Prima corinzi don patrizio

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La Prima Lettera ai Corinti dell’apostolo Paolo


I PARTE

Introduzione a 1 Corinzi Origine della Lettera Durante il suo secondo viaggio missionario, nell’anno 50 circa, Paolo giunge nella città greca di Corinto, una delle più prestigiose del momento. Capoluogo dell’Acaia romana, Corinto si trova al centro di una fitta rete commerciale a motivo della sua posizione che domina l’omonimo istmo, punto obbligato di passaggio per il traffico navale. Città cosmopolita, è caratterizzata da una notevole rilassatezza dei costumi («non a tutti è lecito vivere alla corinzia» è uno slogan diffuso per descrivere il lusso e la licenziosità del luogo) e dalla presenza di svariati culti. Non manca neppure la sinagoga, da dove Paolo comincia la sua predicazione prima di rivolgersi ai pagani e fonda così la comunità cristiana. Essa è probabilmente costituita da una rete di piccole comunità di persone provenienti dal paganesimo (anche se forse alcuni sono giudei, ( cf. 12,13) che si riuniscono nelle case dei cristiani più ricchi di origine romana. La maggior parte dei cristiani appartiene agli strati sociali più umili (cf. 1 Cor 1,26) di questi alcuni erano liberi, mentre altri erano schiavi (cf. 1 Cor 12,13; 7,21). Come testimonia il c. 11 della lettera, queste diversità economiche e sociali creavano talvolta tensioni nella comunità. Il testo di At 18,1-18 attesta la presenza di Paolo a Corinto per più di 18 mesi, durante i quali è anche condotto di fronte al tribunale del proconsole Gallione. La 1 Corinzi fa parte di una più ampia corrispondenza tra l’Apostolo e la comunità da lui fondata che comprende, secondo diversi studiosi, non solo la 2 Corinzi, ma anche altre due lettere non pervenuteci. Più in particolare: la prima è andata perduta (cf. 1 Cor 5,9); la seconda è l’attuale 1 Corinzi; la terza è «la lettera delle lacrime» (cf. 2 Cor 2,4; 7,8) e non è attestata (per alcuni si trova in 2 Cor 10-13); la quarta è l’attuale 2 Corinzi (o solo i cc. 1 – 9 di essa). La 1 Corinzi è stata probabilmente scritta durante il terzo viaggio missionario di Paolo, all’inizio della sua permanenza ad Efeso e quindi circa nell’anno 54. È forse la più varia tra le lettere paoline e mostra bene come il pensiero di Paolo si metta a confronto con i problemi quotidiani dei cristiani. Diversi studiosi hanno cercato di ricostruire la situazione della Chiesa di Corinto e dei suoi rapporti con Paolo. Anzitutto si afferma che l’autorità dell’Apostolo è contestata, così come le sue idee e la sua persona (cf. 9,3). Ma il fatto che almeno una parte della comunità, se non tutta, abbia deciso di interrogare Paolo sui vari problemi emersi, mostra chiaramente che viene riconosciuta all’apostolo una vera autorità. La crisi nel rapporto di Paolo con la comunità corinzia sopraggiunge all’arrivo di alcuni missionari itineranti, che sembrano contestare l’apostolo o comunque contraddire la sua linea missionaria, così come suggerisce la 2 Cor (in particolare 2,4), con il loro agire difforme e la loro capacità di accreditarsi agli occhi dei Corinzi. Sulla situazione della comunità al momento dell’estensione di 1 Corinzi le teorie sono sostanzialmente due. La prima insiste sulla presenza di un elitismo spirituale da parte di alcuni che vivono in perfetta continenza sessuale e, soprattutto, sono rivestiti di particolari doni spirituali (e forse possiedono anche una gnosi sapiente,( cf. 1,18-25), situazione che li porta a disprezzare gli altri membri della comunità. Tale opinione è soprattutto suffragata da 1 Cor 7; 12 – 14. La seconda invece ritrova tra i cristiani corinzi l’idea di un’escatologia realizzata, con la negazione della risurrezione finale e un certo libertinismo sessuale. I testi di appoggio sono 1 Cor 5,1-13; 6,12-20; 10,1-14, 15,33-34. Per ricostruire in modo non parziale, ma veritiero, la situazione della comunità, sarà necessario muovere volta per volta dal testo stesso della lettera e non da uno sfondo solo ipotetico. Già da ora è possibile affermare che nella comunità di Corinto possa ritrovarsi una pluralità di posizioni teorico teologiche e di tendenze pratico-morali tra loro anche contrastanti.


Composizione della Lettera 1,1-9 Prologo (prescritto e ringraziamento) I. 1,10 – 4,23 La sapienza della parola della croce annunciata da Paolo A. 1,10-17 Esortazione all’unità e accenno alla situazione di divisione B. 1,18 – 4,3 Argomentazione: la croce di Cristo e il ruolo dei ministri - Discorso sulla sapienza della croce 1,18 – 2,5 cristologico; 2,6 – 3,4 pneumatologico - Discorso ecclesiologico 3,5-21 i ministri 4,1-13 l’itinerario dell’Apostolo A’. 4,14-21 Esortazione a imitare la mentalità dell’Apostolo e ritorno alla situazione II. 5,1 – 14,40 La sapienza della parola della croce e i problemi dei Corinzi 5,1 – 6,20 La sessualità del credente in Cristo A. Il caso dell’incestuoso e l’impudicizia (5,1-13) B. Cristiani chiamati a giudicare il mondo (6,1-11) A’. Come superare l’impudicizia (6,12-20) 7,1-40 Matrimonio e verginità A. Gli sposati (7,1-16) B. Generalizzazione del problema (7,17-24) A’. I celibi (7,25-40) 8,1 – 10,33 La carne offerta agli idoli A. Il problema degli idolotiti (8,1-13) B. l’esempio di Paolo (9,1-27) e quello dei Padri nel deserto (10,1-22) A’. Soluzione del problema (10,23-33) 11,1-34 Lo svolgimento delle assemblee comunitarie - Abbigliamento nelle riunioni di preghiera (11,2-16) - Il pasto comune e la celebrazione eucaristica (11,17-34) A’. I disordini durante la cena del Signore (11,17-22) B. Istituzione della cena del Signore (11,23-26) A’. Correzione dei disordini (11,27-34) 12,1 – 14,40 I carismi nella comunità A. I carismi e il problema dell’unità della comunità (12,1-31) B. La carità, via per eccellenza (13,1-13) A’. Indicazioni sull’uso dei carismi (14,1-40) III. 15,1-58 La risurrezione di Cristo e dei cristiani - Il vangelo della risurrezione (15,1-11) - La risurrezione di Cristo e dei morti (15,12-34) - Il corpo risorto completamente diverso dall’attuale (15,35-49) - Totale trasformazione per tutti, morti e viventi (15,50-58) 16,1-24 Epilogo (esortazioni conclusive e postscritto) Chiavi di Lettura A una prima lettura la lettera appare molto varia e segnata dalla presenza di una pluralità di tematiche diversificate. Ma se resta difficile ritrovare un vero e proprio tema unitario nella 1 Corinzi, nondimeno è possibile rilevare alcuni legami connettivi, che percorrono il testo lungo tutta la sua estensione. Già a partire dalla composizione, sopra evidenziata, si può proporre un’unica chiave di lettura per tutta la lettera, che tiene conto della posizione particolare dei cc. 1 – 4 rispetto al resto della lettera. Essi costituiscono l’annuncio di Cristo crocifisso, «la parola della croce» che deve essere il punto di riferimento per il modo di pensare e di agire dei cristiani, i quali invece, nel


contesto della comunità di Corinto, sono talvolta divisi tra loro. Nei cc. 5 – 14, che si pongono al livello della vita concreta dei credenti e della loro comunità, la mentalità propria del cristiano viene così fatta derivare direttamente dalla Croce, che diventa criterio di giudizio e di discernimento dell’agire di fronte ai problemi e agli interrogativi posti a Paolo da parte dei Corinzi. Al termine della lettera il c. 15 si pone di nuovo in una prospettiva di annuncio, come i cc. 1 -4, ma questa volta in vista della risurrezione finale dei cristiani, fondata e anticipata da quella di Cristo. In prospettiva diversa ma complementare, è possibile rinvenire anche un’altra chiave di lettura, che privilegia la concretezza delle questioni pratiche, a partire dalle problematiche suscitate dalla vita della Chiesa di Corinto e dalla risposta loro data dall’Apostolo. Così Paolo comincia nei cc. 1 – 4 con le difficoltà più scottanti e pericolose per l’esistenza della comunità corinzia e cioè con le profonde divisioni presenti al suo interno. Poi tratta le altre questioni, sulle quali i Corinzi hanno chiesto un chiarimento, le quali riguardano anzitutto la vita presente. Ecco allora il fondamentale aspetto della sessualità nella vita del credente (cc. 5 – 6), la sua scelta di matrimonio o di verginità (c. 7), il cibarsi o meno della carne offerta agli idoli e il relativo rispetto per i fratelli più deboli (cc. 8 – 10), lo svolgimento delle assemblee comunitarie (c. 11) e la funzione dei doni dello Spirito nella comunità (cc. 12 – 14). Da ultimo il c. 15 con la prospettiva della risurrezione finale orienta l’attenzione della lettera e dei destinatari verso il tempo futuro del compimento, oggetto della speranza cristiana. Ogni volta che Paolo affronta le questioni a lui poste dalla Chiesa corinzia, si rimane stupiti particolarmente dalla modalità con la quale l’Apostolo risponde alle domande dei suoi interlocutori. Infatti la 1 Corinzi, soprattutto nei cc. 5 – 14, presentando uno per uno i problemi e gli interrogativi posti dalla comunità, non fornisce subito la soluzione, ma sembra momentaneamente rinviarla, conducendo il lettore lungo un percorso argomentativo non sempre lineare, prima di ritornare alla questione concreta ed offrire alcune precise indicazioni a riguardo. Se si osserva più da vicino il testo della lettera, si può notare che in un primo passo l’Apostolo si mette in ascolto della sua comunità, evidenziando i termini del problema, ma senza dare alcuna risposta. In un secondo passo, egli giunge invece a cogliere quale sia la posta in gioco sottostante la questione e a farvi luce attraverso il Vangelo: è la dimensione ulteriore che sta a fondamento della soluzione. La risposta risolutiva è proposta nel terzo passo, quando Paolo ritorna sul merito della tematica proveniente dai Corinzi e, alla fine, fornisce elementi concreti. Questo modo di procedere, tipico di Paolo in relazione a vari aspetti della vita cristiana, è schematizzato nella composizione di 1 Corinzi sopra enucleata, dove nelle diverse sezioni sono segnalati i tre passi dell’argomentazione paolina attraverso lo schema inclusivo indicato con le lettere: A., B., A’. Ritenere, infine, che 1 Corinzi sia una lettera di ordine semplicemente pratico, come spesso avviene, finisce per disconoscere proprio la suddetta prospettiva dell’Apostolo, e anche lo stesso dettato epistolare, il quale non solo mostra una presa di contatto diretto, affettivo e informativo tra Paolo e i Corinzi, ma rivela anche il desiderio di persuadere in modo sapiente, attraverso un’argomentazione nutrita e articolata. In definitiva non è possibile stabilire quale sia la chiave di lettura più efficace; occorrerà invece comprendere di volta in volta, all’interno di ciascuna sezione, quale sia il modello compositivo prevalente. D’altra parte più chiara appare la questione del genere retorico della lettera: pare vi si possa riconoscere l’impiego di un genere letterario di tipo deliberativo, anche se non tutte le sezioni del testo manifestano un modo di argomentare strettamente finalizzato alla deliberazione (in primis 1 Cor 15).

Bibliografia essenziale BARBAGLIO, G., La prima lettera ai Corinzi (Scritti delle origini cristiane 16; Bologna 1996) [EDB]. Si tratta del migliore commentario italiano alla lettera. Il libro è per chi vuole acquisire una conoscenza fondata e approfondita della 1 Corinzi. Il taglio è quello dell’esegesi scientifica.


BRUNINI, M., Lettura pastorale della prima lettera ai Corinzi (Lettura pastorale della Bibbia; Bologna 2000) [EDB]. Questo testo offre un ottimo connubio tra il commento esegetico e quello spirituale. Il suo uso ideale è nell’ambito della lectio divina ed è quindi rivolto ad un ampio pubblico. GRASSO, S., Prima lettera ai Corinzi (Nuovo Testamento – commento esegetico e spirituale; Roma 2002) [Città Nuova]. Commento semplificato e conciso della lettera, che si ferma al livello della spiegazione. Diretto agli operatori pastorali che già hanno una conoscenza di base della Scrittura.

II PARTE Schede di lettura

1 Corinzi 1,18-2,5 La Parola della croce Il contesto e la struttura del passo Il passo è inserito nel contesto unitario di 1,18-4,13, sezione che apre la lettera e ne costituisce in certo qual modo l’insegnamento fondante. Essa contiene infatti il kerygma fondante della Parola della croce, con un suo sviluppo ecclesiale che invita ad assumere l’evento pasquale di Cristo come unico criterio di comportamento dei credenti e di discernimento da parte loro della volontà di Dio, per rispondere ad ogni interrogativo che la vita pone. Questi primo quattro capitoli della lettera offrono dunque il criterio fondamentale alla luce del quale l’apostolo risponderà ai differenti interrogativi nelle sezioni successive della lettera. Questi primi quattro capitoli della 1 Cor si possono dividere in tre parti: 1) 1,18-2,5: La Parola della croce è il vero annuncio del vangelo nel ministero apostolico. 2) 2,6-3,4: La teologia della croce è comprensibile solo se guidati dallo Spirito. 3) 3,5-4,13: La vita della Chiesa si ispira alla croce di Cristo. Per introdurre nella lettura di questo brano è di aiuto, come premessa, quanto Paolo afferma nella lettera ai Filippesi: «Perché molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo» (Fil 3,18). L’Apostolo avverte che nelle comunità cristiane ci sono persone che non capiscono il mistero della croce, anzi camminano fuori e contro questo mistero. Non è facile individuare con precisione questi «nemici della croce», ma certamente si tratta di persone che vogliono giustificarsi mediante le opere della legge, che rifiutano la croce come via scelta da Dio per salvare il mondo, che rifiutano la propria croce che si identifica nella mancanza di fede in Dio e soprattutto nel suo amore e nella sua misericordia. Paolo è talmente convinto che questo atteggiamento vanifica ogni tipo di fede che si rivolge ai suoi cristiani «con le lacrime agli occhi». Lo stato d’animo dell’apostolo è un’efficace chiave di lettura del passo, che si articola in tre parti:


a) La Parola della croce potenza e sapienza di Dio b) La Parola della croce e i cristiani di Corinto c) La Parola della croce e l’atteggiamento dell’apostolo Il testo v.18: È introdotto dal precedente dove Paolo ricorda che il suo apostolato a Corinto ha avuto come centro la predicazione del Vangelo «non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo». Nell’Apostolo è avvenuto un cambiamento reso possibile soprattutto dal fallimento di Atene dove ha tentato un approccio con la sapienza e la saggezza filosofica (cfr. At 17,22-31). Dopo il suo apostolato a Corinto formula una tesi, dopo averla giustificata con la Scrittura, ne dà una motivazione teologica. Qual è il significato di «parola della croce»? Si possono distinguere due significati: uno oggettivo, la parola che ha come oggetto la croce; uno soggettivo, il non ricorso ad un eloquio sapiente come strumento efficace per suscitare la fede e donare la salvezza. È da notare come Dio e l’uomo agiscano in sinergia: Dio chiama, prende l’iniziativa, l’uomo determina la sua salvezza con il tipo di risposta. vv.19-20: Paolo prova la sua tesi con la Scrittura facendo ricorso al profeta Isaia: «perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti» (Is 29,14). Questa profezia ha la sua realizzazione nell’evento Cristo. Il rovesciamento non sta nel rendere forti i deboli, ricchi i poveri, sapienti gli «stolti», ma nel rendere capaci di entrare nel Regno di Dio tali categorie misconosciute. Ciò che il mondo giudica un handicap insormontabile, diventa potenza per il Regno. Chi, infatti muore su una croce agli occhi del mondo non può salvare niente e nessuno. Agli occhi di Dio non è così: Gesù è sconfitto, ma proprio dalla sua sconfitta nasce la salvezza. vv. 21-24: Dopo la prova tratta dalla Scrittura, Paolo giustifica la sua tesi con un argomento teologico. C’è un dato di fatto: il mondo, con la sua sapienza, non ha conosciuto Dio. Dio risponde a questo fallimento spiazzando l’uomo: si presenta umiliandosi sulla croce e spogliandosi della sua potenza. A tutto fa seguito la Parola della croce, che continua a prendere in contropiede l’uomo, ostinato a fare ricorso alla sua sapienza. v.25: A partire dalla croce di Gesù il rovesciamento dei valori è diventato la legge dell’economia della salvezza. Una legge che rimane infissa nella storia del rapporto Dio-uomo. vv. 26-31: Un primo esempio di quanto tutto ciò sia vero è dato dalla comunità stessa di Corinto, fatta di pochi sapienti, pochi potenti, pochi nobili. La maggior parte dei credenti è composta di gente semplice, umile, povera. In questo modo nessuno può gloriarsi davanti a Dio e vantare dei meriti. Diventa evidente che la salvezza è esclusivamente opera di Dio. 2,1-5: Un secondo esempio è dato dallo stile con cui Paolo si è presentato a Corinto. Il suo atteggiamento è caratterizzato da debolezze e trepidazioni. A questo ha contribuito senz’altro la cocente sconfitta di Atene subita prima di approdare a Corinto. Un commento Partendo dall’esperienza di Paolo e della comunità di Corinto ci si può interrogare e meditare su tre tre aspetti: l’esperienza di Paolo, il nostro modo di agire e quello della Chiesa di oggi. L’esperienza di Paolo: Seguendo l’itinerario apostolico di Paolo, come è narrato dal libro degli Atti, scopriamo che egli ha seguito vari stili di predicazione, a seconda che si rivolgesse agli israeliti, ai pagani insieme agli israeliti o ai pagani soltanto. Il problema di come predicare il vangelo si è acuito quando si è trovato davanti ai soli pagani. Da dove cominciare? A Listra, dove lo hanno scambiato per un dio, egli tenta un dialogo fondato sulla saggezza, senza fare alcun riferimento né alla croce, né alla risurrezione. Ad Atene porta avanti questo tipo di approccio, ma fallisce miseramente. Mettersi sul piano della saggezza filosofica e letteraria non ha portato grande risultato. Paolo matura così la consapevolezza che il centro della predicazione è la croce di Gesù Messia e l’amore misericordioso del Padre che in essa si manifesta. Per questo afferma: «Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla


sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2,3-5). Noi e l’evangelizzazione Un accenno solo a due aspetti del nostro rapporto con l’annuncio del Vangelo: Per Paolo il nostro personale atteggiamento verso la «parola della croce» è decisivo per l’annuncio del vangelo. Essa può essere stoltezza che rende stolti i sapienti e potenza di Dio che salva quelli che credono. - quanto la croce entra nell’annuncio e nella testimonianza, emancipandoli da un certo moralismo? - Quanto il nostro parlare è ispirato e fa ricorso alla stoltezza della croce, oppure fa ricorso eccessivo ad un eloquio sapiente? La vita della chiesa oggi. I «greci» di oggi, cioè i dotti, i filosofi, i teologi, cercano la sapienza; i «giudei» di oggi, cioè i pii, gli osservanti che confidano nelle loro opere, cercano segni, realizzazioni, efficienza, risultati. Dio ci rivela un aspetto segreto del suo rapporto con il popolo: la sua debolezza legata strettamente al suo amore. E sembra volersi scusare di questa debolezza quando afferma: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?» (Is 49,15). Questa debolezza si è rivelata pienamente nella croce del Figlio. Gesù, infatti «fu crocifisso per la sua debolezza» (2Cor 13,4). Ciò che fa suscitare la fede è l’incontro storico con la parola della croce. Se la Chiesa è il Cristo prolungato nei secoli, essa deve vivere la sua stessa debolezza, lasciando trasparire quella del Padre che si china sugli uomini ad offrire loro la sua misericordia. Il mondo non deve sentire su di sé soprattutto il giudizio della Chiesa, ma la sua misericordia e la sua compassione. Per essa «parola della croce» deve significare la predicazione il vangelo con la debolezza dell’amore che le deriva dal Padre. Alcuni testi per meditare Si può fare riferimento ad alcune parti dei racconti della passione-risurrezione in Mt 26-28; Mc 1416; Lc 22-24; Gv 18-21 e ad alcuni Salmi nei quali la debolezza dell’orante sperimenta la potenza di Dio: Sal 15(16); 21(22); 29(30), i salmi dell’Hallel dal 112(113) al 117(118); quelli ascensionali dal 119(120) al 133(134), e molti altri ancora. Per la preghiera Davanti alla croce O Croce, indicibile amore di Dio, Croce, gloria del cielo, Croce, salvezza eterna. Croce, terrore dei malvagi, sostegno dei giusti, luce dei cristiani. O Croce, per te sulla terra Dio nella carne si è fatto schiavo. Per te nel cielo l’uomo in Dio è stato fatto re. Per te è sorta la luce vera, la notte maledetta fu vinta. Tu hai rovesciato per i credenti i templi delle nazioni; e sei tu il legame della pace, che unisce gli uomini in Cristo mediatore. Se diventata la scala su cui l’uomo sale al cielo. Se sempre per noi, tuoi fedeli, la salvezza e l’àncora: sostieni la nostra dimora, conduci la nostra barca. Nella Croce sia salda la nostra fede, in essa si prepari la nostra corona. Amen. Paolino di Nola (V secolo)

II . 1 Corinzi 2,6-3,4 La sapienza crocifissa e la vita nello Spirito Il contesto e la struttura del passo a) il contesto


Sullo fondo di questa unità letteraria si staglia una verità fondamentale: l’esistenza della Chiesa è essenzialmente esistenza secondo lo Spirito. In 1,18-31 Paolo ha abbozzato la sua dogmatica nelle linee essenziali, senza ricordare direttamente la presenza e l’opera dello Spirito; in questo brano egli invece formula proprio una piccola dogmatica dello Spirito: chi vuole comprendere la vita cristiana e la rivelazione del piano salvifico di Dio deve rifarsi alla persona e all’opera dello Spirito, che compie e svela la sapienza della croce. b) La struttura La struttura del passo può essere individuata in questo modo: - parliamo della sapienza di Dio tra i perfetti (2,6-8) - ne possiamo parlare perché Dio ce l’ha rivelata attraverso lo Spirito (2,9-12) - ne parliamo con parole insegnate dallo Spirito, che solo gli «spirituali» possono percepire, mentre sfuggono ai «carnali» (2,13-16) 9 - l’affermazione apologetica della sapienza divina accusa i Corinzi, incapaci di comprenderla (3,14) Il testo 1) Parliamo della sapienza di Dio tra «perfetti» (2,6-8) Si dicono «perfetti» quei cristiani che hanno superato la condizione di «bambini» nella fede e che, pur non essendo ancora giunti alla perfezione, sono alla ricerca di un termine non ancora raggiunto. Paolo non percepisce come tra loro contraddittorie le affermazioni a se stesso riferite di essere perfetto» (cfr. Fil 3,15) e, insieme, di non essere ancora «giunto a perfezione» (cfr. Fil 3,12). Egli è in certo qual modo «perfetto» perché ha risposto e continua a rispondere alla chiamata di Cristo, ma al tempo stesso non ha ancora raggiunto tutta la perfezione alla quale la chiamata conduce. Dal contesto si comprende che «perfetto» è anche colui che percepisce nella parola della croce la natura stessa di Dio, capendo che la profondità di Dio nel suo mistero di amore ed il suo agire nella croce del Figlio sono un tutt’uno. La sapienza di Dio sfugge «ai dominatori di questo mondo», cioè a coloro che, con ogni genere di potere, dirigono le sorti dei popoli e si disinteressano dello Spirito. Salomone fu consapevole di non possedere la vera sapienza e della sua necessità per governare il popolo e la invocò con insistenza ed umiltà (cfr. Sap 7,15.21; 8,17-9.18). La sapienza di Dio ha tre caratteristiche: - appartiene a Dio soltanto; - è «in mistero», cioè conosciuta dalla mente divina, ma insondabile per l’intelligenza umana; - è tenuta «nascosta» e affonda le sue radici nel progetto pensato da Dio prima della creazione del mondo. Il disegno amorevole di Dio trascende questo mondo e introduce i «perfetti» nel fulgore di Dio, gloria degli eletti. Questo progetto, per il fatto stesso di appartenere a Dio, di essere «in mistero» non è conoscibile dai capi di questo mondo: prova ne è che essi non sono stati capaci di riconoscere colui che lo ha incarnato e rivelato. Anzi è stato condannato ad una morte infame. 2) Possiamo parlare della sapienza perché Dio ce l’ha rivelata attraverso lo Spirito (2,9-12) La sapienza di Dio non è conoscibile dall’uomo se non gli è rivelata attraverso lo Spirito. C’è una realtà in Dio a cui nessuno ha accesso per mezzo delle facoltà umane, sia esterne e sperimentali, come l’occhio e l’orecchio, sia interne, come il «cuore», ciò che noi chiameremmo «mente». A questa impossibilità viene incontro lo Spirito, che conosce i segreti di Dio. Ma il soccorso è efficace solo per i «perfetti» non per gli altri. Lo Spirito conosce le cose di Dio perché «scruta» tutto, anche le profondità di Dio. Viene opportunamente usato il verbo «scrutare», perché la conoscenza che lo Spirito ha delle cose di Dio non è una conoscenza qualsiasi, ma va nelle profondità più recondite. Questo verbo «scrutare» è spesso usato per indicare azioni proprie di Dio nei confronti degli uomini: Egli è «colui che scruta i cuori» (Rm 8,27; cfr. Sal 139,3; Sir 42,19; Ger 20,12). Ai «perfetti» è dato lo Spirito, che è Dio. Quando è stato dato lo Spirito? Certamente nel Battesimo, ma qui non si tratta tanto dell’esperienza


battesimale pura e semplice, quanto piuttosto di un dono che va oltre la santificazione ricevuta nel Battesimo in vista di una conoscenza della sapienza misteriosa di Dio. 3) Parliamo della sapienza con parole insegnate dallo Spirito e che solo gli «spirituali» possono percepire, mentre sfuggono ai «carnali» (2,13-16). Il progetto salvifico di Dio e i doni di grazia sono «mistero» e per questo hanno bisogno di parole adeguate per essere comunicate. Ma hanno bisogno anche di destinatari particolari: di persone «spirituali». Lo Spirito allora è l’artefice della conoscenza e della comunicazione della sapienza. Chi è l’uomo «spirituale»? Lo si desume da quanto Paolo afferma in questi versetti: è colui che ha accolto lo Spirito (v. 21), comprende intimamente i doni di grazia (vv. 12 e 13), giudica tutto senza essere giudicato da nessuno (v. 15). Il v. 16 si presenta come conclusione di 2,6-15. Prendendo lo spunto da una citazione tratta dal profeta Isaia (Is 40,13), Paolo vuole affermare che l’uomo «spirituale» conosce e comprende le profondità di Dio, cioè la parola della croce. «E quando Paolo risponde che “noi abbiamo lo Spirito di Cristo” intende ribadire che siamo appunto “noi” a possedere questa conoscenza. Chi crede veramente e, dunque, è indiscutibilmente uno pneumatico, ha lo Spirito di Cristo e conosce ciò che questo Spirito conosce delle profondità di Dio. Chi ha lo Spirito sa ciò che sa Dio» (H. Hübner). 4) Dall’apologia della sapienza crocifissa, Paolo passa all’accusa dei Corinzi, incapaci di comprenderla (3,1-4). I Corinzi, sentendo parlare Paolo di «perfetti», forse si ritenevano tali. Essi devono invece subire una solenne smentita da parte dell’Apostolo: a suo giudizio costoro non sono «perfetti», ma «carnali». Ne sono prova inconfutabile le numerose divisioni all’interno della comunità. Il loro essere «carnali» rivela che il motivo vero della loro incomprensione delle parole dell’apostolo non risiede nell’incapacità di Paolo di parlare in modo sapiente, ma al contrario nella incapacità dei Corinzi di recepire un linguaggio di sapienza. Se Paolo si è di fatto trattenuto dal parlare in modo strettamente conforme alla sapienza divina, ciò lo si deve alla necessità di un adattamento alla loro incapacità di accogliere un tale linguaggio. L’Apostolo ha dovuto seguire le regole della pedagogia: come non si somministra a dei bambini un cibo solido proprio degli adulti, così egli non ha potuto parlare ai Corinzi con il linguaggio della sapienza: essi erano incapaci di accoglierlo. Un commento 1) Essere e diventare perfetti. Si è affermato che i «perfetti» non sono semplicemente i battezzati, ma piuttosto coloro che, dopo avere accettato la fede in Gesù, vivono nella tensione della fede verso l’accoglienza piena della vita interiore. Il Battesimo dona, in certo senso la perfezione, perché fa santi, ma richiede poi, soprattutto a chi lo ha ricevuto da bambino, un’appropriazione personale della fede ed una condotta di vita conforme, capace di incamminarsi sul suo sentiero. Si è già santi per il dono di Dio, ma non lo si è ancora nella piena risposta della vita ad esso. La vita cristiana è un cammino di crescita sotto la guida dello Spirito, che conduce all’accoglienza piena dell’amore misericordioso del Padre, manifestato nella parola della croce. La prima conseguenza di tutto ciò è un’autentica liberazione della fede da un moralismo che la deprime, per aprirsi al cammino tracciato dallo Spirito. Altra decisiva conseguenza è il superamento di un atteggiamento intellettualistico, nel quale l’uomo si relazione al Signore solo come indagatore dei suoi disegni, senza lasciarsi introdurre dallo Spirito nella vita stessa di Dio. È proprio di molti cristiani ritenersi credenti perché sanno alcune cose della fede, mentre dalla loro vita resta estranea la parola della croce. È indispensabile lasciarsi introdurre nell’amore del Padre e scoprire che questo amore ci avvolge da prima della creazione del mondo (cfr. Ef 1,4s), e che in questo «prima che il mondo fosse» abita il mistero della sapienza di Dio, che ha la sua perfetta manifestazione nella croce del Figlio. 2) Essere segno dell’amore di Dio che si manifesta nella stoltezza della croce. Le comunità cristiane rischiano, soprattutto oggi, di apparire «agenzie» come tante altre, né più né meno, come enti benefici che si prendono a cuore i problemi del mondo. La preoccupazione maggiore è quella del «che cosa fare». Se tuttavia non si ritorna alle radici profonde della fede e


dell’essere comunità, resta ben poco da dire. Paolo, nel prosieguo della lettera, afferma: «E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova» (13,3). Il «fare» senza l’amore è vuoto. L’autenticità dell’amore risiede nel nostro modo di pensare, ma nel modo in cui Dio stesso ama: è un amore crocifisso, che rifugge da ogni dimostrazione di potenza e di efficienza. La Chiesa non è segno nel mondo perché ha delle «agenzie» operative ben organizzate, ma perché si rivolge agli uomini con un amore crocifisso, che rifugge da ogni dimostrazione di potenza. Una Chiesa povera, come è stato povero Gesù, è un autentico segno e può presentarsi al mondo come «sacramento» della salvezza dell’umanità. 3) Ritrovare il linguaggio della croce. Preoccupate della cristianizzazione del mondo, le comunità cristiane si adoperano a cercare i metodi migliori per parlare agli uomini. Ricerca legittima, perché anche Dio ha parlato adoperando il linguaggio della cultura dell’uomo. Ma non si può mai dimenticare che il solo linguaggio non trasmette le profondità di Dio. Paolo ne ha fatto esperienza soprattutto ad Atene. Deve essere sempre viva la consapevolezza che la fede non si «trasmette» con il semplice linguaggio umano, ma soprattutto con la parola della croce. Una parola che, prima di essere pronunciata, chiede di essere vissuta. Alcuni testi per meditare Sul legame tra l’evento della croce e il dono dello Spirito Lc 12,49-50; Gv 19,28-37; Gv 20,19-29; At 2,14- 41; 4,23-31 Sulla vita secondo lo Spirito e l’evento della croce: Rm 8; 1Cor 13; Ef 3; Col 2,6-3,16; Eb 9,1-10-18; 1Gv 5,1-13.

Per la preghiera Vieni, Santo Spirito Vieni, Santo Spirito, Tu sei la novità che opera nel mondo, la presenza di Dio nei nostri cuori. Vieni Santo Spirito. Senza di Te Dio è lontano, Cristo resta nel passato, l’Evangelo una lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità dominio. La missione propaganda, il culto una semplice evocazione, la condotta cristiana una morale da schiavi. Vieni Santo Spirito. Perché quando Tu giungi il cosmo viene sollevato e geme nel travaglio del regno, l’uomo è in lotta contro la carne, Cristo risorto è presente, l’Evangelo è potenza di vita, la Chiesa una comunione trinitaria, l’autorità un servizio liberante, la missione una pentecoste, la liturgia memoriale e anticipazione, l’agire umano continuamente deificato. Amen. Ignazio IV Hazim


