Euro 14,00
I Totomè del Barone
Pietro Carmina (Ravanusa, 1953) ha insegnato filosofia e storia al liceo classico di Canicattì. Ha collaborato con il Giornale di Sicilia, L’ora e La Gazzetta dello Sport, oltre che con i periodici locali. Nel 2000 ha pubblicato un cd-rom di filosofia antica “ti estì”, consigliato dall’Istituto Nazionale per gli studi filosofici per l’approfondimento didattico, e, nel 2008, il suo primo romanzo, “Rosolio al mandarino”, premiato dall’Accademia Internazionale “F. Petrarca”.
Pietro Carmina
Novembre 1931. Nella cucina del feudo Ramilia, Concettina ha preparato i totomè, dolci tipici siciliani, di cui è golosissimo il figlio del barone Bonanno, Vincenzino, che, con la scusa di assaggiarli, approfitta anche della donna, che non ne disdegna le attenzioni. Quando la padrona, che le ha fatto da mamma, scopre che Concettina è incinta, trova la maniera per tacitare il tutto. Nella notte tra il 5 ed il 6 febbraio, un incendio distrugge l’archivio della Chiesa Madre. Oscuro il movente: Usura? Politica? Ereditarietà? A tentare di scoprirlo ci proverà il flashback, che ripercorre la storia parallela delle due famiglie fino all’ultimo giorno di carnevale di quel 1955.
Pietro Carmina
I Totomè del Barone
PIETRO CARMINA
I Totomè del Barone
Studio Byblos
I totomè del barone è frutto della mia fantasia. Immaginaria è tutta la storia, di storico c’è soltanto l’evento attorno a cui ruota il racconto, l’incendio della Madrice nella notte tra il 4 ed 5 febbraio del 1955. Tutto il resto, personaggi, luoghi, tempi, è manipolato in modo funzionale alla narrazione. Certo, in qualche protagonista non può non ravvisarsi qualche personaggio realmente esistito, ma gli atteggiamenti, le idee, i comportamenti sono del tutto inventati. Invito perciò il lettore a non perdersi in inutili accostamenti tra lo storico e l’inventato e ad appassionarsi al mondo fantastico, che talvolta è più reale del reale.
a Carmela e Mario
1931
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Capitolo I
Il sugo chiarchiariava che era una bellezza. Concettina, di tanto in tanto, gli dava una rimescolatina, in modo che non si formassero grumi. Il rituale festivo si ripeteva anche quella domenica di novembre. Ancora albeggiava, e gli ospiti della masseria già sentivano l’aria impregnarsi dell’odore del sugo, inasprito dai finocchietti selvatici e dalla cotenna del maiale appena scannato. Concettina era mattiniera, e non aspettava certo che il sole si decidesse a sbadigliare i suoi raggi per correre in cucina ed iniziare la preparazione, sempre laboriosa e lunga, del pranzo principale della settimana. Quella domenica le era venuto lo sghiribizzo di preparare qualcosa di speciale. Il maiale era già pronto, il sugo cominciava ad accuttrarsi, le olive nere sfrigolavano piacevolmente tra i carboni del braciere. Manco le sette erano, e tutto era bello e preparato. “Che faccio, oggi?” si chiedeva Concettina, “sì, qualcosa di speciale, di gustoso…” Alla fine si decise per i totomè, che non abbisognavano di molto tempo e fatica e che facevano leccare i baffi al “baroncino”, come lei chiamava affettuosamente don Vincenzino Bonanno, il figlio del barone. Vincenzino, in quel momento, si stiracchiava pigramente, aveva tirato fuori dalle coperte il piede destro e cominciò a muovere l’alluce, alla stregua di un termometro naturale. Non era freddo fuori, però l’arietta autunnale cominciava a pizzicare. Rimise dentro il piede e si riarrotolò nel tepore del letto. Era domenica, finalmente poteva rilassarsi tanticchia… Non che la settimana si ammazzasse di fatica, no, intendiamoci, però…. i doveri padronali lo costringevano a girare per le terre, a controllare i campieri, anche se il barone padre, don Michele, gestiva tutto con piglio severo e polso ferreo. 7
