SERENA FORTIN - EVA SUL PONTE DI MEZZO

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SERENA FORTIN

EVA SUL PONTE DI MEZZO

STUDIO BYBLOS

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© Copyright Serena Fortin 2021 Illustrazione di copertina a cura di Claudia Balduit. Consulenza e supporto generale per l’autore nella scelta grafica e di stampa a cura di Riccardo Zito.

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A Riccardo, il dono più grande concesso dal Cosmo.

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I

Istanbul, 16 gennaio 2016, 00:11. Sfrecciando su di un taxi nel cuore della notte sul ponte della Galata, immersa nei suoi pensieri, con un sorriso profondo che si accennava impercettibilmente sulle sue labbra, Eva metteva quasi in imbarazzo il tassista dall’energia divina femminile che diffondeva, dall’energia del suo sorriso temerario interiore. Erano passati solo due giorni dall’attentato suicida nell’attuale piazza di Sultanahmet, vicino all’obelisco egizio del faraone Tutmosi III, fatto erigere dall’imperatore romano Teodosio. E non sarebbe stato l’unico. Era solo l’inizio della lunga sequela di detonazioni del terrore che avrebbero annichilito ancora per un pò l’incanto di quella città di mezzo.

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La compostezza e la laboriosità di tutti loro era ancora più capillare e dettata da un flusso di impercettibile e infiltrante allerta silenziosa. La si respirava tutta quella consapevolezza, la trasudavano molti, talvolta anche i più piccoli, che di sera tardi non dormivano e drizzavano le orecchie per captare le parole tra i genitori e gli scongiuri del terrorismo, avvolti nella melodia del Muezzin che infiltrava tutta la casa dalla finestra socchiusa. Così le raccontava il suo collega locale Serdar, prima della sua partenza. Era un giovane papà di Istanbul, un caro collega, papà operoso e innamorato della sua famiglia e della sua terra, che aveva imparato ad aspettare che i piccoli si addormentassero profondamente per fumare una sigaretta sulla terrazza con la moglie e parlare senza filtri. Eva provava rispetto e tenerezza per quel popolo, allenato a una resilienza maturata nei secoli in quella terra di mezzo, nel grande crocevia umano e materiale di Istanbul. Quel sentore di allerta lo sentiva anche nella sua Milano, si sentiva ovunque oramai da tempo. Il terrore era penetrato nel DNA emozionale collettivo anche in Europa. Il caos e il panico collettivo erano esplosi.

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Si, il caos era globale e anche chi si faceva esplodere spesso non sapeva nemmeno chiaramente perché lo faceva. Lo faceva e basta. Lo faceva probabilmente perché era diventato un inconsapevole ricettacolo di odio e risentimento che gli aveva fatto dimenticare chi era veramente fino a portarlo a galleggiare in quel lago oscuro che sembrava averne perso l’immissario, l’origine, dove il cuore era stato trasfigurato e violentato, ottenebrando la magia di quelle terre che avevano conosciuto anche loro gli Dei. Ma ad Istanbul c’era molto altro e questa scia di pressione antica faceva solo da sfondo all’altissimo e quasi perenne stato di infiammazione emozionale e culturale del popolo curdo che continuava ad anelare e a vedere come un miraggio il riconoscimento della loro identità culturale. Alcuni di quegli attentati avevano quest’ultima matrice e rivendicazione. Ma dall’Europa molti occhi erano stati indotti ad accorpare tutto in un’unica minaccia, quella del terrorismo islamico. E mentre veniva attraversata dalle sue stesse riflessioni sul vero innesco dell’odio che oramai era divampato ovunque, guardava la magia delle luci di notte riflesse sul Corno D’oro e percepiva gli

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sguardi fugaci dell’uomo impegnato nella guida che osavano rubare i contorni della sua figura dallo specchietto retrovisore. Lui si ricomponeva subito e ogni volta chiedeva conforto ai suoi baffi neri accarezzandoli dall’alto verso il basso con il pollice e indice fino alle estremità vicine alla guancia. Era una donna in viaggio, in una terra vicina all’Europa ma che si stava allontanando anche lei anni luce nell’ultimo periodo verso una dimensione in cui l’energia bloccante e scissoria tentava di alitare sovrana su tutto il pianeta. Bastava poco per emozionare di più oramai, per innescare una scintilla e ridare fuoco a quella curiosità maschile sempre più blindata e che tanto anelava e temeva tutta quella autenticità. Le vie di Istanbul stavano dimenticando il vociare e il connubio di note antiche e moderne nelle vie della movida dando spazio a molti angoli bui dove si rannicchiavano al freddo mamme siriane e i loro bambini in fuga dall’inferno. Era diventata così la Siria, quella che era in passato un gioiello di rara bellezza, un polo di cultura e floridezza. Quella di Eva era un’energia piena, intatta, an-

