GIANGIORDANO CARMINE ANTONIO - AQUILONI BLU

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Giangiordano Carmine Antonio

Aquiloni blu

Studio Byblos

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Voglio dedicare questo libro innanzitutto a te che stai leggendo. Lo dedico a tutti quelli con cui ho condiviso giorni, ore, momenti di allegria e di tristezza, dai quali ho cercato sempre di imparare qualcosa. Loro sono stati i miei migliori libri. Lo dedico ai miei zii con le vocazioni artistiche e ai miei genitori che non potranno né leggere né ascoltare. A tutti i sognatori che fanno volare i propri aquiloni, tenendoli collegati con un filo alla realtà. Lo dedico soprattutto a chi ha creduto in me, colmando le mie lacune sia musicali che letterarie e anche alla mia famiglia incredula.

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Ogni riferimento a persone, fatti e cose è assolutamente casuale. © Tutti i diritti riservati all’autore.

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Prefazione “Aquiloni blu” è un racconto di avvenimenti veri e a volte di fantasia, dal passato al presente, vissuti giorno per giorno fino ad oggi. È un racconto che scivola con scioltezza e semplicità e che si legge volentieri con curiosità di sapere e di scoprire il seguito. È autobiografico e tutti gli episodi sono ben concatenati tra loro per cui sembra di vedere un filmato con un linguaggio appropriato, a volte ironico, a volte commosso, a volte ricco di particolari, a volte giocoso ma nel compenso armonico. Il libro racconta la storia reale e la vita dell’autore, Carmine Antonio Giangiordano, attraverso il suo vissuto ricco di avventure, di disavventure, di normalità, di insicurezze, di momenti dolorosi ma anche di vittorie personali e conquiste. Partendo dal la nascita, passando per l’infanzia, per l’adolescenza fino all’età adulta (matura) sullo sfondo del racconto, ci sono la cultura, i paesaggi e i personaggi dell’Abruzzo con i suoi usi, costumi, credenze e modi di dire. Ma perché il titolo: Aquiloni blu? Nel testo è citata la leggenda e per 5

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l’autore gli aquiloni equivalgono a tutti i sogni, gli sforzi ed i sacrifici che ha dovuto affrontare non solo per gli avvenimenti difficili ma anche per quelli belli riuscendo sempre ad uscirne vittorioso. Auguro a Carmine di produrre altri testi per rinforzare e proseguire la vena artistica dei suoi zii e della sua stessa mamma. Sempre ad maiora et ad meliora. Costanza Di Donato

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L’infanzia

L!infanzia Sono nato in un luogo impervio, come su di un nido d’aquila da dove si esce solo se riesci a volare. Sono nato in una casa isolata di campagna, in America si chiamerebbe Ranch. Ma non siamo in America, siamo in un piccolo paesino collinare dell‘Abruzzo. Primogenito, sono nato in casa, con l’aiuto della “mammina”, (la ginecologa), in un caldo e assolato luglio. Tutta la famiglia allora molto numerosa: padre, nonni, zii, ecc., stavano mietendo a mano con la falce piccola, una specie di ronchetto molto più grande, a dirla breve quello del vecchio stemma “falce e martello”. Furono allertati del mio arrivo, non so se per contentezza o per compassione: alla notizia smisero di cantare. Allora si lavorava allegramente anche con l’aiuto di un buon bicchiere di vino cotto, tenuto al fresco in una giara di terracotta, “lu ccinelle”, avvolta da un panno inumidito di lana fatto a mano dalla nonna con i ferri. Si complimentarono con mio padre. 7

