesbaer, un sobborgo proprio a ridosso dell’aeroporto dove abbiamo deciso di trascorrere l’ultima nostra notte sull’isola. Facciamo base in un piccolo ed anonimo hotel della zona

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commerciale, non troppo lontano dall’aeroporto anche se, visto il ridotto volume del traffico aereo non riscontriamo particolari disagi durante la notte. Ad essere sinceri viste anche le premesse non positive, riusciamo anche a passare una piacevole notte. Per la precisione sarebbe più corretto sostituire piacevole con riposante, dal momento che finalmente riusciamo a dormire sette, otto ore recuperando parte delle energie e della tensione accumulata. Al mattino non resta altro che radunare le ultime cose da sistemare nelle valigie e dopo un breve controllo siamo pronti per metterci in marcia sul breve tratto di strada che ci separa dallo scalo internazionale. Riconsegnare la macchina presa a noleggio è un’impresa eroica, un momento di indicibili fatiche che purtroppo, viaggio dopo viaggio, si sta facendo una pericolosa consuetudine. Consci di tutte le svariate ed imprevedibili sorprese che si potrebbero nascondere dietro il banco nella riconsegna del veicolo che abbiamo noleggiato abbiamo ormai preso la buona abitudine di presentarci al punto di riconsegna con un largo anticipo. Ormai vaccinati a tutti gli imprevisti espletiamo tutte le formalità burocratiche prima che un piccolo pulmino ci possa ricondurre presso il piccolo terminal dell’aeroporto. Una volta nello scalo, coadiuvati dai moderni assistenti di terra elettronici, imbarchiamo i bagagli e restiamo in attesa del nostro volo verso Copenaghen. Quando vediamo che i nostri bagagli vengono inghiottiti e spariscono nei meandri dello scalo trascinati dai nastri trasportatori capiamo di essere giunti veramente alla fine del viaggio. I corridoi asettici e semi deserti dell’aeroporto di Keflavik sono l’ultima cosa che vediamo dell’Islanda prima di imbarcarci e che il muso dell’aereo sfidi le nuvole basse per perdersi in un cielo uggioso come ce ne sono solo nelle giornate invernali della Val Padana. Una volta a bordo è tempo di dormire, di iniziare a metabolizzare questa avventura Islandese ed iniziare a separare i tanti ricordi belli da quei pochi episodi meno simpatici ma che ci resteranno impressi,


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comunque, come monito per il futuro. Alla fine di tutto restiamo con la certezza che non saranno sufficienti una manciata di inconvenienti a farci cambiare il giudizio su un viaggio che avevamo tanto a lungo sognato e che ci ha regalato emozioni a non finire. Forse avendo avuto più tempo e potendo contare su altri giorni, anche pochi in più, per esplorare le tante altre gemme nascoste dell’isola, avremmo potuto godere ancor di più di questo gioiello tenuto prigioniero dal mare e dai ghiacciai. Un’isola che è una vera a propria fucina di meraviglie con la sua natura incantata ed incontaminata, con i suoi ghiacciai che sono sempre lì, a ricordarci, che esistono ancora tanti angoli di mondo, ancor più remoti e selvaggi, in attesa di essere scoperti ed esplorati. L’Islanda doveva essere una meta, il punto d’arrivo ed invece non ha fatto altro che aprirci gli occhi per farci sognare nuovi orizzonti. L’isola come un faro ammaliante ci ha indicato nuove direzioni, verso quel grande nord ancora, in parte, incontaminato, verso quelle terre iperboree dove le folle preferiscono non arrivare e la natura regna severa e sovrana. Un giorno forse riusciremo ad oltrepassare quel circolo polare che abbiamo questa volta solo sfiorato. Ogni viaggio è una storia a se. Arrivati a questo punto non c’è più molto altro da dire se non custodire i ricordi con avidità, in attesa che il nostro aereo ci conduca verso sud, verso quella Copenhagen da dove siamo partiti stanchi ed assonnati dopo una notte trascorsa in aeroporto tra bagagli e monitor accesi solo qualche giorno prima. Felicemente stanchi torniamo a casa ancora più curiosi e con nuove idee, con la voglia di spingerci ancora oltre, sperando di conciliare questa nostra passione con la famiglia che pian piano comincia a farsi sempre più numerosa. Fare tutto questo non sarà ne facile ne del tutto scontato, a casa abbiamo chi ci aspetta e ben presto avremo ancora liete nuove ad attenderci per riempirci ancor di più il cuore. Buone notizie che renderanno ancora più avvincente questo unico ed incredibile viaggio che è la vita.

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JUMPING ON ICELAND

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CONSIDERAZIONI IN ORDINE SPARSO Nonostante alcune disavventure e qualche peripezia imprevista, l’Islanda ci ha entusiasmato. L’isola regala panorami mozzafiato con montagne e distese innevate, grandi vulcani, geyser, lunghe spiagge deserte e scogliere a picco sul mare, calotte glaciali, cascate e, non ultima, la magia notturna dell’aurora boreale. In Islanda tutto sembra essere esagerato, amplificato ed esaltato da una natura all’ennesima potenza e noi, dopo i primi giorni, non trovavamo più gli aggettivi per descrivere quanto ci abbia affascinato quest’isola tanto da farci maturare l’idea, nemmeno troppo segreta, di poter ritornare in futuro. Certo ad oggi è ancora presto per fare programmi, davvero troppo vasto il mondo e tante sono le terre incognite ancora da scoprire ma l’Islanda, invero, si è ritagliata un posto speciale nei nostri cuori anche perché, pur non essendo troppo estesa, custodisce veramente tanti luoghi magici ancora da esplorare. In un viaggio sull’isola, in inverno oppure in estate, ognuno potrà scoprire mondi completamente diversi. Non ci sono motivazioni particolari per preferire una stagione rispetto ad un’altra, quello che sarà diverso sarà solo il modo di affrontare e vivere un territorio esaltato in entrambi i casi da un clima che ne rivelerà un’essenza sempre diversa. In ogni caso il leit motiv, il filo conduttore, è l’onnipresente impronta che sempre ci ricorda la tormentata origine vulcanica dell’isola, un marchio di fabbrica indelebile, malcelato da una vegetazione martoriata costantemente da un clima avverso e, dopo l’arrivo dei vichinghi, anche dalla mano dei primi colonizzatori che depredarono nel breve volgere di qualche decina d’anni le già scarne risorse arboree. Da quel tempo, dell’alto medioevo l’ecosistema non si è mai più ripreso del tutto non riuscendo mai a tornare su livelli che possano definirsi accettabili. L’Islanda è a modo suo, un deserto boreale, glaciale, dove l’acqua scorre abbondante tra cumuli di scorie e segni di antiche colate laviche. Le acque di fusione ingrossano i numerosi fiumi che si insinuano tra distese di rocce basaltiche e feld-

spati e nella maggior parte dei casi potrete incontrare erba oppure semplicemente muschi e licheni che ancora faticosamente lottano per colonizzare le colate laviche riuscendo in questo modo a restituire ancor di più quel senso di terra di frontiera che è la vera essenza di un’isola al confine del mondo. Prossima al margine ma non troppo oltre quel mondo globalizzato di cui fà ormai parte a pieno titolo perché gli islandesi possono essere considerati come dei moderni cowboy, pionieri del ventunesimo secolo, non solo in lotta per la terra ma anche per l’indipendenza economica. Gli Islandesi sono i fieri abitanti di una terra che combattono per essere il faro di un cambiamento, di essere il primo paese a riuscire ad affrancarsi dal giogo opprimente dei combustibili fossili, per dare il loro contributo, seppur marginale alla battaglia comune contro il riscaldamento globale. Certamente, nel combattere questa battaglia, lo fanno in un modo tutto loro, risultando essere, alla fine, poco simpatici anche per via di una spiccata sensibilità al fascino del vile denaro e questo non li rende mai troppo differenti da quel nemico che tanto tenacemente si preoccupano di affrontare. Nel nostro sgangherato modo di affrontare il viaggio abbiamo percepito un ambiguo e strisciante sentimento di distacco e di un, nemmeno tanto celato, fastidio per il turista, se non visto come mera risorsa economica da sfruttare in tutti i modi possibili. Inizialmente mi ero riproposto di non dilungarmi eccessivamente nelle considerazioni finali ma viste le molte precisazioni indotte dalle varietà di valutazioni non potevo prescindere dal formulare un giudizio più articolato in modo da entrare nel merito delle diverse tematiche da affrontare. Purtroppo l’elemento umano è stata l’unica nota stonata in un viaggio estremamente gratificante ed avere la continua sensazione di essere una risorsa da sfruttare di per sè non è strano in un contesto che vive e sopravvive di turismo ma la continua percezione di affrontare un continuo assalto alla diligenza ci ha costretto più di qualche volta a doverci schie-

