I Picozzi Storia di una famiglia italiana
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I Picozzi Storia di una famiglia italiana
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Le origini della mia famiglia Ch’ogni erba si conosce per lo seme. Dante - Purgatorio (Canto XVI)
Quando si è giovani si è tutti tesi a costruire il proprio futuro e non si ha il tempo o la voglia di fermarsi, girare lo sguardo verso il passato, informarsi su quanto è avvenuto o rintracciare documenti e immagini per meglio conoscere i nostri avi e la loro vita. Quando poi si giunge, con una velocità sorprendente, a quell’età in cui gli impegni di lavoro sono terminati, o non più assillanti come una volta, allora nasce in molti di noi la voglia di fare ordine nei ricordi della propria vita e della propria famiglia e cercare di risalire al passato andando a cercare e studiare i vecchi documenti. Ci si accorge subito che anche alcune date o certe notizie relativamente recenti, persino quelle riguardanti i propri genitori, non sono di così facile reperimento perché, a suo tempo, le abbiamo considerate di scarsa importanza. Interessante inoltre rilevare che in molti casi, nelle famiglie “normali”come le mia, dopo essere risaliti ai nonni o i bisnonni, le notizie dei nostri avi si riducono drasticamente e a volte si riesce solo a risalire ad un nome o qualche data. Alla fine si ottiene così solo un elenco, una sequenza di nomi e ci si accorge che la gran parte di coloro che ci 5
hanno preceduto non hanno lasciato tracce significative perché hanno vissuto delle vite normali. Se i nostri antenati sono stati delle brave e oneste persone, esemplari padri di famiglia e grandi lavoratori, e hanno quindi vissuto una vita tranquilla e normale, nulla si troverà negli archivi se non le date della loro nascita, del matrimonio e della morte. In questo caso si può purtroppo solo “disegnare” un freddo albero genealogico. Per questa ragione non ho voluto risalire troppo nei tempi e mi sono fermato ai miei avi di cui sono riuscito a reperire qualche notizia o qualche rara immagine. Il primo nome che voglio ricordare è quello di
Giuseppe Antonio Picozzi che, per quanto detto sopra, possiamo considerare come il “capostipite” della famiglia Picozzi e che è stato il mio “quadrisnonno”. Giuseppe nacque nel decennio 1770 - 1780, e dai documenti 1 conservati negli archivi dell’antica chiesa dei SS. Marco e Gregorio risulta avere la qualifica di fattore e abitare a Cologno Monzese. Viene inoltre segnalata come sua abitazione una cascina denominata Villa Cortese ma purtroppo non individuabile oggi nelle mappe. Si può invece ritenere che Giuseppe con la moglie e i suoi figli, siano vissuti in un a “corte” di Cologno Monzese, quella corte che ancora oggi è individuata come la “Curt dei Picos”. In quegli anni Cologno era, e per almeno altri centocinquanta anni rimase un grosso paese della campagna lombarda. Il nucleo principale dell’abitato era costituito da numerosi complessi, solitamente a pianta quadrata, chiamati corti dove abitavano più famiglie e che spesso comprendevano anche le stalle e i fienili. Una precisazione utile, per meglio capire le dimensioni del paese di Cologno di quei
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REGISTRO N. 1 Tav. 47
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tempi è quella che ci informa che nell’anno 1861 gli abitanti censiti di Cologno erano …..2478.
Nell’immagine di google, qui sopra, si vede nel riquadro rosso a sinistra della foto, la chiesa dei SS. Marco e Gregorio mentre sulla destra il riquadro rosso comprende il vasto complesso della “Curt dei Picos”. I documenti dell’archivio parrocchiale ci confermano che i matrimoni dei Picozzi vengono celebrati tutti nella chiesa sopra detta e quindi possiamo immaginarli, quando, vestiti della festa, partendo dalla loro abitazione, per raggiungere la vicina chiesa, attraversavano la strada principale del paese seguiti dal corteo nuziale. Ancora oggi al numero civico 12 di Corso Roma a Cologno abitano alcune famiglie “Picozzi” e la corte è stata ristrutturata solo pochi anni fa dopo che per forse due secoli era rimasta immutata e aveva una struttura caratteristica delle corti lombarde, come viene riprodotta a pag. 174 del libro “Cologno Monzese, nella storia – nelle
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immagini� scritto da Giuseppe Severi e Don Luciano Mandelli .
La cortile interno della Curt dei Picos, ieri.
Il
cortile interno della Curt dei Picos, oggi.
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Il fronte strada della Curt dei Picos, oggi, che conserva il tipico portone d’ingresso per accedere al cortile interno.
A pag 172 del libro sopra citato, gli autori descrivono la vita delle corti e a metà pagina riportano un lungo elenco dei nomi delle varie corti. La Curt dei Picos viene citata per prima e penso che questa scelta sia stata motivata dal fatto che forse era la più importante, ma questo mio giudizio, lo riconosco, è forse troppo di parte. Ritornando al “capostipite” della famiglia, Giuseppe Antonio, sappiamo che si sposa con Maria Barbante, anche lei abitante a Cologno, e da questa unione nasce, il 24 maggio dell’anno 1803, il figlio Domenico che viene battezzato nella chiesa dei SS Marco e Gregorio.
Domenico Picozzi, il mio “trisnonno”, seguendo le orme del padre svolgerà l’attività del fattore e sappiamo che si sposa Cologno il 29 agosto 1830 con Maria Maddalena Oggioni. 9
Maria era nata il 15 settembre 1808 da Giovanni Antonio Oggioni e Rosamaria Regoli. Il parroco Don Amedeo Panceri della parrocchia dei SS. Marco e Gregorio annota che testimone è un certo Giovanni Picozzi, tessitore, e che la sposa ha avuto “l’assenso della Pretura di Monza” dato che era ancora minorenne (ricordando che a quei tempi la maggiore età la si raggiungeva a 25 anni). Dal matrimonio, appena dieci mesi dopo e precisamente il giorno 30 del mese di giugno dell’anno 1831, nasce Pietro.
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Il mio bisnonno
PIETRO PICOZZI nacque a Cologno Monzese dove trascorse la sua fanciullezza ma successivamente la famiglia, probabilmente per ragioni di lavoro, si trasferisce in un paese vicino e precisamente a Cambiago. Ci risulta infatti che Domenico e Maria hanno a Cambiago un altro figlio, Luigi Mauro che nasce il giorno 14 gennaio 1841 e che viene battezzato nella chiesa parrocchiale di San Zenone. Si ha notizia anche di una sorella che ritroveremo accanto a Pietro nelle sue ultime ore di vita. Ma torniamo al giovane Pietro Picozzi che, raggiunta la maggiore etĂ , continua il lavoro del padre ed infatti nei documenti viene indicato con la qualifica di fattore.
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Abbiamo lettere e certificati che comprovano la sua collaborazione con l’Ospedale Maggiore di Milano 2 con il titolo di Agente e l’incarico di amministratore dei numerosi beni che l’Ospedale Maggiore possiede nella zona di Burago, un altro comune in provincia di Milano poco distante da Cambiago. Tutto questo è confermato dal contenuto di alcune lettere che si sono salvate nel corso degli anni probabilmente perché affrancate con francobolli a suo tempo ritenuti di un certo interesse. Questa corrispondenza, scambiata con la direzione dell’Ospedale, reca delle date che vanno dal 1867 al 1873 e che ci forniscono quindi una preziosa informazione sull’attività di Pietro in quegli anni.
Teniamo presente che le lettere di allora consistevano principalmente in un foglio che riportava, da un verso, il contenuto della missiva, mentre dall’altro lato, una volta ripiegato, veniva scritto l’indirizzo del destinatario e posto il francobollo. Da notare inoltre che in alcune di queste lettere Pietro scrive di suo pugno, sul retro, “la copia” della risposta.
