Lo scaleno
È un guardare lontano.
La filosofia della rinascita dopo il secondo conflitto mondiale.
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Torre Interna, civico 36
È il luogo in cui le forze della natura sfidano i sistemi della scienza, la striscia della contesa tra la razionalità e la credenza, tra la ricerca e la magia. Da qui sono partiti i vettori che hanno attraversato questa e le altre storie. Punto focale il frantoio Roselli, poi, a seguire, la dimora della signora Carolina, la scalinata di zia Teresa e, all’altro lato, Capo Croce con casa Grimaldi, una volta tipografia Terenzi. Più in basso Porta Saracena e la Cantina di zio Igino, un concentrato di vino, di fumo e bestemmie.
Da piccolo ci andavo quand’era cattivo tempo. Mi sedevo in mezzo ai grandi e seguivo le loro esibizioni. Adoravo quando si trasformavano giocando e si schernivano in un dialetto farcito con aberranti imprecazioni, aggressioni verbali e discussioni futili. Sapevo che sarebbe finito tutto lì, con una bevuta collettiva e il ritorno a casa per cenare. Erano i reduci della seconda guerra mondiale, quella che nessuno avrebbe voluto combattere e c’erano finiti dentro, perché avevano fatto credere che il nemico era alle corde e bisognava accaparrarsi il bottino.
E invece … Che disastro!
Le donne si erano abituate ad aspettare i maschi: cinque anni
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perché tornassero dalla guerra, sposarsi, fare figli e rimpiazzare i caduti e i dispersi. Non potevano, perciò, rimproverarli quando rientravano a casa ubriachi, chissà che si portavano dentro.
Più interessanti le serate al frantoio Roselli, dove l’ultimo reduce, Rino Grimaldi, catturava l’attenzione dei presenti con le sue storie, che non avevano mai un senso compiuto, erano parènesi, profezie, auspici, riflessioni. Iniziava sempre così: “Studiate, ragazzi o vi toccherà star dietro ai buoi con le cioce”.
Quando raccontava, pesava le parole, alternava dichiarazioni e silenzi, lasciando presagire svolte inaspettate. Le interruzioni sfibravano la resistenza dei presenti, che avrebbero fatto volentieri a meno delle pause, pur di giungere alla conclusione.
Sembravano storie a puntate, che lui non avrebbe voluto mai portare a termine. Di fronte ad alcune domande, fingeva di non udire, certe cose non le poteva rivelare, preferiva tenersele dentro.
“Morire in guerra è stupido, se si pensa di lasciare a casa gente a patire la fame per procurare la morte a chi ha gli stessi problemi”.
Poi, per scaricarsi di dosso il peso delle responsabilità: “Scusateci ragazzi, se potete, eravamo ubriachi di adunate, comizi e miseria … e nessuno se ne rendeva conto”.
Impiegava qualche minuto per ricominciare: riempiva il bicchiere, beveva un sorso di vino e diceva:
“Il dottore sostiene che se non la smetto me ne vado al Creatore”.
Poi, smentendo se stesso:
“E chi se ne frega, adoro l’incoscienza. Un giorno vi rivelerò come sono arrivato a questa conclusione”.
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Una pausa più lunga consentiva di coordinare il parlare con il sentire. A quel punto la narrazione assumeva una progressione così incalzante da attizzare la curiosità dei presenti. Il riferimento a un evento, pubblico o personale, svelava lo smisurato amore che Rino aveva per la verità e la giustizia.
“Riposavamo tranquilli sulla spianata al limitar di Tripoli, sicuri di essere protetti dalla contraerea amica, ma ci toccò udire il rombo degli aerei inglesi provenienti dall’Egitto.
- Mimetizzatevi sotto la sabbia - ordinò il tenente.
Io rimasi in piedi a guardare le pance gonfie dei bombardieri, che sfilavano a cento metri sopra alla mia testa. Pensavo:
- Stupendi, sono tra le cose più belle che si possano ammirare in guerra, la bellezza vince perfino la paura.
La guerra fa male, ma a volte è necessaria se serve a liberare idee segregate per troppo tempo in un pensiero chiuso”.
Intorno al focolare i primi posti erano occupati dai ragazzi, i più grandi si mettevano dietro, all’ultima fila. Pareva di stare a scuola, in fila e corretti. Sul tardi Rino tirava fuori dal borsone una decina di patate e diceva:
“C’è cenere in abbondanza per cuocerle o avete cenato?”. Scendeva un silenzio carico di sospetti: che c’era dietro a quella domanda, diffidenza o provocazione? La cenere prendeva la forma di una montagnola sotto la quale il tubero diventava pasta morbida e profumata. Quando uno lo teneva in mano, ci soffiava sopra, l’apriva, lo bagnava con una goccia d’olio e lo insaporiva con un pizzico di sale. Rino stava attento alle reazioni dei ragazzi, che, però, non si lamentavano, questione di decenza, d’orgoglio personale. A quel punto tirava fuori dalla cappa un fiasco di vino e lo passava di bocca in bocca, come se fosse un
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capezzolo a cui tutti si dovevano attaccare. Il vino, per fortuna, non scarseggiava, sarebbe stato difficile star dietro ai muli nel ciclo di lavorazione delle tre, quello più duro.
