Il lavatoio di Santa Veneranda e Ponte Valle

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IL LAVATOIO DI SANTA VENERANDA e PONTE VALLE (ANTICA FONTE MAGNANA)

Ricerche di Silvio Picozzi


Prefazione E’ motivo di particolare soddisfazione presentare il restauro dell’antico lavatoio di Santa Veneranda e Ponte Valle che il Comune di Pesaro e segnatamente l’Assessorato alle Nuove Opere e Manutenzioni ha recentemente riportato all’antico decoro e che la documentata e appassionata fatica dell’autore, Silvio Picozzi, consente oggi di riscoprire in tutta la sua dimensione storica e sociale. La soddisfazione nasce dal fatto di vedere progressivamente realizzato il progetto, che si può titolare “ di recupero e conservazione della memoria”, definito ed avviato all’inizio del mandato di questa Giunta e che aveva già trovato, non molti mesi fa, concreto momento di riscontro con il restauro dell’antica Fonte di Sajano. Non si tratta cioè di preservare un reperto del “tempo che fu”, ma soprattutto di tramandare ai giovani e alle future generazioni il ricordo di una quotidianità faticosa ( in questo caso soprattutto quella femminile), uno scrigno prezioso di memoria, uno stile di vita a cui, specialmente oggi, dovremmo richiamarci per superare solitudini ed egoismi che inaridiscono la nostra società. Ed è in questa ottica che l’Amministrazione Comunale ha riportato alla luce questo tratto di vita cittadina con ricchezza di riferimenti storici e sociali percorrendo la strada della scoperta o meglio riscoperta non solo di una antica fonte ma anche di un frattale di vita quotidiana. Con il recupero del lavatoio di Santa Veneranda pensiamo di aver rimosso un po’ di quella polvere dell’oblio, che tutto omologa, che tutto uniforma, che tutto nasconde, riscoprendo alcune pagine importanti di vita vissuta della nostra comunità. Un grazie sentito alla Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, per aver condiviso con noi il progetto ed averlo sostenuto con entusiasmo e disponibilità , dimostrando ancora una volta una sensibilità straordinaria nei confronti della Pesaresità. Ilaro Barbanti Vice Sindaco del Comune di Pesaro


Premessa Mi sono posto molte volte la domanda di come le giovani generazioni vivono le novità tecnologiche che ogni giorno ci vengono proposte dal mercato e se le affrontano con la meraviglia, la sorpresa e l’angoscia che proviamo noi che siamo nati più di mezzo secolo fa. A questi tre stati d’animo si aggiunge anche l’ansia di dover necessariamente e velocemente imparare il corretto uso di un PC, come navigare su internet o mandare un SMS. Tutto questo per non essere “esclusi” dal mondo che ci circonda e che sembra correre sempre più veloce. Prima ho scritto ”la meraviglia e la sorpresa” perché non si può sfuggire alla bellezza di queste stupende innovazioni che offrono infinite possibilità di immergersi nella conoscenza dei più vari e vasti campi delle conoscenze umane. Chi è già entrato nella “maturità” queste sensazioni le percepisce subito ed intensamente perché ha ancora vivi i ricordi di un mondo ormai passato e che i giovani fanno fatica ad immaginare. Noi non possiamo dimenticare i ricordi della nostra gioventù quando, per esempio, tutta la famiglia riunita, e in qualche occasione anche con i vicini di casa, si guardava i programmi “sperimentali” della RAI tutti seduti davanti ad una delle prime televisioni con lo chassis in legno. Oggi risulta difficile parlare ai giovani del telefono di casa appeso al muro e “duplex” ( una sola linea per due famiglie) o il giorno che abbiamo fatto il primo viaggio, per lavoro, su un aereo “turboelica” lento e rumoroso mentre oggi sembra cosa normale partire per le vacanze alle Maldive volando a 1.000 km. all’ora e a 10.000 metri di quota. Ma è giusto che i giovani non siano sufficientemente informati e fatti partecipi di un mondo diverso in cui i loro padri e i loro nonni sono vissuti? Il duro lavoro, i sacrifici, le fatiche e le difficoltà che furono allora affrontate e superate, dovrebbero essere sempre presenti nelle menti delle nostre nuove generazioni per alimentare un nuovo senso di rispetto, di considerazione e di riconoscenza nei confronti di chi li ha preceduti. Oggi anche i messaggi promozionali della televisione parlano di bucato bianco o di candeggio e ti propongono il nuovo modello di lavatrice, o il nuovo detersivo e quasi tutti, donne e uomini, non


hanno difficoltà a “fare il bucato”; basta aprire lo sportello della lavatrice, inserire la biancheria da lavare, chiudere lo sportello, caricare il detersivo e girare la manopola del “programma” e tutto è fatto semplicemente e senza alcuna fatica. Forse pochi, in quel momento, si rendono conto che questa facile operazione risolve un problema che invece fino a 50 -60 anni fa rappresentava un gravoso lavoro. Tutta la biancheria infatti doveva essere lavata a mano dalle donne e molto spesso ciò avveniva in lavatoi all’aperto o lungo il greto di un fiume con l’acqua gelida che d’inverno spaccava le mani e con la schiena dolorante perché curva sulla pietra su cui si sfregavano i panni. Da quando l’uomo ha deciso di coprire il proprio corpo con dei panni, cioè da sempre, le donne si sono accollate questo ingrato compito di provvedere all’igiene, almeno degli indumenti, e quindi da migliaia di anni hanno ripetuto sempre le stesse fatiche fino a … pochi decenni fa. Possiamo dimenticare completamente in così poco tempo questo lungo e duro lavoro delle donne? Io non lo credo. Mi sembra persino impossibile che una attività che per secoli e secoli si è ripetuta uguale e faticosa possa essere totalmente cancellata dalla mente dei giovani di oggi. Dobbiamo fare in modo che i pochi lavatoi rimasti, quasi tutti abbandonati e in totale degrado, vengano riportati ad uno stato di accettabile decoro soprattutto come forma di rispetto per tutta quella fatica di cui sono stati testimoni e siano un ricordo tangibile di un mondo scomparso e senza il quale, con tutte le fatiche ed sacrifici, oggi non potremmo godere di tante comodità e di un elevato tenore di vita. Ridando acqua al lavatoio di Santa Veneranda non si riqualifica solo un semplice manufatto, ma lo si trasforma in un “monumento” alla cultura di una società e un segno forte e chiaro, per i nostri giovani, dell’appartenenza ad una comunità dove per secoli sono stati rispettati i valori del lavoro, della solidarietà e del reciproco rispetto. Negli archivi vi sono alcune foto che ritraggono delle lavandaie lungo i greti dei fiumi o dei un canali ma forse perché in bianco e nero o forse perché rovinate dal tempo o per l’allora scarsa qualità fotografica, trasmettono un messaggio di povertà e fatica che non ho voluto riproporre.


Per ricordare quindi la “vita” dei lavatoi, così simile in tutto il nostro paese ho preferito inserire le riproduzioni di due quadri che ripropongono i lavatoi di una campagna del nord e di una del sud dell’Italia. Cambiano le luci e i colori ma le schiene curve per il lavoro sono dovunque le stesse.

Olio su tela, 77 x 113,5 cm di Bartolomeo Bezzi (Ossana TN 1851 Cles TN 1923)

Opera

di

Lalla

Luciano Vignali


Il lavatoio dopo i lavori di restauro. E’ ritornata, dopo tanti anni, l’acqua pulita nelle belle vasche dai bordi di pietra.


Il Lavatoio di Santa Veneranda e di Ponte Valle Una delibera del Comune di Pesaro ha previsto la realizzazione delle opere necessarie per il consolidamento ed un adeguato restauro dell’antico lavatoio di Santa Veneranda e di Ponte Valle che da molti anni, non più utilizzato, era in un totale stato di abbandono e di degrado. Il Vice Sindaco Dott. Ilaro Barbanti, Assessore per le Nuove Opere e Manutenzioni, ed il Geom. Aroldo Pozzolesi, quale responsabile del Centro Operativo del Comune di Pesaro, hanno affrontato questo compito con entusiasmo e con grande impegno, portandolo a termine in tempi molto brevi e con un risultato che tutti i cittadini possono ora ammirare. Il lavatoio è ubicato fra le due frazioni di Santa Veneranda e Ponte Valle in corrispondenza dell’incrocio tra la Strada Provinciale e la Strada Maiano. Per tanti anni, molti come risulta dalla ricerca storica, il lavatoio svolse la sua funzione e fu utilizzato dalle donne di Santa Veneranda, di Ponte Valle e di Andrea Costa per lavare i panni di tutti gli abitanti della zona.

