Lo Stretto Infinito - Saverio Ferrara

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Saverio Ferrara

Lo Stretto Infinito

Studio Byblos - editore



SAVERIO FERRARA

LO STRETTO INFINITO

STUDIO BYBLOS

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Saverio Ferrara è nato nel 1953 a Reggio Calabria, dove ha condotto gli studi conclusi presso l'Accademia di Belle Arti. Dal 1976 Docente di Discipline Plastiche presso Licei Artistici e Istituti d'Arte di Lombardia e Campania, dove termina il percorso professionale.

in copertina: Vortice di cavallo e rosso (particolare)


Un volo circolare a bassa quota, sulla foresta sempre verde della giovinezza, rasentando le cime piĂš alte, alla ricerca di sensazioni, emozioni e amori in essa disperse.

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Indice Prologo .........................................................pag. Sprazzi informi Falene

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.........................................pag.

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...........................................................pag.

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Borghesi .......................................................pag. 39 L’improbabile arrivederci ...................pag. 51 Il bivio di dicembre Il tempo buio

................................pag.

57

.............................................pag.

65

Il vento di ottobre ....................................pag. 71 Il mondo di Delia

....................................pag.

81

La parabola discendente .....................pag. 93 Il rifiuto

........................................................pag.

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Lo Stretto Infinito - Prologo

Capitolo I - Prologo

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apoli, un caldo senza tregua rende difficile tutto, compresi gli ultimi sgoccioli di un pesante anno scolastico, che lentamente si avvia al termine. L’orologio segna le quattordici e cinquanta, decido di anticiparmi, fare tutto con calma, la giacca leggera sul jeans, giusto per usarla come porta documenti, lo scooter e sono in strada. Chissà perché, non mi va di prendere la bretella di collegamento con Fuorigrotta e devio invece per via Falcone, lo scarso traffico e il seccante porfido, rilassano la mia andatura consentendomi di cogliere particolari e squarci, che la normale guida sempre pronta all’imprevisto, non m’ha mai permesso. Svolto per via Tasso, al rallentatore godo di quell’eccezionale panorama del golfo con le due dissimili gobbe, icone globali della città, disegnate nello sfumato azzurro del cielo. Il suono improvviso, quasi prolungato di un’auto mi sprona! Uno strillo duro, volgare, mi attinge, il preludio di un sorpasso pressante e veloce, mi distoglie da questa visita da turista riportandomi a una realtà, che non ha nulla a che fare con la cartolina che prima osservavo, tantomeno con le tantissime persone civili e perbene. Non è necessario sprecare tempo e fiato per chiedere qui, come altrove, lumi sul perché di tali comportamenti a persone che mai, si faranno convincere di una realtà come l’educazione civica. Comunque, imperturbabile mi scanso, sintomo di aver acquisito nel tempo, alcuni fondamentali del quotidiano. Lascio spazio al barbaro o al mascherato da civile di turno, che subito si avventa rasente, contento di aver reclamato e ottenuto, il suo diritto insindacabile. Con il ghigno dell’arrogante, mi sorpassa guardandomi, anch’io lo guardo con commiserazione, cogliendo come quel modo infimo di manifestarsi, lo renda così felice. Anche se la callosità allo stomaco si è sufficientemente ispessita negli anni, spesso, penso al rapporto con questa città, che ancora non ho assimilato completamente. 7

