"L'asse interiore, la bellezza" - Di Loreto Stefano

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“L’asse interiore, la bellezza” Stefano Di Loreto
Catalogo monografico realizzato in occasione della mostra personale “L’asse interiore, la bellezza” all’interno del Festival dannunziano 2022 Opere di pittura e scultura: Stefano Di Loreto Fotografie: Paolo Iammarrone Progetto e coordinamento grafico: Studio Byblos Testi: Caterina Di Loreto Daniele Radini Tedeschi Federico Caloi In copertina: particolare dell’opera “Elena, omaggio a Gabriele D’Annunzio” Produzione e distribuzione: Studio Byblos Publishing House Con il Patrocinio:

L’ASSE INTERIORE, LA BELLEZZA di Federico Caloi 5

STEFANO DI LORETO TRA MARCEL PROUST E GABRIELE D’ANNUNZIO di Daniele Radini Tedeschi 11

I FLUSSI METAMORFICI NELL’OPERA DANNUNZIANA di Caterina Di Loreto 29

FLUSSI DELLA COSCIENZA .45

TEMPO DELL’ANIMA 53

VELENO 59

GLOBALIZZAZIONE 69

COVID SPEZZATO .75

BIOGRAFIA

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Federico Caloi Curatore della mostra “L’asse interiore, la bellezza” e critico d’arte

“L’ASSE INTERIORE, LA BELLEZZA”

Sebbene esista ancora un pregiudizio ideologico intorno all’opera di Gabriele D’an nunzio, da additarsi a quella schiera di popolazione che attende ai temi della cultura con superficialità, è bene ricordare subito che proprio il vate, nel corso della sua vita, avventurosa e immaginifica, lasciava al mondo una frase dove scriveva: “Al di là della destra e della sinistra, come al di là del bene e del male…Io farò parte di me stesso… Io sono un uomo della vita non delle formule.” È evidente, in quel: “…al di là del bene e del male…” il riferimento alla filosofia di Nietzsche, all’argomento del suo pensiero per il quale è arrivato il momento, per l’uomo, di superare tutti i costrutti morali che la storia ha creato, falsi per il filosofo, che hanno creato una civiltà fatta di fratture e incomprensioni della profondità della natura e del cosmo, per approdare a un uomo nuovo, che possa vivere in armonia con sé stesso e con il creato.

Stefano Di Loreto presenta al pubblico, in questa Personale, una significativa summa del suo operato degli ultimi anni che, senza scomodare l’Ubermensch, questo uomo nuovo, il superuomo nietzschiano, mostra un percorso che possiamo dire manifesta mente intellettuale. Questa esposizione dipana un intreccio concettuale i cui temi profondi, propri del fare di questo Maestro e del suo pensare, sono legati dall’avviso sulla direzione sbagliata che ha preso l’umanità, rispetto a un possibile vivere più con naturato, da ritrovare superando gli errori che stiamo commettendo, per l’appunto, connesso a una nuova umanità da raggiungere. C’è, in tutto questo, un immediato nesso con l’aspirazione del vate a una dimensione, “al di là del bene e del male”, che possa migliorare la condizione umana. Per Nietzsche, per D’annunzio e per Di Loreto, così però dovrebbe essere per tutti, la civiltà morale che conosciamo ad oggi, consi derando le sue regole di bene e di male, sta commettendo degli errori che stanno portando l’uomo verso un futuro sbagliato. Se solo pensiamo ai temi del riscalda mento globale, dell’inquinamento o, altro tema specifico dell’arte di Stefano Di Lo reto, la strage delle api e degli insetti, da contemplare la produzione scultorea dedicata alla questione, ecco spiegato perché l’anelito al cambiamento deve essere morale. Cambiamento che per Di Loreto può avvenire solo attraverso un rinnovato rapporto con la coscienza. Nella loro formale bellezza, le opere del Maestro ci parlano, letteralmente, di questi argomenti. Una delle menti più brillanti della storia, Albert Hoffmann, scriveva: “Ancora oggi si pone lo stesso problema della trasformazione di ciascun individuo. Il cambiamento necessario in direzione di una consapevolezza totale, come condizione per il supera

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mento del materialismo e per un nuovo rapporto con la natura, non può essere dele gato alla società o allo Stato; il cambiamento deve e può aver luogo soltanto dentro ciascun essere umano.” Esattamente uno degli ultimi cicli della produzione di Stefano Di Loreto, “FLUSSI DELLA COSCIENZA”, è dedicato a questo tema. L’artista stesso, nello spiegare il suo percorso, racconta: “Intendo orientare la riflessione dell’uomo sulla propria coscienza, quella parte di sé che è continuamente in tumulto, sollecitata da un marasma di stimoli esterni, chiamata a scegliere senza tregua fra posizioni diverse, fra fazioni in lotta, fra il bene e il male, fra la guerra e la pace, fra l’accoglienza e l’espulsione, fra l’onestà e la corruzione. La coscienza sempre fluttua, veloce e inarre stabile, verso una sempre più profonda conoscenza di sé.”

Esaminando l’intreccio che trova punti di intersezione tra la Personale del Maestro e D’annunzio, è anche utile ricordare che l’appellativo: vate, cioè profeta, sacro, con cui spesso veniva chiamato D’annunzio, che fu conferito anche al suo contemporaneo Giosuè Carducci, in virtù della loro capacità di essere potentemente aulici e insieme popolari, come anche fu Dante, significa anche profeta. Vate, da cui anche vaticinio, previsione o profezia su cosa accadrà in futuro. Di Loreto, con la sua estetica idealiz zata come concetto verso l’aspirazione al bello interiore, riflesso di quello esteriore, meravigliosamente visibile nelle sue opere, vaticina la strada da scegliere per evitare all’uomo una profezia nefasta. In tutta la letteratura, fin da tempi remotissimi, all’eroe era data la facoltà di sconfiggere la profezie attraverso l’azione e il sacrificio, e se D’an nunzio, della figura dell’eroe ne ha fatto forza vivente, per essere ai suoi esempio contemporaneo, fondando quella che viene definita “l’estetica dannunziana”, in cam bio, nei lavori di Stefano Di Loreto, la vivezza dell’esempio, la troviamo nella pervicace, vibrante, ricerca della bellezza, nella purezza formale dei suoi lavori, dei suoi colori, nei suoi segni, nell’insieme armonioso delle sue opere, che indicano speranza e spinta positiva verso il bene. Già in Aristotele la riflessione sul bello impegnava in chiarimenti ontologici, perché, è inconfutabile, il bello è insieme anche buono e giusto e quindi parte del bene; la bellezza ci indica la strada verso la virtù. Comportamenti virtuosi potrebbero portare l’uomo a evitare che, come asserisce l’artista, per introdurci alla collezione di opere, “VELENO”: Nell’attuale società assistiamo ad un crescente abuso di farmaci, droghe e fumo. L’inquinamento dell’aria, delle acque e della terra sta di ventando sempre più devastante. Voglio che l’uomo rifletta su questa contaminazione generale per recuperare uno stile di vita più salubre e una maggiore sensibilità per salvaguardare la nostra e le future generazioni.” Nella narrazione estetico‐simbolica che Di Loreto esegue, dobbiamo pensare a quanto sia ancestrale e profondo il rapporto tra il monito delle profezie e la virtù, ricordiamo ad esempio tutta la storia della mitologia greca, fino alle profezie della salvezza per eccellenza; quelle messianiche. Se nella scrittura tutto questo passa attraverso la sim bolizzazione di mitemi, nell’opera di Stefano Di Loreto questo processo passa per mezzo della suo esprimersi con una pittura informale‐astratta, dove l’opera, i suoi

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contenuti e suoi oggetti si fanno simbolo. Troviamo allora, espresso nella materia delle opere d’arte del Maestro, il monito con cui ci avvisa sui problemi di oggi: le con seguenze della “GLOBALIZZAZIONE”, altra collezione di opere dedicate a questo tema, dove le opere ci parlano delle nuove schiavitù, del lavoro sottopagato, della produ zione di cibi senza qualità, e Di Loreto scrive, a proposito di questi problemi: “La glo balizzazione ci pone di fronte ad un pensiero sempre più uniformato, gusti alimentari omogenei, un’economia accentrata. Si perdono le diversità, si accentuano le disparità. Voglio che l’uomo recuperi la forza del pensiero critico, l’originalità creativa, la bontà dei sapori, la bellezza delle diversità”. Se i veleni dell’aria, come abbiamo visto, e quelli che introduciamo nel nostro corpo, un inquinamento mentale e materiale che è evidente e pervasivo, producono un’al‐terazione ambientale e morale, uno dei temi più incisivi e ammirati della produzione artistica di Stefano Di Loreto è quello del tempo. “TEMPO DELL’ANIMA” è il percorso di opere dedicate al tema di come l’uomo contemporaneo, compresso in ritmi di vita innaturali, debba recuperare la sua visione intima. Anche in questo caso il Maestro, con la sua capacità di sintesi, premette le sue parole alla collezione di opere che rea lizza. Di Loreto, scrive: “L’uomo contemporaneo rincorre di continuo il tempo: le co municazioni sono sempre più veloci, il lavoro stressante, gli obiettivi sempre più alti. Una vita frenetica alla ricerca di valori effimeri. Il tempo meccanico. Voglio che l’uomo si fermi: riscopra il suo tempo naturale e rifletta su ciò che è veramente importante per raggiungere la felicità. Il tempo dell’anima.” A questo proposito, in questa mostra personale, il pubblico avrà la possibilità di ammirare l’opera: “TEMPO DECOSTRU ZIONE AL QUADRATO ON‐OFF” esposta alla 57^ Esposizione Internazionale d’Arte, La Biennale di Venezia. Ed è proprio il tempo, insieme alla coscienza, il collettore con la letteratura di D’an nunzio; infatti l’artista ha appositamente realizzato un importante trittico, tutto da scoprire e da ammirare, ispirato a brani del romanzo: “Il Piacere”, e alla nota lirica dannunziana “La pioggia nel pineto”, in cui le note scritte del Maestro raccontano la connessione tra i suoi dipinti e le parole del vate. Ecco, quindi, che la celebrazione di uno dei massimi esponenti della letteratura ita liana, Gabriele D’annunzio, simbolo e specchio dei sentimenti di un’epoca tumultuosa ed eroica della nostra Italia, di un periodo della storia non ancora digerito, poco capito e, soprattutto negli anni post‐risorgimentali, poco esaminato nel suo profilo emotivo, si innesta, pur considerando distanze e diversità, con alcune aspirazioni ideali e ideo logiche poste al fondo dell’animo dell’artista Di Loreto. La mostra personale di Stefano Di Loreto, inserita nella “Dannunzio Week” diventa così, anche un modo per riflettere sull’evoluzione dei percorsi del pensiero, delle basi filosofiche e spirituali comuni alla storia dell’uomo. Se vogliamo dirlo in modo più semplice, sul sistema delle idee che portano l’essere umano a credere in alcuni ideali, e cercare di dargli forma. Affrontare i temi della cultura, ponendo accanto arte e letteratura, è collegare quegli anelli della

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storia delle arti italiane che non devono smettere mai di renderci orgogliosi per la meravigliosa capacità creativa che la terra italica dimostra da millenni.