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rare sulla difensiva. Ci è capitato, in diverse occasioni, di constatare un atteggiamento, forse solo da noi percepito, di un vivere quasi come non ci fosse un domani, di non voler perdere l’ultima corsa di un treno che potrebbe un giorno non troppo lontano vedere arrestata la sua corsa. Non sappiamo se questa nostra sensazione sia un sentire comune o sia solo il frutto di un approccio sbagliato con un paese che per il resto ci ha lasciato un’impressione ottima ed una grande voglia di tornare. Tornando nel merito delle semplici bellezze naturali possiamo dire che vivere il paese in inverno si è rivelato meno difficoltoso e problematico di quello che potessimo aspettarci. Francamente non sappiamo se si sia trattato solo di una questione di fortuna oppure la posizione geografica, che vede l’isola sfiorare il circolo polare artico, ci avesse indotto a sovradimensionare la durezza di un clima in realtà, se si esclude il giorno della tempesta, tutto sommato clemente. Gli scenari invernali, dal canto loro, ci hanno riservato scorci e vedute meravigliose e le puntuali nevicate notturne non hanno assolutamente influito sul nostro viaggio. Le condizioni stradali difficilmente sono state tali da rendere proibitivo il nostro cammino anche se, nell’unico giorno di vera e propria bufera, ci siamo dovuti armare di una buona dose di caparbietà, pazienza ed anche tanto sangue freddo. Si è trattato comunque di una parentesi limitata nel breve volgere di poche ore che, avendo avuto un maggior numero di giorni a disposizione, avremmo potuto decidere di affrontare in un modo più tranquillo e magari anche ponderato. Certamente il viaggio in inverno non permette di avventurarsi su percorsi fuoristrada e strade accidentate, le zone interne, infatti, sono raggiungibili con estrema difficoltà solo grazie all’ausilio di mezzi idonei. Tutte le strade, ring escluso, sono off limits e nella maggior parte dei casi anche difficilmente individuabili dal momento che, durante i mesi più freddi, viene sospesa anche la normale manutenzione. Nel lungo



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inverno islandese non conviene improvvisarsi esploratori o avventurieri per provare il brivido dell’avventura ad ogni costo ed è quindi più saggio affidarsi a qualche tour organizzato, che tornando a quanto detto prima, non si tirerà mai indietro dall’usare le maniere forti con le vostre finanze. Se si ha in programma l’esplorazione delle zone interne è quindi consigliabile la stagione estiva che consente anche la possibilità di effettuare trekking molto interessanti e rinomati della durata anche di più giorni. Alcune zone interne in inverno sono completamente precluse al turismo dei grandi numeri e parimenti si può incorrere nel rischio di parziali chiusure anche di tratti di strada a grande scorrimento ma, tutto questo, è soggetto all’estrema variabilità del meteo, quindi la programmazione degli itinerari va fatta volgendo un’attenta occhiata al cielo. Personalmente non avrei disdegnato la possibilità di raggiungere le grandi fratture lineari del vulcano Laki ma al dunque abbiamo ritenuto inutile anche il solo iniziare ad affrontare gli oltre quaranta chilometri di pista non battuta e completamente sommersi di neve. In certi frangenti è sicuramente più saggio sapersi fermare di fronte a rischi che vanno oltre il normale buon senso, anche in considerazione del fatto che tutte le compagnie di noleggio auto non coprirebbero gli eventuali danneggiamenti dovuti ad un uso improprio del veicolo che, guarda caso, comprende anche l’utilizzo su strada sterrata durante l’inverno. Avendo le dovute accortezze comunque l’Isola può mostrarvi, anche in inverno, il proprio aspetto migliore, i suoi panorami unici e come già detto, quasi artici restituiscono sensazioni difficilmente percepibili in altri luoghi che già avevamo avuto modo di visitare in precedenza. Comunque la si pensi, qualsiasi tipo di viaggiatore voi siate, non si può pensare di intraprendere un simile viaggio senza tenere a mente alcuni basilari concetti. Non è consigliabile fare a meno di un abbigliamento consono ad affrontare le situazioni più disparate che possono andare dal freddo in-

tenso, al bagnato fino al vento forte ma tutto questo va fatto senza dover reperire particolari capi se non quelli che di solito vengono utilizzati per un uso outdoor anche alle nostre latitudini. Ci sentiremo di consigliare scarpe comode ed idrorepellenti, magari due paia da poter alternare in caso di necessità. Generalmente un abbigliamento a strati consente di affrontare la maggior parte delle situazioni che si potrebbero presentare salvo casi estremi. Inoltre i capi di più recente produzione hanno il grosso pregio di essere caldi, leggeri e di occupare pochissimo spazio quando vengono riposti nelle valigie. Non dovrebbero mai essere lasciati a casa guanti termici, occhiali con protezione dagli Uv ed un capello in maniera da essere protetti dall’immancabile vento che spira, più o meno forte, praticamente ovunque ogni giorno. Dovendo dare un ulteriore consiglio ci sentiremmo di dire di pianificare il viaggio in modo da giungere sui siti di maggior richiamo in orari che ne permettano una fruizione accettabile senza dover affrontare le grandi folle turistiche delle ore centrali del giorno e se, mentre su un ghiacciaio difficilmente si ha la possibilità di trovare un affollamento eccessivo, questo discorso non vale per altri luoghi come le varie cascate disseminate tutto lungo il ring, tutte estremamente scenografiche ed e per questo estremamente affollate. Il dover sempre condividere un proprio ricordo di viaggio con centinaia di persone non sempre è un’opzione che possa essere gradita a tutti anche perché, chi sceglie di spingersi fin qui, spesso ama vivere alcuni frammenti di viaggio in modo più contemplativo e non alla stregua di un continuo flash mob collettivo fatto di selfie e condivisioni in mondovisione. Oggigiorno la facilità di accesso ha portato all’insorgere di questa tipologia di problematiche che una volta erano praticamente assenti ma, conoscendo il fenomeno, basta adattarsi e saper prendere le adeguate contromisure. Generalmente i normali flussi turistici possono essere anticipati, ed in questa maniera evitati. Tutti i bus turistici normalmente