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Oramai era sveglio, però, e stare troppo a letto non gli era mai piaciuto.“Vabbè, vuol dire che andrò a caccia...” si propose. Fuori le coperte, un brivido di freddo lo costrinse ad afferrare il copriletto, avvolgervisi ed avvicinarsi al bacile di acqua. Brr…. troppo gelata, oramai si era preso di freddo, preferì passarsi due dita inumidite sugli occhi per pulirsi almeno degli scramocchi: “Vuol dire che quando torno dalla caccia mi faccio un bagno”. Indossò un paio di calzoni di fustagno, la camicia bianca col panciotto marrone, la solita giacca di velluto, tirò su gli stivali, si calcò sulla testa il berretto di feltro, afferrò il frustino e... via verso le stalle. “Prescia avi, stamattina, lu baruncinu…” mormorò Concettina che l’aveva sentito scendere dalla scalinata: “sa unna ava iri...” si chiese mentre iniziava la procedura per i totomè. Aveva messo sul fuoco una pentola con mezzo litro di acqua ed uno di latte, vi aveva aggiunto lo zucchero e un bastoncino di cannella. Un attimo prima della bollitura aveva cominciato ad inserirvi poco a poco la farina, mescolando di continuo, fino a ottenere un impasto ben amalgamato, staccato dalle pareti della pentola. Un poco di fatica iniziava a sentirla, Concettina, mentre, a gambe larghe, si muoveva, mani e corpo, avanti e indietro, per equilibrare senza briciole il composto, ci teneva che risultasse bello consistente, teso ed elastico nel contempo. Solo allora iniziò ad arrotolare tanti bastoncini, tutti uguali; ne voleva fare parecchi, le sarebbe dispiaciuto che ai padroni rimanessero ‘mpizzu. Mise sul fuoco una capiente padella, vi scaldò mezza bottiglia d’olio e cominciò a friggere. Intanto preparava anche una scodella per sciogliere il miele e aromatizzarlo con la buccia di limone. La mattinata era fredda ma luminosa. Il baroncino mise al trotto la sua giumenta preferita, per farla riscaldare un po’, e quella ruffiana sbruffava e nitriva riconoscente. Nel giro di una mezzorata furono al boschetto della Gabbara. Saltò giù dalla giumenta che attaccò ad un castagno superbo e secolare, imbracciò il fucile e, mentre l’animale, felice, festeggiava con le foglie a portata del suo muso, si diresse verso una specie di dirupo che sapeva essere uno dei posti preferiti dai conigli.
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Uno gli schizzò davanti, prima ancora che potesse avvedersene “Eh…curnutu… ti la scansasti, ah!” gli gridò dietro Vicinzinu “Ma lu prossimu nun mi futti…”. Si avvide di una tana, si mise in posa, l’occhio fisso al mirino e… pam! non erano passati una trentina di secondi e il baroncino, che era provetto cacciatore, ne aveva già impallinato uno. Ma fu l’unico. I conigli, evidentemente, si erano passati parola che fuori la tana c’era appostato un nemico pericoloso e rimasero dentro, senza affacciare manco un pelo dell’orecchio. Vincenzino, poi, era andato lì, così, per sport, senza impegni particolari, sennò avrebbe portato con sé Filiberto, il cane e i furetti. Attese ancora un’altra ora, poi si stancò; rimise a tracolla il fucile, avviluppò una cordicella attorno alle zampe della preda e ritornò alla giumenta che, soddisfatta, se ne stava sdraiata ed assopita. Il rumore degli speroni degli stivali del padrone la fecero alzare, prima ancora di provarli sulla sua pelle…troppe volte l’aveva sentito addosso e non le era piaciuto per nulla. Il baroncino sorrise: “Ti la ‘nzignasti la musica, ah!” le gridò. In men che non si dica attaccò il coniglio alla sella, saltò sù e con due stivalate ben assestate “sennò, ti abitui male…” sempre rivolta all’animale, le diede corda e strada “…Acchià! Acchià!” I baroni Bonanno facevano toeletta per raggiungere la cappella dove padre Cerasa avrebbe detto messa. I servi e le sguattere erano impegnati nei consueti lavori e Concettina continuava a friggere i totomè. Ci stava bene, Concettina, alla masseria di Ramilia. Sua madre era stata la governante della signora Giuseppina e il padre uno dei campieri del barone Michele. Era nata là, e là era rimasta sia quando il padre fu trovato in un canalone con il petto squarciato da una schioppettata, sia quando la madre, carpita dalla malaria, in un vidiri e svidiri, se ne andò. Concettina era piccolina allora; aveva solo otto anni, piangeva di continuo e non sapeva darsi pace. La baronessa Giuseppina se la tenne come una figlia, quella femmina che lei non aveva avuto. Se la coccolava con le gonnelline, i cappellini ed i nastri e, quando divenne grandicella, la destinò alla cucina. Erano passati sette anni e sembrava ieri. Era diventata bella Concettina. Formosa, rotondetta, anche se i grembiulini ne celavano le forme.