In ogni caso, al riguardo di differenze, diffidenze e dubbi, sul merito della produzione dannunziana, un dibattito che nasce già negli anni Ottanta del secolo scorso, ripreso più volte a singhiozzo dalle correnti intellettuali che si misurano con lo studio esege tico delle arti, ha stabilito che si debba essere capaci di distinguere l’opera, il suo va lore artistico, dal suo creatore, dalla vita personale del suo produttore. Giustamente, l’opera d’arte, quando diventa un bene collettivo, assume un significato e un valore proprio, ha una storia sua e un suo significato, indipendente dalle vicende umane che l’hanno generata. Succede esattamente così, nelle opere che il Maestro ha dedi cato alla pandemia, il ciclo “BROKEN COVID”, dedicate alla futura memoria di un pe‐riodo della storia che i posteri quasi dimenticheranno, e che ha invece inciso profondamente nella memoria collettiva di chi lo ha vissuto in prima persona, che queste opere assumeranno la loro dimensione storica; un vero e proprio legato ere ditario. Se non fosse così, di staccare la storia dell’artista dalla sua arte, come hanno cercato di proporre, fortunatamente con insuccesso, alcuni revisionisti, dovremmo, allora, cancellare tutta l’opera, prendiamo un esempio noto ma casuale, di Picasso, per il solo fatto che privatamente è stato una persona orribile con le donne che hanno accompagnato la sua vita. Solo per inciso, a seguire così, scopriremmo che una buona parte degli artisti della storia, letterati, cineasti e via dicendo, in quanto umani fallibili, hanno commesso gravi errori, nel corso della loro vita privata. Lasciamo quindi gli aspetti personali, i dubbi, su una figura così complessa come Gabriele D’annunzio, per ammirarne invece la produzione artistica di indubitato genio e per coglierne il messaggio.

Il paragone, quindi, con gli ideali umanisti e positivi di Stefano Di Loreto, con le sue aspirazioni a un risveglio della coscienza, a un uomo nuovo che trovi un rinnovato rapporto con la natura e la sua essenza più profonda, trova spazio comune nello sco‐prire che la continuità della storia del pensiero incontra fertile e fervido terreno nel suo divenire, evolvendosi nella sua sensibilità e, appunto, nella coscienza, a differenza dell’utilitarismo fideistico del progresso materiale. Dobbiamo, infine, considerare un ultimo aspetto di comparazione tra il lavoro di Ste fano Di Loreto e un altro concetto tipico dannunziano, naturalmente anche in questo caso, con la dovuta differenziazione prospettica, nel tempo e nella coscienza, che è la concezione dell’estetismo: “Gli uomini d’intelletto, educati al culto della Bellezza conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La con cezione della Bellezza è l’asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le loro passioni gravitano.” Per D’annunzio, la bellezza è L’Asse Interiore degli artisti ‐ da qui il titolo della mostra personale di Stefano Di Loreto ‐ e se seguiamo il filo delle parole, rispetto alla dimostrata maturazione della coscienza del pensiero nel corso della sto ria, non è forzatura individuare in questo nostro oggi che le “...peggiori deprava‐

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zioni...” sono proprio i comportamenti contro il pianeta e contro l’elevazione spirituale dell’uomo che Di Loreto narra nei suoi lavori. Abbiamo già posto l’accento sul fatto che in Stefano Di Loreto la ricerca estetica è simbolo della bellezza interiore, dell’armonia che potremmo raggiungere attraverso comportamenti più virtuosi, semplicemente più coscienti: “La mia arte è uno specchio dell’uomo contemporaneo: più si guarda a fondo, più la coscienza si smuove. Da qui nasce la bellezza”, dice Stefano Di Loreto, come motto assoluto del suo fare arte e infatti, se ci avviciniamo alle opere del Maestro, vediamo che la sua composizione è realizzata con gioia e rigore e scopriremo che il costrutto estetico è realizzato se guendo proprio “…una specie di ordine”. Le colorazioni di sfondo delle sue tele sono sempre nette: blu, azzurri, monocromi neri o bianchi, rosa antico, verdi vivi della loro brillantezza. Sopra queste stesure, l’artista pone volute, ora sottili, ora larghe, di rossi cromo, neri voluttuosi, bianchi candidi o puri azzurro, che campiscono la struttura delle opere, che vengono poi completate dall’inserto di oggetti‐soggetti: ingranaggi, ruote, blister di farmaci, parti di orologi, spighe e altre cose ancora, che sono i simboli della rappresentazione Diloretiana. Sopra a tutto questo, infine, delle eleganti e sec che frustate di colore, ora spesse, tal altra rare, che, idealmente e simbolicamente, rompono e scompongono gli oggetti‐simbolo posti sulla tela. Spezzare gli ingranaggi del tempo, rompere l’abitudine al consumo di cibo spazzatura, spaccare la nanopar‐ticella che inquina l’aria al punto da uccidere intere generazioni di insetti, è l’intento filosofico e ideologico di questo artista. Questo procedere è la Decostruzione Concettuale, nome con cui l’artista inventa la sua arte. Decostruzione nel significato preciso di smontare o spezzare il ciclo com portamentale che porta l’uomo a quei meccanismi, quasi automatici, di sopore della coscienza, per i quali la reiterazione di atti sbagliati impedisce il risveglio. Tutto questo va spezzato, ci indica Di Loreto. E quel segno, la frustata, come non considerarlo gesto catartico e sciamanico, che ancora una volta riporta a forze vaticinatrici, ad ancestrali modi per ritrovare rapporto con la coscienza.

Se, allora, in D’annunzio l’esteta è colui che cerca di vivere la vita come opera d’arte vivente e, anche in questo caso, come non individuare il progresso positivo del pen siero, visto che anche una delle figure intellettuali più potenti della storia e della no stra contemporaneità, Zygmunt Bauman, invitava allo stesso comportamento: “La nostra vita è un’opera d’arte – che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo – come ogni artista, quale che sia la sua arte –porci delle sfide difficili…”, dobbiamo allora sperare, quindi, con Di Loreto, che fare della propria vita un’opera d’arte debba significare risvegliare la coscienza per ripren derci un mondo giusto e pieno di bellezza.

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Daniele Radini Tedeschi Storico e critico d’arte

STEFANO DI LORETO

L’orologio, sovrastimato gingillo della modernità solida1, altri non è che un mero stru mento, perfetto, e come tale conchiuso nella sua idea di compiutezza. La vita umana, però non è, e non può esser scandita da un arnese, ferrea armatura del Super Io. “I giorni sono forse uguali per un orologio, ma non per un uomo”2 scriveva Marcel Proust durante le vacanze pasquali nel lontano 1913. Per risuscitare come individui, l’artificiosa unità pratica del tempo deve essere spezzata, parcellizzata. L’impeto della falce ha da esser devastante. Tale ribellione suggerisce Stefano di Loreto che nel lesto flagellare gli ingranaggi riscopre la bellezza del tempo dell’anima, un tempo nel quale una voce femminile, cara all’artista, echeggia tra verdeggianti cipressi e il cui volto silvano3 osserva l’umana gente distratta, talmente assorbita dalle mansioni quoti diane che non volge lo sguardo verso gli arborei occhi, non assapora i frutti delle sta gioni che avanzano ma, ammantata nelle proprie ristrette serre, ode solo il ticchettio frenetico delle mortifere lancette.

1 Zygmunt Bauman, “Modernità liquida”, 1999

2 Marcel Proust, “Vacances de Pâques”, in “Le Figaro”, 25 maggio 1913

3 Gabriele D’Annunzio, “La pioggia nel pineto” in“Alcyone”, 1903

Lavoro a basso costo 02 on­off (particolare)
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Lavoro a basso costo 02 on­off (in posizione on) ­ Serie “Globalizzazione” 2018, ceralacca, oggetti, tubo led su tela, 120x80x2 cm

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1, 2, 3, … numeri, numeri, numeri, sempre e solo numeri: il far di conto delle ore non concede la vita, la consuma: come l’aurea rena dannunziana, granello dopo granello, scivola incessantemente dai palmi delle mani mentre il cor palpitante4, inane, guarda. Se dapprima le ore erano scandite facendo ricorso agli elementi in natura, il sole, l’ac qua, la sabbia, inesorabile la civiltà se ne discosta sempre più: i pendoli meccanici ce dono il passo alle metalliche ruote dentate e il Tempo divien più impalpabile, inafferrabile, indicibilmente lontano. Come carpirlo? O, meglio, ne converrebbe Di Loreto, perché? D’altronde è sol spegnendo i luminosi ma taciti quadranti5 degli oro logi, come suggerisce “Tempo decostruzione al quadrato on‐off”, che si accede alla vita, a quella dimensione offline ancor più martirizzata nell’era pandemica.

4 Gabriele D’Annunzio, “La sabbia del tempo in “Madrigali dell'estate” in “Alcyone”, 1903

5 Gabriele D’Annunzio, “La sabbia del tempo in “Madrigali dell'estate” in “Alcyone”, 1903

Il Tempo era l’ossessione di Proust, ne parlava in ogni rigo temendone l’azione di struttrice, parimenti Di Loreto rivolta le viscere della quarta dimensione per dare un nuovo senso al suo scorrere impietoso, trovandone la fibra benevola all’uomo, alleata nella sua lotta: l’artista sente il dovere di colpire, più e più volte, il maligno virus che ha depredato mesi dalle nostre già fragili e precarie esistenze, crede possibile “tornare ad abbracciarsi e vivere una vita felice”, recuperare il tempo nella comunanza. È nel l’incontro con l’altro, d’altronde, che l’uomo si rinverdisce. L’oltre‐uomo del Vate non può in alcun caso però mescolarsi con l’omologante società e ha il dovere di lottare “contro una tempesta sferzante di preconcetti, culture, valori precostituiti, prodotti e input frenetici, cieche opinioni e giudizi, false certezze”, come afferma convinto Di Loreto con “Ecce Homo Ultra”.

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Tempo decostruzione al quadrato on­off (on, in ambiente oscurato) ­ Serie “Tempo dell’anima” 2018, ceralacca, oggetti, tubo led su tela, 120x80x2 cm
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Tempo decostruzione al quadrato on­off (in posizione off) ­ Serie “Tempo dell’anima” 2018, ceralacca, oggetti, tubo led su tela, 120x80x2 cm

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Covid 03 ­ Serie “Covid Spezzato” 2021, acrilico, resina su tela, 100x70x3.5 cm
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Ecce Homo Ultra ­ Serie “Globalizzazione” 2016, acrilico, oggetti su tela, 160x110x2 cm

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Nel ritorno al reale dopo la parentesi della malattia globale, pone al servizio dell’altro la sua grande forza sensitiva6. Memore degli insegnamenti de “Il piacere”, rifugge tuttavia il dannunziano Andrea Sperelli per il quale l’espansione sensitiva “era la di struzione in lui di un’altra forza, della forza morale”. E desidera superare il proustiano flusso della coscienza che rimane impermeabile al confronto. Di Loreto percepisce difatti, ancor più fortemente, la sua responsabilità nei confronti della società e la sua intrinseca ricettività artistica, rifiutando il discorso monologico di Sperelli per aprirlo a uno sviluppo pluri‐logico inclusivo, diviene anello di congiunzione pistolettiano tra la natura naturata delle tele e la natura naturans dell’ambiente che tutto cinge. Da dannunziano sacerdote di Pan, ci guida tra le grondanti stille del pianto esistenziale che cresce7 e, nel tracciare il sinuoso cammino da percorrere, rammenta i nostri do‐veri nei confronti dell’ambiente.

6 Gabriele D’Annunzio, “Il piacere”, 1889

7 Gabriele D’Annunzio, “La pioggia nel pineto” in “Alcyone”, 1903

“In Toxicair 01 on‐off” le api non più ronzano ne’ silenziosi orti8 e le coccole aulenti9 della Natura si disperdono nel soffocante, nauseabondo smog. Lo slancio di gioia vio‐lenta10, entusiastico barlume di derivazione naturale, cede il passo all’asfittica grati ficazione cairologica.