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Il primogenito maschio era un onore, e ricominciarono a mietere e a cantare!!! Dei miei primi anni ricordo ben poco. Il primo anno lo trascorsi arrotolato in fasce come un salsicciotto, solo la testa in vista. I primi amici, non proprio amici, cioè cugini di primo e secondo grado si incontravano solo in caso di feste e ricorrenze. Tra le ricorrenze: Il mietere, il trebbiare, la raccolta delle olive e l’immancabile festa del maiale. Festa del maiale? detta cosi potrebbe sembrare una festa Indù. Era un modo semplice per dire che quando si ammazzava il maiale, più o meno da metà dicembre in poi in base anche al calo delle temperature. Non c’erano celle frigorifere, perciò si doveva aspettare che la notte le temperature scendessero fino ad arrivare almeno a zero gradi. Il giorno che si ammazzava il maiale era una festa, che durava fino a tarda notte. Tra amici e parenti si arrivava sempre intorno alle venti persone. Il pasto principale: oltre al vino di casa, si tagliava dal maiale la punta del petto e grosse fette di pancetta, che fatta a quadrotti di un paio di centimetri si mischiava alle patate (a volte con la buccia), peperoncini ed agli interi. Il tutto dentro a una “fressore” (padella molto grossa in latta) poggiata sul treppiedi, nel caminetto con un bel fuoco ardente si faceva cuocere. Come contorno si friggevano peperoni rossi che infilzati come ghirlande e appesi al balcone, sotto il sole dell ‘estate si erano seccati: i peperoni “cruschi”. 8

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L’infanzia

Dopo aver mangiato e soprattutto bevuto, si finiva con belle cantate a squarciagola. Non avevamo elettricità e acqua potabile: bevevamo l’acqua di una sorgente, e per lavare c’era il pozzo. Avevamo ogni tipo di animali; la maggior parte si vendeva, la carne si mangiava solo nelle cosiddette ricorrenze. Ogni giorno verdure, patate, pasta alla chitarra, fatta con “lu maccarnale” e l’Impasto era di farina del nostro grano, macinato dai mulini, parzialmente setacciata con l’aggiunta di acqua, qualche volta anche con uova. Avevo 4 anni e ricordo l’arrivo di mia sorella, lei però nata in ospedale. Era finita l’era delle “mammine”. Arrivarono non so quante galline portate dai parenti per il nascituro. Servivano per fare il brodo e far sì che mia madre avesse il latte necessario. Al brodo venivano aggiunti “li fediline”, maccheroncini sottili ricavati da una sfoglia “stirata” da un mattarello, impastata con uova e farina e tagliati rigorosamente a mano e ricordo che la nonna era così veloce e precisa che le macchine di oggi si vergognerebbero a vedere tanta precisione e sveltezza. Non avevo vicini di casa. I primi amici e coetanei li ho conosciuti quando sono entrato a scuola in prima elementare, non ho frequentato l’asilo. C’era la scuola nella contrada, c’era una sola Maestra che ci insegnava tutte le materie avendo anche tre classi da seguire. La scuola, circa un paio di km distante da casa, la raggiungevo a piedi da solo ogni mattina e con qualsiasi tempo, 9

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attraversando in salita un pezzo di macchia mediterranea superando circa duecento metri di dislivello. Già dal secondo giorno volli andare solo. Ho imparato a leggere e a scrivere, studiando a casa nel pomeriggio, a volte in campagna dietro una decina di pecore portate a pascolare. La sera la casa era illuminata dal fuoco del caminetto, o dal lume di candela. Si usava anche l’acetilene: un bombolotto di ferro come una caffettiera napoletana che si svitava al centro e si mettevano dentro pezzi di carburo di calcio, a volte in polvere bianca con acqua. La reazione chimica dava un gas, “acetilene”, che usciva da un beccuccio forato, facendo così una bella fiamma. Quindi in inverno a letto presto, appena dopo le galline. Dormivo nello stesso letto con mio zio, fratello di mio padre, che non sono riuscito mai a chiamarlo zio, con soli dieci anni di differenza: era più un fratello maggiore che zio. In inverno, senza nessun tipo di riscaldamento, si dormiva su un materasso con dentro lana di pecora. Avevamo lenzuola di lino lavorato a mano e tessuto nei telai, “lenzuola di acc e acc”. Dormivamo con almeno 5 coperte di lana, anche queste tessute a mano sui telai. Comunque anche con la neve non sono mai riuscito a dormire col pigiama. Nonostante tutto raramente avevo tosse o raffreddore. Andando a scuola cominciavo a conoscere il mondo, guardando le figure a conoscere il mare, le città, il mondo. 10