Il Dott. Paolo Galimberti del Servizio Beni Culturali della Fondazione irccs Ca' Granda, Ospedale Maggiore Policlinico ci precisa che “ l'Ospedale, per amministrare le proprietà in campagna, riunite in lotti territoriali, possedeva in diverse località delle Agenzie. L'agente (normalmente un ingegnere) coordinava campari e tecnici e rappresentava l'Ente a livello locale. 2
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A quell’epoca infatti era una prassi normale quella di “risparmiare” e la carta era un bene di un certo valore. Inoltre questa soluzione offriva anche il vantaggio di avere una copia del testo spedito, detta la “brutta copia” con correzioni e scritta senza preoccuparsi della “bella calligrafia”. Importante ricordare che questa abitudine è durata fino agli anni ’50 del secolo scorso mentre oggi ci sorprende sia perché non si sente più, in generale, la necessità del risparmio sia perché si è passati dalle “veline” della macchina da scrivere, alle fotocopie o alla copia del file sul nostro computer. Fino all’età di quaranta anni vive a Cambiago e possiamo far risalire a quell’epoca una fotografia che lo ritrae in compagnia di un suo amico dalla folta barba. L’abbigliamento è molto particolare, per la nostra mentalità, ma era quello tipico dei fattori delle campagne lombarde. Giacca, panciotto e papillon, venivano indossati solo nei giorni di festa mentre la tenuta da lavoro era molto più “rustica”. L’uso del cappello a larghe falde, più elegante quello della festa e molto più sciupato quello dei giorni di lavoro. Quel cappello aveva una ragione pratica, quella di proteggere il capo dal sole estivo o dalle piogge durante le visite nei campi fatte quasi sempre a piedi o a cavallo, ed era anche “un segno” di comando che pretendeva il rispetto dei coloni e dei “campari”, Uno di questi coloni invia nel 1867 a Pietro una lettera che può essere considerata un documento utile per non 13
dimenticare quali erano le tristi condizioni di vita nelle campagne in quegli anni, o forse da sempre.
La calligrafia ed il contenuto della lettera denunciano la “collaborazione” probabilmente del parroco del paese Burago di Molgora perché i coloni di allora erano quasi sempre analfabeti. Anche la firma denuncia questo fatto…. “ O/ Comi Giuseppe, Luigi figlio” . Ma quello che richiama la nostra attenzione in questa missiva è la riga con cui inizia. Una frase molto significativa, “Siccome noi mangiamo polenta tutti i giorni ….” e pure il resto del testo che prosegue chiedendo di poter acquistare, per questa esigenza, tutto il raccolto del granoturco del suo campo. Purtroppo in quegli anni la gran parte della popolazione rurale della Lombardia si alimentava quasi esclusivamente di mais e la nutrizione squilibrata, per l’assenza di vitamine ed aminoacidi, faceva insorgere una grave e terribile malattia, la pellagra. Questa era detta anche la malattia delle tre “d”, dermatite, diarrea, demenza in termini così gravi da causare in molti casi la morte del malato. 14
La pellagra fu una piaga sociale fino a quando, nei primi anni del novecento, migliorarono le condizioni di alimentazione della popolazione. La sua vita a Cambiago comprende anche un suo importante ruolo come capitano della Guardia nazionale. Come si può rilevare, bisogna quindi giungere alla metà del XIX secolo per poter arricchire le scarne informazioni su chi ci ha preceduto con qualche foto o con qualche documento scritto. Nel mio caso il primo nome ad avere anche un volto è proprio quello del mio bisnonno Pietro, di cui si sono tramandate in famiglia le notizie che riporto e dei documenti relativi alla sua vita che mi hanno offerto l’opportunità di poter meglio documentare questa figura importante del mio avo. Il 16 febbraio 1871 è una data importante per Pietro che all’età di quaranta anni si sposa con Annunciata Brambilla. Il matrimonio fu celebrato nella chiesa parrocchiale del paese di Trezzano Rosa dedicata a San Gottardo. I genitori di “Nunziatina”, nata a Bellinzago il 27 febbraio 1846, erano Fiorentino (o Fiorenzo) Brambilla e Angela Corti che in quegli anni si erano trasferiti da Bellinzago a Trezzano Rosa. Una fotografia, scattata forse per ricordare l’avvenimento, vede i due sposi ritratti in piedi, in posa, uno vicino all’altro, con le mani destre unite. Da notare che Pietro aveva allora quaranta anni e Annunciata solo venticinque e sorprende quanti ne dimostrano di più agli occhi nostri. Bello il gesto di Annunciata che pone delicatamente la mano sinistra sulla spalla del marito come segno di una scelta del compagno a cui affidarsi nella vita. La fotografia è stata scattata a Milano in Corso Vittorio Emanuele nello studio del fotografo Montabone , allora famoso tanto da aver aperto anche un laboratorio nella città lombarda dopo essersi conquistato fama e clienti a Torino, sua città natale.
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Gli sposi, dopo una attesa di sei anni, daranno alla luce il primo figlio che sarà battezzato con i nomi di Paolo e Angelo lo stesso giorno della nascita, il 16 febbraio 1877, nella chiesa parrocchiale di Trezzano Rosa. Nei documenti, che registrano l’atto di nascita, il padre Pietro viene definito “possidente”. 16
Nel 1877 Pietro Picozzi è nominato sindaco di Trezzano Rosa.
Un da
ritaglio un giornale dell’epoca
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Questa è la mappa di Trezzano Rosa all’epoca del matrimonio di Pietro e Annunziata che andarono ad
abitare nella Corte detta “il Vaticano”, indicata con il numero 296 nella mappa, posta accanto alla canonica e alla chiesa di San Gottardo. Fiorenzo Brambilla era il proprietario di questo importante complesso e alla sua morte avvenuta nel 1854 lascia il tutto in eredità alle sue tre figlie Annunziata, Virginia e Matilde.
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La mappa è tratta dal libro “ La storia di Trezzano Rosa – dalle origini al XX secolo” a cura di Vincenzo Sala voluto dal Comune di Trezzano Rosa nel 2007.
A pag.273, del libro sopra citato, leggiamo: “ Il primo gennaio 1760 veniva attivato il primo catasto moderno, geometrico estimativo particellare, denominato “Catasto Teresiano” le cui rilevazioni risalivano al periodo 1718-1758 e riguardavano i territori di Milano…” ma poi, negli anni a seguire, con le opportune correzioni dovute anche alle variazioni politiche di quegli anni, si giunse alla realizzazione della “ prima mappa ottocentesca del territorio del Comune censuario di Trezzano Rosa mandamento di Cassano D’Adda, Provincia di Milano” con orientamento a settentrione che veniva rilevata nel 1866…”
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Questa è la Corte Vaticano come è ai giorni nostri dopo una completa ristrutturazione. La volumetria degli edifici che la compongono è stata rispettata ed è rimasta praticamente immutata dal 1850. A conferma di questa cura di non modificare i luoghi “ereditati”, si può osservare un grande albero di magnolia proprio al centro della corte come da semprelo sipuò ricordare. Fra queste mura della bella corte tipicamente lombarda si è svolta la vita della famiglia Picozzi per tre generazioni fino al 1950 circa. Tutto il complesso della Corte del Vaticano viene descritta nel documento “L’Annotario di campagna” eseguito dallo commissario stimatore Ing. Gallatteni” nel 1854 come una “casa mediocre con 5 luoghi terreni, 3 superiori, stalle, 1 portico, 1 portico ad uso filanda, 1 cantina, 2 luoghi terreni, 2 portici, 1 rimessa, 1 scuderia con fienile,1stalla e siti di meccanismo per filatojo, una galleria emporio, 1 granaio ….” per totali 31 locali 3.
