SOTTO I CIELI DELL ’ANATOLIA
S T E FA N O C H I O R R I MARTINICA GIORA
SOTTO I CIELI DELL’ANATOLIA
Stefano Chiorri
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Martinica Giora
SOTTO I CIELI DELL’ANATOLIA SOMMARIO / CONTENTS
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Passaggio ad oriente
Istanbul, tanti mondi in uno Toz Golu, lo specchio del cielo
Cappadocia, Cronache da un altro mondo L’arte del volo
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Zelwe, l’incantesimo di pietra
Derinkuyu, strani mondi ipogei I precari equilibri di Ilhara
Gente di Turchia Pamukkale, molto rumore per nulla
La fine della storia
Tra geologia e storia
C
EPILOGO e qualche breve appunto di viaggio
SOTTO I CIELI DELL’ANATOLIA
TUTTI I DIRITTI DELL’OPERA SONO RISERVATI La riproduzione dell’opera, delle immagini, del testo o di parti di esso è vietata senza il consenso scritto degli autori. La pubblicazione cartacea ed elettronica è subordinata al consenso scritto degli autori. Scritto e stampato nel 2016. Il testo è stato scritto e curato da: Immagini di: Idea Grafica ed impaginazione a cura di:
Stefano Chiorri Stefano Chiorri & Martinica Giora Stefano Chiorri
Per ulteriori informazioni: www.stefanochiorri.it - per info e contatti: stefano.chiorri@gmail.com
Prefazione
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L’idea di un viaggio in Turchia nasce dalla necessità di colmare una lacuna nei nostri viaggi. Finora, la tendenza, forse inconsapevole, a preferire i paesaggi eterei e nebbiosi dei paesi nordici ci aveva portato a trascurare molte delle destinazioni verso est. E’ partendo da questa presa di coscienza che volgiamo, con curiosità, lo sguardo ad oriente, verso quella Turchia spesso finita nelle nostre discussioni come un progetto mai realizzato. Arriva così il giorno in cui avvertiamo, sempre più, l’impellente esigenza di riparare a questa mancanza. Questa è la genesi di questa nuova avventura, un’idea che parte da lontano, dallo sfogliare libri e cartine geografiche, setacciando un pò ovunque per definire tempi e modi di un percorso che ci appare fin da subito anche come un viaggio nel tempo. Perchè la Turchia è più di una meta, è come sfogliare le pagine di un libro di storia, la partenza verso un luogo antico e magico, un angolo di mondo dove occidente ed oriente si intrecciano, convivono e si scontrano. Sulle acque scure del Bosforo, due mondi, due civiltà, nel corso dei secoli, si sono sfidate eppoi fuse fino a creare una cultura unica, un sincretismo altrove impossibile. Questo è il lascito avuto in eredità dalla Turchia di oggi, un paese lanciato a grande velocità verso il futuro ma scosso pericolosamente da trame oscure. Un paese dalle tante anime, c’è una Turchia spregiudicata ed ambigua che gioca a fare la superpotenza e mostra i muscoli, un paese del lusso con i suoi nuovi ricchi ma c’è anche l’altra Turchia, quella amichevole ed accogliente, dove la bellezza e il fascino della storia ancora hanno la meglio sul cemento dei palazzi e le luci sfavillanti delle moderne metropoli. Il desiderio di raccontare attraverso le immagini questo viaggio è stata solo la conseguenza inevitabile della scoperta di questa terra meravigliosa anche se, alla fine, le sole foto non sarebbero bastate per svelare gli innumerevoli tesori di un paese dalle mille facce. Così anche le parole, lentamente, si sono insunuate tra le immagini fino a diventare una parte importante del libro che cerca anche di raccontare i contrasti di questa terra, misteriosa e bizzarra dove, allo splendore millenario di Istanbul, si contrappone la bellezza arcana ed a tratti incomprensibile della Cappadocia. Un paese da conoscere ed esplorare con passione e senza pregiudizi, senza fermarsi pigramente alle sue bellezze più sfacciate ma, accettando la sfida che propone ad ogni viaggiatore, cimentandosi nella scoperta di tutti quegli universi paralleli che, qui, si sfiorano fino ad incontrarsi. Siamo così finiti magicamente proiettati nei meandri sotterranei del modernissimo progetto Marmaray, ci siamo perduti nell’onirico paesaggio del Toz Golu, abbiamo sfidato il cielo mentre ci libravamo silenziosi trasportati dal vento su una mongolfiera, per poi perderci nelle claustrofobiche profondità nascoste di Derinkuyu. E’ stato l’entusiasmo e la bellezza di questa terra a spingerci a dare forma a questi ricordi con l’intento di trasformare le emozioni in materia tangibile e duratura. Questo libro è il racconto della nostra scoperta della Turchia.
Stefano Chiorri
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Il sole, prima di scivolare oltre l’orizzonte, incendia il cielo di Istanbul mettendo in risalto l’elegante silhouette della Suleymaniye Cami che si staglia in contrasto con il più disordinato profilo della città vecchia.
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PA S S A G G I O A D O R I E N T E L’atterraggio è sempre un momento emozionante. Tutto inizia con la perdita di quota, poi il terreno che si fa sempre più vicino ed infine tutti quei particolari, dapprima indistinti che divengono sempre più nitidi. Se tutto va bene le dolci pennellate dei flap accompagnano delicatamente le ruote sulla pista. Qualche volta, però, il trucco si fa più complicato e prima che le ruote tocchino l’asfalto, l’aeromobile balla un po’. Fortunatamente non è questo il caso. Questa volta fila tutto liscio. Un atterraggio delicato ci preannuncia che finalmente siamo giunti a destinazione. Per quanti viaggi si possano fare, l’emozione è sempre la stessa anche se questa volta non nascondo di avere un pelo di curiosità in più. E’ la mia prima volta verso est, ad oriente, verso Istanbul e quella Turchia da tempo desiderata. Finalmente ci siamo, non è più solo lo sguardo ed il cuore a desiderare l’Anatolia ed a separarci ormai dalla nostra meta resta solo il portellone dell’aereo, oltrepassato il quale, potrò calcare la terra Asiatica. Sicuramente non sarà l’Asia dei grandi spazi sconfinati, delle grandi catene montuose e degli altopiani desertici ma ogni avventura inizia così, un passo dopo l’altro. E’ fine settembre ed ormai l’autunno è alle porte. Abbiamo appositamente programmato il viaggio dopo la fine dell’estate. In questo periodo, speriamo, non dovremmo più incontrare le grandi folle agostane e nemmeno le calde giornate di solleone. Sulla moschea Blu non scende mai la notte. Le mille luci della città brillano continuamente e fanno risaltare, anche quando le piazze sono deserte le eleganti linee dell’edificio. I moderni pescatori metropolitani, forse per passione o per abitudine, trascorrono pigramente la serata sul molo di Kadikoy, incuranti dei pendolari di ritorno verso casa 8
Abbiamo la convinzione che, terminata la stagione estiva, tutto si faccia più lieve, meno esasperato, dalle temperature alle folle. Atterriamo all’aeroporto Sabina Gocken, nella parte asiatica della città e quei passi sull’asfalto caldo della pista sono il mio primo contatto, i primi passi, in Asia. Per Martinica invece è piuttosto un ritorno, anche se a distanza di anni. Altri tempi, altra vita. L’impatto con lo scalo aereo è riassuntivo della Turchia di oggi, o meglio di quello che vorrebbe essere la Turchia di oggi, e forse del futuro. Moderna, lineare, ordinata, metallica ed asettica. L’aeroporto è nuovo, pensato per soddisfare le esigenze di una grande città, anzi di una città grandissima, enorme, che si perde tra due continenti. Ritirati velocemente i bagagli vogliamo cercare di raggiungere l’albergo che si trova esattamente dalla parte opposta della città, nel quartiere vecchio di Sultanahmet, così appena fuori lo scalo prendiamo il primo autobus per cercare di non finire vittime del famigerato caos cittadino. Istanbul è una città di oltre dieci milioni di abitanti e tutti giorni una vera e propria marea umana si riversa nelle sue strade per raggiungere il posto di lavoro. Per evitare di finire intrappolati nel marasma del traffico avevamo programmato un tragitto meno diretto e convenzionale che non prevede l’attraversamento di uno dei due grandi ponti che attraversano il Bosforo. Ci recheremo in bus fino al terminale di Kadikoy per poi prenSul molo è un continuo susseguirsi di traghetti che fanno la spola tra le due sponde del bosforo. Sullo sfondo, illuminata dai lampioni, la vecchia stazione dei treni. Giravagando per le strade di Istanbul non difficle imbattersi nei tradizionali venditori di Kastane. Questi frutti, le castagne, sono originari proprio dell’Asia Minore
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dere uno dei numerosi traghetti che incessantemente fanno la spola tra le due sponde dello stretto. Speriamo possa essere un’ottima soluzione ed inoltre ci affascina l’idea di entrare in città, la vecchia Istanbul, solcando le acque come facevano gli antichi mercanti che qui giungevano da ogni porto del Mediterraneo. Sarà un’idea retrò ma avvicinarsi al corno d’oro solcando le acque del Bosforo ci restituisce l’idea romantica di un viaggiare 10
d’altri tempi, con lentezza. Ci imbarchiamo, camminando controcorrente, tra pendolari che si affrettano nel tornare verso casa e placidi pescatori metropolitani incuranti dal caotico flusso di persone che gli sfila alle spalle. Quando il battello molla gli ormeggi il sole sta ormai tramontando e le prime luci iniziano a brillare nella notte e ad illuminare la città. Sulle colline che si affacciano sul Bosforo le grandi moschee
sembrano prendere vita e il disordinato skyline della città poco a poso si accende come una gigantesca insegna al neon. Quando sbarchiamo e torniamo a calcare la terraferma siamo nuovamente in Europa, ad Eminonu e qui, contrattato un passaggio in taxi, raggiungiamo faticosamente l’albergo dove facciamo una breve sosta solo per lasciare le valigie e lanciarci immediatamente alla scoperta della città vecchia, sulla collina di Sul-
tanahmet. Entriamo nella moschea blu quando i cancelli sono quasi prossimi alla chiusura, abbiamo giusto il tempo per un veloce giro ed avere un breve assaggio di uno dei monumenti più importanti della città. Ci ripromettiamo di tornare l’indomani con più calma. Appena usciti, vista l’ora, ci sembra più appropriato dedicarci a più tranquille esplorazioni gastronomiche, quelle si, forse più consone ad un tardo pomeriggio che ormai si sta facendo sera. Cibo a volontà, anzi Street food, come si di dice ora, perchè anche questo è Istanbul, cibo a volontà ovunque. Così, calandoci nella parte accettiamo questa gustosa sfida e decidiamo di impegnarci nell’assaggio di vari piatti tipici, sedendoci in uno tanti ristorantini presenti in una delle vie centrali vicino alle moschee. Senza remore assaggiamo un pò di tutto, per di più servito, in porzioni generose. Seduti al tavolo ci guardiamo l’uno l’altro, probabilmente colti dallo stesso folgorante pensiero e realizziamo che quello che stiamo affrontando non sarà un viaggio ipoglicemico. Scacciamo immediatamente questo pensiero concentrandoci sui nostri piatti e quando la notte avanza, anche quell’ora in più di fuso orario, comincia a farsi sentire così la stanchezza incosciamente conduce lentamente le nostre gambe verso l’albergo. Passata questa prima giornata possiamo stilare un primo, seppur, parziale, bilancio e indubbiamente non possiamo negare che il primo impatto con la città è stato molto positivo. Salire le ripide scale dell’albergo per raggiungere è l’ultimo ostacolo prima del meritato riposo e con la vista che dalla camera affaccia direttamente sugli alti minareti della Moschea Blu ci abbandoniamo nel nostro letto felicemente nelle braccia di Morfeo. Buonanotte Istanbul. Gli obelischi delimitavano la pista del vecchio ippodromo romano consentendo alle bighe di poter effettuare sterzate per compiere il giro. Oggi l’ippodormo non c’è più, al suo posto una piazza davanti alle celebri moschee cittadine 11
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I S TA N B U L , TA N T I M O N D I I N U N O La mattina, di buon'ora, siamo già pronti per partire ed esplorare la città. Vista l’ora pensiamo immediatamente di iniziare da dove eravamo stati costretti ad interrompere la sera precedente. Dall’albergo risaliamo fino alla piazza che fu l’antico ippodromo romano ma subito ci imbattiamo nei lunghi serpentoni di turisti in coda, che sbarcati dalle navi da crociera ancorate sul Bosforo, attendono pazientemente il proprio turno per entrare nelle moschee. Vista la situazione di traffico decidiamo di dirigerci verso la cisterna basilica e scoprire questo meraviglioso capolavoro dell'ingegneria romana. Non ci vuole molto per essere sopraffatti dalla meraviglia. Appena entrati, bastano solamente pochi gradini per trovarsi al cospetto di una incredibile selva di colonne che, ancora oggi, dopo decine di secoli ancora sorregge la città moderna a lungo ignara del tesoro custodito nel suo sottosuolo. Quei pochi gradini ci conducono appena sotto il livello del manto stradale e sempre quei pochi metri bastano per proiettarci, come d'incanto, indietro nel tempo, quando Costantinopoli non era solo la capitale dell’impero Romano d’oriente ma una delle capitali del mondo. L'impatto visivo ed emotivo è devastante. Ci troviamo immersi in una selva di
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enormi colonne di pietra che, meticolosamente disposte, si ergono dalle acque con una mirabile precisione geometrica. La cisterna è come una foresta pietrificata che si perde nel buio del sottosuolo, una tenebra rischiarata solo dalla luce giallastra di lampade al sodio. Matematica ed ingegneria pietrificata questa è ancora oggi la basilica, testimonianza ed omaggio all'ingegno ed alla maestria dei romani che intuendo l'importanza strategica delle colline a ridosso del Bosforo decisero che fosse questo il luogo giusto per erigere una nuova città, una capitale, la nuova Roma. Al cospetto di un simile capolavoro non è difficile lasciarsi rapire dal fascino millenario della storia, così decidiamo di confonderci tra i classici gruppi di giapponesi ed europei mentre, purtroppo, non facciamo fatica a riconoscere le comitive dei nuovi turisti rampanti, cinesi e russi, rumorosi e diciamo così, alquanto estroversi e pittoreschi. Quando decidiamo di tornare in superficie ci perdiamo per le strade affollate di gente indaffarata in mille traffici, tra il profumo di dolci che friggono in pentoloni di olio bollente e tazze di tè e caffè fumante che viaggiano pericolosamente su precari vassoi quasi fossero avventurosi equilibristi. Girovagando, attraversiamo il Corno
d’Oro e risaliamo la stretta strada che porta in cima alla collina dove scopriamo la torre di Galata che da secoli con la sua vista panoramica sul Bosforo domina dall'alto tutta la città poi, in breve, siamo di nuovo giù, in una continua corsa senza soste, fino a piazza Taksim e gli imponenti alberi di quel Gezi Park divenuto tristemente famoso per gli scontri tra manifestanti e Polizia. L'affollata e commerciale via della Repubblica ci riporta verso Galata e il suo tunnel con la funicolare che riconduce i pigri, gli stanchi ed i curiosi fino alle sponde del mare dove un piccolo mercato del pesce fà da contorno ad una selva di ristorantini improvvisati e cresciuti disordinatamente sul molo. Sulla strada del ritorno, riteniamo doverosa una sosta sul ponte di Galata che ci permette di osservare il sole scivolare lentamente oltre la moschea di Solimano. Gli ultimi raggi di sole ci regalano un tramonto dai colori fiammeggianti che sembra voler incendiare tutta la città. Un cielo che vira verso tonalità rosso fuoco accompagna i nostri passi sulla strada del ritorno, mentre, passando davanti ad alcuni ristorantini veniamo nuovamente attratti dagli odori forti e speziati della cucina Turca. Pavidi, come solo i ghiotti sanno essere, ci arrendiamo immediatamente,
La Cisterna Basilica (in turco Yerebatan Sarayi o Sarnici) è la più grande cisterna sotterranea ancora conservata ad Istanbul e misura una lunghezza di 140 metri per una larghezza di 70 e la volta è sostenuta da dodici file di ventinove colonne. Costruita sotto il regno di Giustiniano (527 - 565) è stata restaurata nel 1985. Dal giorno della sua apertura è divenuta una delle principali attrazioni turistiche della città anche per via dei suoi abitanti. Infatti il fondo della cisterna, ancora coperto da uno specchio d’acqua poco profondo, è popolato da numerosi carpe giapponesi.
La testa della Gorgone capovolta è uno degli elementi di recupero che i Romani utilizzarono quando edificarono la cisterna per convogliare le acque che provenivano dall’acquedotto della Foresta di Belgrado. Tale opera resta una delle canalizzazioni più lunghe realizzate dai Romani. La testa costituisce un elemento misterioso nella costruzione ed apparentemente avulso dal contesto e per questo suo fascino è negli anni divenuta un’attrazione turistica molto visitata.
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L’interno della moschea Blu, dove turismo e devozione verso l’islam si sfiorano senza mai toccarsi. L’area per la preghiera è, infatti, transennata ed interdetta ai non musulmani. La veduta della splendida cupola della Moschea Blu, riccamente decorata con disegni e maioliche da cui prende il nome. Fu terminata ed inaugurata nel 1617 per volontà del Sultano Ahmed I La Tranvia T2 ,Taksim-Tunel situata nella parte Europea della città, è quello che resta della grande rete di tram che si snodava nelle strade cittadine. Riaperta a fini turistici nel 1990, collega la centralissima piazza Taksim con la funicolare che, attraverso un tunnel, conduce fino alla sponda orientale del corno d’oro.
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Una visita al Gran Bazaar di Istanbul è un passaggio obbligato per tutti coloro vogliono entrare in contatto con la città. Avvolgente, ammaliante e caratteristico non può non affrascinare il turista che cerca di trovare un approccio, forse ormai romantico, con il modo di vivere Turco. Il Bazaar, nonostante non sia più il cuore pulsante della città, è riuscito a conservare ancora alcuni dei suoi tratti caratteristici ed è possibile trovarvi merci e spezie da tutto il mondo.