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drogina. Un’energia di libertà e avventura, imperturbabile, consonante, dopo tempi insonni, tempi celebri e tempi agghiaccianti tra i deliri di un’umanità in involuzione, un’umanità distratta di fronte al perpetrare di quella scissione diabolica dell’energia maschile da quella femminile. Quel connubio energetico, sempre più ottenebrato dalle ombre, non sembrava più in grado di fluire mescolandosi armonicamente in ciascun umano ma si era lasciato incanalare in due diverse correnti, polarizzandosi. Sul pianeta tutto, le due parti perseveravano nel rimanere scisse, adulterando la loro vera natura che era invece integrata. Lo smembramento di questa fusione si era ossidato nei secoli e sul pianeta si muovevano sempre più folte moltitudini di uomini e donne ogni giorno più limitati nella loro capacità di azione ed espressione del Sé. Ogni giorno sempre più stereotipati, impacchettati in ruoli ed espressioni sociali polarizzate. Il loro potenziale era stato dimezzato proprio come era stata scissa quell’espressione energetica, che per legge di natura doveva rimanere inscindibile e regnare in ognuno.

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In Eva quell’energia era tornata intatta e in equilibrio, le due parti ricongiunte fluttuavano consonanti. Era proprio quell’energia potente che esalava anche dalla sua pelle a imbarazzare, a destabilizzare, ovunque. Era la maniera libera di esprimere la propria essenza, un’essenza pregnante che tacitamente e di nascosto veniva agognata da chi la incontrava, ma che non poteva essere più così palesemente validata, meno che mai oramai. I confini del percepibile diventavano sempre più stretti sul pianeta. Il taxi aveva quasi finito di tagliare il Corno D’oro sul ponte coccolato dalle luci che parevano sintonizzarsi con il luccichio dei suoi occhi curiosi, ammaliati, ma che in fondo erano pericolosi per quel maschile, tanto maschile quanto fragile e compresso dal fardello di quella polarizzazione netta. C’era un’energia diversa, le sembrava di riattraversare i millenni su quel ponte, sembrava di essere in mezzo a una danza incalzante tra passato e presente che scaldava e faceva presagire giorni intensi.

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Pochi suoni all’arrivo all’Hotel. Poche persone in giro a quell’ora in quella stradina meno illuminata che confluiva in Piazza Taksim. Il suono metallico della porta del taxi che si chiudeva e l’incontro del suo tacco con il pavé sconnesso del marciapiede. Una voce nell’etere, impercettibile, sembrava consigliarle di rintanarsi un pò in Hotel. Erano le particelle energetiche che fluttuavano sopra di lei a inviarle quel messaggio. In fin dei conti era una donna sola, arrivata a Istanbul, e subito a piede libero nella città, nel cuore della notte. C’era tanto legno in quella camera calda che miscelava il sentore di una camera nel cuore della foresta nera in Europa con lo stile delle lampade antiche che proiettavano luci ambrate e esaltavano le venature del legno. Silenzio. Era isolata. Al caldo, nel legno e nel sentore di epoche lontane, era lì, in piedi, e respirava cercando di inalare anche il profumo dell’energia della città di mezzo. Quel silenzio, quelle pareti legnose e i suoi occhi chiusi per un istante le fecero sentire il suono di mille passanti, mercanti, fuggitivi, che fluttuava nelle piccole particelle di aria antica che erano lì