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I capelli, lunghi e crespi, li teneva attaccati con una forcina a tupè, ma di più spettacolare aveva gli occhi, verdi come un prato di primavera, cangianti verso un azzurro che solo al largo del mare si poteva ritrovare. Il baroncino dapprima sentì l’odore della frittura; lo sfrigolio dell’olio, invece, si mischiava alla voce canterina di Concettina. Sorrise. “E brava, Cuncittina, mi ha fatto i totomè!” si congratulò, leccandosi i baffetti, radi e curati. Concettina non lo sentì entrare, impegnata ad innaffiare di miele i dolci che uscivano, caldi caldi, dall’olio. Si avvide, però, con la coda dell’occhio di due dita che rubavano un totomè, messo di lato, quasi nascosto, nel vassoio, per non rovinare la piramide dolciaria, e capì che il baroncino era tornato. «No baroncino, se prende quelli di sotto, mi cadono tutti. E po li faccia raffreddare, ci sono quelli con lo zucchero, così caldi non si gustano» «Cuncittì, tu lo sai che ai totomè non ci resisto.» «Proprio per questo li ho fatti», civettò Concettina, contenta di aver anticipato i desideri del padroncino. «Mmmhhh… troppo buoni Cuncittì... mi fanno impazzire… me ne mangerei chilate intere!» «No, tutti no, baroncino…. Sennò che ci porto a so patri !?» «E tu nun ci purtari nenti…» «Eh, certu, ora ca ‘ntisiru lu sciauru» «Ah, Cuncittì, pigliavu un cunigliu, fammillu all’aghiru e duci» «Oramai fici lu maiali, dumani ci fazzu lu cunigliu» Passava da un fuoco all’altro, Concettina, per tenere tutte le pietanze sotto controllo. Il sugo era perfettamente accuttrato. Lo stava assaggiando per verificarne il giusto dosaggio di sale e di zucchero e sentì l’odore del baroncino dietro di sé, troppo vicino… Rimase immobile; no, scantata no, semmai sorpresa, con il mestolo a due centimetri dalla bocca. Il baroncino le si strusciava di dietro mentre con le dita inzuppate di miele tentava di ficcarle un totomè tra le labbra. «Mangiati stu totomè, Cuncittì, talia che meraviglia hai cucinato!» Concettina era una vampa; non sapeva cosa dire, voleva girarsi ma ad ogni movimento sentiva qualcosa di duro appoggiato alla gonna. Le dita si avvicinavano sempre più alla bocca, il totomè le stava forzando le labbra e Concet-
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tina fu costretta a schiuderle per non imbrattarsi ancor più il viso. Il totomè lo aveva sbocconcellato ma le dita del baroncino si insinuavano ancora dentro la sua bocca, affondando e ritraendosi, obbligando la lingua ad assecondarle. Non era spiacevole, pensò Concettina, anzi…. e poi, quella cosa dura che premeva dietro... «Concettì, quantu si bona!» non sembrava più la voce del baroncino, tanto era pastosa, profonda, ipnotica. E, intanto, i baffetti le titillavano il lobo dell’orecchio e si meravigliò di sentirsi bagnata. Le era addosso sempre di più, Vicinzinu; le stava sollevando il grembiule e la gonna. In pochi minuti Concettina passò dal dolore al piacere. Non riusciva a contenersi: cercava di urlare ma quelle dita continuavano a rimestarle la bocca, gliele morse, allora, e il grido del baroncino non gli parve di dolore, anzi sembrò dargli più forza perché aumentò i colpi fino a quando anche lei si mise ad urlare, annegata nell’oceano di un piacere mai conosciuto. Fresco come una rosa, i pomelli del viso un po’ più arrossati ed un sorrisetto da sparviero, Vicinzinu afferrò un altro totomè, lo rigirò nel miele, lo ingoiò in un boccone. Girò i tacchi ed uscì, voltandosi solo per inviarle un bacio con le dita. Il soffio di quel bacio le planò sulla guancia e Concettina emerse dall’apnea in cui aveva continuato a nuotare. Si rimise a posto, si diede un’aggiustatina al tupè, si passò le mani sul viso, voleva riprendersi e invece cadde su di una seggiola… mamma mia, cosa le era capitato!