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cedendo alle tentazioni culinarie senza nemmeno provare a combattere. Confesso di non essere un amante delle città e dell’ambiente urbano in genere ma non si può certamente negare che il fascino millenario e cosmopolita di Istanbul sia oltremodo coinvolgente, anche forse in virtù dello stretto legame che la città ha con la storia. Osservando quello stretto braccio di mare che unisce il mar Nero al mar Mediterraneo, infatti, i pensieri non possono non andare a caicchi e vele latine che lentamente sfilano sulle acque calme e sicure del Corno d'Oro. Immaginiamo vascelli carichi di spezie, di animali esotici e di genti di tutto il mondo giunte fin qui per scambiare merci nel grande bazaar della città. Istanbul può essere una trappola, ti attrae e cattura con il rischio non lasciarti più andare. Accompagnati dal sapore intenso e speziato di alcuni squisiti dolci al pistacchio lentamente riguadagniamo la strada verso l’albergo ed un meritato riposo, consapevoli che la scoperta di questa magnifica città è solamente all’inizio. La mattina successiva ci svegliamo con l'aria fresca dell'ovest che spazza il cielo portando con sè nuvole che non sembrano promettere nulla di buono. Il meteo è incerto ma noi, reduci da mille altre peripezie metereologiche, non abbiamo nessuna intenzione di farci intimidire dal primo cielo bizzoso. Così ci imbarchiamo a bordo di uno dei numerosi battelli che promette il classico tour sul Bosforo. Salpiamo in ritardo perchè l'equipaggio, a terra, cerca di catturare e convincere gli ultimi turisti di passaggio sul molo ed in breve siamo in mare. L’imbarcazione si infila letteralmente sotto il
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In questa mappa inglese del 1844, Costantinopoli ha già inizato a svilupparsi sulle tre sponde, le due Europee e Uskudar su quella Asiatica. La città cambiò nome dopo il crollo dell’impero Ottomano, intorno al 1930 assumendo l’attuale nome di Istanbul
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ponte di Galata e, costeggiando la sponda Europea, passiamo sotto i due grandi ponti stradali che fino a poco tempo fà erano l’unica via di collegamento tra l'Asia all'Europa. Durante la navigazione verso nord ovest scopriamo l'esclusivo quartiere di Besiktas con le sue abitazioni un pò snob che guardano distratamente quello che era l'antico villaggio di pescatori di Uskudar, sulle sponde Asiatiche del Bosforo. Un vento fastidioso inizia ad increspare la superficie del mare ed in breve la situazione si fa molto più complicata. In cielo il sole è scomparso, offuscato e nascosto dalle nuvole che sembrano voler stringere ancor di più il loro abbraccio, soffocando il giorno in un abbraccio mortale. Poi, come in una scena di un film di Hitchkock, migliaia di uccelli iniziano a volare caoticamente, spaventati da una forza invisibile ma potente. In pochi istanti è tutto un precipitare di eventi. Pesanti nuvoloni si materializzano in pochissimi minuti trasportati da un vento che, a tratti, si trasforma in turbine. Il comandante, vista la situazione, cerca di riguadagnare velocemente la via del porto tra improvvise folate di vento che spazzano il ponte facendo volare via le sedie. In pochi attimi il ponte superiore si svuota tra il panico generale di tutti i passeggeri che, spaventati, si acUna classica foto ricordo sul battello appena salpati dal terminale di Eminonu. Dopo un inizio piacevole il tempo tende a peggiorare. Vento, mare mosso e una piccola tromba marina movimenteranno il nostro rientro
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calcano, spintonandosi e gridando, per cercare di guadagnare la via per la coperta. Il comandante, sbuffando rabbia o più probabilmente preoccupazione, grida al microfono della radio di bordo che rimanda voci gracchianti attraverso l'etere. Nei concitati scambi di messaggi tra capitano e capitaneria di porto, l'incompresibile idioma turco si fà, se possibile, ancora più oscuro e misterioso. Sul ponte superiore sono rimasto da solo, con Martinica che mi urla di scendere mentre a poppa, sulle acque scure del Bosforo, una tromba marina nasce e fortunatamente non ha l'energia sufficiente per prendere vita mentre, il mare, sembra come attraversato da un invisibile fremito energetico. Ormai il giorno è sparito, sopraffatto dal grigio cinereo di una strana stagione indefinita. Sono istanti che sembrano infiniti ma durano l'arco di pochi minuti. Fortunatamente, dopo il momento critico, la nostra imbarcazione riesce a raggiungere il porto senza danni anche se a bordo i presenti non riescono a celare il proprio spavento. Nonostante gli attimi di comprensibile tensione confesso, di essere rimasto, per l'ennesima volta, affascinato dall'imprevedibili ed imponderabili forze della natura. Quando torniamo a calcare la terraferma il vento ha abbassato di molto la temperatura e ci regala un tramonto dal Grosse nubi nere incombono sulla città, sono le prime avvisaglie del maltempo in arrivo. Passata la breve tempesta, il sole torna a baciare la città con un magico tramonto che illumina e risalta le splendide architetture moresche
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sapore più nordico che orientale. Una luce radente, che si insinua nella coltre di nubi, illumina tutta la città, dai minareti fino al mare. E' l'ora propizia per visitare le grandi moschee anche perchè, dopo la tempesta, i numerosi turisti sono quasi del tutto spariti. Obbedienti ai rigidi dettami delle compagnie da crociera, sono tutti sciamati verso le grandi navi ancora ancorate nel porto, lasciandoci così il campo libero. Appena varcato l’ingresso della Moschea Blu la vista lascia senza fiato. I nostri sguardi si perdono inseguendo le alte colonne sormontate dalle enormi cupole che giornalmente sfidano la gravità. Questi edifici sono veri e propri capolavori dell'ingegneria che, ancora oggi, affrontano impunemente il trascorrere inesorabile dei secoli. La moschea Blu ci accoglie con le sue decorazioni e le splendide vetrate multicolore; dall'alto soffitto grandi lampadari scendono fino a restare sospesi qualche metro, a mezz’aria, per illuminare la preghiera dei fedeli e la curiosità e lo stupore dei turisti presenti. Purtroppo non possiamo permetterci di farci bloccare dallo stupore, non abbiamo tempo, dobbiamo approfittare del momento favorevole e visitare anche l’altra grande moschea: Haja Sofia. Quella che una volta era Santa Sofia, con il domininio Ottomano è diventata una moschea. Un tempio dove i turisti si perdono, inghiottiti, nella vastità dei suoi spazi. In una città che sorge proprio al margine di una faglia tettonica attiva e i terremoti non sono una rarità, solamente il suo esistere dimostra la bontà dell'antico progetto e la mestria degli antichi ingegneri. Haja Sofia lascia incantati per la grazia delle sue linee e la grandezza della sua idea, una perla incastonata sul Bosforo. Senza pause, riguadagnamo l’uscita anche perchè il nostro giro non è ancora terminato. Di buon passo ci incamminiamo alla ricerca di un'altra moschea persa nella città, alle spalle del bazaar. Cerchiamo la moschea
di Solimano che scruta e sorveglia l'accesso al Corno d'oro con i suoi marmi bianchi che la rendono inconfondibile fin da lontano mentre troneggia, dall'alto di un colle, sull'intera città vecchia. Quando scende la sera, dopo aver lungamente fantasticato di antichi navigatori, decidiamo di sperimentare il modo moderno di viaggiare. Così con tanta curiosità ci avventuriamo nelle gallerie del nuovo progetto Marmaray. Un lungo tunnel sottomarino, inaugurato nel duemilatredici, che collega le due parti della città, Sultanamhet con Uskudar, l'Europa e l'Asia. Finalmente un grande progetto d’ingegneria ha reso possibile l’avverarsi di un antico sogno: i due continenti uniti dal ferro ma non delle spade bensì della ferrovia. Marmaray è l'idea nuova di una grande rete metropolitana in grado di connettere le due anime della città, sfidando il mare, ad oltre sessanta metri sotto la superficie. Inoltrandoci nel sottosuolo, camminiamo in corridoi deserti, accompagnati solo dal sordo rimbombare dei nostri passi; siamo soli. Così mentre procediamo accompagnati solo dal sinistro suono dei nostri echi arriviamo sui binari dove restiamo in attesa sulla banchina. Pian piano, alla spicciolata, ci raggiungono pochi altri sparuti passeggeri che, probabilmente, fanno rientro a casa,. Vista l’ora saranno gli ultimi ritardatari. Poi finalmente uno sbuffo d'aria ci annuncia l'avvicinarsi del treno e dopo pochi attimi dall'oscurità emerge un convoglio, moderno, comodo e silenzioso che in meno di tre minuti ci proietta dall'altra parte dello stretto. Siamo piacevolmente stupiti, Marmaray è decisamente una grande opera, un nuovo modo di spostarsi anzi di più, è una vera e propria rivoluzione per una città che, crescendo a dismisura, rischiava di finire soffocata dal traffico. Istanbul è un gigante dai piedi d'argilla che stava correndo il rischio di crollare sotto il proprio stesso peso, una enorme città vittima di sè stessa.
Il ponte di Galata offre un punto di vista privilegiato per osservare e riprendere i quartieri vecchi di Istanbul, sullo sfondo il quartiere di Sultanahmet. Dopo l’avventurosa gita in battello ci fermiamo ad attendere il tramonto per scattare qualche foto e goderci momenti decisamente più tranquilli di quelli trascorsi nel pomeriggio.
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Ora quei pericoli sembrano essere svaniti, dimenticati grazie alle dimensioni ciclopiche di questo progetto, alla asettica brillantezza di quei tunnel che silenziosamente stiamo percorrendo nella più assoluta solitudine, quasi fossimo nei lunghi corridoi di un’astronave spaziale. Oggi bastano una manciata di minuti in treno e qualche scala mobile e quando emergiamo dal sottosuolo siamo in Asia. Fà uno strano effetto passare da un continente ad un altro con questa semplicità dal renderlo quasi banale ma, messi da parte certi pensieri, decidiamo di concederci una passeggiata sul lungomare osservando lo sfavillante skyline della moderna Istanbul, che fa da contraltare alle linee medioevali della Torre di Leandro, silente testimone di mille battaglie. E’ impressionanate notare i progressi di questa nazione; moderni grattacieli spuntano ovunque, grandi cantieri ed opere all’avanguardia che contrastano con il suo lato più romantico ed il fascino antico di una città che, in fondo, ancora gode specchiandosi e pavvoneggiandosi nelle acque che l’hanno resa celebre. Istanbul è, giustamente, vanesia ed anche un pò altezzosa, come solo le belle donne sanno essere. Stiamo passeggiando sulle sponde del Bosforo ma questa volta calcando le rive di Uskudar accompagnati da una lieve brezza che trasporta fin sulla strada alcuni schizzi d‘acqua. C’è odore di salmastro e iodio. Qualche coppia, protetta dalla discrezione ovattata della notte, passeggia
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Girovagando per Istanbul è praticamente impossibile non imbattersi in uno dei numerosi chioschi che vendono succo di Melograno. Economico e rinfrescante viene spremuto al momento. Da provare.
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Visitare Istanbul e consumare un caffè turco è quasi un obbligo. Il colore scuro e profumo intenso lo rendono in apparenza simile al “nostro caffè” ma al primo assaggio il gusto, personalmente, ci lascia abbastanza perplessi. Saremo stati sfortunati e restiamo delusi così quello di Istanbul resterà il nostro unico incontro con il caffè turco.
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Il ponte di Galata è una terrazza sulla città e sul Corno d’Oro. Attraversato incessantemente da una moltitudine di auto, tram e persone è diventato negli anni esso stesso un’attrazione turistica, animato come è da pescatori, ristoranti ed intraprendenti ragazzi sempre pronti, per i turisti, a spericolati tuffi nelle acque sottostanti.
Al mercato del pesce di Karakoy non è difficile assistere a scene d’altri tempi. In mezzo ai banchi che espongono tantissime specie ittiche a prezzi accessibili non è difficile incontrare anche disponibilissimi commercinati intenti a sbucciare i gamberetti appena pescati.
Il tramonto con il sole che gioca a nascondino con la grande moschea di solimano, riesce a regalare un’atmosfera magica alla città. Un aereo in lontananza si appresta all’atterraggio sulle piste dell’aereoporto Ataturk, situato nella parte europea della città.
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Il progetto Marmaray è il nuovo sistema di trasporto metropolitano di Istranbul. Pensato per ridurre l’impatto del traffico sulle congestionate strade cittadine si fonda sul massiccio ampliamento della rete della metropolitana. Perno centrale del progetto è il collegamento sottomarino che congiunge le due sponde del Bosforo attraverso un avveniristico tunnel sottomarino di 1800 metri adagiato sul fondale del mare che in alcuni punti raggiunge i 62 metri di profondità e che ne fanno il tunnel sottomarino più profondo del mondo.
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Si impiegano meno di sette minuti ad andare e tornare dall’Asia.
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sul lungomare, mano nella mano, ammirando lo spettacolo delle moschee illuminate sull’altra sponda che contrasta con il profilo, nascosto dalla notte, del palazzo del Topkapi che si perde nelle buie acque sottostanti. Quando il vento che spira da est si fa più insistente ed un pò più freddo anche per noi arriva il momento, prima che la notte avanzi troppo, di fare ritorno in Europa, prendendo una delle ultime corse della metropolitana, attardarsi oltre potrebbe significare rimanere bloccati in Asia fino al mattino seguente, a meno di non prendere una lunga e costosa corsa in taxi. Qualche rampa di scala mobile e rapidamente come siamo arrivati, ritorniamo sulla sponda Europea. Nei lunghi tunnel sotterranei della metropolitana, deserti per l’ora tarda fatichiamo non poco ad orientarci, così quando riemergiamo a “riveder le stelle” siamo piuttosto disorientati in “un qualche dove” cittadino. Un giovane soldato di guardia ci da qualche utile delucidazione ma anche così impieghiamo un pò a ritrovare le giuste coordinate di marcia. Mangiamo uno degli onnipresenti e corroboranti dolcetti preparati con i pistacchi, dopodichè decidiamo che I gatti di Instanbul erano famosi, numerose infatti erano le colonie feline presenti in città. Oggi ormai, almeno dai luoghi maggiormente frequentati dai turisti, sono spariti. I pochi rimasti però non si tirano indietro di fronte all’obiettivo della macchioa fotografica Il terminal marittimo di Eminonu è trafficatrissimo ad ogni ora del giorno. Solo verso sera, dopo il tramonto, il traffico dei pendolari diminuisce lasciando il posto ai battelli turistici. La vista dalla torre di Galata, costruita dai Genovesi nel 1348 era al tempo l’edificio più alto della città, con una vista che spazia a 360° su tutta la città. Costruita come struttura difensiva, nei secoli ha vissuto molte vicissitudini, oggi ospita un ristorante ed è un’ttrazione turistica.
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questa debba essere la degna conclusione della giornata e così, sazi e stanchi, ci dirigiamo lentamente verso l’albergo.Risaliamo la strada che conduce sulla sommita della collina di Sultanhamet, passando sotto le antiche mure del Topkapi, l’antico e sfarzoso palazzo del sultano, e attraversando l’antico ippodromo romano scendiamo verso il Mar di Marmara fino a raggiungere il nostro l’albergo. Quando ci arrampichiamo fino in camera, la stanchezza è un fardello divenuto troppo pesante anche per parlare. Quando chiudiamo la porta alle nostre spalle, abbiamo la consapevolezza di aver vissuto un’altra meravigliosa giornata densa di scoperte ed avventure. Nuove avventure che dovremo affrontare in Asia perchè dopo la breve escursione serale, l’indomani abbiamo programmato di lasciare la città, per partire alla scoperta di quell’Asia Minore finora solamente sfiorata per pochi brevi momenti. Tra i progetti per i giorni a venire ed i moltissimi ricordi già raccolti in questi prime ore ci addormentiamo stanchi e felici, speranzosi che anche l’indomani ci possa riservare altre memorabili sorprese. La Moschea di Yeni Cami, o Moschea Nuova si trova proprio a ridosso della sponda del Corno D’Oro. Qui, all’entrata, un bambino si diverte a giocare con i numerosi piccioni presenti. Nel Bazaar di Istanbul è possibile trovare moltissime merci, non ultimi si possono acquistare molti articoli di marchi famosi contraffatti. In realtà tutta la Turchia, ed Istanbul in particolare, sembrano essere una gigantesca boutique del falso dove è possibile trovare di tutto. Il mercato del pesce di Karakoy è sempre animato. Un gran via vai di gente compra direttamente dai pescatori di ritorno dal mare. La sera il mercato, illuminato delle mille luci dei banchi, resta aperto fino a tarda sera.
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La trama regolare e ripetitiva dei tappeti che ricoprono il pavimento della Suleymaniye Cami lascia percepire la vastitĂ degli ambienti di questa moschea, una delle piĂš grandi di Istanbul.
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Mahmutpasa Yokusu è una delle strade commerciali più importanti di Istanbul, e si snoda dal Gran Bazaar fino al Corno d’Oro. Di solito affollatissima, nei suoi negozi frequentati specialmente da Turchi, si può trovare praticamente di tutto.
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TOZ G O L U , LO S P E C C H I O D E L C I E LO
Il sole prima di sparire oltre l’orizzonte ci regala una straordinaria visione di un lago ormai senza più acqua. E’ il Toz Golu, lo specchio del cielo.
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Il giorno successivo arriva il momento di salutare Istanbul e la sua storia millenaria. Il viaggio, da qui in avanti, proseguirà, su un’auto noleggiata con tanta fatica, verso gli altopiani Anatolici e la Cappadocia. Si torna in Asia, quindi, per restarci molto di più, perchè Istanbul è la porta d’Oriente e abbiamo deciso di varcare quella soglia che ci porterà in un mondo, per noi, nuovo. Ci accorgiamo, quasi subito, che Istanbul è un mondo a parte, un’altra Turchia. Ben presto compare un paese più rurale ed anche il paesaggio muta mentre maciniamo chilometri sull’asfalto che ci trasporta in una terra che si fà sempre più arida. Sfioriamo Ankara con la sua giungla di palazzi in corsa affannosamente verso il cielo e proseguiamo verso sud, fino a costeggiare il Tuz Golu, il grande lago salato, che raggiungiamo proprio sul fare della sera. La distesa bianca, che si trova proprio accanto alla superstrada che dalla capitale si spinge verso sud, verso Antalya e il mediterraneo, si perde a vista d’occhio fino all’orizzonte. Verso occidente il cielo comincia a rosseggiare, così decidiamo di fermarci per curiosare un pò. L’accesso è facile e lasciata la macchina ci accoglie un panorama bianco, piatto ed uniforme che scricchiola sotto le nostre scarpe man mano che i passi ci conducono verso l’interno, lontano dalle sponde, di questo lago ormai senza più acqua. Illuminato dagli ultimi raggi di sole, come in un antico esperimento alchemico, il sale sembra tasmutarsi in oro. Al tramonto, la grande distesa di candido sale, sembra trasformarsi in un deserto infuocato.