Dante Trebbi – “Pesaro storia dei sobborghi e dei castelli” Vol. II – 1989 Foto n. 23


E’ ancora vivo nel ricordo di tutti come dal 1960 circa in poi il lavatoio di Santa Veneranda sia stato invece “declassato” fino a diventare un semplice punto di lavaggio auto, e non sia stato più oggetto di una pur minima manutenzione o di una periodica pulitura delle vasche La struttura dell’attuale lavatoio ha subito, nell’arco della sua lunga vita, notevoli modificazioni. Bisogna precisare che in passato tutti i lavatoi erano parte integrante di una struttura che nasceva dall’esistenza di una ricca e costante fonte di buona acqua. Oltre quindi alla fonte, utilizzata per dissetare gli uomini, venivano realizzate due tipologie di vasche, una utilizzata per abbeverare gli animali e le altre per le diverse operazioni richieste da un lavatoio. Proprio il recente restauro del nostro lavatoio ha messo di nuovo in luce tutto il complesso antico dovuto alla presenza di una fonte alimentata da una ricca sorgente di acqua pura, tanto da essere considerata apportatrice di salute e accomunata dagli antichi alle divinità locali. Successivamente, per secoli, svolse la funzione di fonte per dissetare gli uomini e per aiutarli in diverse attività di sopravvivenza, per abbeverare gli animali allevati dall’uomo ed infine per fornire acqua sempre fresca per aiutare le donne a lavare i panni. Basti pensare che già nell’anno 1347, come vedremo ricordato in un antico documento, la comunità di Pesaro decideva l’inizio di lavori di “consolidamento” a questa struttura che evidentemente richiedeva una manutenzione straordinaria dato il suo impiego e la sua importanza per la comunità. Nei primi anni del secolo scorso venne costruita una copertura per il lavatoio, originariamente “aperto”, per proteggere dal sole e dalla pioggia le donne impegnate nel già duro lavoro di fare il bucato. Durante l’ultimo evento bellico , anche la copertura del lavatoio fu “diversamente” utilizzata ma, negli anni successivi, venne ripristinata. Nel corso degli anni anche la Strada Maiano, subì notevoli lavori di ristrutturazione che comportarono la sopraelevazione della sede stradale e il conseguente “interramento” del lavatoio che venne solo protetto con un muro in cemento armato.


Foto del lavatoio di Santa Veneranda prima dei lavori di restauro.


Le fotografie seguenti sono state realizzate nell’anno 2001 dall’Ing. Aldo Benvenuti di Pesaro per documentare un suo progetto preliminare di restauro, che non ebbe poi seguito.

Vasca principale del lavatoio

Vasca

di

risciacquo

prima del restauro


Strutture in legno e lamiere copertura

della del

lavatoio prima del restauro


Le storie del Lavatoio ( Ricordi di un mondo scomparso) I racconti di Aldo Primori Da anni il lavatoio non viene più usato ma sono in molti gli abitanti della zona, logicamente fra quelli non più giovani, che collegano l’acqua di questa fonte a dei ricordi molto forti dei primi anni di gioventù. Il lavatoio di Santa Veneranda rappresentava, solo alcuni decenni fa, un importante punto di riferimento per i giovani della comunità locale ed un vero e proprio luogo di incontro sociale. Un uomo che è nato, cresciuto e vissuto a pochi metri dal lavatoio, il suo terreno infatti vi confina, è Aldo Primori, che abbiamo voluto incontrare per avere delle testimonianze dirette. Uomo di aspetto e di carattere giovanile, anche se ha superato gli ottanta, lo si può incontrare con la zappa sulla spalla, dopo un giorno di lavoro dedicato alla cura del suo rigoglioso orto. Sempre pronto a raccontare tutta la vita che si svolgeva attorno al lavatoio, Primori potrebbe essere considerato “il custode del lavatoio” per l’affetto con cui ne parla e la passione che trasmette con le sue parole. Nei suoi racconti i numerosi ricordi si susseguono e si accavallano nell’entusiasmo di descrivere una vita, un mondo che in poco tempo è scomparso e che sembra essersi spostato così lontano nell’arco di pochi anni. Il nostro mondo ha subito, e subisce quotidianamente, delle accelerazioni che l’uomo riesce a “compensare e ad assorbire” ma che comunque lasciano perplessi e sbigottiti solo se ci si ferma un istante e si rivolge l’attenzione a quello che è appena trascorso. I ricordi di Primori si rifanno a tempi, abitudini e usanze che sono diventate così lontane e così “antiche” che lo stesso Primori, istintivamente, fa in modo che il suo racconto assuma quasi l’aspetto di una favola di “altri tempi”. Ti racconta di quando “Scorgador” di Santa Veneranda portava le sue numerose pecore ad abbeverarsi all’acqua della sorgente e di come quest’acqua fosse indispensabile anche per le mucche che Primori allevava nel terreno accanto e che lo ripagavano di un buonissimo


latte. Alcuni giorni il latte appena munto veniva proposto ai molti abitanti del luogo che frequentavano l’area del lavatoio: quale miglior punto di vendita? Primori, cinquanta anni fa, capì che un mondo, quello dei contadini che da secoli vivevano secondo regole e leggi immutabili nel tempo, sarebbe rapidamente cambiato e in gran parte scomparso. Per questa ragione si rivolse ad un amico , Gino De Angelis, bravissimo ceramista1 anche lui di Santa Veneranda, e gli chiese di rappresentarlo mentre mungeva la sua “Bionda” perché rimanesse un ricordo per i suoi nipoti.

Ritorniamo ai racconti sul lavatoio dove la mamma del Primori andava il primo giorno della settimana, perché di lunedì il lavatoio non era occupato dalle “lavandaie” che in quel giorno effettuavano le consegne in città e ritiravano la biancheria da lavare recandosi presso le singole famiglie. Fra Santa Veneranda e Ponte Valle, le lavandaie erano sette o otto e cercavano di contribuire alla sopravvivenza delle loro famiglie con gli scarsi guadagni di un lavoro così faticoso.

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Gino De Angelis ( 1924-1991) è anche l’autore di una bellissima raffigurazione di Santa Veneranda, esposta nella chiesa parrocchiale, una importante opera in ceramica decorata, che rappresenta una testimonianza dell’elevato grado artistico raggiunto dalla decorazione ceramica a Pesaro nello scorso secolo.


“Erano poverine” e molto spesso lavavano i panni quando era ancora buio e mettevano, per farsi un po’ di luce, una candela dentro un secchio di legno perché “tireva el vent”. Finito il bucato, stendevano i panni “sulle fratte”. Ma il ricordo più vivo è legato al lavatoio come punto di incontro dei giovani che nelle calde sere estive si riunivano per bere l’acqua fresca resa frizzante da una punta di citrato, per mangiare “le rustichelle” e per scambiarsi le prime parole d’amore L’acqua della fonte, oltre ad alimentare il lavatoio, veniva anche utilizzata, come già detto, per dar da bere agli animali ma anche per “stagnè le bott”, per preparare l’acqua per le viti e, non ultimo, impiegata per dissetare gli abitanti della zona. Primori infatti racconta che, tramite condotte, l’acqua veniva portata per alimentare due fontanelle a Santa Veneranda, una a Villa Andrea Costa e forse anche quella di piazzale Lazzarini.