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Capitolo II
L’inverno avanzava a grandi passi. Il lavoro nei campi languiva e molti dei contadini del feudo erano tornati a casa; erano rimasti giusto quelli che servivano per lavori di potatura. L’inverno rende inoperosi uomini ed animali. Spariti gli insetti che ronzavano per l’aia: scomparse api, calabroni, vespe e farfalle solo le lumache fuoriuscivano dopo le piogge frequenti, per restare però intrappolate nei panieri degli esperti che, prima che l’ultima goccia raggiungesse il suolo, erano già in giro per farne incetta e poterle gustare abbrustolite sulla braciera. Al feudo le giornate trascorrevano tranquille, quasi a ritmo rallentato, in attesa del trasferimento al paese. Era consuetidine, infatti, che nei primi giorni di dicembre i baroni e parte della servitù ritornasse a Ravanusa, nel palazzo della casata, prospiciente la piazza più grande del paese, piazza Madrice. E non solo per dare aria alle stanze, come diceva donna Giuseppina, che a quello ci pensava la servitù di paese, quanto per preparare la grande serata della vigilia. Tradizione voleva, infatti, che la sera della vigilia della Immacolata, quando l’ultimo dei legnetti della vamparotta si fosse spento, i baroni aprissero il portone del loro palazzo alle persone più in vista del paese per una grande abbuffata di muffuletta ed il primo giro di baccarat. I muffuletta sono pani rotondi, che la tradizione affida ai ricordi di Federico II, caratterizzati da una morbidezza quasi spugnosa e dalla presenza, all’interno, di “ciminaduci”, semi di finocchio selvatico che ne aromatizzano il profumo. Il sette di dicembre era giorno frenetico a Ravanusa. Per tutta la giornata si sentiva lo scalpiccìo dei ragazzi, eccitati dalla prepa13
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razione della vamparotta. Un andirivieni continuo dalla campagna circostante alla ricerca di tutto quello che può bruciare: travi, legnetti, paglia, erba secca. Era una tacita gara tra i vari quartieri per tirare su la vamparotta più alta. E i ragazzini della Madrice, “chiazzaruoli” per domicilio, mai avrebbero sopportato l’affronto di essere superati dai quartieri periferici. A dare man forte ai ragazzi anche i grandi, convinti anche loro che la vamparotta di piazza madrice non dovesse né potesse avere rivali. Dalle finestre di casa Bonanno di tanto in tanto si curiosava fuori per constatare l’avanzamento della piramide di legno. Solo una sbirciatina, però, perché la giornata era convulsa anche per loro. Non era ancora l’alba che donna Giuseppina aveva tirato giù tutti dai letti per iniziare la preparazione della grande serata che, anno dopo anno, doveva risultare sempre più elegante ed affascinante, alla faccia delle amiche invidiose. Cuncittina e le altre donne erano impegnate, che ancora era scuro, a famiàre il grande forno. E mentre quest’ultimo si riscaldava, iniziava la procedura perché alla fine pani e pagnottelle risultassero croccanti e dorati. Non era un’operazione semplice, perché era demandata all’abilità e