8 Gabriele D’Annunzio, “Le terme” in “Sogni di terre lontane “ in “Alcyone”, 1903

9 Gabriele D’Annunzio, “La pioggia nel pineto” in “Alcyone”, 1903

10 Marcel Proust, “Alla ricerca del tempo perduto” ­ “Dalla parte di Swann”, 1913

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La pioggia nel pineto – omaggio a Gabriele D’Annunzio ­ Serie “Flussi della coscienza” 2022, acrilico, resina su tela, 120x120x4.5 cm
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Toxicair 01 on­off (in posizione on, ambiente oscurato) ­ Serie “Veleno” 2020, plexiglas, acciaio inossidabile, led, 121x52x23 cm
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Toxicair 01 on­off (in posizione on) ­ Serie “Veleno” 2020, plexiglas, acciaio inossidabile, led, 121x52x23 cm

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Affogando nell’ostinato acquitrino superficiale, il profluvio dell’interiorità tace. Il vo lenteroso oltre‐uomo si erge allora a protezione dell’ineluttabile tragico epilogo. L’in tuizione si riversa placidamente sulle tele, il magmatico linguaggio informale della psiche fuoriesce nel lavico gesto diloretano. La peculiare uniformità del pensiero do minante si sgretola, la mitosi scinde la granitica personalità imperante negli archetipici opposti: la purezza bianca della proustiana e celestiale Maria si oppone, apollinea, all’irruenza dionisiaca della rossa e sanguigna Elena.

Il Piacere, Maria ­ omaggio a Gabriele D’Annunzio (particolare)
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Il Piacere, Maria – omaggio a Gabriele D’Annunzio ­ Serie “Flusso della coscienza” 2022, acrilico su tela, 150x100x4.5 cm
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Il Piacere, Elena – omaggio a Gabriele D’Annunzio ­ Serie “Flusso della coscienza” 2022, acrilico su tela, 150x100x4.5 cm

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Il Piacere, Il sogno – omaggio a Gabriele D’Annunzio ­ Serie “Flusso della coscienza” 2022, acrilico su tela, 150x100x4.5 cm
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L’aberrante constatazione della creazione derivata dalla mescolanza di coloristici toni primari, scoraggia i pavidi, li traghetta verso il mare profondo dell’assuefazione a pia ceri contingenti, velenosi farmaci della contemporaneità, o verso i lidi sicuri delle pa ludi ove l’antico nemico, l’orologio, riemerge trionfante a battere l’ora del nostro fallimento.

Il Piacere, Il sogno ­ omaggio a Gabriele D’Annunzio (particolare) Depression 02
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(particolare)

Depression 02 ­ Serie “Veleno” 2019, acrilico su tela, 150x100x3,5 cm

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Caterina Di Loreto Poetessa e critico letterario

I FLUSSI METAMORFICI NELL’OPERA DANNUNZIANA

Il Piacere

L’artista Stefano Di Loreto dedica una dirompente produzione pittorica all’amato Poeta Vate Gabriele d’Annunzio. Il trittico Il Piacere ci trascina all’interno dell’intimità sensuale di Elena Muti, devotamente ci china al cospetto dell’aura spirituale di Maria Ferres, infine ci scuote, in un abbandono crudele, fra le irriducibili e tormentate contraddizioni di Andrea Sperelli. Ma in realtà nessuno dei personaggi resta coerente e pago di sé stesso: ciascuno rifiuta la propria natura anelando a ciò che più diverge, ciascuno s’affanna a cangiare la propria eburnea pelle, ciascuno è un flusso mai pienamente afferrabile, teso a una metamorfosi che scaturisca dal travolgente contatto con l’altro, fino a una languida deflagrazione. Torturato da un’incessante lotta interiore fra opposte fascinazioni, Andrea, paradossalmente, è il personaggio che resta più fedele alla propria natura, colui che, cambiando continuamente con un’attitudine camaleontica, cede le armi contro sé stesso per celebrare infine il trionfo della sua incoerenza e della sua fluidità metamorfica. Di contro, la fiamma dell’ardore con cui egli avvolge lo scultoreo corpo d’Elena, poi l’aura cerulea di Donna Maria, ha la dirompenza d’accendere l’altrui flusso cangiante secondo moti diametralmente opposti e di plasmarlo secondo le forme a sé più congeniali nel frangente della sospensione: così la sensualità d’Elena attinge alla spiritualità nell’amplesso estenuante, la spiritualità di Donna Maria vibra nell’estasi di desideri sensuali dissepolti. Nella febbre dell’ardore e dell’inappagamento, Andrea, trastullandosi nella sua camera da letto carica d’oggetti ed effigi ecclesiastiche, mescola i sensi con lo spirito, la Bellezza con la Verità, l’artificio con la sincerità. Si dipana così una fusione inquietante ed ermafrodita, che rinnega il proprio nucleo tangibile e il pesante trofeo della conquista, per l’ariosità dell’ascensione e del precipizio, dell’esaltazione e del languore, per una incessante dilatazione onnicomprensiva, che si sprigiona nell’inafferrabilità dei fluidi.

La metamorfosi e la mescolanza trasfigurante sono la linfa d’ogni attitudine, d’ogni brama, l’ambrosia d’ogni creatura e d’ogni oggetto. Nella prima pagina del romanzo, Andrea, in un’attesa ansiosa di incontrare Elena, osserva le folte rose immerse nei vasi di cristallo: dentro quella prigione diafana, i fiori sensuali sembrano spiritualizzarsi e religiosamente offrirsi. L’antica fiamma della metamorfosi scioglie i sensi e fonde le danzanti creature della

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natura, tutto anela trepidante alla ricostituzione di una unità primigenia, a un circolo fluttuante intorno a un asse vorticoso che sia sempre diverso da sé e partorisca un nuovo elemento imaginifico, carico di una idealità inafferrabile. Le creature si impregnano di tutte le circostanti forme di vita: di aliti, di luce, d’acqua sorgiva, di foglie, di profumi, di fiori, di flutti marini; di cipressi, che s’accendono come torce, lambiti dalle stelle, o s’ergono foschi e funerei; di alberi, che ondeggiano al vento e propagano gli aliti aulenti a tutte le cose, in un panismo sensuale e spirituale insieme. Ciascuna donna ammirata viene tratta da Andrea dalle arti figurative, sottratta dal giogo della tela, della matericità delle tinte, della crudele immobilità delle pose, per animarla come creatura leggiadra ed eterea. Andrea ama dissolto nell’ambiguità fascinosa dell’arte, poi ne riaffiora al contatto con la donna trascinando con sé i tratti già conosciuti nel primitivo amplesso con l’arte. Riplasmata da Andrea come creatura diafana, la donna perde le ammirate forme del corpo, abbandonate alle spalle come antiche spoglie sgualcite, per congiungersi fluidamente con tutto ciò che accarezza. Ogni creatura si frantuma in mille forme e l’unione con l’altro nasce dal bisogno di arginare il dissolvimento e ricomporsi nella primitiva unità.

Tuttavia la completezza è una beffa, una tregua illusoria e fugace, che vacilla appena dopo la conquista. Così di nuovo ci si frantuma nel caos danzante degli elementi. La malattia invoca la convalescenza, lo spirito fluido s’atteggia alla forma, il corpo si protende all’aura d’una nuova idealità.

La vita reale si dischiude ad Andrea come la vita non vissuta da lui, come l’insieme delle sensazioni involontarie, spontanee, incoscienti, istintive, come l’attività misteriosa della vegetazione animale, l’impercettibile sviluppo di tutte le metamorfosi. Ogni creatura è la combustione di una inarrestabile metamorfosi.

Nel trittico di Stefano Di Loreto dedicato a Il Piacere, Elena Muti sprigiona la sua veemenza sensuale in un flusso di rosso profondo che voracemente incendia un fondo bianco. È la sensualità del corpo nudo che ravviva il fuoco del caminetto dopo l’intimità, scansandosi leggermente per evitare i tocchi crudi delle faville; che sorride vivace da tutte le giunture, soffuso d’un pallore d’ambra che evoca la Danae del Correggio. Le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, arborei, come quelli nelle statue di Dafne al principio della metamorfosi. Elena prorompe con la grandiosa bellezza d’una statua classica, ma, pregna di mollezza, si fonde con la natura vegetale che, silenziosa, s’inerpica lungo le caviglie, si fonde coi petali di rose rosse che lei sparge sul tappeto, in una metamorfosi che aggredisce il pallore con un accento di vitalità e passione. Tutti gli oggetti testimoni dell’amore ascoltano la voce e il riso di lei, si impregnano dell’umidità del suo alito, in un fluido panismo sensuale. Il flusso sanguigno che irrora la tela è la veemenza vorace di passione, è il profumo d’eliotropio che esala dalla pelliccia preziosa della donna, che alita sulla fiaccola nuziale. Il sangue d’Elena si profonde alle rose o viene da esse risucchiato, in una

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irresistibile mescolanza carnale: Elena affonda il volto nel mazzo dei fiori prediletti e, risollevato, appare esangue, gli occhi alterati dall’ebrietà. Il fondo della tela è bianco, come bianca è la pelle pallida ed esangue d’Elena. La donna appare ad Andrea di spalle, mentre ascende lentamente e mollemente lungo la scalinata del palazzo Roccagiovine. Il mantello foderato di una pelliccia nivea come le piume dei cigni si abbandona intorno al busto, scoprendo le spalle pallide come avorio polito, come una massa di rose bianche spunta fuori dalla neve. Il ritmo dell’armoniosa ascensione plasma sul fondo della memoria di Andrea un ricordo indistinto, un’immagine nascente da un’aria di musica. Qui incomincia la malia dolcissima, incomincia il Piacere non mai provato. Quella pelle diafana sembra latte tenue attraversato da una luce dorata. Ma il fuoco del camino nella camera da letto d’Andrea illumina il corpo nudo come un alabastro rosato. Il flusso rosso che irrompe è la vorace intimità degli amanti che si sprigiona come un amplesso con le rose: Andrea con le rose ricopre il petto, le braccia, il viso della donna, ed Elena di continuo risorge dalle rose, offrendosi placida come petali alla fonte di luce; fra la sua pelle e le labbra d’Andrea si frappongono le foglie fredde e molli.

Il flusso rosso è il fascino voluttuoso di Elena e l’amore per lei che penetra tutto il corpo e la mente d’Andrea, come un veleno che alteri senza rimedio il suo sangue e lo congiunga mortalmente alla vitalità della creatura amata.

Lo spirito dei due amanti si abbandona uno stato di fluidità sentimentale1, in cui ogni movimento, ogni attitudine, ogni forma viene impressa dalle vicende esterne, come un vapore aereo viene plasmato dalle mutazioni dell’atmosfera. Elena è l’idolo che seduce in Andrea tutte le volontà del cuore.

Il flusso rosso è l’oscuro enigma plastico della bellezza d’Elena, che si annida in un’espressione appassionata, ambigua, sovrumana, infusa in donne immortali come Monna Lisa e Nelly O’Brien. È la mescolanza trasfigurante dei due amanti in una creatura sola e altra. Un mazzo di fiori estinti profonde una comune esalazione, in cui non si distingue più ciascuna individualità di colore e d’effluvio.