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Di certo, ha contribuito in modo importante alla crescita civile e professionale della mia persona, eppure mi inquieta, mi intimorisce, non riesco a fidarmi, mi provoca disagio, come la prima volta che ricordo nitidamente. Antonio, un carissimo collega napoletano con qualche anno in più e una maturità artistica spiccata, quasi per forza, mi volle alla prima di una sua mostra, ospitandomi. La sera stessa, a ridosso della villa comunale già preda di auto d’ogni tipo, dislocate nelle più disparate e fantasiose posizioni, con il suo centoventotto coupé, riusciamo a trovare uno spazio tra una moto e un albero. Anche se ostento curiosità e interesse, sono abbastanza impressionato da spazi e dimensioni, tuttavia, lui con la serenità di chi conosce i luoghi, posto sul capo il cappello d’artista, con affetto, mi prende per un braccio indicandomi i tre gradini da scendere per giungere al marciapiede, margine estremo della Riviera di Chiaia. Qui, il mio turbamento si trasforma in timore. Un fiume inarrestabile di auto veloci, disordinate, in competizione tra loro, transitano sulle sbiadite strisce pedonali, sfidando fin l’ultima stilla di giallo semaforico, il tutto mentre l’altro, quello pedonale, con un penetrante rosso, ci intima di attendere. D’istinto arretro, ma subito, vengo riposizionato da Antonio, che non ha ancora abbandonato il mio braccio. Finalmente un verde delicato, quasi stridente con quel luogo, ci permette di attraversare, mentre il tessuto dei pantaloni, non riesce ad arginare l’insinuarsi del calore dell’avantreno, delle auto che stanno lì, ringhianti come fameliche belve, in attesa di azzannarti le gambe. Mi allontano con l’unico obiettivo di mettermi in salvo! Persino il nome della la via dove siamo diretti, mi provoca ansia. Cavallerizza! Non so quali paure richiami nella mia confusa mente, forse l’immagine di una dama ottocentesca con un vestito grigio, sbuffante, cappello e velino, che scudiscia violentemente cavalli impennati e imbizzarriti, avvolti da un impetuoso vento, completato da uno scenario tenebroso, dove popolani e popolane urlanti, si disperdono in ogni direzione. Non so, ma è certo che solo l’esito positivo della manifestazione è riuscito a liberarmi in parte, da quelle esagerate paure. Ma il bello è che mai, avrei potuto immaginare cosa il destino da quella volta in poi, mi avrebbe riservato proprio a quattro passi da quel posto. Smetto di vagare con la mente, mi ricompongo, accelero, tutti i sensi allertati, rispondono prontamente alle sollecitazioni. 8

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Affronto i tornanti dirigendomi verso Mergellina, costeggio la stazione, supero il rumorosissimo tunnel, guadagno infine l’ingresso di uno dei polmoni verdi della città, ma anche, eccezionale polo storico artistico, lasciato ingiustamente alla mercé del degrado. Entro nel cortile della scuola, con ancora quel senso di libertà nello spazio, che il due ruote ti regala, punto direttamente nello spicchio d’ombra del primo eucalipto utile. Un cenno di saluto al collaboratore, che seduto fuori dall’atrio, vigila godendo della frescura, infine, procedo salendo sportivamente i gradini d’ingresso e le due rampe che portano al primo piano. Non faccio in tempo a posizionare la scarpa sull’ultima pedata, che già mi chiamano. Un lungo corridoio, con tutte le finestre aperte per il caldo, porta all’aula dove si svolgono gli scrutini finali, lì davanti sostano colleghe e colleghi. Qualcuno è impegnato a trascrivere meglio, gli appunti delle ultime puntate del programma svolto, utilizzando come scrittoio, i ridotti e impolverati marmi dei davanzali delle finestre. Dai! Mi incalzano, è la quarta! Mi accodo alla fila che fa ingresso in questa grande aula, per tentare almeno di placare la calura che attanaglia la scuola. I condizionatori, vecchi e senza manutenzione, sputano aria lievemente fresca, ma insufficiente per tutti, si creano così a macchia di leopardo, sacche temperate ambite dai presenti, con conseguente e ovvia disposizione a grumi. Comunque, mi libero dalla giacca chiara, resto con la polo, deposito il registro blu sul tavolo, l’aletta riportante i nominativi degli studenti della classe, in evidenza. Dalle pagine finali, disordinatamente, debordano fogli con appunti, ghirigori, schemi, numeri telefonici, note, che con una punta di sorpresa osservo, tentando senza risultato, di ricordarne origini e motivazioni. Finalmente, dopo i preliminari, passiamo alla valutazione dei singoli studenti, in una mescola di numeri, discipline, obiezioni, suggerimenti. Seguo lo svolgimento delle operazioni con l’avambraccio sinistro puntato sul tavolo, la mano chiusa e le prime falangi che accolgono la guancia, spingendola verso l’occhio. Spendo qualche consiglio da navigato insegnante, ma nulla di più, assisto in silenzio. Dopo un po’ sollevo la testa, spingo bene la colonna vertebrale contro lo schienale della sedia, accavallo le gambe, mi metto ad osservare questi umani. Non seguo più con tanta attenzione ciò che dicono, rincorro invece la gestualità, la mimica. Il rumore delle parole, volteggia come polline nell’aria, si insinua nelle mie orecchie penetrando sotto forma di spirale in profondità e man mano 9