Anche io partecipavo ai rituali delle patate e della bevuta collettiva. Soffrivo, stringevo i denti quando avevo tra le mani il tubero bollente: me lo passavo da un palmo all’altro per non scottarmi, lo dividevo a pezzi e lo tenevo lontano dalla faccia per non essere investito dal vapore.
Quando poi mi toccava poggiare le labbra alla bocca della bottiglia, superavo il disgusto violentando me stesso, perché non avevo altre compagnie da frequentare, avrei dovuto passare le giornate con Satanik, Eva Kant, Diabolik, Kriminal e Topolino. Allora meglio Rino Grimaldi e i compagni del frantoio Roselli, insieme ai quali potevo rubare qualche ora in più alle notti di un inverno che sembrava non volesse finire mai.
Quando sul tardi le discussioni scivolavano sul banale, la compagnia si scioglieva, spazzata da una folata d’incoscienza, che spingeva tutti ad andare a dormire.
Tornato a casa, non mi mettevo a letto, restavo attaccato ai vetri della finestra a guardare il lampione che penzolava tra casa mia e quella di Carolina, una vedova abruzzese. Con un po’ di fortuna potevo anche vederla, mentre riposava con la testa appoggiata su una montagna di cuscini sovrapposti.
Socchiudevo gli occhi e vedevo la neve scendere leggera. Avrebbe coperto in un niente la chiesa, i tetti, le terrazze e le strade.
Non avevo mai provato il brivido della scivolata su una lastra di ghiaccio, non mi ero mai trovato al cospetto di un muro bianco che mi impedisse di ritornare a casa. Aspettavo la neve perché
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era candida, come le tuniche che i bambini indossano il giorno della prima comunione.
“Quando verrà? È possibile che non voglia scendere?”
E lanciavo una scommessa:
“Quest’anno avremo la Pasqua imbiancata, il mondo non può girare sempre allo stesso modo”.
Pativo la solitudine, così imparai da piccolo la tristezza del tramonto e la gioia del risveglio. I miei compagni avevano un sorriso diverso, erano più loquaci, scherzavano, non avevano remore a prendersi in giro, senza diventare permalosi, senza portarsi rancore.
Preferivo, comunque, l’inverno alla primavera, quando le rondini andavano a occupare i cornicioni di casa per covare e triplicarsi di numero. Non riuscivo a dormire.
Alle cinque incominciava il solito garrire, seguito dal battito d’ali nei voli a inseguimento. Non mi restava che ripetere le declinazioni e le coniugazioni, per fare bella figura alle interrogazioni. La professoressa non aveva un marito e non aveva neanche dei figli, era isterica, con una perversa tendenza all’ingiustizia. Però era bella e ne approfittava per fomentare l’avversione allo studio in noi studenti. Una giorno pretese la declamazione a memoria di una favola di Fedro. Si percepì nitidamente dal fondo dell’aula una parolaccia, ma lei finse di non udire. Comprese, però, che aveva esagerato. Io non avrei mai detto una parola sconcia, sarei stato castigato da mio padre, più duro di un carabiniere, su istigazione di mia madre, convinta che la buona educazione passa per il rispetto delle autorità e delle istituzioni.
“Perché non ho un fratello o una sorella con cui giocare?” diceva Fabrizio. E non si dava pace, si sentiva una eccezione.
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“Ma hai una Mivar …” ribattevo io. E lui:
“… che non posso accendere, perché la corrente costa e non ci sono i soldi. Meglio un fratello”.
“Tra qualche anno sarà così per tutti” interveniva Rino.
“Vuoi dire che ci saranno solo figli unici?”.
“
I fratelli avranno genitori diversi e i nonni non sapranno più cosa fare, saranno l’inutilità sociale. La famiglia dovrà reinventarsi, avrà una struttura diversa, il matrimonio sarà a termine, cambierà forma e perfino il nome”.
Rino iniziava i racconti partendo da lontano, con riflessioni che parevano fatte apposta per ritardare le rivelazioni. Nessuno, però, si lamentava, pendevamo tutti dalle sue labbra.
“Da piccolo immaginavo la guerra come un confronto leale tra due eserciti contrapposti su un’immensa pianura. Praticamente un film in cui il bene deve prevalere sul male e alla fine la giustizia mette a posto ogni cosa. Non è così, la guerra è umiliazione del genere umano, perché vengono spazzati via tutti i principi sui quali si regge il vivere civile”.