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partono da Rejkyavik, quindi difficilmente li potrete incontrare durante le prime ore del giorno, quindi sono da evitare le ore centrali della giornata quelle, tra l’altro, anche meno indicate per un viaggio prettamente fotografico. Durante questo lasso di tempo è preferibile inoltrarsi verso località meno conosciute e raggiungibili o che prevedono tratti di strada da percorrere a piedi, vista la ritrosia di molti nell’affrontare anche la più banale attività fisica. In genere verso il pomeriggio il flusso si inverte e come una marea si ritira verso ovest, quindi le località ad est verranno abbandonate per prime e sarà possibile goderne nel tardo pomeriggio nella più completa solitudine. Queste sono le ore migliori per le grandi spiagge ove si può godere di albe e tramonti solitari o al più in compagnia di gruppi di fotografi che in genere si dimostrano abbastanza discreti. Sono le ore in cui i grandi contrasti di questa terra si attenuano e si smorzano i drammatici chiaroscuri che spesso mettono a dura prova anche i sensori più performanti. In inverno l’Islanda può essere un caleidoscopio di contrasti senza tonalità intermedie, un trionfo di tinte in chiaro scuro senza soluzione di continuità. Per chi fosse intenzionato a questo genere di viaggio preparatevi ad esperienze intense. Archiviato quanto detto in precedenza, dal punto di vista prettamente fotografico l’Islanda si presta alle più svariate interpretazione del genere. Come un pò in tutte le cose non esiste una regola precisa su cosa portare in viaggio anche se dovendo dare un consiglio direi che è d’obbligo un obiettivo grandangolare che possa permettere di dare respiro alle immagini e per poter catturare ampie porzioni di paesaggio che sull’isola di certo non mancano. Francamente poi mi sentirei di consigliare anche un discreto teleobiettivo per poter catturare anche immagini di panorami magari componendo la scena in una serie di scatti per mantenerne l’ampiezza non perdendo al tempo stesso definizione nell’immagine finale. Un obiettivo luminoso è obbligatorio se si ha intenzione di


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catturare l’eterea aurora boreale. In commercio se ne trovano molti a prezzi ormai anche abbastanza abbordabili. Gli obiettivi standard con diaframmi al massimo non inferiore a quattro non si prestano troppo bene a questo genere di fotografia. Durante questo viaggio ho potuto finalmente provare a fondo il duplicatore di focale accoppiato al 70-200 che a fronte di un raddoppio della focale comporta un brusco calo di resa dell’obiettivo e che spesso ne pregiudica un utilizzo intensivo. Usando tempi molto più lenti si rischia di andare sotto la soglia oltre la quale si rischia uno scatto mosso e ad oggi potrei dire che se da un lato si guadagna per possibilità di scelta di focali ed un peso minore, dall’altro lato se ne paga dazio dal punto di vista della resa globale dell’immagine. Se non si hanno problemi di peso e di spazio non è la soluzione che mi sento di consigliare, a patto di non scegliere dispositivi di ultima generazione utilizzandoli su lenti estremamente performanti. Mi rendo conto che per soddisfare le esigenze di un fotografo generalista bisognerebbe portare una quantità di materiale, tra lenti ed accessori, che vanno oltre le reali necessità di chi vuole interpretare un viaggio in maniera leggera e veloce, spostandosi molto anche con lo zaino in spalla. Quindi, per non esagerare, un grandangolare luminoso, un obiettivo generalista in grado di coprire quelle focali da wide a medio tele ed un tele potrebbero essere più che sufficienti a qualsiasi esigenza. Certo è che se si vuole essere coperti in ogni circostanza le difficoltà aumentano e bisogna essere pronti ad affrontarne il prezzo in termini di peso ed ingombri. Quello che invece non dovrebbe assolutamente mancare è un ottimo cavalletto insieme ad una gamma di filtri che comprenda da quelli a densità neutra fino ai digradanti ed un numero di sufficiente di batterie sempre cariche, in grado di sopportare i rigori del clima. Sulla quantità di memoria non mi soffermerei perché ormai hanno raggiunto prezzi talmente irrisori che averne in abbondanza non richiede più grossi esborsi economici. Un viaggio fotografico

non può prescindere dall’uso di filtri per le lunghe esposizioni, magari di vario genere. In più di qualche occasione ho provato filtri a densità neutra sia a vite che a lastra e nell’uso di questi ultimi bisogna sempre tenere a mente il vento che sommato all’uso delle lastre può provocare vibrazioni o, al peggio, cadute del cavalletto con tutta la fotocamera. E’ bene ricordare, specialmente se si è alla prima esperienza con viaggio un pò più avventurosi di controllare sempre le condizioni meteo e di quelle che possono essere le ripercussioni sull’attrezzatura, i repentini sbalzi termici posso provocare la formazione di condensa dentro gli obiettivi e all’interno di corpi macchina. Il fattore eventi atmosferici in Islanda è parte fondamentale per la buona riuscita di una foto. In prossimità del mare è sempre bene prestare attenzione alla presenza della fastidiosa nebbiolina salmastra che si solleva dal mare a causa delle grandi onde che flagellano le coste e che viene trasportata dai forti venti e che, non di rado, in pochi secondi, può bagnare completamente la lente dell’obiettivo o tutta l’attrezzatura. Se dovessi spendere altre due parole in più sull’esperienza Islandese mi soffermerei anche sulla qualità dell’attrezzatura e dei materiali quando questi si trovano sottoposti a situazioni limite. Infatti le maggiori differenze tra i materiali originali e quelli compatibili emerge in maniera prepotente proprio in queste situazioni estreme. L’esempio più lampante è quello delle batterie, mentre le originali hanno sempre avuto un comportamento in linea con le attese, in una fredda giornata a Gulfoss quelle compatibili mi hanno dato parecchi problemi, scaricandosi spesso e costringendomi a ripetere degli scatti, specialmente quelli con lunghe esposizioni. Analogo discorso per le ghiere di alcuni obiettivi non originali che con l’abbassarsi delle temperature si sono indurite molto, iniziando a ruotare in maniera molto più difficoltosa. Comportamento analogo avuto anche dal nuovissimo cavalletto in alluminio Genesys, ottimo come stabilità ma le cui

sezioni delle gambe con il freddo hanno avuto la tendenza a bloccarsi anche se la problematica maggiore ha riguardato la temperatura stessa del metallo che è divenuto completamente gelido quando è stato esposto alle basse temperatura, senza esagerare potrei definirlo quasi inusabile senza guanti quando si raggiungono temperature molto basse. Tornando indietro mi indirizzerei verso un modello in carbonio ma, purtroppo, certe volte nelle scelte bisogna anche far quadrare anche i conti. E’ chiaro che le basse temperature non aiutano e per questo che, in ambienti ostili, attrezzature e materiali di elevata qualità riescono sempre a fare la differenza e sono spesso un fattore importante per la buona riuscita di uno scatto. Purtroppo per chi ama la fotografia le soluzioni migliori sono sempre quelle più costose. Dal punto di vista degli scatti fotografici, al termine del viaggio, sono conscio che avrei potuto realizzare qualcosa di diverso, forse di migliore ma, seppur la fotografia è una delle mie passioni, non posso subordinare il modo di viaggiare alla realizzazione di uno o più scatti. Visto il poco tempo a disposizione abbiamo optato per uno stile di viaggio più veloce ed agile sacrificando, a volte, l’aspetto fotografico. Magari se un domani avessimo la possibilità di poter tornare cercheremo di porre rimedio a tutti quegli aspetti dove siamo stati più carenti. Tutto quanto concerne i luoghi da fotografare sull’isola non avrete che l’imbarazzo della scelta. Cascate, ghiacciai, albe, tramonti e tutto quanto ho descritto in precedenza faranno da cornice alla maggior parte degli scatti e quello che potrete fare potrà essere limitato solo dalla vostra fantasia, per tutto il resto l’isola non sarà mai una terra avara. Osate sempre, l’Islanda saprà sempre ricompensarvi, anche oltre le vostre migliori aspettative.

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INDICE DELLE FOTO pag 2 / 3 - I riflessi attraversano il ghiaccio regalando vivide sfumature di azzurro, è lo spettacolo di Jokusarlon. La magia della luce che si specchia nei mille blocchi di ghiaccio arenati sulla lunga spiaggia nera.

pag 16 / 17 - Il fiume Olfusà precipita nel canyon sottostante generando la maestosa cascata di Gulfoss, la cascata dorata uno delle maggiori attrazioni che si possono visitare sul Golden Ring

pag 4 / 5 - Le luci dell’alba accarezzano la spiaggia nera di Vik y Mirdal, ancora deserta vista l’ora. Le impronte lasciate sulla sabbia faticano ad essere cancellate da una marea che ha appena iniziato a rimontare.

pag 19 - Dopo la prima notte, il risveglio ci riserva un panorama completamente innevato. Dispersi nella pianura Islandese da qui iniziamo la nostra esplorazione dell’Islanda.

