Naomi Peirano
Diversi Romanzo
Studio Byblos ANTEPRIMA
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Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
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PREFAZIONE
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oglio usare questo spazio per raccontarmi e ringraziare le persone che mi sono state vicine in questo percorso. Non sono una scrittrice, non avrei mai pensato di poterlo diventare, un giorno o l’altro, o di pubblicare qualcosa. Tutto è iniziato come un gioco, ed è diventato emozione pura, che ha iniziato a fluire senza sosta.
Voglio partire da quella che per me è il punto fondamentale, nella vita e nella scrittura: io credo nell’amore vero, quell’Amore che ti toglie il respiro, che ti dà tante emozioni, da non saperle spiegare, da non capire se siano gioia o sofferenza. L’Amore in grado di far prendere decisioni che non si sarebbero immaginate, di fare rinunce, purché l’altra persona stia bene e sia felice. Mi piace credere che per ognuno di noi ci sia, questo Amore, sulla Terra. Nella mia vita ho avuto l’onore di vedere alcune di queste coppie del persempre. Penso si abbia una sola possibilità, nell’arco di una vita e che, quando si presenta, dobbiamo riuscire a riconoscerla, non importa come potrà finire.
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Il mio secondo valore fondamentale è l’Amicizia: ho riscoperto dopo tanto tempo quanto possa far bene al cuore e, soprattutto, quanto possa nascere nei luoghi e situazioni PIÙ improbabili. Per questo devo ringraziare alcune persone, quelle che hanno ispirato questo libro, perché solo dopo averle conosciute ho ricominciato a scrivere: Emanuela e Romina, ragazze conosciute su Facebook, che mi hanno incoraggiata con tanto entusiasmo, da darmi un’energia senza eguali! Loro, mi hanno spronata a credere nelle mie possibilità e nell’emozione che traboccava dalle mie parole, mi hanno spinta a trasformare quello che era un gioco, in un vero e proprio libro. Quindi, grazie Romina, grazie Emanuela, siete preziose! E in ultimo, ma non per importanza, ringrazio la mia famiglia, e in special modo mia madre. La mia famiglia è il mio sostegno da sempre, mia madre è “Madre, Amica e Confidente”. Mi ha sempre incoraggiata a scrivere, anche con il mio stile un po’ maccheronico, perché quando scrivi di emozioni, devi lasciare che le emozioni parlino attraverso di te e arrivino al cuore di chi ti ascolta o ti legge. Lei mi ha insegnato che “l‘Amore può tutto”, anche nei momenti più bui; per questo penso che a lei, prima di chiunque, debba andare il mio abbraccio PIÙ grande. E ora... buona lettura. Vi porto nella vita di Amira, nei frammenti dei ricordi dell’amore impossibile con Khan. Possiate, attraverso i suoi occhi, vedere la vostra storia d’amore più importante. 6
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PREMESSA
PREMESSA Ero stata davanti a paparazzi molte volte, ma uno studio televisivo era abbastanza nuovo per me, illuminato di una luce aurea, led accesi ovunque e chiacchiericcio dietro le quinte e nella sala. Ormai ero abituata ai flash e al rumore degli scatti delle macchine fotografiche, ai giornalisti che lo inseguivano e alle fan che urlavano il suo nome, ma, ogni volta, per me era un’emozione nuova, adrenalina che saliva nelle vene e che rendeva sempre piÚ vivo il sogno che avevamo costruito. Eravamo in una settembrina umida Milano, negli studi di Cologno Monzese. La musica aveva un volume altissimo, il pubblico urlante che chiamava a gran voce la presentatrice per avere un autografo e poi chiedeva un autografo a Lui, sembravano matte, tornavano composte solo quando inquadrate dalle telecamere, tutte tirate a lucido e splendenti sorridevano per apparire meravigliose. Le luci sembravano rendere tutto perfetto, erano auree rendevano l'atmosfera quasi paradisiaca, avvolgevano lo studio in una nebbia bianca. Non era il mio mondo, ne ero consapevole, non lo era dopo due anni e questo mi faceva sorridere. Ne avevamo passate tante, eravamo i Bonnie e Clyde dei paparazzi.