Una pausa più lunga del solito faceva piombare la platea in uno spasmo emotivo. Fabrizio era il più sensibile alle variazioni imposte dal narratore e non esitò a criticarlo apertamente:
“Perché ti ostini a centellinare i racconti? Si percepisce che soffri. Ti porti dentro qualcosa di cui ti vergogni?”.
“Un giorno sarò costretto a dirvi tutto. Per ora dovete accontentarvi di quello che imparate a scuola, io non posso andare oltre, non ci riesco”.
Sembrava che stesse dando un appuntamento, però il tempo, si sa, non rispetta gli impegni, tocca affidarsi al caso per riannodare il filo degli eventi.
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La pace portò i reduci al disorientamento. Chi aveva moglie e figli non ebbe problemi a reinserirsi, per gli altri l’obiettivo era quello di recuperare in fretta il tempo perduto a inseguire un’idea sbagliata. Caddero, così, nella rete delle adolescenti diventate adulte, se le sposarono e vennero fuori le famiglie numerose.
E Rino? Sembrava che non ne volesse sapere. L’unica donna della sua vita era la madre. Gli era rimasta dentro per la saggezza, per gli esempi e la determinazione che sprigionava in ogni sua azione. Una frase lo ammutoliva ogni volta che lui avanzava pretese. E diventò principio che lo accompagnò per tutta la vita. Diceva pressappoco così:
“Il niente può bucare lo stomaco, il poco scatena la guerra, il troppo storpia le coscienze, mortifica lo spirito, stravolge finanche i valori”.
Già, il niente. Rino lo aveva provato, la sua famiglia viveva nella povertà. Il sostentamento veniva dalle braccia del padre, boscaiolo, e dalle vene della madre, che vendeva il suo sangue per rimpinguare i miseri guadagni del marito. Il dottore le diceva di non esagerare, era pericoloso, ma lei si arrendeva alle richieste di chi pagava per averlo all’occorrenza. Santa donna, la definivano, e santa lo era davvero, se ciò significa immolarsi per la famiglia. Il padre spronava i figli a lavorare e a nutrirsi senza risparmio, così in casa sarebbero entrati più soldi e anche un po’ di prestigio. Sei persone al secondo piano di una fatiscente casa popolare, avrebbero dovuto sentirsi da lontano, invece lì dentro regnava la pace, mai una discussione, un litigio, un frastuono.
L’anno in cui giunse la crisi per il freddo intenso e lo scarso lavoro, Elida, riprese a vendere il sangue, mentre il marito e i figli andavano per i boschi a segare legna.
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Nel giorno di Pasqua tutta la famiglia era seduta attorno alla tavola imbandita per pranzare. Il profumo delizioso lasciava supporre un menù speciale, ma non ci fu nulla di diverso rispetto agli altri giorni della settimana: sul fondo del piatto una fetta di pane coperta da un mestolo di verza e fagioli. Nessuno fiatò e nemmeno ebbe il coraggio di chiedere il secondo. La sorpresa giunse dal terzo piano: una signora entrò senza bussare, fece gli auguri, appoggiò un vassoio sul ripiano della cucina e andò via. Nessuno si mosse. Quando Elida tolse il coperchio, l’intenso profumo di arrosto fece scattare i quattro fratelli, che provarono a inforcare le porzioni migliori. Si scatenò l’inferno: litigi e spintoni, finché l’urlo della donna impose di ritornare ai rispettivi posti: per quella Pasqua niente carne e nemmeno per i giorni successivi; cominciarono a mangiarla, una volta al mese, quando le condizioni lo permisero.
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L’amore, certi amori.
Eveline e Silvia non si erano mai incontrate da piccole, chissà, si erano sfiorate qualche volta, ma niente di più, troppo diversi i loro interessi, le loro passioni. Magari una pettinava bambole, l’altra si divertiva a difendere la porta dei maschi durante una partita di pallone, giocata nell’unico parco di una piccola città di provincia, di quelle, e ce ne son tante, che hanno un piede attraccato al colle e l’altro proteso verso la pianura. L’unico ritrovo per i piccoli si trovava di fronte al ponte delle torri, dove ancor oggi si reca chi sogna e chi vuole ammazzarsi; qualcuno ci dorme sopra, però questo è un altro discorso, non è il caso di parlare dei distratti.
Attraversare gli anni è come affondare i piedi nelle impronte lasciate da chi è transitato prima per gli stessi sentieri. Così uno diventa adulto con una etichetta appiccicata addosso e una prospettiva conosciuta da tutti. È il tratturo della normalità, però certe volte le strade seguono itinerari diversi.
Silvia ascoltava la madre e imparava a vivere: le raccontava tutto del suo mondo, dalle abitudini ai costumi, dai pregiudizi alle virtù che ogni donna dovrebbe avere per essere felice.
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“Io mi sono sposata che avevo sedici anni”.