Pag 6 / 7 - Lo spettacolo del ghiaccio che avanza, è il fronte del ghiacciaio Fjallsjokull che che scende a valle fino alla laguna glaciale di Fjallsarlon

pag 20 - Dopo un risveglio sotto un cielo plumbeo con nubi cariche di neve con il trascorrere dei minuti la situazione inizia a migliorare e si cominciano a vedere i primi timidi squarci di cielo azzurro.

pag 9 - L’arida distesa appena coperta da un sottile strato di neve si perde verso occidente, è questa una delle nostre prime immagini dell’Islanda.

pag 20 - Il panorama innevato si presta, immancabilmente, a qualche scatto personale e si tratta di un piacevole intermezzo per cercare di raccontare anche le difficili condizioni del fondo stradale.

pag 11 - Uno dei numerosi coni vulcanici e si aprono ai bordi della strada che conduce al campo geotermale di Gunnuhver

pag 21 - Ogni giorno è come l’inizio di una nuova avventura e così mi sembra giusto voler tributare un riconoscimento alla mia intrepida compagna di viaggio, paziente e determianata a seguirmi ad ogni nuovo avventura. Qui immortalata sulla strada innevata verso Selfoss.

pag 11 - Il panorama dall’alto di uno dei piccoli coni vulcanici che costellano la strada svela la sterilità di un ambiente ancora in divenire, con lave e basalti ancora non colonizzati dalla vegetazione

pag 21 - Dispersi nella pianura innevata, i cavalli Islandesi riescono ad affrontare anche il freddo delle lunghe nottate invernali. Stringendosi gli uni agli altri riescono a mantenere i propri corpi caldi anche grazie al pelo folto ed alle zampe più corte rispetto alle altre razze equine.

pag 11 - Il suolo multicolore rivela la ricchezza dell’acqua che proviene dal sottosuolo satura di zolfo, ferro e manganese e altri metalli.

pag 23 - La pagina mostra l’intera sequenza del grande getto di vapore del geyser Strokkur che, ogni giorno, attira migliaia di persone che percorrono le strade del ring arrivando fin qui da ogni parte del mondo.

pag 11 - Il grande Geyser di Gunnuhver è una delle principali attrazioni del sito ma non si tratta di un fenomeno naturale ma un effetto secondario dell’estrazione di enertgia dal sottosuolo

pag 24 - Il grande occhio blu di Strokkur si accinge ad espellere il vapore e il grande getto d’acqua bollente che l’hanno reso il più grande e famoso geyser d’Islanda.

pag 13 - Il secondo giorno inizia con l’esplorazione del cratere Kedid, prossimo alla strada che conduce verso le attrazioni del Golden ring. Tutto è bianco dopo la nevicata della notte.

pag 25 - Con un pò di pazienza è possibile immortalare il momento in cui il vapore esplode dal sottosuolo. Un momento che si ripete con precisione circa ogni cinque minuti.

pag 14 - Il faro di Reykjanes, adagiato sulla cima di una collina, veglia e guida tutte quelle imbarcazioni che si avventurano in questo angolo di oceano perennemente in burrasca.

pag 26 / 27 - Da un apposito punto panoramico si può ammirare in tutta la propria magnificenza l’intero cascata di Gulfoss che in realtà si compone di diversi salti prima di precipitare sul fondo della gola.

pag 15 - Nella parte più occidentale del penisola di Reykjanes c’è il capo Reykjanesviti con le sue scogliere ed i faraglioni che sono continuamente flagellati dall’oceano in perenne tempesta.

pag 28 - La cascata di Gulfoss può essere anche visitata da diversi punti che è possibile raggiungere percorrendo un sentiero che aggira il salto. Più in basso, in quel momento chiuso per neve, un sentiero permette di raggiungere le rive del fiume appena prima che pricipitino verso il basso.

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INDICE DELLE FOTO pag 30 - Dopo aver lasciato la cascata di Gulfoss imbocchiamo una stretta strada di campagna completamente innveata più adatta ad essere percorsa da viaggiatori in sella a cavalli Islandesi che ad autovetture. In verità questo sarà uno dei pochissimi incontri fatti durante tutto il percorso fino alla sorgente termale di Hruni.

pag 42 / 43 - Quando giungiamo nei pressi delle sponde della laguna di Jokusaron siamo sfiniti da un lungoviaggio fatto sfidando ed affrontando una terribile tempesta. In simili condizioni il solo fatto di essere giunti fin qui è un giusto compenso. Per le foto avremo molte altre occasioni.

pag 31 - Una piccola chiesa adagiata sulla sommità di una collinetta annuncia che siamo prossimi alla nostra metà, la sorgente termale di Hruni, basta svoltare e percorrere ancora altri cinquecento metri prima di parcheggiare l’auto e proseguire a piedi.

pag 46 - Durante il giorrno della tempesta artica la strada presentava condizioni al limite della percorribilità, questo scatto fatto il giorno precedente serve solo a rappresentare un tratto di strada decente mentre di dirigiamo verso la sorgente termale di Hruni, quelli pessimi erano tutta un’altra storia.

pag 32 - Giunti nei pressi della “Hot Polt” di Hruni bisogna adattarsi ed iniziare a svestirsi se si ha voglia di immergersi nelle calde acque della sorgente termale. Io tendenzialmente ho dei modi più spartani mentre Martinica non può fare a meno di alcune comodità per lei fondamentali.

pag 48 / 49 - La luce che penetra attraverso la volta della caverna di ghiaccio genera colori talvolta irreali che non possono non suggestionare tutti i visitatori che si sono spinti fin sotto la calotta del gigante Vatnajokull, il più grande ghiacciaio Europeo.

pag 33 - Una volta in acqua tutte le difficoltà provate prima di immergersi vengono meno grazie al caldo abbraccio delle acque che sgorgano alla temperatura di circa 40 gradi. Un caldo abbraccio ristoratore.

pag 50 / 51 - La spiaggia di Jokusarlon è un vero cimitero di ghiaccio. qui gli icebergs che si staccano dal ghiacciaio del Breiðamerkurjökull dopo aver vagato nella laguna finiscono per arenarsi ricacciati a riva dalle onde del mare.

pag 34 - In prossimità della sorgente anche la neve sembra subiura l’influenza della sorgente e più ci si avvicina, più lo capertura dimunuisce di spessore. In prossimità della pozza la neve lascia il posto alla terra ed al fango.

pag 52 - Un’altra gelida alba accompagna il nostro risveglio ad Holmur. Da qui partiremo per raggiungere la laguna di Jokusarlon. I “soliti” eroici cavalli Islandesi brucano la poca erba gialla scampata alla morsa del gelo alle prime luci dell’alba.

pag 35 - Le acque della sorgente di Hruni si perdono nella campagna circostante tramutandosi in uno dei mille rivoli d’acqua che solcano le campagne Islandesi. Accarezzati dal tepore del debole sole Islandese Martinica si gode momenti di relax.

pag 53 - L’alba Islandese illumina migliaia di icebergs di tutte le dimensioni che morenti finiscono sulla spiaggia. La particolarità del luogo unita ad uno scenario unico ne fanno uno dei luoghi più visitati d’Islanda, specialmente dagli appassionati di fotografia

pag 38 - La pozza di Hruni non è molto granda, è comunque abbastanza capiente per ospitare più di qualche persona. Per nostra foruna non si tratta di un luogo particolarmente affollato.

pag 53 - La forza del mare continua a martellare i blocchi di ghiaccio fino a quando non finiscono per essere definitivamente arenati sulla spiaggia, a questo punto il pur debole calore del sole finisce di sciogliere quel che resta degli icebergs, completando il ciclo dell’acqua iniziato migliaia di anni prima.