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che si addentra, si trasforma in una musica, gradevole, rilassante, che ho già sentito ma non ricordo dove, nello stesso tempo però, mi sembra di essere all’interno di un involucro di plastica trasparente. Dal vortice di parole, un termine si sgancia, riesce a emergere, si impone, anche al mio disattento ascoltare. È chiamato in causa continuamente, come se fosse un qualcosa di solido, legato al filo di una frusta, che si annuncia con frastuono, a ogni sferzata. Tempo! Come il colpo ossessivo del battente sul tamburo, questo vocabolo è ripetuto ritmicamente. Ognuno ne vuol far qualcosa, chi non desidera perderlo, chi trovarlo, qualcun altro ingabbiarlo, altri ancora recuperarlo, insomma, tutti del tempo desiderano farne qualcosa, manipolandolo a fini personali o collettivi. Cerco di dare una identità nello spazio a questa parola ora senza forma, senza struttura, senza confini. La creatività mi soccorre, trasforma il mio caparbio osservare, in un dardo saettante al quale è legata una lunghissima striscia di seta rossa. Una matita immaginaria, disegna nello spazio i contorni di una foglia racchiudendo nei suoi confini il tempo, che ne assume le fattezze. Il dardo, la trapassa in un attimo, la delicata seta l’annoda trascinandola vorticosamente nell’aria, descrivendo strepitose e strabilianti giravolte. Seguo con difficoltà, questo tempo, tramutato in foglia e quella lontana seta rossa che si dimena come la coda di un pesce in fuga, fusi insieme, somigliano ad una minutissima virgola. Ora il tempo veleggia nello spazio! Le teste dei miei colleghi diventano neri puntini su uno sfondo chiaro, pare di osservare all’inverso la volta celeste, sembrano essere incredibilmente disposti come qualche elementare costellazione, ma ciò non mi incuriosisce, vado aldilà di esse, lascio vagare i miei occhi nell’infinito bianco spazio, unico legame con l'ormai impercettibile tempo, dal puntino rosso. Penso quanto tempo possa contenere quell’infinito spazio, al tempo, al quale spesso imputiamo colpe, che invece sono frutto della nostra imperizia, delle nostre azioni. Lo riteniamo inesorabile e spietato quando non scorre velocemente come noi vorremmo, allo stesso modo, così lo giudichiamo, quando procede troppo in fretta, cosicché, visto che è il tempo a scandire l’arco della nostra vita, allora ognuno desidererebbe un tempo programmabile, così da poterlo regolare al minimo, per sofferenze, disgrazie, catastrofi, pianificandolo invece al massimo, per salute, gioie, disponibilità, benessere e tutte le positività elencabili. 10