Il flusso rosso che divampa sul fondo bianco sporco è il corpo nudo d’Elena che si riflette nel piccolo specchio antico appeso accanto al camino: la donna si sistema il velo dinanzi alla lastra offuscata e maculata che sembra acqua torbida, verdastra. L’acqua torbida, il bianco sporco, è la volubilità d’Elena, che gioca con gli angoli della sua bocca. Per Andrea quella bocca voluttuosa è la bocca della Medusa di Leonardo, umano fiore dell’anima divinizzato dalla fiamma della passione e dall’angoscia della morte, da cui scivola un’oscura essenza inafferrabile, una metamorfosi costante imbevuta di mistero. La passione esplode al momento della malattia d’Elena, la prima

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1 Il Piacere, Gabriele d’Annunzio, edizione Einaudi, 2014, p. 24

intimità fiorisce in un letto di convalescenza che esala cloroformio. D’un lampo la sensualità li avvolge e li rende incuranti di tutto ciò che per entrambi non sia godimento immediato. Dal languore di continuo risorge il desiderio più sottile, più temerario, più imprudente. Elena e Andrea sono una fiamma unica che trova la vita nella combustione.

La pulsione seduttiva di Elena s’annida nella bocca, non come organo trionfante sull’armonia delle parti, ma in virtù della sua discordia con l’espressione degli occhi, una dissonanza che effonde un’anima duplice: lieta e triste, gelida e appassionata, crudele e misericordiosa, umile e orgogliosa, ridente e irridente. L’ambiguità genera la fascinazione del mistero. Sulla bocca di Elena, Andrea sugge l’indefinibile seduzione delle bocche create da Botticelli e da Vinci.

Ma sopra il flusso sanguigno l’artista Stefano Di Loreto scaglia due sottili getti di colore oro. Quei graffi dorati sono i raffinati artifici d’Andrea, il gioco delle dissimulazioni eleganti: il conte celebra la menzogna come l’esaltante involucro della bellezza, come finimenti d’oro accrescono la perfezione delle forme, come strumento d’artista per polire minutamente l’oggetto creato dalle sue mani. Andrea dissimula per creare una Verità più perfetta, per creare la perfezione dell’amore dinanzi al piacere. Ma soprattutto dissimula per destreggiarsi fra le sue continue contraddizioni: fra il piacere di soccombere al fascino più voluttuoso e la repulsione verso scintille di piacere che chiunque può suggere da quella creatura forgiata per l’amore; fra la smaniosa esaltazione dei sensi e l’attitudine di spiritualizzare il pallore della carne velata. Andrea di continuo cerca e rinnega la donna che è il dispiegamento di sé stesso, il fregiato specchio dalla lastra offuscata e maculata come acqua torbida. Ma dopo la conquista, Elena diventa la tensione d’Andrea verso l’opposto da sé, che può compiersi solo nella forza dell’unione con l’altro, per raggiungere la perfezione dell’unità, della completezza, del cerchio. Così l’anima tormentata, come raddoppiata nell’intensità, soggiogata dai desideri dell’altro, si sfalda nell’allucinazione e crea un’esistenza più larga, più libera e forte, <<oltrapiacente>>2; gli amanti vi si immergono informi e ne traggono il respiro, come creature natanti in un liquido opalescente, uterino. Languida fra le braccia d’Andrea, Elena sugge dall’amato la trasfusione di quell’altra vita e si trasforma in una creatura diafana, leggera, fluida, immateriale, pura. La perfetta affinità e aderenza dei due corpi eccita una spiritualizzazione del gaudio carnale, che avviene nel languore dopo il piacere, quando l’anima ripudia la carne e si eleva verso l’idealità. Così ammantando il colore oro, l’artista Stefano Di Loreto decostruisce il flusso rosso che beffardamente ha l’aspetto d’un volto di donna, per sommuovere così l’immaginazione d’una nuova creatura ideale.

32 2 ivi, p. 86

All’inaspettato, crudele abbandono di Elena, il raccoglimento di Andrea si frantuma e succede così il dissolvimento. Non più raccolte dalla ignea fascia dell’amore, le forze deflagrano e precipitano al primitivo disordine. Non potendo più conformarsi a una superiore forza dominatrice, l’anima camaleontica, mutabile, fluida, virtuale del conte si trasforma, si deforma, perde tutte le forme. Ma il caos presto ammala l’anima, e la convalescenza che segue la malattia forma il simulacro di una nuova idealità. L’anima si monda sprofondando nel grembo della natura madre, imprimendosi dal primitivo abbraccio di una nuova vitalità. Convalescente nella villa di Schifanoja, Andrea riemerge alla vita al cospetto del mare: misura il proprio respiro al ritmo del largo respiro del mare, erge il proprio corpo come al cielo s’innalzano gli alberi, pacifica la mente sulla serenità incrollabile degli orizzonti. Andrea si abbandona a una fusione sensuale con la natura, si riplasma in tutte le sue forme, e ne riemerge come un vas spirituale3. Così il suo spirito si estende, si dispiega, si libera, tende alla pura contemplazione, attrae a sé gli elementi dintorno, come forme vitali del suo proprio essere. Andrea racchiude ed effonde la molteplicità, Andrea è tutte le creature.

Il secondo quadro del trittico che celebra Il Piacere è dedicato a Maria Ferres. Ripudiata l’ambiguità delle bocche maliose, Andrea, dalle Vergini dei tondi fiorentini, informa fra le sue mani Donna Maria. Donna Maria è una turris eburnea4 che contempla il mare, da cui trae l’essenza acquatica e ventosa, l’evanescenza. Circondata dal fascino esotico che cela le scoperte di intriganti peregrinazioni, Donna Maria non appartiene ad alcuna terra, fluttua dentro il mare e per mano accompagna Andrea nel luogo più materno, uterino, che abbraccia la vita con la morte. Discesa dal treno, ad Andrea compare ondulante sotto il mantello, il volto velato. Se la prima fascinazione d’Elena scintilla dalle forme d’un corpo in ascensione sulle scale, il velo nasconde in Donna Maria la vanità della materia, rallenta il ritmo dell’ardore, informa l’attesa e la pazienza, il velo solleva il desiderio nell’immaginazione. Se il desiderio sensuale per Elena vibra nell’estenuazione della malattia, ora la passione s’accende nella convalescenza. Se profumi di vaniglia e di violette avvolgono il corpo della prima donna e come lo strascico degli abiti effondono il fascino voluttuoso, ora il vento marino alita e sospira nell’ombra, pregno del profumo degli alberi in fiore. Una tenue ombra circonda gli occhi di Donna Maria: fonde due tinte diafane, il violetto e l’azzurro, esalta l’iride lionata degli angeli bruni. Un’espressione di tristezza e di bontà, mescolata a una fierezza che rivela l’elevazione morale forgiata dalla sofferenza.

33 3 ivi, p. 156 4 ibidem

Una lunga chioma nera, striata di riflessi viola, affatica la nuca ed esalta un volto opalescente, flagella e illumina la donna come l’eroina d’una leggenda cristiana. I capelli l’ammantano tutta quanta, come un velluto viola profondo, tra il quale appare il pallore opaco del volto. La malia di Donna Maria scaturisce dal martirio immaginario.

Nel quadro dedicato a Donna Maria, l’artista Stefano Di Loreto raffigura l’aura della donna velata. Un flusso bianco si espande sopra un magnetico fondo blu intenso ed effonde al centro una luce cerulea. Tenui venature viola e azzurre strisciano lungo il flusso bianco, a evocare la sofferenza glorificatrice della santità. La luce cerulea che fende la tela è un baleno inatteso di grazia, come un tenue riso illumina d’ineffabile grazia la bocca afflitta della donna. Fra gli allori e i cipressi, il mare splende azzurro come il fiore del lino.

Donna Maria è madre. Immersa con sua figlia Delfina nel profumo dei vergini acanti, dallo sguardo profonde l’indescrivibile tenerezza dell’anima occupata da quell’unico amore. Un’improvvisa trasfigurazione rapisce il suo volto quando, dopo una breve assenza, ode lo squillo della voce infantile. Andrea, che conosceva fino ad allora solo la gelosia verso il corpo voluttuoso d’Elena, ora s’affligge per l’inaccessibilità dell’amore materno che conquista l’anima intera. Fra le fontane su cui tremula il capelvenere e su cui cade qualche foglia di rosa, Donna Maria gode la sua Natività. Le cannelle sprigionano un canto roco e soave che si congiunge al suono del mare. Dal mare fino all’umile capelvenere si disegna un circolo magico, di cui Donna Maria è l’etereo centro.

Nel quadro, la donna fluttua bianca nel fondale marino che si congiunge al cielo. Il mare risplende di luce propria, nel fondale si scuotono magiche sorgenti di raggi, ogni cosa è penetrata di sole. Dal mare Donna Maria trae il respiro, la grazia, l’evanescenza. È un’eterea creatura composta di musica e di effusioni liriche della propria idealità. Il fondo blu del quadro è anche lo scuro mantello delle Vergini, la lunga chioma pesante che ammanta come una madonna tutto il corpo di Donna Maria , che illumina di più il pallore del volto. L’ovale lumeggia e irradia intorno una luce cerulea, è il sole che penetra ogni creatura.

Andrea prova una beatitudine ineffabile a respirare quella limpida atmosfera che anche ella respira, dove fluttua intangibile. Un’onda di tenerezza sgorga dal cuore spargendosi sugli alberi intorno, sulle pietre, sul mare: Donna Maria lo congiunge con ogni elemento della natura, che alita di spirito proprio. Quella creatura spirituale ed eletta, avvolta in nastri verdemare e coronata di giacinti, gli ispira un alto senso di devozione e di sottomissione. In quella esaltazione spirituale, Andrea è sospinto da un irresistibile bisogno di adorazione, di piegare le ginocchia e congiungere le mani. Da nessuna altra donna quanto da quella vorrebbe essere ammirato e lodato. Di nuovo Donna Maria ricongiunge le contraddizioni e le molteplicità di Andrea sotto il dominio di un’unica irresistibile forza.

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Seduti sulle panchine lungo i viali fiancheggiati di rosai, Andrea e Donna Maria conversano per lunghe ore, il conte si inebria del lungo flusso di parole che sgorga dallo spirito della donna, che rivela un candore pieno di grazia. Ad Andrea invece vengono meno la voce e la poesia, egli non può più racchiudere la vastità del sentimento entro un breve sospiro metrico.

Nel quadro di Stefano Di Loreto, lo spirito di Donna Maria fluttua bianco in un mare blu profondo. Sulle soglie del bosco di corbezzoli, Donna Maria si ferma a contemplare il mare. Il mare accoglie i riflessi delle nuvole e diviene un’immensa stoffa di seta, morbida, fluida, cangiante; le nuvole, bianche e d’oro, sono statue criselefantine avvolte in veli tenui, sollevate sopra un ponte senz’archi. In vari punti di luce il mare risplende del color mavì d’una turchina liquefatta. Si mescolano i pallori, una diffusione di luce angelica, ogni vela è un angelo che nuota. Donna Maria fluttua bianca in un mare blu profondo. È il velo ondeggiante che annulla il passato e il futuro, che solleva sull’anima un sogno vago e disteso, è il velo ondeggiante ora denso ora diafano, attraverso il quale splende l’idea intangibile della felicità.

A Roma, in una favolosa notte bianca di plenilunio e di neve, mentre aspetta Elena per un rinnovato incontro d’amore, Andrea sogna Donna Maria che incede verso di lui, fra i gigli, più candida della luna e della neve, effondendo intorno una chiara luce azzurra. <<Un’ombra, cerulea come una luce che si tinga in uno zaffiro, l’accompagna>>5.