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Notizie ricavate dal libro già citato di Vincenzo Sala
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A Trezzano, a quell’epoca, esisteva anche un'altra filanda e queste due filande rappresentavano le sole attività “industriali” del paese. In una filanda, o incannatoio, si svolgevano le seguenti lavorazioni: la cernita dei bozzoli che venivano scelti dividendoli per qualità, la spelatura o eliminazione della peluria che circonda il bozzolo, la scopinatura una operazione che permetteva di trovare il capo della bava e che veniva svolta mettendo il bozzolo a bagno in vasche con acqua a 75-80 gradi per sciogliere la colla che lo tiene unito e per trovare, con uno scopino, il capo, trattura o filatura, srotolamento della bava che veniva arrotolata su di un aspo, l’incannaggio, trasferimento dalle matasse degli aspi ai rocchetti ed infine la bobinatura cioè l’accoppiamento di due o più capi per ottenere un filo della dimensione voluta. Tutte queste lavorazioni erano eseguite quasi esclusivamente da manodopera femminile ed in giovanissima età. Dai documenti catastali si ricavano anche altre informazioni in merito alla realizzazione di locali da adibire a filanda da parte di Fiorenzo Brambilla già negli anni1834-1838, per sviluppare una attività che deve aver dato un buon reddito e permesso al proprietario di investire gli utili acquistando altre proprietà. Ricordiamo che Trezzano Rosa era un paese sprofondato nella campagna lombarda, abitato da sempre, solo ed esclusivamente da contadini dediti alla lavorazione dei campi ed all’allevamento del bestiame e quindi l’acquisto di terreni o casolari era il solo modo di investire gli utili di questa nuova attività “industriale”. Un anno dopo la nomina a sindaco di Trezzano Rosa, e precisamente il 26 settembre 1878 nasce il secondo figlio che viene battezzato il 28 settembre con i nomi Silvio Cesare Carlo. In questo caso il padre Pietro viene indicato con la qualifica di sindaco di Trezzano Rosa. Nell’anno 1881 il Consiglio Comunale di Trezzano Rosa, nel corso della ”Adunanza Ordinaria Autunnale” sotto la presidenza di Pietro Picozzi, sindaco al secondo mandato, approvò il progetto di statuto per la creazione di un consorzio per la 21
costruzione del ponte sul fiume Adda a Trezzo . Inoltre il consiglio nominò lo stesso sindaco come “delegato in rappresentanza del comune” nel consorzio stesso con la seguente motivazione: “ persona intelligente e capace”. Di quei giorni felici, circondato dall’affetto della moglie e dei due figli e dalla stima degli abitanti del suo paese, rimane una fotografia 4 che ritrae Pietro e Annunciata, con i loro due figli Paolo e Silvio, foto scattata probabilmente nel 1884. Da un raffronto con la foto del matrimonio Pietro e Annunciata risultano molto invecchiati anche se gli anni trascorsi sono circa dodici e si rimane sorpresi nel pensare che quest’uomo ha circa 53 anni e la moglie circa 37!! Da notare anche i due figli che mostrano chiaramente, di fronte all’obbiettivo, quello che sarà il loro carattere futuro: timido e tranquillo quello di Paolo, irrequieto e brillante quello di Silvio. Il viso stanco di 4
La fotografia è stata scattata presso lo studio fotografico GERARDO BIANCHI ( Monza 1845 – 1922) ritenuto uno dei più famosi studi fotografici. G. Bianchi fu anche un pittore abbastanza affermato ed era parente del più noto artista Mosè Bianchi
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Pietro può essere però spiegato dal fatto che purtroppo un male incurabile aveva già minato il suo corpo tanto che proprio in quell’anno, 1884, fu costretto a rassegnare le dimissioni da sindaco. Infatti solo dopo pochi mesi la morte lo raggiunse il 20 febbraio del 1885. Come era abitudine per le persone che avevano in vita ricoperto posizioni di una certa importanza, alla loro morte venivano raccolte le orazioni funebri e pubblicate in un libretto. Questo libretto per Pietro, si è salvato nei tempi e ci ripropone gli scritti dell’allora parroco di Trezzano Rosa, di alcuni amici e del nipote Carlo Sala. Come sempre succede, quando si lascia questa terra, chi rimane ricorda solo le qualità e le esalta a volte con toni enfatici.
Tralasciando quindi tutto questo, cerchiamo di ricavare da questo documento solo le informazioni che ci aiutino a meglio ricordare la vita di Pietro Picozzi. Il parroco di Trezzano Rosa, Don Giuseppe Rajnoni, ricorda con affettuose parole la sua azione per sconfiggere quella che allora era una grossa piaga sociale, la pellagra, con positivi risultati con “grandissimo vantaggio per i sofferenti” ( e in precedenza sottolinea che questa sua azione “riescì, anziché di peso, di sollievo al bilancio comunale”). Inoltre sottolinea che, sempre come sindaco, fece in modo che “ le scuole apportassero un vero vantaggio all’educazione del popolo” e ricorda inoltre “ l’integerrimo animo con cui amministrò l’altrui patrimonio in Cambiago…… e il suo solerte affaccendarsi per la tutela degli interessi dell’Ospedale Maggiore di Milano affidati alla sua sorveglianza.”
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La sua sepoltura avvenne nel cimitero di Trezzano (quello vecchio ora scomparso)“ in questo sacro recinto e il cui riordinamento gli è suo merito”. Il nipote, Cesare Sala, ricorda la vita di Pietro a Cambiago “per tanto tempo resse con iscrupolosa coscienza ed onorevole cura le possessioni a lui affidate, disimpegnò con onore le comunali mansioni e …fu capitano della Guardia nazionale” Lasciò Cambiago “.. allorquando l’animo suo docile all’obbedienza, ma ribelle alla servitù, lo consigliò ad abbandonare ad altri il posto tanto degnamente occupato”
Ritengo importante inserire a questo punto la fotografia di due libri di preghiere, appartenuti a Pietro e alla moglie Annunciata, per ricordare una cultura religiosa ormai da tempo scomparsa. Fra le pagine dei libri vi erano, insieme a delle immaginette sacre, anche due foglietti in ricordo della comunione pasquale del 1864 e del 1879.
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Nel 1887 Annunziata Brambilla e le sue sorelle cedono in affitto al comune “ due stanze a piano terreno per una scuola maschile e femminile, una al primo piano per uso Uffici Municipali ed un mezzanino ‌per uso repostile comunaleâ€?. Questi locali erano situati sulla via Dante a partire dalla piazza principale.
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Lo zio Paolo PAOLO PICOZZI, primogenito di Pietro e di Annunziata Brambilla, come abbiamo visto nasce a Trezzano Rosa il 16 febbraio 1877. Paolo trascorrerà tutta la sua vita amministrando i poderi di famiglia. Una vita tranquilla e serena quasi da signorotto di campagna con una sola grande passione, quella della caccia. Infatti il solo documento conservato è quello a lui più caro: la licenza di caccia.
Quando morì, lasciò una vera e propria collezione di oggetti utili alla caccia, logicamente un buon numero di fucili, tutto il necessario per la produzione delle cartucce, una quantità notevole di pallini di piombo di vari diametri, una serie di richiami per diversi tipi di uccelli che comprendevano non solo dei bellissimi fischietti in ottone ma anche delle sagome girevoli e ricoperte di specchietti riflettenti. 26
I suoi amici più fedeli furono per tutta la vita i suoi cani da caccia che lo seguivano passo a passo durante le sue camminate nei campi. Di carattere mite e amante della natura e della campagna, scelse di non sposarsi ma si racconta che avesse avuto almeno un grande amore nella sua vita per una persona che, per volontà del destino, fu sepolta accanto alla sua tomba nel cimitero di Trezzano. Nei mie ricordi della prima infanzia occupa un posto importante perché lo rivedo nel grande giardino, sul retro della casa e delimitato dal muro su Via Dante e dal muro su Via per Pozzo, seduto sul tronco cresciuto in orizzontale di un albero di giuda con ai suoi piedi il cane da caccia del momento, mentre mi racconta le sue avventure da cacciatore. Ebbe solo una grande avversità in tutta la sua vita, possiamo dire quasi un odio per quasi venti anni, per il partito fascista ed in modo particolare per Benito Mussolini. Si dice che l’unico “NO” come voto contrario, nelle poche elezioni politiche di quel periodo, depositato nelle urne di Trezzano Rosa, fosse il suo. Io ricordo che quando ero ragazzino di 5 anni, stavo spesso con lui nella grande cucina di casa che aveva un camino molto profondo tanto da avere due sedili ai due lati del focolare. Lui si sedeva da un lato ed io mi sedevo dall’altro, ed il mio massimo divertimento era assistere alla sua reazione alla mia domanda: “Zio Paolo, ma chi è Mussolini ?”. A questo punto si infervorava e, illuminato dal fuoco del camino, mi rispondeva con un vocione profondo “ Un porco, un porco, un assassino …” battendo con le molle del camino sui tizzoni incandescenti. Un altro ricordo legato a lui fu una scoperta curiosa che allora mi colpì molto: alla sua morte fu trovato un armadio, quelli grandi in noce che si tenevano nelle camere, pieno di scarpe nuove. Si appurò che Paolo aveva un piede più grande dell’altro, e quando acquistava delle scarpe nuove , ne acquistava sempre due paia di taglia diversa e poi usava una scarpa di una e una 27
scarpa dell’altra. Rimanevano nuove nell’armadio quelle non utilizzate ma logicamente di taglia diversa. Muore a Trezzano dove è tumulato il giorno 8 marzo 1945.
Mio nonno SILVIO PICOZZI, mio nonno, nasce a Trezzano Rosa 26 settembre 1878 secondogenito di Pietro e di Annunziata Brambilla. Carattere vivace e molto diverso da quello del fratello, ha sempre sentito il peso di una vita, entro confini ristretti, quale era quella che offriva un piccolo paese di campagna come allora era Trezzano. Anche in questa immagine, realizzata sicuramente lo stesso giorno di quella in precedenza presentata, si nota come i due genitori tengono stretto, quasi a proteggerlo il figlio Paolo, che sembra timido e quasi gracile (allora). Il riccioluto Silvio si presenta più vivace, indipendente e quasi spavaldo. E queste sue caratteristiche lo hanno accompagnato per tutta la vita.