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L’infanzia

Capire i movimenti della terra, gli astri, la storia ecc. In estate, chiuse le scuole, si aiutava in campagna; non c’erano motori, i lavori erano manuali. Il sole si prendeva in campagna, il mare era un sogno. I miei giocattoli erano auto costruiti, la soddisfazione era maggiore, la sfida era nel farli e realizzare qualcosa con le proprie mani. Trattori in miniatura con ruote, ricavati da tronchetti di legno tagliati a fette come salami e forati al centro, che poi il centro non era mai preciso, e quando lo facevamo camminare trainato da un filo, l’andatura era traballante. Con le ruote della carrozzina di mia sorella avevo costruito una carrozza. La chiamavamo cosi, ma erano tre assi di legno usati per muratura, inchiodati tra di loro a forma di H. L’asse di dietro inchiodata fissa all’asse centrale, mentre la traversa davanti era fissata all’estremità dell‘asse centrale, con un solo perno al centro che faceva da fulcro, dando cosi la possibilità di fare le curve. Andava solo in discesa, come un bob sulla neve. In diversi casi, quando si era in compagnia, ci facevamo trainare dalle pecore: era pericoloso ma il divertimento assicurato. Ci sarebbe tanto da dire sui giochi di allora: erano veri, davano inventiva, erano di compagnia. A volte si giocava anche a calcio. I palloni erano stracci arrotolati, fissati con lo spago che nonna usava per legare i sugheri che tappavano le bottiglie della salsa di pomodoro. 11

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Naturalmente lo spago lo dovevamo rubare e quando la nonna se ne accorgeva erano guai. Una volta in compagnia di un amico, in un canneto, avevamo sradicato la canna più lunga, a cui legato uno spago lungo un cinque metri all’estremità, la usammo come canna da pesca. Solo che non andammo al fiume ma sul muretto di un pollaio di un vicino di casa. Ci serviva un polletto da fare arrosto in compagnia di altri amici il giorno di Pasquetta, “la sciuscellette”. Di giochi ne potrei raccontare tanti, ogni occasione era buona per giocare. Appena si formava un gruppetto, si inventava qualcosa. Per esempio: “lo sticchio”. Sarebbe come il gioco delle bocce, ma giocato con pietre lisce in modo che non potevano rotolare. Questi erano giochi per maschietti, le femminucce avevano le bambole fatte di pezza, ricamate a mano. La maggior parte era costruita a uncinetto, in maniera meticolosa. Io li propongo come “patrimonio dell ‘umanità”. Chissà se qualche bambola di pezza si trova ancora nei vecchi bauli. La prima bicicletta mi fu regalata da un amico di mio padre che viveva a Milano, ma che era nato in un paese vicino al nostro. Quando tornava, essendo cacciatore come mio padre, veniva sempre da noi. La bicicletta era stata scartata dai suoi figli. Era una 26, non sapevo andarci e a malapena mi arrivavano i piedi, ma non era un problema. La sfida era provarci. 12

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Non c’erano ne’ casco ne’ ginocchiere o altre protezioni e la strada non era asfaltata. Ci misi un po’ di tempo ma era l’unica cosa che avevo in abbondanza e dopo un po’ di cadute, ginocchia sbucciate e lividi vari, imparai a trovare l’equilibrio e andare. Per le scuole medie cominciai ad andare in paese, sempre a piedi, ma la distanza era aumentata: circa quattro chilometri. Fino ad allora in paese ero andato solo in occasione delle feste patronali o cerimonie religiose. Noi che arrivavamo dalla campagna eravamo guardati un po’ come cafoni, forse lo eravamo. Ma in seguito ho capito che essere cafoni non viene dalla condizione sociale. Quelli del paese effettivamente erano, diciamo cosi, più raffinati: vestivano senza rattoppi, anche il linguaggio era un po’ diverso: parlando usavano molto di più l’italiano che il dialetto, a ricreazione, loro mangiavano merendine, noi due fette di pane fatto in casa con prosciutto, salsicciotto o salsiccia fatti da noi. Però, sinceramente, non mi sono mai sentito inferiore. Anzi in alcuni casi era il contrario. Ma con i professori avevano una marcia in più. Ricordo che, all’esame di terza media, il compito di matematica lo consegnai dopo appena mezz‘ora. Il professore mi chiamò in disparte e mi disse: “bravo, 10 sarebbe poco ma per riguardo agli altri non posso metterti più di nove (a quei tempi per la valutazione dei compiti scolastici si usavano i numeri da 1 a 10)”. 13