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Dopo aver percorso solo qualche decina di metri restiamo da soli, i pochi sparuti turisti se ne stanno ai margini, sulle rive, tra il sale sporco e le tracce ancora evidenti di pneumatici. Non capiamo il perchè nessuno si avventuri oltre le incerte rive, alla scoperta di un luogo così alieno. Basterebbe poco, basterebbe spingersi un pò più avanti, dove il silenzio e la desolazione diventano sovrani assoluti. Così, in compagnia degli ultimi raggi di sole che ormai non riescono più a contrastare l’avanzata inesorabile della sera, anche la distesa si raffredda virando i toni verso il blu profondo della notte. Stupefatti rimaniamo ad ammirare l’orizzonte e le ultime calde tonalità della sera che uniscono cielo e sale in un unico, magnifico sfondo. Nel mezzo del lago le dimensioni sembrano non avere di significato e si ha la sensazione di perdere il senso dello spazio. Non ci sono confini e linee di demarcazione ma solo un silenzio assordante che si perde verso l’orizzonte indefinito. Le stelle, emerse dopo il tramonto, ormai brillano nel firmamento e la luci rimbalzano impazzite sui minuscoli grani di sale come ci trovassimo in un unico, gigantesco caleidoscopio. La notte già avanza ed ora siamo veramente soli, anche gli utlimi intrepidi hanno abbandonato le sponde. I pochi chioschi che vendevano souvenir e prodotti cosmetici a base di sale hanno serrato i battenti, forse è il segnale che è giunto anche per noi il momento di tornare verso la macchina per poi raggiungre l’albergo. Se la serata fosse finita qui sarebbe stato fin troppo semplice, infatti da
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Sul fare della sera il grande salato assume molteplici facce. Dapprima si incendia illuminato dagli ultimi raggi del sole morente, poi assume sfumature più delicate e tenui. E’ il momento del cambio della guardia tra giorno e la notte, prima che il pomeriggio ceda il passo alla sera. I toni si smorzano, le tinte si fanno pastello, l’umidità, scacciata e tenuta lontana dal feroce calore diurno si condensa sul sale in superficie creando un sottilissimo strato d’acqua, in cui si specchia il cielo dell’Anatolia. In questo scenario irreale , in cui sembra di essere sospesi tra cielo e terra ci avviamo all’esplorazione in attesa dell’irrompere della notte.
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questo momento in poi gli accadimenti prendono una piega del tutto inaspettata e per così dire, tortuosa. L’Anatolia è il cuore della Turchia, un vasto altopiano, punteggiato da montagne, che si estende ad una quota superiore ai mille metri, l’aria è molto secca e priva di inquinamento luminoso che ne fanno un ottimo luogo da dove poter ammirare il cielo stellato. Decidiamo così di provare a recarci sul lago, nel cuore della notte. Con questa idea ci riavviamo verso il parcheggio dove eravamo stati solo un’ora prima. Ormai la notte aveva scacciato ogni residua luce del giorno consegnandoci un cielo pieno le stelle. Non impieghiamo molto a tornare nel parcheggio dove eravamo stati nel pomeriggio e appena fermata la macchina vediamo un uomo farsi incontro mentre ci illumina con una torcia. Di notte, in quella situazione, il turco diventa un idioma ancora più oscuro e ci assolgono strani pensieri. L’imprevisto ci coglie decisamente di sorpresa e pensando ad un malintenzionato che ci potrebbe mangiare in solo boccone quasi fosse il lupo cattivo, ripartiamo, anzi fuggiamo alzando un gran polverone. Probabilmente il pover’uomo deve aver avuto il nostro stesso spavento anche perchè, a mente fredda, capiamo che probabilmente si trattava semplicemente, o del guardiano notturno dei chioschi oppure di un povero diavolo che si guadagnava da vivere conducendo i pochi, arditi, turisti sul lago di notte. Comunque, a parziale giustificazione e vista l’ora, posso afIn un simile scenario, pensare di non sfruttare i mille giochi prodotti dal riflesso sul sottile velo d’acqua sarebbe, fotograficamente parlando, un affronto. Ecco così che decido di ciemntarmi nel classico scatto con il salto, mentre Martinica prova a fare degli esercizi ginnici.
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Una distesa infinita di sale trasportato, fino a qui, da fiumi stagionali che nascono dalle montagne ricche di sali minerali e che in questa depressione muoiono evaporando sotto i colpi inclementi del caldo sole dell’Anatolia centrale. Una ricchezza ancora oggi ampiamente sfruttata a scopi commerciali. Nonostante il cielo terso e il caldo di una mattina di fine settembre un perenne vento teso soffia sul Toz Golu, permettendo attività sportive oppure la possibilità di effettuare qualche scatto più creativo.
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fermare che un attacco di codardia isterica lo ritengo giustificato anche perchè la lingua Turca, con tutto il rispetto, ad una certa ora, con il buio appare, come già detto, ancora più incomprensibile e rispetto a quanto possa essere con la luce del giorno. Dopo questo tragicomico imprevisto riprendiamo la strada alla ricerca di un buon punto di osservazione. Decidiamo di puntare verso il centro del lago imboccando una strada sterrata diretta verso il nulla assoluto, o almeno così crediamo. La sottile striscia, tra polvere e buche sembra procedere verso il niente sempre più incerta tra campi di erba ormai rinsecchita e quando cominciamo ad avere i primi ripensamenti si iniziano ad intravedere delle forti luci in lontananza. Subito notiamo che sono luci strane, sembrano fari di grosse dimensioni, di una forma inusuale e non abbiamo la minima idea di cosa possano illuminare., anche perche perchè secondo la mappa ci dovremmo trovare nel mezzo del nulla più assoluto. Comunque rimaniamo con i nostri dubbi ancora per poco perchè poche centinaia di metri oltre, infatti, riceviamo finalmente le nostre risposte. Ci appare un cancello in lontananza farsi sempre più vicino e poco più in là notiamo piccole costruzione che appaiono confuse e nascoste dal buio delle notte. A questo punto, come colto da un’illuminazione divina, fermo la macchina e prima che Martinica possa dire qualcosa sto già invertendo la marcia. Una voce nel buio, alle nostre spalle ci urla contro qualcosa, mentre altre luci si accendono. In
questi momenti è meglio non girarsi e non guardare alle nostre spalle mentre ci allontiamo il più in fretta possibile, bisogna solo accellerare e allontanarsi nel più breve tempo possibile. In nostri programmi, il cielo notturno con le stelle, il Toz Golu e ogni altra cosa aspetterà, in fondo non succederà nulla, l’importante è mettere più strada possibile tra noi e quelle luci. Tornati in albergo abbiamo conferma di quanto intuito: stavamo finendo dritti contro una base militare, un poligono probabilmente e quelle voci che urlavano forse ci intimavano di fermarci ed altro non erano che le sentinelle di guardia. Forse non sarebbe successo nulla, probabilmente non ci avrebbero detto niente, nel dubbio, è stato meglio allontanarsi il più fretta possibile. Di notte, soli, in mezzo al nulla, sarebbe stato difficile giustificare la nostra presenza e armati di macchine fotografiche avremmo rischiato di passare momenti delicati e decisamente poco divertenti. Alla fine possiamo dire che sia andata bene così. Passato lo spavento per l’imprevisto decisamente fuori programma decidiamo che forse è l’ora giusta per chiudere anche questa giornata. La mattina è il momento del grande balzo verso la Cappadocia ma vista la bellezza del luogo decidiamo di fare un ultima visita al lago salato prima di riprendere il viaggio. Con i primi raggi del sole il Tuz Golu si veste di un manto nuovo, completamente diverso. Se la sera, prima di sprofondare nel silenzio della notte, riflette i colori del tramonto, il giorno
Nonostante il cielo terso e il caldo di una mattina di fine settembre, un perenne vento teso soffia sul Toz Golu, permettendo lo svolgimento di attività sportive oppure, semplicemente, la possibilità di effettuare qualche scatto un pò più inusuale.
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indossa un abbagliante abito bianco. In mezzo alla distesa, dispersi in tutto quel nulla, a quel bianco cangiante che offusca e stordisce la mente, i pensieri vengo scaraventati nelle geometrie astratte di un mondo immaginario dove infinte rette si rincorrono e si proiettano verso lo sconfinato orizzonte, verso quei lontanissimi punti di fuga dove il bianco e l’azzurro si abbracciano. Con il sole, alto nel cielo, che martella inclementemente il panorama è impossibile resistere a lungo senza degli occhiali. Di giorno, il lago, superbo, dopo qualche minuto, ci costringe ad abbassare lo sguardo. Così, con il viso arso dal sole e risvegliati dal sale che ci brucia la pelle, torniamo alla realtà, sottomendoci al tempo tiranno che ci costringe a ripartire alla volta della nostra prossima meta, la Cappadocia. Una volta in macchina riprendiamo a percorrere la dritta superstrada che costeggia il lago. La strada punta verso sud, dritta coma una lancia piantata nel ventre dell’Anatolia. In lontananza una foschia nasconde alla vista le terre basse ma non riesce a celare del tutto il cono spoglio ed arcigno dell’Hasan Dagi che troneggia, quieto e solitario sulle pianure circostanti. Poco più a sud, appena visibile, il profilo più tozzo del vulcano gemello se ne stà, silente, quasi del tutto nascosto appena sopra l’incerto orizzonte meridionale, confuso e protetto dalla densa foschia del mattino. Ogni tanto la gratificazione di un ritratto ci vuole, anche perchè difficilmente capiterà ancora di essere in un luogo così particolare. Al mattino, alcuni bus di passaggio scaricano numerosi turisti che si avventurano sulla distesa di sale per un’insolita passeggiata ma senza inoltrarsi più di tanto.
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Al mattino, con il sole alto nel cielo, la vastità desolata del lago salato si perde fino all’orizzonte, confondendosi verso occidente, tra i miraggi e le lontane ed incerte sponde, in un candore abbagliante che brucia gli occhi.
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La solitudine e la desolazione assoluta che regnano lontano dai margini del lago permettono qualche scatto in maggiore libertĂ che, in questo caso, mettono in risalto i colori del tatuaggio contro il cangiante sfondo bianco.
Mentre ritorniamo verso la macchina approfittiamo della gentilezza di un turista turco che dopo aver richiesto una foto ricordo contraccambia immortalandoci in uno dei rari scatti in cui finalmente ci siamo entrambi.
E’ difficile incontrare luoghi come il Toz Golu e francamente non è che ne avessimo sentito parlare molto, anzi le informazioni al riguardo erano scarne e non particolareggiate, anche per questo, al primo impatto, la scoperta di questo lago è stata una vera sorpresa, oltre le piÚ rosee aspettative. 51
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Giunti ad Aksaray svoltiamo in direzione del Goreme milli parki ed intuiamo di essere prossimi alla meta quando, nel mezzo dal profilo piatto dell’altopiano, scorgiamo il solitario “castello” di Uchisar, un bastione di tufo che troneggia su tutto il circondario, prima che la scarpata precipiti verso la valle. Come un faro, il castello ci indica la strada, indirizzandoci verso l’entrata, la porta della Cappadocia. Uchisar è un monolito crivellato di gallerie e stanze, tutte collegate, quasi fosse un gigantesco termitaio, un labirinto tridimensionale fino a qualche decennio fà ancora abitato, con le sue abitazioni troglodite e tutta un’umanità agreste che ne faceva quasi una struttura organica, una cosa viva. Come fosse un grosso scoglio, circunavighiamo Uchisar. Goreme è poco oltre, al termine di una ripida discesa che in poche curve ci conduce verso il basso, fino il fondovalle. Al Goreme panorama non possiamo non fermare la macchina e scendere, abbiamo bisogno di una pausa per riprendere fiato. Lo scenario che si presenta alla nostra vista è qualcosa di indescrivibile e che necessità di alcuni momenti per essere affrontato. Dall’alto, il nostro sguardo spazia sopra il paese, fino alla Red ed alla Rose valley. Gettare lo sguardo sulla valle è come essere colpiti da un pugno nello stomaco. Ci guardiamo increduli e poi torniamo ad ammirare lo spettacolo che si distende fino al monte che dall’altro lato sovrasta la valle. In lontananza, si erge il responsabile di questo paesaggio alieno, l’Ercyes Dagi che dall’alUna sosta al Gorme Panorama è quasi un obbligo. Da qui lo sguardo si affaccia sulla valle perdendosi fino ad Avanos e regala una vista da togliere il fiato, un tripudio di pinnacoli magicamente in equilibrio e mille colori quasi a voler celebrare il trionfo della geologia.
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to dei suoi quasi quattromila metri ancora imbiancati di neve, sorveglia vanesio e soddisfatto beandosi del nostro stupore al cospetto della sua grande opera. Dopo settecento chilometri finalmente siamo riusciti ad arrivare in Cappadocia. Colti dall’entusiasmo risaliamo in macchina per coprire quegli ultimi chilometri che ci separano dalla nostra meta per lasciare tutto in albergo e lanciarci alla scoperta di questo strano angolo di mondo. A Goreme è difficile perdere l’orientamento, il paese, è poco più di un grosso incrocio stradale, divenuto paese, anzi attrazione turistica negli ultimi anni. In cinque minuti siamo in albergo per prendere possesso della nostra stanza. L’albergo offre una bella vista sul paese e la stanza è grande, bella ed accogliente. Lasciamo le valigie, dopo aver fatto il check-in e in breve siamo già fuori, non abbiamo intenzione di perdere tempo. Ci sentiamo in preda ad una sorta di frenesia e ci lanciamo su per le strette stradine che si arrampicano fin sopra il paese e le colline circostanti. La visione dall’alto lascia senza parole, con un panorama che sembra essere uscito direttamente dalla fervida mente di uno scrittore di fantascienza. Come nel viaggio in Scozia, anche qui, l’abbigliamento da trekking fà la parte del leone. Con scarpe comode, tanta buona volontà ed un cappello ci mettiamo in marcia ed iniziamo ad inoltrarci nella Pigeon Valley, una delle molte che da Goreme si diramano in tutte le direzioni. Camini, torri e pinnacoli di morbida cenere Il cono solitario dell’Erciyes Dagi si staglia sul panorama della Cappadocia. E’ proprio dal cratere del vulcano a quasi quattromila metri di quota, sono fuoriusciti molti dei materiali piroclastici che hanno dato origine alla peculiare morfologia della Cappadocia.
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pag 56-57: la vista dal Goreme panorama lascia senza parole, una visione d’insieme di quello che aspetta il viaggiatore al suo arrivo in Cappadocia. Una coloratissima stratigrafia indica chiaramente anche l’origine dei nome delle vallate. Mille sfumature, dal grigio cenere, al giallo fino al giallo ocra e al rosso mattone si affiancano, sovrappongono e fondono come in un unico gigantesco dipinto. A Goreme, la natura, la geologia che si fanno artisti. Nei pressi di Goreme sono situati i luoghi di maggior interesse della regione. La Pigeon Valley parte proprio alle porte dell’abitato e salendo dolcemente si snodas fino all’abitato di Uchisar percorrendo l’ampia valle circondata da alberi di albicocche e vigneti. Grandi camini di cenere vulcanica sorgono un pò ovunque in uno scenario bucolico. Le antiche abitazioni sono ormai disabitate ma vengono ancora utilizzate, in taluni casi, dai contadini locali per riporre gli attrezzi per lavorare i campi.
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vulcanica si innalzano ovunque, emergendo, come razzi su rampe di lancio, in mezzo a frutteti e vigneti, purtroppo, già svuotati da un raccolto appena avvenuto. Seguiamo un sentiero, uno dei tanti che, come tanti rivoli, risalgono la valle, tutto intorno il terreno varia in continuazione, sia nei colori che nelle forme, quasi stessimo osservando un panorama disegnato e scolpito da Gaudì e come in un’opera d’arte del maestro catalano, il paesaggio è dominato dalla sinuosa grazia di infinte linee curve che si rincorrono quasi fino ad accavallarsi e confondersi in un tripudio geometrico di matrice gaussiana. Inerpicandoci per un ripido pendio raggiungiamo nuovamente il Goreme panorama e da qui, dopo una breve sosta ristoratrice, ci dirigiamo verso la White valley. Cavalchiamo i sentieri come fossimo sull’ottovolante: scivoli, curve, gallerie e poi repentine risalite prima di finire in un comodo sentiero che attraversa bassi vigneti verso la fine della valle. Dopo tanto camminare il sole morente ci annuncia l’approssimarsi del tramonto e una fame tremenda annulla i nostri freni inibitori così, quando troviamo alcuni grappoli d’uva scampati alla vendemmia, non ci facciamo troppi scrupoli nel coglierli e mangiarli. Seguendo la White valley finiamo nella valle dell’Amore e subito intuiamo il perchè di
tale nome. Grossi pinnacoli di cenere sormontati da cappelli di pietra più compatta si ergono a gruppi, o solitari, in ogni direzione. Anche essendo dotati di poca fantasia si può intuire immediatamente il facile accostamento tra le curiose formazione geologiche ed un particolare anatomico prettamente maschile. Questa è la Cappadocia, ad ogni passo riserva una nuova scoperta, ad ogni svolta svela una sorpresa, siamo in un vero e proprio scrigno di tesori a cielo aperto che aspettano solo di essere ammirati. L’estasi e l’emozione della scoperta ci ha fatto percorrere lunghi sentieri e quando finalmente torniamo a calcare quel poco asfalto indice di ritorno alla civiltà siamo anche abbastanza distanti dall’albergo. Il sentiero ci ha condotto proprio a metà strada tra Goreme ed Cavusin e quindi siamo costretti a percorrere qualche chilometro prima di terminare le nostre fatiche. Torniamo in albergo quando il tramonto ha ormai lasciato il passo alla sera e stanchi, affamati ed impolverati, abbiamo giusto il tempo e la forza per una cena veloce ed una doccia ristoratrice per poi lasciarci sprofondare nel caldo abbraccio del grande letto della nostra stanza, addormentadoci quasi immediatamente.
L’attività vulcanica nel corso dei millenni ha permesso la formazione di uno spessa stratificazione di ceneri che compattandosi hanno originato il variegato ed originalissimo panorama della Cappadocia. La successione stratigrafica può essere osservata praticamente ovunque con le sottili strisce di ceneri sovrapposte per il susseguirsi delle eruzioni vulcaniche che diedero origine all’altopiano anatolico, quando la placca Africana si scontrò con quello eurooasiatica. pag 62-63 : Il volo delle mongolfiere si è, negli ultimi anni, imposta come una delle più famose e redditizie attrazioni turistiche della Turchia. Lo scenario naturale incantevole e il numero elevato di palloni presenti si prestano a regalare ad i turisti che accorrono qui da tutti il mondo uno spettacolo unico.