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Da alcuni libri di studio che sono stati rinvenuti e che erano sicuramente parte della sua biblioteca, si ricava l’informazione che Silvio ha studiato come liceale presso il liceo Pietro Verri di Lodi 5 . Ma un documento datato 15 ottobre 1899 attesta che al momento di conseguire la licenza liceale sembra non essersi presentato all’esame di matematica. Evidentemente il carattere bizzarro di mio nonno lo portava ad occuparsi di molte altre cose e lo distraeva dagli studi perché termina il liceo (o quasi) al momento di compiere 21 anni!! Il problema della prova di matematica deve essere stato successivamente risolto perché risulta essere iscritto al primo anno della Facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Pavia nell’anno accademico 1899-1900. Frequenta anche il secondo anno nel 1900-1901, ma il 23 dicembre 1901 si congeda, sembrerebbe senza aver sostenuto alcun esame, per trasferirsi all’Università di Genova. Evidentemente la vita del giovane ricco possidente risulta essere molto più interessante degli studi ma alla fine deve 5
I corsi di studio del Liceo furono profondamente modificati dalla riforma scolastica del 1860, che prevedeva la divisione degli 8 anni di insegnamento in Ginnasio e Liceo. I primi 5 anni erano formati da lezioni di italiano, latino, greco, aritmetica, geografia, storia, religione, ginnastica ed esercizi militari. I seguenti tre erano caratterizzati dall'insegnamento di italiano, latino, greco, filosofia, storia, matematica, fisica, chimica, storia naturale. Il Liceo, denominato sotto Vittorio Emanuele II Regio Liceo Ginnasiale, fu intitolato all'illuminista milanese Pietro Verri.
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essersi convinto ad affrontare seriamente gli studi di giurisprudenza e a conseguire la laurea. I volumi fotografati sono delle raccolte di dispense (scritte a mano da abili amanuensi di allora) di lezioni tenute da famosi professori dell’università di Genova,
Il punto di partenz a ma soprattutto il punto di ritorno di tutti i suoi viaggi è sempre Trezzano Rosa e il suo mondo si svolge all’interno delle mura della Corte dei Picozzi quella detta “Il Vaticano” Cresce così, insieme al fratello Paolo, e si dedica sempre più agli studi e alla lettura di tantissimi libri 30
con cui riempirà un numero incredibile di librerie, scaffali e armadi che occuperanno molte stanze all’ultimo piano della casa con le finestre che danno sulla piazza. Il suo carattere fa si che non vi sia una chiusura sui libri ma anzi la loro lettura gli fornisce spunti per ricercare contatti con scrittori e giornalisti e per conoscere diverse realtà ed approfondire nuove conoscenze.
Scrive brevi racconti, che chiama “piccole prose”, oggi quasi illeggibili perché, per seguire evidentemente la moda dell’epoca, sono un elenco di tragedie, di situazioni tristissime, di lacrime e sofferenze d’amore. Ma evidentemente incontravano i gusti dei lettori perché vengono
pubblicate sulle varie “gazzette o fiere letterarie” e ne 31
troviamo traccia ancora oggi su internet su un sito che riporta copie della “Sardegna letteraria – artistica” del 1908. Interessante è anche una lettera che Silvio scrive il 2 gennaio 1908 alla Amelia Pincherle Rosselli (18701954) madre dei Fratelli Rosselli assassinati in Francia nel 1937 perché antifascisti. Amelia Rosselli donna di grande cultura in quegli anni aveva scritto dei romanzi che opere teatrali e Silvio le chiede di vincere la sua naturale riservatezza e fornirgli notizie utili per permettergli di preparare un suo profilo artistico da pubblicare sul “Ventesimo” di Genova.
Silvio si appassionò anche alla raccolta di francobolli, molto sentita allora anche come mezzo per allargare le proprie conoscenze. Iniziò anche una collezione molto particolare, e sicuramente condivisa da pochi altri appassionati, cioè quella delle schede elettorali dei candidati di tutta l’Italia che hanno partecipato alla 24 esima legislatura (1913-1919). Fu l’ultima votazione a collegio uninominale e fu “a suffragio allargato”, impropriamente detto universale, perché Giolitti volle estendere il voto anche agli analfabeti. Nel 1913 gli elettori passarono quindi da circa 3.200.000 a 8.700.000. Silvio raccolse circa 1300 schede di candidati, cioè dei cartoncini quadrati (12x12 cm.), che l’elettore doveva inserire in una busta e quindi nell’urna. Ogni cartoncino riportava il nome del candidato e la sua foto o un simbolo per aiutare gli analfabeti. Di solito i simboli erano 32
abbastanza scontati come un garofano rosso, una bandiera, una stella ma nel collegio di Gorgonzola, quello a cui apparteneva Trezzano Rosa, i due candidati che si contesero la vittoria, avevano dei bellissimi simboli, ed erano Antonio Ingegnoli e Steno Sioli Legnani che vinse.
Silvio ha sempre esercitato a Milano la sua attività forense nello studio di via Victor Hugo in pieno centro, a pochi passi dalla galleria Vittorio Emanuele tra Piazza della Scala e Piazza Duomo ma risulta avere, nel 1927, anche un ufficio a Trezzo sull’Adda nell’allora Via Crivelli. Questo calamaio è stato per molti anni il suo “computer” con cui scriveva le sue arringhe e, molto spesso, la sua corrispondenza con gli amici letterati o le sue amate novelle o commedie. Un calamaio sempre posizionato sulla sua scrivania che mi ha sempre colpito per l’ingegnoso sistema che permetteva di avere, quando aperto, l’inchiostro a portata di pennino e, quando chiuso, di impedire all’inchiostro di asciugarsi. La finta conchiglia 33
“nautilus”, riprodotta in ceramica, richiama l’interesse di chi la guarda anche perché è uno dei molti esempi degli effetti della legge aurea, di scuola pitagorica, che la natura applica ottenendo risultati di grande bellezza e armonia.
Silvio, giovane e brillante avocato, nel 1903 (?) sposa una bella ragazza di Canonica d’Adda, Bice Talgati.
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Il 29 novembre 1905 nasce il loro primogenito Piero Picozzi e due (?) anni dopo nasce Antonietta poi sempre chiamata Jetta. Si è salvata una agendina con una copertina con delle viole dipinte con grande bravura, agendina che ancora conservo con molta cura.
In poche pagine sono contenuti degli appunti di mia nonna Bice che raccontano le prime esperienze dei suoi figli. Nella pagina riprodotta, siamo al 6 aprile 1907 scrive: “ Pieruccio, con aitanza virile, cammina lunghi tratti da solo. A’ ancora un po’ di paura ( in ciò risente magnificamente del carattere di sua madre) ma è una bellezza vederlo! ( tutto suo padre)” Nel mese di marzo 1909 scrive: “ L’Antonietta comincia quasi a parlare e dice mamma e comincia pure a stare nello strettoio ben diritta”.
Nel 1916 Silvio, nonostante sia ormai quarantenne, viene richiamato per il servizio militare durante la prima guerra mondiale, e deve partire per il fronte anche se, proprio per la sua età, verrà fortunatamente sempre tenuto nelle retrovie.
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E questa è una dolce missiva che il papà Silvio dal fronte invia alla figlia Jetta!
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In quel periodo Silvio manda a casa molte lettere ma anche molte fotografie che lo ritraggono in divisa con altri commilitoni, fotografie che saranno raccolte in un grosso volume conservato per molti anni negli armadi di casa. Io ricordo di averlo più volte sfogliato ma con il passare del tempo, come tante altre cose, è andato perso. La sola immagine rimasta di quegli anni è questa che ritrae Silvio con una elegante divisa da ….. “fantaccino”, e, logicamente, lo scatto è stato eseguito presso uno dei migliori studi fotografici di Milano.
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Bice in quegli anni insegna alla scuola elementare di Trezzano Rosa e per molti anni fu ricordata come una brava e affettuosa maestra. Una sua bella foto e un documento della scuola, da lei compilato nel 1923
Si raccontava che Silvio, una volta rientrato dal fronte, si fosse divertito a percorrere piĂš volte la strada principale del paese a bordo di un piccolo motociclo e con una scimmia impagliata fissata sul sellino posteriore. Immaginarsi la sorpresa ed i commenti di chi l’aveva incontrato, tutte persone semplici, dedite ad un duro lavoro e con la vita scandita da sempre solo ed esclusivamente dai rintocchi delle campane della chiesa. Ma queste “bizzarrieâ€? rientravano nel suo carattere.