III. 1 Corinzi 3,5-4,13 La sapienza della croce e la vita ecclesiale Il contesto e la struttura del passo a) Il contesto Dopo avere affermato che la vera potenza e sapienza di Dio opera e si esprime nell’evento della croce di Cristo (1,18-2,5) e che essa può essere posseduta e compresa solo nello Spirito Santo (2,63,4), Paolo considera, in questo terzo passo, il riflesso della parola della croce e della sapienza crocifissa nella vita della Chiesa. Egli prende in esame, in altre parole, l’incarnazione ecclesiale della sapienza divina e tratta del ruolo della Chiesa sotto l’aspetto dell’annuncio, della giustificazione e del giudizio. b) La struttura Il passo lo si può considerare composto di due parti: 1) La prima (3,5-23), delimitata dall’inclusione che fa riferimento al ruolo dei differenti ministri, Paolo, Apollo, Cefa, il cui ruolo è soltanto di accompagnamento e collaborazione a quanto Dio stesso opera dall’interno, senza possibilità di vanto da parte dell’apostolo o di personalismi, fazioni e partiti da parte della comunità, alla quale vengono qui indicati i criteri e le modalità per costruire in modo autentico l’edificio di Dio. 2) La seconda (4,1-13) sulla povertà e debolezza dell’apostolo come autentica credenziale della sua missione da parte di Dio, in modo conforme alla parola della croce che egli annuncia, e contro qualunque logica di potere ecclesiale, fonte di divisione. Il testo vv.5-9: Nella misura in cui Paolo si trova costretto a difendere il suo operato, egli avverte che i Corinzi mettono in pericolo il fondamento stesso della Chiesa. Chiedendosi: «che cos’è mai Apollo, che cosa Paolo?» egli riconduce nel solco giusto l’opera apostolica e riconosce che il protagonista è Dio. Paolo e Apollo sono dei servitori e dei collaboratori. Con un’allusione ad Is 5, egli definisce l’opera apostolica come un piantare e un irrigare. Si tratta di attività che hanno certamente un valore, ma che sarebbero vane se venisse a mancare l’opera di Dio, l’unico che fa crescere. Potremmo dire che Paolo sminuisce se stesso ed Apollo, attribuendo a Dio l’azione vera e propria alla quale entrambi hanno solo collaborato, limitandosi a piantare ed ad annaffiare. Siamo nella tradizione veterotestamentaria: in Isaia 5,2 è Dio stesso che ha piantato la vigna, simbolo d’Israele ribelle. In Paolo come in Isaia si tratta dell’autocomprensione della comunità davanti a Dio. Nell’A.T. era Israele la piantagione di Dio e il profeta faceva da mediatore; ora tale piantagione è la Chiesa, per la mediazione dell’annuncio apostolico. vv. 10-15: La Chiesa non è solo la piantagione di Dio, ma è anche il suo edificio, fondato su Cristo. L’immagine dell’edificio è forse di maggior peso rispetto a quella della piantagione. Paolo, dicendo che coloro che vengono dopo di lui non possono fare altro che continuare a costruire sul fondamento che egli stesso ha gettato, fa un’affermazione di grandissima importanza: la predicazione apostolica è il criterio ed il metro di misura assoluto per ogni annuncio successivo nella Chiesa. «La teologia della croce così come espressa da Paolo in 1 Cor rimane incontestabilmente il criterio della predicazione ecclesiale per ogni epoca» (H. Hübner). Il discorso sul «giudizio» nei vv. 12-15 lo si può considerare come una digressione. L’accenno al fuoco del giudizio finale, in cui potrebbero bruciare l’annunciatore del vangelo e la sua opera, assume l’aspetto di un serio monito a rispettare il mandato della predicazione. vv. 16-17. La metafora dell’edificio mira alla dichiarazione cruciale del v. 16: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?». L’Apostolo modifica la concezione dell’A.T. della presenza di Dio in mezzo al suo popolo: non si tratta di una presenza storicogeografica, come nel tempio di Gerusalemme, ma della presenza nella comunità, costituita in nuovo


tempio. Lo Spirito rende la Chiesa il luogo della reale presenza di Dio nel mondo. Egli anzi la ricolma di santità, in modo tale che questa non è solo «proprietà» di Dio, ma luogo della sua dimora. Distruggere l’unità della Chiesa è allora attentare non solo alla santità del popolo, ma alla santità stessa di Dio. «La comunità è grandezza appartenente a Dio e santificata dallo Spirito Santo; chi la rovina scatena la reazione del suo divino abitante. Della Chiesa Dio non è solo creatore ed artefice della crescita, ma anche difensore gelosissimo. Attentando contro di essa, si attenta in ultima analisi contro di lui» (G. Barbaglio). Si nota un crescendo di gravità nell’azione dei predicatori e, di conseguenza, un crescendo nella minaccia del castigo. Chi costruisce con materiale non appropriato è certamente punito, ma può salvarsi; chi invece distrugge il tempio di Dio è distrutto egli stesso. vv. 18-23. Siamo ricondotti a quanto espresso in 1,18ss., cioè alla dialettica tra sapienza e stoltezza. A sostegno di tutta la riflessione è riportata una duplice prova dalla Scrittura: Gb 5,13 e Sal 94. Viene ripreso anche il tema del vantarsi già espresso in 1,31. Il monito è forte: «nessuno si illuda» di quell’illusione che non è oggettivamente fondata dall’esterno, ma nasce vanamente dall’intimo di chi si illude. L’illusione consiste nel sentirsi sapienti nella comunità. Il ritornare sulla contrapposizione sapienza/stoltezza rimarca la necessità di un cambiamento radicale della vita cristiana. Si ingannerebbe chi pretendesse rimanere nella mentalità umana, senza un suo ribaltamento. Il cristiano è una creatura nuova, che fonda i criteri della sua vita personale e comunitaria su quanto Dio ha rivelato del suo mistero di amore, il cui compimento è nella stoltezza della croce. Ed è molto significativo che Paolo, nello sminuire se stesso, Apollo e Cefa, culmini in un’acclamazione dal tono innico: «Tutto è vostro…». E significativa è anche la sequenza voiCristo-Dio, che appare come l’apice di 1Cor 1-4. L’essere strettamente uniti a Cristo realizza l’unione con Dio, perché Cristo è strettamente unito a Dio. 4,1-13. Tutto il capitolo 4 è la conclusione di quanto è stato detto precedentemente sulla divisione in fazioni dei cristiani di Corinto. Riprende in termini ormai di discernimento valutativo quanto già affermato nei primi tre capitoli. La funzione della Chiesa è stata presentata come compito di annunciare il vangelo quale parola della croce. In questo senso deve essere compreso 4,1, in cui Paolo presenta se stesso e i predicatori come «ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio». Anche se parla di «misteri» al plurale, egli certamente intende ancora una volta riferirsi alla parola della croce, magari in relazione ai suoi effetti nelle realtà sacramentali consegnate al ministero. Il compito dei ministri è di essere fedeli alle consegne ricevute dal Signore senza curarsi del giudizio di chicchessia. Solo Colui che ha chiamato l’apostolo a questo compito ha il diritto di giudicarlo. Nessuno può sostituirsi al giudizio che Egli pronuncerà nell’ultimo giorno. L’apostolo, annunciando il vangelo della croce, partecipa di questo stesso vangelo e si trova disprezzato, mentre i Corinzi, che non si pongono nella logica della croce, si trovano spiazzati. Tutto questo Paolo lo esprime con una profonda ironia. L’apostolo passa poi ad elencare quanto gli è accaduto e gli accade nella vita, come segno di questa partecipazione alla croce: soffre la fame e la sete, è nudo, schiaffeggiato, vaga senza fissa dimora, si affatica con le proprie mani. Ma la sua reazione è ancora conforme alla croce del Signore: risponde con la benedizione alle maledizioni e agli insulti, risponde con dolcezza agli scherni. Accetta di essere diventato spazzatura del mondo, immondezza per tutti. Un commento 1) L’autocomprensione della Chiesa. La Chiesa si autocomprende se riscopre le sue origini: campo, edificio che il Padre fonda sul Figlio e tempio in cui abita lo Spirito. In questo modo la Chiesa riceve la sua vita dal Padre che la fa crescere, la fonda sul Figlio e la abita attraverso lo Spirito. Da questa sua origine la Chiesa trae la sua unità, che deve essere salvaguardata da tutti ad ogni costo, perché chi la rompe si mette contro Dio. È una verità il cui frequente misconoscimento, induce a muoversi con superficialità, senza preoccuparsi del pericolo di rompere l’unità. Ciò accade quando nascono i particolarismi dentro le varie comunità. Nel vangelo di Giovanni ci sono due fatti che richiamano all’unità ad ogni costo: la


tunica di Gesù, tessuta tutta di un pezzo da cima a fondo, che non viene lacerata (Gv 19,24) e la rete della pesca straordinaria che non si rompe (Gv 21,11). Due immagini efficaci della Chiesa una. I ministri sono solo dei collaboratori, che vivono in obbedienza a tale loro destinazione e alla legge che governa la Chiesa dall’interno. Il genere umano è profondamente frazionato e dilacerato; Dio ha messo nel mondo la sua Chiesa, secondo quanto afferma il Concilio, come «un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG. n.1). 2) La vita della Chiesa e il martirio. Ci scandalizziamo se la Chiesa è perseguitata. Probamente dovrebbe essere il contrario: dovremmo meravigliarci e preoccuparci quando la Chiesa è riverita da tutti. Essa vive nella sequela di Cristo, che ha compiuto il suo annullamento con la morte sulla croce; per questo essa è chiamata a compiere il suo proprio annullamento, fino ad essere disposta a morire sulla croce. La parola «martirio» ha il significato di «testimonianza». Il martirio non è che il segno compiuto della testimonianza di una piena fedeltà al Signore. D’altra parte Paolo ha insistito sul contrasto tra la sapienza di Dio, che deve diventare anche quella della Chiesa, e la sapienza del mondo. Ha anche descritto la sua vita con termini che indicano persecuzione: insultato, divenuto spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti…. Paolo ha chiamato, con ironia, i corinzi «re»; egli voleva in realtà far capire che ogni credente è «re» se accetta di percorrere la strada che Gesù ha percorso per essere lui stesso re. La croce è il suo trono, una corona di spine la sua corona, una canna il suo scettro. Tutto questo per essere fedele al Padre e agli uomini suoi fratelli. È necessario riscoprire questa dimensione della vita cristiana. Alcuni testi per meditare Le immagini della piantagione e dell’edificio: Ger 1,9-10; 2,15; 6,12; 18,7-9; 24,6; 29,5.28; 31,45.27- 28.33-36; 42,10; Sof 1,13; Is 5,2; 65,21-22; Ez 28,29; 36,36; Dt 6,10-11; 20,5-7; 28,30 Gs 24,13; 2Sam 7,10-12. Sul popolo-Chiesa, vigna e piantagione di Dio; Sal 79(80); Is 5,1-7; Mt 21,33-46 // Mc 12, 1-12 // Lc 20,9- 19. Sul popolo-Chiesa edificio e città di Dio: Sal 121(122); Ez 43,1-12; Mt 16,13-20; 1Pt 2,4-10; Ap 21. Sul ministero, espressione della debolezza-potenza di Dio: Gv 10,1-18; 2Cor 4; 6,1-10; 10-13; 2Tm 2-3; 1Pt 5,1-4. Per la preghiera Accettazione del martirio Signore, Dio onnipotente, Padre del tuo Figliolo amato e benedetto, Gesù Cristo, per il quale ti abbiamo conosciuto, Dio degli angeli, delle potenze, di tutta la creazione e della stirpe dei giusti che vivono alla tua presenza. Ti benedico, perché mi hai giudicato degno di questo giorno e di quest’ora, degno di entrare nel numero dei martiri, nel calice del tuo Cristo, per risorgere alla vita eterna dell’anima e del corpo, nell’incorruttibilità dello Spirito Santo. Con loro possa io oggi essere ammesso alla tua presenza in sacrificio prezioso e gradito: tu mi hai preparato, tu me l’hai mostrato, tu l’hai compiuto, Dio della fedeltà e della verità. Per questa grazia e per tutte le altre ti lodo, ti benedico, ti glorifico per mezzo del sacerdote eterno e celeste Gesù Cristo, tuo Figlio diletto. Per lui, a te, a lui stesso e allo Spirito Santo sia gloria ora e nei secoli che verranno. Amen. Policarpo di Smirne (II secolo)


IV. 1 Corinzi 6,12-20 Glorificare Dio nel proprio corpo Il passo nel contesto e la sua struttura a) Il contesto La pericope 6,12-20 è la parte conclusiva di una più ampia sezione (5,1-6,20), nella quale Paolo si occupa dei disordini morali interni alla comunità, di cui è venuto a sapere. Essa si compone di tre brani, che prendono in considerazione rispettivamente un caso di incesto (5,1-13), la pratica tra credenti e membri della stessa comunità di fede di ricorrere a processi davanti a giudici pagani (6,111) e, infine, la frequentazione di prostitute (6,12-20). Le pericopi sono disposte in modo concentrico: la prima e l’ultima prendono in esame questioni di materia sessuale, mentre quella centrale ha per oggetto le negatività per un credente di affidarsi alla giustizia semplicemente umana invece di venire ad un accordo e ad una riconciliazione con il proprio fratello. In ogni pericope la parte centrale è occupata da un principio teologico, attraverso il quale Paolo risponde, nella parte finale alla questione enunciata nella parte iniziale. In quest’ultima pericope viene toccato il punto più alto di una teologia del corpo che ha le sue radici nel principio teologico dell’incorporazione a Cristo di ogni membro della comunità, ciò che gli impedisce un uso indiscriminato della sua stessa corporeità, ormai riscattata da Cristo ed abitata dallo Spirito. b) La struttura del passo vv. 12-14 contengono dei detti programmatici che i Corinti usano quasi come degli slogans, a cui Paolo deve rispondere. vv. 15-17 Paolo argomenta con le sue risposte, portando i discepoli di Corinto a confrontarsi con il fondamento della loro fede. v. 18a esortazione conclusiva v. 18bc ancora un detto dei Corinti e una risposta di Paolo vv. 19-20a Paolo argomenta la sua risposta v. 20b esortazione conclusiva Il testo Dopo averne già trattato in 5,1-13, Paolo torna su un tema in materia sessuale assai delicato: quello del valore della corporeità e dell’atteggiamento da tenere nei confronti del corpo e della sessualità. Qui la questione non sembra emergere da casi concreti sottoposti al discernimento dell’apostolo, come nel capitolo precedente, sul caso dell’incestuoso. Si cerca piuttosto, a partire dal tema certamente concreto ma generale, della prostituzione, un confronto risolutivo a partire da principi fondamentali della fede cristologica e della realtà pneumatologica nella quale il credente è inserito. Il corpo e la sua relazione con lo spirito dell’uomo, catalizza l’interesse dell’apostolo, che mostra la novità dell’evangelo con il superamento di quella visione dualistica del mondo e dell’uomo che è tipica della filosofia greca, già da Platone, ma estranea alla rivelazione biblica. Con buona probabilità Paolo vuole anche mettere a fuoco il vero senso della libertà cristiana. Con il battesimo e il dono dello Spirito il cristiano è fatto partecipe della creazione nuova. Tutto ciò gli impedisce di condurre un’esistenza legata arbitrariamente al proprio io, ormai appartenente a un altro, che lo ha conquistato. v.12: «Tutto mi è lecito», sente gridare Paolo nella comunità di Corinto da molti cristiani, che esprimono in questo slogan un programma di vita. Come se con il corpo ciascuno possa fare ciò che vuole, dato che solo lo spirito è immortale, mentre il corpo è corruttibile, mortale e, perciò moralmente indifferente nel suo uso. I Corinti hanno forse frainteso la libertà della fede predicata da Paolo, nel senso dell’arbitrio individuale e dell’illimitato potere di disporre delle cose materiali. Ma Paolo vi contrappone la fatica quotidiana della libertà che si esprime nel non lasciarsi dominare dagli istinti, dalle pulsioni. vv.13-14: Un altro detto viene all’orecchio dell’apostolo: «Il cibo è per il ventre, e il ventre è per il


cibo; ma Dio distruggerà questo e quello»; con siffatte affermazioni si vorrebbero mettere sullo stesso piano il rapporto che intercorre tra il cibo e lo stomaco e quello che si dà tra la sessualità e il corpo. La sessualità del corpo altrui sarebbe una sorta di cibo per la fame che il proprio corpo esprime. Paolo in prima istanza evidenzia come tale modo di pensare implichi una totale banalizzazione del corpo e lo rifiuta recisamente: il corpo è per la relazione; è necessario ed ineludibile per la propria relazione con il Signore e con gli altri. Egli si spinge addirittura oltre, affermando: il Signore è per il corpo! Quella materialità corporea che è stata assunta da Cristo nel suo farsi uomo come noi, il Padre la ha risuscitata; dal momento che siamo di Cristo (3,21-23), noi pure Egli risusciterà con la sua potenza. È dunque ancora una volta la vicenda fondamentale narrata nel kerygma – Cristo morto e risorto – il principio, il criterio di discernimento e di giudizio di cui Paolo si avvale per dirimere i problemi del vissuto comunitario. vv. 15-17: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Ma chi si unisce al Signore è uno spirito solo con lui». I credenti , nella loro stessa somaticità, nel loro medesimo corpo, sono membra di Gesù Cristo. Una realtà molto più forte della semplice appartenenza a qualcuno. I corpi dei credenti sono realmente incorporati nel corpo di Cristo. In questo decisivo passaggio Paolo esprime compiutamente il concetto cristiano di persona: realtà profondamente unitaria, non divisa in sé stessa tra corpo e anima, ma costituita in un’armonica complessità. Il cristiano è in Cristo come persona intera e indivisa, corpo – anima - spirito; egli è divenuto corpo di Cristo. Proprio qui Paolo fonda la certezza di una corporeità nuova, tutta avvolta dalla piena signoria del Cristo risorto. Il corpo è dunque molto di più che un semplice insieme di organi destinati alla morte, che funzionano in modo meccanico, come il ventre. Il corpo è per il Signore, cioè per la relazione interpersonale: esso esprime la relazione relazione stessa e ne è il mezzo indispensabile (spirito espresso dal somacarne). v.18: Viene riportato qui il terzo detto dei Corinti, che Paolo prende in esame: «Qualsiasi peccato l’uomo commetta è fuori del suo corpo». Nella sua risposta, l’apostolo ritorna in parte alle argomentazioni precedenti, riaffermando che il corpo e le relazioni che esso esprime, come quella sessuale, non sono riducibili ad una semplice funzione carnale, somatica o biologica, ma vi si trova coinvolto lo spirito, l’anima. Ora il credente è dimora dello Spirito Santo, suo tempio; se lo spirito inabita nel credente, fin nel suo corpo, egli non si appartiene più. Si potrebbe dire che il corpo del credente è in realtà espropriato. v. 20b: «Glorificate dunque Dio nel vostro corpo», esorta Paolo concludendo. La gloria e la lode di Dio si esprimono attraverso l’uomo nella sua interezza, anche nel suo vivere in una fragile corporeità. Il corpo non è solo un’entità fisica: è la totalità della persona nella sua pienezza e armonia; è la persona riscattata da Cristo, costituita tempio dello Spirito, destinata alla resurrezione. Alcuni testi per meditare Il rispetto e la custodia del corpo redento: 1Ts 4,4; Rm 1,24; 6,6; 7,24; 8,13. La conformazione a Cristo nel proprio corpo o nella propria carne: 2Cor 4,10; Gal 6,17; Col 1,24; Fil 3,21. Glorificare Dio nel corpo o il corpo da offrire: Mt 26; Mc 14; Lc 22 (il corpo di Cristo offerto); Eb 10,10; 1Pt 2,24; Rm 12,1ss. Per la preghiera Noi siamo membra del Cristo totale Noi siamo membra di Cristo. Non accusarmi, ma accogli questa verità e accogli Cristo che ti rende tale, poiché, se lo vuoi, diventerai membro di Cristo e, al tempo stesso, tutte le membra di ciascuno di noi diventeranno membra di Cristo, e Cristo nostre membra, e tutto ciò che in noi è privo di onore lo renderà onorevole rivestendolo della sua bellezza e della sua gloria divina,


poiché vivendo con Dio, diventeremo dèi, senza vedere più la vergogna del nostro corpo, ma resi pienamente simili a Cristo in tutto il nostro corpo, ogni membro del nostro corpo sarà il Cristo intero: infatti, pur diventando molte membra, Egli rimane unico e indivisibile, e ogni parte è lui, il Cristo totale. Dall’Inno XV di Simeone il Nuovo Teologo (949-1022)