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Io ero nel mio camerino, con me Mihriban e Isah che badavano al bambino. Mi scrutavo nello specchio: facevo ancora fatica ad accettarmi, vestita elegante, magari anche con qualche capo d’alta moda. Ero la piaga della povera Isah, la stylist di Khan. Portavo i miei lunghi capelli nella solita treccia di lato e cercavo di fare in modo che il make-up fosse sempre più leggero possibile, ma ammetto che con gli abiti che sceglieva per me, sapeva lasciarmi di stucco. La gravidanza mi aveva lasciato una certa morbidezza, ma il mio fisico era quello di una giovane donna che amava fare sport e, con i suoi outfit, Isah riusciva a valorizzarmi in una maniera incredibile. Mihriban mi si avvicinò, apparendo alle mie spalle, dal riflesso dello specchio. “Chi guardi?” chiese, e io le risposi sorridendo. “Qualcuno che a volte non riconosco, Abla (sorella)” Continuai, per alcuni secondi, a guardare quegli occhi verdi studiarmi dallo specchio. “Avanti Abla, andrà tutto bene” mi rassicurò Mihriban, spronandomi ad alzarmi dalla seggiola. “Tu vai, pensiamo noi a lui” disse, indicando con la testa Isah con il piccolo. Un attimo ancora, ed ecco che il tecnico mi avvisò del mio ingresso in scena. Ebbi giusto il tempo di sbirciare il monitor e vedere una mia gigantografia con la divisa da chef e il mio nome a caratteri cubitali sul grande schermo. Nello studio mi sembrò di entrare in un altro mondo: gli applausi erano fastidiosi e adrenalinici al tempo stesso, i fari erano così abbaglianti, che per un secondo feci fatica a distinguere quello che avevo intorno; poi lo vidi. Seduto come un dio tra i suoi simili, si alzò e mi si avvicinò, come per salvarmi. Pur abituata alla sua bellezza, ne rimanevo ancora abbagliata: più alto di me di una trentina di centimetri, spalle larghe, un fisico scolpito da ore e ore di allenamento e vita sana, i capelli di nuovo lunghi, portati alla vichinga, quello stile che piaceva 8
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e non piaceva a Isah, perché non sapeva mai come modificare il suo look. Una bella barba curata, lunga al punto giusto, occhi neri, nei quali adoravo immergermi e nei quali era pericoloso perdersi, quando lui aveva voglia di giocare. Sorrideva mentre mi veniva incontro: aveva quel sorriso beffardo, da mascalzone, che amavo disperatamente. Mi stava gettando un’ancora e sapeva di essere lui il sostegno del quale avevo bisogno per reggermi in piedi. «Non aver paura» mi sussurrò in turco all’orecchio, mentre il pubblico ancora applaudiva il mio arrivo. «Harika (meravigliosa)» disse poi, prima di baciarmi il collo proprio sotto l’orecchio. Ebbi appena il tempo di sorridergli, stringergli la mano, intrecciando le dita alle sue, che la presentatrice mi si rivolse gentilmente mentre sedevo sul divanetto bianco. Era ora di raccontare, ora di svelare il segreto della nostra storia. Ora di rivelare la storia di queste due anime tanto diverse, eppure destinate a stare insieme.
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FRAMMENTO I “Com’è iniziata la vostra storia?” era una domanda normale quella che mi aveva rivolto Giorgia e posta con il più curioso e gentile dei toni, eppure mi sembrava la più complicata di tutte. Come spiegare come una favola era diventata realtà? Dopo tanto tempo… non sapevo da dove iniziare. “Credete nelle favole?” mi rivolsi al pubblico sorridendo, poi cercai negli occhi di Khan le immagini di tutto quello che dovevo raccontare e sorridemmo entrambi. “È iniziata come una fiaba … ed è stata la più bella di tutte”.