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Ma si dedicò anche al suo lavoro e alla sua grande passione per i libri e cercò di fare di tutto per uscire dal ristretto mondo del paesino di campagna. In queste sue esperienze letterarie si mise in contatto con molte figure importanti dell’epoca e divenne anche amico di Marinetti, il fondatore del “futurismo”. Ricordo di aver visto, custodita in qualche cassetto di casa,una corrispondenza ricevuta da questo artista che rappresentò un momento ricco di voglia di cambiamenti e di ribellione intellettuale. Fu sua anche l’idea di “una ricerca araldica”, nell’intento di trovare delle nobili discendenze della famiglia, cosa molto improbabile, che diede come risultato la ricostruzione di uno stemma con un castello turrito rosso e un braccio armato che impugna una “picozza” come quella usata proprio in quegli anni dagli alpini in guerra che presentava da una parte un’ascia e dall’altro una punta.
Passarono in fretta gli anni e il suo fisico forse risentì le conseguenze di un uso eccessivo di sigarette e l’ultima foto che ci rimane di Silvio lo ritrae invecchiato e molto sofferente.
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Uno sguardo all’area geografica dove si sono svolte le vite delle persone citate in queste pagine. Per chi non è pratico della zona si tratta di un’area, a nord est di Milano, che ha come confine naturale, con la provincia di Bergamo, il tracciato del fiume Adda.
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Mio padre PIETRO PICOZZI, mio padre, nasce il 25.11.1905 a Trezzano Rosa. Le “povere” fotografie di allora lo ritraggono con lo sfondo di un muro, una finestra o un arco della Corte.
La fotografia a sinistra, scattata nei primi mesi del 1906 è interessante per ricordare come tutti i neonati fossero, a quei tempi, tenuti ”fasciati”. La fotografia di destra, scattata in estate con Pietro mezzo nudo, ricorda il vecchio “seggiolone” di una volta dalle linee estremamente semplici ma con un aspetto decisamente “solido”.
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Questa è una foto forse degli anni 19091911 e raffigura Antonietta seduta su un gradino alquanto disastrato di una porta che si affacciava sulla Corte.
Queste bella fotografia di qualche anno dopo,ritrae Pietro ormai ragazzino con la sorella Jetta, due fratelli uniti da un grande affetto che durò per tutta la vita. Da notare il braccio destro di Pietro che mostra già il danno subito a causa di una caduta dal dorso di un…. somaro che aveva voluto cavalcare nonostante la proibizione dei genitori. Per paura dei rimproveri, tenne nascosta per lungo tempo la frattura del gomito e quando finalmente confessò l’accaduto era ormai troppo tardi per un corretto riposizionamento del braccio. Il solo rimedio che poteva proporre un medico di campagna come il medico condotto di Trezzano Rosa, 42
l’allora Dott. Tranquillo Brambilla, che abitava nella Corte, fu di mettere in trazione il braccio trasportando un secchio pieno d’acqua ! Ma questa leggera malformazione, che negli anni successivi non gli creò problemi, fu al contrario la ragione per essere dichiarato inabile al servizio militare in occasione della seconda guerra mondiale e quindi, in famiglia, molte volte benedetta!
Dopo le scuole elementari a Trezzano. Pietro proseguì gli studi presso l’istituto privato Facchetti 6 di Treviglio, scuola di commercio, dove consegue il diploma equivalente all’attuale diploma di ragioniere. Sul diploma, datato giugno 1922, si legge un giudizio
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Il fondatore di quel Collegio, Giuseppe Facchetti, un giovane maestro di Calvenzano, già fondatore nel 1887 della locale Cooperativa Agricola, ancor oggi viva e vitale (la più vecchia d'Italia tuttora in attività), aveva fondato a Treviglio nel 1896 un Collegio, anzi un College che aveva preso ad esempio dalle famose scuole inglesi dell'epoca, in cui si insegnava pratica commerciale (una scuola per manager, diremmo oggi), e uno stile di vita british (per primo avrebbe portato nella sua scuola l'equitazione, il cricket, lo studio della pubblicità, e avrebbe costruito la prima piscina coperta italiana non alberghiera o termale). Un Collegio presto diventato 'internazionale» per la frequenza di giovani che venivano da tutto il mondo (negli anni '10 e '20, sarebbero stati la maggioranza rispetto agli italiani). Di quello stile all'inglese faceva parte lo sport in generale, ampiamente praticato in varie discipline, e il football in particolare.
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finale: “Giovane di intelligenza pronta e svegliata, di forte volontà e di grande sentimento e dovere”.
Documento dell’istituto Facchetti del 1913
Gli studi ed il titolo conseguito gli permettono di intraprendere subito una attività nel settore assicurativo lasciando il paesello natio e trasferendosi stabilmente a Milano. A Milano, nel tempo libero dagli impegni di lavoro si appassiona al teatro e decide di provare a recitare e per questa ragione si unisce ad 44
una compagnia di dilettanti che recitano in un teatrino dalle parti di Piazzale Corvetto. Ed è li che conosce una bella ragazza, Ester Garrone detta Teti, mia mamma. e le sue due sorelle ritratte nella fotografia di gruppo. Teti era nata il 25.10.1904 a Genova da Luigi Garrone e da Maddalena Bonafede. Dopo pochi anni mio nonno, per ragioni di lavoro, si era trasferito a Milano, lasciando l’amata Genova, città che non dimenticò mai. Il sogno di mio nonno, per tutta la sua vita, fu quello di ritornare a Genova, rivedere la Lanterna e la zona dove era nato, quella del quartiere di Sant’Agostino. Mia mamma e le sue sorelle, Mimmi ed Eva, pur essendo sempre vissute a Milano, quando si incontravano parlavano sempre in dialetto ligure perché questa era la “lingua” della famiglia Garrone! Mio nonno svolgeva, come attività, quella di responsabile amministrativo dalla Compagnia del Gas che allora aveva un gasometro tra via Bocconi e l’attuale Via Ròntgen e aveva scelto di abitare in viale Bligny al numero 24, all’angolo con la Via Bocconi. Mia mamma a completamento dei suoi studi frequentò dei corsi a Brera con buoni risultati come conferma la cartolina qui riportata e mi raccontò che il suo compagno di corso che l’aveva maggiormente impressionata fu il pittore Lilloni.
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Mio nonno, mia nonna, mia madre, la zia Eva la piĂš piccola, una parente e mia zia Mimmi nel 1925.
Questa bella foto di famiglia è stata scattata negli anni 1909 – 1910 a Mede, in provincia di Pavia, dove la famiglia Bonafede, quella di mia nonna materna, si era imparentata con la famiglia Callegaris. 46
Con un segno rosso sono riconoscibili mia madre, in primo piano sulla destra, vicino a mia zia Mimmi e in alto a sinistra mio nonno, mia nonna con in braccio mia zia Eva. Una fotografia tipica di una volta quando le famiglie erano numerose, e quando per una festa o una ricorrenza si indossava l’abito “buono” e per fare una foto ci si metteva in posa. In seconda fila con un cappello a larghe tese e un bel paio di baffi è ritratto Francesco Callegaris a cui è dedicata la cappella con tanto di busto in bronzo nel cimitero di Mede.
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Una immagine di mia mamma all’età di 19 anni, nel mese di marzo 1923. La fotografia è stata scattata da un famoso fotografo di Milano, Attilio Badodi (18801967) con studio in Via Brera e le sue doti artistiche erano molto richieste dai personaggi dello spettacolo che frequentavano il suo laboratorio. L’immagine è una stampa alla gelatina ai sali d’argento virati.
Pietro (Piero) lo troviamo, probabilmente poco più che ventenne, in posa romantica forse ai bordi del laghetto del Parco di Milano. Ed il 10 giugno del 1929 Piero si sposa a 24 anni con la sua Teti.
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Nel 1930 nasce mia sorella Maddalena (Magda) qui in braccio alla mamma nel 1931
Piero in quegli anni cambia lavoro e viene assunto all’ENPAS di Milano (Ente Nazionale Previdenza Assistenza per gli Statali) 7 dove in breve tempo raggiungerà livelli dirigenziali fino ad ottenere la nomina a direttore di una sede così importante come quella del capoluogo lombardo.