pag 39 - Quando giungiamo nei pressi della sorgente capiamo di non essere i soli presenti sul posto, alcune persone stanno già godendo del piacevole tepore dell acque calde. Qui una giovane coppia di turisti si gode il moemnto magico.

pag 54 -Tutta la spiaggia di jokusarlon è disordiantamente costellata di icebergs come tante perle di una collana rotta. Le prime deboli luci dell’alba rendono la spiaggia un gigantesco set fotografico unico nel suo genere.

pag 40 - Sulla strada che conduce dalla cascata di Seljalandafoss verso Stora mork godiamo della nostra prima aurora. Purtroppo un cielo capriccioso non permette dio godere appieno dello spettacolo. Meglio di niente.

pag 55 - La varietà delle forme assunte dagli icebergs è vastissima ma alla fine la discriminante nella scelta dello scatto la fà l’affollamento che è possibile riscontrare nei tratti più accessibili della spiaggia. Se ci si sposta di qualche centinaio di metri si ha la possibilità di scattare in tutta tranquillità

pag 41 - Nei pressi della cascata di Seljalandafoss l’aurora è più visibile anche se la vista è comunque disturbata da alcune nubi e dalle luci che salgono dalla pianura Islandese.

pag 56 - Ogni Iceberg è un mondo a sè. Un insieme casuale di forme e dimensioni. Così ogni blocco di ghiaccio potrebbe raccontare una storia differente, anche se immancabilmente tutte convergono verso un unico inequivocabile finale.

pag 41 - La presenza di uno spesso e scivolo strato di ghiaccio non ci consente una fruizione godibile della famosa cascata di Seljalandafoss. In più la presenza di un potente faro non permette la realizzazione di scatti memorabili, ma la presenza magica dell’aurora rende lo spettacolo comunque emozionante.

pag 57 - E’ difficile non lasciarsi coinvolgere dall’atmosfera del luogo, così anche Martinica si cimenta con perizia in una serie di scatti nel tentativo di immortalare uno dei tanti icebergs sulla spiaggia.

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INDICE DELLE FOTO pag 58 - Il lento scioglersi degli icebrgs genera infinite forme bellissime. Il vento l’acqua ed il pallido sole contribuiscono a modellare i grandi blocchi di ghiaccio su cui i raggi del sole si riflettono come in un caleidoscopio.

pag 67 - Passeggiando sulle rive dell’oceano non è difficile imbattersi in uno dei tanti fotografi che accorrono fin qui da tutto il mondo anche se ci allontana dal parcheggio la loro presenza si fà sempre più rara.

pag 58 - la spiaggia di Jokusarlon si presenta come un’unica distesa di blocchi di ghiaccio. I più vicini a riva sono di dimensioni maggiori mentre man mano che ci si allontana dal mare le dimensioni si fanno più minute

pag 68 - La spiaggia di Jokusarlon è un luogo che attira moltissimi visitatori spesso concentrati nel breve tratto a ridosso del ponte che scavalca il canale che permette alle acqua della laguna che sfociare in mare. Ma gli icebergs giacciono sulla spiaggia per molte centinaia di metri.

pag 59 - L’aria fredda del mattino non riesce a scoraggiare i più avventurosi che si avventurano fin negli angoli più lontani della spiaggia alla ricerca di un pò di tranquillità e solitudine in fase scatto.

pag 69 - Tra i numerosi turisti che accorrono fin qui da ogni angolo del mondo non possiamo non rimanere colpiti da un coppia di giovani orientali che si sono spinti fin qui per farsi ritrarre in abiti nuziali, sfidando il freddo ed il vento. Onore agli sposi.

pag 61 - La particolarità di questo angolo d’Islanda attrae moltissimi appassionati di fotografia disposti a sfidare freddo, pioggia ed anche le onde del mare pur di poter catturae immagini di assoluto impatto. Visti i sacrifici si spera che le immagini riescano a soddisfarli.

pag 72 / 73 - La visione della laguna glaciale di Jokusarlon è di una bellezza da togliere il fiato. Un paesaggio quasi artico che ci ha dato lo spunto per dare il nome al libro che racconta i momenti di questo viaggio in Islanda.

pag 62 - Le luci dell’alba illuminano ed attraversano uno dei tanti icebergs sulla spiaggia. La quantità e la diversità delle forme rende estremamente difficile scegliere su quali blocchi concentrare le proprie attenzioni. A volte basta scegliere quelli liberi.

pag 74 / 75 - La laguna è segno della progressiva ritirata dei ghiacci. Tutte le sue sponde sono formate dalle vecchie morene, cumuli di detriti trascinate dalla massa glaciale al massimo della sua espansione, quando il Breiðamerkurjökull giungeva fino al mare

pag 63 - Flagellati dal mare alcuni dei blocchi possono raggiungere dimensioni ragguardevoli, dimensioni che tuttavia nulla possono all’aggressione degli elementi. Pochi giorni e di questi grandi icebergs non rimarrà più nulla.

pag 76 / 77 - Ad oggi, nel 2017 il “muro” del Breiðamerkurjökull, si trova a circa sei chilometri dal mare e continua a ritirarsi. Il fronte del ghiacciaio ha lasciato dietro di sè la laguna, il lago più profondo dell’intera isola.

pag 64 - I giochi di luce multicolore che possono crearsi quando la luce attraversa il ghiaccio sono i più diversi e dipendono sostanzialmente dall’incidenza dei raggi, dalla loro direzione e dallo spessore del ghiaccio stesso.

pag 79 - Il fronte del Fjallsjokull pur essendo meno imponente del Breiðamerkurjökull è non meno scenografico ed affascinante, anche da questo ghiacciaio si staccano molti iceberg che percipitano nella sottostante laguna senza tuttavia raggiungere il mare.

pag 65 - In molti casi quello che lascia veramente stupiti è l’estrema purezza del ghiaccio e se in alcuni casi si possono osservare sabbia e detriti imprigionati da tempi immemori in molti casi si tratta solo di ghiaccio puro, acqua pura allo stato solido.

pag 80 - Il ghiacciao Fjalljokull è una delle tante lingue glaciali che scivolano dal vasto plateau del Vatnajokull. Anche questa lingua glaciale termina in una laguna poco profonda non molto distante dal Ring e per questo abbastanza frequentata, anche in inverno.

pag 67 - Guidare in Islanda non è sempre semplice, il ring, specie in inverno, può presentare condizioni difficili, ci vogliono perizia e cautela, anche se in molti casi queste precauzioni non bastano e ci vogliono mezzi idonei a muoversi sulla neve alta.

pag 81 - Il fronte del ghiacciaio è facilmente raggiungibile con una breve camminata tra la neve. Dopo alcune centinaia di metri si raggiunge un punto d’osservazione da dove è possibile, con le giuste condizioni meteo, osservare tutto il ghiacciaio.

pag 67 - Approfittando della gentilezza e della disponibilità di uno dei tanti turisti non resistiamo anche noi alla possibilità di autocelebraci in uno scatto su uno dei numerossissimi blocchi disseminati sulla spiaggia.

pag 84 / 85 - Da un punto di osservazione più basso la laguna di Joikusarlon sembra avere un aspetto molto simile alla banchisa artica. I numerosi blocchi galleggianti sembrano formare un distesa uniforme dalle sponde fino al fronte del ghiacciaio.

pag 67 - A volte la spiaggia di Jokusarlon si presenta come una vera e propria giungla di ghiaccio, un vero e proprio labirinto in cui è un vero piacere perdersi alla scoperta din un angolo di Islanda bizzarro ed affascinante.

pag 86 - Dall’alto della morena Martinica osserva la sottostante laguna di Jokusarlon, sullo sfondo le montagne che fanno da cornice al ghiacciaio.