I racconti di Giuliano De Angelis Qui di seguito trascriviamo una serie di piccoli, emozionanti racconti, scritti da Giuliano De Angelis che abita poco lontano dalla fonte e che è un appassionato di Santa Veneranda e Ponte Valle tanto da trasformarsi in ricercatore attento e studioso della storia locale. Da queste “storie vere” raccolte e scritte dal De Angelis, traspare tutta la passione e l’amore che l’autore ha per la sua terra. Sono dei quadri di vita popolare e la loro lettura emoziona perché si partecipa alla semplicità della vita di allora e alla estrema povertà diffusa in tutte le nostre campagne e non solo. Racconti come questi dovrebbero essere oggi letti nelle scuole, non solo quelle elementari ma soprattutto in quelle superiori, spiegando chiaramente che grazie alla vita fatta solo di fatiche e di grandi sacrifici di chi ci ha preceduto, i giovani di oggi hanno ereditato condizioni di vita ben diverse. Siano quindi coscienti di questa importante e bella eredità e ne facciano tesoro soprattutto quando sono al cospetto degli anziani della loro famiglia o della loro comunità.

La famosa porta di Santa Veneranda, la chiesa antica e la fontanella sono raffigurate in una bella ceramica di Gino De Angelis dipinta negli anni ’60 dello scorso secolo


Storie di vita vissuta al Lavatoio di Fonte Maiano raccontate da Giuliano De Angelis Fin da quando si era ragazzi, il lavatoio di S. Veneranda è stato sempre una meta per i nostri giochi, ed in età adulta poi è diventato luogo di incontro e di aggregazione. Va detto che durante la nostra adolescenza erano pochissimi gli intrattenimenti di cui si poteva godere; quando ci si incontrava in questo luogo carico di storia, si ascoltavano i più svariati aneddoti di personaggi che hanno convissuto con il lavatoio di S. Veneranda-Ponte Valle “Il vecchio Nazareno Gramolini,” racconta Giuseppe Valeri, abitante di Ponte Valle (detto Camilòn), “Era padre di Ugo, il fabbro di S. Veneranda e, tra gli anni ‘40-‘50 era alle dipendenze del Comune di Pesaro come cantoniere, ma era anche uno degli addetti (volontari) alla pulizia del lavatoio e, quando questi interventi necessitavano, chiamava in aiuto Terenzio Santini di Ponte Valle, meglio conosciuto come Gennarén” e come mi conferma Savino Vannucci, “Era noto soprattutto per avere una peculiarità tutta sua,: anche quando si faceva la barba, riteneva indispensabile conservare il cappello sulla testa”. In quei tempi di vita non facile, tra Ponte Valle, S. Veneranda e la Celletta quasi in ogni famiglia si potevano contare delle donne che usavano il lavatoio per risciacquare i panni del bucato fatto in casa il giorno prima. La sera dopo cena, testimonia Antonino Costanzi abitante di Ponte Valle (detto Tony), gli uomini di famiglia intervenivano per la pulizia del lavatoio: si scaricavano le due vasche togliendo il grosso tappo facendo confluire tutta l’acqua da cambiare in un condotto fino a scaricarla nel torrente Genica. Fatta questa operazione, si ripulivano i due fondali delle vasche da tutti i residui dei panni sciacquati durante il giorno, dopodiché il tappo veniva richiuso e tutta la fresca e zampillante acqua della sorgente di Fonte Maiano tornava a riempire le due peschiere. A S. Veneranda la stessa sorgente, fino agli anni cinquanta, riforniva le due fontanelle in ghisa che erano poste: una, in via del Rio di fianco alla seicentesca chiesetta e l’altra, davanti casa del meccanico delle biciclette Giuseppe Magi, che era da tutti conosciuto come Pepèn d’Barloz. Il Comune poi, visto le esigenze della cittadinanza, ha provveduto ad alimentare la frazione di S. Veneranda con una rete idrica cittadina. “Ricordo che dopo aver lavato i panni tutto il giorno usando la cenere come allora era consuetudine per rendere morbido e profumato il bucato ” mi racconta Eloisa Ferri prima lavandaia, e poi nostra amatissima bidella alle elementari di S. Veneranda, “una notte


verso l’una, mentre mio padre Giuseppe Ferri (detto Pepòn), tirava la carretta carica di panni ed io l’aiutavo spingendola, ad un certo punto mi sono sentita male e, verso la “costa d’Serafini”, che allora era molto più ripida di adesso, a qualche centinaio di metri dal lavatoio mi sono sentita mancare, tanto era grande lo sforzo per quel duro lavoro. Mio padre allora mi lasciò a riposare sul ciglio della strada, riprese la carretta e, con uno sforzo sovrumano continuò il cammino verso il lavatoio: era importante riuscire ad assicurarsi un posto per risciacquare i panni ”. “I mesi più critici” racconta mia madre Claudia Marzi in De Angelis, all’epoca anche lei lavandaia, “erano quelli invernali, l’acqua gelata del lavatoio tagliava le mani e risciacquare il bucato diventava una vera tortura, tanto che le mani si riempivano di crepe, provocando un dolore immenso; ma purtroppo non c’era alternativa: il lavoro che si poteva svolgere era solo questo””. A Ponte Valle, c’era il vecchio Luigi Morelli (alias Marcaciòt) che con sua moglie Marietta (la Ploca), gestivano il negozio di Alimentari & Generi Diversi, e ai volontari della pulizia del lavatoio vendeva citrato rigorosamente incartato nella carta paglia. Anche a S. Veneranda nell’alimentari di Ciro Giovanetti, (detto el Peccle), si poteva acquistare questo prodotto granuloso ed effervescente; la sera, ci si incamminava verso il lavatoio per bere la fresca acqua di Fonte Maiano che, mescolata al citrato acquistava vere proprietà dissetanti, tra l’altro riconosciuta a detta degli abitanti del luogo come curativa per i reni e, tra una bevuta e l’altra, si cantava… Amor dammi quel fazzolettino… Amor dammi quel fazzolettino Che vado alla fonte (di Maiano) lo vado a lavar… Nicolini Oscar di S. Veneranda (soprannominato il Moro), racconta che la discesa di Fonte Maiano, sebbene aveva il manto stradale ricoperto di ghiaia stabilizzata, era molto indicata per andarci con il Biroccino costruito con le ruote della Birela (mezzo agricolo leggero più piccolo del Biroccio) e, spesso con grande agonismo, si gareggiava con altri amici.


Renato Crescentini contadino, (detto Fattori) mi racconta che negli anni Sessanta andava a rifornirsi di acqua al nostro lavatoio.

Renato Crescentini, detto “Fattori” con il biroccio a cassone

“Erano tempi molto difficili per la scarsità di acqua e, per questo tipo di trasporto dei liquidi, l’unico mezzo che si poteva usare, era il Biroccio a cassone. Ogni santo giorno per fare approvvigionamento, si doveva compiere almeno un viaggio fino a Fonte Maiano. Una volta arrivato, per farli dissetare legavo i miei buoi agli anelli in ferro del piccolo abbeveratoio posto di fianco al lavatoio, dopodiché iniziavo il rituale rifornimento dell’acqua degli dei del Monte della Salute ”



L’Antica Fonte Sacra Il lavatoio di Santa Veneranda ha sempre ricevuto abbondante acqua da una antica fonte che per molti secoli ha dispensato agli uomini l’elemento essenziale per la loro vita, per lo sviluppo dell’agricoltura e per la sopravvivenza degli animali. Ogni volta che si studia la storia di una antica fonte, giunta fino ai giorni nostri, si scopre che questa sorgente d’acqua ha posseduto per secoli due caratteristiche molto importanti: una portata d’acqua sufficientemente regolare nel tempo e un’acqua di grande qualità. La Fonte Maiano, così oggi si chiama e come è stata intitolata la strada che sale sulla collina, è una fonte che in passato, per secoli, ha garantito agli uomini queste due caratteristiche ritenute essenziali: un’acqua sicuramente pura e salubre e la certezza di una fornitura costante. L’acqua è sempre stata nei tempi passati, lo è ai giorni nostri e lo sarà in futuro, un elemento prezioso ed indispensabile per la sopravvivenza dell’uomo. Per tale ragione ha fortemente condizionato la scelta dei luoghi dove creare i primi insediamenti. L’uomo primitivo, che subito comprese l’importanza dell’acqua, ne fece spesso oggetto di culto e di venerazione. Da sempre infatti l’uomo ha considerato sacra l’acqua e i nostri progenitori romani, usavano il termine latino fons per indicare la sorgente d’acqua ma lo stesso termine era attribuito anche alla divinità protettrice delle sorgenti, una figlia di Giano, la più antica divinità italica, a cui era attribuito, tra tenti altri poteri, anche quello di far scaturire dal terreno sorgenti o polle d’acqua. Si potrebbe ipotizzare che proprio la presenza della Fonte Maiano, sorgente così generosa d’acqua, abbia condizionato i nostri progenitori romani a vedere nella natura circostante degli aspetti sacri. Molti studiosi della storia di Pesaro ritengono che la collina, ai piedi della quale troviamo la nostra fonte, fosse il luogo dove il grande e famoso studioso del settecento Annibale degli Abbati Olivieri segnalò di aver ritrovato chiare e sicure testimonianze dell’esistenza di un’area sacra. Quasi sicuramente la collina di Santa Veneranda era stata, dai primi abitatori Sabini-Romani, dedicata agli dei con la costruzione di are votive. Tutti i reperti archeologici ritrovati negli scavi che furono a suo tempo effettuati, non lontani dalla fonte, sono oggi conservati al