La famiglia Picozzi negli anni 1934 – 1935
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Confluita nel 1994 nell’attuale INPDAP
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Gennaio 1939, mio padre in una delle prime uscite con gli sci ( e forse anche l’ultima) ai piani di Artavaggio in Valsassina a 65 km. circa da Milano.
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Il giorno 5 del mese di ottobre dell’anno 1939 nasco io,
SILVIO PICOZZI Mia madre volle che nascessi in casa anche se era ormai una prassi comune nascere in ospedale e quindi vidi la luce nell’appartamento di Viale Bligny 24.
1940 - Forse la mia prima passeggiata all’aperto in compagnia di mia sorella Magda che da quel momento cominciò a considerarmi un figlio più che un fratello.
Io in braccio a mia sorella nel 1940 a Milano
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Nell’estate del 1941 sulla spiaggia di Chiavari con mia sorella. Per mia mamma, da buona genovese, non vi era altro mare che quello ligure e anche se la guerra, in quel momento sconvolgeva il mondo intero, non rinunciò al mese di vacanza a Chiavari. Questa cittadina ligure acquisì grossi meriti ai suoi occhi perché nell’anno 1940 io avevo sofferto di una forte gastrite intestinale, dovuta molto probabilmente a dei gelati che una badante incoscientemente mi aveva dato da mangiare. Ero stato molto male ed ero molto deperito e per questa ragione mia mamma aveva deciso di partire subito per Chiavari. Dopo una cura fatta quasi esclusivamente di lunghissime passeggiate in carrozzina lungo la riva del torrente Entella, che separa Chiavari da Lavagna, segui una guarigione rapida e completa e quindi da quel momento furono sempre decantati il clima e l’aria salubre di Chiavari e della Liguria Negli anni successivi, dal ’42 al ’45, la guerra non permise di ritornare a Chiavari ma successivamente per almeno dieci anni la vacanza al mare si è sempre svolta a Chiavari o a Lavagna.
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In braccio a mamma e papà e con mia sorella in vacanza a Chiavari nell’estate del 1941. I miei in quegli anni erano diventati amici di una famiglia che si seppe poi essere nobile: i Conti Bianchi di Lavagna. Giulio Bianchi amico di mio padre segui la carriera prefettizia mentre il figlio Vittorio, della mia età , segui per molti anni la carriera politica. Sua sorella fu per molti anni una grande amica di Magda. .
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Con mia sorella nel 1942
Alcune note sul resto della famiglia: mio nonno Garrone, ormai in pensione, era andato ad abitare in una palazzina che aveva acquistato in Via privata Braida a Porta Romana. Al primo piano abitava mia zia Eva che aveva sposato un tipo strano che aveva una sola grande passione, le moto e viveva tutto l’anno in attesa di partecipare al giro d’Italia motociclistico che una volta si svolgeva lungo tutta l’Italia utilizzando, come se fosse una pista, le strade normali!!
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Dalla loro unione nacque una bambina, una mia cugina di cui ho persino dimenticato il nome perché non volle, una volta cresciuta, mantenere rapporti con la famiglia. Mia zia morì presto e questo zio con la figlia si trasferì in un’altra città. Mia madre, per l’affetto che la legava alla sorella, cercò molte volte di contattare questa nipote ma purtroppo ogni tentativo fu inutile. La zia Mimi invece aveva sposato, un funzionario del ministero, il cognome era Ancora, che operava presso le ambasciate o i consolati d’Italia prima in Svizzera e poi per molti anni in Francia. Hanno avuto un figlio maschio Luigi detto Gino e due figlie …. Nonno Garrone stravedeva per il nipote Gino che venne a vivere con lui, quando, al seguito delle truppe alleate era rientrato in Italia dalla Francia alla fine della guerra, mentre i genitori e le sorelle rimasero in Francia. Nel 1940 mio padre si era laureato alla “Università Commerciale L. Bocconi “, dottore in economia e commercio, grazie ad una grande forza di volontà in
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quanto il tempo necessario per studi così impegnativi doveva essere trovato nel poco tempo libero lasciato dal lavoro e dalla famiglia. Interessante notare come mio padre sul diploma risulti, per necessità dell’epoca, in camicia nera. Ma dalla foto accanto si nota chiaramente come anche allora l’arte di arrangiarsi, tipica caratteristica italica, abbia fatto in modo che una camicia bianca si colorasse facilmente di nero .
Il mio primo compagno di giochi e il mio primo amico nell’anno 1942. Abitava anche lui in Viale Bligny 24 e si chiamava Oscar Superti. Questa foto è stata scattata a Milano negli ultimi tempi prima che la guerra ci obbligasse ad abbandonare la città divenuta troppo pericolosa per i rischi dei bombardamenti. “Lo sfollamento” fu un fenomeno generale e portò migliaia di milanesi a cercare luoghi meno soggetti ai pericoli della guerra 56
nelle campagne circostanti. I Picozzi logicamente decisero di trasferirsi da Milano a Trezzano Rosa e ritornarono a vivere nei locali nella Corte Vaticano che era stata la casa di mio padre nei primi anni della sua vita.
Anno 1943, appena giunto dalla città, scopro la campagna e rivolgo il mio interesse alle oche che si allevavano nella corte in attesa … del Natale. A questo proposito ricordo che mia mamma aveva affrontato bene la nuova situazione e aveva imparato a tenere fermi i tacchini per “ingozzarli” con del mangime per farli ingrassare in breve tempo sempre in previsione dei pranzi di fine dicembre. Aveva iniziato anche ad allevare i polli e a produrre una quantità di uova che la obbligava a preparare dolci o a impastare tagliatelle in abbondanza. Con la consulenza di un anziano contadino di Trezzano aveva anche appreso l’arte della coltivazione di ortaggi e quindi, si può dire che nonostante i terribili momenti di guerra, tutta la famiglia non soffrì mai la mancanza di cibo che afflisse gran parte dell’Italia di quei tempi. Feci anche nuove amicizie con dei ragazzi che abitavano nella Corte, come mostra la fotografia che ci ritrae tutti in 57
fila come dei soldatini. Non ricordo esattamente ma dovrei essere in mezzo ai due fratelli Foffano, i figli del farmacista, che abitavano nella prima parte dell’ala destra della Corte e la farmacia era logicamente sul fronte strada. Mia sorella, con qualche apprensione mi aveva messo sul cavallo bianco del medico condotto di Trezzano Rosa, il Dottor Tranquillo Brambilla che doveva molto spesso, per raggiungere le abitazioni dei suoi pazienti, fare lunghi tragitti con la carrozza nera trainata dal cavallo, carrozza che si intravede nella foto. Uomo alto, di robusta struttura aveva una folta barba bianca ed un carattere molto forte. Incuteva timore solo a guardarlo e di lui ho questo particolare ricordo: un giorno dalla finestra della mia camera ho assistito con una certa sorpresa ad un “intervento” del dottore su un paziente che aveva fatto sedere su una sedia, di quelle impagliate, nel centro della Corte sotto l’ombra della magnolia e vicino ad una fontanella dell’acqua. Al poveretto cavò rapidamente un dente e poi gli fece sciacquare la bocca con l’acqua fresca della fontanella. La famiglia Brambilla viveva nell’ultima parte dell’ala destra della corte, ed era formata dal già ricordato dottor Tranquillo, la moglie Cesira Rovida e la figlia “la Signorina Franca Brambilla” che era già famosa, come insegnante elementare a Trezzano. Divenne poi una leggenda perché raggiunse una anzianità di ben 46 anni di insegnamento. Ricordo che si entrava nella loro cucina, aprendo la porta, quella che si vede sulla destra della foto successiva, e vi era sul muro di sinistra, appeso ad un gancio, un lucido secchio di rame sempre pieno di acqua fresca. Al bordo
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del secchio si trovava un mestolo che serviva a tutti per attingere l’acqua necessaria a dissetarsi. Una volta rimasi sorpreso nel vedere che gli uomini di casa e noi ospiti pranzavamo seduti al tavolo nel centro della cucina mentre le donne di casa erano in piedi accanto al camino e mangiavano con il piatto in mano. L’abitazioni della famiglia del medico ed il suo studio, l’abitazione della famiglia del farmacista e la relativa farmacia, occupavano tutti i locali del lato della Corte che, ancora oggi, da su Via Dante e che erano di proprietà, in quegli anni, di mio padre. Dalla Piazza avevano invece accesso alla loro abitazione i coniugi Ing. Angelo Brambilla con la moglie Adele Cremonesi che erano i proprietari dei locali situati dal portone d’ingresso verso la canonica e parte del lato della corte verso la chiesa con spazi adibiti a ricovero degli attrezzi, pollaio ecc. Una vecchia fotografia dell’epoca, siamo probabilmente nel 1944, mi ritrae con la mia prima bicicletta, decisamente molto bella per quei tempi, e deve riconoscere che molto probabilmente mio padre aveva fatto una “pazzia” pur di accontentare suo figlio. In quegli anni mio padre, nonostante i bombardamenti su Milano, non aveva certamente abbandonato il lavoro ma aveva continuato a recarsi in ufficio. Da Trezzano raggiungeva la città tutti i giorni, utilizzando il trenino Milano – Vaprio, 8 ma per far questo doveva raggiungere in bicicletta, con il caldo o con il freddo, a volte con la pioggia o la neve, prima il paese di Pozzo e poi la cascina detta la “Bettola” in 8
La tranvia Milano – Gorgonzola – Vaprio è stata una linea tranviaria interurbana che ha collegato Milano a Vaprio d'Adda tra il 1878 e il 1978.