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Hai risolto un’equazione di secondo grado bene e in poco tempo e non andare via. Aspetta gli altri. “Dissi solo grazie”. Mi era bastata la soddisfazione, non mi interessava che gli altri sapessero. Anche questa era una sfida vinta. Mio zio, il cosiddetto mio fratello maggiore, a diciotto anni emigrò in Germania: cominciava il suo volo. Mi lasciò la sua fisarmonica. Conoscevo un po’ di musica imparata a scuola. Iniziai a suonare. La cosa più difficile era riuscire a togliere il sincronismo alle mani. Prova e riprova, cocciuto e testardo, ma non ci riuscivo. Lasciai la fisarmonica un paio di giorni. Quando la ripresi, come per miracolo, la destra suonava la tastiera indipendentemente dalla sinistra che schiacciava i bassi: ci ero riuscito!! Fu la mia compagna nel tempo libero finché non partì militare. Finito le medie andai in una scuola professionale in un paese vicino: è lì che cominciò a venire fuori la stoffa di chi riesce a mettere in campo le idee. Non essendo un velocista ma, come Mennea, alla distanza superavo tutti. Avevo bisogno di più tempo per capire e partire. Il primo anno andò bene, al secondo anno mi rimandarono a tre materie: storia, italiano e fisica. Non studiavo mai, mi bastava seguire la spiegazione del professore per essere al passo con gli altri. I professori se ne accorsero e vollero darmi una lezione. A settembre andai a fare gli esami di riparazione, naturalmente non avevo studiato. 14

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L’infanzia

I professori non mi chiesero niente, e mi spiegarono il motivo per cui mi avevano rimandato: effettivamente ero stato irriverente, verso di loro e i compagni di scuola. Al terzo anno studiai un po’ di più anche perché volevo chiudere con la scuola e iniziare a volare con le mie forze. Superai gli esami tranquillamente ma senza brillare. Mi dissero di continuare; mi sarebbe piaciuto ingegneria nucleare, ma chiusi con la scuola. I miei sogni volavano come aquiloni attaccati alla realtà da un filo. A quel tempo mi sembrava di aver avuto un ‘infanzia infelice, ma adesso che ho conosciuto tanto, non rinnego la mia fanciullezza. La tranquillità e la serenità che forse erano solo del periodo infantile. Tutto quel tempo a disposizione, nonostante il duro lavoro della campagna, si aveva tempo per fare tutto, anche di festeggiare. Mi mancano i maccheroni veri alla chitarra del nostro grano, il prosciutto, i salami del maiale che allevavo, mi manca il latte che bevevo appena munto, ancora caldo, il sapore del pollo arrosto sui carboni, il sugo dentro al coccio, messo a cuocere sulla “fornacelle”, con 3 ore di cottura, il pane fatto in casa a lenta levitazione e cotto nel forno a legna, la frutta raccolta e mangiata sul posto, l’aria pulita, l’acqua fresca di sorgente, il cielo limpido e stellato delle notti d’estate con il canto dei grilli. Indescrivibile il pulsare delle lucciole con il loro lanternino, come un velo di luci alternate sui campi di grano, uno spet15

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tacolo unico, che si può vedere solo in quelle poche notti, durante la maturazione del grano. Sentire in lontananza lo scorrere dell ‘acqua del fiume, i riposi pomeridiani estivi sotto una quercia al suono stridulo delle cicale e… e… la lista sarebbe ancora molto lunga.