V. 1 Corinzi 9,1-27 Liberi per servire La pericope di 1Cor 9 occupa una posizione centrale nella sezione formata dai capitoli 8-10, avente una sua unità contenutistica attorno al tema della liceità del consumo degli idolotiti, le carni immolate agli idoli, sviluppato a sua volta nel duplice riferimento all’idolatria da fuggire ed alla vera libertà in Cristo da perseguire: in 1Cor 9 l’apostolo, a partire dalla sua personale esperienza, formula i criteri della vera libertà del cristiano. Il contesto di 1Corinzi 8-10 La sezione si articola, secondo uno schema applicato lungo tutta l’epistola, in tre passi, disposti in maniera concentrica: A) introduce la questione, che divide la comunità di Corinto, degli idolotiti e della loro liceità (c. 8); B) presenta l’esempio dell’apostolo e della sua reale libertà in Cristo e l’esempio del Padri e della loro lezione circa la tentazione idolatrica (9,1-10,13); A’) ritorna sulla questione iniziale mettendo in guardia dall’idolatria ed offrendo alcune soluzioni pratiche circa gli idolotiti (10,14-33). Gli idolotiti erano un particolare tipo di carni che venivano messe in vendita nei macella di Corinto dopo essere state state offerte in sacrificio a qualche divinità. Alla vendita ricevevano una certificazione da provenienza sacrificale per questa o quella divinità, cosicché chi le comprava e le consumava aveva la garanzia di fare insieme un atto di culto. La questione sulla liceità del consumo di tali carni divide la comunità di Corinto. Quanti avevano una fede più solida e formata ritenevano che, nella libertà dei figli di Dio, non si dovesse fare differenza tra queste carni e quelle comuni, dal momento che non esiste alcun altradivinità. Altri, con una fede più semplice, rischiavano di restare scandalizzati dall’atteggiamento libero dei primi. L’Apostolo, pur propendendo teoricamente per la posizione dei primi, nella libertà della fede, esorta praticamente a rispettare lo scrupolo dei secondi, invitando all’astensione dal consumo di idolotiti per non scandalizzare una fede più fragile. Egli formula così il principio per cui ciò che la libertà della fede di per sé consente, è la carità a proibirlo, accettando di legarsi al servizio della coscienza debole del fratello. Nel c. 8 Paolo formula il problema dapprima nel suo aspetto teorico (8,1-6), alla luce della libertà della fede e della scienza che ne deriva, per la quale c’è un solo Dio ed un solo Signore, che nega l’esistenza di qualunque altra divinità o idolo, poi nel suo aspetto più pratico (8,7-13), legato al punto di vista della carità, che invita a considerare, come doverosa autolimitazione della propria libertà, la possibilità di una caduta del fratello debole, per il quale Cristo è morto (8,11). La scienza infatti gonfia, mentre solo la carità edifica (8,2). Non è importante semplicemente sapere, ma sapere come bisogna sapere (8,3). Nel c. 10,14-33 Paolo ribadisce la sua risposta in due momenti. Dapprima (10,14-22) egli prende posizione contro l’idolatria in generale e gli stessi idolotiti in particolare, a motivo della comunione al corpo e al sangue di Cristo, non perché vi sia una reale concorrenza tra il suo sacrificio e quello legato agli idoli, ma perché partecipare al suo sacrificio è inserirsi in un processo di edificazione ecclesiale che verrebbe contraddetto dallo scandalo intracomunitario legato all’assunzione spregiudicata delle carni immolate agli idoli. In un secondo momento (10,23-33) l’Apostolo offre invece soluzioni di tipo pratico al problema, riaffermando


ancora il principio per cui se anche tutto è lecito, non tutto è utile, né edifica (10,23). Si tratta in pratica di regolarsi volta per volta sulla base della coscienza, non della propria che conosce la libertà della fede, ma di quella del fratello (10,28-29). Non occorre indagare sulla provenienza della carne per poterla mangiare, ma se se ne viene a sapere è allora opportuno astenersi in ragione della carità. Nella parte centrale della sezione (9,1-10,13) Paolo sviluppa il criterio teologico sul quale formulare la risposta, in due momenti: nel primo (9,1-27) egli elabora una riflessione etico-teologica sul rapporto tra libertà e amore, entro una piccola teologia del ministero apostolico, nella luce cristologica della sua personale esperienza; nel secondo (10,1-13) trae luce dall’esperienza dei padri nel deserto, dove la libertà conquistata dal Signore si è trasformata per Israele in tentazione idolatrica, causa di disgregazione e rovina: a ciò conduce la libertà senza l’amore. Il Capitolo 9 Si compone di due parti, ciascuna delle quale suddivisibile a sua volta in due sezioni, secondo lo schema seguente: A) Libertà dell’apostolo che si fa servizio gratuito al vangelo (1-18) a. Diritto dell’apostolo di vivere del frutto del suo ministero (1-12) b. Rinuncia dell’apostolo al suo diritto per servire gratuitamente il vangelo (13-18) B) La libertà della fede come schiavitù di amore a. Sottomettersi agli altri nell’amore-servizio come segno della vera libertà (19-23) b. Sottomettere a sé il proprio corpo per conseguire la vera libertà (24-27) Il capitolo 9 potrebbe dare a prima vista l’impressione di un excursus sul ministero apostolico, poco collegato con il suo contesto, in cui domina il problema degli idolotiti e dell’idolatria in generale. In realtà la questione degli idolotiti, formulata nel c. 8 e ripresa nelle risposte del c. 10, è ricondotta dall’apostolo al problema più decisivo e radicale del rapporto tra amore e libertà, entro le concrete dinamiche della comunità ecclesiale. Dallo schema sopra indicato si può ben cogliere come l’apostolo affronti la considerazione del proprio ministero proprio nella prospettiva della dedizione libera e amorevole, nella fatica di declinare insieme amore e libertà. Il capitolo nel suo insieme offre dunque, pur indirettamente, i criteri per una risposta chiara alla questione posta al c. 8. Nella prima parte (1,18) Paolo dapprima ribadisce i diritti legati al suo apostolato (1-12), poi spiega il motivo della sua rinuncia ad essi (13-18). Egli si appoggia al principio scritturistico di Dt 25,4, in cui si vieta di mettere la museruola al bue che trebbia (9,9). Dal momento che Dio non si preoccupa anzitutto dei buoi è necessario comprendere l’affermazione biblica in senso metaforico: chiunque fatica nella realizzazione di un’opera ha il diritto di goderne i frutti. Per estensione, se egli ha faticato nel servizio apostolico, ha anche il diritto di vivere del suo servizio, cioè di un mantenimento economico da parte della comunità (9,9-10). Paolo corregge tuttavia immediatamente la traiettoria dell’affermazione; se è metaforico il riferimento al bue con il suo diritto al fieno, è metaforico anche il riferimento ai frutti: l’apostolo non cerca un guadagno materiale dal suo operato al servizio del vangelo, ma il frutto spirituale di una crescita nella fede della comunità di Corinto (9,11-12). È vero che i sacerdoti e i leviti vivono di quanto offrono sull’altare e che, analogamente, i servitori del vangelo dovrebbero potersi mantenere del servizio reso al vangelo (13- 14); Paolo ritiene tuttavia legittima la sua libertà di non utilizzare del diritto che avrebbe per due motivi: egli è un servo che ha ricevuto un incarico e vuole dipendere soltanto da chi glielo ha assegnato; egli preferisce inoltre evitare di essere mantenuto dalla comunità perché sia fatta salva la perfetta gratuità del dono di Dio (9,15-18). Paolo è dunque libero da tutti perché traspaia il suo servizio totale a Colui che lo ha inviato. Nella seconda parte (19-27) l’apostolo spiega come la sua libertà, appena descritta, si è trasformata in servitù volontaria: egli si è fatto servo per i Giudei e per i Greci allo scopo di guadagnare a Cristo gli uni e gli altri. La sua libertà è diventata adattamento alla condizione dei destinatari della sua opera, alle loro convinzioni religiose (con o senza la legge) ed alle loro condizioni socio-culturali (Giudei o Greci), alla loro situazione personale (debole con i deboli), per guadagnare al Signore il


maggior numero di persone (9,19- 23). Tutta la sua riflessione trova i suo approdo riassuntivo nell’affermazione ricapitolativa di 9,22b-23, dal tono per certi versi più modesto delle precedenti (guadagnare il maggior numero è, alla fine, salvare almeno qualcuno): «Mi sono fatto tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro». Nel passo finale (24-27) egli indica come gli sia possibile un adattamento così totale, per il servizio del vangelo, alla condizione dei suoi destinatari: per mezzo della sottomissione del suo stesso corpo alla servitù, con un atto libero di amore. Trasformando la sua libertà in assoggettamento volontario del suo stesso corpo ad un disegno di amore egli può ottenere quella flessibilità di adattamento alle diverse situazioni da ricondurre a Cristo. Le metafore sportive indicano non soltanto l’intensità delle fatiche compiute negli allenamenti, ma il senso della loro finalizzazione, che le rende sopportabili (24-26). Nelle immagini utilizzate si fa evidente come il segreto della dedizione libera ed amorevole si Paolo sino alla schiavitù volontaria ed all’adattamento totale, risieda nell’orizzonte della meta alla quale tutto è finalizzato. L’apostolo ha la coscienza non soltanto di dover guadagnare a Cristo gli altri, ma di dovere ancora possedere egli stesso una relazione piena e definitiva con il suo Signore; egli fatica dunque senza risparmio al pensiero di dover conquistare ancora egli stesso il premio e guadagnare Cristo, nel timore di poter essere squalificato (9,27). Il passo di 1Cor 9 ha il carattere di una periautologia: similmente al passo di Fil 3 e di 2Cor 10-13, Paolo sembra fare una sorta di elogio di se stesso. Mentre in Fil 3 l’apparente elogio di sé è in realtà una lode a quanto Cristo stesso ha fatto in lui, conquistandolo a sé mediante il suo amore, ed in 2Cor 10-13 viene ancor di più accentuato il vanto paradossale della propria debolezza, in 1Cor 9 l’apostolo esprime la coscienza del valore normativo, per la comunità a cui si rivolge, della sua esistenza riscattata dalla grazia. Da quanto ha egli stesso sperimentato i Corinzi possono comprendere come il valore supremo da perseguire non sia quello di una libertà assoluta in ordine alla legge, ma quello della carità che, sola, ha il potere di edificare. Dalla vicenda personale dell’apostolo si può comprendere la verità paradossale di come quella libertà che Cristo ci ha conquistato sia veramente tale solo nella capacità di rinunciare a se stessa, autolimitandosi, in ragione dell’amore. Una lettura in filigrana del testo di 1Cor 9 svela in realtà la presenza dello stesso dinamismo esplicitamente descritto in Fil 3 e, in certa misura, anche in 2Cor 10-13: solo perché si sforza di conquistare Cristo l’apostolo può farsi tutto a tutti; solo puntando oltre l’orizzonte specifico della sua missione di edificazione ecclesiale, nella tensione escatologica al pieno possesso di Cristo, egli resta fedele a questa stessa missione; solo nella costante apertura della speranza la fede fruttifica costantemente nella libertà di una carità feconda. Alcuni testi per meditare Sul diritto a vivere del proprio servizio e la rinuncia ad esso per amore: Lv 6-7; Nm 18,8-31; Dt 18,1-8; Lc 10,7; Mt 10,10; At 20,33-35; 2,Ts 3,6-15. Sul rispetto dei cristiani «deboli» nella fede: Rm 14,1-15,13. Sulla rinuncia volontaria alla libertà dalla legge per un servizio di amore, a motivo di Cristo: 2Cor 4,5; 5,14; 8,9; At 16,3; 21,20-26. Autoelogio paradossale per vantarsi solo di Cristo crocifisso: 2Cor 10-13; Gal 6,14; Fil 3; 1Cor 1-2. Per la preghiera La santa libertà dei Figli di Dio Quando creasti l’uomo tu, o Signore, gli desti la libertà. Quel che vive altrimenti è legato alle leggi della natura. La pianta cresce come deve e l’animale segue la necessità del suo essere; all’uomo invece hai dato il segreto dell’intimo principio. Egli può agire da sé: così il suo fare gli appartiene e nel suo fare possiede se stesso. In questa libertà doveva servirti, ma egli l’ha usata per ribellarsi contro di te. Allora essa si è corrotta ed egli è diventato schiavo. Tu però non l’hai abbandonato a se stesso. Hai mandato tuo Figlio nel mondo ed egli ha annunziato all’uomo una libertà nuova e più alta.


Egli chiama ciascuno di noi e gli porge la mano,affinché creda in lui, gli obbedisca e vinca così la schiavitù. Dammi il tuo Spirito affinché io intuisca la divina libertà in cui sta il Cristo e senta il desiderio della «gloriosa libertà dei Figli di Dio», che egli solo è in potere di dare. Io sono in questo mondo ed esso mi spinge e mi lega; sono pieno delle forze della mia natura ed esse mi agitano e mi illudono. Mi dia lo Spirito la persuasione che io sono chiamato all’eterna libertà in te. Egli mi aiuti nelle esigenze e nei bisogni d’ogni ora a lottare per essa e a far posto alla sua santità. E in ogni concatenazione di eventi, in ogni miseria e apparente inutilità mi doni l’indomita speranza di quel giorno, nel quale cadranno tutti i lacci ed io sarò partecipe della «santa libertà dei Figli di Dio». Amen. Romano Guardini

VI. 1 Corinzi 11,17-34 La Cena del Signore Il brano di 1Cor 11,17-34 costituisce una chiara unità letteraria e tematica. Esso si trova infatti ben delimitato dalla pericope precedente, dedicata al contegno delle donne nella comunità (11,1-16), e dalla seguente, che dà inizio alla nuova sezione dei cc. 12-14, caratterizzata dal tema ecclesiologico dell’unità dei ministeri e carismi nell’Amore: entrambe si distaccano dal testo in esame per la loro coesione letteraria e coerenza tematica e lo delimitano come unità a sé. Struttura del passo Paolo affronta il tema del pasto eucaristico. Egli con la stessa modalità presente in tutta la lettera, imposta la sua riflessione in tre momenti, disposti in modo concentrico e corrispondenti alla triplice articolazione del passo: A) Si descrive lo svolgersi della Cena del Signore nella comunità di Corinto (11,17- 22); B) Viene richiamato, quale criterio teologico di giudizio, il kerygma, veicolato dalla tradizione,dell’istituzione dell’Eucaristia da parte di Gesù (11,23-26); A’) Si risponde, in tono di ammonizione e correzione, alle intemperanze e deviazioni dei Corinzi nel modo di celebrare la Cena del Signore (11,27-34). La situazione descritta nella prima parte trova efficace risposta nella terza grazie all’applicazione del principio teologico enunciato nella seconda. La celebrazione della Cena è il memoriale della Pasqua del Signore Gesù. Nella tradizione che la perpetua continua a risuonare un’eco della Parola della Croce: il dono che Gesù ha fatto di se stesso nell’ultima cena e nella consegna di sé sulla croce non è compatibile con gli egoismi e gli arrivismi dei fedeli di Corinto. Spiegazione del testo Nella prima parte (11,17-22) Paolo dichiara di aver avuto notizia di abusi durante la celebrazione eucaristica. Anche a Corinto i cristiani celebravano la Cena del Signore riunendosi dal tramonto del sabato all’alba della domenica. La riunione, che avveniva probabilmente nella casa di un membro della comunità particolarmente abbiente, iniziava con un pasto, forse sullo stile della cena pasquale ebraica, che si prolungava con un carattere di veglia in attesa del ritorno del Signore (quella prima generazione cristiana del tempo di Paolo riteneva la parusia imminente come si può desumere da 1Ts 4,13-18 e, in parte, da 1Cor 7,29-31 e 15,51-52), culminando nella frazione del pane eucaristica in prossimità dell’alba. Al congedo dell’assemblea si dava appuntamento alla domenica successiva, nella speranza che il Signore sarebbe realmente tornato. L’apostolo registra con rammarico come, proprio nel momento in cui si doveva realizzare l’unità della famiglia ecclesiale, si verificavano invece lacerazioni (schismata al v 18) e divisioni partitiche (haireseis al v 19). Paolo ritiene in parte necessarie tali divisioni (11,19) in vista della manifestazione dei veri credenti, anche nella prospettiva escatologica di un giudizio di separazione del seme buono dal seme