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Il mattino seguente ci svegliamo quando il sole deve ancora sorgere e, stranamente, riusciamo persino ad anticipare il muezzin pronto ad intonare il canto dall’alto del minareto proprio di fronte alle finestre dell’albergo. Affacciati alla finestra, ancora al buio di una notte che si sta facendo mattino, osserviamo le prime mongolfiere sollevarsi nella valle. Dapprima è solo qualche pallone in ordine sparso che, di tanto in tanto, si illumina, brillando come una lucciola nella notte, quando il pilota apre la manetta del gas. Poi, poco a poco, il cielo si riempie di decine di mongolfiere che, silenziose, sembrano andare alla lenta ricerca dei primi raggi di sole. Anche noi, siamo in trepidante attesa di decollare perché, fortunatamente, il giorno precedente, il personale dell’albergo è riuscito a trovarci due tra gli ultimi posti per il decollo ad un prezzo abbastanza scontato. E’ inutile nascondere che, prima del volo, siamo molto emozionati, quasi fossimo dei veri e propri pionieri del volo. Purtroppo, man mano che il tempo passa, ci rendiamo conto del sorgere di qualche problema. Il nostro decollo, infatti, ritarda; così nell’attesa l’alba svanisce e con essa la magica luce, eterea ed avvolgente, dei primi raggi di sole. Questo contrattempo ci fa quasi balenare l’idea di rinunciare al volo per, magari, riprovare l’indomani ma alla fine decidiamo di partire lo stesso, nonostante il sole ormai abbia fatto capolino da quasi un’ora. Alcuni Canadesi, che avrebbero dovuto essere nostri compagni di volo,nonostante siano all’ultimo giorno di permanenza, decidono di rinunciare. In realtà anche noi proviamo a protestare e solo dopo qualche discussione finalmente riusciamo a far valere le nostre ragioni. Così, tra un pò di ritardo e parecchi mugugni arriva anche il Le prime mongolfiere decollano quando ancora l’alba non ha avuto la meglio sulla notte anticipando anche il muezzin
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nostro turno. Trasportati da un pick uop, quando arriviamo sullo spiazzo polveroso la mongolfiera ha appena sbarcato i passeggeri che hanno volato al mattino presto ed è già pronta. A terra il sole ha iniziato a scaldare l’aria del mattino mentre, tutto introno, le altre mongolfiere si librano silenziose e leggere come tante lanterne cinesi. Ci guardiamo intorno, siamo rimasti in pochi, sette o otto in tutto, un numero limitato se si pensa che alcuni modelli di mongolfiera possono trasportare fino a trenta passeggeri. Meglio così pensiamo, anche perché la partenza ritardata non ha aiutato il nostro umore, il mio in particolar modo. Impieghiamo qualche minuto per salire a bordo, operazione non proprio semplicissima per tutti e quando ci siamo finalmente sistemati riceviamo le poche istruzioni per un volo in sicurezza. Siamo così pronti per il decollo. Tutto intorno c’è silenzio, gli altri pulmini già si sono persi oltre le prime curve sollevando grandi nubi di cenere vulcanica. Bastano poche fiammate e l’aerostato si stacca dal suolo. In silenzio la terra, magicamente, si allontana da sotto i nostri piedi. Ed è proprio il silenzio che impressiona e colpisce con la propria delicatezza e discrezione. In quei pochi secondi, lo stomaco si chiude ma è solo un attimo e basta pochissimo tempo per abituarsi e rendersi conto di volare. In breve all’inquietudine e alla preoccupazione, si sostituiscono lo stupore e la meraviglia ed anche il malumore accumulato si scioglie al soffio leggero del vento del mattino. Lo stupore e l’eccitazione prendono decisamente il sopravvento ed è difficile descrivere l’emozione e la meraviglia che un volo in mongolfiera riesce a restituire. Ci solleviamo da terra salendo in un cielo solcato da decine e decine di mongolfiere che sembraDecine di mongolfiere si alzano in volo ovunque. Sullo sfondo di questo piccolo gruppo in volo la cittadina di Avanos.
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no danzare leggere, che si inseguono e rincorrono al ritmo di invisibili correnti ascensionali mentre l’aria fredda del mattino viene riscaldata dai raggi di un sole che ormai si fa sempre più caldo. Ci libriamo leggeri sulle ali del vento, ascoltando le informazioni del pilota, una simpatica ragazza turca, che ci indica le particolarità geologiche del paesaggio sottostante. Un volo in mongolfiera non può non entusiasmare, è come galleggiare letteralmente nell’aria, immersi in un silenzio irreale. Ripensando a quegli interminabili ed incredibili momenti ancora oggi ho difficoltà ad indicare termini di paragone. In lontananza fa la sua comparsa il castello di Uchisar e, quasi all’orizzonte oltre la foschia del mattino, emerge il cono altero e solitario del Ercyes Dagi. Dall’alto sembra di poter toccare con le dita la trama onirica delle valli che circondano Goreme. E’ spettacolo allo stato puro che ci lascia continuamente senza parole. La bellezza della natura riesce a sorprenderci sempre oltre ogni nostra aspettativa. I minuti scorrono via velocemente mentre ci solleviamo fino a qualche centinaio di metri dal suolo e le altre mongolfiere iniziano le manovre di atterraggio lasciandoci come unici attori sul palcoscenico. Sorvoliamo la valle dell’Amore sfiorando i suoi curiosi pinnacoli e poi più in là, scivolando sulle vigne e i campi coltivati ci accingiamo ad atterrare dopo aver gettato una cima recuperata a terra da altri membri dell’equipaggio. Un’esperienza unica finita fin troppo presto e nonostante avessimo trascorso un’ora trasportati dal vento, tornare con i piedi per terra trasmette un po’ di malinconia. Alla fine, quel che resta del volo, è un bicchiere di spumante locale e un certificato di volo che sugella la bella esperienza. Poco dopo l’alba è praticamente impossibile contare le mongolfiere in volo, sono dappertutto, danzano si inseguono e alla fine toccano terra come in una leggera danza asincrona.
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La Cappadocia è una terra unica, magica e meravigliosa ma è solo dall’alto che è possibile osservare le meraviglie che si sono formate nei millenni. Rivoli che nei secoli hanno scavato le valli che incidono profondamente l’altopiano. E’ la terra dei camini delle fate, dove la geologia è divenuta arte,
Durante il volo si possono creare vere e proprie situazioni di traffico con numerosi palloni che si inseguono e si sovrastano. Non è rarao infatti osservare qualche mongolfiera direttamente sotto i propri piedi, tutto però sempre nel rispetto delle regole del volo dettate da una vera e propria torre di controllo
Il cambio di prospettiva consentito dal volo permette di osservare le geometrie dall’alto. I campi coltivati tracciano precise linee geometriche che entrano in contrasto con le creazioni astratte dei camini delle fate. La mano dell’uomo e le forze della natura, questa è la Cappadocia, la terra dei contrasti.
Mentre scendiamo di quota il nostro pilota si tiene costantemente in contatto con la squadra di terra che ci segue e ci guida verso i margini di un frutteto. Una cima gettata in terra permette di condurre la mongolfiera direttamente sul carrello, subito pronta per essere portata via.
Quando il sole è già alto le altre mongolfiere iniziare a riavvinarsi a terra. Il volo termina un’ora circa dopo il decollo, un’ tempo che letteralmente scivola via. Numerosi palloni si preparano all’atterraggio nelle vicinanze della valle dell’amore, dove gli ampi spazi permettono alle squadre un recupero agevole
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T R a G E O LO G I A E S TO R I A
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Non abbiamo neanche il tempo di nutrire rimpianti per il volo che siamo nuovamente in marcia. Questa volta la nostra attenzione è rivolta alla scoperta dell’Open Air Museum. Il museo di Goreme è in una stretta valle dove si insediarono i primi evangelizzatori protocristiani giunti nella zona e che, probabilmente, cercavano riparo dalle persecuzioni che si stavano perpetrando sotto la dominazione dell’impero Romano. Questi primi colonizzatori scavarono con maestria la tenera roccia, costruendo una fitta rete di monasteri ed abitazioni sotterranee che, in seguito, affrescarono con il classico stile Bizantino. Il posto si rivela bello ma, purtroppo, anche affollatissimo dai turisti che si accalcano ovunque ma che, alla fine, distrattamente sfilano via senza prestare la dovuta attenzione alle numerose opere d’arte paleocristiana. Paragonato all’estasi del volo in mongolfiera, questa visita è un accostamento che stona e contrasta in maniera fin troppo eclatante quindi dopo un giro anche abbastanza rapido decidiamo di allontanarci dalla folla prendendo uno dei numerosi sentieri che, dal vicino parcheggio, si diramano in ogni direzione. Così comincia la nostra avventura alla scoperta della Rose Valley. Anche lontano dall’Open Museum scopriamo ed esploriamo numerose abitazioni troglodite rendendoci conto che, in realtà, il parco di Goreme è un unico, continuo, susseguirsi di cunicoli e stanze sotteranee scavate nel corso dei secoli. Ci troviamo al cospetto di un’intera città in cui gli abitanti hanno sfruttato il materiale più abbondante e facilmente lavorabile: il terreno. Ci dirigiamo verso la montagna e le altre valli attraversando una prima serie di strutture troglodite e dopo aver salito e ridisceso una collina facciamo una sosta in un piccolo Per iniziare ad espklorare le valli del parco di Goreme basta incamminarsi per uno qualsiasi dei sentieri che dal bordo strada si inoltrano nel paesaggio, basterà solo qualche decina di metri per trovarsi immersi in un panorama unico.
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ristoro nella white Valley. Qui per combattere la calura di mezzogiorno beviamo l’ennesimo succo di melograno, un nettare dolce ed aspro che sembra racchiundere e sintetizzare il carattere di tutta questa terra. Non c’è, comunque tanto tempo per godere di questa pausa ristoratrice ed anche se le giornate sono ancora lunghe abbiamo molti luoghi da visitare. Così, animati da questo spirito indomito in breve siamo di nuovo in marcia, l’intenzione è quella di risalire la valle e giungere fino alla base del monte che sovrasta tutte le vallate ma ben presto ci accorgiamo che l’impresa sarà tuttaltro che semplice a causa della lacunosità delle indicazioni. I cartelli sono assenti ed i pochi e rudimentali segnali sono ormai in pessime condizioni e, nella maggior parte dei casi, difficilmente interpretabili. In queste condizioni procediamo a tentativi sbagliando un paio di volte la strada. Così, andando per tantativi esploriamo una miriade di sentieri prima di incontrare un famiglia di turisti francesi che, fortunatamente, ci indica la strada giusta per la Rose Valley. Naturalmente il sentiero era l’unico che non avessimo ancora percorso. Svoltiamo e risaliamo la Rose Valley tra campi coltivati e grandi alberi di salice che sfiorano e sfidano le pareti verticali che piano piano si fanno sempre più incombenti. Improvvisamente la gola sembra voler stringere la propria morsa sul sentiero, quasi a voler sbarrare la strada ai viandanti ma celati dalla pareti di roccia scorgiamo due tunnel artificiali, in successione, scavati in tempi immemori, che permettono al sentiero di proseguire oltre fino a condurci, con ripidi tornanti in alto, fin dove, finalmente, il Ovunque si volga lo sguardo è tutto un ssseguirsi di abitazioni troglodite ormai abbandonate. Purtroppo il trascorrere del tempo inizia a farsi sentire con evidenti tracce di crolli un pò ovunque
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Di questa grande finestra non siamo riusciti a trovare spiegazione. Probabilmente come molti altri luoghi nel parco di Goreme è parte di una più ampia struttura che con il tempo è crollata. Inoltrandosi nella White Valley si giunge in prossimità di strutture più grandi. Pinnacoli che si innalzano per decine di metri interamente scavati per ricavarne abitazioni ormai in abbandono. Ovunque è possibile osservare il panorma anche da un punto di vista geologico. Sono evidenti le sedimentazioni causate da diverse eruzioni che si sono susseguite attraverso i millenni.
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pendio si fà dolce e la valle nuovamente ampia. Siamo giunti sulla sommità, dove termina la valle, ed i colori cambiano nuovamente. Piccoli appezzamenti coltivati si stendono tra le guglie rossastre mentre l’uva, appena vendemmiata, è raccolta in casse pronte per essere portate a valle. Seguendo qualche altro cartello spartano arriviamo in alto nella Red Valley. Durante il nostro cammino osserviamo un panorama in continua mutazione, le ceneri vulcaniche che dapprima erano gialle e grigie sono state sostiutuite da colori che si sono fatti più intensi ed ora nella stratigrafia si susseguono accese sfumature color rosso. Dall’alto della Red Valley il paesaggio è un complicato labirinto fatto di pinnacoli e canyon, una foresta pietrificata e se non sapessimo di essere in uno sperduto angolo dell’altopiano Anatolico potremmo sospettare di essere finiti su si un lontanissimo mondo alieno. Aggirate alcune guglie e passati nei pressi di un improbabile bar, incastrato in questo dimenticato angolo di mondo, visitiamo un’antica chiesa, un piccolo ambiente scavato nel tufo. La costruzione presenta una volta emisferica dove qualche sconosciuto artista dipinse la figura di Gesù Cristo attorniato dagli apostoli. Purtroppo il tempo, l’ignoranza e l’intollernaza religiosa hanno portato alla parziale distruzione dei dipinti. I volti degli apostoli infatti, sono stati volontariamente cancellati a colpi di scalpello per eliminarne le sembianze e purtroppo, ci renderemo conto, non è sola chiesa in queste condizioni; i dipinti infatti, nella maggior parte dei casi, hanno subito atti di vandalismo se non di una vera e propria furia iconoclasta. Quando usciamo dalla chiesa iniziamo la lunga discesa verso il piano attraverso stretti sentieri per poi raggiungere il piccolo villaggio di Cavusin con la Gettare dall’alto lo sguardo sulla Red Valley non si può che restare ammaliati dalla bellezza inconsapevole che la natura ha saputo infondere in questo angolo di mondo.
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Per godere appieno delle bellezze del parco di Goreme bisogna armarsi di buona volontà e spirito di sacrificio. E’ d’obbligo farsi delle lunghe camminate che portano alla scoperta di numorosi angoli altrimenti impossibili da raggiungere con altri mezzi. Si passa sotto i tunnel scavati nella montagna per risalire la White Valley, ci si arrampica su ripide e strette scale per superare i passaggi più impervi ma per un prezzo così piccolo scoprirete le linee sinuose di questa terra, le opere d’arte di antichi e dimenticati artisti, i dolci frutti di una terra ricca e generosa e l’ingegno di antichi costruttori; mille aspetti diversi di una terra unica.
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sua imponente rocca, o almeno quello che ne resta. Il sito troglodita di Cavusin è in parte crollato ed in parte, sfidando testardamente la gravità, ancora orgogliosamente aggrappato alla montagna. Sembra quasi che una gigantesca lama invisibile si sia abbattuta sulla terra permettendoci di osservare la sezione di un gigantesco formicaio. Stanze e cunicoli terminano nel vuoto, affacciandosi sul baratro dove si possono vedere enormi massi di quelle che furono antiche volte ormai crollate. L’entrata di una chiesa galleggia sospesa a mezz’aria affacciandosi sul nulla e, per raggiungerla, sono costretto ad arrampicarmi in maniera un pò avventurosa attraverso quello che deve essere stato il focolare di una antica abitazione. La chiesa, ad unica navata, è abbastanza grande ed il sole, che ormai sta tramontando, illumina con i suoi raggi la nicchia dove probabilmente in tempi antichi era alloggiata una croce. Esploro il luogo ancora un pò, spingendomi fin dove la mia prudenza ed il mio istinto di autoconservazione ritengono sia giusto ed opportuno, poi decido di scendere per raggiungere Martinica che non se l’è sentita di arrampicarsi fin quassù. Tornati in paese anche le nostre energia sembrano essere arrivate alla fine o quasi così chiamiamo un taxi per recuperare alla nostra auto, di tornare a piedi non se ne parla. Ormai tra mongolfiera, museo e paesaggi Anatolici stiamo ormai girovagando per queste valli da molte ore. A stilare un bilancio possiamo dire di aver trascorso una giornata intensa, dall’alba al tramonto ed ora in prossimità della sera non ci resta che raggiungere un punto panoramico, da dove, ci siamo ripromessi di goderci il tramonto. Ci arrampichiamo un pò e trovato un piccolo spiazzo attendiamo che il sole scenda verso occidente quando, all’improvviso, veEsplorare il parco di Goreme è una continua scoperta. Una tavolozza gigante abbandonata sulla terra dove tra mille sfumature di rosso marrone può spuntare un tocco di giallo.
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In alto, nei pressi della terrazza panoramica, si diramano numerosi sentieri che conducono ovunque. Uno di questi dopo aver lasciato la White valley si inoltra in una morbida conca dove, il terreno meno ostile, permette la coltivazione di grano e viti. Poco oltre il sentiero prosegue con diversi fino a giungere ai piedi di imponenti guglie di rocce rosse. Incastonata tra alcune di queste, quasi mimetizzato, si trova un piccolo punto di ristoro che si trova proprio vicino all’ingressi di una delle chiese piÚ famose del’intera valle .
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Dopo aver terminato la discesa della Red Valley, ci incamminiamo su una strada polverosa in direzione dell’abitato di Cavusin. Da lontano l’imponente insediamento troglodita che sormonta e domina il moderno abitato appare in tutta la sua maestosità . Appena giunti ai piedi della rocca appaiono evidenti i segni del degrado. Grandi massi staccatisi dalla parete giacciono sparsi in maniera disordinata alla base delle pareti. Si come l’impressione di essere al cospetto di un enorme formicaio aperto da un colpo di una scure.
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diamo decine di mongolfiere levarsi proprio sulle ultime luci del giorno. Scattiamo un pò di foto approfittando della calda luce del tramonto, e, quando la sera guadagna terreno, ci rifugiamo in un piccolo ristorante per gustare qualche piatto locale, giusta ricompensa per le tante fatiche sostenute ma prima di tornare in albergo sfruttiamo le ultime energie per visitare Ortahisar e il suo castello scavato nel tufo, ultima ciliegina prima di calare il sipario. La notte scorre via veloce e leggera e il mattino si affaccia su una Goreme insolitamente silenziosa. Martinica mi sveglia appena prima dell’alba, tanto da anticipare, anche questa volta, il canto del Muezzin. L’intenzione è quella di andare a fotografare il volo delle mongolfiere e non posso non apprezzare il notevole sforzo profuso per una simile levataccia, ben sapendo quanto lei apprezzi crogiolarsi sotto il confortevole tepore delle coperte calde. La vita in due è anche questo; essere una squadra significa saper affrontare e vivere l’uno le idiosincrasie dell’altro, trasformare in punti di forza quelli che sono i piccoli difetti della persona che si ha al proprio fianco. Superato l’iniziale momento di smarrimento dovuto all’ora della sveglia, in breve siamo pronti. Abbigliati di tutto punto e con le macchine fotografiche pronte per immortalare il decollo dei palloni aereostatici. Siamo già in macchina quando il muezzin intona i primi versi delle preghiere del mattino e in breve raggiungiamo una piccola collina che domina una parte della valle di Goreme. Numerosi autobus stanno raggiungendo i parcheggi per scaricare i moltissimi turisti che, piuttosto assonnati, sono giunti fin qui da ogni angolo della Turchia. Un chiacchiericcio frenetico e agitato increspa la quiete del mattino come un sasso gettato in uno stagno. E’ il momento dei turisti mordi e fuggi che, in una sola giornata, L’insediamentio di Cavusin fu abitato e ricolonizzato più e più volte nella storia anche se fondamentalmente la datazione della fondazioone è, come per molti siti dell’Anatolia, piuttosto incerta. La chiesa paleocristiana è sicuramente una modifica successiva .
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Le ultime luci del giorno ci regalano un inaspettato volo serale. Nonostante la differenza di orario anche con il sole morente l’atmosfera delle mongolfiere in volo è spettacolare Alcune mongolfiere volano radente il terreno fino a sfiorare le curiose formazioni geologiche della Red Valley giungendo a fino a pochi metri dei pinnacoli. Il castello di Ortahisar, benchè sia di dimensioni più ridotte rispetto a quello di Uchisar comunqe, comunque domina il moderno abitato.
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All’ingresso del castello di Uchisar si possono trovare banchi ricolmi di ogni prodotto. COme si può vedere è la frutta secca a farla da padrona con ogni genere di specialità, dai frutti tradizionali fino a quelli tropicali d’importazione.