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INDICE DELLE FOTO pag 88 - Giunti ai piedi del ghiacciaio attendiamo il nostro turno prima di accedere nella caverna glaciale. Per ingannare l’attesa e nella speranza che molti dei turisti presenti abbandonino il posto ci accingiamo a visitare un’altra caverna.

pag 85 - Se si esclude la parte iniziale, la caverna di ghiaccio verso il fondo si fa sempre più angusta ed è possibile stare in piedi solamente nel centro, vicino l epareti bisogna sedersi come dimostra questa foto.

pag 84 - La piccola caverna, un vecchio ramo fossile ormai sparato dal corpo principale del ghiacciaio è lungo solamente qualche decina di metri ma è comunque un degno antipasto in attesa del piatto forte.

pag 96 - In una visita normale riuscire ad avere qualche inquadratura senza altri presenze è un evento abbastanza raro, sarebbe stato un delitto lasciarsi sfuggire l’occasione anche se solamente in controluce.

pag 88 - All’interno la volta di questa piccola caverna ha una forma quasi perfettamente regolare e la guida dopo una breve introduzione ci lascia il tempo di fare una breve visita.

pag 96 - La nostra permanenza nella ice cave dura circa un’ora, venti minuti in più di quanto preventivato la nostra guida, infatti, visto l’orario e la pressochè assenza di altri turista si dimostra indulgente e ci consente altri minuti di permanenza supplementari prima di radunarci e far ritorno al nostro furgone.

pag 88 - Dal ramo principale della caverna si diramano altri rami secondari che inoltrano nel ghiaccio. Molti sono vicoli ciechi di qualche metro mentre altri, come quello che si dirige verso l’alto che condice direttamente sul ghiacciaio.

pag 97 - Anche dall’interno della caverna è chiaramente visibile l’alternanza tra strati ghiaccio di acqua pure mentre le altre striature più scure denotano la presenza di notevoli quantità di detrititi che il ghiaccio ha strappato alle montagne durante la loro lenta marcia verso valle.

pag 89 - Con stoica abnegazione ci sediamo su un freddisimo gradino di ghiaccio all’interno della caverna, la nostra guida gentilmente si presta ad immoratalarci all’interno della piccola caverna di ghiaccio.

pag 98 / 99 - Il Virkisjokull è una delle tante lingue glaciali che si stacca dal plateau del Vatnajokull. Rispetto ad altri ghiacciai è meno imponente ma scende su un versante più ripiso e per questo ha un aspetto più accidentato e tormentato.

pag 90 - La superficie interna di una delle caverne di ghiaccio è una continua successione di superficie curve, una morbida corazza priva di spigoli che rimanda riflessi gentili.

pag 101 - Nel nostro percorso di avvinamento al Virkisjokull, dopo che le nubi del mattino iniziano a diradarsi, ci appare il picco innevato del Hvannadalshnjúkur, un vulcano, la vetta più alta d’Islanda che dall’alto sovrasta i numerosi ghiacciai sottostanti.

pag 91 - Quando arriviamo nello spazio antistante la caverna di ghiaccio non restano che gli ultimi furgoni di turisti, la maggior parte ha già abbandonato il ghiaccio per fare ritorno alle rispettive basi. Come preventivato dalla nostra guida l’attesa non è risultata vana

pag 102 - La marcia d’avvicinamento è agevolata dalle tracce lasciate sulla neve dai gruppi che ci hanno preceduto e che formano un vero e proprio sentiero che costeggia la laguna alla base del ghiacciaio fino dove la neve lascia il posto al ghiaccio.

pag 92 - Finalmente giunge anche per l’ora di raggiungere la ice cave sotto le propaggini del ghiacciaio. Siamo entusiasti e Martinica non fà nulla per mascherare la trepidazione per l’imminente visita.

pag 103 - L’attacco del ghiacciaio è il punto più ripido ma il passaggio è reso più agevole da alcuni gradini scavati nel ghiaccio ed attrezzati con alcune corde fisse. In questo modo possiamo guadagnare quota velocemente e calcare il ghiaccio vivo.

pag 93 - Finalmente ci siamo ed alla fine arriva anche il nostro turno di entrare nel caverna di ghiaccio. All’interno un piccolo gruppo di turisti si radunando per fare ritorno in albergo. La grotta di ghiaccio tra un pò sarà a nostra completa disposizione, o quasi.

pag 103 - Dall’alto del ghiaccio ci appare in tutta la sua magnificenza anche la pianura sottostante completamente innevata. La neve caduta nella notte ricopre anche il ghiaccio che ricopre la laguna sottostante.

pag 94 - Nonostante le foto delle pubblicità dicano il contrario gli spazi all’interno della caverna di ghiaccio non sono troppo ampi. Ciononstante riusciamo a ricavarci il nostro angolo per il meritato ritratto. Potremo dire noi ci siamo stati.

pag 103 - Come ogni ghiacciaio che si rispetti anche il Virkisjokull è caratterizzato dalla presenza di una grotta subglaciale da cui fuoriescono le acque di fusione del ghiacciaio.

pag 94 - Naturalmente capita di solito che dedichi alla mia compagna di viaggio e di vita una gran parte degli scatti, vista anche l’ambientazione del tutto inusuale che riserva la caverna di ghiaccio.

pag 103 - La facilità di accesso al ghiacciaio lo rende meta di molti gruppi organizzati di turisti che spesso, però, trascurano le norme di sicurezza distratti dalla bellezza del panorama.

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INDICE DELLE FOTO

pag 104 - Il Virkisjokull si mostra fortemente serraccato a causa del forte ddislivello che il ghiaccio si trova ad affrontare. Con queste pendenze la massa glaciale tende a fratturarsi con la seguente formazione di pinnacoli, creste e guglie che lo rendono impenetrabile e quasi impossibile da affrontare.

pag 113 - Le frattura nel ghiacciaio sono imponenti, raggiungendo ampiezze veramente notevoli. Nella parte terminale le fratture sono così ampie da separare la lingua glaciale in varie parti che con il caldo crollano nella laguna sottostante.

pag 106 - La strada per arrivare il più vicino al ghiacciaio Virkisjokull è accidentata ma non eccessivamente difficoltosa. tra buche e rivoli d’acqua avanziamo senza esitare troppo. Alla fine della strada lo spettacolo che ci aspetta sarà una degna ricompensa.

pag 114 - In quest’immagine si può ammirare nella sua interezza la parte terminale del ghiacciaio e la laguna alla sua base. Negli ultimi anni il fronte del ghiaccio è arretrato di centinaia di metri mentre la laguna è aumentata in ampiezza.

pag 106 -La traccia che sale sul ghiacciaio è ben segnata dal passaggio di numerose comitivo che ci hanno preceduto durante il mattino. L’ascesa in queste condizioni non è assolutamente difficoltosa.

pag 115 - Trovarsi al cospetto di simili spettacoli della natura suscita sensazioni difficilmente descrivibili anche per le dimensioni e la scala di panorami che non sono usuali alle nostr latitudini.

pag 106 / 107 - Da lontano il Virkisjokull sembra un una cascata di ghiaccio che scivola giù dal fianco della montagna, una poderosa alluvione solida che si muove silenziosamente brillando dell’azzuro del ghiaccio.

pag 116 / 117 - Risalendo con lo sguardo il fiume di ghiaccio si arriva ad osservare le ultime propaggini del plateau del Vatnajokull. Il più grande ghiacciaio europeo e quarto al mondo da origine ad innumerevoli lingue glaciali molte delle quali qui nel parco nazionale di Skaftafell.

pag 108 - La marcia di avvicinamento è facilitata da passaggi artificiale come questo ponte costruito conb tubi metallici, indispensabile per superare le acque del torrente alimentato dalle acque di fusione del ghiacciaio

pag 119 - Nel tardo pomeriggio, riusciamo finalmente a raggiungere la cascata nera. Un salto d’acqua all’inetrno del parco di Skaftafell molto famoso per via dello scenario suggestivo a causa dello scenario circondato da impressionanti colonne di basalto.

pag 108 - Finalmente siamo sul ghiacciaio. Il caldo e luminoso mattino rendono la nostra escursione una piacevole camminata sul ghiaccio. Sullo sfondo i seracchi del Virkisjokull.