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corrispondenza della quale c’era la fermata del trenino. Fatiche che oggi sarebbero impensabili e forse neppure facilmente sopportabili. A questa tranvia sono collegati alcuni dei miei ricordi. Quello piacevole fu una amicizia che si stabilì fra mio padre e lo scultore Enrico Pancera (1882-1971) nato a Caravaggio 9 e con lo studio a Milano, sfollato forse a Vaprio. Logicamente mio padre pensò subito a me e chiese all’artista di farmi una scultura. Andai nello studio e posai poche volte. Poi gli avvenimenti della guerra impedirono i normali contatti e solo alcuni anni dopo la guerra mio padre recuperò l’opera rimasta in gesso ma molto somigliante e di piacevole fattura. Ma vi sono altri due ricordi legati ad episodi molto importanti per la mia vita. Nell’inverno 1943/1944 mi ammalai e dopo alcuni giorni di febbre il Dottor Brambilla, interpellato dai miei,mi aveva prescritto di stare a riposo e al caldo nel letto per combattere quello che aveva giudicato un semplice attacco influenzale. La febbre continuava e presentavo i primi segni della malattia tanto che mio padre, alquanto preoccupato
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Rimasto orfano durante la prima adolescenza, Pancera si trasferì da giovane a Milano, dove lavorò presso E. Pierotti (un formatore di gesso) e frequentò la scuola d'Arte Applicata del Castello Sforzesco. Successivamente si iscrisse all'Accademia di Brera, dove ebbe come maestri Giuseppe Mentessi, Guido Tallone e soprattutto lo scultore Enrico Butti. Pancera insegnò presso l'Accademia Carrara di Bergamo. Realizzò numerose opere scultoree, sia piccole sia monumentali. La sua più importante committenza pubblica fu per la realizzazione del monumento ai caduti di Monza inaugurato nel 1932 collocato nella piazza principale di Monza.
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incontrando sul trenino un suo cugino, il Dottor Ernesto Ferrari di Canonica d’Adda, e bravo medico a Milano, lo pregò di venirmi a visitare al suo ritorno la sera stessa. Il responso della visita fu che ero ammalato di difterite, una malattia oggi fortunatamente quasi scomparsa grazie alle vaccinazioni! Una malattia molto pericolosa, soprattutto per le gravi conseguenze, malattia che le cure del Dott. Ferrari riuscirono, per mia fortuna subito a debellare. Il terzo e ultimo ricordo è quello legato ad un viaggio fatto a Milano con mia madre forse nel 1944, Durante il viaggio di ritorno il trenino si fermò, per un allarme aereo, all’altezza di Cassina de Pecchi e fortunatamente mia madre decise di scendere dal treno che venne subito dopo mitragliato più volte dai caccia inglesi. Ci andò veramente bene perché, non trovando alcun valido riparo, mia madre utilizzò come nascondiglio ….. una siepe! In quegli anni i miei genitori mi iscrissero all’asilo di Trezzano Rosa e nell’anno 44-45 frequentai privatamente “la primina” per poi dare l’esame di ammissione alla seconda elementare. Questo vantaggio si rivelò utile quando, per una serie di circostanze, interruppi gli studi perdendo un anno scolastico in prima media che recuperai rimettendomi alla pari con i miei compagni. Di quella esperienza scolastica a Trezzano ricordo solo una suora che a volte ci intratteneva suonando il piano e accennava a delle 61
canzoni dei soldati italiani e piangeva pensando al fratello che era imbarcato su una nave da guerra. Altri ricordi che sembrano dei flash con immagini che hanno impresso la mia memoria sono quelle legate alla “vita” della Corte comune a tutte le altri Corti di Trezzano. Belle le sere d’estate quando, ammassate le pannocchie di granoturco in un locale aperto a piano terra, tutti si sedevano in cerchio, attorno a questo alto cumolo, e iniziava lo sgauscià. Si doveva rimuovere le foglie della pannocchia aiutandosi con un ferro appuntito tenuto nella mano destra e legato al polso con una corda. La scena era illuminata da poche lampade a petrolio ed era questo il momento emozionante dei racconti e delle storie che gli anziani tramandavano e che colpivano la fantasia dei bambini piccoli come me. Una volta invece ebbi modo di assistere dalla mia finestra al rito invernale dell’uccisione del pùrcell (maiale) appeso fuori dalla stalla e sgozzato con la raccolta del sangue per fare la torta "sanguinaccio, una vista che mi impressionò molto. Quello della macellazione del maiale era comunque un momento importante per l'economia di ogni casa. Un altro rito, ma per fortuna ben diverso dal precedente, era quello del rientro al vespro delle donna, giovani o vecchie, dalla campagna che spingevano delle pesanti carriole di legno per il trasporto delle ceste o gabbie con le galline fino ai pollai vicino a casa dopo averle lasciate tutto il giorno libere nei campi. Una vera e propria processione accompagnata dal forte cigolio delle ruote. Alla prima domenica del mese di ottobre a Trezzano veniva celebrata la festa del paese e la tradizione imponeva la realizzazione in ogni casa del dolce tipico: la turta de lacc. Un dolce nato come segno di una economia povera che nulla sprecava. Ancora oggi viene rispettata questa tradizione ma gli ingredienti usati per la produzione della turta de lacc sono diventati più consoni ai nuovi gusti.
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Allora si usava come componente base il pane raffermo, messo a bagno con del latte, cacao, zucchero e uva sultanina che rappresentava l’unica nota di lusso. Per noi ragazzi l’uva sultanina, inserita nella fetta del dolce che ci veniva messa nel piatto, diventava il motivo di una attenta ricerca ed era un momento di gioia scoprirne una buona quantità. Erano anni di grandi economie e ci si era abituati a vivere con poco o nulla e solo il fertile terreno di Trezzano permetteva a tutti noi di avere il cibo sufficiente. Alla base di tutto c’era il pane quello cotto nel forno a legna che aveva un sapore particolare e una bontà difficile da dimenticare. Inoltre le notizie delle tragedie della non lontana guerra giungevano saltuariamente e “filtrate” e la vita scorreva con i lenti ritmi che da secoli segnavano i lavori dei campi stagione dopo stagione. Ricordo che l’arrivo della corriera proveniente da Milano richiamava nugoli di bambini sulla strada e anche le donne e i vecchi si affacciavano dai portoni delle corti perché quella era la novità che rompeva la quotidianità sempre legata alla vita del paese dove non accadeva mai nulla di particolare e quindi anche l’arrivo della corriera rappresentava un contatto con l’esterno e diventava per molti motivo di curiosità e di interesse. Nelle gelide serate invernali, alla luce di flebili lampade a petrolio, si potevano distinguere le figure dei contadini che si rifugiavano nella stalla per godere del tepore degli animali che rappresentavano il tesoro della famiglia. Un altro nitido ricordo è quello di una domenica a mezzogiorno con tutti gli abitanti di una corte, cùrt de piviun, seduti su due panche ai lati del portone 63
d’ingresso con i piatti in mano e la donna più anziana, la regiùra, così era chiamata nelle corti e cascine lombarde la padrona di casa, la “reggitrice” delle sorti familiari, che passava fra le due file di uomini, donne e bambini e distribuiva prima la polenta e poi, con un mestolo, versava un sugo di carne e un “cigutin” sopra la polenta per completare il piatto. Questo era il pranzo della domenica perché nei giorni normali mancava il “cigutin”. Ben diverso era il pranzo in occasione delle feste per un matrimonio. Il pranzo di nozze iniziava con lunghe tavolate ricche di cose buone frutto del lavoro delle donne di casa in quantità tale da sfamare tutti i numerosi parenti ed invitati . La caratteristica che mi colpì era quella che il pranzo veniva ad un certo punto interrotto e quindi si formava un corteo al seguito di un suonatore di fisarmonica che percorreva la strada principale del paese sia per dare tempo di “riposare ai commensali, dopo che cibo e bevande erano state servite in abbondanza, sia per far si che tutti i compaesani partecipassero alla felicità degli sposi.