“Non ti credo! È impossibile. Come può una ragazzina assumersi la responsabilità di una famiglia, dei figli e della casa?”.
“Dovevo essere impazzita, però a quei tempi si faceva così. Mio padre considerò il matrimonio come un’irrinunciabile occasione e gli bastò una notte di riflessione per dare il suo assenso alla richiesta di nozze presentata da colui che successivamente sarebbe divenuto tuo padre. Comunque ci vollero sei anni prima che nascessi tu”.
“Avevi altri corteggiatori?”.
“E come no! C’era un ragazzo che mi girava attorno e mi seguiva ovunque, fino a diventare inopportuno per la eventuale reazione di mio padre”.
“Com’era? Ti piaceva?”.
“Sì, era bello, sveglio, intelligente, ma di famiglia umile. Due anni dopo se ne andò in America e lì avrà costruito la sua fortuna. Io non l’ho più visto e meno male”.
“Avresti preferito lui a papà?”.
“Che domande! Che cosa dovrei risponderti?”.
“Mamma, a sedici anni non me la sarei sentita di sposarmi. E questo basta per dire che voi genitori non dovreste mettervi in mezzo a una eventuale mia relazione”.
“Forse hai ragione, ma l’apprensione d’una madre per il futuro della figlia si maschera poco e male”.
Che giornate assurde attorno al focolare, con il sole che tramontava alle quattro del pomeriggio! E quante serate noiose, durante le quali si ripetevano mille volte le stesse cose: la famiglia, la guerra, la miseria, il lavoro.
Silvia cresceva in un clima rinfrancato dalla presenza del
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prete, che giungeva puntuale all’ora di cena per bere un bicchiere di vino con Franch, dal quale si faceva raccontare tutto quello che non riusciva a carpire durante le confessioni. Un ritornello senza soluzioni.
“Come vi trattavano gli inglesi? Non avevi nostalgia di casa e degli amici?”.
“Che bastardi! Ci mettevano l’uno contro l’altro, sperando che ci eliminassimo reciprocamente”.
“Che dici Franch, hai ancora tutto questo risentimento?”.
“E chi si scorda della fame che ci facevano patire e delle umiliazioni subite quando spingevano come bestie in prigione?”.
“È la guerra! Forse noi abbiamo fatto di peggio”.
Silvia non gradiva queste discussioni, preferiva le chiacchiere di sua madre, per guardarsi dentro e immaginare cosa fosse l’amore, quello vero, che lei non aveva mai provato. Neanche si chiedeva perché non le andava dietro nessuno, eppure, a detta di tutti, aveva un piacevole aspetto: bella, elegante, colta. Era tra le coetanee quella che aveva potuto permettersi di studiare e non avrebbe conosciuto l’inopia del dopoguerra.
L’amore era l’argomento preferito da entrambe: da Silvia che voleva capirne i segnali e dalla madre che, forse, non l’aveva mai provato, ma ne aveva sentito parlare.
“Mamma, come hai potuto sposarti così giovane? Come hai fatto a innamorarti?”.
“Questo non te lo so spiegare, il matrimonio lo decise mio padre, allora così si faceva. Dicono comunque, che i segnali ricorrenti siano la deformazione della realtà e la voglia di passare buona parte del tempo insieme alla persona amata”.
“Allora io non sono innamorata”.
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“Ti capiterà, vedrai, succederà pure a te quello che ho detto”. Di seguito, poi, come se stesse leggendo un libro:
“… avrai fremiti di piacere e momenti di incontrollata modificazione dell’umore. E proverai la forza della passione, connessa alle propaggini di affetto, alle carezze e ai baci…”.
“Mamma, mi fai confondere, ora sono davvero certa di non essere innamorata”.
A quel punto Silvia si metteva a scandire le facce degli amici, il loro modo di fare, la loro intraprendenza e si rendeva conto del motivo per il quale non aveva mai provato la voglia di frequentarne uno, parevano infantili, sciocchi, superficiali. Rimaneva così spettatrice di un mondo ravvivato da giochi che non le piacevano affatto.
Finché un giorno la strada prese un altro verso. Silvia festeggiava con i compagni il conseguimento del diploma al bar della stazione. Eveline era un’intrusa, non apparteneva alla classe, era lì per caso. Aveva lo sguardo intenso, inevitabile e Silvia ne avvertì la presa. Simpatia e affetto, poi il consolidamento di un rapporto anomalo, per certi versi equivoco, strano, che le portava a limitare il mondo a loro due soltanto. Silvia e Eveline provarono lo stesso fremito in occasione della festa organizzata a casa di Nando, in collina. Erano state invitate pure loro, ma si trovarono sole accanto al giradischi, nel buio assoluto, mentre gli altri si perdevano dentro ai ritmi lenti di Neil Young. Erano praticamente in esubero. Si guardarono negli occhi e si chiesero che cosa ci facessero loro due in quel posto, sarebbe stato meglio andare via, evitando ore di umiliazione e di emarginazione. Uscirono pianopiano, senza che nessuno se ne avvedesse. Dall’alto la città appariva lontana, irraggiungibile.