Museo Oliveriano di Pesaro e testimoniano che quello fu luogo di culto e di venerazione della dea Giunone e delle divinità sabine legate a quanto veniva dispensato dalla fonte: acqua, salute e benessere. Purtroppo il Museo Oliveriano, stupendo per la ricchezza culturale degli oggetti conservati, non è sufficientemente frequentato dai pesaresi e dai visitatori della nostra città. I tesori che il museo gelosamente conserva dovrebbero essere fatti conoscere, grazie agli attuali mezzi di comunicazione, ad un più vasto pubblico. Le “città d’arte” italiane, e Pesaro custodisce tanti tesori di grande valore artistico, dovrebbero prendere l’esempio dalle città europee che hanno investito nella valorizzazione e diffusione della cultura, ottenendo grandi successi in un turismo più qualificato con considerevoli ritorni economici. Nella vasta raccolta di testimonianze recuperate sulla collina di Santa Veneranda, sono numerosi gli oggetti votivi in terracotta ma fra tutti i reperti quelli che hanno richiamato la nostra attenzione sono i 14 “cippi” in pietra con dediche a delle divinità. Lo stesso Olivieri definiva questi cippi come “are sacrificali” senza avere quindi ombra di dubbio sul motivo della loro origine. Noi riportiamo qui di seguito la riproduzione di due di queste “are” e che sono la testimonianza dell’esistenza di luoghi dedicati alla dea Marica, protettrice delle sorgenti2 e alla dea Salus, protettrice della salute. Nelle pagine successive descriveremo anche un terzo cippo dedicato alla dea Giunone. Questi non sono solo dei blocchi di pietra ma rappresentano degli oggetti di grande suggestione per tutti i significati che racchiudono nella loro estrema semplicità: le credenze religiose, la vita semplice della campagna, lo scorrere del tempo. Le are, come tutti gli altri reperti archeologici, sono testimonianze importanti della storia della nostra città e sono state, e lo sono ancora oggi, oggetto di ricerca da parte di grandi studiosi. Importanti per queste ricerche si sono sempre dimostrate le informazioni, le riflessioni ed i commenti annotati dall’Olivieri, cioè da chi aveva ritrovato queste antiche pietre, nel suo scritto “ Marmora Pisaurensia”.

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Nella mitologia romana Marica ("Marìca", non "Màrica") era la ninfa, moglie di Fauno, madre

di Latino e nonna di Lavinia. Quest'ultima andò in sposa ad Enea generando la stirpe dei romani.


Del “Lucus”, delle are sacrificali o votive ivi ritrovate, nell’area di Santa Veneranda molti studiosi hanno scritto ampi trattati motivati da ricerche quasi sempre settoriali e ci si augura che quanto prima venga realizzata una trattazione sistematica e unitaria. Qui di seguito riportiamo dei brevi appunti di due di questi importanti e significativi studi: - Maria Teresa Di Luca ha pubblicato nel 1986 sulla rivista “Studia Oliveriana” una dettagliata e attenta ricerca “Per l’ubicazione del lucus Pisaurensis” e riporta a pag 72 una nota, tratta da documentazione da lei consultata, che presso la Fonte Magnano sono state rinvenute “anfore e frammenti di tegoloni”. - Emilio Peruzzi, Professore Emerito alla Normale di Pisa, nel suo interessante volume scritto nel 1990 dal titolo “ I Romani di Pesaro e i Sabini di Roma”, dedica una sua ricerca a pag 128 alla “Fonte Magnano” che viene chiaramente indicata come sicura fonte sacra del lucus romano a conferma che una fonte “…è indispensabile in qualsiasi lucus per il compimento dei riti”.


Ipotesi sull’origine del nome Da numerose testimonianze storiche risulta che “ Manius “ è un nome gentilizio di una famiglia romana ed il più conosciuto rappresentante di questa famiglia fu Manio Curio Dentato che divenne famoso per aver sconfitto nel 238 i Galli Senoni, aver occupato tutto il loro territorio e fondata la colonia civium Romanorum di Sena Gallica. Da notare che al conflitto contro i Senoni partecipa anche Livio Druso e questa informazione può essere considerata una valida testimonianza della presenza nella nostra zona della gens Livia. Qui di fianco riportiamo l’immagine di un altro famoso “cippo” quale antico documento di un voto, fatto alla dea Giunone come Madre della terra, da due matrone romane di Pesaro. Ecco la bellissima dedica, una vera poesia, una sincera preghiera: MATRE MATUTA DONO – DIEDRO MATRONA M’ – CURIA POLA – LIVIA DEDA Nel testo troviamo questi due nomi della matrone che dimostrano chiaramente l’appartenenza alle due famiglie sopradette: Manlia Curia e Pola Livia. Sappiamo che la continuità dei nomi gentilizi, quale è il nome Manius, era affidata ai primogeniti e quindi quasi sicuramente la matrona citata nel cippo (M’ – CURIA) è la moglie di un diretto discendente di Manlio Curio Dantato. L’importanza, nell’area pesarese, di quest’ultima famiglia è storicamente accertata e pertanto ritenere che il toponimo Maiano, derivi dal gentilizio Manius, ( Manianus – Magnano – Maiano) sembra una ipotesi con forti probabilità di rispondere al vero.


La Fonte “Magnana” nell’anno 1347

La prima notizia certa dell’esistenza della Fonte Magnana è reperibile a pagina 123 della “Memorie”, l’importante opera dello storico pesarese Domenico Bonamini (1737-1804). In questo manoscritto, conservato presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro, il Bonamini riporta la notizia, evidentemente tratta da antichi documenti a lui pervenuti, di una decisione presa dalla comunità pesarese nell’anno 1347 per “rifare” tre fonti che forse a quell’epoca erano considerate le più importanti per la fornitura


idrica della popolazione della città e della “contà”. Si può notare che la Fonte Magnana, dopo la fonte della città alimentata dall’acquedotto romano di Novilara e quella di Caprile, ricopriva evidentemente una grande rilevanza locale. Si può inoltre dedurre che, nel 1347, il rifornimento idrico di tutta la vasta area a sud ovest della città dipendeva in gran parte dalla nostra fonte.

“La Fonte Magnana da riattarsi dai Candelaresi” è una interessante informazione che ci permette di trarre la conclusione che a quell’epoca gli abitanti del Castello di Candelara e delle terre di sua pertinenza utilizzassero evidentemente l’acqua della fonte. Per questa ragione la comunità pesarese aveva deciso di attribuire tutti gli oneri del ripristino della fonte ai Candelaresi. Resta da comprendere, per noi uomini dei nostri giorni, come e con quali fatiche l’acqua della fonte fosse trasportata da Ponte Valle fino a Candelara.

I carribotte che per secoli hanno trasportato l’acqua dalle fonti alle abitazioni pesaresi.