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veva qualcosa di particolare: la gente era calamitata dalla sua energia, dalla sua bellezza, dal suo sorriso. Io.beh, io lo guardavo da lontano. Non che anch’io non fossi attratta da lui, ma mi sembrava di invadere un mondo così perfetto e fragile al tempo stesso, che preferivo tenermi in disparte, ammirarlo un po’ come si fa con un’opera d’arte. Osservavo i suoi occhi: gli occhi di qualcuno che nemmeno riconosce quanto successo stia avendo, gli occhi di chi non è cosciente di cosa rappresenti per gli altri, gli occhi di chi gioca con sé stesso e con lo charme che possiede, ma con l’innocenza di un ragazzino. Eppure mi sembrava stanco; ormai avevo imparato a conoscerlo: il sor-
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riso non mancava mai dalle sue labbra, ma i suoi occhi “parlavano” di tutt’altro. Tutti lo chiamavano... ovunque urlavano il suo nome. Io lo osservavo e avrei voluto portarlo via da lì. Veniva al Tuscany ogni sera... e tutte nel locale lo adoravano, compresa me. Si percepiva a distanza il suo arrivo imminente, perché le ragazze correvano in bagno a sistemarsi il make-up, magari leggermente rovinato a causa del caldo, e noi cameriere, invece, facevamo la lotta a chi doveva servire la “sala dei vip”. Da quando lo frequentava lui, il locale era diventato la meta più ambita della movida di Istanbul; con il senno di poi, probabilmente potrei dire di avere frequentato posti migliori, ma il Tuscany aveva la capacità di farti sentire a casa e rimaneva nel mio cuore il migliore del mondo: potevi divertirti e sentirti a tuo agio, come se fossi tu stesso ad organizzare il tuo evento. Non era enorme, ma poteva accogliere con tranquillità un centinaio di persone; musica tutte le sere, il più ambito ristorante della zona, i migliori barman, provenienti da tutto il mondo. Sale vip dedicate, ballerine per le serate a tema e camerieri di altissimo livello. Avevo fatto esperienza come barman per molto tempo; per questo ero finita a lavorare lì: ero esperta di cocktail e mi piaceva sperimentare; fui assunta un anno prima, anche se il motivo per il quale entrai al Tuscany non fu esattamente il lavoro. Poco tempo prima di approdare ad Istanbul, in uno dei miei viaggi conobbi Yousuf, uno dei titolari; fu alchimia immediata; lui era più vecchio di me, alto, dagli occhi verdi, brizzolato e col fisico di chi ama tenersi in forma, ma senza esagerare; ci comprendevamo senza dover parlare, ci capivamo perfettamente… in ogni senso. Era stata una storia importante, che non rinnegherò mai; lui mi convinse a trasferirmi, offrendomi un lavoro, ed io ne fui felice. (“Quindi eri fidanzata quando hai conosciuto Khan?” rise sorniona Giorgia, guardandomi negli occhi. “Hayır (no)” negai con le mani ridendo; Khan mi osservò e sapevo che in quello sguardo c’era ancora un po’ di quella gelosia di un tempo, faceva il finto arrabbiato 12
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per quello che avevo detto “Quando conobbi Khan, uscivo dalla storia con Yousuf in realtà, ma da poco tempo, tra noi era rimasta una bella ed affezionata amicizia o forse un sentimento” sorrisi appena e presi la mano di Khan “La storia con Yousuf non finì perchè non c’era sentimento, ma perchè non potevamo stare assieme, semplicemente quello” alzai appena le spalle “Io lo accettai con il tempo, con la rabbia forse e con il silenzio” inclinai appena il capo “Ma lui rimase profondamente segnato dalla cosa e tra noi rimase una sorta di relazione affettuosa, fuori dalla storia d’amore, ma nemmeno una sola amicizia”. Al Tuscany, Yousuf fece emergere il meglio di quello che sapevo fare, tanto che uno dei cocktail per le serate di festa, prese il nostro nome: lo “Youmir” era il nostro cocktail, segno della nostra storia prima e della nostra amicizia poi… per questo motivo, se i titolari erano nei paraggi, ero io la prescelta per lavorare nelle sale vip e non mi dispiaceva: era più tranquillo e mi divertivo. Era lì che lo vedevo sorridere, rilassarsi... sembrava stesse a casa. Fu la sera prima del suo compleanno che il mio mondo cambiò davvero. Venne per gestire i dettagli della festa con i proprietari; io ero già dietro al bancone, ma non lo sentii arrivare. “Ciao” mi disse in turco; io lo