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Il primo volo

Il primo volo Era fine giugno, in campagna era iniziata la mietitura. Finite le scuole superiori dopo aver superato gli esami, andavo anche io in campagna. Si iniziava al mattino presto e il giorno si tornava a casa per mangiare. Nelle ore più calde si rimaneva a casa per poi lavorare fino a quando la luce del giorno lo permetteva. In quelle ore, mentre i miei riposavano, facevo un giro in bici: le forze non mi mancavano! Un giorno incontrai un coetaneo, amico di scuola e mi fermai a parlare. Mi disse che andava a lavorare in un albergo in montagna per un paio di mesi come cameriere. Gli dissi: “che fortuna che hai, oltre a stare fresco guadagni anche qualcosa”. Si mise a ridere e mi rispose: “Guarda, se pensi così, forse ci servono due persone. Se sei disposto chiedo anche per te”. “Chiedi, chiedi, magari hanno ancora bisogno”. Mi disse: “domani ci vediamo e ti dico”. 17

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Tornai a casa, la bici sembrava quella di ET. Volava. Andai di nuovo in campagna con i miei, non sentivo e non vedevo. Gli aquiloni volavano più alti del solito! I miei si accorsero del mio stato. Da solo stavo facendo quasi quanto loro. Mi ero anche tagliato un dito senza accorgermene. Non avevo sentito niente. Mi chiamò mia madre: “Pare che non hai bevuto, che ti è successo? Che hai incontrato Quella là? Vatti a disinfettare, guarda quel dito!!…” Guardai il dito. La prima disinfettazione: pulii con la saliva. Poi mi appartai per disinfettare con la doppia “pi”. Bruciava un po’, ma il sangue non usciva più. La notte dormii poco. Gli aquiloni volavano, si intrecciavano ma non cadevano, non si fermavano, non avevano pace. Quanto tempo ci mise per arrivare il pomeriggio! Forse due giorni nello stesso giorno, ma finalmente arrivò e andai dal mio amico e come desideravo potevo andare. Serviva anche un’altra persona! Gli aquiloni si fermarono di colpo, non avevano più bisogno di volare. Ci si doveva organizzare e partire. Non ancora diciottenne, nei primi di luglio, senza chiedermi se ero pronto, sentivo che le ali reggevano. Potevo andare incontro all’ignoto, affrontare un’atra sfida, conoscere nuove cose ma soprattutto persone. I primi giorni pulimmo l’Albergo, poi cominciarono ad arrivare i primi clienti, nella maggior parte romani. 18

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Ci spiegarono come comportarci, ci insegnarono come portare i piatti, posarli sul tavolo delicatamente. Ci insegnarono a preparare i tavoli e soprattutto come dialogare con i clienti che erano quasi tutti di un certo livello, parlare sempre in italiano, anche se la dizione era quella che era, dare sempre del lei, chiamarli per titoli. Per titoli? Questa era una cosa che mi faceva ridere perché a casa ci chiamavamo per titoli: mio nonno era il “colonnello meteorologo”. Era in possesso di un libro che chiamava “Rutilio”, non l’ho mai visto. Penso che era una specie di almanacco, come “Frate Indovino” faceva le previsioni del tempo. Non so se ci azzeccava, ma molti venivano a chiedere a lui come poteva essere la stagione. A volte gli dicevano che non aveva indovinato e lui, serio serio rispondeva: “mica mi avete pagato!?!” Mia nonna era “l’avvocato delle cause perse”, un vicino di casa “maresciallo”, un parente con qualche venerdì in meno lo chiamavamo “brigadiere”. Quando si andava a mettere da mangiare al porco lo chiamavamo “onorevole”, l’asino era il “generale”. Avevamo un paperone, di quelli starnazzanti, quello era il “professore”. Immaginatevi voi… mi sembrava di essere in un film di Benigni!!! Potrebbe sembrare una cosa strana, ma in tutto il paese era cosi. In paese c’era il re in una contrada e la regina in un’altra. C’era il papa, il cardinale, il presidente, Il generale, l’am19