Dopo la Liberazione, il 25 aprile 1945, i Picozzi decidono di rientrare a Milano. L’appartamento di Viale Bligny, molto grande, era stato diviso con un tramezzo di legno in due appartamenti uno dei quali era stato assegnato dal comune ad una brava e sfortunata famiglia che aveva perso la casa distrutta dai bombardamenti. Mio padre aveva nel frattempo perso il lavoro perché licenziato, allora si diceva “epurato”, con delle motivazioni assurde ma la regola era di rimuovere tutti coloro che avevano ricoperto ruoli di una certa importanza nelle strutture dello Stato fascista. Al suo posto venne nominato un certo Alessandro Manzoni, lo ricordo bene per questo nome particolare, e perché parente dei genitori del mio amico Oscar che lo avevano segnalato a mio padre. Mio padre avendo 64
bisogno di un aiuto con semplici mansioni in ufficio lo aveva subito assunto. Così è la vita! Non era facile a quell’epoca trovare un nuovo lavoro a quarant’anni e quindi per i miei genitori quelli furono momenti difficili. Non si diedero per vinti e decisero di fare qualche cosa e fu così che si “inventarono” una piccola attività industriale. Costituirono una società che, se non ricordo male, si chiamava SICLAM che doveva produrre dei “cerchietti”. Il mondo voleva ripartire e non c’erano ancora gli scooter e le macchine erano troppo care per cui la maggioranza delle persone usava la bicicletta per gli spostamenti. I cerchietti erano dei cerchi di filo di ferro intrecciato che venivano, e vengono ancora oggi, affogati nella gomma dei copertoni delle biciclette nei due lembi estremi per irrobustirli. La loro produzione richiedeva dei banchi di lavoro per srotolare il filo dalle bobine, avvolgerlo attorno a delle sagome a misura dei copertoni, tagliarlo, fissare le estremità con una fascetta metallica ed un punto di saldatura ed infine spazzolare per ridurre al minimo lo spessore di questa giuntura. Mia mamma aveva il compito di stabilire e mantenere i contatti con le ditte fornitrici del filo metallico, che a quell’epoca era difficilissimo da reperire, mentre mio padre curava i clienti e la produzione, che inizialmente si svolgeva nei locali della ex filanda della Corte di Trezzano Rosa e veniva seguita da un uomo di fiducia di cui non ricordo il nome. Incredibilmente l’attività aveva incontrato un discreto successo tanto che dopo circa un anno fu necessario trovare una nuova e più pratica sede produttiva e fu affittato un capannone alla periferia di Milano dove fu subito trasferita l’attività. Dopo poco tempo mio padre decise di accettare l’assunzione come impiegato alla Acciaierie Falck e, forse ancora sotto stress per quello che era successo nel precedente impiego, decise di cessare l’attività della produzione dei cerchietti in quanto lo avrebbero potuto accusare di “conflitto di interessi” dato che il fornitore 65
più importante delle bobine di filo metallico era proprio la Falck. Uno scrupolo al limite del ridicolo, date le dimensioni ridottissime di questa attività e tenendo inoltre in considerazione il fatto che mio padre, appena assunto in una struttura che contava allora 10-15 mila dipendenti era stato assunto nell’ufficio amministrativo e non in quello delle vendite. Sempre in quegli anni mio padre decise, forse perché i locali della vecchia corte avrebbero richiesto molti lavori per renderli più confortevoli, di far costruire una nuova palazzina nell’area tra l’attuale Via di Vittorio (strada funda) e la farmacia Foffano. Una palazzina dove dobbiamo aver trascorso qualche periodo estivo degli anni 1946 – 49 e altri brevi periodi in primavera e autunno e che poii fu subito venduta. Fu questo il periodo in cui mio padre prese la decisione di cedere tutte le proprietà che aveva ereditato da suo padre e dallo zio Paolo che comprendevano i locali di buona parte della Corte Vaticano, del giardino sul retro fino alla strada per Pozzo, di vasti terreni per tutta la lunghezza della strada, dalla strada funda alla curva dopo il cimitero, per una profondità fino all’attuale circonvallazione e poi di una casa all’angolo di Via Dante con la strada per Pozzo. La cessione di questi beni si svolse velocemente perché mio padre volle che gli acquirenti fossero proprio i contadini le cui famiglie lavoravano quelle terre da più generazioni. Non erano quindi “dei ricchi” e furono firmati dei contratti di vendita quasi formali in quanto gli importi registrati erano i minimi possibili. Francamente è un periodo di cui non ho ricordi precisi perché, essendo ancora molto giovane non venivo informato delle decisioni che prendevano i miei genitori ma quando, in anni successivi chiesi a mio padre la ragione di questo regalo di tutte le terre, ed erano veramente tante, che possedeva a Trezzano ai contadini, mio padre mi rispose: ” erano da tante generazioni che quelle famiglie lavorano quelle terre ed erano già di loro proprietà perché le avevano riscattate con il loro sudore”. Peccato che questo 66
gesto di liberalità, così lontano dalle speculazioni a cui siamo abituati, e che permise al paese di crescere dalla farmacia fino alla curva del cimitero, non è mai stato ricordato dai molti trezzanesi che ne trassero dei vantaggi.
L’ultimo episodio a Trezzano dei Picozzi lo registriamo in data 5 ottobre 1949, quando ricevetti la mia prima Comunione, per volere di mio padre, nella …..chiesetta della Madonna quella dopo il cimitero.
Una ulteriore piccola testimonianza di quanto mio padre fosse legato alla sua terra natale. E di questo avvenimento si sono conservate in casa due testimonianze che ora mi sembrano di un’altra epoca ma che mi sono logicamente molto care e che riporto nelle due foto successive.
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Mio padre nel frattempo, con la forza di carattere che gli permetteva di superare gli ostacoli della vita e con una disposizione a stabilire un rapporto umano con i suoi collaboratori, fece una rapida carriera e dopo poco tempo dall’assunzione alla Falck come semplice impiegato, fu nominato direttore amministrativo dello stabilimento Concordia della Falck a Sesto San Giovanni. Il 14 luglio 1948 vi fu l’attentato a Togliatti e tutti gli operai di Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, si prepararono ad una lotta armata. Mio padre si recò in ufficio nonostante le difficoltà del momento e venne sequestrato per due giorni nel suo ufficio, ma seppe gestire la difficile situazione e ad acquisire anche dei meriti agli occhi dei sindacalisti. Ricordo che papà, negli anni ’50 e ’60, non dimenticò certo i suoi amici di Trezzano, che in quegli anni, in maggioranza abbandonavano l’agricoltura e cercavano un lavoro in fabbrica, e si impegnò affinché molti di loro venissero assunti alla Falck.
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Il nuovo lavoro ed i nuovi stipendi permisero a molti di superare un momento difficile, e diedero sicuramente un contributo per il raggiungimento, negli anni successivi, di un certo benessere da parte di tutta la comunità di Trezzano Rosa. Una testimonianza ed un riconoscimento per questo suo attaccamento al paese natale lo si può leggere nella dedica al libro sulla storia di Trezzano Rosa, una dedica scritta nel 2010 dall’allora sindaco Adelio Limonta e che riproduco qui di seguito:
Negli anni 1950-1960 mio padre ricoprì, evidentemente con risultati positivi,diversi incarichi nell’ambito della struttura dirigenziale delle acciaierie Falck, che a quell’epoca davano lavoro a circa 16.000 dipendenti, fino ad essere nominato Direttore del personale, impiegati e dirigenti, 69
ed il suo ufficio era presso la sede della Direzione Generale in Corso Matteotti a Milano.
Mio padre nel 1960 in visita allo stabilimento Falck di Dongo
Lasciò il lavoro nel 1969 per raggiunti limiti di età ed ebbe diversi riconoscimenti quali:
il titolo di Cavaliere con le relative decorazioni
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un diploma per i 20 anni di attivitĂ presso le Acciaierie Falck ,
ed una medaglia per aver ideato e organizzato una efficiente mutua per dirigenti.
PotĂŠ godersi un giusto riposo e la meritata pensione solo per pochi anni perchĂŠ morĂŹ il 17 novembre 1973.
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