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Sorrido, anzi rido, mentre immagino l’applicazione di questa astrusa programmazione personale, prefigurando tutte le storture che nel bene e nel male, creerebbe. Qualcuno mi osserva in modo interrogativo, domandandosi in quell’ambito, cosa da sorridere, ci sia. Abbandono convinto questa bizzarrìa. No, il tempo non ha colpe, esercita soltanto il proprio mestiere. Lui nasce con noi, è come se una seconda anima facesse parte di noi appena schiusi gli occhi, al primo respiro aldifuori della protezione materna, probabilmente, anche prima. Anzi, forse è proprio lì, nel primissimo concepimento, che scatta per ognuno di noi, il cronometro del tempo e non c’è modo di regolarlo a nostro piacere, possiamo soltanto organizzarci, mentre lui, il tempo personale, non si fermerà più, fino alla nostra morte. A quel punto, il tempo assegnato a noi svanirà, insieme al nostro corpo e alla nostra mente, con essi anche la nostra capacità del ricordo, che sarà irrimediabilmente persa, forse, qualcuno potrà raccontare, ma non è la stessa cosa. Allora è durante l’arco della vita, che bisogna penetrare in quel patrimonio straordinario di dati, per cercare, perdersi, scavare, lavorare, affinché tempo e memoria viaggino insieme, perché il tempo è tanto lungo, quanto più si ricorda, anche se in modo discontinuo, così che il tempo, possa essere lo schermo, sul quale il ricordo, abbia la possibilità di scorrere, diventando con esso, un tutt’uno. È una sequenza di rapidi colpi della penna, sul verde chiaro della cattedra, di chi richiede attenzione, che mi disturba, cancellando come l’onda sulla sabbia, quel torpore sul quale piacevolmente, mi ero posato. Mi ricompongo, il grande orologio a muro segna le quindici e quarantacinque. Seguo nuovamente il lento discutere, la mano ormai stanca si libera dal peso della testa, estende e contrae le dita come si farebbe per il risveglio muscolare al mattino, m’accorgo che qualche collega mi sta fissando, non capisco se perché meravigliata del mio ingiustificato silenzio, oppure, come penso, per l’espressione immobile del mio volto, con lo sguardo perso nel vuoto. Comunque, per simulare la mia attenzione, con la penna comincio delicatamente a ripassare più volte il sei dello studente sullo statino personale, fino a renderlo smodatamente obeso, questa manovra diversiva comunque, non impedisce alla mia mente di attorcigliarsi questa volta saldamente, al fumo del ricordo. 11

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La mano libera da inibizioni, fa pattinare con grazia la penna su un bianco foglio che gradualmente, comincia a riempirsi di segni ricchi di curve, volute, qualche accenno chiaroscurale. Poi, una ribelle impennata! Si cambia! Rigide linee orizzontali, miste ad altre provenienti da indefiniti punti, costruiscono forme che sfidano tutte le regole prospettiche, il bianco del foglio, arretra sempre di più sotto l’incalzare preponderante degli arditi abbozzi, infine, sfiancato dall’incombere dei segni, lo costringe a una resa incondizionata. Allo stesso modo, anch’io, ormai stanco per questo applicarmi in complicati pensieri, capitolo, libero senza condizioni la mente imprigionata dal razionalismo. Essa, subito si invola dileguandosi, come il pennuto ingiustamente recluso. Un senso di svuotamento mi coglie, ponendomi in stato di letargo, che riduce al minimo le mie attività sensoriali. Il mio pensare, si disperde frammentandosi alla difficile ricerca di quella miscela di tempo e ricordo, fino a staccarmi da quel luogo, inseguito da quella colonna sonora, che ancora non mi lascia. Come il funambolo che perde l’equilibrio, precipito nel tempo. Questo, non ha pareti, né fondo, tantomeno tetto, è un tempo anomalo, non riesco capire, fluttuo in esso senza forza di gravità, l’istinto di sopravvivenza e la disperazione, mi obbligano a nuotare per emergere dal fondo, è come se stessi percorrendo in risalita, un enorme muro nero dall’altezza indefinita, come larghezza e profondità. Guardo in alto, in cima una linea bianchissima, sembra dividerlo per metà, a essa sono appesi migliaia di sottilissimi fili bianchi animati come tentacoli di medusa. Trattenendo inconsciamente il respiro, mi lancio, raggiungo uno di questi filamenti ritorti e flessibili, lo tiro a me, estendendolo. Mi sfugge! Come la lega di metallo con la memoria, riprende la forma precedente. L’afferro nuovamente. Incredibilmente, come una tenda veneziana tirata su, una finestra di luce appare, ma non inonda il buio del tempo, mi costringe invece, a raggiungere il bordo e affacciarmi. Vedo e comprendo. Ogni filamento, è la chiave di accesso al ricordo, non è sempre progressivo, a volte è casuale, ma per ottenerla, diviene assolutamente necessario, calarsi nel tempo e cercare i filamenti. È la finestra adesso, che m’aspira, mi assorbe. Come nebbia nell’aria, mi ritrovo nella casa dove ho vissuto parte della mia gioventù. Non mi stupisco, perché è ricorrente il ricordo di questa casa, parte integrante del mio essere. 12