comprendevo bene, ma lo parlavo ancora a stento, viste le mie origini italiane. “Ciao” gli dissi in italiano ed il suo sguardo da sexy mascalzone, divenne quasi stupito, stranito dal non trovarsi di fronte ad uno “svenimento” per il suo arrivo; mi sorrise. (“Era strano, ero talmente abituato a vedere tutte le ragazze emozionarsi; lei non batté ciglio” disse Khan stringendo la mia mano, per poi baciarne il palmo; Giorgia si mise a ridere ed il pubblico applaudì). “Italiana?” mi chiese ed io annuii. “Allah Allah” disse ridendo. “Bene.” Quella sera... cambiò la mia vita. Fu come entrare in uno di quei film dove non riesci a spiegarti nulla fino alla fine: mentre lavoravo al bancone, mi sentivo osservata; avevo solo il coraggio di lanciare un’occhiata ogni tanto, per cercare di carpire
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qualche parola, o anche solo per vederlo sorridere ed era destino… ogni volta che ero io a guardare, i nostri sguardi si incrociavano, lui sorrideva ed io… facevo lo stesso. Fu circondato da persone in un attimo: i suoi manager, il padre, la madre; subito dopo i proprietari del locale. La madre era minuta, quasi fosse una ragazzina vicino a lui, lo osservava da lontano come se fosse disinteressata, ma lo sguardo era fiero, materno e sorridente. Non interveniva, ma se lui cercava il suo parere, la risposta era pronta “Tamam (ok)” e la sua opinione era quella che a Khan davvero interessava.. Sopra ogni cosa. In un attimo, mi ritrovai catapultata nell’organizzazione della festa per il giorno dopo: un compleanno ricco di giornalisti/paparazzi/tv. Facevo il mio lavoro senza parlare, osservavo da lontano ed organizzavo i camerieri perché servissero ciò che preparavo e si fece mezzanotte prima che i genitori di Khan lasciassero la sala; poco dopo i manager risero divertiti e poi sono sicura di aver sentito una frase del tipo: “un invito dei proprietari a scendere in mezzo agli altri”; lo estesero a Khan, ma lui era semi sdraiato su un divano; sembrava già stanco e non era da lui. Lo vidi scrollare il capo e, in un attimo, rimanemmo pressoché soli nella sala. “Vai” dissi io alla cameriera, che aveva l’aria di svenire di lì a poco dall’emozione, e rimasi sola con lui nella sala, mi apprestai a pulire il bancone e poi, lentamente, mi avvicinai a lui. “Khan Bay (signore, fratello), desidera altro?” Lui sorrise appena, ma il suo sguardo era cambiato da prima; vidi un’immensa stanchezza e forse un po’ di tristezza dentro a quegli occhi. “Ci credi che vorrei fosse già passato il mio compleanno?” Mi stava dando del tu, mi stava parlando in italiano, stava conversando con me. “La cosa mi pareva strana, rimasi in piedi stupita del fatto che si stesse rivolgendo in maniera tanto amichevole e lo osservai per un lungo istante”. Ingoiai la saliva, la poca che mi era rimasta, e risposi cercando di essere gentile. 14
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“Perché avete organizzato un enorme show televisivo, invece che una normale festa di compleanno?” Maledetta schiettezza italiana. Lui mi guardò con aria stupita, come se non fosse abituato a sentirsi dire la verità in faccia da una persona, e si mise a ridere. “E tu come hai fatto a capirlo?” Rise tra le labbra, mordendo appena quello inferiore. Cosa potevo fare? Dirgli: “TI HO GUARDATO NEGLI OCCHI? SEI TROPPO PURO PER TUTTO QUESTO?” Scrollai appena il capo. “L’ho immaginato.” Ero in piedi davanti a lui, arretrai appena. “Difficile non stancarsi con tutti questi impegni, no?” Gli ammiccai, guardandolo negli occhi “Ma mi dica Khan Bay, desidera altro?” Una parte di me desiderava mettere fine a quella vicinanza che si era creata, ma fu lui a cercare i miei occhi. “Siedi. Lütfen (per favore). Non mi hai detto il tuo nome ed io non ho voglia di scendere ora.” Ammicò “Almeno se mi rimproverano, ho un buon alibi” aveva l’aria di flirtare con me e ci sapeva fare. Dovevo distogliere lo sguardo? Rispondere di no? Avrei dovuto finire di pulire il bancone e andare. Prima che i pensieri finissero di fluire nella mia mente, ero seduta sul divanetto davanti a lui e si fecero le due prima che uscissimo dalla sala privé. Ridendo e scherzando, come se ci conoscessimo da sempre. (“Quindi siete stati tutto quel tempo a parlare?” mi chiese Giorgia, come se fosse la cosa più assurda tra quelle raccontate. “Evet... (sì).” risposi “Parlammo tantissimo” guardai Khan che mi sorrideva dolcemente “Penso che, se dovessi fissare una data per l’inizio della nostra storia” inspirai un momento “darei quella.” e Khan annuì, sorridendo). Quando ci videro, ci furono addosso come mosche. Non c’era pressoché più nessuno nel locale: ancora qualche coppietta, qualche cliente notturno fisso e i manager di Khan. Non ebbi nemmeno il tempo di accorgermi che era sparito dal mio fianco; che i due mi sorpassarono