Ma nella sua inestinguibile sete metamorfica e nella tensione verso fascinazioni contrapposte, nella frantumazione dell’unità in una molteplicità caotica che sola può giungere, in un’estrema elevazione spirituale, a tenere insieme la completezza, Andrea graffia quello spirito intangibile per smuovere la scintilla d’una creatura nuova: anche dalla donna velata sugge il mistero dell’ambiguità, come profumate lacrime d’ambra. Se in Elena l'ambiguità fascinosa s’annida nella bocca, in Donna Maria trapela dalla voce. La voce è duplice, androginica: il timbro maschile, basso e un poco velato, si rischiara con lampi di toni femminili che creano un’unità armoniosa. La cadenza soave frantuma il simbolo e s’avvolge solo di sensualità. Il timbro femminile risuscita Elena, ma quella fusione androginica racchiude finalmente l’unità vagheggiata; la forza ammaliatrice disperde ogni cosa, i simulacri, la coscienza, il senso delle parole. Implacabile, l’animo si piega al fascino misterioso, aspetta e desidera soltanto la cadenza soave. Nel flusso metamorfico che sale dal placido mare, Donna Maria diviene una sirena incantatrice. Se Elena e Andrea sono due affinità che s’incontrano e perfettamente aderiscono fra petali di rose, al contrario Donna Maria racchiude in sé stessa una duplicità che la completa. La congiunzione della molteplicità in un’unica creatura è per Andrea l’elevazione santificatrice a cui anela.

35 5 ivi, p. 298

Allo stesso tempo, Donna Maria si innamora leggendo il poema d’Andrea Favola d’Ermafrodito. <<Nessuna musica mi ha inebriata come questo poema e nessuna statua mi ha data della bellezza un’impressione più armonica. Certi versi mi perseguitano senza tregua e mi perseguiteranno per lunghissimo tempo, forse; tanto sono intensi>>6. L’intelligenza creativa di Andrea seduce Donna Maria nel vagheggiamento d’una creatura ibrida che partecipi della natura maschile e di quella femminile, che in sé stessa congiunga gli opposti in un’armonia perfetta. Ermafrodito viaggia per l’Asia Minore ammirandosi in tutti gli specchi sorgivi, così Donna Maria si riflette, si conosce e sugge la sua natura androgina dalla favola d’Andrea. Da qui comincia per lei il fascino sensuale del poeta. Incantato nel bosco di corbezzoli che rosseggia come un bosco di coralli, Andrea recupera la parola e come un fiume in piena dischiude i suoi sentimenti. L’anima di Donna Maria possiede la propria fin nel profondo, senza saperlo, come il mare beve il fiume. Ma l’amore è una parola troppo profanata: Andrea offre a Donna Maria l’umile tributo di religione che lo spirito volge a un essere più elevato. In Donna Maria, Andrea cerca la salvezza. L’eterno ondeggiamento che è il suo spirito anela al riposo nella mitezza della donna, il suo spirito irrequieto, travagliato da attrazioni e da repulsioni in continua guerra fra loro, cerca in lei un rifugio contro il dubbio, che contamina ogni idealità.

Attraverso l’artificio della parola, la santità di Donna Maria incontra l’amore terreno, lo spirito si schiude al desiderio carnale, in una fusione che abbraccia nel suo grembo ogni elemento, come nell’intimità del bosco di corbezzoli il canto delle fontane accoglie l’accompagnamento del mare, l’acqua dolce si mescola al sale. Ma se Elena e Andrea plasmano l’amore con gli artifici delle parole sussurrate, Donna Maria confida al suo giornale intimo l’incauto segreto dell’amore, nel silenzio affida la sua anima alle mani del Signore.

L’artista Stefano Di Loreto ferisce l’opalescenza di quello spirito espanso sulla tela con una sottile frustata di colore oro. Quel graffio è la colpa d’Andrea: è la parola, l’aver spezzato l’incanto del silenzio dove l’anima di Donna Maria si cullava senza paura, quei <<colloqui di silenzio, ove l’anima esala l’Ineffabile e intende il murmure dei pensieri>>7. La violenza d’Andrea è l’aver stralciato il velo dell’incertezza e denudato il proprio amore, l’aver smosso la perpetuità d’un dolore unico, l’uniformità, la monotonia, in virtù della mutabilità, dell’imprevedibilità, degli urti improvvisi, in virtù delle metamorfosi.

Da quel momento lo spirito d’Andrea contagia del suo implacabile tormento quello della donna, la purezza si tinge dei toni foschi della perdizione. Così i moti dello spirito

36 6 ivi, p. 167 7 ivi, p. 206

assumono la forma di dubbi e di interrogazioni irrisolte. Donna Maria si ribella, lotta, rivendica la sua quiete, la sua fuggevolezza liquida, il suo moto ondeggiante che riesce a sfuggire a qualsiasi stretta. Ma ormai le labbra d’Andrea seducono più delle sue parole di poesia, ormai i cipressi che un tempo sfioravano le stelle s’ergono neri e immutabili, i lunghi capelli sono spighe di dolore nel destino; ormai la luce cerulea che s’irradia dal suo grembo come dal grembo del mare e che in un baleno rischiara la tela, è in lotta con un’altra fiamma, più ardente e pericolosa: <<una cosa oscura e bruciante è in fondo a me, una cosa ch’è apparsa d’improvviso come un’infezione di morbo e che incomincia a contaminarmi il sangue e l’anima, contro ogni volontà, contro ogni rimedio: il Desiderio>>8. Qui comincia il martirio di Maria.

L’ultimo quadro del trittico di Stefano Di Loreto dedicato a Il Piacere raffigura un sogno d’Andrea Sperelli. Due intensi flussi di colore violaceo e bianco si mescolano in una vivace lotta sopra un fondo di color viola scuro. Nella fervida immaginazione d'Andrea, Elena e Donna Maria, la donna dalle passioni fulminee e la madonna pura si fondono e si distruggono a vicenda. Intanto nel grembo della lotta scocca l’implacabile ingranaggio d’un orologio. Ritornato nel suo buen retiro a Palazzo Zuccari in Trinità de’ Monti, Andrea ancora ode l’eco dell’enigmatica voce di Donna Maria, la quale, destando a tratti la voluttà d’Elena, mescola e confonde le due donne. Nella lontananza da Donna Maria, dalla forza che dominava il suo spirito in un atto di pura adorazione, di nuovo la sensualità sovrasta Andrea, l’antico morbo dell’artificio dilaga nell’eccitazione, d’un balzo risorge il Piacere senza pietà. Il congiungimento carnale con quella donna così pura gli appare ora il godimento più elevato; la sua camera da letto, carica d’arte religiosa come una cappella, ma testimone e complice delle antiche ebbrezze, è il luogo più degno di quel godimento per il fascino della profanazione. Donna Maria si congiunge con Elena, la storia sacra si mescola alla storia profana. Di nuovo Andrea precipita nello stordimento degli amori fugaci, si dissolve fra i desideri carnali. Tuttavia l’impronta della luce di Donna Maria è ormai inestinguibile: Andrea vaga inquieto fra ventagli di piume bianche e profumi di rose, ma mai malessere più forte ha tormentato il suo spirito, mai ha rivolto contro sé stesso impeti d’ira e di disgusto più crudeli. Andrea è ora un malato che non può guarire, che si rassegna a patire il proprio male, a sprofondare nella sua vertiginosa miseria mortale. Addolorato per il tradimento d’Elena, che ha sposato un altro uomo per provvedere a un dissesto finanziario, a colpi rabbiosi Andrea abbatte l’idolo della prima donna, insieme all’illusione dell’amore. Egli, che sempre ha vestito gli abiti dell’inganno e della menzogna, dall’altrui inganno si sente ora irrimediabilmente offeso e disgustato. Nell’affastellarsi dei ricordi d’amore, Andrea scopre in ogni atto d’Elena l’artificio, ma

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penetrando nell’anima di lei, al contempo penetra nella sua propria anima; incontrando la falsità insospettata di lei, incontra l’indistruttibile falsità propria. Così attraverso il tradimento della donna voluttuosa, Andrea conosce e riconosce sé stesso.

Eppure con Donna Maria era stato sincero e candido come non mai. Eppure tutto, in un soffio, è svanito. Dal contatto angelico con Donna Maria, Andrea continua la cognizione della propria anima: la sua legge è la mutabilità, il suo spirito è un fluido ondeggiante; tutto in lui si trasforma e si deforma, senza tregua; l’essere si compone di contraddizioni a cui l’unità sfugge; la volontà viene soverchiata dagli istinti, la sua coscienza è un astro senza luce propria. <<Io sono camaleontico, chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l’unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch’io mi rassegni. La mia legge è in una parola: NUNC>>9 Scoprendo nella lotta una necessità della sua esistenza, Andrea finalmente cede le armi contro sé stesso. Attraverso le esperienze sensuali e spirituali con la donna voluttuosa e la donna casta, egli assurge alla piena cognizione del suo spirito e rinuncia alla bramosia dell’unità, s’abbandona al flusso ondeggiante che sfiora divertito le molteplicità e le contraddizioni. L’astro senza luce si eclissa irrimediabilmente.

Le effigi delle due donne ora si sovrappongono, si confondono, si distruggono a vicenda, senza che Andrea possa chiarire il sentimento verso l’una e verso l’altra. Pacificato con sé stesso, egli spiega le vele ebbre dell’immaginazione: la voce ambigua di Donna Maria può essere la vera fonte del Piacere nella fusione delle due donne per conquistarne una terza immaginaria, più complessa, più perfetta, più vera perché ideale. Il lungo boa di martora con cui Elena ammaliante allaccia il collo d’Andrea si confonde con la lunga treccia vergine di Donna Maria, e già tinge i tratti della terza Amante ideale. Aderendo liberamente al suo spirito, Andrea è una creatura fluida che spezza ormai il giogo delle due donne e, carnefice senza rimorsi, comincia il doppio artificio per conquistare la nuova amante e recuperare l’antica. L’immaginazione è ormai il porto sicuro di Andrea, il sogno a occhi aperti in cui gode insieme l’esperienza della realtà e l’idealità. Nel quadro dell’artista Stefano Di Loreto l’intreccio dei flussi belligeranti di dispiega su un fondo viola scuro. Sulla tela sboccia una grande orchidea carnosa che risucchia nella sua bocca. <<Fior diabolico>>10 aveva detto Elena al primo incontro con Andrea nel Palazzo Roccagiovine, osservando da vicino il fiore sanguigno e difforme. <<Ma io preferisco le rose>>11. Un biglietto di una donna sconosciuta che Andrea identifica in Elena lo invita ad

38 9 ivi, p. 286 10 ivi, p. 46 11 ibidem

aspettarla una sera dinanzi al Palazzo Barberini dalle undici a mezzanotte. È una notte di febbraio, in cui Roma langue attonita sotto la neve ed è rischiarata da un plenilunio incantato, persa in l’aria lattiginosa. Tutte le cose sembrano esistere di un afflato di sogno. Un orologio scocca nel silenzio, con un suono chiaro e vibrante. Lì comincia nell’immaginazione di Andrea la lotta fra due desideri, lì comincia il sogno. Nell’attesa nella carrozza, Andrea immagina Elena avanzare nel candore. Ma subito risorge la figura di Maria, che s’erge vittoriosa per il proprio candore più chiaro della neve. Maria è una madonna incoronata, che avanza <<candida super nivem>>12. Andrea si perde magnificamente nella natura innevata, la maestosa purità degli elementi dintorno forma l’immagine dell’amante pura. Il Simbolo soggioga lo spirito d’Andrea, che ora, nell’estasi dell’afflato lirico, viene chiamato poeta.