all’esperienza delle donne misurare la quantità di farina necessaria da sistemare sulla parte superiore della madia, e la quantità del lievito sciolto in acqua calda da versare sulla pasta disposta a fontana. L’impasto a quel punto veniva coperto, gli si avvicinavano bracieri e tangini e si lasciava riposare in modo da fare fermentare il lievito. Un paio d’ore dopo, all’alba, venivano confezionate le pagnottelle. Si rimboccavano le maniche e con gesti precisi e robusti impastavano la pasta fino a farla diventare morbida ed omogenea, e solo allora veniva posata sullo scanaturi: si continuava a maneggiarla, poi la si tagliava in pezzi e si formavano le pagnotte che venivano allineate su una tavola, ricoperte con la coperte e rimesse ancora a lievitare. Una mezzorata dopo venivano infornate. Ed era la prima fornata. Ma quel giorno altre ne sarebbero seguite perché gli ospiti sarebbero stati tanti ed i muffuletta non potevano terminare, ‘nzamaDio! Altre donne, intanto, sistemavano il salone, avvicinando i tavoli, ricoprendoli di tovaglie ricamate e del vasellame più raffinato mentre, nel saloncino accanto, tutto era predisposto per la lunga serata di gioco.
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A chi fosse capitato, per caso, di essere in piazza, quella vigilia, avrebbe avuto difficoltà a stare dietro ai ragazzini che spuntavano da tutte le vie laterali, appesantiti dalla legna, dalle grida e dalle controversie dei più grandicelli, incaricati di ammucchiarla con criterio per posarla sempre più in alto senza rischiare di far crollare tutto, dall’andirivieni di cavalli dal palazzo Bonanno, dalle serve che sgattaiolavano fuori per rientrare con le mani impegnate a sostenere il grembiule ripieno di non si sa cosa. Anche il baroncino Filippo era uscito ed ora si teneva a debita distanza, per dovere di status, dai ragazzi e dalla vamparotta, anche se in cuor suo si sarebbe immischiato a divertirsi pure lui. L’unico lontano dalla fregola il baroncino Vincenzino che preferiva starsene tra le coperte, al calduccio, fottendosene altamente della vamparotta, sbuffando anzi, per il vocio che, pur attenuato, filtrava dalla finestra “sti gran curnuti, nun si po dormiri ‘ni stu paisi ...chi burdellu!” Ma il momento magico sarebbe dovuto ancora arrivare. Prima c’erano i vespri della Madonna e l’arciprete Sorrento invitava, anzi pretendeva, che vi partecipassero tutti, baronato compreso. E alle sei di una serata tersa e fredda la Madrice era già piena. “Deus in adiutorium meum intende” iniziò il celebrante, e già i ragazzini si guardavano di sottecchi, scalpitanti, pronti a scattare fuori. Ma quannu finiva ‘sta camurrìa? L’arciprete continuava a cantilenare i salmi e le donne a rispondere nel loro latino maccheronico. Al clemens, pia, dulce virgo Maria i ragazzi scattarono dai banchi e si precipitarono fuori. Avevano aspettato quel virgo da un’ora. L’arciprete si voltò bruscamente, ma capì che non era il caso di prendersela. “Benedicat vos” e anche i grandi furono fuori. Mentre tutti lo guardavano, il ragazzo capoquartiere, con una mano accanto alla bocca a mò di megafono, gridò “Viva la madonna mmaculata!” e con l’altra mano lanciò la torcia. Il fuoco divampò subito, le fiamme si sollevarono in alto, scintillanti, ad illuminare tutta la piazza. I ragazzini ballavano intorno, felici. I grandi li controllavano, non si sa mai: “Acqua e fuocu datici luocu” sostenevano, a ragione, gli antichi.