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come se nemmeno gli fossi accanto; lo affiancarono e iniziarono a parlargli con il sorriso sulle labbra. La musica era ancora alta, non sono sicura di aver capito cosa gli dissero in turco, ma “giornalisti” e “paparazzi” quello, l’avevo tradotto. Mi ero fermata, per ascoltare i due; il sorriso luminoso che aveva un attimo prima, si spense sulle sue labbra e si trasformò in un’espressione quasi assorta. Il pollice sul labbro inferiore gli dava un espressione assorta, voleva dire qualcosa, ma non ne aveva il coraggio o forse era troppo stanco per farlo; poi i nostri sguardi si incontrarono di nuovo. “Grazie” mormorò appena, mentre i suoi manager continuavano a parlargli; gli sorrisi, sarebbe stato impossibile non farlo, e mi allontanai appena, ma giusto in tempo per sentire che non sarebbe ancora uscito, che non voleva fare nessun bagno di folla a quell’ora. Mi mossi verso il bancone del bar, dove a quell’ora probabilmente ci saremmo stati solo più io e Ameth, uno dei dipendenti storici del locale. Lui era un po’ l’anima del Tuscany e, soprattutto, quello che vedeva più in là rispetto ad ognuno di noi, dato i settanta suonati da un po’; compariva solo all’orario di chiusura, quando tutti oramai stavano per andarsene. “Ameth?” Lo chiamai mettendo la testa in cucina. “Sono qui bambina” era come un nonno per me, aveva imparato l’italiano perché potessimo parlare liberamente e, soprattutto, era l’unico tra i colleghi che conosceva il mio carattere: fragile e forte al tempo stesso, sempre piena di dubbi, bisognosa di conferme; non esternavo quasi mai le mie perplessità, ma ero capace di piangere per ore quando ero sola. Lo sport era mia unica valvola di sfogo, perchè non avevo una vita mondana mia. Mi dividevo tra casa e lavoro, solo lo sport e la danza mi rilassavano davvero. Ameth questo lo sapeva e apprezzava comunque il mio fare solitario,spuntò da dietro il banco, come un fantasma. “Ok, mi hai spaventata di nuovo” risi. 16
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“Chiudiamo? Gli ultimi clienti stanno andando via” lui si avvicinò, osservandomi come se potesse leggermi l’anima. “Anche tu chiuderai vero?” mormorò appena. “Perché ti farai male: è un bravo ragazzo, certo, un onesto lavoratore che ha studiato prima di diventare la star di turno; è umile, simpatico con tutti, ma fa parte di un mondo a cui tu non appartieni, bambina. Ti sei chiesta cos’ha visto in te? Una preda facile? Un momento di pace nella sua vita frenetica? Poi?” Mi guardava negli occhi con quella saggezza, che talvolta mi schiacciava; era come se stessi parlando con un padre. “Quando si sarà stancato di te o quando dovrà magari andar via dalla Turchia, che farai? Rimarrai ad aspettare?” Abbassai il capo; mi sentivo quasi colpevole per la serata meravigliosa che avevo appena trascorso; Ameth sapeva razionalizzare i miei pensieri. “Baba (papà), abbiamo solo parlato; sono sicura che non avesse nessun altro obiettivo.” Mi guardava in maniera eloquente; avevo passato ore a parlare con Khan e questo… non era usuale per me. “Forse lui non aveva secondi fini, ma tu? Non stavi già sognando, vero?” Mi sentii chiamare dall’altro capo del bancone, forse a quattro, cinque metri da me e Ameth; lui mi guardò inclinando la testa e capii all’improvviso di cosa stesse parlando. “Io...” balbettai appena, ma nel frattempo mi stavo già spostando verso chi mi aveva chiamata. Era Khan. “Grazie per la bella serata” sorrise, mentre io arrivavo con un passo che sembrava il rallenty di un film. Cosa poteva volere ancora da me? Era stato un sogno quello prima, non poteva essere vero. “Se mi fai un the al volo, me ne vado” sorrideva ora, o meglio, stavamo sorridendo, di nuovo.