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miraglio il colonnello, l’ambasciatore, ecc.. ci si riconosceva più per i titoli, cioè per nomignoli che per i nomi propri. Tutto sommato riuscii a essere quasi sempre serio. A volte mi sentivo a disagio, non ero in grado di fare discorsi con i clienti ma, non ne avevo bisogno, mi limitavo al servizio. Nel caso qualcuno chiedeva qualcosa in più ero bravo a svincolarmi e a far intervenire il titolare o il caposala. Era una clientela molto avanti negli anni e quasi tutti pensionati. In estate i giovani non vanno in montagna! C’era solo una famiglia intorno alla quarantina con due ragazze; la prima, di qualche anno meno di me, vestiva in modo elegante e sobrio, capelli neri lunghi ma non tanto e sempre raccolti dietro con un fermaglio di cuoio attraversato da un bastoncino in legno. Parlava poco e con fare da saccente, la classica secchiona. L’altra, tutto il contrario: chiacchierona, mi chiamava continuamente anche quando non doveva dire niente, molto simpatica, allegra, divertente e voleva essere chiamata per nome. Il padre imprenditore aveva una ventina di operai, la signora anche lei elegante e sobria, di bella presenza. Li servivo io, non erano esigenti. Per loro avevo un occhio di riguardo, non per altri motivi ma semplicemente perché non mi trattavano da cameriere: il rispetto nasce da altro rispetto. Anche loro volevano essere chiamati per nome, ma in servizio non l’ho mai fatto. Nel pomeriggio avevamo un paio di ore libere, uscivamo nel piazzale e incontravamo le sorelle. 20

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Avevamo preso un po’ di confidenza anche con la secchiona, ma con lei era difficile parlare: faceva sempre discorsi seri, leggeva continuamente e di solito la lasciavano a me, proprio a me che come libro avevo letto solo “Don Camillo” di Guareschi, e l’unico film che avevo visto era “Altrimenti ci arrabbiamo”. La lasciavano a me perché riuscivo a seguirla con i ragionamenti che faceva e con qualche battuta me la cavavo. Molte cose che diceva, lei le aveva lette, io vissute. Una sera dopo il sevizio ci ritrovammo fuori. Passò una macchina, lo stereo a tutto volume con la canzone di Branduardi “Alla fiera dell ‘est” e incominciammo a parlare del significato del testo. Riuscii a tenerle testa, a controbatterla diverse volte. Discutemmo anche animatamente per diverso tempo. Senza renderci conto eravamo rimasti soli, ci guardammo e ci venne da ridere; in dieci giorni non l’avevo mai vista ridere! Ci salutammo: era quasi mezzanotte. Nel pomeriggio seguente, durante la pausa, ci ritrovammo in un bar. Mentre giocavo a flipper lei si avvicinò e mi disse: “Domani andiamo via, stasera passeggiata?” Senza guardarla risposi: “Certo con piacere, solita ora”. Non restò di più, tornò con gli altri. Dopo il sevizio scesi e la trovai sola, seduta sulle scale davanti all’albergo a leggere un libro. Le chiesi: “e la sorella?” Mi rispose: “ha mal di testa, non è voluta venire”. ”Ok” dissi “andiamo”. Posò il libro sulle scale. La guardai e dissi: “e se 21

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passa qualcuno e se lo prende?” Mi rispose sorridendo. “Tanto già l’ho letto!” Cominciammo a camminare lungo una strada parzialmente illuminata e deserta, eravamo fuori dal paese. In me di nuovo gli aquiloni! Io che non avevo mai parlato con una ragazza, adesso mi trovavo solo con lei; Mi sembrava di camminare sulle nuvole, in un cielo stellato, con la brezza della montagna che, passando in mezzo ai pini, produceva un suono melodioso. Camminammo un po’ senza parlare, volevo dire tante cose, ma non sapevo cosa. Ad un tratto si fermò e guardandomi mi disse: “per favore mi togli il fermaglio dai capelli? Mi sta dando fastidio”. Come potevo dire no!? Non si girò per agevolarmi. Un po’ impacciato, lei ferma davanti a me. Alzai le mani, andai a prendere il fermaglio. Era quasi un abbraccio. Delicatamente tolsi il fermaglio, i capelli scesero e si allargarono, li aggiustai sulle spalle. Per un attimo la guardai. Com’era diversa! Il viso luminoso. Non ricordo se c’era la luna. Guardandola non vedevo più in lei la secchiona, gli occhi si incrociarono, aveva messo da parte la sua sobria eleganza, era venuta fuori la donna. Mi disse decisa: “Sei intelligente...ma quanto sei imbranato!!” E prendendomi con le mani la maglietta sui fianchi, mi tirò a sé… e eeee… se non fosse stata per lei…!! Il mattino seguente furono i primi a scendere per colazione; lei arrivò insieme al padre sempre elegantemente vestita e con il solito fermaglio nei capelli. 22