pag 120 - La portata della cascata di Svartifoss durante la stagione invernale è inferiore rispetto ad altre stagioni perchè in gran parte è imprigionata nella neve e nel ghiaccio.

pag 109 - Dopo aver lungamente scattato giunge finalmente anche il mio momento per affrontare il ghiacciaio, il nostro primo ghiacciaio Islandese. Una soddisfazione decisamente da ricordare.

pag 121 - La cascata di Svartifoss è incastonata in una vecchia colata di basalto. Con i millenni l’acqua ha la dura pietra creando un vero e proprio anfiteatro naturale che è divenuto una vera e propria attrazione turistica.

pag 109 - Dopo il Virkisjokull il tour dei giganti di ghiaccio non si ferma. Qualche chilometro più ad ovest decidiamo di esplorare lo Svinafellsjokull,un’altra maestosa lingua di ghiaccio all’interno del parco nazionale di Skaftafell.

pag 122 / 123 - Le prime luci dell’alba sulla spiaggia di Vik y Mirdal. Il vento porta onde lunghe che arrivano sulla battigia fin quasi dove la sabbia nera temina. Nelle fredde mattine invernali la spiaggia è quasi sempre deserta.

pag 110 - Il ghiacciaio Svinafellsjokull, nel suo tratto finale, ha una pendenza molto meno accentuata. Il ghiaccio nei milleni ha avuto il tempo di scavare la roccia e nel tratto che riusciamo a visitare si tuffa nella laguna glaciale delimitata da un’alta morena

pag 125 - Seconda una leggenda dei troll scesero dalla montagna fino in mare per abbordare una nave poco distante dalla riva ma furono sorpresi dalle prime luci dell’alba. Da allora se ne stanno immobili ad affrontare le onde dell’oceano.

pag 111 - Lo Svinafellsjokull si presenta anch’esso molto tromentato, il ghiaccio ha perso la propria regolarità, fratturandosi e spaccandosi profondamente. Possiamo osservare questo gigante da lontano, avvicinarsi o attraversarlo sarebbe un’impresa ardua anche per dei professionisti.

pag 126 - Il connubio mare e neve per noi inusuale è, come ci siamo resi conto, un abbinamento pittosto usuale a queste latitudini. Non si sottrae a questa regola la spiaggia di Vik in cui questo connubio è esaltato dal colore nero della sabbia.

pag 112 - Verso la montagna, la massa glaciale si fa più imponente, le fratture ed i seracchi che si rivelano la morfologia del terreno sottostante il fiume di ghiaccio. Seracchi e crepe come rapide in un fiume ne rendono impossibile la risalita.

pag 128 -La spiaggia di Vik al mattino è praticamente deserta. Il siilenzio delle prime luci del giorno è rotto dal sibilo del vento e dal potente rombo delle onde del mare che fragorosamente si frangono sulla spiaggia riempiendo l’aria di iodio e salmastro.

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INDICE DELLE FOTO pag 128 - Oltre il promontorio di Vik si stende la grande spiaggia di Reynisfjara che si estende fino dove fino all’orizzonte, fino dove verso il grande arco di Kap Dyrolaev la lunga striscia di sabbia si unisce al cielo

pag 134 - In Islanda non possiamo farci mancare uno scatto già fatto in Scozia, un classico che ci riporta anche all’essenza stessa dei nostri viaggi e che in fondo ci ricorda che l’essere in insieme è il motore che ci spinge sempre verso nuove avventure.

pag 129 - Sulla spiaggia di Reynisfjara grandi cformazioni di basalto colonnare affondano fin sotto la sabbia, quasi fossero grandi alberi pietrificiati che affondassero le radice nel terreno alla ricarca di acqua.

pag 136 / 137 - La spiaggia di Reynisfjara si è formata dalla continua erosione del mare e del vento che hanno lentamente sgretolato il basalto nero. Un unico sperone di roccia resiste sulla spiaggia, solitaria testimonianza di antiche scogliere scomparse.

pag 130 - La spiaggia di Reynisfjara è quasi sempre affollata, anche giungendo molto presto al mattino si potranno incontrare gruppi di turisti. Le formazioni colonnari sono una grande attrazione a portata di mano.

pag 138 - La lunga spiaggia che Kap Dyrolaev si perde verso occidente è un’unica ininterrotta striscia di sabbia nera sferzata dal vento e dalle onde del mare. Deserta per chilometri accessibile in pochi tratti se non a patto di lunghe camminate su distese di detriti vulcanici.

pag 130 - I faraglioni di Vik sono perennemente in balia dell’impeto del mare ma è tutto il tratto di costa dell’Islanda meridionale ad essere paritcolarmente esposto alle forti correnti oceaniche.

pag 139 - Il relitto del Dakota è ormai divenuta una classica tappa di quasi tutti i viaggi in Islanda. Abbandonato e dimenticato per molti anni è finito per divenire una metà iconica ed alla fine un pò inflazionata del turismo di massa, noi compresi.

pag 130 - Il continuo martellare delle riottose onde del mare attacca e d erode il basalto riuscendo ad insinuarsi nei punti di maggiore debolezza tanto da riuscire a creare anche una grande rientranza proprio sotto la scogliera.

pag 140 - Raggiungere il dakota un tempo poteva essere un’avventura, bisognava essere intraprendenti e munirsi di GPS per evitare di perdersi nella desolazione del Sandur costiero. Oggi per favorire il turismo si è pensato di segnalare il percorso esclusivamente pedonale.

pag 130 - alla fine, come visto molte volte, anche io finisco in acqua per cercare qualche scatto da prospettiva diversa. COn un occhio all’inquadratura e uno sempre attento al mare per evitare di iniziare la giornata con i pedi bagnati.

pag 140 - Il relitto sottosposto alla furia degli elementi e saccheggiato dai rari frequentatori che nei primi anni lo privarono delle ali e di tutti i finestrini, resiste nella piattezza del sandur. Oggi come la carcassa di una balena agonizza prima del suo inevitabile destino finale.

pag 131 - Quando decidiamo di abbandonare la spiaggia di Vik incontriamo una coppia di turiste americane e approfittando della loro disponibilità ci facciamo immortalare su una delle spiagge più famose dell’isola.

pag 140 - Privata di ali, motori e della parte della coda la carcassa del Dakota Statunitense giace nel Sandur Islandese sospeso tra il mare il ring ormai dai primi anni settanta, anche se i motivi del volo e dello schianto non furono mai del tutto chiariti.

pag 133 - Spostandoci verso est la spiaggia di Reynisfjara è delimitata dall Kap Dyrolaev che chiude la baia sovrastando lo sbocco sul mare della laguna delimitata proprio dalla lunga striscia di sabbia vulcanica.

pag 140 - molti sono i turisti che giungono fin qui sopo una lunga camminata di quasi tre chilometri. Farsi immortalare sul relitto è uno degli scatti più ricercati ed ambìti. In una terra ricca di meraviglie naturali questa carcassa di alluminio rivaleggia con la magnificenza dei ghiacciai.

pag 133 -Il faro che sovrasta Kap Dyrolaev sfrutta la favorevole posizione geografica per segnalare la pericolosità della costa. Posizionato sulla sommità della scogliera non è stato necessario edificare una costruzione troppo elevata ed imponente.

pag 142 - arrampicarsi sulla carlinga abbandonata non è difficoltoso. Le lamiere fatiscenti offrono mille appigli da utilizzare per arrampicarsi facendo bene attenzione a non rimanere feriti dai tutti spigoli vivi che l’entropia lascia esposti.

pag 133 -Dall’alto del promontorio si può godere di un punto di vista privilegiato che spazia su tutto il tratto di costa, da Reynisfjara ed i faraglioni ad est fino alla lunnghissima spiaggia che si perde verso l’orizzonte ad ovest.

pag 143 - Il muso del Dakota è ormai stata scarnificato, forse anche dall’impatto inizale. Non c’è più traccia di strumentazione, la carlinga vittima di predazione e vandalismi ormai offre poco oltre alla ambientazione suggestiva.

pag 133 - L’arco di basalto di Kap Dyrolaev dall’alto della scogliera sembra avere dimensioni minute e questo rende chiaramente intuibile l’altezza vertiginosa e strapiobante del promontorio che infatti è rifugio di moltissime specie di uccelli che vi nidificano e allevano i pulcini durante la stagione calda.

pag 143 - Trovare momenti in cui non ci siano molti turisti che si accalcano ed affannano intorno alla carlinga del Dakota è spesso un’impresa ardua, ciononostante non è detto che sia impossibile così anche noi riusciamo a portare a casa qualche scatto da mettere nel nostro personale album dei ricordi.