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voleranno, sfioreranno ed infine abbandoneranno questa terra meravigliosa scalfendone appena la superficie. In tutta coscienza, anche rispettando le diversità di visione degli altri, non posso trovarmi d’accordo con questo turismo da corsa. Non si può avere tutto, subito e senza fatica...questo modo di visitare il mondo non fà decisamente per noi. Nell’aria fresca del mattino c’è fermento, qualche clacson risuona nel silenzio mentre inizia a sentirsi anche il rumore dei bruciatori intenti a soffiare aria calda nei palloni mentre un vento secco inizia a spirare da ovest. Noi siamo pronti, ben coperti e preparati con i cavalletti già piazzati. L’alba tinge la Cappadocia di un tenue colore viola che, man mano, si fà sempre più intenso. Il cielo, però, rimane deserto. I palloni, che avevano iniziato a gonfiarsi, velocemente si afflosciano e nuovamente si adagiano sul terreno come pugili messi al tappeto. Il fermento si trasforma ben presto in agitazione. Sembra che la torre di controllo non conceda l’autorizzazione per il decollo: troppo vento. L’esile soffio di vento che spira, non rende consigliabile il volo in sicurezza. Pur nella loro maestosità, le mongolfiere devono sottostare alle bizze del meteo e rispettare il respiro della terra. La loro delicata danza non può permettersi di sfidare la forza degli elementi della natura. In simili condizioni il rischio, per i palloni, di essere sballottati con la possibilità di pericolose collisioni in aria viene giudicato troppo alto. Dopo alcuni minuti di incertezza e qualche protesta tutti devono riporre i sogni nel cassetto. Per l’intera giornata non si volerà. La vista dalla sommità del castello lascia senza parole. Migliaia di formazioni rocciose si accavallano fino a formare il complicato gioco ad incastro che è il Goreme Milli Park
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Visto da Goreme il castello mostra il suo lato più imponente con la parete di nordest che precipita per oltre centro metri. Un bastione che ha consentito l’apertura di centinaia di accessi
L’ordine è perentorio e solo allora capiamo quanto siamo stati fortunati ad essere stati inseriti in uno degli ultimi voli; le previsioni, come ci avevano annunciato, davano il meteo in peggioramento e il venerdì sarebbe stata l’ultima finestra disponibile al volo per diversi giorni. Ecco così spiegato anche l’imprevisto volo serale, l’ultimo prima del peggioramento delle condi-
zioni meteo. Purtroppo, anche per noi, i mancati decolli hanno un’ovvia ripercussione; sfuma, infatti, l’ultima possibilità di fare altri scatti, una delusione minima rispetto a quella avuta da chi ha fatto anche centinaia di chilometri per restare con un pugno di mosche in mano. Riponiamo l’attrezzatura comunque con la consapevolezza di essere stati baciati dalla fortu-
na, cosa che sicuramente non potrà dire il gruppo di cinesi dietro di noi che voleva effettuare un workshop fotografico per riprendere il volo delle mongolfiere. In questi casi è una fortuna non sapere le lingue. Visto l’imprevisto cerchiamo di riprogrammare la giornata e così decidiamo di puntare verso Uchisar. In macchina risaliamo la valle e parcheggiamo nella piazza
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Offrire dei voli in mongolfiera è stato un vero colpo di genio, una trovata turistica che ha permesso di avere un importantissimo ritono economico per tutta la regione che, intorno al turismo della valle di Goreme e degli siti archeologici, ha costruito un solido business che si nel tempo ampliato ed irrobustito facendo uscire la regione da uno stato di arretratezza e povertà cronica legata ad un economia fondamentalmente rurale. Oggi la possibilità di fare voli permette un perfetto cunnubio e complemento all’esplorazione di una terra unica ed attira turisti da tutto il mondo. Tutto questo umento del traffico ha però portato ad una regolamentazione dei voli che tiene conto del meteo e delle presenze.
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Purtroppo non sempre il meteo è favorevole ai decolli, così dopo aver sostenuto un’alzataccia all’alba, visto il forte vento, non resta che godersi un inzio di giornata che tinge di rosa l’intera valle. Pernoi non è un grosso problema, per tutti gli altri è una consolazione piuttosto magra specialmente per quelli che hanno percorso centinia di chilometri per poi scoprire che il loro volo è stato annullato. Una torre di controllo, situato sopra l’abitato di Goreme, funge da stazione di controllo e ogni giorno autorizza i decolli in base ai bollettini meteo come se ci si trovasse in aereoporto. Nonstante tutta l’organizzazione ricordiamo che, di tanto in tanto, avviene qualche incidente dalla conseguenze anche gravi.
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del paese. Dopo aver pagato il biglietto ci addentriamo nel dedalo di tunnel che si perde nel ventre del castello. A questo punto del racconto mi sembra doveroso spiegare che, quando si parla di castello, non lo si fà riferendosi ad una costruzione nel senso classico del termine, in realtà si tratta di uno sperone roccioso più compatto che ha resistito all’erosione e alle ingiurie del tempo in misura maggiore rispetto al terreno circostante. Proprio in questi luoghi, che dominavano le valli e gli altopiani, le antiche popolazioni costruirono i loro edifici più importanti. Castelli in senso lato che erano comunque punti di riferimento per gli abitanti, luoghi da cui potevano sorvegliare e difendere il loro territorio dalle incursioni e dalle scorribande dei predoni. Corridoi, cunicoli e scale ci conducono sulla sommità della rocca da dove la vista può spaziare a trecentosessanta gradi su tutta la regione, da Neveshir fino ad Avanos ed oltre, fin dove si può spingere lo sguardo. Sul punto più alto, l’onnipresente bandiera turca sventola tesa dal vento, che quassù non è più una semplice brezza ma una corrente impetuosa che rende difficile persino parlarsi l’un l’altro. Ora capiamo il diniego delle autorità a far decollare le mongolfiere. In una situazione del genere, la sicurezza dei voli sarebbe stata sicuramente pregiudicata e, a prescindere dalle proteste e dai mugugni, riteniamo sia stata la scelta migliore.
Dall’alto osserviamo una sottile striscia di nubi che man mano si fà più scura e minacciosa e quando il vento si fà troppo intenso decidiamo di ridiscendere e raggiungere la macchina per dirigerci a Pasabag e di lì a Zelve. Percorriamo solo qualche chilometro e, nonostante il processo geologico che ha modellato questa regione sia sempre lo stesso, il paesaggio assume contorni e sfumature differenti. Da questo lato della montagna, le ceneri vulcaniche sembrano essere più compatte e ciò ha reso possibile la formazione di pinnacoli dalle dimensioni maggiori. Pasabag è una sorta di giardino in cui si ergono giganteschi funghi di pietra. Ci infiliamo in piccoli tunnel ed entriamo in una grotta arrampicandoci su consunti gradini. Purtroppo lo stretto cunicolo non conduce da nessuna parte e così ci troviamo a dover ridiscendere i gradini a ritroso senza aver nessun appiglio per le mani. Un gioco pericoloso ed anche un pò senza senso che potevamo tranquillamente evitare vista poi la difficoltà per tornare sui nostri passi. Alla fine tutto è bene quel che finisce bene e quando siamo di nuovo a calcare un terreno più sicuro decidiamo di tornare verso la macchina anche perchè, verso l’orizzonte, un cielo plumbeo non sembra promettere nulla di buono. Meglio affrettarsi ed andare oltre. Oltre Pasabag ci attende Zelve e le sorprese non sono ancora finite.
Il mancato decollo delle mongolfiere ci da comunque l’opportunità di godere di una bellissima alba. Il cielo capriccioso, unito ad una luce favorevole consente di scattare foto piacevoli che in parte ci ripagano della levataccia mattutina. Uchisar sotto un cielo bizzoso sembra richiamarci per una doverosa visita.
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ZELVE, L’INCANTESIMO DI PIETRA
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Abbandoniamo Pasabag per spostarci verso l’ultima tappa della giornata che abbiamo riservato al sito di Zelve. La Cappadocia toglie il respiro e non concede pause, così quando pensiamo di aver raggiunto il massimo della magnificenza, davanti ai nostri occhi si aprono nuovi scorci che riescono a farci dimenticare, per quanto sia difficile, quanto visto finora. Effettivamente anche lo Zelve open air museum non sfugge a questa regola. La strada termina dove una stretta valle si incunea tra le pendici della montagna. Tutto intorno le mani di uomini antichi hanno scavato e plasmato ogni singola roccia e abbiamo la sensazione di trovarci in una vera e propria città pietrificata, un’arca immobile e sospesa nel tempo. Ogni pietra, parete o angolo sono stati lavorati e modellati con saggezza e maestria da uomini che cercavano riparo in queste valli probabilmente dimenticate dal resto dagli uomini. Purtroppo le pesanti nuvole che avevamo visto dalla sommità del castello di Uchisar sono giunte fin qui ad oscurare il sole del pomeriggio e ben presto iniziano a rovesciare il loro pesante carico di pioggia accompagnate da violente folate di vento che sollevano una sabbia fine ovunque. Fortunatamente riusciamo a trovare riparo in una delle numerose abitazioni mentre il forte vento ruggisce attraverso i tunnel alzando improvvisi turbini di polvere. Ben presto la pioggia battente, velocemente come era arrivata, si allontana verso est e i raggi di sole, squarciando le nuvole, rischiarano ed illuminano il resto della nostra escursione. Non temiamo di essere smentiti quando affermiamo che Zelve è un posto veramente fantastico, una sorta mondo perduto a metà strada tra il villaggio di Tatooine di Star Wars e il pianeta Marte
di Edgar Rice Burroughs, una valle aliena in piena Anatolia. Grandi caverne artificali dalle volte semisferiche collegate da tunnel che attraversano lo sperone di roccia e che divide la valle in due settori distinti. Un labirinto tridimensionale anticamente interconnesso da funi, scale a pioli e corridoi, con grandi ruote di pietra usate per bloccare l’accesso in caso di visite da parte di “ospiti indesiderati”. Zelve e tutta la Cappadocia, sono un mondo alternativo e bizzarro che sembra essere stato plasmato seguendo le regole di una geometria differente, quasi un mondo di fattura Lobacevskiana, frutto della mente di ingegneri con il mito di Escher. Si entra, ci si arrampica su strette ed improbabili scale a chiocciola che si avvitano nella montagna, ci si affaccia nel vuoto attraversando consunti archi in pietra, per finire in stanze che terminano su baratri di decine di metri. Tutta la Cappadocia è un monumento al tempo che passa, un omaggio all’entropia ed al divenire che conduce inesorabilmente verso il disordine. Enormi massi giacciono disordinatamente sul fondovalle, mentre alcune transenne impediscono il passaggio dove, il fragile tufo, cedendo al passare del tempo non ha avuto più la tenacia per opporsi alla gravità. L’opera incessante degli antichi costruttori che, come scavando tarli, hanno intaccato e minato le fondamenta di queste montagne facilitando ed accellerando il lento ma inesorabile sfacello. La tenera cenere vulcanica non ha la struttura, la vigoria e l’orgoglio per sfidare il tempo, non è nella sua natura. Per questo motivo, questo semplice peccato originale, tutta la Cappadocia è un capolavoro effimero che non riuscirà ad opporsi per mol-
Le bizzarre architetture di Zelve si sviluppano in una valle che si incunea profondamente nella montagna. Purtroppo la fragilità e la tenerezza del terreno, benchè sia di facile lavorazione anche con strumenti non troppo sofisticati,è il più grosso ostacolo alla conservazione del sito e quindi anche il suo più grande nemico, ogni anno, infatti, non mancano nuovi crolli che minano la stabilità dell’intero sito pregiudicandone la consevazione per il prossimo futuro.
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Ogni angolo del complesso di Zelve è un rompicapo scavato nella pietra, una serie di costruzioni che ha portato ha sviluppare una pianta apparentemente senza senso, un struttura quasi viva interconessa in maniera inestricabile
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Antichi camminamenti collegano le varie sezione che, ormai, terminano nel vuoto, crollate sotto i colpi implacabili del tempo. In quest’immagine, si può chiaramente notare una delle ruote che bloccavano i tunnel in caso di attacchi dell’esterno.
to tempo all’incessante trascorrere dei millenni. Qui un giorno, in un futuro non troppo lontano, tutto tornerà ad essere polvere, impalpabile come quella cenere da cui tutto ha avuto inizio. Questa è Zelve, l’essenza stessa di questa terra, il simbolo ultimo di un mondo morente che, pezzo dopo pezzo, si sta sgretolando. Gli elementi continuano imperterriti a scavare, modellare ed a trasformare e noi non possiamo che osservare impotenti il lento, inesorabile disfacimento di questo capolavoro della natura e dell’architettura troglodita, un luogo fantastico fuori dal mondo o forse semplicemente sospeso fuori dal nostro mondo. Un luogo che ancora oggi, a distanza di tempo, ai nostri occhi di moderni ed occidentali non riesce ad avere un logica precisa, continuaimo a rivederlo come una bizzarria archittetonica, un potpourri di difficile interpretazione. E’ proprio questa logica differente che conferisce a questo sito una bellezza unica. Zelve è una gigantesca astronave o una macchina del tempo arenata in Cappadocia, un relitto fantasma riemerso dalle nebbie del tempo che naviga senza metà in balia dalle correnti. Dopo tanto fantasticare lasciamo l’inverosimile panorama di Zelve con gli occhi pieni di meraviglia e la pancia piena dei buonissimi Gozleme, abilmente preparati dalla simpatiche donne di un ristorante appena fuori l’ingresso della valle. Il Gozleme è una piacevole scoperta e qui in Cappadocia, ed in tutta la Turchia, lo si può gustare praticamente ovunque anche perchè si tratta di un piatto semplice ed abbastanza veloce da cucinare. Si prepara una sfoglia e la si farcisce con patate e spinaci o formaggio e fondamentalColpiti da un improvviso temporale troviamo riparo in una delle tante abitazioni del complesso di Zelve e qui non si può non rimanere sorpresi dalla sua bizzarra tridimensionalità fatta di tunnel e stanze sovrapposte, un vero e proprio labirinto
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Zelve è qualcosa che va oltre la semplice opera architettonica. Zelve è il luogo che piàù si avvicina ad un’opera di giger. Una labirinto intricato, assurdo, dove la pietra è stata plasmata e piegata alla volonta dell’uomo, un rebus organico che ha attraversato i secoli e che lentamente si sta sfaldando, cosumato, giorno dopo giorno dall’incuria umana e dal tempo. Uno scatto rubato, un ritratto, uno dei pochi mentre osservo il panorama che ci circonda. Purtroppo la nostra escursione nella valle è accompagnata da una fastidiosa pioggerella che cade da un cielo grigio e pesante. Comunque non è una pioggia, sia essa turca o scozzese a fermarci, basta essere attrezzati ed indossare l’abbigliamento adatto per sopportare e superarae queste piccole difficoltà temporanee.
mente la si potrebbe definire come una sorta di piadina in salsa Turca. Dopo aver mangiato a sazietà arriviamo così verso la fine di questa giornata che decidiamo di trascorrere ad Avanos girovagando tra i numerosi negozi di articoli di artigianato locale alla ricerca di qualche souvenirs diverso dal solito. Ci perdiamo dentro alcune botteghe che espongono vasi e piatti finemente decorati e concludiamo qualche buon affare. Dopo che questa ricerca è stata portata a termine con successo non possiamo che rientrare, per l’ennesima volta felici, in albergo portando nel cuore tutti gli splendidi momenti vissuti tra le misteriose pietre e i fantastici sentieri di questa terra che sembra non voler mai smettere di stupirci.. 99
DERINKUYU: STRANI MONDI IPOGEI
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Purtroppo il giorno successivo salutiamo la Cappadocia per dirigerci verso una delle città sotterranee, verso il paese di Derinkuyu e la valle di Ilhara. Abbandonare il Goreme Milli park è, in verità, un dispiacere enorme ma la nostra tabella di marcia ha tempi serrati e non ci consente di avere troppe pause. Le sorprese siamo sicuri non finiscono mai ed altre emozionanti scoperte ci attendono da qui in avanti, la prossima tappa ci condurrà alla scoperta di altri, strani, mondi ipogei. Tra le molte città sotterranee presenti in Cappadocia abbiamo deciso di dirigersi verso Derinkuyu la più famose anche perchè fu la prima di queste strane strutture ad essere scoperta quasi un secolo fà ed anche perchè si trova ad essere proprio sul nostro percorso verso la destinazione successiva. Derinkuyu nell’antica lingua anatolica significa pozzo profondo e mai nome sembra calzare così alla perfezione alla reale natura di un luogo. Parcheggiata l’auto ed aver acquistato i biglietti, ci mettiamo in coda con gli altri visitatori e quando arriva il nostro turno ci infiliamo in una stretta scala scavata nel tufo che si avvita nel sottosuolo. Inizia così una nuova avventura nel sottosuolo. Evitate Derinkuyu se soffrite di claustrofobia. Questo potrebbe essere l’unico motivo valido per non esplorare questo luogo, altrimenti non avreste scuse per evitare la visita. La città sotterranea si estende per diversi ettari sotto la superficie e scende nel ventre della terra ramificandosi sotto il paese moderno. Alcuni fantasticano di tunnel che si diramano in tutte le direzioni, giungendo persino a connet-
tersi con le numerose altre città sotterranee presenti nella zona. Ascoltiamo un nebuloso mix di favole, mitologia e fantascienza e ci rendiamo immediatamente conto di essere entrati in una sorta mondo capovolto, sottosopra, speculare a quello di superficie, una dimensione alternativa ma complementare al mondo di sopra. Nei cunicoli e nelle sale non manca nulla, ogni spazio è organizzato in maniera scientifica. La città al massimo della capienza avrebbe potuto ospitare circa ventimila persone per un periodo di tempo abbastanza lungo. Una volta sigillati gli ingressi, l’autonomia era garantita dai profondi pozzi di ventilazione che ancora rendono possibile la perfetta aereazione di questo mondo all’apparenza claustrofobico. Ci sono stalle per il bestiame, forni, pozzi per l’acqua, magazzini, alloggi, stanze per le guardie, cucine, sale mensa e templi per il culto delle divinità. Tutto è perfettamente organizzato come se gli antichi abitanti si fossero preparati in un’astronave in rotta verso l’infinito o meglio in una grande arca arenata sulla Terra. Probabilmente i nemici da cui nascondersi e proteggersi erano spietati e la facilità di scavare rese possibile la costruzione di queste strutture bizzarre. Sulle pareti ancora si possono osservare i segni degli scalpelli e degli attrezzi usati per aprirsi la strada verso il ventre della terra. Stretti cunicoli ci conducono verso il fondo della città, verso i templi ospitati nei più reconditi anfratti della madre terra. I punti più profondi giungono fino ad ottanta metri sotto il livello del suolo. Oltre sarebbe stato impensabile andare per
Derinkuyu, significa appunto pozzo profondo. Ed è quest’immagine che meglio esemplifica la maestria delle antiche popolazioni anatoliche che riuscirono acreare vere e proprie città sotterranee autosufficienti in grado di proteggerli da lunghi assedi. e proprio a questi profondi pozzi d’aereazione che era demandata la salvezza dell’intera struttura, pozzi che ancora oggi riescono ad assolvere in pieno all’originaria funzione per cui furono costruiti.