cattivo (il Signore al suo ritorno giudicherà l’opera di tutti: 1Cor 3,13; 2Cor 5,10). Contro l’unità della comunità i più ricchi si riuniscono tra loro, escludendo i poveri, e banchettano fino ad ubriacarsi, mentre gli altri non hanno di che mangiare: l’eucaristia è così doppiamente profanata, in quanto non solo ricevuta senza una sobrietà cosciente, ma soprattutto contraddetta dalla divisione. Forse presso i Corinzi si è radicata una mentalità sacramentalistica di tipo magico, per la quale i segni della grazia opererebbero senza richiedere alcuna disposizione nell’uomo (come si può in parte evincere da 1Cor 10,14-22). Nella terza parte (11,27-34) Paolo rimprovera il modo indegno (anaxios) di partecipare alla Cena del Signore. Esso non consiste tanto in una presunta indegnità morale dei singoli rispetto alla loro vita privata, ma nella mancanza di discernimento del Corpo del Signore, non tanto a motivo dell’ubriachezza di qualcuno, che potrebbe scambiare il pane eucaristico per cibo profano, ma principalmente a causa delle molte divisioni nella comunità, che contraddicono gli effetti unificanti ed edificanti del sacramento eucaristico, del quale non si valuta pertanto l’identità in modo corretto e adeguato. Occorre al riguardo esaminare (krinein) la propria condotta per discernere adeguatamente (diakrinein) e non essere così condannati (katakrinein). La partecipazione all’Eucaristia richiede una previa volontà di comunione e disposizione alla condivisione: è necessario aspettarsi gli uni gli altri per non incorrere nella condanna della quale si constata già l’efficacia nella malattia e nella morte di alcuni (non è chiaro se l’espressione di 11,30 abbia un valore materiale-reale o solo metaforico-spirituale). Nella parte centrale del passo (11,23-26) Paolo riporta, senza alcuna sua rielaborazione, il kerygma della tradizione sulle parole della Cena, così come lo ha ricevuto (similmente a quanto del kerygma pasquale riporta in 15,1-7). La parte centrale (11,23-26) Si tratta delle formulazione più antica del NT, che si accompagna alle altre tre dei Sinottici. Le quattro formulazioni (Sinottici e 1Cor) si possono raggruppare in due tipi di tradizione: Marco e Matteo da un lato, Luca e Paolo dall’altro. Mc e Mt accostano le coppie pane/corpo e vino/sangue, con un forte richiamo al sangue dell’alleanza di Es 24 (Gesù stesso sembra identificarsi all’alleanza: «...sangue di me dell’alleanza...») ed una decisa apertura escatologica al pasto del regno di Dio. In Luca e Paolo la prima coppia coincide con quella di Mc e Mt, mentre la seconda si differenzia in calice/nuova alleanza (è probabile che questa sia la formulazione più antica, che Mc e Mt hanno cambiato per ragioni di simmetria al binomio pane/corpo). Anch’essi accennano alla prospettiva escatologica del ritorno del Signore, al quale il rito è finalizzato e del quale è anche anticipazione («finché egli venga»). Il testo di 1Cor, rispetto a quello dei Sinottici, che contengono la narrazione diretta dell’evento, ha il carattere di una ripresentazione liturgica, con una contestualizzazione che fa menzione della circostanza, richiamando il tradimento: «nella notte in cui veniva tradito». Tradimento, per il quale Gesù è consegnato nelle mani degli uomini, e consegna libera e sovrana, con cui dispone di sé facendo della sua vita un dono per gli uomini, sono intrinsecamente congiunti ed inseparabili nella stessa formulazione liturgica. Quando è ormai chiara la volontà di Giuda, Gesù, nel racconto dei vangeli, cerca dapprima di dissuaderlo, mediante il boccone di pane, con il quale voleva fargli cogliere l’allusione all’amico che mangia insieme e che subito dopo leva contro il suo calcagno, come nel Sal 40 (41). Non ottenendo da Giuda alcuna risposta, Gesù si risolve, forse con un gesto neppure prima premeditato né calcolato ad offrire lui stesso liberamente la sua vita nel pane spezzato e nel vino versato, significando così che la sua stessa morte non sarà più semplicemente un crimine o una prepotenza, ma un atto di amore capace di riscattare dall’interno la malvagità e la volontà omicida dell’uomo. Corpo e sangue separati sono il segno della vittima offerta in olocausto (tutta donata), sacrificio di espiazione (a cancellare i peccati) o di comunione (che sigillava mediante il pasto l’unione con Dio). Tutto ciò riassume e compie l’Eucaristia. Il pane è inoltre frutto del lavoro (come nella corrispondente benedizione (berakah) ebraica, ripresa dalla formula eucaristica di presentazione delle offerte), cioè del consumarsi della vita di ogni padre di famiglia, che accetta di diminuire e di perdere progressivamente se stesso nel lavoro, perché i figli abbiano da lui gratuitamente vita, in vista della loro crescita ed autonomia rispetto a lui. Il pane


spezzato della vita donata accompagna, anche in Israele, il racconto (aggadah) della memoria storica della salvezza, ricordata e insieme creduta attuale, per anticiparne il definitivo compimento: il pane spezzato e distribuito nel dono di un’eterna misericordia è il motore stesso della storia di liberazione, nella sua inscindibile unità con l’atto creatore, secondo la ricca teologia del Sal 135 (136), il grande hallel pasquale (in particolare il penultimo versetto). Il vino versato è anch’esso frutto del lavoro con cui il padre di famiglia dona ogni giorno se stesso, non semplicemente per la necessità vitale dei figli, ma per la loro gioia sovrabbondante. Il vino è segno dell’amore che non si limita a provvedere al bisogno, ma vuole l’irruzione del gratuito nella gioia della sovrabbondanza. Gesù, in quella singolare cena pasquale, adempie la funzione del padre di famiglia che esplicita e compie, mediante le parole, soltanto sue, che accompagnano la distribuzione del pane e del vino, il dono amorevole di sé, per la vita e la gioia dei suoi amici. Egli realizza la condivisione perfetta nell’amore di tutto ciò che è e che possiede (lo Spirito Santo, la vita divina). Chi obbedisce al suo comando ed imita il suo gesto memoriale, come i cristiani di Corinto, non possono allora far valere una logica di egoismo e di prepotenza rifiutandosi di mettere almeno in gioco i loro beni, per condividere almeno in parte la loro vita. Nel richiamo al kerygma eucaristico consegnato dalla tradizione, Paolo trova il criterio teologico fondamentale per richiamare i Corinzi a convertirsi ad una disposizione autenticamente autenticamente ecclesiale. Alcuni testi per meditare Sui sacrifici antichi: Lv 1-7. Sul valore dell’amore e dell’obbedienza rispetto ai sacrifici: 1Sam 15,22-23; Sal 39(40); Sall. 4950(50-51); Os 6,6, ripreso in Mt 9,13 e 12,7; Am 5,21-25. Sul pane-vino offerti: Gen 14,18-20. Sul pane-cibo della sapienza: Pr 9,1-6; Is 55,1-3. Sul pane-vita: Gen 1,29-31; Sal 135(136),25. Sul pane azzimo pasquale: Es 12,15-20. Sul pane condiviso, dono di sé in una relazione offerta Gv 6. Sul pane dono di sé nella relazione padre-figlio: Lc 11,1-13. Sul vino-gioia di sovrabbondanza: Gen 9,20-29; 43,34; Sal 103(104),15; segno della nuova alleanza nello spirito: Gv 2,1-12. Sul valore salvifico del sangue-Spirito-Amore di Cristo Eb 9-10; 1Pt 1,2; 1Gv 1,7-2,2. Sulla celebrazione ecclesiale dell’Eucaristia: Lc 24,13-35; At 20,7-12; 27,33-38; 1Cor 10,14-22. Per la preghiera Il pane spezzato fonte di unità Ti rendiamo grazie, o Padre nostro, per la vita e la conoscenza che ci hai concesso per mezzo di Gesù, tuo Figlio. Come questo pane spezzato, prima sparso sui colli, è stato raccolto per farne uno solo, così raccogli la tua Chiesa, dispersa nei nostri paesi, nel tuo regno. 22 Perché a te è la gloria e la potenza. Ti rendiamo grazie, o Padre santo, per il tuo santo nome, che tu hai posto nei nostri cuori; per la conoscenza, la fede e l’immortalità, che ci hai concesso per mezzo di Gesù, tuo Figlio. Tu, o Signore onnipotente, hai creato l’universo, a gloria del tuo nome; tu hai dato agli uomini il cibo e la bevanda per la loro gioia affinché ti rendano grazie; ma a noi tu hai donato un cibo e una bevanda spirituale e la vita eterna per mezzo del tuo Figlio. Ti rendiamo grazie, perché sei potente. Ricordati, o Signore, di liberare la tua Chiesa da ogni male e di renderla perfetta nel tuo amore. Raccogli dai quattro venti la Chiesa che tu hai santificato, nel regno che le hai preparato. Poiché tue sono la potenza e la gloria nei secoli. Amen. Dalla Didaché (II secolo).


VII. 1 Corinzi 13,1-13 L’Amore di Dio Il passo di 1Cor 13,1-13, vero culmine della lettera ed anche di tutta la riflessione di Paolo e dell’intero NT, è il centro della sezione unitaria di 1Cor 12-14, che occorre considerare dapprima nel suo insieme e nella sua articolazione interna. Il contesto di 1Cor 12-14 Coerentemente alla modalità argomentativa presente in tutta la lettera, Paolo sviluppa la sua riflessione in tre momenti, strutturati in modo concentrico: A) Muove da un interrogativo implicito della comunità circa la dignità e l’eventuale gerarchia tra i differenti doni e carismi in vista dell’ordine, della coesione interna e della comunione (c. 12); B) perviene al criterio teologico fondamentale di giudizio, per cui ogni espressione carismatica autentica deve scaturire dall’Amore divino, ad esso tendere e rispetto ad esso gerarchizzarsi e funzionalizzarsi (c. 13); A’) ritorna alla situazione della comunità e risponde con indicazioni concrete circa l’ordine e la disciplina di esercizio dei diversi doni e funzioni (c. 14). Nel c. 12 è indicata in modo descrittivo la diversità dei doni, evidenziandone già l’unità fontale nell’unico spirito (12,1-11), l’unità operativa nel paragone dell’unico corpo con molte membra a servizio le une delle altre (12,12-27), sino a far intravedere una corrispondente articolazione ministeriale (12,28-31). Nel c. 14 si torna a parlare dei carismi nel loro esercizio concreto, indicandone la gerarchia rispetto al criterio dell’edificazione nell’Amore, con una particolare sottolineatura della precedenza della profezia sulla glossolalia, di ciò che agisce interiormente rispetto a ciò che si manifesta esternamente (14,1-25), terminando con alcune precise regole pratiche (14,26-40). Il c. 13, cuore di tutta l’argomentazione, rielabora il criterio teologico già espresso inizialmente e sotteso a tutta la lettera, adattandolo all’interrogativo preciso della disciplina ecclesiale dei carismi: si tratta di assumere ancora una volta il punto di vista della sapienza divina, di quella debolezza ed inconsistenza agli occhi degli uomini che è la croce del Signore (1,17-2,5), di quella stoltezza ed inevidenza agli occhi del mondo che è il pensiero di Cristo (2,6-3,4). L’Amore che in Cristo crocifisso Dio dona agli uomini si identifica con stessa potenza e sapienza divina: rimane povero e nascosto rispetto alle manifestazioni carismatiche o alle potenze operative ministeriali, ma quale loro anima segreta che li rende autentici proprio mentre, nella dimenticanza di sé, si fanno in tutto funzionali gli uni agli altri, nell’edificazione dell’unico corpo. Il capitolo 13 Delimitato dall’inclusione tra 12,31b e 13,13b (che si richiamano per il riferimento comune alla cosa più grande di tutte), che lo agganciano rispettivamente al c. 12 e al c. 14, il c. 13 si struttura in tre parti, disposte anch’esse concentricamente. La prima (13,1-3) e la terza (13,8-13) esprimono la trascendenza dell’Amore rispetto a qualunque tipo di carisma, del quale la comunità ha tuttavia necessità, ma che sarebbe privo di consistenza e di valore se non fosse suscitato, animato e compiuto dall’Amore stesso. La seconda parte, dimenticando qualsiasi confronto, si concentra invece sull’Amore, descrivendone la natura e l’identità, l’azione e i frutti. Esso è designato sempre mediante il sostantivo Amore e non il corrispondente verbo, a significare l’intenzione di attribuirgli un’identità personale; l’assenza di un esplicito riferimento cristologico contribuisce forse a far ancor più emergere la realtà personale dell’Amore, che è comunque dono del Cristo e frutto della sua croce. Il termine agape (ed il corrispondente latino charitas), che soltanto qui ricorre in forma così assoluta, è infatti il nome dello stesso Spirito Santo, dono di Dio in Cristo (Rm 8,35-39; 2Cor 5,14;


13,13; 1Tm 1,14; 2Tm 1,13), effuso nei nostri cuori (Rm 5,5), fonte di comunione tra gli uomini (1Ts 3,12). Nella prima strofa dell’inno alla carità (13,1-3) Paolo comincia a tracciare la via sublime dell’Amore mediante il paragone con altre attività compiute nel nome di Dio, suddivise in due categorie fondamentali: le operazioni relative alla conoscenza e quelle relative alla prassi. Vengono elencate quattro operazioni dell’ordine conoscitivo: il parlare in lingue, la profezia, la scienza dei misteri e la fede. L’ordine sembra progressivo dall’esteriore verso l’interiore. Il parlare in lingue indica la ricchezza esteriore della manifestazione potente dello Spirito, capace tuttavia di edificare soltanto quanti sono in grado di partecipare allo stesso dono. La profezia indica un parlare nella potenza dello Spirito come fonte attuale di luce di appello alla conversione e di trasformazione dei cuori di tutti coloro che ascoltano. La scienza dei misteri è invece la penetrazione profonda della realtà divina conosciuta a partire dall’esperienza che se ne ha, come tematizzazione della propria conversione. La fede è qui da intendere come conoscenza più semplice ed essenziale della realtà divina della quale si fa esperienza ed alla quale ci si abbandona. Riguardo alla seconda categoria vengono indicate due fondamentali operazioni relative alla prassi: la distribuzione di tutti i propri averi e la consegna addirittura del proprio corpo. Esse sono tra di loro in continuità, secondo una progressione crescente di annientamento di sé. Se non provengono dall’Amore non solo tutte queste operazioni non hanno alcun valore, ma neppure sono autenticamente tali: nascondono in realtà l’autoinganno dell’io desideroso di affermare se stesso. L’Amore è invece originario rispetto ad esse. Soltanto lo Spirito riversato nei cuori apre dapprima alla conversione morale del dono di sé in vista del bene, a prescindere da qualsivoglia utile proprio, e conduce, finalmente, ad una fede di reale abbandono, carica di conoscenza dei misteri, capace del pensiero di Cristo crocifisso, sino alla sua perfetta comunicazione profetica. Nella seconda strofa (13,4-7) la riflessione si sofferma sull’Amore attraverso un lungo elenco di aggettivazioni: 15 verbi per esprimere ciò che l’agape fa e non fa. Anche quelli in forma positiva esprimono per lo più atteggiamenti e disposizioni di quasi-passività o forse, meglio, di accettazione e di accoglienza: l’Amore non sembra dunque in primo luogo impegnato a fare qualcosa per gli altri in senso funzionale, quanto piuttosto ad accogliere la loro persona anche nelle sue debolezze. Longanimità è l’opposto di meschinità o ristrettezza puntigliosa e calcolatrice. Benignità indica più attivamente il desiderio dell’utilità o del bene altrui. L’invidia, il vanto, il gonfiarsi, l’assenza di pudore rispettoso, la ricerca del proprio interesse, il rancore per il male ricevuto ed il godimento per l’ingiustizia, sono tutte disposizioni di un’io centrato su se stesso e contrapposto agli altri, del tutto incompatibili con l’Amore, che invece si compiace della verità nel suo carattere di oggettività non manipolabile capace di giudicare e decentrare l’io. Gli ultimi verbi dell’elenco sono rimarcati dal richiamo alla totalità radicale dell’azione che esprimono: coprire è sinonimo di giustificare o non tenere in conto la colpa altrui; credere è mantenere una fiducia incrollabile negli altri e nella loro possibilità di riscatto e conversione; sperare è mantenere un orizzonte sempre più alto di qualsiasi opposizione contrasto e chiusura; sopportare è infine, a modo di inclusione, una espressione della stessa longanimità, richiamata all’inizio e cara alla modalità paolina di esprimere l’Amore come subordinazione gli uni agli altri e attitudine a portare i pesi gli uni degli altri. Nella terza strofa l’Amore viene rapportato nuovamente alle altre disposizioni carismatiche o doni operativi e conoscitivi come l’eterno rispetto al transeunte. Nell’Amore si possiede già qualcosa del compimento al quale tutto il resto è orientato sino alla sua scomparsa. L’Amore è la perfezione di ciò che è qui imperfetto, l’anima pervasiva ed efficace di ciò che tende al compimento e verrà meno dinanzi ad esso. L’Amore è una conoscenza esperienziale alla maniera divina: conoscere così come si è conosciuti. Esso rimane assieme alla fede e alla speranza (al v. 13 l’ordine è alterato rispetto al consueto fede, carità e speranza per far cadere l’accento della formulazione letteraria sulla carità, sino a rimarcarla come di tutte più grande in 13,13b, con un richiamo alla via più grande del versetto iniziale di12,31b). Più propriamente anche le virtù teologali della fede e della speranza


