Silvio Picozzi
Il mio incontro con un poeta
IL MIO INCONTRO CON UN POETA
Sabato 18 giugno 1955 e il caldo a Milano cominciava a farsi sentire. Da alcuni giorni era terminato un altro anno scolastico con i rituali saluti ai professori e ai compagni del liceo e io non vedevo l’ora di partire per raggiungere Spotorno, in Liguria, dove da qualche anno trascorrevo tre lunghi e piacevoli mesi di vacanza e dove sapevo che già mi aspettavano gli amici che ritrovavo ogni volta. Mia madre era riuscita, in breve tempo, a convincere mio padre ad abbandonare per qualche giorno gli impegni di lavoro e ad accompagnarci in macchina. La resistenza era stata debole perché anche lui era contento di prendersi un fine settimana di vacanza ma soprattutto di guidare la sua nuova macchina, una Fiat 1100/103. Quella mattina finalmente partimmo. In quegli anni le strade da percorrere per raggiungere Spotorno non erano agevoli come adesso e i tempi del viaggio erano notevolmente più lunghi. Avevo anche accettato di recuperare dello spazio sul sedile posteriore per far posto alla gabbia dei canarini che non potevano certamente essere abbandonati in città. Eravamo ancora in macchina quando mia madre m’informò che, dopo l’ultimo colloquio con i miei insegnanti del secondo anno di liceo scientifico, aveva preso la decisione di mandarmi “a ripetizione” di latino durante il periodo delle vacanze perché erano state segnalate alcune mie difficoltà che dovevano essere superate prima dell’inizio del nuovo anno scolastico. Sempre determinata aveva già preso contatto telefonicamente con un professore disposto a darmi delle lezioni e l’appuntamento per un primo incontro, “sai ti vuole conoscere prima…” era stato stabilito per l’indomani nella tarda mattinata. L’incontro sarebbe avvenuto all’Hotel Ligure, dove il mio nuovo professore aveva l’abitudine di sedersi a un tavolino d’angolo del bar all’esterno dell’albergo. All’ora prevista arrivai puntuale e trovai il professore già seduto. Di bassa statura, con un viso tondo e occhialini con lenti di un certo spessore. Parlava a bassa voce e mostrava una certa timidezza tanto che durante questo primo scambio di parole sembrava essere lui l’allievo.
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Si stabilì comunque in breve tempo un cordiale rapporto egli raccontai le mie difficoltà con la lingua dei nostri padri. Mi rassicurò e mi propose un calendario di lezioni che si sarebbero tenute nella sua casa nel corso nei tre mesi successivi. Ricordo la casa del professore che era quasi in cima ad una stretta strada che saliva, dal centro del paese, verso il castello lasciando alle spalle il febbrile movimento ed il frastuono della stagione estiva. Pavimentata con mattoni rossi stretta fra due file di case con i muri in pietra e colorata da macchie rosse di gerani dei vasi alle finestre o che affondavano le loro radici nelle fessure tra le pietre. La casa era ad un solo piano, tutta bianca e molto simile a tutte le altre della zona, semplici e luminose. Vi arrivavo sempre un po’ accaldato dato la distanza dalla mia abitazione perché per raggiungerla dovevo fare una discreta camminata anche perché, a quei tempi, possedere una Vespa, o quello che oggi si chiama motorino, rimaneva molto spesso solo un miraggio. Le lezioni si svolsero per quasi tutta l’estate ma non mi pesarono perché lasciavano spazio anche a brevi chiacchierate che mi permisero di conoscere meglio il carattere e la vita del professore. Non era sposato e viveva con una sorella ma aveva insegnato per molti anni spostandosi in diverse città della Liguria. Aveva inoltre tradotto e traduceva testi di antichi autori greci e latini. Amava tutta la natura ma la sua grande passione era la ricerca, lo studio e la catalogazione di licheni e ne aveva cercati e trovati tanti da creare una importante collezione degna di un museo. Li conservava soprattutto in una stanza, che odorava di muschio, appoggiati su fogli di carta a essiccare riposti su una struttura a ripiani e li guardava con l’attenzione tipica di uno studioso e collezionista innamorato. A quell’epoca ancora esistevano quegli stretti e ripidi sentieri, che si inerpicavano lungo i fianchi delle alture, e quasi sempre erano delimitati da dei muri a secco. Il professore amava fare delle lunghe camminate seguendo questi sentieri e riusciva a trovare sempre nuovi licheni sulle pietre usate dai contadini per la costruzione dei muri o quelle sparse nei terreni arsi dal sole ma soprattutto sui tronchi degli alberi cresciuti piegati dal vento che giungeva dal mare non molto lontano. Dopo tanti anni non ho molti ricordi della sua abitazione se non che era arredata in maniera veramente semplice. Ricordo che colpirono la mia attenzione di giovane sedicenne, forse perché si staccavano dalla semplicità del resto della 2
casa, due quadri appesi nel locale dove si svolgevano le lezioni. Erano realizzati con la tecnica del “tromp l’oeil” e rappresentavano, se la mia fantasia non ha preso il sopravvento alla memoria, una parete alla quale erano appesi degli oggetti, un orologio da taschino, un foglio con degli appunti leggibili, forse una farfalla; nel complesso pochi oggetti ma tutti riprodotti con un effetto tridimensionale sorprendente. Le lezioni proseguirono fino a metà settembre e al termine, dopo pochi giorni, ritornai a Milano dove, con le solite iniziali difficoltà, ripresi necessariamente i ben diversi ritmi della vita cittadina. Avevo così iniziato un nuovo anno scolastico e ogni giorno, al termine delle lezioni, per ritornare a casa facevo lo stesso percorso a volte a piedi e a volte prendendo un autobus che fermava accanto ad un’edicola di Via Fratelli Bronzetti. Appena sceso dall’autobus davo sempre un’occhiata ai giornali esposti in vetrina e un giorno, del mese di novembre, la mia attenzione fu attirata da una rivista di grande formato, “La Fiera Letteraria” che rubava molto spazio agli altri giornali e che riportava, in prima pagina, una grande fotografia di un volto che mi risultò subito familiare.