Stefano Di Loreto colpisce la carnosa orchidea della sua tela con sottili frustate di colore oro. Sono le frustate al galoppo del sogno mistico a cui il poeta s’abbandona. Andrea, mentre aspetta Elena, aspetta invece Maria, come la donna eletta in quella notte ad immolare al desiderio di lui la propria bianchezza, più chiara di quella notte incantata. <<Ecco, ella viene: incedit per lilia et super nivem>>13. Il suo passo è più leggiadro della sua ombra; la luna e la neve brillano meno pallide di lei. <<Un’ombra, cerulea come una luce che si tinga in uno zaffiro, l’accompagna>>14. I gigli non s’inchinano irrigiditi dal gelo, cantano amen come nei paradisi cristiani. Maria si congiunge al poeta, ed egli per prime le bacia le mani, ciò che della donna più desidera. Sono mani che sanano le ferite e schiudono i sogni. Intorno, nel sogno d’Andrea, si dileguano le chiese e i fori imperiali sepolti sotto la neve, immersi in una diafana luce azzurra; si dileguano le fontane, scolpite in rocce di cristallo, che intorno versano non acqua ma luce. Poi il poeta bacia le labbra di Maria, che non conoscono false parole, e si scioglie la lunga chioma ch’effonde giù come un lungo flutto oscuro, dove si raccolgono le tenebre notturne rischiarate dal plenilunio e dalla neve. Intanto implacabili suonano i campanili di Roma, che scandiscono il tempo dell’attesa, che si fanno eco a vicenda come in un gioco crudele che voglia destare l’uomo e trascinarlo sulla terra, nel tempo atro della coscienza. Nel quadro di Stefano Di Loreto, sul fondo viola del sogno mistico d’Andrea le effigi delle due donne lottano, si intrecciano, si mescolano in un tumulto che è il trionfo della fluidità metamorfica d’Andrea. Nel grembo dell’intreccio nel vasto mare viola, l’ingranaggio d’orologio conta le ore e scocca. Il tempo scorre inesorabile e intanto Elena non arriva, ma il sogno del poeta in quella notte bianca è l’unica esistenza reale, viva, palpabile. Nel quadro, le sottili frustate dorate colpiscono la lotta dei flussi, arrestano l’orologio. La poesia del sogno eleva Andrea al di fuori del tempo, della coscienza, al di fuori

39 12 ivi, p. 298 13 ivi, p. 286 14 vd. nota 5

dell’inganno e della menzogna, al di fuori del desiderio terreno e vacuo, al di fuori delle contraddizioni e della invincibile lotta tormentosa. Nel sogno di una notte bianca Andrea fluttua libero al di sopra del vecchio simulacro di sé che ad arte ha creato egli stesso perché <<bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte>>15 Nel sogno d’una poesia silenziosa il poeta fluttua in un mare opalescente in cui il tempo e lo spazio affondano come arenose fondamenta di monumenti della storia. <<Nel silenzio e nella poesia cadevano di nuovo le ore degli uomini scoccate dalle torri e dai campanili di Roma>>16.

Ma l’immaginazione è un pallido sogno che s’eclissa col plenilunio. Le ostinate resistenze di Elena alla seduzione del vecchio amante incendiano ferocemente il desiderio d’Andrea. Così il mare candido di neve e di gigli si scioglie nei più fondi abissi, con esso si dilegua il bianco sogno di Maria.

Conquistata da un prodigioso artificio seduttivo, pur afflitta dal presentimento d’un’ombra del passato, Maria s’abbandona al desiderio sensuale fra le braccia del poeta appassionato. Ma preso nei lacci d’un gioco depravato, folle d’un ardore iroso, Andrea sovrappone Elena a Maria, gode dell’incarnazione della donna sfuggita nell’altra presa. Il congiungimento immaginario desta un piacere più acuto e raro di quello reale. Intanto nella stanza da letto il lume violaceo del crepuscolo lotta col lume delle candele. Nel quadro di Stefano Di Loreto un flusso sanguigno lotta e si mescola con un flusso bianco, le sensuali forme della donna voluttuosa si trasfigurano nelle linee eteree della donna pura.

Tuttavia come il sogno, l’inganno è soffice e breve come la neve di una notte romana. Di fronte l’atroce verità, Maria inorridisce e fugge via tramortita. L’evanescenza della donna spirituale avvolge nel suo grembo quella sensuale. Disperato, Andrea prorompe in singhiozzi sul letto solitario. Nella bocca si effonde un terribile sapore amaro che sale dal lento dissolvimento del suo cuore. Andrea corre nella villa di Maria per cercare una scintilla dell’antica torcia sacra. Ma sequestrata per il reato di baro, assalita per la vendita all’asta da negozianti e rigattieri, la casa di Maria è un sacrario profanato e vuoto. Andrea vaga febbrilmente fra le stanze abbandonate cercando un petalo sgualcito dell’umile giglio di mare, ma rimbomba l’eco dei suoi passi, la casa è vuota come vuota è la sua anima. Fuori, gaudiosi d’imponenza, gli obelischi e le fontane si imporporano delle tinte del tramonto, come penetrati da una fiamma impalpabile. Ma Andrea è affranto da un’orribile stanchezza, una stanchezza così vacua e disperata che quasi sembra un bisogno di morte.

40 15 ivi, p. 37 16 ivi, p. 299

La pioggia nel pineto

Nel quadro di Stefano Di Loreto dedicato a La pioggia nel pineto, una fitta pioggia di filamenti diafani cola su un fondo verde chiaro, come rivoli d’un acquazzone si frangono su una finestra malinconica. Un flusso marrone e verde scuro alla base si sfalda sotto la pioggia in ampi vortici nebulosi e lucidi a tratti, che s’effondono sopra tutta la tela. Sulle soglie del bosco, l’intimità delle parole umane all’improvviso si schiude alla voce nuova delle gocce e delle foglie. La pioggia è un sudario diafano che per un frangente sospende l’affanno o il fasto usuale delle creature: disseta le tamerici salmastre ed arse, lima i pini scagliosi ed irti; implacabile la pioggia umilia i mirti divini, impallidisce le fulgenti ginestre gremite di fiori; implacabile la pioggia stempera i ginepri aulenti. Intanto piove sopra i volti silvani, sulle mani nude, sui leggeri vestimenti. Tutte le creature chinano il capo sotto la pioggia e si congiungono nell’umiltà chiara. Il flusso metamorfico s’accende. Tutte le forme si sfaldano, si mescolano i colori dentro l'evanescenza. La pioggia dischiude un’anima nuova, che parla il linguaggio di freschi pensieri. La pioggia rivela nuovi sogni d’amore, che già illusero Ermione, oggi illudono il Poeta. La pioggia è un velo di sposa che ricongiunge Ermione ad Oreste. Il leggero tocco delle scaglie cristalline dilata i sensi e suona mille strumenti. Odi? Il ritmo e la lunghezza delle note variano secondo le foglie più rade, meno rade. Rispondono al pianto le cicale temerarie sotto il cielo cinereo. Ciascuna pianta è uno strumento vivente in un’orchestra di innumerevoli dita. La pioggia è il battesimo che immerge ogni creatura nello spirito silvestre, accoglie alla vita arborea. Le gocciole sono le scintille diafane che accendono il moto metamorfico. Il volto ebbro d’Ermione è una foglia molle di pioggia, la chioma è un giardino di ginestre dorate. Nel quadro di Stefano Di Loreto la pioggia mescola tutte le creature, entro i sussulti del suo largo ventre opalescente. Ascolta, ascolta. L’accordo delle cicale si fa più sordo sotto il pianto che cresce, ma s’unisce la voce più roca della rana da un’umida ombra di lontano. Pian piano, il canto della figlia dell’aria trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Ma la figlia del limo canta ancora nell’ombra più fonda. Cade come una spoglia il pallore della pelle, il corpo si tinge virente di pianta. Sul quadro scende il manto opalescente della pioggia che congiunge tutti i sensi delle creature in un abbraccio e schiude inaspettati nuovi afflati e linguaggi. Intanto piove sulle ciglia nere d’Ermione, così che par che pianga. Il cuore è una pèsca intatta, fra le palpebre gli occhi luccicano come polle d’acqua fra fili d’erba, i denti sbocciano di mandorle acerbe. Intanto allaccia e intrica i ginocchi l’umido verde.

Intanto sussulta il canto del Poeta al vario ritmo della pioggia, i versi si ripetono come i brevi ritornelli del mirto divino. E par che l’orchestra ricominci.

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I pastori

Nel quadro dedicato alla poesia di Gabriele d’Annunzio I pastori, una distesa verdazzurro corre su tutta la tela, ampi flussi verdi ondeggiano in curve turbinose, striati d’oro e d’azzurro. Il settembre accende il sogno della natia terra d’Abruzzo, accompagna i passi sapienti dei pastori dagli stazzi verso il mare.

I pastori si sono inchinati a bere l’acqua delle fonti alpestri, come acqua battesimale, che consoli negli affanni della migrazione, che unga i cuori sciolti ai mutevoli cieli, purifichi l’alito dei paterni monti per l’abbraccio del manto misericordioso del mare.

I pastori sono gli antichi sacerdoti che nei loro esuli passi custodiscono la fiamma sacra della natura, che scioglie e fonde insieme nella segreta trasfigurazione tutti i suoi volti, in una metamorfosi incessante d’una creatura nell’altra; così la pelle secca dei pastori come terra spezzata s’inumidisce e si ricompatta al vento del mare.

L’artista Stefano Di Loreto colpisce la tela con sottili striature dorate: sono i bastoni intarsiati dei pastori che stralciano il velo che asconde e separa le molteplici forme della natura. In un turbinio di linee e di colori, il viaggio dei pastori congiunge lentamente ogni creatura con l’altra: il cielo s’abbandona alla terra ancora arsa, i monti s’abbracciano al mare Adriatico, verde come i pascoli alle spalle; le vette s’ergono e precipitano in mezzo ai flutti acquatici, in una fusione panica dei pastori con tutte le creature che mano a mano s’uniscono al viaggio.

Nel quadro ondeggia un possente flusso verde, azzurro, giallo: è il tratturo antico, che scorre come un silenzioso fiume d’erba. Congiunge i passi sicuri dei pastori alle vestigia degli antichi padri, avvinghia l’incertezza del presente alla santità della storia, abbraccia il poeta nostalgico ai suoi pastori. Nella voce risuscita il tremolio del mare che ha scintillato negli occhi del primo pastore, come un infinito manto di genziane dorate. Dopo lo sforzo dell’epifania miracolosa, ora il gregge cammina placido lungo il litorale, l’aria langue senza mutamento, lambita appena da dolci rumori. Il sole imbionda la lana che si fonde con la sabbia. Striature gialle s’inseguono lungo i flussi sulla tela. Ah perché non sono io coi miei pastori?

Francavilla al Mare: luglio 2022 caterinadiloreto@gmail.com

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I pastori – omaggio a Gabriele D’Annunzio 2022, acrilico su tela, 100x100x4,5 cm

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FLUSSI DELLA COSCIENZA

È una sezione con cui l’artista intende orientare la riflessione dell’uomo sulla propria coscienza, quella parte di sé che è continuamente in tu multo, sollecitata da un marasma di stimoli esterni, chiamata a scegliere senza tregua fra posizioni diverse, fra fazioni in lotta, fra il bene e il male, fra la guerra e la pace, fra l’accoglienza e l’espulsione, fra l’onestà e la corruzione; quella parte di sé che costringe a conoscersi a fondo, ad ascoltare le proprie pulsioni, e che ac compagna l’uomo nei meandri più remoti della propria interiorità. La coscienza è lo specchio che ci insegue senza sosta, e riflette e ci porge inevitabilmente la parte più profonda di noi stessi. La coscienza si ribella e grida, a volte viaggia placida su strade dritte verso i propri de sideri più veri, altre volte si perde confusa fra le false volontà altrui; ma sempre fluttua, veloce e inarrestabile, verso una sempre più profonda conoscenza di sé.