sono destinate a passare. Restano in quanto, espressione della stessa carità, si trasformano in fiducia incessantemente sorgiva e in desiderio inarrestabilmente crescente. Alcuni testi per meditare - L’Amore di Dio nell’Antica Alleanza: Es 3,1-12; Dt 7,6-10; 32,1-14; Os 11,1-11; Ger 30,1031,22; Sal 8. - La risposta dell’uomo all’Amore: Es 20,1-21; Dt 5,1-22; 6,1-13; Lv 19,18; Ez 36,23-28; Sal 18(17) - La novità dell’Amore Trinitario nella Nuova Alleanza: Mc 10,17-22; 12,28-34; Gv 3,16; 13,1-15; Ef 3,14- 21; 1Tm 1,14; 2Tm 1,13. - Lo Spirito Santo Amore e i suoi frutti: Lc 12,49-50; At 2,1-13; Gv 14,26-30; Rm 5,5; 8,1-39; Gal 5,22. - L’Amore reciproco dei figli di Dio: Gv 15,1-17; 17,26; Rm 12,1-21; 13,1-8; 2Cor 8,1-15; Fil 2,111; 1Ts 3,12; Gc 2,1-26; 1Pt 1,22-2,3; 1Gv 2,7-11; 3,10-24; 4,7,21. - Il ministero dell’Amore: Gv 21,15-19; 1Ts 2,1-12. Per la preghiera Elogio della carità O Carità, come sei buona e ricca, come sei potente! Nulla possiede colui che non ha te. Tu hai potuto fare di Dio un uomo. Tu hai allontanato – per un poco – dalla sua immensa maestà, questo Dio fatto piccolo. Tu l’hai tenuto prigioniero per nove mesi nel seno della Vergine. Tu in Maria hai ridato ad Eva la primitiva integrità. Tu nel Cristo hai fatto nuovo Adamo. Tu hai preparato la santa Croce per la salvezza del mondo perduto. Tu hai reso vana la morte insegnando a Dio il morire. Quando Dio, il Figlio di Dio onnipotente, è ucciso dagli uomini, è per te che nessuno dei due, il Padre e il Figlio, si muove ad ira. Tu mantieni la vita del popolo celeste, quando assicuri la pace, custodisci la fede, proteggi l’innocenza, onori la verità, ami la pazienza e ridoni la speranza. Tu fai gli uomini, uguali nella natura, diversi per costume, età e potere, un corpo e uno spirito solo. Tu non permetti che i gloriosi martiri siano distolti dal confessare il loro nome di cristiani da nessun tormento, o nuovo genere di morte o premio o amicizia o sentimento di tenerezza, che strazia più crudelmente di qualsiasi carnefice. Tu per vestire colui che è nudo sei contenta di essere nuda. Per te la fame è sazietà, se un povero affamato ha mangiato il tuo pane. La tua ricchezza consiste nel destinare in misericordia tutto ciò che hai. Tu sola non sai che cosa sia farsi pregare. Tu soccorri in fretta gli oppressi, in qualsiasi necessità si trovino, anche a tuo danno. Tu sei l’occhio dei ciechi. Tu il piede degli zoppi. Tu il fedelissimo scudo delle vedove. Tu per gli orfani ti fai genitore migliore di quelli naturali. Tu non hai mai gli occhi asciutti, perché la misericordia o la gioia te lo impediscono. Tu ami i tuoi nemici con amore così grande, che nessuno potrebbe distinguere la differenza che c’è tra essi e coloro che ti sono cari. Tu unisci i misteri celesti agli umani e gli umani ai celesti. Tu custodisci i divini segreti. Tu nel Padre governi. Tu nel Figlio obbedisci. Tu nello Spirito Santo esulti. Tu essendo una nelle Tre Persone, non puoi in nessun modo essere divisa. Nessun raggiro di umana curiosità ti può turbare. Sgorghi dalla sorgente che è il Padre e ti riversi tutta nel Figlio, eppure non ti allontani dal Padre. Sei chiamata Dio, perché tu sola guidi la potenza del Dio Trinità. Amen. Zeno da Verona (IV secolo).


VIII. 1 Corinzi 15, 12-34 La realtà della risurrezione dai morti Il passo nel suo contesto e nella sua struttura a) Il contesto Il contesto del passo è l’intero capitolo 15, che rappresenta senza dubbio un’unità particolare e in sé conclusa di 1Cor. Esso occupa l’ultima sezione della lettera, con la trattazione di un ultimo tema, quello della risurrezione del corpo, prima del capitolo finale, interamente dedicato ai saluti (1Cor 16). Nelle pericopi che lo compongono si registra una progressione nella trattazione dell’unico tema della risurrezione finale dei credenti. Il tema affrontato, in altre parole, non viene aggredito subito in modo diretto, ma attraverso uno sviluppo lineare. La prima pericope (1-11) introduce la riflessione con un richiamo al kerygma fondante la fede, al vangelo ricevuto e trasmesso da Paolo irrinunciabile base per un discernimento ecclesiale condiviso e unica fonte argomentativa realmente autorevole per la trattazione che l’apostolo vuole inviare ai Corinzi (vv. 1-11). Solo al v. 12 viene introdotta la questione che agita la comunità di Corinto, nella quale sono presenti alcuni che negano la risurrezione dei morti. L’Apostolo affronta tuttavia questo tema cruciale, non rivolgendosi a tali negatori, bensì in modo diretto all’intera comunità destinataria dello scritto. Sino al versetto 34 si argomenta sull’inconfutabilità del fatto della risurrezione, mentre dal v 35, il ragionamento si sposta a considerare il modo della risurrezione corporale. Per quanto riguarda l’articolazione dell’intero capitolo si possono dunque identificare quattro successivi momenti, seguiti da una brevissima conclusione: I. (vv. 1-11): dedicato al kerygma ricevuto e trasmesso II (vv. 12-34): per affermare la realtà della risurrezione dai morti III. (vv. 35-49): incentrato sulla qualità del corpo dei risuscitati IV. (vv. 50-57): sull’annuncio della futura necessaria trasfigurazione per poter entrare nel regno di Dio Esortazione conclusiva (v. 58) b) La struttura Paolo affronta il tema fondamentale del fatto e della realtà della risurrezione dei morti attraverso tre passaggi successivi, qui indicati con A – B – A’ A - vv. 12-19: mostrano, partendo da un’ipotesi per assurdo, le conseguenze disastrose della negazione della risurrezione dei morti. Negare che i morti risorgano significa infatti negare che Cristo stesso sia risorto e questo trascinerebbe con sé una serie di conseguenze negative che Paolo evidenzia con efficacia. B - vv. 20-28: in questi versetti, che rappresentano la parte centrale del discorso di Paolo, è affermata con forza la risurrezione di Cristo e la sua vittoria sulla morte. Partendo dal contrasto Adamo/Cristo, viene positivamente evocata la lotta di Cristo contro la morte fino al suo termine vittorioso per Dio e in Dio. Tale sviluppo è dimostrato dalle Scritture. A’- vv. 29-34: ritorna l’argomentazione per assurdo. Con la quale vengono motivate le conseguenze negative in relazione alla prassi della vita cristiana. In conclusione la comunità è esortata a guardarsi da coloro che negano la risurrezione dei morti. Il testo v. 20: «Ora però...» questa espressione iniziale si contrappone con forza alla negazione di alcuni che turbano dall’interno la comunità (v. 12). La realtà che segna veramente il presente è la risurrezione di Cristo. «...Cristo è stato risuscitato dai morti...»


Egli, venendo fuori vivente dal regno dei morti, appare come eccezione sconvolgente a ciò che l’uomo sperimenta rispetto a coloro che sono morti. «...come primizia di quelli che sono morti...» Il termine «primizia» applicato a Cristo, risuscitato e attualmente risorto, sottolinea la novità assoluta di ciò che avviene nella sua risurrezione e insieme contrassegna la certezza della continuazione del processo che si è messo in moto. La primizia non indica solo una sporadica novità, ma anche il fatto che questa sarà seguita da altri frutti ad essa conformi. vv. 21-22: lo scopo delle dichiarazioni di Paolo a partire da 1Cor 15,20 è di dimostrare come, a partire dalla fede nella risurrezione di Cristo, si arrivi necessariamente ad affermare la risurrezione di tutti i morti. Perché Cristo possa essere nella sua risurrezione davvero una «primizia» è necessario che, dopo di lui, i morti arrivino a un simile passaggio alla vita. Ed è proprio per dimostrare tale allargamento nel conferimento della vita nuova, che viene introdotto il principio generale: «da uno solo la morte e da uno solo la risurrezione» (v. 21). La dichiarazione seguente (v. 22) accosta la morte di tutti in Adamo con la risurrezione di tutti in Cristo. Entrambi i passaggi (morte – vivificazione) sono operati per l’intervento di un unico mediatore umano: l’uno e l’altro avvengono attraverso un uomo solo (Adamo/Cristo). Come Adamo ha causato la morte di tutti gli uomini, così Cristo vivificherà a sua volta tutti coloro che l’altro capostipite ha destinato a morte. vv. 23-24: dopo aver affermato che Cristo è risorto come primizia di qualcosa che non può non svilupparsi progressivamente (cf. v. 21), Paolo spiega che «l’essere vivificati in Cristo» (v. 22b) avviene secondo un ordine proprio a ciascuno. Come al solito qui Paolo sta offrendo solamente gli elementi più decisivi della sua riflessione; egli vuole indicare soprattutto la possibilità e non tanto l’universalità della risurrezione. Gli basta perciò parlare della risurrezione di Cristo e di quella di coloro che appartengono a Cristo. Con ciò Paolo non esclude affatto la risurrezione universale. vv. 25-27: Paolo vuole provare la sua seconda affermazione sulla fine, dicendo che Cristo annullerà tutto ciò che condiziona irrimediabilmente l’uomo (ogni principato, ogni potestà, ogni potenza e la morte). Di questo Paolo dà dimostrazione ricorrendo alle Scritture (Sal 8; 110). v. 28: Quando tutto sarà messo in ordine e sottomesso a Cristo, solo allora, il Figlio riprenderà il suo vero posto nei confronti del Padre. E tutto questo con una precisa finalità: «perché Dio sia tutto in tutti». Un commento Ecco alcune significative riflessioni dello Pseudo-Macario: «Come accade quando un ago gettato nel fuoco cambia colore e si trasforma in fuoco, anche se la natura del ferro non iene eliminata, ma permane, così alla risurrezione tutte le membra risorgono e non si perde neppure un capello, come sta scritto, ma ogni cosa diviene luminosa, ogni cosa è immersa nella luce e nel fuoco e viene trasformata, ma non accade, come dicono alcuni, che si dissolve, che diventa fuoco e che la sua natura scompare. Pietro infatti resta Pietro, Paolo resta Paolo, Filippo resta Filippo; ciascuno rimane nella propria natura e nella propria realtà, ripieno di Spirito [...] Come il corpo del Signore, quando ascende sul monte fu glorificato in gloria divina ed immensa luce, così anche i corpi dei santi sono glorificati e rifulgono di luce. Come la gloria che Cristo aveva dentro di sé avvolse il suo corpo e lo rese splendente, similmente la potenza di Cristo, che i santi possiedono dentro di sé in quel giorno si riverserà sui loro corpi. Fin d’ora, infatti, nel profondo del loro cuore partecipano del suo essere e della sua natura. Sta scritto: “Colui che santifica e coloro che sono santificati provengono da uno solo” (Eb 2,11), e: “La gloria che tu mi hai data, l’ho data loro” (Gv 17,22). Come da un unico fuoco vengono accese molte lucerne, così è necessario che anche i corpi dei santi, membra di Cristo, divengano ciò che è Cristo» (Omelia XV,10.38). E ancora: «Se la dimora del nostro corpo si va disfacendo, ne abbiamo un’altra in cui dimorerà la nostra anima. “Se però – dice – saremo trovati vestiti, non nudi” (2Cor 5,3), cioè privi della comunione e della partecipazione allo Spirito Santo, nel quale soltanto l’anima fedele può trovare riposo. Per questo quelli che sono veramente e realmente cristiani hanno grande coraggio al momento di uscire


dalla carne e gioiscono perché possiedono quella casa non fatta da mani d’uomo, cioè la potenza dello Spirito che dimora in essi. E anche se la dimora del corpo viene distrutta, non temono; possiedono infatti la dimora celeste dello Spirito e quella gloria incorruttibile che, nel giorno della risurrezione, edificherà e renderà gloriosa la dimora del corpo. [...] Combattiamo dunque mediante la fede e un agire secondo virtù per acquistare quell’abito in questa vita, affinché, quando saremo spogliati del corpo, non siamo trovati nudi e non ci manchi in quel giorno ciò che glorificherà la nostra carne, perché, in quel giorno, ciascuno sarà glorificato anche nel corpo nella misura in cui, mediante la fede e lo zelo, avrà meritato di diventare partecipe dello Spirito Santo. Quei tesori, che ora l’anima serba dentro di sé, allora saranno svelati e manifestati al di fuori del corpo [...] Aprile è il primo mese per i cristiani, è il tempo della risurrezione nel quale i loro corpi saranno glorificati dall’ineffabile luce che d’ora in poi sarà in loro, cioè la potenza dello Spirito che diverrà vestito, cibo, bevanda, letizia e gioia, pace, ornamento e vita eterna. Lo Spirito divino che fin d’ora sono stati giudicati degni di ricevere, allora diverrà per essi luminosa bellezza che tutta risplende di celeste splendore» (Omelia V, 18-20). E infine: «Il Signore (per le anime dei santi) è loro casa, loro dimora, loro città. Divenuti figli della luce sono rivestiti della dimora celeste non fatta da mani d’uomo, la gloria della luce divina. Non si guarderanno più l’un l’altro con occhio cattivo, perché la malizia è stata divelta. Là non vi sarà né maschio né femmina, né schiavo né libero; tutti sono trasformati in una natura divina, divenuti “cristi”, dèi e figli di Dio. Là allora il fratello potrà rivolgere parole di pace alla sorella senza vergogna, poiché tutti e tutte sono uno in Cristo. Ciascuno guarderà all’altro godendo del riposo dell’unica luce e in questo vicendevole sguardo subito nuovamente risplenderanno nella verità, nella vera visione dell’ineffabile luce» (Omelia XXXIV, 2). Alcuni testi per meditare La risurrezione, speranza d’Israele; 2Mac 7 Gesù annuncia e insegna la risurrezione dei morti: Mt 22,23-33 // Mc 12,18-27 // Lc 20-27-40; Gv 5,19-47; 6,35-58; 8,48-59; 11,23-26. La Chiesa crede ed annuncia la risurrezione dei morti: At 4,2; 17,32; 23,6; 24,15; Rm 6,1-11; 2Cor 5,1-10; 13,4; Fil 3,10.20-21; 1Ts 4,13-18. Per la preghiera Azione di grazie Tu sei in verità, Signore, una sorgente pura e inesauribile di bontà. Ci hai rigettati e di nuovo ci hai accolti con misericordia. Ci hai odiato e ti sei riconciliato, ci hai maledetti e ci hai benedetti. Ci hai cacciato dal paradiso e ci hai ricondotti; ci hai tolto gli abiti di foglie per rivestirci di un mantello regale. Hai aperto le porte della prigione, per liberare i condannati. Con un’acqua pura ci aspergi, per purificarci delle nostre lordure. Adamo ormai non dovrà più arrossire, quando tu lo chiamerai, mai più la sua coscienza lo tradirà, non dovrà più nascondersi sotto l’albero del giardino. La spada di fuoco non chiuderà la porta del paradiso, e non impedirà più di entrare a coloro che si avvicinano. Tutto è cambiato per noi, che avevamo ereditato il peccato, in gioia splendente, e noi vediamo aprirsi il paradiso, fino al cielo. Il creato, terra e cielo, la cui unità fu allora spezzata, ritorna all’antica amicizia; gli uomini si uniscono agli angeli nella lode di Dio. Per questo vogliamo intonare a Dio il cantico dell’allegrezza, che una voce, sotto l’azione dello Spirito, ha una volta cantato profeticamente: La mia anima è rapita di gioia nel Signore,


perché mi ha ricoperto con le vesti della salvezza, mi ha ornata col mantello della letizia; come al fidanzato, pose sulla mia testa il diadema, come la fidanzata, mi ornò di gioielli! Colui che adorna la fidanzata è necessariamente il Cristo che è stato e sarà benedetto ora e nell’eternità. Amen. Gregorio di Nissa (IV secolo)