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la presenza delle falde acquifere che hanno reso impossibile scavare ancora più in profondità. Uno stretto tunnel ci conduce nel punto più profondo a cui possono accedere i visitatori ed anche qui, lontano dalla luce del sole, i pozzi di aereazione garantiscono un ricircolo dell’aria che possiamo ancora chiaramente percepire. Mille considerazioni scorrono nei nostri pensieri e la nostra mente razionale fa comunque fatica ad immaginare migliaia di persone stipate in spazi così angusti e limitati, forse siamo troppo distanti
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temporalmente per comprendere quale paura atavica abbia spinto degli uomini a nascondersi fin quaggiù ma sicuramente il terrore è una motivazione potente che ancora oggi spinge gli uomini a lottare contro avversità spesso fuori portata. Ovunque la terra sembra incombere su di noi e così anche durante la nostra visita alcuni dei visitatori presenti accusano dei lievi disagi, la claustrofobia, infatti, è un nemico sempre in agguato anche perchè i cunicoli di collegamento tra i vari livelli sono stati, volutamente, costruiti in modo da ri-
sultare estremamente angusti. Una difesa passiva per rendere difficoltoso l’accesso ai nemici tanto che, in alcuni tratti, siamo costretti a camminare carponi per evitare di dare delle sonore testate al soffitto. Ogni singolo particolare è stato concepito in chiave prettamente difensiva e quella che chiamano città sotterranea dà l’impressione di essere un’unica, gigantesca fortezza. Alcuni studiosi, più arditi e fantasiosi, hanno ipotizzato che la funzione di questi labirinti sotterranei fosse quella di difendere le popolazioni da in-
Nonostante il morbido tufo vulcanico sia di facile lavorazione, il pericolo di un crollo delle volte non è mai un0eventualità da escludere a priori. Per questo motivo alcune stanze più ampie, adibite a luoghi comuni per la comunità sono state rinforzate con archi a volta per sostenere il peso del terreno sovrastante. Mentre nel fondo della sala, che fungeva allo stesso tempo da mena e cucina, è ancora visibile un forno per la cottura dei cibi, al cenro è visibile una struttura che era usata come tavola per consumare i pasti. In un eventuale assedio il primo stratagemma difensivo era costituito dall’entrata che era accuratamente resa il meno visibile possibile. Nel caso questo accorgimento fosse fallino l’intera strujttura era stata progettata per rendere il più difficoltoso possibile l’avanzare verso i piani in cui si ritiravano gli abitanti. I cunicoli furono appositamente costruiti tortuosi e di dimensioni ridotte in modo da consentire, in maniera disagevole, il passaggio di una sola persona per volta. Inoltre grossi pietre rotonde, nascoste nei muri venivano fatte scivolare al fine di bloccare i tunnel. da un foro nel centro era possibile controllare il nemico dall’interno e colpirlo con lunghe lance.
A Derinkuyu tutto è strano, bizzarro e capovolto. Già subito dopo l’ingresso e scendendo i primi stretti gradini che conducono nel sottosuolo si ha l’impressione di entrare in luogo arcano e dimenticato. In alcuni punti si riesce a percepire la tridimensionalità delle gallerie gettando lo sguardo su cunicoli che si incrociano, si sovrappongono e in cui si aprono pozzi che si perdono nell’oscurità. Probabilmente ai nostri tutto appare lontano, complicato e forse anche senza senso ma per gli antichi abitanti cercare di spingersi il più lontano possibile dalla luce del sole era una necessità imprescindibile, una questione di vita o di morte, e quindi non solo bisognava costruire un semplice luogo di riparo temporaneo ma era vitale andare oltre ed elaborare il progetto di una vera e propria città nel sottosuolo, provvista di tutto ed autosufficente, Derinkuyu è stata la prima di una lunga serie di strutture ad essere scoperta, si è potuto capire che non si trattava di una bizzarria ma di una tipologia e stile di costruzione ampiamente sfruttato.
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vasori extraterrestri o che servisse come rifugio durante un’antica era glaciale ma forse, più semplicemente, erano utilizzati per difendersi dalle scorribande dagli sciiti, i nomadi delle steppe, ed avevano la funzione di rifugi temporanei, un pò come i bunker antiaerei costruiti in Europa ai tempi della seconda guerra mondiale. Mettendo da parte le leggende e le curiosità, scoprire questa Turchia è stato come entrare in una terra dalla doppia identità, schizofrenica ed esagerata, con una dimensione alla luce del sole e una parte nascosta ed esoterica, più oscura e sfuggente. Viaggiamo alla scoperta di una terra di ombre, di profondità recondite e segrete, di passaggi che prendono direzioni impossibili e non convenzionali. Terminata l’escursione, quando riemergiamo all’aria aperta, sotto un cielo incerto, siamo pronti per rimetterci alla ricerca di altre dimensioni Turche. Viriamo verso occidente, dove altri monaci scavarono chiese nei fianchi cedevoli di una gola incisa dal corso di un fiume. Così, attraversando l’altopiano anatolico, ci dirigiamo verso la valle di Ihlara, la nostra prossima meta. La strada ci ha condotto dapprima verso sud, lontano dai colori vividi della Cappadocia, che sono svaniti definitivamente ai nostri occhi quando abbiamo deciso di calarci nelle profondità tenebrose e recondite di Derinkuyu. Attraversiamo il vasto altopiano Anatolico che, sotto un cielo che si è fatto pumbleo e piovoso, si perde fino all’orizzonte e ad una più attenta osservazione scopriamo che cela un segreto. Non si tratta, infatti, di una semplice pianura ma nasconde i resti di quello che fu un antico campo In alcuni punti i tunnel si fanno più ampi ed è persiono possibile camminare in piedi. nonostante siano trascorsi i secoli praticamente ovunque è possibile riconoscere i segni lasciati dagli arnesi usati per lo scavo delle gallerie
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vulcanico. Un distesa di grandi laghi di lava solifidificata resa ancora più scura dal cielo grigio come il cemento mentre notiamo piccoli coni vulcanici ormai estinti che spezzano la piatta linea dell’orizzonte, emergendo un pò ovunque dalla noiosa monotonia dell’altopiano. Decidiamo di rubare qualche minuto al nostro viaggio per fare una breve pas-
seggiata, sotto la pioggia, ed osservare la distesa lavica ancora oggi piuttosto brulla e coperta da una vegetazione fin troppo stentata. Improvvisamente un agricoltore a bordo di trattore ci viene incontro con fare decisamente poco amichevole e quando ci allontaniamo ci insegue fino alla macchina, urlandoci contro parole incomprensibili. In
certe occasioni è meglio soprassedere e non cercare di chiarire l’equivoco. Per evitare conseguenze spiacevoli è sicuramente preferibile tagliare la corda, anche perchè dal suo aspetto e dal tono della voce, non ci è sembrato avesse intenzioni troppo amichevoli. Chiudiamo velocemente l’episodio e riguadagniamo la statale, allontanandoci.
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I P R E C A R I E QU I L I B R I D I I L H A R A Dopo questo incontro un pò sopra le righe ci rimettiamo in macchina e raggiungiamo la valle di Ilhara, un profondo canyon scavato dalla forza dell’acqua nel tavolato tufaceo. Anche qui, come a Zelve, trovò rifugio una comunità di monaci protocristiani che si prodigarono nello scavare numerosi luoghi di culto, almeno così si legge su alcuni pannelli illustrativi che sono situati proprio di fronte ad uno degli accessi alla valle. Ad accoglierci troviamo una lunga scalinata che ci conduce fino sul fondo dove scorre il torrente Melendiz, l’artefice di questa ferita sull’altopiano. La valle si estende per circa 20 chilometri e lungo tutto il sentiero che l’attraversa, dall’inizio alla fine, si possono ammirare numerose strutture scavate dall’uomo. Ad essere segnalate, però, sono solo le chiese più importanti, quelle con rappresentazioni pittoriche di Santi ed Apostoli m lungo il sentiero si possono ammirare ed esplorare un pò ovunque molte altre strutture ed abitazioni scavate nei fianchi, in verità piuttosto cedevoli, della valle. Pur trovandoci a circa cinquanta chilometri dalla zona di Goreme, notiamo che anche qui in gioco ci sono le stesse forze. Si tratta sempre dello stesso tufo vulcanico, leggero, poroso e poco incline alla verticalità. Segni di crolli e grossi massi giacciono in ogni angolo della valle. E’ la terra che muta, invecchia e quasi stesse cambiando pelle, sfogliandosi e fratturandosi si lascia cadere, si arrende. Camminiamo tra pietre rosse ed arancioni, è il trionfo degli ossidi che tingono le rocce del colore del sangue, il sangue della terra. Ilhara è grande Dall’alto della strada, la vista sulla la valle di Ilhara è ancora più impressionante. Il sonnolento altopiano Anatolico improvvisamente precipita per decine di metri, fino a quando le pareti scoscese incontrano il melendiz che avanza verso nord ovest.
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una cicatrice che non si rimarginerà mai. Il ferro, eruttato dagli antichi vulcani, con la lenta erosione entra in contatto con l’ossigeno atmosferico e si ossida. Così gli eoni la pietra diviene polvere e si sgretola. E’ la normalità, è la freccia del tempo che punta sempre inesorabilmente nella stessa direzione. Nulla sfugge all’entropia. Il sentiero si snoda su entrambe le sponde del fiume Melendiz e permette la scoperta delle mille abitazioni scavate nei fianchi della gola, come in un labirinto, giochiamo ad esplorare le tante stanze segrete, scoprendo dipinti e numerose fosse che contenevano i resti
Le pareti del canyon di Ilhara sono in realtà fragili ed instabili. Innumerevoli massi continuano a staccarsi travolgendo ogni cosa. Le pareti morbide erano ocmpletamente scavate, le infiltrazioni d’acqua ed i terremoti hanno portato allo scoperto molti tratti. I dipinti delle chiese di Ilhara, nonostante siano danneggiati, sembrano essere in condizioni migliori di quelli di Goreme. Abitazioni o chiese che fossero, è chiaro che in mancanza di cimiteri i defunti fossero tumulato in fosse sotto il pavimento. Porte si aprono nel vuoto anche se in realtà si tratta di un accesso ad un solaio, costituito di travi di legno, ormai crollato di cui sono visibili ancora gli alloggiamenti.
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dei defunti, seppelliti sotto i pavimenti. Incontriamo degli operai intenti a lavorare sulla scala in ferro che permetteva l’accesso ad una delle chiese più importanti di tutto il sito. Ormai quella scala non esiste più, stritolata dalla madre terra che reclama il suo regno. Una grossa porzione della parete sovrastante, infatti, si è staccata travolgendo qualsiasi cosa avesse incontrato nel suo precipitare verso il fondo valle. Ad una simile vista veniamo colti da un senso di precarietà mai provato prima, nemmeno durante la visita nelle profondità oscure di Derinkuyu. Improvvisamente ci rendiamo conto di quanto, tutto in
questo luogo, sia in precario equilibrio. Ci fermiamo ad osservare con maggiore attenzione l’ambiente in cui ci troviamo e cominciamo a notare tutte le ferite aperte dai crolli recenti e, come per magia, compaiono alla vista alberi spezzati e fratture di colore vivido, segno di un’esposizione all’aria molto recente. Quando finalmente risaliamo i quasi ottocento gradini ci sentiamo inconsciamente più sollevati. E’ stato tutto bellissimo ma la consapevolezza di non avere più dei grossi massi in equilibrio precario sulle nostre teste ci restuituisce un pizzico di quella tranquillità che avevamo perduto.
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Gente di turchia
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Di nuovo in viaggio facciamo una piacevole sosta a Belisama pranzando in un piccolo ristorante a palafitta sul fiume, poi quando ripartiamo seguendo sempre il corso del Melendiz fino a quando la strada inizia a scendere fino quando giungiamo Selime. Qui, complice un un improvviso arcobaleno ci fermiamo per fare qualche foto. Non facciamo in tempo a ripartire che siamo di nuovo fermi in attesa che un gruppetto di chiassose oche liberi la strada. Mentre siamo in attesa la nostra attenzione viene catturata da un grosso fuoco che scoppietta allegramente in un cortile proprio a bordo strada. Fermiamo la macchina e decidiamo di curiosare un pò. Vistosi e fuori posto siamo subito notati e così veniamo invitati da una famiglia indaffarata nella preparazione del pekmez, la melassa d’uva che in Turchia è diffusissima ed usata come un dolcificante naturale. Il compito degli uomini di casa è quello di attizzare e ravvivare il fuoco, alimentandolo con le potature delle viti. Un bel fuoco vivace brucia sotto un grande pentolone di rame inserito in un buco nel terreno. Inizialmente sembrano tutti un pò timidi ma sono comunque amichevoli, lo si può intuire dai loro sguardi curiosi. Uno in particolare sembra più desideroso di mostrarci la loro casa e il frutto del loro duro lavoro. Ci muoviamo con molta cautela, in fondo siamo noi ad essere gli intrusi che, con il pretesto di una foto, si sono introdotti in casa altrui. Comunque, sono, troppo curioso per tirarmi indietro mentre Martinica è un pò più titubante e resta qualche passo indietro in quella che è una situazione in rapido divenire.
Serve qualche scatto per rompere il ghiaccio e poco dopo partono le prime offerte di doni e di amicizia. Orgogliosamente ci fanno assaggiare il prodotto delle loro fatiche, il pekmez, una melassa di un bel colore ambrato, simile al miele, buonissimo e salutare. Il linguaggio del cibo è universale e il buon gusto unisce ciò che gli idiomi tendono a separare. Cerchiamo di spiegarci tra italiano, turco ed inglese ma sono tutti tentativi che non portano assolutamente a nulla. Più potente sembra essere il linguaggio, ancestrale, dei gesti, così ci ritroviamo a vivere una scena surreale e pian piano tutti sembrano sciogliersi un pò di più. Ci mostriamo i documenti di identità vicendevolmente per presentarci, una scena buffissima e quando leggono la mia data di nascita si mostrano increduli, mi giudicano un ragazzo e posso capirli, alcuni di loro hanno solo qualche anno più di me ma il duro lavoro nei campi con il sole, il vento, il sudore e la fatica hanno lasciato segni profondi come cicatrici sui loro volti. Passano i minuti e pian piano il piccolo spiazzo infangato si anima. Dalle abitazioni circostanti si fanno avanti anche gli altri componenti di quella che intuiamo essere un’unica grande famiglia. Alla fine arrivano anche le donne di casa ed anzi sono proprio loro le addette alla preparazione della melassa in fase di cottura. Le donne sono tutte sorelle e non ci servono documenti per capirlo, basta osservare il loro aspetto e sarebbe impossibile non notare la somiglianza. Per ultima arriva la matriarca che, orgogliosamente, avanza lentamente sottobraccio al marito, un omone in apparenza burbero ma
L’asfalto è ancora bagnato per il recente temporale quando incontriamo un gruppo di rumorose oche decise a dissetarsi in mezzo la strada. E’ un’ottima immagine da fotografare ma i furbi pennuti sono lesti ad abbandonare la carreggiata per rientrare in un cortile adiacente. L’attimo fuggente sfuma ma la sosta sarà foriera di novità fotografiche ed umane inaspettate.
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che si rivela un gigante buono.. Ormai il ghiaccio è rotto e dopo alcuni minuti è tutto uno scambio di abbracci e regali. Generosamente insistono per offrirci quel poco che hanno: mele, uva, un barattolo di melassa e confessiamo che sono tutti regali ben accetti. Giunti a questo punto vogliamo regalare qualcosa anche noi, abbiamo delle caramelle anche se ci sembra un pò poco e non vorremo fare la figura degli Italiani spilorci, poi rammento di avere in macchina la torcia frontale che abbiamo usato nei cunicoli della Cappadocia. La prendo e la porgo ma tutti sembrano considerarlo un regalo esagerato per un pò di frutta e un barattolo di dolcificante. Dopo un pò insistenze una donna, la più vispa, la prende, la indossa e la porta via contenta. E’ il sabato del villaggio e ci rendiamo conto di essere l’evento anomalo che spezza la monotonia di un pomeriggio qualsiasi, così in breve, tutto il vicinato si riunisce nell’aia cercando un modo di fare conoscienza e conversazione con gli “stranieri”. Fortunatamente, tra le ultime arrivate, si fà avanti una donna che parla un pò d’inglese e così, quasi insperatamente, riusciamo a raccontarci un pò di cose, delle nostre vite, di noi. Dopo la ritrosia iniziale ora sembra che tutti vogliano una foto ricordo e che siano desiderosi di raccontarci di loro delle loro vite e delle loro speranze. Si fanno i gruppi e tutti si mettono in posa, ci sono i fratelli, poi è il turno dei cognati seguiti dalle sorelle eppoi un confronto generazionale per giungere al gran finale con una bella foto di gruppo. Un evento imprevisto ha Vita quotidiana che per noi , semplici turisti di passaggio, si tramutano in immagini d’altri tempi. Bastano pochi attrezzi rudimentali ma il risultato è garantito. Le donne si occupano della preparazione, controllano la cottura ed evitano che si bruci, mentre gli uomini tengono vivo il fuoco e provvedono ai lavori più pesanti.
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dato al pomeriggio una piega imprevista. Avevamo in programma di raggiungere Konya per l’ora di cena ed invece dopo due ore di quella che doveva essere una breve sosta siamo ancora a Selime intenti a mescolare il Pekmez prima di metterlo nei vasi di vetro. Francamente ci eravamo anche dimenticati di Konya e della prossi-
E’ una grande famiglia, ci sono un pò tutti, anche chi, per noi, inspiegabilmente è chiamato “giovanotto”. L’unica parola in Italiano che siamo riusciti a scambiarci in tutto il pomeriggio.
ma tappa. Ormai non siamo più cristiani, musulmani, occidentali o turchi. Tutte le definizioni avevano perso di significato, siamo semplicemente persone che cercano di comunicare per conoscersi senza definizioni preconcette. Quando comincia a scendere la sera ci scambiamo gli indirizzi e i contatti facebook e con un pò
Dopo le presentazioni è tutta una festa che procede con uno scambio di doni da tutte le parti. In un magazzino non posso non accorgermi di un gigantesco cavolo che poi mi viene mostrato con grande orgoglio
di tristezza ci salutriamo, anche se esiste sempre la remota possibilità che una partenza possa non essere sempre un addio ma essere anche un semplice arrivederci. Purtroppo indugiare oltre non sarebbe stato possibile ma quando risaliamo in macchina abbiamo, entrambi, la sensazione di aver vissuto un pomeriggio magico.
Il grande pentolone di rame è posizionato direttamente nel terreno e il fuoco, continuamente alimentato con i tralci di vite, viene controllato a vista dalle donne della famiglia.
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Alla fine, nonstante l’iniziale ritrosia, Martinica accetta di assaggiare il Pekmez appena tirato fuori dal calderone. Solo qualche tentennamento prima di scoprire una specialità che sarebbe stato un peccato non aver provato
Dopo l’iniziale timidezza arriva anche l’ora delle foto dicordo e di quelle di famiglia ed in fondo è anche giusto così. Tutti sono ben felici di farsi ritrarre con la propria famiglia in clima cordiale e sereno, solo la più piccola appare un pò più frastornata.