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I balconi di casa Bonanno pullulavano di volti imporporati e sorridenti. Anche l’arciprete era uscito fuori ad osservare soddisfatto le sue pecorelle che festeggiavano la Madre di Dio, cantilenando, sottovoce, anche lui: “Lu quinnici d’agustu, la rosa spampinata, Maria l’Ammaculata, ‘ncelu sinn’acchianà”. Dopo un po’ la vamparotta, veloce nel fiammeggiare, lo fu altrettanto nello spegnersi. I ragazzini, stanchi per la dura giornata, se ne stavano seduti intorno a gambe incrociate e con il viso appoggiato sul palmo della mano, delusi, sì delusi per la durata così breve del gioco. Le mamme adesso li stavano chiamando: bisognava rientrare a casa, levarsi di dosso un po’ di fuliggine e mangiare il tradizionale muffuletto. La piazza pian piano si svuotò; il palazzo Bonanno, al contrario, si riempì. Essere invitati dai baroni, la sera del 7 dicembre, era chiaro indizio di essere arrivati, di far parte della aristocrazia paesana. Chi ne restava fuori torceva le nocche dei fazzoletti, emetteva schiuma bavosa dalle froge nasali, gastimiando torture raffinate e morte subita per chi aveva osato tanto disonore. Non arrivavano al palazzo, però, improperi, malocchi e iettature; anzi era uno struscìo continuo di abiti lunghi, di mantiglie colorate, di gioielli tirati fuori per l’occasione, di ciprie e permanenti. A ricevere gli ospiti in cima alla scalinata c’era la padrona di casa donna Giuseppina; elegantissima, nel suo abito princess lungo aderente che la fasciava sensualmente e dalla scollatura notevole, porgeva la mano ingioiellata per il baciamano dei signori e la guancia per un finto bacio alle signore che non potevano, femmine come erano, non notare il rossetto rosso a corredo di un incarnato con fondotinta dai toni molto chiari, l’ombretto pastello sugli occhi e le ciglia allungate col mascara nero. Donna Giuseppina ci aveva impiegato mezza giornata a prepararsi, ma l’occasione era troppo ghiotta per non ostentare la sua bellezza e la sua ricchezza e non far crepare d’invidia le altre cui non rimaneva che esprimersi con gridolini, esageratelli anzichenò, sull’abito, sul trucco e sull’acconciatura, anch’essa perfetta ed in linea con i tempi: i capelli della nobildonna, infatti, erano sistemati con una riga laterale ed agghindati in onde larghe tali da incorniciare il viso quasi in modo scultoreo.
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Che ne sapevano loro, pensava donna Giuseppina, aveva dovuto fare arrivare da Palermo una parrucchiera che pare avesse imparato in America le novità della moda. Solo lei sapeva quanto le era costata, manco il barone marito. Ed ora, tiè… crepate di invidia! Il salone si era ormai riempito; donna Giuseppina lasciò la postazione dei saluti, attraversò a testa alta la sala, come Mosè con il mar Rosso, ordinò alle cameriere di aprire i battenti della vetrata del salone. «Amiche ed amici i muffuletti sono serviti!» Un po’ disordinatamente, con qualche gomitata non sempre involontaria sui fianchi dei vicini, gli invitati si trovarono davanti una tavola imbandita di ogni ben di Dio. Decine e decine di muffuletta erano ammonticchiati in capienti canestri, mentre sulla tovaglia immacolata facevano bella mostra barattolini di miele, vasetti con chiappari ed olive, bianche e nere, vascedda di ricotta ancora fumante, piatti ricolmi di pesce sottolio e poi noci, mandorle, nocciole, semi di girasole, ceci abbrustoliti ed altre specialità da incremento godurioso di salivazione. Il muffuletto, per tradizione, dovrebbe consumarsi infarcito soltanto dell’olio d’oliva novello, spremuto da qualche settimana, e da una buona manciata di pepe nero. I semi di finocchio avrebbero fatto il resto. Ma le varianti alla tradizione non mancano, perciò