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Si presero per mano e non si separarono fin all’arrivo. Poi si salutarono e si diedero appuntamento per la mattina appresso al bar della stazione, quello del primo incontro.
Poi le cose s’impastarono, dietro a ogni angolo c’è sempre la sorpresa.
Silvia conobbe Fabrizio il giorno in cui si recò a consegnare i documenti per un eventuale incarico.
“Coraggio, sei vicina all’obiettivo” le disse lui.
Lei gli rispose con un sorriso di circostanza e niente altro, per non dargli l’occasione di intrufolarsi nelle sue cose.
Ma non valse a nulla. Fabrizio si fece più audace e le propose di scendere al bar per un caffè, per fare due chiacchiere e conoscerla meglio.
Spuntò dal nulla Eveline, che le disse di lasciar perdere, perché avevano un appuntamento a cui non potevano mancare. Silvia si arrese alle moine dell’amica; le piaceva sentirsi sfiorare dal suo sguardo, dalle sue mani e dai cattivi pensieri. Iniziò così la storia. Ogni occasione pareva l’occasione giusta per attizzare il fuoco che alimentava la loro natura.
Un giorno Eveline invitò l’amica a casa sua per farle provare gli abiti che aveva acquistato per il cambio di stagione.
“Questo ti sta benissimo”.
“Non andrei mai in giro con una scollatura tanto profonda”. “Le cose belle si mostrano, il tuo seno è piccolo, ma è molto attraente”.
“Sei impazzita? Non vedi quant’è minuscolo? A chi pensi che possa interessare?”.
“Invece è bellissimo, sta in una mano”.
E, così dicendo, lo accarezzava.
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Piacere e terrore si intrecciarono e a quel punto riconobbero di essere diverse dalle altre per gusti, sensibilità e tendenze: restava stemperato, sulla loro epidermide, l’umore dei sensi, che le obbligava a evitare gli sguardi della gente.
Silvia si sentì un’altra e ripeteva a se stessa:
“Dovrei vergognarmi, ma non mi sento a disagio, anzi, sono felice”.
Fabrizio non riusciva a capire per quale motivo Silvia non andava oltre la tiepida simpatia nei suoi confronti. Ma non si dava per vinto e ritornava alla carica per strapparle un appuntamento che gli avrebbe consentito di eliminare ogni dubbio.
Anche le discussioni tra Silvia e la madre si incentravano su di lui, ragazzo serio, istruito, di bella presenza, dai modi gentili.
“Mamma, non mi interessa; sarà come dici, ma non provo niente per lui”.
“Non ti ha fatto intendere nulla? Non gli piaci? Attenta, figlia mia, il treno passa una volta soltanto nella vita e tu non puoi permetterti di perderlo”.
Fu la morte di Franch a scombinare ogni cosa. Silvia avvertì il bisogno di una figura importante in quella casa divenuta improvvisamente vuota; così prese in considerazione l’ipotesi del matrimonio..
Dovette mettere fegato e cervello dentro a un frullatore, per convincersi che la passione per Eveline non l’avrebbe portata da nessuna parte e che la scomparsa di suo padre rappresentava forse l’occasione giusta per chiudere la storia, prima che deflagrasse uno scandalo dalle conseguenze inimmaginabili.
Che strazio l’ultima sera! Per tutto il tempo abbracciate in una spiacevole considerazione: prima o poi doveva succedere, l’al-
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ternativa sarebbe stata quella di sparire, perché nessuno le avrebbe capite, sarebbero state sommerse di insulti, invettive e graffianti allusioni.
“Non dobbiamo vederci più, non mi cercare”.
“Se è quello che desideri, ti auguro di essere felice”.
S’abbracciarono per l’ultima volta e fissarono i ricordi più toccanti nell’anima.
Silvia decise a quel punto di accettare la corte di Fabrizio e sollevare l’umore della madre, che iniziava a dare preoccupanti segnali di depressione.
Un sabato sera decisero di uscire per fare una passeggiata sul corso e ufficializzare in tal modo una relazione dal significato inequivocabile.
Silvia cominciò a prepararsi già dall’imbrunire. Rimase in camera, davanti allo specchio, a separare mille volte i capelli con la spazzola. Aveva la sensazione di essere sfiorata da Eveline: a ogni passaggio un fremito e le gambe si stringevano come per chiudersi a un mondo che le aveva impedito d’inseguire il sogno di una esistenza speciale. Non poteva però negare che il desiderio di farsi una famiglia era altrettanto importante.
“Facciamo un giro con la macchina, il tempo è brutto, non è il caso di passeggiare sotto la pioggia”.
“Come vuoi” rispose Silvia.