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Mi avvicinai alla vetrina per meglio leggere ed ebbi, con mia grande sorpresa, la conferma che si trattava proprio del mio professore di Spotorno. Comprai con emozione una copia di quella rivista e lessi subito con estremo interesse i grossi titoli e scoprii così che ero stato a lezione da uno dei più grandi poeti italiani, allora viventi, Camillo Sbarbaro. L’anno passò velocemente, come purtroppo spesso accade, e a fine giugno del 1956, ritornai a Spotorno e lo rividi seduto al solito bar con la sua tazzina di caffè. Mi sedetti accanto a lui e gli raccontai subito la mia sorpresa e la mia felicità nel leggere le notizie pubblicate sulla rivista e gli confessai che mi ritenevo onorato di avere avuto l’occasione di averlo incontrato e conosciuto. Lui, logicamente, si schernì e cercò di minimizzare gli elogi ma il mio entusiasmo mi portò a raccontargli anche che ero rimasto tanto colpito che, durante l’inverno, avevo acquistato due dei suoi libri che avevo subito letto. Inoltre, contaminato dall’atmosfera che si era creata, mi ero cimentato nella scrittura di brevissimi racconti, pubblicati sul giornale del liceo, e li avevo chiamati “Trucioli ’56” rubando il titolo di una sua famosa raccolta di scritti. Evidentemente tutto questo giovanile entusiasmo lo colpì tanto che s’infilò una mano nella tasca di un panciotto ed estrasse una copia del suo ultimo libretto pubblicato da pochi giorni, lo aprì e vi scrisse una breve dedica e me lo regalò. L’ho conservato per sessanta anni come qualche cosa di molto prezioso e come ricordo di un incontro che fu per me molto importante.
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Vorrei ricordare pochi versi di alcune sue poesie che mi colpirono in modo particolare e che sono contenute nella raccolta “Rimanenze”; una è quella dedicata al paesino di Voze, arroccato sulle alture alle spalle di Spotorno, dove Sbarbaro aveva vissuto alcuni anni della sua infanzia:
Voze, che sciacqui al sole la miseria Delle tue poche case, ammonticchiate come pecore contro l’acquazzone; che come stipo di riposti lini sia di spigo, di sale come rete …. ….. Voze, soave nome che si scioglie In bocca… o i versi di un suo “autoritratto”: Occhi nuovi, attoniti – che guardano come una stampa colorata il mondo; occhi colore d’aria, anticipi di cielo sulla terra. il dolore v’è l’ombra d’una rondine, un’acquata di primavera, il pianto ……. e infine i bellissimi versi dedicati alla sua Liguria, un vero inno alla terra madre Scarsa lingua di terra che orla il mare, chiude la schiena arida dei monti; scavata da improvvisi fiumi; morsa dal sale come anello d'ancoraggio; percossa dalla fersa; combattuta dai venti che ti recano dal largo l'alghe e le procellarie ara di pietra sei, tra cielo e mare levata, dove brucia la canicola aromi di selvagge erbe. ………………………………….
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Può capitare nell’arco di una vita di non dare subito il giusto valore ad un incontro o a un’esperienza e anch’io in questo caso, sono incorso in questo errore ma, a mia difesa, sicuramente ebbe un peso rilevante la mia giovane età. Non mi fu di grande aiuto neppure il carattere veramente particolare di Camillo Sbarbaro, un carattere difficile e chiuso che lo portò per tutta la vita a fuggire dai contatti con il mondo esterno e a rifugiarsi nei suoi pochi affetti o negli studi e nei suoi licheni. Anche negli scritti e nelle poesie si delinea chiaramente uno dei più sconcertanti problemi dell’uomo moderno che è venuto a trovarsi, privato ormai di ogni suo desiderio e speranza, di fronte ad un futuro quanto mai incerto ed oscuro. E Sbarbaro non trova altra soluzione che quella di isolarsi e rifugiarsi in se stesso. I poeti e gli scrittori, che ebbero modo di incontrarlo e conoscerlo, espressero lusinghieri pareri sulle sue opere ma i saltuari contatti non portarono a durature collaborazioni artistiche. Anche il poeta e scrittore Eugenio Montale rimase particolarmente colpito dalla poetica di Sbarbaro tanto che gli dedica le prime righe del suo libro più famoso, “Ossi di seppia”, un’opera considerata giustamente tra le più importanti della sua ricca produzione e della poesia moderna italiana La vita di Camillo Sbarbaro ebbe termine pochi anni dopo l’episodio che ho descritto in queste righe nel mese di ottobre del 1967, cinquant’anni fa.
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