Fonte Magnana o Magnano o Maiano Nei tempi antichi la trasmissione orale, con l’influsso dei dialetti locali, o gli errori di trascrizione di poco esperti scrivani di documenti notarili o di mappe, hanno molto spesso contribuito a sostanziali variazioni e modifiche dei nomi originali dei luoghi o di importanti elementi di riferimento. Anche nel nostro caso diventa estremamente difficile eseguire una seria ricerca sulla corretta motivazione dell’origine dell’attuale toponimo “Fonte Maiano”. Sappiamo che “Maiano” è un toponimo frequentemente usato nelle regioni italiche romanizzate e alcuni studiosi sono propensi a ritenere che derivi dal gentilizio “Manianus” , come già detto, cioè da una delle famiglie dei colonizzatori sabino-romani. Nel nostro caso questa interpretazione ben si adatta al luogo dove la nostra fonte è collocata, cioè ai piedi di una collina sicuramente “visitata” dai primi abitatori sabino-romani di Pesaro, e ritenuta sacra per le numerose testimonianze archeologiche di carattere religioso che i terreni hanno restituito, terreni da cui scaturiscono le acque che alimentano la nostra fonte e il suo lavatoio. Per proseguire nelle ricerche, sono stati consultati altri documenti, quali i catasti storici di Pesaro, fonte inesauribile di informazioni. Ne ricaviamo che una fertile area coltivabile era, fin dai tempi antichi individuata dal toponimo “ Fontis Magnani o Fonte Magnano o Fonte Magnana”. Uno dei primi documenti catastali consultabili è il Catasto Sforzesco del 1506 che riporta il censimento di tre proprietà con annessa casa colonica ed una proprietà con casa colonica con palombara, tutte individuate dalla pertinenza al Fondo “Fontis Magnani”. Nel catasto successivo, il Catasto Roveresco del 1560, sempre sotto la dicitura “Fondo Fonte Magnano”, sono elencate ben otto proprietà con relativa casa colonica e tre con Casa colonica con palombara. Nel Catasto Innocenziano del 1690 sono invece segnalate solo quattro proprietà con casa colonica. Queste variazioni possono essere spiegate da momenti più o meno favorevoli agli insediamenti rurali o da situazioni di estrema gravità quali le conseguenze di pestilenze, guerre e siccità, tutti flagelli che hanno colpito per secoli, sistematicamente, le laboriose popolazioni di queste zone.


Rimane comunque il fatto che tutti questi documenti testimoniano come evidentemente i benefici della presenza della Fonte Magnana garantivano acqua pura per gli uomini e per gli animali e fertilità ai campi tanto da permettere, per due secoli, la vita di almeno quattro nuclei famigliari stabilitisi nei terreni e nelle case nelle vicinanze della Fonte Magnana. Una osservazione importante che tutte le proprietà elencate dai catasti sono intestate a famiglie residenti nella città di Pesaro e di conseguenza chi lavorava e viveva su quelle terre erano le famiglie di semplici coloni. Un altro documento, di minor rilievo, viene qui citato per dimostrare come la Fonte Magnana fosse conosciuta per la sua importanza dagli abitanti di quell’epoca e quindi indicata come punto di riferimento stradale. Una lettera del 9 agosto 1574, conservata all’Oliveriana, così racconta un episodio delittuoso: “…il sig. Federico figlio del sig.re Raniero del Monte,(Signore di Monbaroccio) assieme a Camillo Mazzoleni, sparò una archibugiata ad un braccio il giorno avanti a messer Alfonso, figlio di messer Filino Terzi a Fonte Magnana….”3

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Da uno scritto di Luciano Baffioni Venturi sulla vita di Filippo Sterzi.


Un Bando dell’anno 1738

L’importanza dell’uso dell’acqua per l’igiene personale e dei lavatoi per la pulizia dei panni che indossavano in antico gli abitanti della città e della campagna era molto sentita in un mondo dove spesso i livelli igienici erano ai limiti del sopportabile. Nei

casi

estremi, quando imperversavano pestilenze terribili, venivano emessi bandi come quello scritto a seguito della peste del 1630, con cui si ordinava

"che niuno potesse mandare i panni a imbiancarsi in contado senza licenza espressa del Magistrato acciocché si sfuggisse il pericolo che i panni suicidi di qualche casa infetta non seminassero, nell'essere tramenati, come spesse volte accaduto, la peste in contado".


Ed è per questa ragione che le autorità preposte richiamavano i cittadini alla massima attenzione perché nei lavatoi si seguissero regole tali da garantire un corretto uso nel rispetto delle più elementari regole dell’igiene come si legge nel bando del 1738 dell’allora Luogotenente e Magistrato di Pesaro: 4

“Che alcuna persona non ardisca gettare nel lavatoio immondizie, ceneri, né altro, che intorbidi l’acqua, ma solamente lavare i panni, sotto pena ai trasgressori di scudi tre per ciascheduno, e ciascheduna volta, che contraveranno.”

Il bando è conservato presso la Biblioteca Oliveriana ed è stato pubblicato a pag.62 del libro “L’approvvigionamento idrico a Pesaro dalla sua più antica realizzazione al 2000” a cura di A. Brancati 2000 4


Una mappa dell’anno 1870 Dal Catasto Gregoriano, catasto “piano” di Pesaro, redatto tra il 1870 e il 1877, e conservato presso l’Archivio di Stato di Pesaro, riportiamo una parte della tav. XIV della zona di San Pietro in Calibrano dove è chiaramente rappresentata la fonte. Interessante sottolineare che la fonte risulta essere posizionata al centro dell’incrocio stradale (la prima rotatoria di Santa Veneranda ?) e quindi in una posizione ben diversa da quella attuale che è evidentemente dovuta a probabili successivi smottamenti del terreno sovrastante.

Particolare della Tav. XIV – San Pietro in Calibrano - Archivio di Stato di Pesaro


Il Lavatoio e le Lavandaie Quale simbolo dei lavatoi pesaresi, abbiamo preso il lavatoio subito fuori Porta Fano ancora esistente nel 1840 e riprodotto, quasi “fotografato”, da Romolo Liverani con questo bellissimo disegno.5

Questo lavatoio era situato in un punto (l’attuale Piazza Matteotti) raggiungibile facilmente da tanti abitanti del centro storico di Pesaro e quindi poteva ”servire” numerose famiglie.

disegno pubblicato a pag. 150 del libro “L’Isauro e la Foglia – Pesaro e i suoi Castelli nei disegni di Romolo Liverani” – Provincia di Pesaro e Urbino. 5


Ma per avere una “immagine” della vita che si svolgeva nelle vicinanze del lavatoio dobbiamo, in mancanza di documenti fotografici, basarci sulle opere degli artisti che fedelmente riproducevano la scene di vita quotidiana. Riportiamo qui di seguito un disegno del grande artista pesarese Francesco Carnevali ( Pesaro 1892 – Urbino 1987 ) che “descrive” con estrema cura ed attenzione un lavatoio coperto molto simile a quello di Santa Veneranda. Interessante anche la rappresentazione degli oggetti che erano indispensabili alle lavandaie come “la carretta” e le ampie ceste che una volta riempite di panni lavati ed asciugati, venivano poste sul capo per il trasporto fino alle abitazioni.

Questa era la vita come si svolgeva nel giugno 1928. Sono passati solo 80 anni ma il cambiamento rispetto alla vita dei nostri giorni è facilmente definibile come “epocale”. Quasi sempre il lavatoio, nato dove c’era una sorgente generosa d’acqua, era inserito in un complesso che prevedeva la “fonte”, da dove si attingeva l’acqua per dissetare la popolazione, e di un “abbeveratoio” per dissetare gli animali.


Ricordiamo, per i più giovani, che da un rilevamento effettuato nel 1951, meno del 40% dell’acqua veniva distribuita alle case di Pesaro mentre il rimanente 60% alimentava le fontane pubbliche. Trasferendo queste percentuali dalle utenze agli abitanti si capisce che la maggioranza dei pesaresi non disponeva dell’acqua corrente in casa. Solo nel 1987, pochi anni fa, si raggiunge quasi il 100% degli allacci. Ma fino a quella data molti abitanti di Pesaro, se volevano bere o lavarsi dovevano attingere l’acqua dalla fonte più vicina o, per i più fortunati, dal pozzo di casa in città e del podere in campagna. Lavare i panni era quindi un “lavoro” che fino a circa 50 anni fa, veniva svolto all’aperto non solo perché nelle case mancava l’acqua ma anche perché, specialmente nelle case di città, mancava lo spazio necessario. Infatti in città non sempre vi era la possibilità, o la voglia, di fare il bucato e si dava l’incarico a delle lavandaie di professione. Ancora oggi vi sono persone che ricordano quando le lavandaie si recavano al lavatoio spingendo i carretti o le cariole sulle quali avevano riposto la biancheria da lavare e che avevano in precedenza prelevato dalle case dei ricchi cittadini. I panni venivano avvolti in "guluppe", dopo aver separato i bianchi dai colorati e contrassegnato, con fili variamente colorati, quelli delle diverse famiglie, a cui li avrebbero poi consegnati asciutti e piegati. Il bucato invece, nelle case in campagna, era un lavoro, uno dei tanti, affidato esclusivamente alle donne del nucleo familiare.