Fabrizio la osservò attentamente mentre saliva: era davvero bella. E il desiderio si accese. Mise in moto, imboccò una strada di campagna, accostò l’auto e spense i fari. La ragazza a quel punto comprese di essere in trappola, non poteva sottrarsi come aveva fatto altre volte e si predispose a tutelare per lo meno la sua immagine di creatura da trattare con dolcezza.
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Quel che accadde, dopo un tenero approccio, affiorò, invece, con sconfinato ribrezzo: due mani viscide vagarono per tutto il corpo di Silvia e il fiatone di lui s’incuneò nella sua testa, accompagnato da stomachevoli espressioni ferine. Silvia rimase impietrita e si concesse passivamente, senza ribellarsi e senza rimettere in discussione le nozze, che a fatica aveva accettato.
Alla fine Fabrizio si abbandonò sul sedile dell’auto, stremato, con lo sguardo perso nel vuoto, i capelli arruffati. Accese una sigaretta e non si accostò a lei, neanche per farle una carezza o per dirle qualcosa di carino. Eppure si era comportato sempre da signore, in modo gentile. Silvia si ricompose con calma e non fece domande, non le interessava sapere che cosa lui pensasse di lei.
Una voce, però, la colse di sorpresa, con parole cariche di rabbia, di risentimento:
“Ti avevo sciolto il sangue nelle vene per renderti felice e invece… A questo punto dovrei svuotarti di ogni pulsione, privarti della mente e del cuore per evitarti di soffrire. Però stai attenta, la prossima volta dovrai tapparti le orecchie, perché urlerò così forte da farti impazzire… e brucerò i tuoi vestiti e le scarpe, per impedirti di fuggire. Te la ricordi Eveline? Ti spalmava di creme e non facevi nulla per coprire quella voglia che hai sulla natica sinistra, senza un filo di grasso e senza smagliature. Ogni pretesto diventava una occasione per mostrarla, scatenando l’invidia delle altre donne per i tuoi tratti di insospettabile femminilità”.
Silvia si guardò intorno, ma non vide nessuno, c’era soltanto Fabrizio, che si ricomponeva.
Eveline scomparve del tutto e a loro non rimaneva che convogliare a nozze.
La più entusiasta era Amalia, che dalla gioia prese vigore.
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Fabrizio venne tenuto fuori dalle decisioni più importanti: la lista degli invitati, quella dei regali, l’abito nuziale, roba da donna.
E che dire dell’invito a cena di Rino Grimaldi unico ospite di serata, prima della celebrazione delle nozze? Fabrizio e Silvia erano stregati da quel signore che riusciva a dominare le passioni senza dare segni di cedimento.
Si poteva stare per ore ad ascoltarlo: il tono della voce, le parole, i silenzi. Stupiva la narrazione, sempre diversa, ispirata, come se fosse opera di un artista.
Rino li aveva visti crescere entrambi: lui gli aveva fatto da pungolo ai tempi del frantoio; lei non la mollava di un palmo, perché si portava dentro un conflitto di cui non poteva lasciar trapelare nulla.
Rino giunse puntuale alle otto di sera.
“Hai cucinato tu?” chiese ad Amalia.
“Silvia non mi fa mettere le mani tra i fornelli, agli ospiti importanti vuole pensarci lei. E io la lascio fare”.
“Ho portato una cesta di frutta, spero che sia gradita. Ci vuole fantasia per entrare nella testa degli altri e io è da un po’ che l’ho persa”.
“T’assicuro che in questa casa la frutta viene letteralmente divorata. Mi auguro che abbia compreso il motivo per il quale non figuri nella lista degli invitati, sai cosa pensano in paese della tua relazione con Carla. Ma stasera potevi portarla”.
“Non se l’è sentita, la nostra storia non è normale e vi capisco. A un maschio è concesso uscire dal seminato, alla donna no, è di cattivo esempio”.
A Rino non era mai passata per la testa l’idea di sposarsi, anzi,
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non ci pensava proprio, diceva che qualsiasi donna, anche la più tollerante, avrebbe sofferto accanto a lui.
“Nessuna riuscirebbe a sopportare le mie elucubrazioni, a seguire i miei ragionamenti, che passano, disinvoltamente, dalla coerenza alla discontinuità, alla follia”.
Eppure una donna Rino ce l’aveva ed era appunto Carla: generosa, esplosiva, un mix di sagacia e passione.
Aveva rinunciato alla maternità e si era rassegnata al ruolo ritagliato dall’uomo che l’aveva ammaliata e spiegava l’idea di coppia, prendendo esempio dalla natura. Se un ulivo cresce accanto a una vite si assiste a un gioco spettacolare: quello spinge i rami verso l’alto, la vite lateralmente. Uno si aspetta che i due si abbraccino, ma l’ulivo, benché sensibile alle carezze della vite, rimane impassibile. Ecco, Rino viveva l’amore come l’ulivo che non si sottrae ai tentacoli della vite, ma non si lascia coinvolgere pienamente. La vite a questo punto non si abbatte, fortifica i suoi tralci e si lega ancora di più al compagno, senza però soffocarlo.