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a parlare ancora, ancora vivide. La sentiva tutta quella frequenza, quel trambusto disordinato ma legittimo lì, da secoli. Una dimensione di passaggio tra i mondi sulla quale galleggiava quell’onda vellutata che penetrava con vigore i suoi sensi risvegliando flussi energetici e reminiscenze di snodi karmici, di tregue, conflitti, di amori impossibili, nascosti, fuggitivi. Era come se l’apparente terrore, mascherato dall’ordine silenzioso e mesto che sovrastava la città, volesse al tempo stesso proteggere il vissuto di mille anime, perché si sentivano ancora urlare o ansimare o affannarsi in cerca di un posto al sole, di pace, della loro vera essenza. I suoi sensi pervasi da questo flusso millenario, carico di vibrazioni contrastanti, la condussero per le vie del quartiere verso l’una di notte. Era accompagnata e protetta dalle anime viaggiatrici che avevano peregrinato lì anche loro. Non era sola, nonostante gli inviti di meravigliosi giovani ricondurla all’Hotel avvertendola del pericolo nel camminare sola lì di sera. Avevano tratti molto maschili ma manifestavano un’intenzione anche curativa, materna, un senso di prote-

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zione cavalleresco ma anche materno. Erano molto giovani e subito si manifestavano diversi, in essi si poteva iniziare a scorgere un ritorno a quel connubio che era stato scisso. Erano belli come maioliche, con corpi forti e vigorosi, vestiti alla moda ma dai quali spiccava l’immagine di guerrieri ottomani di altri tempi, con occhi neri profondi e carichi di fiamme, incastonati in sopracciglia nere che parevano dipinte e un sorriso smagliante decorato da fitte barbe nere scolpite ad arte. Come poteva sentirsi in pericolo? Sentiva una freschissima energia maschile ossequiosa, protettiva e al tempo stesso curativa, un sapore di uomo del passato, vestito come un berlinese ma sostenuto da una struttura più ancestrale, più autentica. Era tempo, tanto tempo che non incrociava sguardi così carichi. Era affascinata e allietata nel vederli capaci, così giovani, di percepirla ancora più intensamente, lì. Certo, non era così frequente per i giovani del posto, anche se si trattava di Istanbul, vedere una donna sola, eloquentemente europea, senza alcun velo o mestizia, camminare di notte per le vie della

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città a viso aperto, con una tuta integrale in pelle, quasi fosse un pilota cosmico. Ma quegli sguardi così penetranti e allo stesso tempo disciplinati, da dove arrivavano? Perché erano così carichi e così ben dosati? Perché quegli sguardi infondevano protezione e ammirazione e non sembravano dovuti solamente alla diversità palese che Eva esprimeva? Cosa si stava muovendo in quelle ultime generazioni? Perché apparivano più equilibrati, più armonici, più centrati? Perché di quella sua aria di libertà, di quelle sue espressioni di audacia, di azione, non ne facevano oggetto di scherno o molestia? Paradossalmente si sentiva più a suo agio rispetto alla sua Milano di notte. Conosceva Istanbul da millenni ma nell’ultimo periodo qualcosa era cambiato, c’erano i segni di un moto verso un’arcana dimensione ancora da stabilizzare. Una leggera dissonanza si insinuava nella sua mente umana ma il percepire prevaleva sulla ragione e la faceva procedere in agio e leggiadria.

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II

05:55. Era buio nella sua stanza quando l’eco della preghiera della mattina penetrava sinuoso nei suoi sensi riuscendo a svegliarla nonostante la stanchezza del corpo. La città si stava svegliando con lei. Non era sola. Il canto accomunava tutti creando una vibrazione che esalava dal terreno e riusciva a penetrare anche le pareti più spesse e antiche dei palazzi. Era un canto che infondeva un comune senso di appartenenza umana, che sentiva molto intenso e anticamente familiare. Per un istante, un infinito istante, quasi per

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smorzare quel canto intriso di passione, di languore, le risuonò nel profondo la melodia allegra e leggera delle campane cristiane. Percepiva quel canto come un richiamo atavico di coesione che toccava corde profonde, sebbene non potesse capirne le parole in arabo, come neppure erano comprese dalla maggior parte degli abitanti di Istanbul. Eppure, nonostante le parole le fossero ignote, lo sentiva. Lo sentivano tutti. In questa città di mezzo, con il suo ponte di mezzo, crogiolo millenario di etnie e dominazioni, commerci e umane vicende, bastava poco per capirsi e sentirsi parte di un dinamico e perenne divenire. La mescolanza delle molte donne con lo hijab, e alcune con il niqab, che camminavano sui marciapiedi accanto a quelle con mise più ostentate e vicine alla moda europea, allietava il suo tragitto verso la sua meta, nei pressi del Gran Bazar. Ciononostante, si respirava un’allerta impercettibile ma pervasiva, soprattutto nell’avvicinarsi al Bazar. Il brulicare di persone e le mille voci sovrappo-