Presso i nostri contadini il pane si faceva una volta alla settimana, il bucato una volta al mese. Era una faccenda che richiedeva organizzazione e più braccia, tanto che spesso veniva fatto in società con la famiglia vicina, in uno scambio reciproco. Le donne più giovani, più forti, caricato un carretto o una cariola di biancheria sporca, andavano al lavatoio e chine, al bordo dell'acqua, con sapone di Marsiglia6 e olio di gomiti, "smollavano" lenzuola, federe, asciugamani. Un duro lavoro quello del risciacquo che iniziava molto presto al mattino, a volte il sole non era ancora spuntato ed era necessario il lume di una candela posta su un mattone che sporgeva dal muro del lavatoio, e terminava a tarda sera con le mani rattrappite dall’acqua o rosse e screpolate dal freddo. Questo lavoro veniva spesso svolto da donne rimaste sole che dovevano trovare i mezzi per sostenere la famiglia e “tirar su” i numerosi figli. Il bucato , settimanale o mensile che fosse era, oltre che una logica necessità, pur sempre un rito che le donne gestivano totalmente. Il luogo deputato a questo rito era il lavatoio, il solo luogo a quei tempi, dove ci si potesse riunire e parlare degli avvenimenti grandi e piccoli della comunità, oltre alle due o tre osterie del paese. Il lavatoio era un “antico” punto di aggregazione e di diffusione delle notizie che si traducevano spesso in pettegolezzi che contribuivano sicuramente a movimentare la monotona vita delle donne di quell’epoca. Nel 1812, quando le Marche erano sotto il dominio napoleonico, fu dato l’incarico a dei professori di disegno di fare una ricerca sui costumi e sulle abitudini degli abitanti della regione e per documentare le varie attività vennero realizzati dei “figurini”. 7

Fino a non molti anni fa era in uso presso le famiglie produrre in proprio il sapone conosciuto come “sapone di Marsiglia” il quale era ampiamente usato sia per lavare la biancheria che la persona. L’olio di oliva inacidito, già fritto ed i grassi degli animali macellati in casa venivano conservati appositamente al fine di essere trasformati in sapone. Il procedimento era il seguente: l’olio veniva diluito con dell’acqua e veniva versato in un contenitore di rame e messo sul fuoco. Poi si aggiungeva soda caustica e a volte delle foglie di alloro per dare un po’ di profumo. Questa miscela dopo circa due ore di cottura veniva tolta dal fuoco e versata in appositi stampi in legno. Dopo un giorno di raffreddamento il sapone era pronto.

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Dal libro “Contadini marchigiani del primo ottocento, una inchiesta del Regno Italico” a cura di Sergio Anselmi – Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi - 1995 7


Questo disegno, come del resto tutti gli altri della raccolta, non riproduce fedelmente la reale situazione contadina della nostra regione in quegli anni ma, per ragioni politiche, “ingentilisce” abiti e acconciature che sicuramente erano molto più povere di quanto rappresentato. Da notare comunque che, nonostante la volontà di raffigurare in termini migliorativi i costumi degli abitanti delle nostre zone, l’autore non è riuscito a prevedere l’uso delle calzature per le lavandaie di quell’epoca. La zona di Santa Veneranda era conosciuta, fino a qualche decennio fa, per le “sue” lavandaie. Non avendo trovato una testimonianza fotografica locale abbiamo deciso di pubblicare questa bella e significativa immagine di donne al lavatoio di Santa Maria dell’Arzilla cioè a pochi chilometri di distanza..8

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Dal libro “I sentieri dell’acqua” a cura di Blasi, Fuligna, Pastore e Ugoccioni – Fano 2001


Se vogliamo schematizzare le varie fasi del bucato, possiamo indicare tre fasi 9principali: un prelavaggio, il lavaggio vero e proprio e un’ultima fase di risciacquo. Le nostre donne, per fare il bucato, seguivano queste tre fasi magari con diverse procedure dovute alle situazioni contingenti, ma in linea di massima i concetti base erano ben noti a tutte e si erano formati nel tempo sulla base dell’esperienza e del buon senso che ha sempre guidato chi ha vissuto per millenni a stretto contatto con la natura. Durante la prima fase, il prelavaggio, si procedeva inizialmente nel mettere in ammollo i panni sporchi. Venivano infatti immersi nell’acqua fredda contenuta in un recipiente apposito e lasciati per svariate ore. Successivamente i panni venivano stesi su una tavola o sul piano del lavatoio e insaponati e, se necessario, a questo punto subivano un primo lavaggio. La seconda fase consisteva nel lavaggio dei panni che venivano messi in un apposito recipiente, coperti da un "ceneraio", ampio telo di fitto tessuto, dove veniva depositato uno spesso strato di cenere. La cenere del focolare era stata conservata e vagliata con cura per eliminare i residui di carbonella. Praticamente era il detersivo di allora. Si incominciava a versare sulla cenere l'acqua calda, che passandole attraverso ne riceveva l'umore liscio di fosfati e lo cedeva alla biancheria sottostante, nettandola. Era questo il "ranno". Tolto il tappo che chiudeva un foro situato nella parte bassa del recipiente, si recuperava il ranno, che rimesso di nuovo a scaldare veniva poi ripassato dal ceneraio alla biancheria. Questa operazione era ripetuta più e più volte. Infine tutto restava quieto a freddare fino al giorno dopo, quando, tolto il ranno e tolto il ceneraio, iniziava la terza fase del bucato e le donne riportavano i panni al lavatoio per il risciacquo, altra operazione faticosa: 9

Appunti ricavati dalla lettura di “Il lavoro dei contadini” di Paul Scheuermeier a cura di M. Dean e G. Pedrocco – 1996 – pag. 205-224


maneggiare lenzuola di ruvida canapa, tessute a mano, zuppe d'acqua. Terminata quest’ultima operazione rimaneva quella di stendere al sole tutta la biancheria lavata che profumava ed era bianchissima. Venivano appesi a dei lunghi fili tutti i panni di piccole dimensioni mentre le lenzuola venivano stese sui prati. Tutta la biancheria allora era di robusta consistenza, perché era tenuto in giusta considerazione un saggio detto del tempo : “ il grosso s'assottiglia, il fine si finisce". Vi è anche un aspetto da ricordare, quello dell’orgoglio del tutto femminile di stendere il bucato su lunghe corde per mostrare così a tutti i conoscenti i numerosi capi di un ricco corredo portato in dote.

Questa immagine rappresenta un particolare di una opera a tempera di Francesco Mingucci che raffigura delle scene di vita del 1626 accanto ad una sontuosa villa alle falde del colle del San Bartolo. Si vede dei pescatori intenti a tirare le reti ma si nota a sinistra anche una vasca d’acqua con delle donne impegnate a lavare i panni che vengono poi stesi al sole sul vicino greppo. Molto spesso le lavandaie superavano la fatica del lavoro intonando alcuni canti, ritenuti le più antiche testimonianze canore del contado ma soprattutto si dimenticavano del freddo dell’acqua, chiacchierando e scherzando con le altre donne del paese e delle zone vicine.