III PARTE Il tema centrale della Prima Epistola ai Corinzi Chi studia la Prima Epistola ai Corinzi si convince che essa è uno scritto dell’apostolo Paolo di primaria importanza per la teologia e per la Chiesa. Né si deve trascurare l’impressione che questa epistola, grazie al carattere di attualità per il suo tempo, possiede anche per noi, cioè per la nostra situazione ecclesiastica, teologica e personale, una grande attualità. È vero che essa non tratta il tema generalmente definito come paolino della giustificazione per la fede, cioè il rapporto tra fede e legge, tra fede ed opere. Ma ne tratta un altro, parimenti «paolino», un tema cioè che potremmo denominare brevemente e genericamente quello dell’edificazione della Chiesa o, più precisamente, anche se in maniera incompleta, il problema del rapporto tra gnosi e agape, tra conoscenza e amore. Se il problema del rapporto tra fede e legge è il tema che riguarda gli Ebrei, questo secondo riguarda i Greci. Esiste poi – sia detto di passaggio – ancora un terzo tema paolino, cioè il tema dei cristiani in quanto cristiani , il tema della sofferenza, o meglio dell’imitazione di Cristo nella sofferenza. Nessuno metterà in dubbio che esso venga trattato soprattutto nella Seconda Epistola ai Corinzi e nella Epistola ai Filippesi, l’«epistola del martire». Tutti i temi insieme però mirano all’unico problema fondamentale, quello dell’«essere in Cristo». La nostra epistola si occupa a fondo della «edificazione» della Chiesa a Corinto. Anche per mezzo di essa avviene questa edificazione della comunità di Corinto. Con ciò il tema della «edificazione» della Chiesa viene ad essere in certo senso limitato. Riceve cioè un carattere specifico per via della peculiarità di questa comunità ovvero per via della concezione particolare e della impronta spirituale e pratica del cristianesimo propri della Chiesa di Corinto. Si tratta di una Chiesa «entusiastica». In essa vivono convinzioni ed aspirazioni che vedevano per principio nella Chiesa una comunità di persone consacrate dal sacramento in una posizione intoccabile e di persone innalzate alla perfezione dallo pneuma carismatico. La comunità di Corinto evidentemente in una parte preponderante dei suoi membri, in virtù dell’irresistibile consacrazione sacramentale e in virtù del visibile predominio da parte dello pneuma meravigliosamente operante, si identificava, senza riserve, con la comunità dell’epoca escatologico-messianica. Confidando nella consacrazione divina del battesimo, che può attrarre nella sua comunità messianica anche gli amici defunti, e altresì nella libera partecipazione al banchetto dei beati nell’assemblea; rinforzata ancora ed innalzata nell’entusiasmo dello Spirito «ricco di doni» essa credeva di vivere già nel teleion, cioè nel «perfetto» in quanto «perfetta» e di avere parte alla basileia di Dio. Essa credeva di avere la «libertà» e cioè anche la «autorità» e il «diritto» spirituale, cioè di avere la exousia su di sé, su apostoli e maestri, sul cosmo, le sue condizioni e i suoi comandamenti, anzi di possederlo già da ora sugli angeli in maniera completa, sicura, incontestata e definitiva, di potersi anzi avvicinare arditamente agli angeli e di abitare quindi già in cielo. Il tema della nostra epistola, la «edificazione» della Chiesa, viene svolto dunque nei riguardi di una comunità che non solo esiste praticamente nell’esperienza di una vita pneumatica tangibile, ma che concepisce tale esistenza come quella essenzialmente e propriamente cristiana. Scopo della epistola che ora consideriamo non è genericamente di edificare la Chiesa, ma di edificarla in senso più preciso: richiamare cioè alla Chiesa nella sua configurazione concreta nel


tempo e nel corpo quella comunità che, in virtù di magia e di entusiasmo, si è staccata in teoria e in pratica dallo status della Chiesa e dalla provvisorietà di tempo e luogo, di successione e corporeità. Proprio questo compito rende la nostra epistola così attuale per la situazione ecclesiastica e teologica soprattutto della Chiesa evangelica. Proprio in essa infatti si trova diffusa, a nostro parere, una parte di quel malinteso proprio degli entusiastici di Corinto, difeso anzi per principio come giusta concezione della Chiesa. Non intendo con ciò, naturalmente la concezione magica – benché ci sarebbe da dire qualche cosa anche a questo proposito – ma quella pneumatica o carismatica. Non che noi siamo sommersi di carismi e viviamo praticamente come chiesa pneumatica; e non che noi pertanto arriviamo a giustificare teologicamente, in base a tale esperienza, la Chiesa puramente entusiastica. Anche in Corinto del resto non lo si è fatto; ma l’apostolo parla, come spesso fa, non solo in vista di fatti che gli stanno sotto gli occhi, ma anche in vista di conseguenze che già si profilano. Il principio tuttavia della Chiesa come comunità pneumatico-messianica è pur sempre divenuto, o anche rimasto, determinante nella teologia e nella pratica sia pure sotto travisamenti e trasformazioni. Ricordo ancora, sia pure provvisoriamente, prima di passare ai due temi principali dell’Epistola ai Corinzi, la cui trattazione confermerà la nostra asserzione, due fatti, che a questo proposito si imporranno a chi osservi la recente teologia evangelica e la recente pratica teologica. Io mi domando se quella caratteristica eliminazione di una escatologia concreta, con cui il lontano avvenire e insieme l’avvenire in generale viene nella fede non solo aperto e nel modus della fede anticipato, ma anzi racchiuso e innalzato, poiché esso esiste come avvenire via via nella fede; io mi domando, dico, se quel cadere a ciò congiunto di tempo e corporeità, quel fenomeno per cui estensione e allargamento vengono come inghiottiti, quello – sit venia verbo – spazzar via la lontananza nell’evento puntuale (propriamente ideale-puntuale) della fede, non rappresenti una analogia assai prossima con quella convinzione degli pneumatici di Corinto che fece loro coniare la frase: «non esiste una risurrezione dai morti». Come abbiamo visto infatti, questa dichiarazione nasconde probabilmente la seguente motivazione: la risurrezione è già avvenuta nella consacrazione sacramentale e avviene in me e per me via via nell’esperienza pneumatica, la quale è così testimonianza comprovante il suo avvenimento. È forse un caso che da una simile teologia della fede anche la concreta risurrezione del Cristo Gesù come fatto inerente alla storia della salvezza debba diminuire di importanza di fronte all’evento dell’«annuncio»? È forse un caso che, in conseguenza di ciò, questo annuncio non si fondi più sulla tradizione apostolica documentata a riguardo del fatto della risurrezione di Cristo, e con ciò escluda in genere la tradizione come elemento dell’annuncio (ed oggetto di fede), e diventi quindi un annuncio puramente carismatico nel senso press’a poco di un logos apokalypseos? Ed è forse un caso che non soltanto la escatologia individuale, ma anche la concreta escatologia generale venga eliminata da questo concetto della fede, così come avveniva per i Corinzi, di possedere già con l’entusiasmo la basileia? Ed è, infine, un caso che là con la teologia pneumatica e qui con quella «esistenziale» si sia sviluppato un caratteristico pathos di superiorità di fronte ad una teologia dogmatica considerata «ingenua»? Il secondo fatto che, quali che siano le diversità di situazione e la loro diversa interpretazione, rivela uno stretto rapporto fra pratica ecclesiastica e situazione di Corinto, è che nella Chiesa evangelica si trascura fin troppo di prendere in considerazione i passi di 1Cor XI,2ss e !Cor XIV, 33ss. Mentre da una parte si giunge a tal punto di biblicismo da voler stabilire l’ordinamento della Chiesa quanto più possibile sullo schema dell’epoca neotestamentaria, qui si trascurano invece determinati principi dell’ordinamento della Chiesa espressi in maniera esplicita e documentata dall’apostolo e si permette che la donna non solo partecipi nell’ordo carismatico della vergine alla preghiera della Chiesa, ma la si inserisce nell’ordo ufficiale burocratico dell’oikonomia tou mysteriou. Ciò si fa – e lo dimostrano le ragioni che vengono portate a sostegno di questo procedere – perché evidentemente da una parte si condivide la convinzione dogmatica degli entusiasti di Corinto intorno alla irrilevanza della differenza di sesso per la Chiesa; dall’altra parte si condivide l’opinione di quelli sul carattere fondamentalmente carismatico della comunità. In realtà «tempo»


e «tempi» sono annullati là nello «pneuma» qui nella «fede». Il fatto che là si parli di carisma e qui di fede può naturalmente rendere non inopportuno l’accenno alla effettiva analogia. Ma piuttosto da tutto ciò deriva un nuovo problema intorno alla situazione ecclesiastica e teologica, e cioè se, per caso, il concetto fondamentale della fede qui usato non sia appunto espressione della concezione entusiastica. Quali sono dunque i due argomenti che Paolo porta nella nostra lettera per correggere l’impostazione errata e le errate conseguenze della concezione entusiastica condivisa dalla comunità di Corinto? L’uno riguarda l’essenza della trasmissione della rivelazione, l’altro l’attuazione dell’esistenza cristiana. L’entusiasmo dei Corinzi credeva evidentemente che Dio si manifestasse prima di tutto in Gesù Cristo e poi essenzialmente per mezzo di una rivelazione personale ed individuale attraverso lo pneuma carismatico. Esso era convinto che si potesse conoscere la realtà di Dio primariamente ed essenzialmente attraverso la «sapienza» realizzata dallo pneuma. Secondo quella nozione di entusiasmo non era necessario evidentemente, per raggiungere una reale e salutare conoscenza, né una rigenerazione mediante la «sapienza» umana «privata», né una demolizione o rottura del suo processo di conoscenza. Non che esso non riconoscesse anche la necessità di una conoscenza soprannaturale, quando si volesse raggiungere la conoscenza di Dio. Ma secondo quell’entusiasmo tale conoscenza soprannaturale era data dal fatto che lo pneuma divino prendeva possesso dell’uomo per esempio nella forma dello pneuma profetico, senza che antecedentemente l’uomo, svincolato nel suo spirito (e in tutta la sua esistenza) dal suo individualismo particolaristico, trovasse un nuovo fondamento e un nuovo legame nel suo pensiero (e in tutta la sua esistenza). Di contro l’apostolo sottolinea che la rivelazione di Dio si attua in modo tale da apparire primariamente e fondamentalmente nell’obbiettivo kerygma apostolico, la cui sostanza materiale e formale è costituita dalla paradosis apostolica della Chiesa, ricevuta e trasmessa. Essa è tale che l’uomo si sottomette a questo annuncio nell’obbedienza della fede, annuncio che si impone all’apostolo come uomo singolo per una autorità propria ad essa inerente e col carattere di intoccabilità, ma tuttavia concreto fino al punto di esprimersi in una formula. Non che con tutto ciò l’evento dell’autodichiarazione di Dio stesso sia giunto a conclusione. Esiste anche per l’apostolo una gnosi individuale e carismatica o sophia che in ispirito abbraccia e diffonde i misteri di Dio. Ma questa sophia presuppone il kerygma e la fede, come pure tutti gli altri carismi si innalzano su questa base e vengono accesi e fondati attraverso il kerygma e la fede corrispondente. Con riferimento ai capp. I-III e al capitolo XV possiamo chiarire questo stato di cose soprattutto osservando come l’apostolo richiami all’ordine e alla verità la gnosi degli entusiasti, che perfino a riguardo dei problemi capitali finisce per confondersi e rendere l’esistenza cristiana ebbra, incerta e debole (cfr. XV,35.58; XVI,13). Egli non adduce contro di essa un’altra sophia, non la sua gnosi e neppure una qualunque rivelazione personale o insegnamento carismatico o interpretazione carismatica della Scrittura. Tutto ciò non viene dimenticato, tutto ciò ha anzi il suo significato al momento giusto. Come obbiezione decisiva e argomento fondamentale contro le errate convinzioni di fede degli entusiasti viene presentata la paradosis normativa e l’indiscutibile kerygma apostolico che nessuna gnosi può acquistare o dissolvere. Il kerygma, il cui nucleo fondamentale è formato dalla paradosis apostolica, esiste con funzioni di giudice intangibile, quasi norma fondamentale, base di ogni vera gnosi, da cui ogni gnosi deriva, che denuncia ogni gnosi costruita su se stessa e fondata in se stessa medesima come sophia tou kosmou toutou. Si tratta – cosa fortemente sottolineata da Paolo – del kerygma «stolto», stolto non solo per via del suo contenuto di cui anche una gnosi potrebbe senz’altro impossessarsi o almeno assimilarselo, ma anche per la sua forma: si tratta invero, nella sostanza e quindi nella sua struttura, di una comunicazione di fatti e non di dialettica e di analisi esistenziale. Questo kerygma che in sé nasconde la paradosis apostolica ponendola in primo piano nei passi in esame, e che pertanto ha la funzione in certo senso di dogma e che per brevità ci permettiamo di mettere sullo stesso piano appunto del dogma, questo kerygma dunque (o il dogma in senso vero e proprio) è il fondamento della gnosi in quanto è in grado di adempiere a due funzioni essenziali. In primo luogo cioè esso rende la «sapienza del mondo» una stoltezza, ovvero rivela come quella sia


stoltezza, dissolvendo l’intera tradizione spirituale degli uomini e il loro pensare. Ma li dissolve entrambi fissando contemporaneamente una nuova tradizione con un nuovo adeguato «pensiero», la fede. Questa istituzione di una nuova tradizione e di un nuovo modo di pensare corrisponde però soltanto al fatto che una nuova storia, e precisamente una concreta storia della «fine», la storia della risurrezione di Gesù Cristo dai morti, si è inserita come storia in questa nostra storia, che pertanto ha incontrato la sua fine, anzi porta la sua fine con sé. L’accesso a questa storia finale e quindi al logos di questa storia finale corrisponde alla qualità propria dell’una e dell’altro, di essere cioè una reale prolessi dell’eschaton che si attua nel corso della storia e della parola. Questa fede non esiste infatti né nel paganesimo né nel regno messianico, ma soltanto nel tempo intermedio della Chiesa. Essa corrisponde alla situazione escatologica della Chiesa anche nel senso che essa comprende e rivela in sé la coscienza del fatto che questo mondo non è più la creazione nella quale la libera giocosa sapienza di Dio ci richiamava dalle sue opere a Dio stesso, ma è il tempo della salvezza, nel quale occorre l’urgente impegno della fede. Il dogma e l’obbedienza per fede, che lo comprende insieme con i suoi attributi di salvezza, rendono possibile una reale rottura e una fine della tradizione umana e del suo pensiero,perché esso, nella sua estraneità di principio di fronte ad ogni sophia umana, rende capace l’uomo di svincolarsi da se stesso nell’ambito del fondamentale pensiero ovvero di essere, svincolato da se stesso, «di Dio in Cristo». In virtù del kerygma e della corrispondente fede sono spezzate tutte le aspirazioni della sapienza mondana nonché tutti gli atti posti intenzionalmente nell’ordine di questa, così che Cristo, nel più stretto senso della parola, «è fatto sapienza per noi da Dio» e noi siamo svincolati con ciò stesso dalla fatalità essenziale della nostra esistenza, dal kauchasthai del gloriarci, e possiamo ora «gloriarci di Cristo» e cioè, senza false illusioni, di Colui di cui veramente ci si deve gloriare. È infatti un errore credere che ci si possa «gloriare» solo nell’agire, cioè edificare la propria esistenza da se stessi. E ciò può avvenire anche nel pensiero. Nella misura stessa in cui la passione da sola non è pagana, così l’uomo non è ebreo per il solo agire. Anche nel pensiero egli rimane, «gloriandosi», attaccato a se stesso, mette in risalto se stesso «gloriandosi». A ragione, considerando 1Cor I,30 e I,17ss. abbiamo detto che la sophia, che non presuppone il kerygma e la fede, si trova per Paolo sul medesimo piano delle «opere della legge». Alla giustificazione in base alle opere nei confronti della legge corrisponde il rifiuto del dogma e della fede dogmatica. Entrambi sono espressione del kauchasthai, conclusione dell’autoedificazione dell’uomo. Ma la fede che giustifica in virtù della grazia, esclude non soltanto le «opere», ma anche la «sapienza». La seconda funzione esercitata dal kerygma-dogma è che esso fonda la Chiesa. In virtù del suo carattere generale, intoccabile, che si impone come logos dell’evento della salvezza, esso lega il singolo cristiano che gli presti obbedienza non ad una sophia individuale, ma all’unica sostanza dell’evento salvifico: con ciò esso dirige il pensiero del singolo fin da principio verso quei fatti comuni a tutti e aventi per tutti lo stesso significato, che sono il fatto fondamentale e generale dell’esistenza. Così non esiste un’unità della Chiesa – che si dica quel che si vuole – senza questo legame dei membri al logos dell’evento della salvezza, già compiutamente formulato, che li abbraccia e li informa. L’esempio delle piccole congreghe di Corinto che evidentemente si fondavano, oltre che sulla consacrazione battesimale intesa in senso magico, anche sulla gnosi dei singoli apostoli e maestri, è di per sé espressivo. E il modo con cui l’apostolo mette in questione , anche su questo punto, il loro cristianesimo, carismatico anti-dogmatico, è significativo. Egli mette loro sotto gli occhi, per dir così, innanzi tutto lo stolto kerygma che nella sua stoltezza supera infinitamente ogni sapienza degli uomini. Nel corso della frase (I,17) gli viene in mente che se si vogliono richiamare gli entusiasti della sophia all’unità dell’indiviso corpo di Cristo, è necessario riproporre alla loro attenzione l’importanza fondamentale della moria (stoltezza), che ha preso forma nel kerygma e che è la croce presente nella parola, croce che pertanto rivoluziona anche il nostro pensiero. Il kerygma o dogma non è però fondamento della Chiesa e della sua unità per il fatto che costringe gli uomini ad un unico indirizzo di pensiero, ma invece perché li libera radicalmente dalla tirannia delle opinioni umane, fossero pure opinioni cristiane. Anzi li pone per fede sui «nuovi» dati di fatto escatologici e su una nuova realtà su cui non ha potere alcuna opinione