Per ultimi spuntanio anche i bambini, richiamati per ultimi dall’arrivo dei forestieri. E’ stato un peccato non avere qualche altro regalo da poter donare. Di fronte a tanta gentilezza qualche dolcetto e la sola lampada frontale ci è sembrata poca cosa.
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Mentre la strada scorre e Selime si allontana alle nostre spalle, ci accompagna la certezza di aver passato un pomeriggio diverso e di aver vissuto momenti un pò più genuini, di quelli che un certo turismo da torpedone potrà mai offrire. Purtroppo questa piacevole pausa imprevista ci costringe a rivedere il percorso verso Pamukkale. Non c’è altra scelta, Saltiamo Konya e quindi decidiamo di addentrarci in un una Turchia non è segnalata nemmeno nelle guide. Percorriamo chilometri su strade deserte, incrociando, di tanto in tanto, qualche sparuta autovettura e quando la notte è calata già da qualche e con essa le nostre speranze di trovare una sistemazione troviamo, quasi insperatamente, un motel a dormire, lungo questa strada desolatamente vuota. Purtroppo, vista l’ora, non è che nutrissimo più troppe speranze di trovare una sistemazione per la notte e quindi quando fermiamo la macchina siamo più che contenti quasi fossimo giunti in prossimità di un’oasi nel deserto. Purtroppo le belle notizie finiscono qui e stranamente, per la prima volta durante il viaggio ci capita di dover mentire per avere una stanza, dichiarando, documenti alla mano, di essere legalmente sposati per evitare il diniego ad tetto per la notte. Spiegare ad un turco ostico e diffidente, a notte inoltrata, il nostro status familiare è un’impresa che non mi sento di consigliare ai più. Dopo parecchi minuti, quando finalmente riesco a convincere il recalcitrante proprietario, noi riusciamo ad ottenere il tanto agognato giaciglio per la notte e lui può salvare le apparenze. Quando entriamo in camera, dopo tante peripezie e vista l’ora, la stanchezza e considerata anche la situazione non ce la sentiamo di andare troppo per il sottile e quindi ci “tappiamo” letteralmente il naso cercando di prendere sonno, tra i borbot-
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tii di Martinica che poco gradisce la sistemazione. In effetti devo ammettere che pulizia e comfort non erano proprio il punto di forza del motel ma purtroppo anche durante il migliore dei viaggi qualche defaillance nell’organizzazione può capitare. In fondo una notte passa presto e così al sorgere del sole siamo subito pronti con i nostri bagagli per ripartire e dimenticare in fretta la “precaria” parentesi notturna. Nella fretta della rocambolesca partenza ci dimentichiamo di fare colazione così dopo qualche chilometro ci fermiamo ad Ilgin, la capitale della barbabietola da zucchero e dopo aver trovato un bancomat ci mettiamo alla ricerca di qualcosa da mangiare. Perdiamo un pò di tempo cercando senza avere un metà precisa ma ad un tratto l’olfatto ci guida verso una panetteria dove dopo aver preso del pane e della focaccia si rifiutano persino di prendere il meritato compenso. Il pane caldo al mattino ispira sempre buone sensazioni e così mentre curiosiamo nei paraggi finiamo dritti nel negozio di caramelle adiacente, dove i proprietari ci permettono, gentilmente di assistere alla preparazione dei lokum turkish delight, loro specialità, dalla cottura fino al confezionamento. Personalmente ho apprezzato molto questi dolci turchi e dopo tanta cordialità non possiamo esimerci da acquistarne una bella scatola con noci e gli onnipresenti pistacchi. Possiamo dire che dopo un avvio stentato la mattina si è rivelata estremamente proficua e piacevole. Continuiamo a scoprire un mondo al rovescio abitato da gente fiera a cui l’orgoglio per la loro terra non permette di accettare denaro. La Turchia non smette mai di sorprenderci. Con il pane caldo ed una scatola di caramelle
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ci rimettiamo in movimento e dopo una svolta scavalchiamo le montagne attraverso un passo raggiungendo la regine dei laghi. L’arrivo non è di quelli sperati, il brutto tempo infatti, rende il grande specchio d’acqua grigio come il piombo e poco attraente con piccole onde che spazzano le rive sassose mentre qualche germano si lascia pigramente dondolare dal moto ondoso. Decidiamo così di proseguire cercando di macinare il maggior numero di chilometri attraverso la parte occidentale dell’Anatolia cimentandoci in quella che diventerà una lunga tappa di trasferimento. Il meteo è inclemente e decidiamo di fare pochi e brevi soste mentre sfiliamo velocemente presso le sponde dell’Egirdir Golu. Il lago è circondato da frutteti e la strada centinaia di persone sono impegnate nella raccolta delle mele, poi continuando la marcia raggiungiamo la piana di Isparta, la città delle rose per poi arrivare nel tardo pomeriggio a Pamukkale. La nostra agognata meta, candida come la neve, sembra finalmente a portata di mano. La lavorazione della melassa, apparentemente semplice, necessità di attenzione e prudenza perchè lo zucchero raggiunge temperature elevate ed una disattenzione può portare a scottature anche abbastanza dolorose. Ad Ilgin abbiamo la fortuna di incappare in un altro pezzo di Turchia autentica. Gentilmente i titolari di una piccola ditta artigiana ci consentono di assistere alla preparazione della loro specialità. Un dolce a base di zucchero preparato ancora interamente a mano. Come in ogni famiglia che si rispetti ad aiutare genitori c’è anche il figlio con cui riusciamo a stabilire una sorta di dialogo e che ci invita ad assistere alla preparazione che parte con la cottura della melassa a cui vengono in seguito aggiunti gli altri ingredienti per creare tutto un assortimento di dolci diversi ma ugualmente buonissimi. Alla fine del processo, si concede un pò di spazio ad una macchina, per la verityà tutta manuale che serve a tagliare la melassa in lunghe strisce dopo che la ste ssa è stata spolverata abbondantemente con della farina di cocco.
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PA M U K K A L E , M O LT O r u m o r e p e r n u l l a
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Una larga superstrada conduce ad una delle meraviglie naturali dell’Anatolia. In lontananza il candore abbacinante del monte di cotone ci indica la direzione giusta come un faro. Un portale un pò kitsch ci dà il benvenuto al sito e la strada ci conduce fin dove il travertino sfiora l’asfalto. Parlando di Pamukkale da dove vogliamo iniziare? Visto la grande passione che nutrivano i Romani per le acque e per le terme non ci stupisce il fatto che abbiano deciso di fondare una città proprio dove le sorgenti termali sgorgavano e, pilotando in maniera attenta le acque, contribuirono a creare quella meraviglia della natura che è il monte di cotone, perchè Pamukkale significa proprio questo, una gigantesca cascata bianca formata da onde di travertino o carbonato di calcio che dir si voglia. Frotte di turisti si affollano sulla lunga strada che è stata scavata sul fianco della montagna per render più agevole raggiungerne la sommità. Vorremmo andare anche noi ma siamo quasi al termine della giornata e preferiamo gustarci il tramonto per rimandare la visita al mattino successivo. Quando scende la sera, la grande folla, rumorosamente, sparisce risucchiata sui bus che li riconducono chissà dove. Solitari ci aggiriamo tra i pochi negozi e locali rimasti aperti in una desolazione che ha tanto il sapore della fine della festa, quando tutti vanno via lasciando la tavola in disordine. Qui la giornata finisce prima dell’imbrunire e la città costruita di fronte al “luna park” rimane desolatamente vuota. Dopo il tramonto rimaniamo veramente in pochi e possiamo finalmente osservare, con calma, tutto il panorama che si stende davanti ai nostri occhi. Quel che resta di Pmmukkale è un bellissimo tramonto con il sole quasi a nascondersi tra le nubi spezzate da un fresco vento occidentale. Il momneto più alto del nostro soggiorno.
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Al mattino, di buon’ora la strada che porta alla sommità del monte di cotone è già affollata come un’autostrda che conce verso il mare il giorno di ferragosto. Una situazione che non si avvicina nemmeno lontanamente alle scenografiche immagini presenti online.
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La bellezza quasi eterea delle colate di travertino ha conservato comunque interamente il proprio fascino anche se per riscoprire un pò di quella magia bisogna fare uso di focali medio/lunghe per isolare selettivamente porzioni limitate per escludere la presenza di intrusi poco graditi.
Pietre e resti sparsi un pò ovunque sono testimoni di una storia antica, qui i romani costruirono la loro città, Hierapolis, dove le sorgenti sgorgavano dal sottosuolo e ne convogliarono le acque nelle terme che nel tempo divennero famose in tutto il mondo antico. La acque scorrrendo giù nella scarpata depositarono il loro contenuto di carbonato di calcio generando l’imponente bancata di travertino bianco che possiamo ammirare ancora oggi. Con il trascorrere dei millenni si sono formate innumerevoli pozze a causa della lenta decantazione delle acque sature di minerali, creando un gioco infinito di cascatelle e piscine. Purtroppo, come molte meraviglie naturali, il delicato equilibrio che ha permesso la nascita e la formazione di una simile struttura geologica, ha mal sopportato la dirompente onda d’urto del turismo di massa. Per mitigare l’impatto dell’esercito di visitatori che accorre a Pummukale da tutto il mondo durante tutto l’anno si è provveduto alla costruzione di vasche in cemento che surrogassero le originali. Tutto giusto, tutto bello ma anche tutto terribilmente finto e questo, per noi, è una grandissima delusione. Quando al mattino accediamo al sito ci troviamo immersi in una multitudine di turisti, ognuno alla ricerca del proprio attimo di gloria. Ci dirigiamo verso la sommità del monte confusi nella variopinta moltitudine umana, tra cinesi che si arrampicano per scattare la foto della vita vanamente inseguiti dalle guardie turche, ed improbabili russe che, si improvvisano modelle in pose plastiche, per farsi ritrarre, come star sulla croisette di Cannes. Nonostante la folla alcuni scorci riescono ancora a rendere, parzialmente, l’idea dell’antico splendore del sito. Le acque sature continuano, ancora oggi, a trasportare il loro prezioso carico di sali minerali di cui è composto il travertino.
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Assistiamo a scene al limite del trash e non è per snobbismo ideologico ma, in alcuni frangenti, ci troviamo in imbarazzo per loro. Viste le premesse, purtroppo, non tardiamo a scoprire che anche le terme sono una delusione. Ormai non rimane più nulla dell’antico fascino descritto nelle guide, quello che troviamo sono solo centinaia di persone che si crogiolano come balene spiaggiate scattando selfie a testimonianza del loro passaggio in questa terra. Il resto delle vasche, quelle naturali, sono per la maggior parte desolatamente a secco. L’unica acqua che scorre è quella convogliata forzatamente nelle nuove strutture di cemento, pochi altri piccoli rivoli scivolano via e perdendosi verso il basso. Non possiamo nascondere la nostra delusione perchè da questa visita ci aspettavamo qualcosa di diverso anzi qualcosa di meglio. Numerose foto descrivevano un luogo unico, con acqua turchese e vasche in cui immergersi, avevamo ascoltato racconti che descrivevano mirabilie ed invece la realtà si è dimostrata diversa e ben più triste. L’acqua è si turchese ma è veramente poca, troppo poca per alimentare tutto il sistema delle vasche.. Inoltre, scopriamo che per immergersi nei bagni di Afrodite e nuotare tra i resti delle colonne ed architravi romani bisogna pagare un altro biglietto supplementare con tanto di tornello prima dell’ingresso in acqua ed inoltre, particolare non secondario, sono talmente affollate da far perdere ogni minima traccia di romanticismo. Saremo eccessivi ma quando è troppo è troppo e ci rendiamo conto di aver visto abbastanza. Gli altri si tengano pure il loro luna park noi
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Il bagliore del monte di cotone è tuttora candido ed abbacinante, purtroppo la totale assenza delle acque termali rende la visione ben più triste e meno affascinante di quella di un tempo quando le terrzze erano riempite da splendide acque turchesi
prefriamo abbandonare la piscina termale per recarci a visitare il resto del sito archeologico con il suo teatro ancora ottimamente conservato. La città di Hierapolis, se paragonata alle piscine, è praticamenete deserta, così possiamo scorrazzare in lungo e in largo a nostro piacimento. Nel girovagare fra gli antichi resti ci imbattiamo casulamente in due grosse tubazioni che, da qui, convogliano le acque verso gli alberghi e le spa che, più a valle circondano tutto il sito. Capiamo così che l’acqua non è scomparsa, anzi sgorga ancora copiosa dalle diciassette sorgenti che alimentavano le antiche terme, ma ora semplicemente finisce altrove. Ecco finalmente trovata la spiegazione del mistero. Scoprire questa amara verità mi fà pensare, con rammarico, che per spingerci fin qui abbiamo cancellato la tappa al Nemrut Dagi dove avremmo potuto osservare i primi raggi di sole insinuarsi tra le gigantesche statue del mausoleo di Antioco I. Meglio tirare dritti e non pensare anche se, dobbiamo confessare che, la delusione cocente ci ha tolto molto dell’entusiamo che ci aveva spinto fin qui e quindi, terminata la visita degli antichi resti della città romana scendiamo verso l’albergo per radunare i nostri bagagli ed andare via piuttosto alla svelta. Poco dopo siamo già in macchina verso nuove mete. La scoperta del magnifico teatro romano di Hierapolis mitiga parzialmente la cocente delusione delle terme. L’anfiteatro è ancora in un ottimo stato di conservazione ed ha conservato un’acustica impeccabile. I resti di quello che era un grande architrave giacciono a terra disposti in maniera apparentemente casuale. Effettivamente sembra quasi che i pezzi scampati ai terremoti ed alle razzie siano stati riposizionati ad uso scenico. Purtroppo, o per fortuna, a parte qualche sparuta comitiva, le rovine della città sono abbastanza libere e si può girarle senza sentire troppo la presenza delle grosse folle che si limitano alla scoperte delle terme adiacenti.
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L a f i n e d e l l a s to r i a Lasciata, senza troppi rimpianti, Pamukkale decidiamo di abbandonare le grandi superstrade per tornare ad immergerci in quella Turchia dimenticata dalle guide turistiche. Imbocchiamo una strada laterale che porta fino alle falde delle montagne e costeggiamo la sponda meridionale dell’Acigol, un grande lago alcalino che ospita una folta colonia di fenicotteri che, però, riusciamo ad ammirare soltanto in lontananza. Proseguendo la stretta striscia d’asfalto si fa sempre più incerta fino, ad un tratto dove sparisce del tutto appena sorpassata l’ultima casa di un villaggio di campagna. Abbandonare le grandi strade e lanciarsi verso l’interno su quelle secondarie comporta quasi sempre un salto all’indietro del tempo, la velocità diminuisce drasticamente e sembra avere il potere di catapultarci nel passato alla scoperta di quella Turchia rurale che difficilmente si riesce a percepire sfilando veloci sulle superstrade. Temendo di aver smarrito la via giusta ci fermiamo a chiedere informazioni a persone del posto che oltre a fornirci indicazioni preziose ci chiedono sempre uno scatto in ricordo. Questi sono i momenti che ricorderemo sempre con nostalgia, non si può dimenticare l’affetto e la cordialità di queste gente di campagna, testimoni di un mondo rurale che resiste ancora all’interno della Turchia. Gente onesta e allegra, sempre fiera della propria terra e cultura. Balliamo per alcuni chilometri tra polvere e sassi poi, finalmente, ritorniamo a calcare l’asfalto ed
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Sulla sommità della rocca di Afyonkorahisar troneggia immancabilmente la bandiera Turca, All’ombra dell’onnipresente vessillo del nazionalismo Turco alcuni ragazzi Yazidi si godono la vista sulla città.
iniziamo a dirigerci verso nord. Ora abbiamo la necessità di puntare verso nord, verso Istanbul. Purtroppo il nostro peregrinare attraverso l’Anatolia sta volgendo rapidamente al termine. Nei due giorni che ci restano dobbiamo chiudere il cerchio e fare ritorno da dove siamo partiti, l’aereoporto di Sabina Gocken. Lungo la strada decidiamo di fare una tappa ad Afyonkonisar, famosa per essere la capitale mondiale del papavero da oppio. Chiariamo immediatamente che non si tratta di nulla di illecito ma di una vera e propria industria che alimenta l’economia della città. Nella piana che circonda la città, infatti, viene coltivata quasi la metà della produzione mondiale legale di papavero da oppio utilizzato dall’industria farmaceutica. La città è, come tutta la Turchia, in rapida crescita, ancorchè il centro storico, con le sue casette basse, resista pervicacemente aggrappato intorno al grande sperone roccioso che domina la città vecchia. Una volta arrivati, puntiamo lo sguardo al cielo e decidiamo di conquistare la vetta della fortezza prima del sovraggiungere di una tramonto. ormai non troppo distante. Sulla cima dello sperone una volta era ospitata un’antica fortezza, dove veniva conservato il tesoro dei Turchi Selgiuchidi. Oggi invece è tutto mestamente in rovina. La fortezza è un luogo simbolico per tutta la Turchia, vi fece tappa anche Kemal Ataturk, il padre della patria, che, qui come altrove, viene ricordato quasi ad ogni angolo di strada. La rocca domina la città dai i suoi oltre duecento metri e l’unico ostacolo tra noi e la vista suSeguendo le sponde dell’Acigol incontriamo una simpatica famiglia turca. Gentilmente ci indicano la strada e si offrono per una graditissima foto ricordo. Proseguendo sulla strada che costeggia il lago l’asfalto si fà incerto ed a tratti assente ma ciò non scoraggia questa donna di rientro dai campi accompagnata dalla nipotina.
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perba che si gode dalle sue mura sono i circa settecento gradini scavati nella dura roccia vulcanica. Iniziamo l’ascesa con passo deciso, sorpresi dall’osservare di essere i soli a tentare la salita. Quando giungiamo in cima scopriamo di essere circa una decina in tutto. Arrivare sulla sommità, a dispetto dei numerosi gradini, non è una gran fatica, anche se, ancora oggi, Martinica non sia pienamente d’accordo anche se, a più volte ammesso che, la vista dall’alto ci ha ampiamente ripagato di tutti gli sforzi fatti. Dalle possenti mura è possibile dominare la città e con lo sguardo si può spaziare tutto intorno per molti chilometri. Dall’alto delle possenti mura, gettando lo sguardo in giù si intuisce immediatamente quanto potesse essere complicato espugnare una simile fortezza aggrappata su questo poderoso sperone vulcanico. ANche sotto assedio avrebbe potuto resistere per molti mesi anche ai più furiosi attacchi. Su tutto, come sempre, sventola l’onnipresente bandiera turca che, dal punto più alto, sorveglia la città vecchia. Incontriamo alcuni ragazzi che ci chiedono la cortesia di fargli qualche foto ed in breve facciamo conoscenza. Ci raccontano di essere profughi Yaazidi, in fuga dal nord dell’Iraq, in fuga da una guerra assurda e da una barbarie che viene da lontano. Non pronunciano nemmeno la parola Daesh, forse non ne hanno nemmeno voglia, la loro volontà è solo quella di fuggire e ricominciare da qualche altra parte, in pace. Si fermano giusto il tempo di qualche foto in cui ci raccontano della fuga dalle loro case e dal massacro che si sta Al tramonto l’ombra incombente e un pò sinistra della fortezza si staglia sulla città a ricordare ed imporre il proprio dominio su tutto il terriotorio circostante. Questa immagine serve per rendere, approsimativamente, l’idea di quanto possa essere soverchiante la presenza della rocca sulla città sottostante.