Si divertivano con poco e questi erano forse i soli momenti in cui dimenticavano le miserie e la grande povertà con cui ogni giorno, per un amaro destino, dovevano confrontarsi e vivere. La fantasia e l’immaginazione popolare hanno inserito la figura della lavandaia, dipingendola giovane e bella, in una filastrocca. Forse sarebbe bene chiedersi che cosa era una filastrocca perché oggi i bambini non le cantano più come un tempo. La filastrocca era un allegro ritornello di parole che accompagnava i giochi dei bambini e che spesso cantando insegnava a leggere. Le filastrocche si sono rivelate anche un efficace mezzo di trasmissione del sapere e della saggezza popolare. Infatti i ricordi della nostra infanzia sono legati ai giochi collettivi che si facevano all’aperto come “nascondino”, “bandiera”, “le belle statuine” “i quattro cantoni”, molto importanti se considerati come prime nozioni del vivere civile, e spesso questi giochi erano accompagnati dal canto delle filastrocche. Una fra le più popolari era “la bella lavanderina”: La bella lavanderina che lava i fazzoletti per i poveretti della città, fai un salto, fanne un altro, fa la giravolta, falla un’altra volta guarda in su, guarda in giù dai un bacio a chi vuoi tu. La bella lavanderina che lava i fazzoletti per i poveretti della città, fai un salto, fanne un altro, fai la riverenza, fai la penitenza guarda in su, guarda in giù dai un bacio a chi vuoi tu. ............


Il bucato

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Questa foto fu scattata a Frontone nel 1925 da un bravissimo ricercatore e studioso svizzero, Paul Scheuermeier, che studiò la vita contadina dell’Italia centro settentrionale con estrema attenzione. Raccolse una grandissima quantità di informazioni e le documentò con delle bellissime fotografie. Gli informatori da lui contattati per avere notizie in merito a questa immagine, riconobbero la bambina china sulla tàvola, che ripeteva i gesti della madre visti tante volte, Pasqualina Ricci nata nel 1918. Raccontarono che la bambina apparteneva ad una famiglia che godeva di un certo benessere …. grazie ad uno zio emigrato in America, come si può notare dal suo abbigliamento: contrariamente ai suoi coetanei possedeva un bel capellino e non andava a piedi nudi ma usava delle scarpe. 10

La fotografia e il testo che segue sono tratti dal libro “ Uomini e campagne tra il Montefeltro e il mare “

di G. Lucerna, V. M. Miniati e G. Pedrocco – Metauro Edizioni


Da notare nella foto la mastèlla di legno con appoggiato sopra un panno a grossa trama e in genere di canapa, detto cendaràjo, in cui veniva messa la cenere di legna utilizzata per fare il bucato. Dopo aver messo nella mastella lenzuola, tovaglie e tutta la biancheria di casa e da letto rigorosamente bianca, veniva versata sulla cenere dell’acqua bollente. Dopo un certo tempo si faceva uscire da un foro della mastella la rànna che veniva successivamente riusata per lavare i panni di colore. Tutta la biancheria veniva poi risciacquata nell’acqua del lavatoio. Accanto alla mastèlla, un semplice bidòne di latta utilizzato per il trasporto della cenere. Sul davanti della foto una kaldarèlla (secchio di metallo), un grande kaldàro, in cui veniva fatta bollire l’acqua e una bagnaròla zingata cioè una bacinella usata per il bucato a mano e per altri usi domestici.


Curiosità Antica, nell'italiano scritto, la prima attestazione di bucato 'lavaggio e imbiancatura dei panni con acqua molto calda' (originariamente con l'aiuto della lisciva di cenere, poi con altri tipi di detersivi): nella variante bocato, compare nei primi anni del Trecento. Già nella Dichiarazione di Paxia, un documento notarile scritto in volgare ligure della fine del XII secolo, era presente un buada 'bucato', cioè una forma che presuppone un nome collettivo plurale. Arrigo Castellani, commentando nel suo I più antichi testi italiani le caratteristiche della lingua in cui è scritta la Dichiarazione dei beni della vedova Paxia, riprende e appoggia la tesi del Wartburg secondo cui alla base dell'italiano bucato è ipotizzabile un sostantivo latino originariamente neutro plurale bucata (non attestato per iscritto), connesso col verbo germanico BUKON (anch'esso privo di documentazione scritta) 'lavare con la lisciva'. Scrive il Wartburg: «... si dovrebbe muovere da un collettivo del tipo tedesco svizzero buchete 'insieme dei panni messi in bucato', in cui il suffisso germanico sarebbe stato sostituito dal corrispondente -ATA latino». La spiegazione del Wartburg, sostiene Castellani, «permette di far risalire il prestito alla tarda epoca imperiale (via di penetrazione suggerita: la lingua dei contingenti militari stanziati lungo i confini della Germania)». Riassumendo, il nostro bucato risale a una voce latina di epoca tardo-imperiale, figlia di contatti con i popoli germanici e i loro parlari, molto probabilmente usata negli accampamenti militari romani posti lungo il confine. Anche i soldati dovevano in qualche modo lavarsi i panni e probabilmente appresero il sistema basato su acqua calda più lisciva dai "barbari" germanici.

Testo tratto da internet


Quando non c’era la lavatrice © di Placida Signora - 6 Agosto 2007 11

L’acqua corrente nelle case fu in molte zone d’Italia un sogno irrealizzabile sino all’abbondante metà degli anni ’50-60; dopo, pure il possedere la lavatrice fu spesso sogno reso irrealizzabile dai costi proibitivi che ebbe sino agli inizi del 1970. Fare il bucato, visto anche il numero dei componenti delle famiglie di allora, era quindi per le donne un lavoro massacrante, svolto in parte in casa e in parte ai pubblici lavatoi. Si sbrigava ogni settimana/mese quello “minuto” e solitamente in primavera quello “grosso”, perché fiumi e lavatoi non erano più ghiacciati ma pieni d’acqua scrosciante dovuta al disgelo, mentre in estate capitava che fossero vuoti causa siccità. Quindi la “grossa” biancheria sporca (lenzuola, asciugamani, traverse, tovagliati ecc, tutti rigorosamente bianchi) veniva conservata anche per mesi ammucchiata in un locale apposito della casa. Venuto il gran giorno, si prendeva un bigoncio grande quanto una vasca a sedere, si posava su un alto treppiedi di legno con sotto un secchio, si disponeva la biancheria sudicia a strati, pezzo per pezzo, la più piccola in fondo e la più grande sopra. Il cumulo veniva pigiato fortemente, facendo in modo che non rimanesse alcun vuoto; poi veniva coperto con un drappo di tela fortissima e su questo si spargeva cenere di legna in quantità proporzionale a quella del bucato: infine, sulla cenere, si versavano litri e litri d’acqua bollente. Dopo un po’, da un foro posto sul fondo del bigoncio - da qui il termine “bucato” - usciva e cadeva nel secchio un liquido marrone denso e nauseante detto ranno o, orrendamente, “sugo di lenzuola“; l’operazione veniva ripetuta più e più volte sino a ottenere un ranno limpido. La biancheria fina (colli, polsini, sete, pizzi) invece era fatta bollire a parte con scaglie di sapone di Marsiglia, mentre le “flanelle della pelle” (magliette, mutande e calze) venivano prima immerse in una miscela composta da 2 cucchiai di farina ogni 2 litri d’acqua e succo di limone che sgrassava e toglieva “l’odor d’acido” (sic).La biancheria bagnata veniva 11

Dal sito di Mitì Vigliero www.vigliero.com


trasportata con gran fatica al fiume o al pubblico lavatoio per essere rifinita e sciacquata; poi strizzata e infine stesa ad asciugare. L’Enciclopedia Pratica Bompiani (1938) alla voce “Norme per lavare” suggeriva in città, al posto del bigoncio e per chi aveva l’acqua corrente, l’uso delle “lisciviatrici”, antenate delle lavatrici che potevano essere utilizzate sui fornelli di cucina: recipienti cilindrici, muniti d’un coperchio e di un doppio fondo mobile a forellini sollevato dal fondo. La biancheria grossa prima doveva essere messa a mollo 12 ore insieme a 200 gr di sapone, 12 di ammoniaca, 12 di trementina, 50 di borace ogni 12 l d’acqua. Poi strizzata e messa sul fuoco a bollire con 100 gr di soda nella lisciviatrice, che però ne conteneva ben pochi pezzi e quindi la manovra doveva essere ripetuta più e più volte volte. Ma l’Enciclopedia concludeva trionfante che, grazie alle lisciviatrici, “in passato il nostro bucato voleva a disposizione più di una settimana; oggi non più di 3 giorni”.