il povero muffuletto subisce l’affronto di essere ripieno di ricotta e miele, di pescesottolio, o di tutti questi messi insieme. Fatto sta che nel giro di un’orata gli invitati ne avevano fatto incetta, innaffiandoli generosamente col novello del barone, a detta di tutti, il miglior nero della zona. La baronessa osservava con compiacimento: tutti erano belli soddisfatti e rubizzi e di muffuletta ancora ce n’erano. Perfetto così. Il suo dovere di padrona di casa finiva lì. Ora toccava al Padrone di casa. Il barone Michele, alto, elegante, brizzolato, dagli occhi magnetici, sbuffò l’ultima tirata di sigaro «Amici miei, adesso andiamo di là, il tavolo verde ci attende e mi raccomando» fece un pausa e continuò «ripagatemi il buffet che vi siete appena in-
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gozzato» Una risata generale ne accompagnò le parole mentre i signori, ma anche le signore, si accomodavano attorno ai tableaux. Il barone, ovviamente, si mise al banco e le danze iniziarono. Al rintocco della mezzanotte del campanile della Madrice gli invitati ritennero opportuno andare via, malgrado le resistenze di coloro che, in quel momento, stavano perdendo, e non prima di essersi complimentati, ancora una volta, con gli ospiti per la bella serata. Rimasero solo gli intimi del barone: il medico condotto, Archimede Paternò, l’amico di sempre Gerlando Gallo, e il federale Girolamo Galatioto. Si appartarono in una saletta, chiusero la porta a doppia mandata, si liberarono delle giacche, ed in maniche di camicia diedero vita ad una teresina di quelle toste che si sarebbe, di certo, conclusa dopo il canto del gallo. “Finalmente!” sbuffò la baronessa, afflosciandosi su una poltrona per levarsi le scarpe, eleganti sì, ma scomode e iniziò a massaggiarsi i piedini “Ah…che bello!”
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Capitolo III
Il mese di dicembre trascorse così, tra giocate, feste, novene di Natale all’alba, gran galà di capodanno. E, meno male, a gennaio era tutto finito, non se ne poteva più. I Bonanno si apprestarono a ritornare a Ramilia. Non c’era molto da preparare, tutto quello che serviva si trovava già sul posto e questo agevolava il trasferimento, senza bisogno di troppi calessi, cavalli, bauli e valigie. Una mattinata di fine gennaio, fredda come solo i giorni della merla sanno esserlo, la baronessa, accompagnata dalla fida Concettina, montò sul calessino, a fianco del quale cavalcava il marito; si segnò per un viaggio benaugurante e... via tra le lamentele del baroncino. «Siamo rimasti solo noi, papà, senza automobile, ancora a fare viaggi di mezza giornata con i cavalli» frignava Vicinzinu. Il padre non gli dava conto e questo lo faceva imbestialire ancora più «I Gallo hanno comprato l’Alfa, e i Corso pure; solo noi siamo rimasti, i parenti poveri di tutti» «Finiscila, Vicinzì» «Si, finiscila, finiscila, ma ‘ntantu lu culu mi sta divintannu ‘na stagnatella ‘ncapu sta iumenta» «Basta, finiscila! » Il tono stavolta era perentorio, Vincenzino si fece piccolo piccolo e non replicò più. Come Dio volle, a pomeriggio inoltrato, calesse e cavalli si fermarono nel cortile di Ramilia. “Finalmente!” sospirò la baronessa che non ne poteva più di tutti gli scossoni della strada. I servi le furono attorno per aiutare lei e iniziare a scaricare i pochi bauli. 19