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ste fluivano insieme alle scie di sapone di Aleppo che esalavano dagli Hammam come per voler sopprimere quel recente sentore di polvere da sparo che aveva dilaniato corpi umani europei in visita, a pochi isolati di distanza, pochi giorni prima. La trattativa di lavoro era stata estenuante e accentuata dal fatto che era lì da sola a fare da interprete di se stessa questa volta. Una donna europea in tutta la sua avvenenza, palesata da modi e mise, in tutta la sua intraprendenza e fermezza, decodificata e relegata oramai unicamente come un tratto maschile dagli uomini del posto, poteva di certo accecare in prima battuta, ma poco dopo finiva per innescare in loro un certo disagio inconscio che li portava ad aumentare la loro necessità di controllare e dirigere lo scambio verbale. Si rendeva conto di provocare, come sempre capitava, un sussulto interiore anche negli uomini più aperti ed eruditi quando il suo tono di voce si alzava ed esprimeva antiche note di energia femminile fiera e condottiera, note che per loro suonavano solo come note solo maschili e scomode, se provenienti da una donna. Quel loro sussulto interiore trasudava un’ammi-

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razione atavica in quel maschile, un ricordo lontano e sopito di quell’energia femminile divinizzata e potente che veniva però immediatamente ottenebrato dalla dissonanza che si innescava puntualmente in loro, oramai. E per Erkan non si trattò solo di ammirazione. Per lui si sarebbe trattato di una pulsione, una brama di contatto e fusione, un levare astrale incontrollabile che alimentava il fuoco dei suoi occhi neri profondi. Ma tutto rimaneva dentro quegli occhi che durante la conversazioni assorbivano e paralizzavano tutta la mimica del suo viso. Era curdo, nato a Mardin, nel Kurdistan turco. Dai suoi occhi si sprigionava il sole antico della Mesopotamia in una miscela indefinita di giallo sabbia e focolai di luce dorata. Dalla piccola finestrella di legno scuro della sua casa, incastonata in un villaggio sui colli che si affacciavano sulla piana mesopotamica, era riuscito a fare assorbire ai suoi occhi di bambino tutta la luce del sole riflessa da quella terra desertica e saggia. Esperto in pubbliche relazioni, elegante in ogni tratto e nella vibrazione profonda e cadenzata della voce, viveva ad Istanbul sin dall’adolescenza

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e parlava infinite lingue, come Eva, divinamente. Aveva imparato molto svolgendo mille lavori, dai più umili ai più insoliti fino ad affermarsi nella città di mezzo dove era da tempo rispettato per la sua etica senza eguali. Mostrava sempre genialità nelle cose che faceva sempre con naturale eleganza, quasi le avesse conosciute da millenni. Prima che le raccontasse di lui di fronte a un un tè alla mela in un locale a ridosso della torre della Galata, Eva aveva avuto bisogno di staccare da tutto dopo la trattativa, dallo scenario che li aveva fatti entrare in contatto. Dopo pochi minuti di cammino entrava sola nel Gran Bazar. Passato il controllo della polizia con metal detector all’entrata, Eva fu catapultata in un’altra dimensione. Si aspettava il caos, la folla, i mille colori e profumi ma era entrata in una dimensione sospesa. Mancava poco alla chiusura, poche persone, i mille colori c’erano e luci al neon ancora fortissime impedivano quasi di ammirare la volta antica che sovrastava tutto il Bazar. Eva sentiva tutta l’energia umana degli scambi avvenuti, delle mille parole, trattative, confronti. Rimanevano solo i gerenti dei negozi a ripulire

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e a contare gli incassi della giornata. Era libera di osservare i negozi camminando piano ma creando un eco allegro con i suoi tacchi e l’andatura fiera. Non una donna a quell’ora. Nessuna. Nemmeno un’addetta alle pulizie. Nemmeno una fidanzata o una moglie. Solo uomini. Uomini operosi e garbati. Non era affatto a disagio. Paradossalmente si sentiva protetta. Paradossalmente. Era un sentore frequente che percepiva sempre più progressivamente.