Relazione del Centro Operativo del Comune di Pesaro I lavori di restauro del Lavatoio di Santa Veneranda. ( Fonte Maiano)

La Fonte Maiano era uno dei più importanti rifornimenti idrici della zona presente sul territorio, come testimoniato da alcuni ormai anziani residenti , che ne custodiscono ancora il ricordo. Oggi il lavatoio ha ormai perso la sua originaria funzione di approvvigionamento d’acqua potabile, di eventuale abbeveratoio per animali e di “lavanderia all’aperto”: infatti ora l’acqua potabile raggiunge ogni abitazione delle frazioni di Pesaro che col passare degli anni, hanno perso le loro caratteristiche di borghi rurali e le lavatrici domestiche hanno trasformato il rito sociale e collettivo del lavaggio dei panni, in un momento privato. Luoghi di storia e memorie essi sono ora percepiti come un elemento del passato, senza funzione e quindi abbandonati alla loro sorte. L’amministrazione, al contrario, ritiene che essi possano ancora svolgere, se recuperati nuove funzioni. Non è inopportuno ricordare che i lavatoi in generale, fanno parte del patrimonio storico, artistico, demo-etno-antropologico nazionale come definito dall’articolo 2 del Dlgs. 490/99 [Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di Beni Culturali ed Ambientali]. Una riflessione sfociata nella proposta che qui presentiamo.


Il Progetto definitivo ed esecutivo riguardante “il restauro vecchio lavatoio S Veneranda” è stato redatto dal Geom. Aroldo Pozzolesi del Comune di Pesaro, Responsabile del Procedimento, approvato con determina Dirigenziale n. 2461 del 14/12/2007 esecutiva il 22/12/2007. I lavori di restauro sono stati affidati all’impresa Etra s.n.c. di Pagani Michele e Rocchi Maria LuciaVia Mariotti 22- 48022 Lugo ( RA) e si sono svolti sulla base di una precisa metodologia cronologica d’intervento che è stata prevista dal contratto n. 188 del Servizio Manutenzione.

Stato di conservazione Attualmente il manufatto si trova in stato di abbandono, in parte ricoperto dalla vegetazione spontanea e terra , mentre alcuni parti delle pietre del bordo della vasca sono mancanti , la copertura della vasca e costituita da travi in legno e lamiere di copertura zincate. Intervento I lavori comprendono: - il restauro degli elementi lapidei delle cornici del bordo delle vasche del lavatoio, - ripristino dell’interno delle vasche con coccio pesto mediante rasatura e stuccatura con polvere di marmo e legante idraulico, ed in parte sostituite e sagomate come le esistenti, - il consolidamento delle superfici in mattoni effettuato con silicato di etile distribuito sulla superficie fino al suo completo assorbimento, - le parti in mattoni a faccia vista che verranno stuccate con malta idraulica composta da calce “Lafarge” e sabbia di fiume fine granulometria e integrate cromaticamente con polvere di cotto rendendo la superficie simile alle tracce di sagramatura che rende visibile la superficie sotto l’intonaco cementizio, - tinteggiatura dei muri in ca e cunette del colore dell’arenaria, - impermeabilizzazione e sigillatura della vasca di accumulo, - realizzazione drenaggio e cunetta lato delle scarpate, - realizzazione della balaustra a forma di croce “di S.Andrea” in ferro zincato e verniciato,


- saranno sostituite altresì le travi in legno vetuste e le lamiere pericolanti con altrettante travi lamellari trattate e sovrastante tavolame di copertura con guaina ramata di isolamento, - saranno comprese gronde e pluviali in rame che ben si sposano con la copertura.

Tutti i lavori di restauro e di risanamento del lavatoio sono stati eseguiti sotto la Direzione Lavori del Geom. Aroldo Pozzolesi del Comune di Pesaro e si sono regolarmente conclusi in data 09/05/2008. Recupero vecchio serbatoio e arredo area limitrofa al lavatoio Contestualmente ai lavori svolti dalla ditta E.T.R.A. il Centro Operativo è intervenuto con i propri dipendenti al completamento dell’area circostante il lavatoio con muri di sottoscarpa realizzati con pietre in arenaria recuperate da scavi precedenti, rendendo il luogo circostante al lavatoio più gradevole e ospitale. Inoltre con propri mezzi è stata riscoperta l’antica vasca d’accumulo dell’antica sorgente fonte Maiano tuttora funzionante, coperta da una “collinetta” di terra e macerie oltre a vegetazione spontanea. A seguito delle incalzanti indicazioni degli abitanti più anziani è stato riscoperto anche l’antico vaschetto adibito ad abbeveratoio


per animali che giaceva da svariati anni sotto la massicciata della strada Maiano . Il progetto di recupero del vecchio serbatoio prevede anche il rifacimento del verde adiacente alle vasche, mantenendo inalterato l’ambiente e integrandolo con piante da frutto già presente nel luogo oltre a piantumazione di cespugli aromatici tipici del luogo come il rosmarino e la lavanda. Nel progetto e stato previsto è realizzato in piccolo spazio adiacente al lavatoio prima inaccessibile,ora fruibile dalla strada principale delimitato da un cancello in legno e pavimentato con breccia lavata. É stata inoltre realizzata l’illuminazione dell’area adiacente alle vasche e della struttura di copertura del lavatoio realizzata in travi di legno lamellare .



Immagini del Restauro

Rimossa la terra che aveva nascosto l’antica struttura, ecco il momento dell’apertura della botola della cisternaserbatoio della fonte

I lavori per riportare alla luce i vecchi muri

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Si scava per recuperare la vasca dell’abbeveratoio

Iniziano le opere di consolidamento, lato monte

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Operatori specializzati ricompongono le antiche strutture con grande maestria.

Gli scavi che hanno riportato alla luce le antiche strutture della fonte

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Ripristino di muri con vecchi mattoni e tanta abilitĂ .

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Si svuota, per una verifica, la cisterna della fonte

Vecchia e nuova copertura del lavatoio

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Il Lavatoio Restaurato Si è concluso il restauro di questo antico lavatoio, restauro che ha comportato la ricerca in tempi brevi di soluzioni ai molti problemi e il superamento di notevoli difficoltà incontrate durante i lavori. Tutti gli ostacoli sono stati superati grazie alla grande esperienza, alla riconosciuta professionalità, all’impegno e all’incredibile entusiasmo di tutti coloro che hanno partecipato a questa realizzazione, Considero il restauro del lavatoio come un’operazione significativa ed importante perché rappresenta una testimonianza di tutta la comunità unita nel ricordare la figura della lavandaia di Santa veneranda e di Ponte Valle. Il lavatoio deve rimanere quale vero monumento a quelle donne che, svolgendo quotidianamente un duro lavoro, hanno contribuito con una immensa e silenziosa fatica alla crescita delle loro famiglie e di una comunità che oggi in loro si riconosce

La vasca principale del lavatoio restaurato

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Deflusso dell’acqua dall’abbeveratoio alle vasche

Lo scarico delle vasche

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L’acqua limpida ritorna dopo tanti anni nell’abbeveratoio recuperato. Si sono ripristinati anche gli anelli per legare gli animali.

La vasca di risciacquo ripulita e con l’acqua trasparente

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I bordi in pietra delle vasche del lavatoio

La struttura coperta del lavatoio con protezioni nuove e fiori a completamento del buon lavoro svolto

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I

l a v o i lavori sono finiti !

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Il "Fonte di Maiano

Alla destra del cammin che vi conduce vi porterà nel Lucus a cercar la luce e, l’Olivieri insigne e sommo erudito vi guiderà in questo viaggio ardito. Sarà più chiaro di sorgente questo sentiero e delli Pesaresi Patrii Dei l’arcaico mistero verrà svelato al forestiero e al residente se a Maiano vorrà recarsi immantinente. Aulica fonte del Bosco Sacro agli arcaici romani che bevendone l’acqua ridiventavan sani e, dopo che l ’abluzioni avean ottenute agli dei si presentavan del Monte di Salute. La Dea Marica delle sorgenti è protettrice e a lei quale grande e divina benefattrice i nostri avi portavan rispetto e donazione e pel suo nome avean eccelsa devozione.

Giuliano De Angelis

L’acqua pura alimenta il novo lavatoio

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BIBLIOGRAFIA

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