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Anche Concettina si apprestò a scendere ma, posato il piede sul predellino, si sentì mancare, tentò di aggrapparsi a qualcosa e se le manone di mastro Giovanni non l’avessero abbrancata in tempo, sarebbe caduta sulle balate. La baronessa lanciò un grido e si avvicinò. «Una sedia, presto! Una sedia» gridava perentoria, «Cuncittì….adà...chi ià….» schiaffeggiandola dolcemente. «Matri santa….chi mi vinni…?» chiedeva confusa, pallida, imperlata di sudore. «Nenti…nenti...Cuncittì… lu viaggiu… st’ammuttuna…. li sbattimienti…» cercava di consolarla donna Giuseppina. «Mariù, aiuta a Cuncittina, accumpagnala ‘nni la so cammara…» Mariuzza si precipitò, prese sottobraccio Concettina e piano piano l’accompagnò su per le scale verso la sua camera: l’aiutò a distendersi sul lettino e, accertatasi che riposasse tranquilla, ridiscese a riferire giù, dove la baronessa organizzava la servitù. Il barone intanto era andato a cambiarsi, così come Vincenzino che di automobili non osò parlare più. La signora, accertatasi che tutto funzionasse come un orologio, salì i numerosi gradini che conducevano al piano di sopra ed entrò nella cameretta di Concettina. La teneva come una figlia e quel mancamento l’aveva preoccupata. Ora voleva appurare che si fosse ripresa. Si avvicinò al lettino e si accorse che Concettina stava dormendo: il viso le si era ricolorato, il sudore scomparso, il respiro tranquillo. “Meno male… passato tutto” si confortò la nobildonna, rimboccandole la coperta. Le giornate trascorrevano tranquille. Il barone presiedeva ai lavori dei campi. I contadini erano impegnati nella potatura dei mandorli e delle viti ma anche nell’innesto e nei trapianti di altri alberi, nella messa a dimora delle rape, delle patate e degli aromi come il basilico ed il prezzemolo, con l’accortezza di tenere pronti teli appositi per proteggere i terreni dalle gelate. I baroncini trascorrevano il tempo, invece, cavalcando e cacciando conigli e lepri. Insomma, riposo per la terra e gli uomini. Gli unici a faticare rimanevano i servi e le serve. Per loro non c’era tregua: dovevano pulire, lavare, cucinare, tenere tutto in ordine, e poi, di nuovo lavare, cucinare, pulire.
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INDICE 1931
pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag.
1955
Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI Capitolo VII
pag. 71 pag. 73 pag. 77 pag. 81 pag. 85 pag. 91 pag. 99 pag. 105
Flashback
pag. 111
Capitolo VIII Capitolo IX Capitolo X Capitolo XI Capitolo XII
1955
pag. 163 pag. 165 pag. 171 pag. 177 pag. 183 pag. 187
Epilogo
pag. 191
Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI Capitolo VII Capitolo VIII Capitolo IX Capitolo X Capitolo XI
5 7 13 19 27 31 37 41 49 57 59 65
Finito di stampare per conto dello Studio Byblos - Palermo
Studio Byblos Publishing House studiobyblos@gmail.com - www.studiobyblos.com
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I Totomè del Barone
Pietro Carmina (Ravanusa, 1953) ha insegnato filosofia e storia al liceo classico di Canicattì. Ha collaborato con il Giornale di Sicilia, L’ora e La Gazzetta dello Sport, oltre che con i periodici locali. Nel 2000 ha pubblicato un cd-rom di filosofia antica “ti estì”, consigliato dall’Istituto Nazionale per gli studi filosofici per l’approfondimento didattico, e, nel 2008, il suo primo romanzo, “Rosolio al mandarino”, premiato dall’Accademia Internazionale “F. Petrarca”.
Pietro Carmina
Novembre 1931. Nella cucina del feudo Ramilia, Concettina ha preparato i totomè, dolci tipici siciliani, di cui è golosissimo il figlio del barone Bonanno, Vincenzino, che, con la scusa di assaggiarli, approfitta anche della donna, che non ne disdegna le attenzioni. Quando la padrona, che le ha fatto da mamma, scopre che Concettina è incinta, trova la maniera per tacitare il tutto. Nella notte tra il 5 ed il 6 febbraio, un incendio distrugge l’archivio della Chiesa Madre. Oscuro il movente: Usura? Politica? Ereditarietà? A tentare di scoprirlo ci proverà il flashback, che ripercorre la storia parallela delle due famiglie fino all’ultimo giorno di carnevale di quel 1955.
Pietro Carmina
I Totomè del Barone