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Mi sorrise, Non lo aveva mai fatto! Arrivò anche la casinara con la mamma. Servii la colazione. Il padre fu li primo ad alzarsi, mi chiamò, mi diede la mano e mi ringraziò. Dissi “Sono io che vi dico grazie”. Poi anche lei si alzò, mi venne vicino con un sorriso malizioso, mi diede la mano stringendola energicamente, due bacini amichevoli, uno sguardo veloce. Riprese subito la sua serietà, si girò e andò via mentre la sorella continuava a mangiare. La mamma, che era andata a saldare il conto, tornò in sala a salutarmi. Una bella stretta di mano, due bacini, mi mise in tasca la mancia dicendomi: “questo è solo per te, per gli altri l’ho lasciata in segreteria. Ci farà piacere se ci verrai a trovare a casa”. Alzai le spalle e basta, non riuscii a dire altro. Venne anche la sorella dopo aver finito di “pulire” tutto. Fece anche la scarpetta al contenitore del miele. Mi abbracciò, molto forte, due bacini, mi risistemò la giacca, raddrizzò il mio papillon e non smetteva di parlare. Meno male che intervenne la mamma a chiamarla! Sinceramente un po’ mi rattristai. Venne il titolare. Aveva assistito alla scena, mi diede una manata amichevole sulla spalla, mi disse “bravo, li hai conquistati… tutti e quattro”. Quel giorno, nel pomeriggio non scesi con gli altri, mi addormentai. Sognai una fila di aquiloni blu. Sul primo era scritto “IMBRANATO”, sul secondo “Ha mal di testa”, sul terzo ”Tanto l’ho già letto”, sul quarto “Mi togli il fermaglio”. 23

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Sul quinto un po’ più distante “Vienici a trovare, ci farà piacere”. Il sonno andò via. Realizzai che era stato tutto preparato. Mi misi a ridere. Alzandomi e guardandomi allo specchio ripetei un paio di volte con orgoglio ”Quanto sono imbranato!” Mi avevano sempre detto che le donne sono difficili da conquistare, che bisogna aver pazienza, corteggiarle di continuo. Io, neanche lontanamente avevo pensato di corteggiarla: era di un altro mondo, di un altro pianeta. Rimaneva ancora il quinto aquilone: andai a vedere cosa e quanto mi aveva messo in tasca. “Pè la majiella embè!” Esclamai. Era circa la metà dello stipendio e c’era un foglietto con il numero di telefono e la via dove abitavano e in più “Ti aspettiamo”. Misi tutto nel portafoglio. In un primo momento pensai di andare, ma poi… erano di un altro pianeta!! Era ora di scendere e tornare in servizio per servire la cena. Mi rimisi la divisa: pantaloni neri, camicia e giacca bianca, papillon nero. Mi ero vestito sempre molto distrattamente, ora guardandomi bene allo specchio: ero un “figurino”… “Elegantemente sobrio”. Mi sembravo anche carino e fico: abbronzato dal sole di campagna, con un caschetto abbondante di capelli neri. I miei occhi verdemare, con striature grigie risaltavano nel volto. Mi dissi “credo che farai sempre l’imbranato. Senza scervellarti tanto ottieni sempre qualcosa”. Cominciai a capire anche l’universo femminile. 24

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INDICE Prefazione ...........................................................5 L’infanzia ............................................................7 Il primo volo.....................................................17 Il volo degli aquiloni .......................................27 Casa, lavoro e famiglia ...................................43 Il lavoro in proprio ..........................................57 Ritorno al passato ............................................67

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