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III

Galata Konak Cafe, Beyoglu, 19:30. I loro polpastrelli urlavano in silenzio mentre posavano sul piattino il bicchiere di tè alla mela bollente. Su quella terrazza al terzo piano Eva vedeva il Bosforo estendersi interrotto violentemente dalla figura di Erkan che si stagliava nel mezzo del panorama. Alle spalle era sovrastata dall’imponenza della Torre della Galata, che emanava fasci di luce rosse e rosa dagli stretti balconi che ospitavano ancora turisti ammaliati dalla quelle visione eterna. Non era buio mai ad Istanbul, anche a quell’ora, quella sera. Le luci di notte ballano sempre insieme alle scie di passato e presente e possono far

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crollare qualsiasi resistenza al romanticismo in qualsiasi umano, da sempre. Eva preferiva l’immagine del Bosforo, presidiata dalla figura di Erkan. Il vetro dei loro bicchieri di tè bollente parlava per loro appoggiandosi al piattino in ceramica. Non avevano bisogno di riempire i silenzi con mille parole. Sorridevano. Forse erano tornati lì dopo millenni e dovevano assaporare la pace di esserci ritrovati? Ma chi erano stati? Un senso di familiarità insolito e inaspettato gli faceva scambiare sguardi e sorrisi accennati, parole in sintonia e una tacita gioia nell’essere lì, in quel momento. E in quelle parole, quasi sussurrate come una melodia coccolata dall’eco dei battelli dei pendolari diretti verso la sponda asiatica, avevano riconosciuto la loro essenza, sgravati da tutta quella tensione professionale di poche ore prima, ma al tempo stesso protetti dall’ufficiosità del rapporto di lavoro che giustificava quell’incontro serale alla luce della luna, in quella Istanbul irritata e spaventata ancora dal fragore del terrore.

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Sarebbe stato molto poco agevole per lui trovarsi in tutta quella connessione libera ed autentica,

con

tutto

quel

tempo

legittimato

a

disposizione, se il tutto non fosse stato giustificato dal fatto che erano alla fine colleghi e dalla calda ospitalità che normalmente i turchi offrono a partner commerciali. Questa condizione in realtà aveva confezionato una pericolosa arma a doppio taglio per Erkan. Poteva muoversi libero per la città con una donna eloquentemente occidentale, poteva esprimersi con lei senza il filtro della sua cultura, anzi doveva essere motivato a farlo per andare incontro al vento dell’occidente con cui si mescolavano profitti e benessere. Eva non sentiva la distanza culturale parlando con lui fino a quel momento. Erano le loro essenze a parlarsi senza dover infarcire discorsi con parole inutili. Si sentiva a casa e si sentiva accettata per come era e mestamente ammirata da quegli occhi che trasudavano tutto il marasma pulsionale interiore, un moto ben disciplinato e accumulato nei millenni. Eva sentiva la sua profonda stima, come anche la sua brama del conoscere di più, che non osava

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pronunciare, tantomeno accennare. Le bastava un solo sguardo impercettibile e mai invadente per vedere divampare riflesso nei suoi occhi il suo fuoco divino femminile potente e incontrastato. Le sua storia, le sue lotte, gli abusi inenarrabili che lei aveva combattuto e valicato, la consapevolezza del suo essere e la sua forza cristallizzata in quegli occhi antichi in un corpo quasi androgino veniva invece percepita e bramata da Erkan, sebbene lui non fosse più così giovane come le giovani reincarnazioni dei guerrieri ottomani che l’avevano riconosciuta e protetta la sera prima. Era riuscito a inghiottire Eva in un’unica dose senza per il momento manifestare effetti collaterali. In fin dei conti Eva si trovava a rivivere una serata di altri tempi, tempi anche lontani il cui eco in lei non se ne era mai andato veramente. Lei non rischiava alcun effetto collaterale. Aveva già inghiottito e processato dentro di sé l’incontenibile, l’ignoto, l’inferno, le stelle, in passato e in molti mondi, molte volte. Paradossalmente, erano i modi diluiti e raffinati di Erkan a collimare con l’arte di Eva nel dosare l’irrorazione energetica che sarebbe scrosciata libera e legittima, ma che in quel momento sarebbe