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La toppa, dopo qualche iniziale resistenza, cede alle insistenze della chiave, resto un attimo fermo trattenendo il respiro, è un ennesimo, profondo, straziante dolore che provo, sapendo di non poter mai più trovare i miei genitori ad accogliermi. La porta è aperta, la chiave ancora nella toppa, tenuta stretta dalla mano, l’estraggo, entro deciso, chiudendola alle spalle. È tutto statico come l’ho lasciato, dall’odore, alla disposizione di oggetti e arredi, al silenzio, alle persiane in legno deformate dal sole, che in più punti non si incastrano, permettendo il transito di fette luminose, che danno vita a ognuno degli ambienti. Non so perché sono qui, forse attendo mio fratello. In cucina, tiro su con forza la persiana che con difficoltà si avvolge, nell’ancora originale rullo in legno, mi lascio travolgere dalla luce, che come un flash, illumina la stanza e parte del corridoio, il palpabile silenzio e la serenità di questa casa, si traducono in un invisibile compagno, che messami la mano sulla spalla benevolo, mi guida. Apro un cassetto del comò, la biancheria sempre ordinata dorme, aspetta con pazienza, l’incerto destino. Richiudo quasi subito, non desidero turbarne il riposo immerso nel profumo della saponetta aperta e in parte sfaldata. Il secondo è stato il più usato, si sfila facile, vedo il vecchio portamonete di mia madre, sempre allo stesso punto da quando ero bambino, immagini sacre, ordinatamente raccolte. Esco, involontariamente urto una busta lasciata sul comò, alla quale non avevo dato importanza alcuna. Sta per cadere, mi prodigo per afferrarla, ma faccio peggio, la lancio nel vuoto. Dall’interno, qualcosa vola rovinando a terra con un rumore metallico e sordo, il contenuto si sparge, come latte evaso dalla tazza appena rovesciata, il coperchio, anch’esso di metallo, plana più avanti, rigirandosi su se stesso, prima di depositarsi sul pavimento. È una scatola di latta argentea, forse contenitore per una borsetta da cerimonia, la raccolgo, ammaccata, ma ha resistito. Rastrello alla meglio vecchissime ricevute, fatture, qualche matrice di busta paga, foto sbiaditissime, rimetto il coperchio vado laggiù, nella stanza da pranzo. Apro tutto, spalanco, per avere luce e aria, poggio la scatola sul tavolo, mi lascio cadere sull’avvolgente poltrona. Per un attimo, fisso quella scatola, chiedendomi come è possibile che uno spazio così ridotto, possa contenere porzioni di vita vissuta, smisuratamente, grandi. 13

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Il dubbio, drago terribile e spaventoso, si fa strada nella mia mente, forte e potente non riesco a scacciarlo, si para arrogantemente difronte al mio interrogativo, mi costringe a pensare che sia possibile. Mi offre la sua soluzione! È possibile, se queste porzioni di vita li ritengo soffi di vita, perchè in quanto tali, ormai sono svaniti, relegati in altre ignote dimensioni. Il ragionamento, si arresta per un lunghissimo attimo, anche le mie pulsazioni rallentano, la frescura e il silenzio di un primo pomeriggio mi invitano a un battito di ciglia, quasi sento il rianimarsi di questa casa. Quando si rialzano, mi trovo sperso all’interno di una gigantesca clessidra in vetro. È grandissima, tanto che i margini, li colgo sfocati come un lontanissimo orizzonte. Sono sbalordito, perplesso, tentennante. Dal foro di divisione delle smisurate ampolle, la polvere di sabbia cade finissima, mi investe ma non mi provoca dolore, nonostante l’altezza e la quantità. Mi allontano correndo, fino a quando non mi sento al sicuro, istintivamente, guardo in su per osservare quell’altissimo buco erogante, poi mi distanzio lasciando dietro di me i segni del passaggio sulla sabbia, intanto che una pellicola di polvere si innalza, gonfiandosi come una nuvola. Tento di raggiungere la circonferenza, ma per quanto mi sforzi sembra che questa, sia inarrivabile. Cammino tantissimo, sono esausto, le mie gambe gonfie e ridotte, come se per il tanto procedere, si siano consumate pari alla punta di una matita. I pantaloni sono laceri e limitano l’avanzata, sono così impressionato del mio stato, che crollo privo di sensi battendo il viso sulla sabbia, questa, subito si mescola al sudore solidificandosi, come terracotta. Sotto le mie palpebre chiuse, rosso, giallo, bianco, ora vivissimi, poi sfumati, si rincorrono senza tregua. Dolorante, mi sveglio senza contezza del tempo trascorso, con uno sforzo enorme, mi metto come un quadrupede, tento di alzare la testa, una fitta tremenda sotto il mento, mi fa desistere. Tento di capirne il motivo. È la mia mano, poggiata su una lunghissima barba che mi impedisce il movimento, la tolgo via immediatamente. Facendo appello tutte le forze, mi metto in piedi, sono senza deformazioni solo questa smodata barba, che dal viso raggiunge il suolo. 14