L’aveva conosciuta in una circostanza incredibile. Il sole spaccava le pietre dalle otto del mattino, quando all’improvviso un acquazzone si rovesciò dal cielo sulla terra, assumendo la forma di un nubifragio. Nel fuggi-fuggi generale ognuno cercò riparo in un capanno, in una baracca degli attrezzi, in una grotta. Rino non si aspettava di trovarsi da solo con una donna terrorizzata dai fulmini e dai tuoni che si susseguivano senza sosta.
Gli toccò rassicurarla, le disse di non temere, perché non avrebbero avuto il tempo di rendersi conto di morire. E allora giù risate e ancora risate, come amici di vecchia data.
Succede in questi casi che scatta la scintilla e dalla simpatia
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parte il desiderio. Così, mentre il temporale virava a tempesta, i loro corpi rotolavano tra le brattee.
“Ma tu chi sei? Non ti ho mai vista prima”.
E mentre lui le poneva la domanda, riprendeva ad accarezzarla e poi a morderla. E lei lo assecondava, mettendo a nudo la sua fragilità e la sua forza, che la rendevano inarrivabile, divina, la donna dei sogni.
“E tu chi sei?”.
Nessuno rivelò il suo nome, però promisero di rivedersi il giorno dopo nello stesso capanno, alla stessa ora, alla sosta di mezzogiorno. E così fu per l’estate e l’autunno successivo e finirono per essere Rino e Carla, l’uno per l’altra, senza rivelare il loro stato.
E fu unione solida, coppia per la vita, rapporto stabilizzato con il rispetto e la passione. La crisi? Un confronto.
La famiglia? Un sogno che ognuno può coltivare.
Fabrizio e Silvia si sposarono ed ebbero tre figli. A guardarli pareva una famiglia come tante altre, però quando la natura si ribella c’è poco da parare, ogni relazione scricchiola ed esplode.
E scoprirono l’inferno.
In occasione della rottura del rapporto tra Fabrizio e Silvia, Rino rimase in disparte, perché in quella donna aveva intravisto qualcosa di strano: pareva debole all’apparenza, remissiva, invece possedeva una forza insospettabile, che lei stessa ignorava. L’esplosione del suo io lasciò basita ogni persona che conosceva, a iniziare dalla madre.
“È fuori di testa” diceva “povera figlia mia!”.
Ma fuori di testa ci finì lei: dopo tanto patire, cedette al dolore e in petto le scoppiò il cuore.
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Da lì partì la dissociazione di Silvia: il corpo, la testa, la volontà e il cuore presero strade diverse, non c’era raccordo tra di loro: le percezioni si fondevano con gli oggetti, le immagini si sovrapponevano ai pensieri e tutto lasciava presagire la dissoluzione dell’essere, un modo insolito per punire e punirsi.
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La rivelazione.
Ci siamo: lo scaleno è un modo irriverente di procedere, è un andar fuori dalle regole, una prospettiva lunga, che lascia veder le cose oltre l’apparenza. La narrazione qui si fa isterica: la terza persona diventa prima, il passato si fa presente e così via, di seguito.
È da un po’ che è finita la guerra. Ho lo sguardo teso alle montagne che bruciano, quando sento due dita picchiarmi sulla spalla. Mi giro e lo vedo; ha due occhi umidi, affranti. Lì per lì ho il sospetto che avesse paura, invece mi chiede di allontanarci, vuole parlarmi.
Non riesce a trattenere le lacrime, mi tocca il cuore. Io lo sostengo, penso che sia il caso di accompagnarlo a casa, ma mi fa capire che non vuole. Mi indica il gradino della chiesa e si siede.
Gli chiedo:
“Stai bene? Devo chiamare qualcuno?”.
“No, ho solo bisogno di tempo e tutto tornerà a posto. Ma tu non interrompermi, devi solo ascoltare… e dopo potrai uccidermi o perdonare”
“Eccone un altro che se ne è andato di testa” penso.
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Mi siedo accanto a lui e aspetto, in questi casi ci vuole pazienza. Si cala il cappello sugli occhi e delira.
“La cattura, l’odore della morte impastato ai fumi delle mitraglie… quattro giorni su un vagone blindato, uno accanto all’altro, infreddoliti, affamati, con le gambe indolenzite, eppure nessuno crollava, eravamo puntellati uno all’altro come salami in mezzo a tozzi di pane. Quando arrivammo, ci fu comunicato che nelle baracche non c’era posto, dovevamo arrangiarci. Io capitai con altri quattro sotto una tenda riscaldata da un braciere, che ci avrebbe evitato il congelamento. Non c’erano fili spinati, solo torrette per una sorveglianza minima, la montagna di neve incuteva paura, nessuno avrebbe avuto il coraggio di tentare una fuga impossibile. Dovrà tornare la primavera, diceva qualcuno, per tener acceso un barlume di speranza, ma occorreva arrivarci vivi e soprattutto in buona salute. Si passava la mattina a spalare la neve, a spaccare il ghiaccio, poi tutti per i boschi a segare alberi per la legna da bruciare.