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stata ingestibile per lui. Lei osservava, percepiva e riceveva con diletto i segnali di quelle scene, lì nella città di mezzo. Anche questa volta non le sembrava di assistere al tipico rituale maschile mediorientale che viene spesso stereotipato in cui le donne vengono sommerse da un edulcorato corteggiamento appesantito da doni preziosi in segno di apprezzamento. Si trovava altresì anni luce lontana da quell’altro tipo di approccio maschile, quello opposto e spudoratamente diretto, nei confronti di donne più disinvolte ed erroneamente fraintendibili. Spesso in quel luoghi e nelle terre vicine le donne concedono molto poco e richiedono un corteggiamento lungo e concreto. Eva era sempre rimasta teneramente colpita da come lì gli innamorati fossero capaci di contenere le emozioni per molto tempo, lunghissimo tempo. Questa matrice, unita a regole di comportamento sociale ben definite in presenza di donne, non li rende inclini a bruciare le tappe, o a forzare senza seguire un protocollo ben strutturato e diluito nel tempo, anche se si trovano in presenza di una donna diversa, una donna che non richiede conferme, tempo e pegni.

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Non conoscono altro modo, perlomeno in quello scenario. Questa dinamica si era alla fine impressa nel loro DNA sociale ed emozionale. La città di mezzo faticava ad avere modi di mezzo. Molto disciplinati da un rispetto per il femminile, in primis per la madre, sanno essere dei veri gentiluomini quando si accenna una passione. È un automatismo comportamentale che fa parte della genetica sociale e quella sera Eva si era concessa di assecondare tutto ciò, forse perché in fondo le faceva piacere ritrovarcisi e probabilmente avrebbe fatto piacere a qualsiasi altra donna del pianeta, in quel tempo in cui l’arte della seduzione maschile era stata brutalizzata, ridotta ai minimi termini, soprattutto in occidente. Quei suoi occhi maschili inondati di densità del pomeriggio erano riusciti a fare da argine a quell’incontenibile sussulto interiore. Ci erano riusciti, certo, diventando ancora più vulnerabili ed eloquenti però, dovendo contenere l’incontenibile.

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Eva sentiva che non era una questione tra due persone, tantomeno di una collisione tra due culture. C’erano in gioco energie antiche, frasi e vicende sospese, incontri irrisolti che avevano marinato sospesi e congelati dai limiti della diversità culturale, scintille che ancora aspettavano di creare grandi falò, da molti, moltissimi anni. Era come se loro due stessero incarnando la necessità collettiva di sgravarsi da tutta quella tensione, dai paradigmi illusori e artefatti del mondo e di molte anime sospese. E lo erano di più ogni volta che si incontravano nei giorni successivi. Era stato divino per Eva vederlo capace di canalizzare molta di quella energia mostrandole e sviscerando antri segreti della città che mai aveva potuto conoscere prima. Sapeva poco di lei, ma la sentiva. Ciò di cui era accecato era la sua intraprendenza e carica, la sua semplicità, la sua libertà e il profumo dell’infinito e... dell’indefinito che si diffondeva intorno ad ogni suo passo. Ma più ancora era la sua spontaneità, slegata da protocolli comportamentali, a smuovere le sue

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energie più profonde, scie di calore represso che volevano zampillare alla luce come un dono per lei e solo per lei.

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IV

L’aveva travolta al suo ritorno il mese successivo. Non era stato necessario nemmeno parlare. Quasi in silenzio, in macchina, dall’aeroporto di Atatürk, avevano raggiunto un appartamentino che dava sul cortile interno di un palazzo nel quartiere di Beyoğlu e di parole ne erano uscite poche. Erano bastate quelle dette un mese prima. Erano state un detonatore per la loro anima e corpo. Quel mese di decantazione a distanza aveva creato una bolla sospesa. Era stata travolta in quella stanza fino a non vedere più cosa la circondava, e nemmeno lui vedeva più lei. Si erano sconnessi dal mondo apparente in una fusione energetica divina, conoscendo il loro ignoto attraverso i loro corpi che

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Indice Capitolo I

. . . . . . . . .5

Capitolo II

. . . . . . . .15

Capitolo III

. . . . . . .21

Capitolo IV

. . . . . . .29

Capitolo V . . . . . . . .37 Capitolo VI . . . . . . .45 Capitolo VII

. . . . . .49

Capitolo VIII . . . . . .57 Capitolo IX

. . . . . . .61

Capitolo X . . . . . . . .67 Capitolo XI

. . . . . . .71

Capitolo XII . . . . . . .77 Capitolo XIII . . . . . .83 Capitolo XIV . . . . . .91 Capitolo XV . . . . . . .97 Capitolo XVI . . . . .103 Capitolo XVII

. . . .109

Capitolo XVIII

. . . .117

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