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Trionfo della morte – omaggio a Gabriele D’Annunzio 2022, affresco su tela, acrilico, pigmenti, 100x150x4,5 cm
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Sulla tela bianca s’intrecciano flussi di varie tonalità di blu che rappresentano la co scienza dell’uomo.

La coscienza fluttua sulla tela, ma allo stesso tempo è pesante, legata dalle catene della società, che la dirigono in un’unica direzione, dentro un unico spazio, un unico tempo, verso un orizzonte uguale per tutti.

L’artista colpisce la coscienza con delle “frustate” di colore bianco, per sollecitarla a liberarsi dai vincoli di ciò che conosce e recuperare una purezza primitiva, creatrice, che allarghi le sue dimensioni e la sua capacità di movimento, di sguardo e d’imma ginazione.

L’oltre on­off (in posizione on, ambiente oscurato) 2022, acrilico su tela, 90x90x5,5 cm, on­off tramite telecomando
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Ecco allora che l’opera si illumina e appare il processo di liberazione che è in atto nella coscienza, attraverso la decostruzione di categorie che imprigionano l’uomo, cioè il tempo e lo spazio: degli orologi si disgregano e attraversano lo spazio della tela, a si gnificare che il tempo si libera dagli ingranaggi ed esplode in uno spazio non più fisico ma astratto.

L’uomo, oltrepassando i limiti di ciò che conosce, può aprirsi a dimensioni ignote, creatrici, in un’esplorazione continua di “oltre” e di “altrove”.

L’oltre on­off (in posizione off) 2022, acrilico su tela, 90x90x5,5 cm, on­off tramite telecomando

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Flussi della coscienza 10 2021, acrilico su tela, 100x150x3,5 cm

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Flussi della coscienza 04 2021, acrilico su tela, 150x100x3,5 cm

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TEMPO DELL’ANIMA

Nell’attuale società l’uomo rincorre di continuo il tempo: le comunicazioni sono sempre più ve loci, il lavoro stressante, gli obiettivi sempre più alti. Una vita frenetica alla ricerca di valori effi meri. Il tempo meccanico. L’artista vuole che l’uomo si fermi: riscopra il suo tempo naturale e rifletta su ciò che è vera mente importante per raggiungere la felicità. Il tempo dell’anima.

54 Archè 2016, acrilico, resina, oggetti su tela, 100x70x2,5 cm

Tempo 15 on­off (in posizione on) 2018, cera, oggetti su tela, 120x80x3 cm

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Pink Floyd Tribute on­off (in posizione on, ambiente oscurato) 2018, cera, tubo led, oggetti su tela, 100x70x5 cm
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Pink Floyd Tribute on­off (in posizione on) 2018, cera, tubo led, oggetti su tela, 100x70x5 cm
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58 Tempo 16 2019, acrilico, oggetti su tela, 150x100x3,5 cm

VELENO

Assistiamo nell’attuale società ad un crescente abuso di farmaci, droghe e fumo. L’inquina mento dell’aria, delle acque e della terra sta di ventando sempre più devastante. L’artista vuole che l’uomo rifletta su questa contaminazione generale per recuperare uno stile di vita più sa lubre e una maggiore sensibilità per salvaguar dare la nostra e le future generazioni.

Toxicair 12 on­off (in posizione on, ambiente oscurato) 2021, plexiglas, acciaio inossidabile, led (scultura autoportante), 49x32x16 cm
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61 Toxicair 12 on­off (in posizione on) 2021, plexiglas, acciaio inossidabile, led (scultura autoportante), 49x32x16 cm
Toxicair 04 on­off (in posizione on, ambiente oscurato) 2020, plexiglas, acciaio inossidabile, led (scultura autoportante), 49x32x16 cm
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Toxicair 08 on­off (in posizione on, ambiente oscurato) 2020, plexiglas, acciaio inossidabile, led (scultura autoportante), 49x32x16 cm
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Ineffective
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antibiotics 2020, acrilico, oggetti su tela, 150x100 cm

Toxicair DNA plexiglas (scultura autoportante),

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2019,
30x18x5 cm
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67 Digital pollution 01 2022, acrilico e resina su tela, 100x150x3,5 cm
Smoke 2018, acrilico, ceralacca, oggetti su tela, 63x39x5 cm
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01

GLOBALIZZAZIONE

La globalizzazione ci pone di fronte ad un pen siero sempre più uniformato, gusti alimentari omogenei, un’economia accentrata. Si perdono le diversità, si accentuano le disparità. L’artista vuole che l’uomo recuperi la forza del pensiero critico, l’originalità creativa, la bontà dei sapori, la bellezza delle diversità.

Ecce
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Homo 2016, acrilico, oggetti su tela, 160x110x2.5 cm
Gusto uniforme 04 2015, acrilico, oggetti su tela, 100x70x2 cm
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Ricerca
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mater OGM 05 2015, acrilico, oggetti su tela, 80x60x2.5 cm
73 Wall Street 03 2016, acrilico, oggetti su tela, 100x70x2.5 cm
Tecno iPhone 03 ­ omaggio a Steve Jobs acrilico, oggetti su tela, 100x70x2 cm
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2017,

COVID SPEZZATO

La pandemia da Covid­19 ha ridotto notevol mente la libertà dell’uomo, con drammatiche ripercussioni sui rapporti sociali, economici, psi cologici. La scienza indica l’uso dei vaccini come la soluzione più efficace per sconfiggere il virus e mettere in sicurezza la popolazione, specie quella più fragile e con patologie. In situazioni così difficili della nostra società globale, la scienza deve essere l’unico faro di riferimento per riprenderci quanto prima la nostra vita! Le opere di questa sezione rappresentano un “segno” per le future generazioni affinchè non dimentichino questa lacerata contemporaneità.

Covid
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11 2021, acrilico, resina su tela, 80x60x2.5 cm
77 Covid 02 2021, acrilico, resina su tela, 100x70x3.5 cm
Covid
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09 2021, acrilico, resina su tela, 50x40x3.5 cm
79 Covid 06 2021, acrilico, resina su tela, 100x70x3.5 cm
www.diloreto.art

STEFANO DI LORETO

È un pittore e scultore italiano, con sede a Francavilla al Mare e a Roma. Le sue opere sono state esposte in prestigiosi eventi d’arte a Venezia (La Biennale di Venezia, 2017), Milano, Roma, Firenze, Napoli, Pescara, così come all’estero a New York, Miami, Dubai, Parigi, Liver pool, Amsterdam.

STILE ARTISTICO

Ha inventato un suo stile unico e riconoscibile che ha chiamato “Decostruzione Concettuale” Con frustate di colore rompe e scompone oggetti simbolici, per decostruire i concetti su cui vuole destare criticità e riflessione. Da qui nasce la sua Decostruzione concettuale. L’orologio simbolo del tempo meccanico, dello stress, diventa solo un ammasso di ingranaggi non fun zionanti che restituiscono il tempo dell’anima, della natura. Distrugge metaforicamente le nanoparticelle tossiche dell’aria per mostrare all’uomo fin dove si è spinto a inquinare il pia neta.

STORYTELLING

Fra le mani mi rigiro una foto dei miei vent’anni, sudata come l’asso nella manica di un gio catore. 1974. Il tempo, col sole, filtra e sguazza anche lì dentro, sguazza su di me, scorpione intrappolato in quella goccia d’ambra. I blue jeans finalmente stinti, felpa Adidas color ara gosta, e baffoni da vecchio al profumo di Mediterraneo. Ma poco più su, due grandi occhi castani brillano al sole e giocano fra di loro e brindano alla vita come due traboccanti sangui gni bicchieri di vino. Oltre gli occhi, il segreto della polvere pirica che striscia e scoppietta per le viuzze della mia mente, fino a esplodere in una festa di maggio; come me la passo fra una ragazzata e l’altra, ma soprattutto fra una fatica e l’altra; quanti sogni aspetto schiudersi al caldo e di quanti me ne resta, intrappolata lì fra le ciglia, solo l’ombra.

Due spalle larghe e possenti, da sognatore controvento. Appena dietro le spalle, cinque lunghi anni di matematica, bilanci, e di sveglia alle cinque e mezza: il freddo della montagna affila le sue lame sulla mia pelle in quel veloce cammino sulla brina fino al treno diretto alla scuola. Lo sferraglio d’acciaio lungo i binari e il saliscendi di compagni persi in quei viaggi sonnambuli. Ma se socchiudo gli occhi e punto bene le orecchie come un cane, posso ancora sentire pul sare sul fondo del cuore la musica di quel che lascio ogni giorno salendo su quel treno sba gliato. Cammino lento verso la scuola, seguendo la processione delle novantanove cannelle che spruzzano acqua e sgranano la mia adolescenza come un rosario. Intanto il sole scalda l’aria.

Stefano, il nome di mio padre. Sono nato in un piccolo paese sui monti aquilani, Acciano. Tutta pietra, asini, odore di pecore, vino e pane caldo. La scia di una stella accoccolata ai piedi del monte Sirente, nella vallata imbevuta di sole. Il sacro padre di roccia si staglia verso il cielo, un profilo frastagliato di labbra morse dal freddo; sfila le sue vette laconiche, sovrasta la vallata, la sorveglia come la sua grande culla. Da lì sopra infonde nello sguardo e nelle vi

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scere dei suoi figli una linfa rude e forte. Nelle notti solitarie maledirai quella barriera di ghiac cio che ti separa dal mondo, e il freddo che arranca e ti solletica i piedi; il campanile frusta sulla pelle un tempo lento, fermo. E amerai il sole che non si stanca mai; il cielo terso, esatto – è un campo di genziane di notte, quando il buio pesto inghiotte la montagna e il cielo si ac cende, diventa terra azzurra, lunare, e si fa più chiaro quando tocca la pietra. Amerai, e mi surerai i tuoi passi sulla paura delle serpi e dei lupi. Le viti intrecciate ti nasconderanno il cielo. Conoscerai le querce, i faggi, le betulle dalle cortecce prima che dalle foglie; i vicoli in vece dall’odore di mosto, e di legna bruciata ad ottobre. Ma meglio conoscerai i sentieri battuti attraverso i boschi su per le montagne: al tuo passo incerto la terra pulserà col tuo cuore; gonfierai i polmoni, e sentirai la terra salire e vibrare per tutto il corpo insieme al tuo respiro. Le tracce più nascoste si apriranno come pepite sotto gli occhi di cercatori d’oro: con le narici in fremito e le orecchie affilate di un segugio, tu insegui quei sentieri! – scivolano ai tuoi piedi come veli di spose in fuga. Geloso del segreto, sarai spirito fedele del bosco e di quei compagni sconosciuti che prima di te l’hanno attra versato.

Assettato aspetterai le bacche di sambuco e di ginepro, le ciliegie, e il mallo di noce nei solstizi d’estate. Il vento secco, quello buono. Con le guance dure, rosse di neve e vino, senza paura potrai urlare contro al tuo padre di roccia tutti i tuoi desideri, le attese; vomitare giù dalle sue vette tutte le delusioni, tutto il dolore, tutta la rabbia. Vomitare i sogni senza sosta. In un giorno fortunato li vedrai scintillare come perle di sudore sul dorso delle sue aquile, alla prima luce del mattino; quei rapaci… ­ li invidierai, ma con gli occhi ubriachi di meraviglia piangerai per loro.