Mi si spalancò il cuore quando riconobbi un amico, anche lui prigioniero nello stesso campo. Era responsabile della 56, l’ordine, la pulizia e la sicurezza dipendevano da lui, godeva della fiducia degli ufficiali. Mi disse che mi avrebbe fatto trasferire nella sua baracca, ma bisognava aspettare che si liberasse un posto. Non gli chiesi come né quando, avevo però certi sospetti che non tardarono a trovare conferma: nel campo si moriva per le infezioni, il congelamento degli arti e le malattie respiratorie. Comunque è meglio stare qui che al fronte tra le bombe e la fame, diceva Pietro.
Lui, contrariamente a tutti gli altri, non era malnutrito, il suo umore si manteneva vivace, allegro. Andava tutte le sere a suo-
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nare il pianoforte al circolo degli ufficiali, per sollevare il loro morale, perché si sentivano prigionieri come noi. Pietro poteva mangiare e bere a volontà, non avvertiva neppure la nostalgia di casa, praticamente era l’unico essere libero del campo: non aveva nemici, godeva di buona salute e aveva un posto di comando.
Quando mi informò che si era liberato un letto, feci mille salti di gioia, potevo lasciare la tenda. Pietro mi raccomandò di sbrigarmi, perché c’era altra gente in attesa di sistemazione e avrei potuto perdere l’occasione. Raccattai i quattro stracci che avevo e lo raggiunsi. La baracca sembrava una reggia. I letti erano addossati alle pareti. Sotto al mio c’era quello di Diego. Mi accolse con un ampio sorriso e una stretta di mano, come se fossimo amici di lunga data. Era una brava persona e non ci volle molto a stabilire un rapporto di stima e di fiducia. Giocavamo a carte durante le giornate di tormenta. Quando ci coglieva la malinconia, ognuno raccontava all’altro il mondo che aveva dovuto lasciare per far la guerra. Che tristezza! Che nostalgia!
Un giorno Diego disse:
Chissà quando finirà la guerra! Voglio credere di ritornare a casa, diversamente sarà la fine per la mia famiglia. Tu non sei sposato e non puoi comprendere le preoccupazioni che si provano quando ci sono in mezzo la moglie e i bambini. Se non dovessi riabbracciarli, vorrei che fossi tu a testimoniare quanto spazio hanno occupato nei miei pensieri e quanto grande è stato il mio amore”.
Interrompe il racconto e pare intenzionato a non proseguire. Deve liberarsi del senso di colpa per liberarsi del peso che si porta dentro.
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Riprende, così, il racconto, mantenendo lo sguardo a terra: “Le cose non andarono come sarebbero dovute andare, la pietà non è contemplata quando il sacrificio si identifica con il martirio. Morire per un ideale può essere concepito come donazione di sé a una causa nobile, morire per il furto di un paio di anfibi fa schizzare il cervello, perché uno rivede le facce di chi aveva cercato di evitare il congelamento con gli stracci elargiti in abbondanza dai compagni. Quando al mattino si scendeva sul piazzale con due fagotti di panno al posto degli scarponi la fine era segnata: il calore dei piedi, avrebbe sciolto la neve, l’acqua sarebbe diventata ghiaccio e poi, a seguire, ricovero e amputazione. Erano passate parecchie settimane dal trasloco nella 56 e tutto procedeva nel migliore dei modi, però il caso mi pose di fronte alla scelta più incredibile che io potessi immaginare. Era passata la mezzanotte quando mi accorsi che erano spariti i miei scarponi alla base del letto, dove li lasciavo. Spavento, terrore, mi vedevo già con gli stracci attorno ai piedi all’adunata del mattino. Spostai lo sguardo all’altra parte e vidi quelli di Diego. Seguirono attimi terribili, i pensieri andarono dritti al congelamento, all’amputazione, finanche alla morte. Dormivano tutti quando gli anfibi di Diego passarono alla mia parte, fu sufficiente un semplice tocco. Non presi più sonno, restai con gli occhi aperti fin alla sveglia. Quando il mio amico si accorse del furto, incominciò a tremare, forse aveva capito tutto, ma si dovette accontentare degli stracci che gli elargimmo per proteggersi dal gelo. All’adunata cercò di riconoscere i suoi anfibi ai nostri piedi, ma erano tutti uguali, vecchi, sgangherati e sporchi. Rientrato dalla foresta, fu accompagnato all’infermeria e poi all’ospedale.
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