umana o cristiana, in virtù di un atto di obbedienza: con questo, grazie alla realtà che così si esprime, viene ad aversi una «autorità» nei riguardi del credente. Un sintomo di questa libertà, procurata dal dogma, si manifesta spesso indirettamente nella nostra epistola. Non è un caso che non là dove il kerygma viene accettato nell’obbedienza e rimane fondamento della vita cristiana, ma piuttosto là dove il «libero» pneuma individuale è base dell’esistenza cristiana e anche del pensiero cristiano, finisca per avere una così grande importanza il vicendevole anakrinein, cioè il soggettivo e presuntuoso giudizio intorno alla condizione e soprattutto intorno alla scienza cristiana degli altri. Questo era proprio il caso degli ambienti entusiastici di Corinto, questa è sempre la nota caratteristica delle sette; questo è ciò che avviene là dove per principio si pensa in maniera dogmatica, più senza essere più bene sicuri del dogma. Certamente esistono, là dove c’è il dogma, decisioni dogmatiche e quindi limitazioni dogmatiche ed ecclesiastiche. Ma sono proprio queste che preservano la Chiesa, grazie all’obbiettività del loro modo di procedere, da ciò a cui Paolo allude quando dice «ci si gonfia a favore dell’uno contro l’altro» (1Cor IV,7). Quanto poi al rapporto tra kerygma e gnosi si potrebbero dire ancora molte cose. Ma due cose soprattutto si potrebbero ricordare con l’apostolo. Innanzi tutto il fatto che nella Chiesa esiste senz’altro una gnosi legittima, cioè, per dirla di nuovo in forma concisa, una conoscenza mistica accanto a quella dogmatica, che in realtà presuppone quest’ultima, ma cresce anche soltanto nella misura dell’amore (1Cor II,6ss; III,1ss). E in secondo luogo si potrebbe, come fa appunto l’apostolo (1Cor IV), a conclusione delle osservazioni fatte intorno al rapporto tra gnosi e kerygma, venire a parlare delle relazioni tra kerygma e apostolato (o, più generalmente ministero) e tra carisma e ministero. Gli entusiasti di Corinto interpretano questo ministero partendo dal carisma, il che significa che non lo comprendono affatto. La loro mancanza di rispetto nei confronti dell’apostolo è semplicemente un effetto di questa loro incapacità di comprendere. Il loro criterio per giudicare intorno ad un determinato potere è il possesso e l’effetto dello pneuma carismatico, il quale può soltanto rendere efficace l’esercizio di un ministero, ma mai essere il fondamento del ministero stesso. Essi scordano anche qui la dignità escatologica, cioè l’istituzione e trasmissione della oikonomia da parte del kyrios stesso e la indisponibilità ed «obbiettività» connesse con ciò. Essi dimenticano che il ministero stesso e addirittura la sua amministrazione non si possono discutere in base al carisma, e che quindi l’unico criterio nei confronti del ministero è soltanto la «fedeltà». Essi non sanno neppure che il ministero, proprio in grazia della sua estraneità escatologica e della sua obbiettiva forza ordinatrice, nonché grazie alla sua autorità che comanda e impone obbedienza, rende il carismatico libero di dedicarsi al suo servizio particolare, cioè l’edificazione della Chiesa e, quindi, in quanto ordo efficace in sé, rende possibile il vero e proprio carisma, il carisma disinteressato. Ma tralasciamo ora questo argomento. Dobbiamo infatti ancora toccare il secondo tema centrale della nostra epistola. La Chiesa degli entusiasti di Corinto non corre soltanto il pericolo (ne è in parte già vittima del resto), di mal interpretare la rivelazione nella sua concretezza escatologica, ma anche l’esistenza cristiana. Nella nostra lettera ciò viene espresso ripetutamente. Essi credono di praticarla già in quanto sono carismatici, consacrati dal sacramento. Credono di essere cristiani in virtù dello pneuma magico e carismatico. Credono di essere giustificati in virtù della consacrazione e del dono dello spirito – in particolare il possesso della gnosi. Pertanto pensano di essere «liberi» e credono che tutto sia a loro disposizione, essi a se stessi nel loro corpo, il prossimo, il mondo, nei suoi rapporti sociali ad esempio, le forze demoniache, gli angeli, e ancora la Chiesa con tutti gli apostoli e i fratelli. Non si ritraggono spaventati pertanto di fronte alla porneia, e chiedono, forse più per una certa civetteria o forse anche per una certa sensibilità estetica (o si tratta forse di ironia di fronte al candore dell’apostolo?), come ci si possa mantener puri in questo corrotto mondo pagano; prendono inoltre piuttosto alla leggera la coscienza del fratello; fanno sedere il povero a sinistra del banchetto divino ecc. Dal momento però che essi pensano di essere giustificati in base alla loro conoscenza e forza carismatica, anzi di essere «perfetti», si credono naturalmente liberati anche da ogni minaccia da parte di forze contrarie. Non si pone nemmeno, per loro, in linea di principio né in pratica, l’eventualità di cadere. E come essi seriamente non sono più mortali – dal


momento che dallo pneuma vengono di continuo trasportati in cielo, anzi con la gnosi già si trovano in cielo e parlano col dono della glossolalia e nella lingua degli angeli – così pure essi pensano di non essere più seriamente soggetti a tentazioni. Pertanto possono affrontare l’esperimento delle nozze spirituali, o per lo meno esse sembrano essere per gli «spiritualisti» che si trovano tra quegli entusiasti, un’espressione adeguata della loro vita sublimata dallo pneuma. Possono anche audacemente accettare u invito a banchetto nella casa del Dio Serapide, offrirgli eventualmente libagioni insieme con gli amici o anche partecipare alle danze in onor degli dei. Consapevoli della loro «libertà» essi non notano quanto siano caduti ormai in una effettiva schiavitù e divenuti preda della potenza della loro carne, dei rapporti mondani, degli uomini e dei demoni. Soprattutto non notano come sfugga loro la realtà, come la loro vita divenga astratta, isolata, immeschinita. Essi sottraggono alla realtà qualcosa di essenziale, cioè quella reale decisione determinata dai fatti concreti della corporeità e temporalità dell’esistenza umana, che è anzi la necessaria forma dell’esistenza cristiana stessa. Il loro esser cristiani si svolge nella sfera dello spirito e non abbraccia per dir così la sfera della pratica. Essi isolano però anche la loro esistenza e cioè non soltanto per quel modo astratto a cui sopra ci riferivamo, ma fin dall’impostazione iniziale., L’esistenza, come abbiam visto, vien fondata nell’esperienza individuale del Dio che si manifesta nello pneuma speciale, ma non si fonda nella fede nel kerygma, che si rivolge a tutti senza distinzione, affrontando il quale l’individualità rimane spezzata e il singolo, svincolato da se stesso, viene legato a Dio insieme con il suo prossimo secondo il modo originario. Proprio questo esasperato individualismo dell’uomo naturale prigioniero di se stesso, questo illuminato e giustificato individualismo del saggio che non ha capitolato di fronte allo stolto kerygma, rende all’entusiasta così difficile, anzi impossibile, capire ciò che è la Chiesa e riconoscerla come ciò che viene predisposto per l’esistenza cristiana e ad essa fin dal principio, ordinato. Sintomo di questo isolamento essenziale dell’esistenza è non soltanto la formazione di singole comunità entusiastiche nella ecclesia di Corinto, ma anche l’individualistico disconoscimento del culto come anche dei carismi. Non è un caso che proprio in questa lettera l’apostolo orienti sovente lo sguardo dei Corinti verso la totalità della Chiesa (I,2; IV,17; VII,17; XI,16; XIV,33) e che, come si è detto con ragione, incominci a formarsi un diritto ecclesiastico generale. Infine bisogna osservare anche come l’interpretazione entusiastica dell’esistenza cristiana renda unilaterale questa esistenza stessa e con essa tutta la vita della Chiesa, e la immiserisca nella sua sostanza. È vero che l’apostolo parla della ricchezza in Cristo e del fatto che i cristiani di Corinto non soffrono della mancanza di alcuno dei carismi; e questo ci viene detto e spiegato chiaramente nei capp. XII-XIV dell’epistola. Ma, al di fuori dei carismi, non vi sono molte cose rimarchevoli sa segnalare intorno a questa comunità. Facendo un confronto con la totalità della vita cristiana ne viene messa in risalto qui sono una parte e questa parte si ripete di continuo. Proprio i grandi carismi – se è lecito definirli ancora così – fede, speranza, carità, non possono svilupparsi senza il fondamento del dogma, né colmare l’esistenza cristiana con l’inesauribile ricchezza delle loro esperienze. Questo Cristianesimo spirituale, o meglio intellettuale, nonostante la sua irragionevolezza, che rivela nella sua impostazione un carattere privato, che non si nutre della feconda realtà totale e non vive fin dal suo fondamento nella più intima comunione di tutti i suoi membri, sarebbe facilmente condannato a diventare una moltitudine di piccoli circoli entusiastici destinati a ulteriormente suddividersi, in cui intellettualismo ed individualismo farebbero sì che la vita cristiana diventerebbe sempre più unilaterale e misera, finendo col farla morire del tutto. Ma l’apostolo ha affrontato tutto ciò tentando di liberare i cristiani di Corinto, anche in considerazione dell’esistenza cristiana, dalle illusioni di un cristianesimo fondamentalmente entusiastico. La storia dimostra che egli è riuscito nel suo intento. Abbiamo visto che Paolo non dubita che il cristiano possegga in dono lo pneuma e che la vita cristiana sia vita pneumatica. Sarebbe dare una falsa interpretazione del senso del suo intervento, supporre che l’apostolo voglia abbassare la vita cristiana al livello di una morale razionale o legalistica e voglia, per così dire, ridurla ai suoi minimi termini comuni grazie ad un formalismo dogmatico ed etico, e inquadrarla in una struttura ecclesiastica burocratica, che varrebbe come contropartita di un «libero» entusiasmo.


Egli sa e ripete che il cristiano è «santificato» in virtù di fede e battesimo, e che di continuo viene fortificato nel suo essere in Cristo grazie alla partecipazione alla mensa del Signore. Egli sa che lo Spirito per mezzo della Parola dischiude l’essere pneumatico del cristiano ad un’esistenza pneumatica e che il cristiano in tale esistenza (nella preghiera ad esempio), può superare se stesso per avvicinarsi agli angeli.. Egli sa che esiste una gnosi, che esistono rivelazioni e profezia ed altri doni di grazia e che appunto in questi la vita cristiana non è solo meravigliosamente copiosa, ma è anche tale da avere «possanza». Egli sa che il cristiano dispone di ogni cosa e non solo in linea di principio, partendo dalla sua origine e nel suo essere, ma che questo disporre diviene anche effettivo e che la exousia cristiana non rappresenta soltanto un «diritto», ma un effettivo «potere». Egli sa però anche – e lo mette in risalto di fronte agli entusiasti di Corinto – che questa possibilità di «disporre», così come l’effettivo «disporre» del cristiano, divengono operanti solo nel senso che egli si mette e si mantiene a disposizione del Signore e permette che si «disponga» di lui. Egli sa che lo pneuma che elargisce i carismi è il medesimo pneuma che libera l’uomo da se stesso, che esso è lo pneuma di Cristo, il quale ha sottratto l’uomo dalla possibilità di «disporre di se stesso» e lo sottrae ad essa di continuo in quanto lo rende «disponibile» per Dio e per il prossimo. Inoltre egli sa che i doni di questo spirito, in quanto doni dello Spirito, non vengono mai dati, né divengono operanti, se non nel senso che il cristiano è «disponibile» in modo indiviso e concreto, fin dal suo fondamento e si dentro la sua «prassi». Ciò significa però che egli sa che il cristiano è giustificato non tanto grazie al possesso dei carismi, e quindi nell’entusiasmo, ma piuttosto nell’esistenza pneumatica di concreta donazione di sé a Dio e al prossimo. Egli sa inoltre che questa esistenza pneumatica è continuamente e assai facilmente minacciata, appunto perché nient’altro essa infine richiede e significa se non di esistere nell’amore. Non possiamo più ritornare sui particolari: ma ricordiamo che cosa l’apostolo veda come attuazione della condizione pneumatica del cristiano e a che cosa e a che cosa egli lo richiami per farlo essere sicuro di fronte ai pericoli di tale condizione. Il fatto fondamentale dell’esistenza cristiana o pneumatica è il «distanziarsi» da sé, nonché l’intima ed estrema liberazione da se stesso e dal mondo. Praticamente ciò si attua nel senso che il cristiano riconosce la posizione occupata nella società al momento della chiamata e non esige per sé alcun mutamento sociale, poiché il legame al kyrios lo ha chiamato a quella libertà che gli fa sentire tutti i pesi dei legami terreni come inconsistenti e in via di estinzione. L’esistenza cristiana si attua nel senso che il cristiano sceglie le nozze oppure trattiene colei che ha già scelto con tutti gli obblighi relativi, ma sempre in modo da non dimenticare per questo la breve provvisorietà di tutto, ma anzi, pur legato alla sua donna, permane tuttavia nel matrimonio con intimo distacco. Tutto ciò può anche attuarsi nel senso che uno, mantenendo il carisma della enkrateia (continenza), percorra la via eroica della castità e pratichi l’«indiviso» servizio del Signore. Può anche capitare che si tratti semplicemente di uno che voglia sfuggire alla porneia oppure alla eidololatreia o rifiuti a se stesso un qualcosa di essenzialmente indifferente per amore del suo fratello. Si tratterà in ogni modo, per poter attuare questo movimento di liberazione e guadagnare il distacco nell’ambito della vita cristiana , di ottenere che il cristiano si sforzi sempre di superare le difficoltà che si frappongono a tale «uscita» dalla propria esistenza; e in modo, d’altra parte, che questi accresca, lavorando su se stesso, la capacità di portare a termine tale movimenti di «evasione». L’ascesi, come abbiam visto, fa parte necessariamente, secondo la convinzione dell’apostolo, del «corso» della vita cristiana. In questa liberazione da se stesso la vita cristiano-pneumatica è un’esistenza «autocritica», cioè tale che nel suo svolgimento si rivolge essenzialmente con senso critico verso se stessa. Soltanto in questo svolgimento pratico e critico si conserva e si palesa lo stato pneumatico del cristiano. Si può anche dire più semplicemente: secondo Paolo, soltanto nel sacrificio continuo, il vero pneumatico si dimostra realmente quale è. In verità però questa esistenza «critica» del cristiano, per cui egli non vive mai a proprio piacimento, sta in una situazione di crisi. Il sacrificio è in tanto vita derivante dallo pneuma di Cristo, in quanto è sacrificio dell’amore. Ed ogni rinuncia e liberazione a sé da sé e al mondo dal mondo, è reale e non semplicemente uno dei movimenti apparenti dell’umanità, solo in quanto essa sia partecipazione e compimento dell’amore. Solo nell’amore colui di cui si può disporre – nell’amore – si pone veramente a «disposizione» e può a


sua volta liberamente «disporre» di tutto, ottenendo così la libertà. E parimenti solo attraverso l’amore tutti i doni dello pneuma raggiungono la loro realtà, nonché una vera, cioè «edificante», efficacia. Essi si destano per dir così alla vera vita, quella che crea la realtà, se sono compenetrati e nella misura in cui nel loro intimo sono compenetrati dall’amore. Solo se è resa ardente dall’amore, la gnosi non è più vuota; solo quando sono nutriti dallo spirito d’amore i carismi sono in grado di donare. L’esistenza cristiana è veramente «entusiastica». Essa è un esistere nell’abbondanza dell’amore. Con maggior precisione si può dire: essa è un «critico» entusiasmo dell’amore fondato sull’obbedienza della fede. Con ciò essa è sottratta a quella pericolosa astrazione nella quale vissero gli pneumatici di Corinto e nella quale la vive chiunque veda già la giustificazione dell’esistenza in un principio spirituale, per es. in quello della fede. Questa «fede» può forse essere compresa sotto forma della fede dogmatica (che essa però non è) cioè nel senso di una fede dottrinale; oppure piuttosto sotto forma della fede carismatica (che parimenti essa non è), cioè nel senso di una fede «esistenziale». Caratteristico della errata interpretazione della fede è che l’esistenza cristiana si svolga soltanto nel movimento di questa fede e che si creda giustificata soltanto perché credente e non più «minacciata» nella fede. Secondo tale interpretazione, sbagliata è tutt’al più quella fede che è sempre di nuovo da conquistare, ovvero che viene sempre di nuovo donata, così come il carisma fluttuante. Ma poiché essa è da sempre un dono, non si può veramente parlare di pericolo. Un simile cristianesimo della «fede» – beninteso non di quella dogmatica o di quella carismatica bensì di un principio di fede tutto particolare – può assumere a volte un tale grado di astrazione che il fatto di essere cristiano si esaurisce in uno strano movimento dialettico, la cui somiglianza con la gnosi di Corinto si rivela per via di un genere di entusiasmo dialettico e di una evidente arroganza dialettica. È altresì significativo che, con una simile dialettica astratta della fede, solo a fatica si possa congiungere un’«etica», mentre al massimo si giunge ad una certa morale meschina, nei confronti della quale quegli stessi entusiasti dialettici si credono «criticamente» superiori. Se l’esistenza cristiana o pneumatica è, per l’apostolo, un entusiasmo dell’amore, essa è pure fin dall’inizio sottratta all’isolamento cui la conduce un’astratta coscienza pneumatica. Se l’esistenza pneumatica si muove non soltanto nella gnosi oppure nella dialettica della fede, ma se è un movimento totale del dono di sé, allora essa terrà conto fin da principio del prossimo, anzi vivrà fin da principio in un atteggiamento che si muove dal prossimo e torna verso il prossimo. Come il dogma pone fin da principio il cristiano nella fede obbediente della Chiesa, così la vita della Chiesa viene vissuta fin da principio nell’amore. L’amore «edifica» in senso assoluto. E pertanto edifica quello che è l’«edificio» per eccellenza, la Chiesa. Infine l’entusiasmo dell’amore fa sì che, per il fatto che riesce ad afferrare la realtà, la vita cristiana e la fede cristiana mai cadano nell’unilateralità e nella sterilità, in cui finisce per cadere ogni cristianesimo astratto, proprio di certe opinioni di singoli individui, avente altresì colorito gnostico. Abbiamo già parlato della caratteristica riduzione della «sostanza» cristiana che si verifica attraverso la irrealtà di un cristianesimo carismatico tipo quello degli entusiasti di Corinto. Lo stesso svuotamento si può osservare nel caso dell’entusiasmo dialettico. Se la vita cristiana si svolge per principio e di fatto nel movimento della dialettica di fede, viene per dir così a rimpicciolirsi il campo dell’esperienza cristiana, e non si può quindi parlare né di imitazione in senso concreto, né di mistica, né di gnosi in senso proprio, né, in modo serio, di vita spirituale. Il cristianesimo diviene artificio e non più esistenza. Il fatto che esso rimanga tale dipende essenzialmente da questo, se e in quanto l’uomo sappia aprirsi allo pneuma a partire dalla sua intimità più profonda fin nel vivo dell’azione; ossia, in pratica: se e in quanto egli afferri la realtà, nel movimento escatologico dell’amore. Il testo riportato in questa terza parte è quello di un fondamentale articolo, integralmente trascritto, di: HEINRICH SCHLIER, Il tempo della Chiesa. Saggi esegetici (ed. or. 1955), EDB, Bologna 19814, 236-254.


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