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consumando a casa loro, in Iraq. Stride il contrasto tra i nostri destini, noi siamo qui per turismo, loro in fuga. Le nostre strade partite da punti molto lontani si sono incontrate solo per un attimo per poi riprendere ad allontanarsi. Noi torneremo a casa nostra mentre qualcuno di loro raggiungerà la Germania mentre altri resteranno in attesa del visto che garantirà l’accesso negli Stati Uniti. Quando il sole comincia ad allungare l’ombra della rocca sulla città cominciamo a ridiscendere i gradini. Nel frattempo, con il sopraggiungere della sera, la città si è animata di un caotico trambusto, piccoli negozi si sono illuminati e le strade sono diventate improvvisamente piene di gente indaffarata nei propri affari. Decidiamo di lasciare la macchina per fare un breve giro, conosciamo Huseyin, un commerciante turco, appassionato fotografo e orgogliosamente fiero della propria città. Come ogni fotografo è curioso, mi chiede della mia attrezzatura e gliela faccio provare volentieri. Si vede che è ben contento di parlare di macchine ed obiettivi, così tra una chiacchiera e l’altra gentilmente ci offre un tè e qualche dolcetto, ci parla del suo sito e delle bellezze della città e così, senza accorgercene, il tardo pomeriggio si fà sera e dopo esserci salutati ci rechiamo al nostro albergo. Per la notte ci siamo fatti un regalo, un piccolo strappo alle nostre regole di viaggio. Abbiamo prenotato un albergo a svariate stelle, dalla hall chilometrica e dalla sontuosa facciata in vetro. Non ci vuole molto a capire che siamo leggermente fuori luogo con l’ambiente e a bordo della nostra piccola ed impolverata utilitaria disordinatamente carica di bagagli facciamo il nostro Ad Afyon conosciamo anche un simpatico commerciante che ci ha invitato nel suo negozio per fare amicizia . Scopriamo che anche lui è appassionato di fotografia.
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ingresso tra le occhiate un pò distratte degli addetti dell’hotel. Abbiamo come l’impressione di essere dei marziani appena atterrati sulla terra ma è una sensazione che dura poco perchè, fondamentalmente, ad abituarsi al bello ed alle comodità si fà abbastanza presto e la stanza è quanto di più moderno abbiamo finora incontrato durante, non solo questo viaggio, ma in tutti quelli che abbiamo fatto negli ultimi anni. Inutile negare che in un letto comodo si dorma decisamente meglio ma niente ci può preparare a quello che ci accoglie quando decidiamo di recarci a fare colazione l’indomani. Attraversando una grande porta veniamo accolti in una enorme sala dove troviamo tavole imbandite con ogni ben di dio, anzi forse c’è anche di più. Un pianista, con le sue note in sottofondo, accompagna ed allieta la nostra colazione ed è il giusto finale per una permanenza che ci ha fatto assaporare uno stile di vacanza che non ci appartiene ma che non possiamo non ricordare come un piacevole e riposante intermezzo in uno dei nostri soliti, faticosi, viaggi. A malincuore abbandoniamo l’albergo e ci rimettiamo in marcia verso nord e, nel caldo sole di una mattina di ottobre, puntiamo verso ad Istanbul. Non ci rimane molto tempo, l’asfalto sfila veloce sotto le ruote della nostra macchina che ben si è comportata in ogni situazione. Ormai ci attende solo un lungo nastro grigio che ci condurrà alla nostra metà finale, fino all’aereoporto. Tornando verso nord il panorama muta, pian piano abbandoniamo le aride steppe degli altopiani centrali per tornare a vedere la vegetazione mediterranea, dimentichiamo quota mille e ci riavviciniamo al livello del mare dopo diversi giorni. Il traffico si fà più
intenso e le lunghe strade deserte sono ormai solo un ricordo. Tutti i cartelli ci indicano la direzione per Istanbul anche se, a noi, sembra non arrivare mai. Più avanti i primi palazzi disordinati annunciano che ci stiamo avvicinando alle caotiche periferie della città. Passiamo Izmit, sul mar di Marmara e, nei ricordi, affiorano le immagini del terribile terremoto che distrusse tutta la regione. Ormai di quelle macerie non esiste traccia ed anche le cicatrici sono state sepolte sotto altro cemento che ha cancellato i segni della devastazione ma non la memoria. Vediamo numerose navi che, ordinatamente, attendono al largo prima di attraccare in porto. Qui il ferro dei tralicci ha sostituito la sinuosa bellezza della natura. Ormai possiamo dimenticare i pinnacoli di cenere vulcanica della Cappadocia, ed alla nostra vista si stagliano, contro l’orizzonte, le ciminiere delle centrali elettriche e dalle torri di raffinazione di un impianto petrolchimico. Anche questa è Turchia. Passiamo la nostra ultima notte a Korfez, niente di storico ed interessante ma negozi aperti fino a sera, tanti ragazzi e giovani coppie con bambini, segno di un paese proiettato verso il futuro. Avere della Turchia l’idea di una nazione rurale è fuorviante perchè esistono tanti paesi in uno, una pluralità di genti. Una parte della nazione marcia a grande velocità verso la modernità mentre le zone rurali inseguono procedendo a scartamento ridotto, è come se facessero, in un certo senso, attrito. E’ questo lo spaccato di un paese diviso tra la frenesia delle zone turistiche e il profondo attaccamento alle tradizioni delle campagne. I grandi spazi resistono al cambiamento, gli altopiani circondati dai monti del Tauro a Sud e del Ponto a
Nord, respingono la ventata di modernità che spira dal mare. E’ anche questo il fascino di questa grande nazione in perenne bilico tra gli estremismi di qualsiasi tipo, un paese che spregiudicatamente gioca su molti tavoli, ergendosi a potenza regionale ed arbitro in molte partite che coinvolgono l’Europa e il Medio Oriente e che spregiudicamente si cinge in un abbraccio mortale con il potente ed ingombrante vicino Russo. Quel che ci resta della Turchia sono il cuore millenario di Istanbul, la bellezza arcana ed affascianante della Cappadocia, le suggestioni del lago salato, le claustrofobiche profondità di Derinkuyu ma soprattutto la cordialità e la gentilezza della gente. Con il mattino giunge anche l’ora di tornare a casa e così ci affrettiamo a raggiungere l’aereoporto, riconsegnamo la macchina dopo quasi duemilacinquecento chilometri e tanti momenti magici, nelle valigie piene di disordine portiamo vestiti, sabbia qualche souvenir e tante emozioni. Purtroppo entrando nella zona internazionale dell’aereoporto, poco a poco, svaniscono anche i sapori e gli odori di questa Turchia, sostituiti dal chiacchiericcio cacofonico di una moltitudine di passeggeri sbadati. Una voce asettica proveniente dagli altoparlanti continua a ripetere, come una litania, i prossimi decolli verso mille destinazioni diverse quasi confondendosi con il rumore di sottofondo dell’infinità di ruote dei trolley che si inseguono, disordinatamente, un pò ovunque. Stanchi ma felici cerchiamo un angolo dove sederci ed attendere l’annuncio del nostro volo. Arriviamo così alla fine anche di quest’avventura mentre aspettiamo, in disparte, il nostro aereo, fantisticando fin da oggi, sulla nostra prossima partenza.
Sulla sommmità della rocca incontriamo un gruppo di ragazzi, tra cui anche alcuni bimbii, di etnia Yazida in fuga dall’Iraq. Nonostante il dramma della loro terra riusciamo a strappare loro qualche sorriso e insistono per fare diverse foto anche in nostra compagnia e ci accompagnano nella discesa per buona parte delle scalinata fin quasi alla città sottostante.
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e p i lo g o
e QUA LC H E b r e v e A P P U N TO d i v i a g g i o
Il ritorno ad Istanbul è anche la chiusura del cerchio, ci riporta dove tutto ha avuto inizio, l’alfa e l’omega del nostro viaggio in Turchia, un paese che alla fine, possiamo dirlo, ci ha letteralmente affascinato. Sicuramente nel racconto è più facile ricordare i momenti positivi e quindi non me la sentirei di dire che sono state tutte luci anche perchè, il paese perfetto non esiste, quindi qualche ombra dovremo, doverosamente, segnalarla. Nessuno paura però, si tratta di appunti che potrebbero valere anche per molti altri paesi. Dal punto di vista prettamente fotografico la Turchia è una vera e propria miniera a cielo aperto con continue scoperte e scenari mozzafiato. Istanbul non può non affascinare con quel suo mix esplosivo di antico e moderno che si fonde in una scenario unico. Le molte moschee, il bazaar, i resti dell’impero Romano che inglobati nella cultura Bizantina prima e islamica poi, i colori ed i sapori del Bosforo offrono di continui scorci da immortalare e visitare il paese tralasciando quella che è la sua vera capitale culturale sarebbe un vero e proprio delitto. Certo è che Istanbul è una città cara per gli standard turchi, difficile concludere un buon affare praticamente ovunque anche perchè c’è tutta una parte della città che vive sul turismo internazionale, sulle folle che qui sbarcano dalle grandi navi da crocera e quindi i prezzi sono mediamente più alti che altrove. Cionostante un giro nell’antico bazaar è d’obbligo, almeno per immergersi nell’atmosfera e nel fascino della città. A coloro che fossero interessati agli acquisti ci sono da vistare anche le numerose strade che dal bazaar scendono fino alle sponde del corno d’oro piene anch’esse di negozi e botteghe, dove si può trovare di tutto forse a 136
prezzi un pò più ragionevoli. Comunque Istanbul non è solo passato e antiche rovine, la città è immensa e molte sue parti sono estremamente moderne ed avveniristiche quindi non aspettatevi solo arte antica ma preparatevi anche ad opere moderne ed avveniristiche, osate e sarete ricompensati. Una volta lasciata la città non si può non visitare l’Anatolia. La regione centrale della Turchia è figlia di un violento vulcanesimo che milioni di anni fa diede origine a questo altopiano quando la placca africana e quella Euroasiatica entrarono in collisione. Le tracce evidenti di questo titanico scontro sono evidenti ovunque. Spessi strati di cenere vulcanica hanno orignato il paesaggio surreale della Cappadocia, mentre ampie conche hanno consentito la nascita di luoghi magici come Toz Golu, dove in vaste depressioni si sono originati laghi senza emissari. Luoghi poco conosciuti e valorizzati ma di grande impatto scenico. Parlare della Cappadocia merita sempre un capitolo a parte. E’ uno strano angolo di mondo e per questo richiede il giusto tempo per essere scoperta ed esplorata. Non cedete alla smania di vedere troppi siti superficialmente, perchè questo angolo di Turchia merita una sosta e un’attenzione in più. Lasciate dare sfogo alla vostra curiosità, cercate ed esplorate ogni angolo di questa mondo. Lasciate il telefono a casa e divertitevi a scoprire quale meriviglia si cela dietro la prossima curva. La Cappadocia va vissuta in zaino e scarpe da trekking, percorrendone i sentieri polverosi, salendo e scendendo per piccole piste, a volte incerte e mal segnalate, per permettervi di scoprire una terra unica e sicuramente senza eguali. Non
cedete alla tentazione di un tour all inclusive, volare in mongolfiera è soltanto il coronamento di una scoperta, la cieligina sulla torta. Lasciatevi stupire da questo mondo fantascientifico e senza tempo ne uscirete appagati ed affascinati e queste sensazioni che porterete con voi, nei vostri ricordi, non avranno prezzo. Certo considerate che volare in mongolfiera non è un’escursione delle più economiche. Spendere 150 euro per un passaggio in un cesto insieme ad altre 18/24 persone può sembrare molto ma, vi assicuriamo, che lo spettacolo che avrete la possibilita di ammirare vi lascerà senza fiato. Non fermatevi proprio sul più bello. Dopo esservi librati in aria, coccolati dal vento e dal sole, non lasciatevi sfuggire il magico mondo sotterraneo dell’Anatolia. Derinkuyu è la città sotteranea più famosa, la più profonda e la prima ad essere stata scoperta quando una pecora fini in uno dei pozzi di ventilazione ed un pastore decise di dare un’occhiata per scoprire che fine avesse fatto l’animale. In realtà ne esistono molte ed altre vengono ancora oggi scoperte. In alternativa ci sono Kaymakli, Özkonak, Mazi village e Tatlarin, quindi non si ha che l’imbarazzo della scelta. Non lasciatevi sfuggire la visita all’antica Zelve e alla sue geometrie improbabili, un luogo che ci ha letteralmente rubato il cuore. Visitata in un giorno di maltempo ci ha offerto il suo lato migliore, permettendoci di scoprirla ed esplorarla in perfetta solitudine, con tutta la calma e l’attenzione che meritava e prima di abbandonare la Cappadocia, se potete, fate un’escursione a cavallo che vi condurra al tramonto fino al monte sovrastante tutte le valli della regione, non averla fatta per mancanza di tempo è uno dei rammarichi più grandi di tutto il viaggio.
Se avrete avuto la pazienza di arrivare fin qui avrete sicuramente capito che Pamukkale non ci ha entusiasmato. Forse eravamo noi a nutrire troppe aspettative e quando, ancora oggi, mi trovo a raccontare del viaggio in Turchia parlo molto più volentieri degli altri luoghi. Sarà una semplice questione di gusti personali, sicuramente altri avranno apprezzato più di noi ed oggi ne parleranno in termini entusiastici cosa che, a volte, mi fa sorgere il dubbio che, alla fine, quelli fuori posto fossimo noi. A questo punto se dovessi dare suggerimenti indirizzerei il turista curioso verso Hattusha, l’antica capitale degli Hittiti, Selime con le sue guglie abitate da millenni e tutto il trekking della valle di Ilhara, la suggestione dell’alba sul Nemrut Dagi tra le enormi teste scolpite di re Antioco I ed infine Catalhoyuk, un sito archeologico dove potrete visitare uno dei primi villaggi conosciuti dell’età neolitica. Quella fatta è solo una lista estremamente parziale vista la bellezza di questo paese, quindi fin d’ora chiedo scusa se, sicuramente, ho omesso luoghi di altrettanta bellezza. Mi sono dilungato fin troppo e non voglio abusare troppo della pazienza del lettore ma un ultimo suggerimento che mi sento di dare è quello di essere creativi, abbandonate le strade principali e lanciatevi alla scoperta dei piccoli villaggi, di fronte ad un bivio osate scegliere la via più lunga, stretta e tortuosa, quella con l’asfalto peggiore o magari senza, probabilmente vi riserverà incontri inaspettati e panorami sorprendenti.La Turchia è un paese ospitale, uscite fuori dagli schemi. Dal punto della tecnica fotografica diciamo che per visitare il paese non me la sentirei di dare
suggerimenti troppo rigidi. I luoghi ed i panorami si prestano ad essere ripresi con tutte le lunghezze focali, quindi dal grandangolo al medio tele tutte le soluzioni hanno una propria ragione e scopo e forse sono più legate ai propri gusti e preferenze. Di buona norma se si desidera fare ritratti qualche fisso è sempre bene averlo ma badate di essere discreti e di avere sempre l’educazione di chiedere, specialmente nelle zone rurali dove, lontano dalle zone più turistiche, le persone potrebbero dimostrarsi più restie ad essere immortalate. Generalmente la sicurezza è su alti livelli con una presenza massiccia, specialmente nelle grandi città, di forze di polizia ed esercito. La situazione cambia radicalmente quando ci si allontana dai centri abitati con una rarefazione del controllo da parte dello stato pur senza mai avere la sensazione di essere in pericolo. Questo discorso risulta valido tranne quandi ci si approssima alle zone al confine con la Siria oppure verso i territori a maggioranza Curda. Vi consiglerei di prestare sempre una certa attenzione alla segnalitica dal momento che ci si potrebbe trovare nelle vicinanze di zone militari e qui certe situazioni ed ambiguità vengono prese molto sul serio specie in presenza di macchine fotografiche ed immagini ritenute inappropriate. Generalmente un medio tele dovrebbe riuscire a coprire una ampia gamma di situazioni e, personalmente, non ho sentito la necessità di focali che si spingessero oltre i 200mm, mentre la vastità e la varietà dei panorami rende quasi obbligatorio un grandangolo, anche abbastanza spinto, ed in questo caso il sigma 12-24 è riuscito a svolgere ancora perfettamente il lavoro. Per tutto il resto il Canon 24-105 è stato un fedele compagno di viaggio, dimostrandosi ancora
una volta versatile ed affidabile in tutti i frangenti. Aggiungere queste ultime righe mi è sembrato doveroso, specialmente dopo i sanguinosi fatti che hanno scosso molte città del paese. Essendo per mia natura fatalisista nonchè un fervido sostenitore della legge dei grandi numeri non avrei problemi a consigliare, ancor oggi, un viaggio in terra Turca. Fortunatamente essendo arrivata in famiglia la nostra prima figlia, non mi sentirei di consigliare a tutti un viaggio completamente fai da te. Se da un lato il turista viene molto tutelato dalle autorità, da un altro lato non si può negare che potrebbe finire per essere un bersaglio di gruppi che intendono farsi pubblicità ed avere risalto sulle cronache internazionali. La situazione politica, seppur saldamente in mano la partito di governo, dimostra di essere estremamente fluida. Negli ultimi anni il paese sembra aver imboccato una direzione di decisa islamizzazione anche delle strutture statali, venendo in un certo senso contro ai principi laici su cui è fondata la moderna Turchia. Scrivere questo resoconto è stata una corsa ad ostacoli, un percorso più lungo di quanto avessi preventivato. Sicuramente sarebbe stato possibile farlo prima e meglio ma nel mezzo, oltre alla solita atavica pigrizia, si è infilato un cambio di casa con relativo trasloco e l’arrivo di Elena Sofia che, benchè sia stata una grande gioia, è stato anche un grandissimo e piacevole impegno. Prima di chiudere con le parole scritte mi è sembrato giusto inserire qualche altro scatto per ricordare altri volti e momenti vissuti in Turchia, immagini ed incontri riportati rigorosamente in ordine sparso.
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U LT I M E C A R T O L I N E D A L L A T U R C H I A
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Una volta finite le immagini e terminato l’inchiostro delle parole non resta che riavvolgere il nastro della storia ma sempre e comunque rimarrà indelebile l’emozione dei ricordi. Alla fine, ad ogni ritorno, quando il rammarico e un pò tristezza cercano di fare breccia nei nostri cuori, so che tu ci sei e ci sarai. In ogni momento, sia esso bello o da dimenticare, ad ogni singolo passo ho sempre la certezza, il sollievo ed ancora il turbamento che sarai sempre al mio fianco. Tutto questo, le foto, le parole e la riuscita di ogni avventura lo devo a te, al tuo sostegno e al tuo amore. Grazie di essere sempre al mio fianco Ogni viaggio ha senso solo quando siamo insieme. Grazie Martinica Grazie amore mio. 142