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“Un the? Alle due del mattino?” risi appena “Comunque si certo, te lo preparo subito” gli risposi, e lui ridendo dalla tasca tirò fuori una penna e, poi inclinando appena il capo per osservarmi con quel fare mascalzone, mi parlò di nuovo: “Vero che mi dai un pezzo di carta?” c’era ancora un po’ di musica , protesi la testa indietro mentre versavo il the. “Cosa?” E lo vidi saettare praticamente. Fu un attimo: si protese sul bancone e, allungandosi senza nemmeno sfiorarmi, prese il blocchetto delle ordinazioni dalla tasca di dietro dei miei jeans. “Niente...” rise. “Mi serviva questo” io ero gelata; non sapevo che dire; lo vidi scribacchiare, strappare il foglietto e darmelo. Non mi ci volle molto a capire cosa ci fosse scritto: vidi dei numeri, il cuore mi balzò in gola, probabilmente avevo un’espressione stupita quando lo guardai di nuovo; lui aveva già ingoiato il the bollente e mi disse “Iyi g...” scrollò il capo. “Günaydin Amira” e lasciò il locale sorridendo. Lo guardai andare via; credo di essermi mossa appena verso l’entrata per guardarlo salire in macchina con i suoi manager. Di certo mi aveva lasciata con un palmo di naso; stringevo quel foglietto in mano, senza nemmeno averlo ancora letto; quando vidi scomparire la sua macchina, buttai appena uno sguardo. Era proprio il suo numero. “ALLAH ALLAH AMIRA. ALLAH ALLAH!” Non ero musulmana, ma stare con i turchi mi aveva fatto acquisire la loro cadenza e alcuni modi di dire, sebbene il mio turco fosse ancora scolastico. “COSA CI FACCIO IO CON QUESTO, DAI?!” Parlavo tra me e me, ed ero tanto presa dai miei pensieri che non mi accorsi di Ameth che mi stava parlando. “Bambina, mi ascolti?” Mi urlò da dietro il bancone. Ebbi il tempo di appallottolare il foglietto in tasca. “COSA ME NE FACCIO, DAI; SIAMO DIVERSI, NON PUÒ FUNZIONARE” mi sgridai sottovoce e acquisii un’espressione seria. “Sì sì, Baba” lui mi scrutava serio. 18
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“Beh, se mi ascolti, allora va a casa, faremo domani le pulizie a fondo con tutto lo staff, in preparazione della festa” Annuii e presi il giubbotto dallo stanzino riservato al personale. “Grazie Baba” mi avvicinai veloce a lui. “Iyi geceler (buona notte).” Uscire dal locale mi costò fatica; sembrava come risvegliarsi da qualcosa che non poteva essere successo a me, non ad una persona comune, ad una cameriera... Presi il motorino e mi avviai verso casa; fortunatamente sapevo che il tragitto sarebbe stato breve, anche perché ero esausta, e soprattutto perché la mia mente era ferma a quel foglietto che sentivo nella tasca dei jeans. Quando arrivai sotto al palazzo dove abitavo, non si sentivano rumori; vidi solo qualche luce che si stava accendendo: le persone che di lì a poco sarebbero uscite per iniziare il turno in fabbrica. Io rimasi seduta sul sellino del motorino un momento e, lentamente, presi il foglietto dalla tasca. “IN FONDO È GIÀ IL SUO COMPLEANNO” presi il cellulare dal giubbotto. “NON SI ACCORGERÀ NEMMENO DEL MIO MESSAGGIO DI AUGURI, GLIENE AVRANNO GIÀ INVIATI CENTINAIA” mentre parlavo tra me e me, stavo già scrivendo un -Buon compleanno- in turco, con annessi errori di sintassi, e mi firmai. “DORME” annuii convinta “SONO SICURA CHE DORME” e mi alzai dal motorino; il tempo di togliermi il casco e sistemarlo, che sentii vibrare la tasca. Era lui. “Non è possibile” aprii lentamente il messaggio. -Ancora sveglia? - Sorrisi e digitai una frettolosa risposta.