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Sono sbalordito. Consistente e larga come una stola, la raccolgo alla meglio piegandola e ripiegandola, è incredibile come percepisco al tatto la consistenza della peluria, simile all’erba del prato. Con questo fardello, dall’ignoto significato e che le braccia non riescono a contenere, comincio a camminare. Adesso, sono vicinissimo quel margine che vedevo così lontano, stremato, allargo le braccia per liberarmi dall’ingombrante carico, ma pur percependone il peso, con mia meraviglia, nulla precipita in terra, tutto è svanito! Bagnato dal sudore, finalmente riesco a toccare le pareti trasparenti che vedevo. Estendo il braccio e la mano, i polpastrelli scivolano sulla liscia superficie, che da lontano intendevo vetro, ma così non è. Non ho altre alternative che avvicinarmi ancora un po’ per indagare sulla composizione, sempre tenendo le dita poggiate su di essa. Improvvisa è la mia inquietudine, un senso profondo di turbamento, mi inocula il tastare questa materia, pulsante, viva, sprigionante energia. Una figura traslucida, si avvicina minacciosa. Sono impietrito, incapace di una qualsiasi reazione, mi stringe la gola con una mano enorme, mi stampa sulla superficie che toccavo, facendo penetrare per metà, il mio capo. Sembra leggermi nel pensiero! Qualcosa d’indefinibile, pari a un viso eroso dal vento e dall’acqua con alito caldo e voce spaventosa, mi interroga, fornendomi nello stesso tempo, le risposte, forse sa che la mia bocca, per il terrore, non emetterà un solo suono. Cosa cerchi nel tempo!? Perché tocchi questa trasparenza? Questa è la linea di demarcazione tra il tempo e l’anima. Non è il tempo! Il tempo, è quello che hai calpestato per arrivare fin qui, è quella polvere fatta di vite finite, spezzate, perse distrutte, terminate. Sgomento, continuo ad ascoltarla. È il deposito stratificato, infinito e incolmabile di ciò che è stato e che sarà. Senza sosta, questa polvere coprirà e renderà uniforme tutto, perché quel foro lassù, fin quando ci sarà vita, non smetterà di rilasciare la minutissima sabbia! Guarda dietro allora! Guarda dove sono impresse le tue incancellate impronte, che hai prodotto per giungere fin qui! Tu, hai privilegio di poterle osservare, come tutti gli uomini e donne che desiderano non perdere le tracce del ricordo. Allora vai! Torna indietro, se cerchi qualcosa, allora è lì, che devi cercare, prima che altra polvere, cancelli anche le tue impronte. La morsa che stringe il collo, mi trascina in avanti delicatamente, libera la presa. 15

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Le parole, al contrario, rimbombano nelle mie orecchie come un macigno che rotola giÚ per una scala elicoidale strettissima, producendo un rumore assordante, poi, un fortissimo dolore mi trafigge. Tento di proteggere le orecchie con le mani ma invano, ormai il macigno diventato valanga, sfonda le esigue difese, il liquido ematico fuoriesce lento da quest’ultime. Rovino invertebrato, nuovamente a terra, sono un fantoccio di stoffa. Scomposto, guardo il lontanissimo foro dal quale il pulviscolo biancastro e ineffabile, continua ininterrottamente a precipitare mentre impietosamente, altissime ondate di polvere mi ricoprono senza che io possa in qualche modo, difendermi. Poi l’angoscia, disperde i miei sensi.

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Saverio Ferrara

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Lo Stretto Infinito

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