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INDICE DELLE FOTO pag 143 - Nonostante gli anni ancora è possibile leggere il nome dell’aereo ben visibile sulla carlinga. Consumata dagli elementi, depredata, vandalizzata ed usata da bersaglio ora si gode un particolare momento di notorietà non solo tra gli appassionati di fotografia.

pag 153 - Nel nord dell’isola non è affatto raro che la neve giunga a lambire le calme acque dei fiordi. In questa immagine ripresa dal molo del porto di Grundarfjordur si può constatare la montagna si eleva ripidamente.

pag 145 - Dopo esserci lasciati alle spalle le spiagge e i relitti facciamo un lungo balzo verso nord. Sul far della sera iniazia la danza dell’aurora che ci accompagnerà quasi per tutta la notte, fin quando, sopraffatti dalla stanchezza decidiamo di andare a dormire.

pag 154 / 155 - Prima di giungere a Grundarfjordur si attraversano panorami quasi del tutto immacolati. Il sole splendente e l’aria tersa del mattino ci permettono di ammirare la varietà di scenari che compongono la penisola

pag 146 - Fin dal tardo pomeriggio le luci dell’aurora hanno iniziato a brillare nel cielo. Con l’avanzare della notte l’affascinante danza celeste ha mantenuto intatto tutto il suo vigore ricompensandoci con giochi di luci quasi pirotecnici,. L’unico rammarico, se così vogliamo dire, è la location non proprio

pag 159 - Prima che il sole arrivi all’orizzonte riusciamo a raggiungere la cascata di Skogafoss, una delle più scenografiche d’Islanda. Situata proprio a ridosso del ring è molto frequentata quasi ad ogni ora del giorno.

pag 147 - Le forme che riesce ad assumere l’autora sono le più disparate. In un continuo fremito elettrico il cielo sembra essere continuamente percorso da sempre differenti campi elettrici. Uno spettacolo nel più assoluto silenzio.

pag 150 / 151 - Alla splendente luce del mattino la vista dalla cima del vulcano Gabrok ci restituisce un panorama completamente innevato. Scomparse le luci della notte resta la magnifiicenza di uno scenario immacolato.

pag 160 / 161 - Jumping on Iceland non è altro che il proseguimento ideale di un’idea nata su una sperduta strada durante un viaggio Marocco. lo spunto per ricordare sempre il proposito di saltare verso i quattro angoli del mondo, una speranza ed un augurio per sempre nuove future mete. Purtoppo, con il passare degli anni, le prestazioni fisiche sono sempre più pesantemente pregiudicate dalla natura del luogo e dalle condizioni climatiche anche se la sfida si sta facendo sempre più ardua ed i salti meno prodigiosi. Una parabola discendente fino a quando la gravità non prenderà inesorabilmente il sopravvento. I luoghi prescelti non sono mai stati programmati e non c’è mai stato un disegno o una reale volontà di creare lo scatto, così lasciamo tutto all’estemporanea idea che nasce al momento. Strada, spiagge, montagne, tutti i luoghi sono idonei e si prestano ad un gesto che ormai è divenuto una consuetudine, il nostro marchio di fabbrica. Durante il viaggio in Islanda abbiamo scattato a Jokusarlon, sulla spiaggia di Vik, di fornte allo Svinafellsjokull, sul ring deserto in direzione di Skaftafells e sul relitto del Dakota. Quest’ultima impresa, ripetuta più volte, è stata un’impresa eroica per il mio ormai martoriato fisico dal momento che tutti quei ripetuti atterraggi sulla dura sabbia vulcanica hanno reso il viaggio di ritorno verso la macchina un piccolo calvario. Un prezzo da pagare alla vanità ed alla gravità. Tra i buoni propositi per il prossimo viaggio ci sarà anche quello di perdere qualche chilo di peso per evitare il ripetersi di simili e spiacevoli contrattempi.

pag 153 - La penisola dello Snaefells è un bastione di basalto che precipita nel mare. I suoi panorami sono maestosi e spesso innevati. Per giungere fino a Grundarfjordur non è raro incontrar mandrie di cavalli Islandesi al pascolo.

pag 163 - Dopo un breve tratto a piedi raggiungiamo quasi la laguna glaciale del Fjalljokull e giunti quasi alla fine del libro mi concedo una piccolo tributo, uno scatto effettuato dalla mia compagna di viaggio e di vita.

pag 148 -Più volte, quando già siamo sulla strada del ritorno, ci fermiamo per ammirare quanto sta accadendo sopra le nostre teste. Nonostante l’attività sia piuttosto intensa da ore non da alcun segno di cedimento.

pag 149 - Prima di rientrare nel nostro hotel ci fermiamo ad ammirare ancora per un’ultima volta lo spettacolo dell’aurora ben consapevoli di avere idea di quando avremo ancora la possibilità di godere di questo meraviglia.

SPECIFICHE TECNICHE Questo viaggio è stata la prima esperienza in Islanda e non sapendo quali condizioni avremmo dovuto affrontare abbiamo preferito optare per un corredo abbastanza flessibile che potesse essere in grado di fronteggiare alla maggior parte delle delle situazioni ipotizzabili. Grazie alla gentilezza di un’amica sono riuscito a reperire anche un Samyang 14 f2,8 per riprendere l’aurora, obiettivo che non era presente nel mio corredo. Un obiettivo con cui ho dovuto fare un pò di pratica e con cui ho sbagliato più di qualche scatto. Per completezza d’informazione, nella realizzazione delle fotografie presenti in questo volume sono state utilizzate le attrezzature di seguito elencate: Fotocamere: Canon 6D, Canon 60D, GoPro 3+black Obiettivi: Canon 17-40 f4, Canon 24-105 f4, Sigma 12-24 4.5-5.6 EX DG, Sigma 70-200 f2.8 OS HSM, Sigma Extender 2X, Samyang 14 f2.8, Tamron 17-50 2.8 XP Treppiede Genesys A5, Holder Nisi, Filtri ND+GND Haida Tutte le immagini sono state scattate in formato raw, trattate in Adobe Lightroom ed Adobe Photoshop. La realizzazione e l’impaginazione del presente volume sono state realizzate in Adobe InDesign.

Canon, Sigma, Tamron, GoPro, Genesys, Haida, Adobe Lightroom, Adobe Photoshop, Adobe InDesign sono marchi registrati di proprietà dei rispettivi proprietari.

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ICELAND ALMOST ARCTIC


INDICE DELLE FOTO

Al ritorno da ogni viaggio, ogni volta, mi resta sempre più la convinzione che ogni avventura, ogni scoperta la devo principalmente a te che mi ami, mi sopporti, mi capisci e mi sproni per osare, per andare avanti, sempre oltre, a non fermarmi alle apparenze a cercare, guardare e scoprire gli infiniti orizzonti celati oltre gli ostacoli oltre le differenze oltre le diffidenze. grazie a te ogni viaggio è un’esperienza, un evento, un nuovo ricordo da riporre nel nostro cuore. Grazie di essere al mio fianco ogni giorno che sorge il sole. Il nostro amore andrà ancora sempre più lontano.

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