-Già... qualche star ha lasciato a notte fonda il locale- risi appena tra me e me, mi avvicinai lentamente alla porta, e sentii di nuovo vibrare. -Che brutto vizio che hanno queste star. Riposa Amira- seguito da un emoticon. Un’emoticon che manda un bacio? Ora sì che mi tremavano le gambe come ad una qualsiasi delle sue ammiratrici; mi sentivo una stupida.
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Risposi -Anche tu. Domani... oggi, devi splendere più del solito- Ma che risposta avevo dato? Ma perché non gli avevo scritto qualcosa di più poetico? Scrollai il capo. Ero una causa persa, ma forse un paio di ore di sonno mi avrebbero fatto bene... e magari al mio risveglio avrei scoperto che non avevo appena finito di messaggiare con Khan Kurtas nel cuore della notte.
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lzarsi dopo quattro ore di sonno agitato, direi che non è il massimo, ma se volevo potermi fare una doccia con calma, uscire a correre una mezz’ora, e portare fuori Pago, il mio vecchio bastardino, dovevo cercare di ottimizzare i tempi. Quando mi alzai, ero di buonumore; guardai il cellulare come si guarda un’immagine proibita. “TANTO NON C’È NIENTE SOPRA” dissi, parlando tra me e me. Tornata dalla corsa, mi tolsi i leggings e la maglietta che avevo addosso, sciolsi la lunga treccia e districai i capelli, poi mi buttai sotto la doccia, cantando a squarciagola canzoni del mio artista preferito. Mi ci vollero venti minuti e uscii praticamente rigenerata; ballavo per casa ridendo, come se fossi nel bel mezzo di una festa; quando giunsi in camera per vestirmi, vidi il cellulare sul letto: c’era qualcosa. Solitamente amavo il mio telefono: aveva come salva schermo la foto della mia bella Torino, dove ero nata; ora, invece, avevo paura a prenderlo in mano. “DAI, SMETTILA” mi rimproverai, sollevandolo lentamente; c’era un messaggio, un Suo messaggio. -Günaidyn (buon giorno) già sveglia? - Mi lasciai andare sul letto seduta; avevo addosso solo la biancheria intima e si stava facendo tardi.
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SOMMARIO PREFAZIONE............................5 PREMESSA..................................7 FRAMMENTO I ......................11 FRAMMENTO II.....................21 FRAMMENTO III ...................27 FRAMMENTO IV ...................37 FRAMMENTO V.....................47 FRAMMENTO VI ...................55 FRAMMENTO VII..................61 FRAMMENTO VIII ................71 FRAMMENTO IX ...................77 FRAMMENTO X.....................81 FRAMMENTO XI ...................87 FRAMMENTO XII .................93 FRAMMENTO XIII................99 FRAMMENTO XIV..............103 FRAMMENTO XV ...............109 FRAMMENTO XVI..............117 FRAMMENTO XVII ............123 FRAMMENTO XVIII...........131 FRAMMENTO XIX..............137 FRAMMENTO XX ...............145 FRAMMENTO XXI..............153 FRAMMENTO XXII ............161 FRAMMENTO XXIII...........167 FRAMMENTO XXIV...........175 FRAMMENTO XXV ............181 *SENZA DI TE* ....................189
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