Il sacro immortale padre di roccia riecheggia ora i miei primi vagiti. La tenera fragilità del padre uomo li immerge già nel dolore. E strillano le aquile, e strilla la vita.

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A pochi anni la mia prima esaltante scoperta: gli smaltini da ritocco dell’emporio di mio nonno. Quei colori densi, pulsanti, ridenti, sono una festa che spazza via i giochi di fango e sassi. L’ispido pelo di lupo che tinge del suo stesso colore le rocce e i tronchi e i volti umani, quei ciuffi verdi infiacchiti dalla brina, l’azzurro gelido del cielo che gocciola fin nel midollo, per magia ora si svegliano di colpo. E si accende il rosso, più intenso del sangue delle mie gi nocchia sbucciate; il blu, più forte degli aghi che germogliano dal fuoco in un agguato alle mie mani gelate di neve; il giallo, caldo e magnifico come lo stupore che scalcia ora dentro ai miei occhi. Quegli astratti burattini palpitanti fremono nelle mie mani: posso giocarci, spal marli, lanciarli, colarli, strozzarli, e crearci la vita a piacere. E suonano persino, spezzano i si lenzi come rami secchi, scalpitano furiosi al galoppo in beffa ai lievi fruscii della natura, strappano a morsi il tempo e, a colpi di pennelli come spade, lo spogliano della sua immobi lità. Suonano più dolci dei canti e delle bestemmie di quei vecchi lupi d’Abruzzo.

Subito ne balza fuori un Topolino gigante, che sorride sul paracamino. Avevo dato vita al topo di quei fumetti che leggevo instancabile in cucina in mezzo al borbottio del sugo di carne. Il mio Topolino, smagliante fra pinza e paletta, mi racconta di incredibili avventure, mi prende nel suo caldo guantone e, a bordo della scopetta incenerita, mi porta lontano, lontano dalle rocce di un solo colore, lontano dalla perla nera che scintilla negli occhi di mia madre alla nostalgia del suo uomo, lontano dalle urla dei maiali giù per le strade a dicembre, dagli sciami di fazzoletti scuri fuori la chiesa, dai vecchi in piazza che, coppola sulla testa, si ancorano alla vita col tresette, la briscola e il dopobarba alla menta. Alla scuola media, il primo riconosci mento pubblico, poi un secondo. Un vento caldo, di terra arsa, il vento solitario delle tre nei pomeriggi d’estate, quando le donne e i vecchi, incupiti, sono rintanati nelle case, le cucine già rassettate, e solo la ginestra fruscia di tanto in tanto, solo il vento è il padrone della terra: mi avvinghia alle caviglie e, giocando alla carriola, mi spinge fuori da quella traballante tavo lozza che è il mio spirito in fremito. Il mio disegno di uno zoo viene lodato a gran voce dal professore e ricevuto di aula in aula per tutto l’istituto. I ragazzi sgranano gli occhi cisposi alla vista di quello strano posto, dove non ci sono pecore e asini a brucare pigramente l’erba e a scalciare, ma mostri enormi e a strisce con grosse zanne chiusi in gabbie di ferro. Lo avevo visto in uno dei numeri di Selezione, la rivista americana di attualità a cui mio nonno era ab bonato. Con un balzo le mie mirabili creature finiscono subito a popolare le più oscure fan tasticherie.

Poi è stata la volta della fontana medievale che padroneggia nella piazza vicino la scuola, a Fontecchio. Grandi maschere con gli occhi strabici e due baffi lunghi fin sotto il mento: fu mano serafiche un grosso sigaro come quelli che si rigirano fra i denti certi signori, o forse la canna di un fucile da caccia; da lì sputano acqua nella vasca. Sopra la testa una danza di scudi, aquile furibonde e fiori sorregge un grande cappello a punta; volteggiano ridenti finestrelle. Le giuste proporzioni e la preziosità dei dettagli acclamano un nuovo successo: il mio disegno della fontana medievale guizza di mano in mano per tutta la scuola. Il focolaio di un nuovo sentimento si accende e, spalle aperte, mi fa un po’ più uomo al cospetto del sacro monte Sirente.

Guardo Nino che vola sul campanile e i tetti storti. Lui che si nutre di pane e di lumache, e ha le ossa leggere. Dipinge con le mani, le pietre, la terra, pennelli secchi, la barba talvolta, che brilla di grano solina alla luna. Vola coi suoi colori e l’allegria, gli occhi gialli pieni di genziana.

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Vola sulla vita, e con le mani ruvide la impasta dei colori che più ama. Nino fluttua alto sulle nostre teste, dolce e immenso, fluttua con la nostalgia di un dubott in una festa in piazza, che da Parigi l’ha riportato stracciato e felice al paese di pietre.

Ma per mia madre, che sola gestisce un negozio di alimentari, e mio nonno, ancora dritto sul suo bastone, Nino è un’ombra avvinazzata che si trascina verso di me. L’untore barcolla, ride sotto il suo lungo becco a uncino e il cappello di feltro nero a falda larga. Una sferzante pioggia di imprecazioni mi cade addosso: se non voglio finire in miseria devo abbandonare ogni velleità d’arte e studiare come si fa di conto per trovarmi un lavoro serio. Nella pancia scalciano i sogni.

Le spalle si allargano, sono ora quelle di un giovane uomo cresciuto in fretta, troppo in fretta, fra studio cieco e pesanti lavori per il negozio e per racimolare qualcosa di tanto in tanto, per fingere di essere un figlio con le braccia grandi di padre. Eppure in quella gabbia di zoo appena sotto le spalle pulsa un animale, guaisce, scalcia, pulsa di passione, rabbia, pulsa dell’ardore che dalla rabbia viene. Continuo a disegnare e a dipingere negli schizzi di tempo. Il monte Si rente è immobile, silenzioso al di sopra di quel mare agitato di cicale; ma mi tortura col suo senso della vita, della morte, schiacciato lì sotto un crepuscolo viola; ma se allargo le braccia in croce ai suoi piedi, allora mi estendo tutt’intorno, mi frantumo in uno sciame di api ebbre ad agosto, posso abbracciarlo tutto intero, cadere e perdermi dentro il mantello di quell’aquila enorme, io tutto sono la valle, e il cielo liquido che mi bagna i piedi, e fa venir sete. Nello sto maco le vertigini di quell’infinito. La bellezza impietosa trafigge gli occhi.

Qualche cinghiale grufola nella terra alle mie spalle. Non c’è bisogno di aver paura. È quasi sabato. Mia nonna avvolge le lunghe trecce in un mazzolino di rose sulla nuca, e canta di campagnole innamorate; le guance ancora fiorite dei pupi, ma gli occhi dietro la nebbia non luccicano più. Canta, e con le mani tremule, conserte, piange la sua dolcezza. A mente conta i giorni fino a Santa Petronilla. Nel camino le patate cuociono lente sotto al coppo. Il rosma rino solletica l’aria. Io invece batto i piedi e faccio a pugni col tempo, muoio sotto l’attesa e il desiderio. Quella luna flaccida. Ho gettato al fuoco la mia chitarra per salvarmi la pelle. È quasi sabato: aspetto la hit di musica alla radio e il nuovo disco dei Rolling Stones. Intanto nel bar sorseggio batida de coco, e gioco un po’ con le donne brasiliane su quel fondo di latte, e penso che i loro uomini mai conosceranno il sapore di terra aspra che rantola giù nella gola da un bicchierino di genziana.

Al volo risalgo sul treno: gli anni dell’università stavolta mi portano a Roma. L’arte incendia le chiese, batte nelle strade, un brulichio di strade mostruose in cui mi aggiro ammaliato e per duto. Esplode nelle particelle dell’aria. Fremo sotto a quel fiammifero che si accende sulla mia pelle. A Roma incontro Schifano e Arman: una rabbia tempestosa di colori scende giù sfilacciata come sangue; montagne di violini, di scarpe, chiavi, cucchiai mi cadono addosso. Sono mani ruvide che mi schiaffeggiano, mi raschiano i visceri, e mi insegnano un po’ di me stesso; e che c’è un altro modo di parlare, un altro modo di pensare, di guardare, un altro modo per urlare. La rivoluzione che mi pulsa nelle vene.

Quando torno al paese, qualche sera li rincontro, che brillano e mi sorridono dal grande carro che sfreccia nelle notti limpide e ferme sul Sirente. Dalla finestra vicino il mio letto li saluto

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con gli occhi annacquati di malinconia, sventolando i miei dipinti astratti; vorrei saltare su con loro, liberarmi della mia gabbia con un balzo feroce, mordere la vita e volare sulle aquile che sfiorano le vette rocciose, brandendo i pennelli e i colori come le mie spade.

Invece, saluto per sempre i miei monti, che in quella valle di sole mi volteggiano tutt’intorno come sentinelle, e mi guardano allontanarmi, il figlio maledetto e inquieto che si avventura lontano da casa verso l’ignoto regno marino. Umida, salmastra, festosa in mezzo al brulichio di cani al guinzaglio, approdi e partenze, negozi che si montano e smontano come in un cam peggio, Pescara mi accoglie, buon porto di mare, e il lavoro mi realizza finalmente come pro fessionista. Qualche nostalgico paesaggio imbevuto di sole ogni tanto, l’erba alta dorata di spighe al vento, un castello diroccato. Una striscia di mare taglia l’orizzonte come una lama rovente. Niente più tracce di Schifano, niente più Arman. Le mie mani si ribellano a me stesso, in un ammutinamento insidioso in combutta col cuore.

E poi il dolore. Quello più forte, quello muto, quello più duro e freddo di tutte le pietre che ho conosciuto. Ora le aquile sui monti non strillano neanche più. Il sacro immortale padre di roccia è inghiottito sotto un pesante sudario di nebbia, solo un vecchio decrepito malato di artrite. Ora l’animale nella gabbia non si muove neanche più, neanche più tenta di puntare il muso scarno contro le sbarre. Le palpebre cadono giù atterrite verso il precipizio dello sguardo, ora che lo sguardo e la linfa e il cuore sono roccia. Il tempo. Il tempo si riveste di colpo della sua immobilità. Adesso la scopro calda, e buona. Adesso che non sono più un bimbo che scalcia impaziente seduto sulle scalette di pietra fuori casa, crucciato davanti ai monti, avido di vita. Adesso che soffoco sotto il dolore più nero e l’impietosa frenesia. Eppure l’orologio batte, batte più veloce di prima, batte più veloce del cuore dell’uomo e dell’aquila; mi agguanta alla gola, mi tira per i capelli, mi trascina violento, ma io non mi muovo. Fermatelo! Fermatevi!! Afferro i colori, guardo fisso il tempo davanti a me, ipnotico, vorticoso come un mulino a vento che divora la vita; brandisco la mia arma ro vente, io tutto sono una pietra focaia, miro al cuore del tempo chiuso in gabbia e sparo. L’oro logio si ferma, e io comincio a muovermi. L’orologio si frantuma in mille pezzi, e il tempo comincia a muoversi. L’animale è balzato feroce fuori dal cuore. Il Sirente sfreccia con le sue guglie argentate verso il cielo. E io, colori alle mani, io adesso sono l’aquila che strilla.

(tratto dal sito web dell’artista www.diloreto.art)

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Studio Byblos Publishing House

studiobyblos@gmail.com ‐ www.studiobyblos.com Palermo ‐ Agosto 2022

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