LOCKDOWN PRIMA LINEA VIRALE - a cura di Anastasia Carcello

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Un gruppo di medici, in parte amici, in parte incontrati sul web, hanno condiviso le proprie

Questo libro è il frutto di un rifiuto! Alcuni medici, invitati a scrivere le proprie emozioni in

esperienze professionali ed emotive vissute durante la quarantena per il Covid-19.

periodo di quarantena da un grande gruppo nato su FB, si sono visti rifiutare il loro testo, senza

Sulla scia di altri colleghi, che hanno già dato alle stampe le proprie emozioni in tempo di Co-

una specifica motivazione. Tale esclusione ha alimentato in loro il bisogno di continuare a dif-

ronavirus, sono state raccolte ulteriori testimonianze provenienti da varie regioni italiane, allo

fondere le emozioni e le esperienze vissute durante il lockdown dalla classe medica.

scopo di informare e ribadire che anche i medici e i superdirettori della sanità sono esseri umani

Sono state raccolte, quindi, in autonomia e libertà, 26 testimonianze in questo piccolo testo,

come tutti, sebbene questo in apparenza sia ben noto, dotati di pregi, difetti ed emozioni.

per non dimenticare il vissuto in prima linea, il coraggio di affrontare un nemico sconosciuto

I responsabili della Sanità pubblica, legati al ruolo ricoperto, con scarsa dimestichezza della

e la speranza di debellarlo.

trincea lavorativa, a volte commettono errori di gestione, che a cascata ricadono sugli operatori

Sono stati inclusi anche progetti socio-sanitari che dal nord al sud del nostro Paese indicano

sanitari e sui pazienti.

la volontà di affrontare compiti sempre più difficili, facendo così emergere la speranza in un

Si aggiungano anche gli esperti di virologia, epidemiologia, malattie infettive ecc. che sui

futuro sicuro con la solidarietà, la competenza e l’onestà.

media hanno diffuso informazioni contraddittorie, alimentando in tutti il timore del contagio

Gli autori, di diversa provenienza geografica e specialistica, fotografano quello che vivono e

e l’incertezza sul futuro.

vedono nel nostro Paese e ciò che sentono nel proprio intimo in piena pandemia, esplicitando

Pertanto le testimonianze provenienti dalla prima linea aiutano il lettore a comprendere quello

in parole solo parte delle emozioni profonde provate.

che hanno sperimentato gli operatori sanitaria durante la quarantena, entrando nella vita per-

I contributi sono stati coordinati dalla dottoressa Anastasia Carcello e arricchiti da originali

sonale e professionale dei medici, spesso avviliti dai giudizi negativi o perseguitati da denunce

opere grafiche di tre artisti bolognesi: Giancarlo Giudice, Alain Harvet ed Ermanno Marco

per malasanità.

Mari e di uno scultore calabrese: Vitaliano Loreti, detto Nuccio.

Il testo, suddiviso in tre sezioni, disegna appieno gli “ASPETTI EMOTIVI” degli autori, de-

In maniera diversa hanno dimostrato il proprio coinvolgimento emotivo alla pandemia, la sen-

scrive parzialmente gli “ASPETTI CLINICI” difformi del Covid-19 e l’assenza di linee guida

sibilità nell’affrontare la quarantena ed il dolore nel vedere gli effetti letali del contagio virale.

terapeutiche ed infine espone, negli “ASPETTI SOCIALI E DI POLITICA SANITARIA”,

Le opere di Alain Harvet, artista francese ma bolognese d’adozione, rappresentano il percorso

le immediate conseguenze delle normative in quarantena, che suscitano a volte la rabbia per i

di sofferenza dell’autore per la perdita della moglie, contagiata da Covid-19 e morta in ospe-

provvedimenti non sempre condivisi.

dale senza che lui potesse vederla. In questa maniere vuole salutare la sua amata ricordando il

Non mancano progetti socio-sanitari realizzati e portati avanti con ottimi risultati a Tradate

profondo amore che ancora li tiene uniti.

(VA) , a Milano, a Modica (RG) e dalla rete Avis della provincia di Ragusa.

La scultura di Nuccio Loreti “Mascherina Covid-19”, pensata e realizzata come auspicio di

I medici autori del testo, mettendo a nudo la propria vita, comprese le emozioni sperimentate,

speranza per un futuro Covid free.

dalla gratitudine alla rabbia, il vissuto della solitudine e della sconfitta, dimostrano che solo

Gli autori ringraziano gli artisti per aver partecipato alla realizzazione del testo permettendo

umanizzando le cure mediche ed elargendo con generosità le proprie competenze, si può af-

di utilizzare le immagini delle loro opere.

frontare anche un virus devastante come il Coronavirus, responsabile della pandemia. In questo compito di miglioramento è necessaria la collaborazione del paziente, delle famiglie e di tutta la società, affinché non sia frainteso l’atto medico, trasformando i medici da eroi a responsabili delle morti per il Covid-19 e non si finisca in tribunale per difendersi da accuse miranti al risarcimento. È davanti agli occhi di tutti quanto la società attuale sia interessata solo all’aspetto economico e di guadagno materiale in senso lato, piuttosto che alla comprensione e all’amore per il prossimo, senza differenza di età, sesso, razza o religione. Questo interesse egoistico porta alla mancanza di rispetto non solo fra gli esseri umani ma anche per la Natura, che in qualche modo si ribella con calamità di ogni sorta.


LOCKDOWN PRIMA LINEA VIRALE Esperienze dal fronte ed emozioni da casa Testimonianze coordinate dalla Dott.ssa Anastasia Carcello

Studio Byblos - editore



PRESENTAZIONE Era passato di moda guardarsi negli occhi Era passato di moda guardarsi negli occhi... Anche così potremmo definire la storia di questa pandemia, con le parole di un medico in questo testo, che ha vissuto le storie che abbiamo vissuto tutti. Ognuno l’ha vissuta col suo personalissimo colore, con la gioia della guarigione, con il dolore della perdita, anche di sconosciuti, tuttavia con la voglia di andare oltre, resi più forti dall’incredulità iniziale o dalla disperazione successiva, ma soprattutto dalla profonda coscienza di essere medici e di essere uniti per un unico fine. In questi mesi si sono ridefiniti significati sociali che sembravano persi, valori di solidarietà che pensavamo perduti: tutti hanno dato il loro contributo, chi più chi meno, secondo capacità e sensibilità. Guardare negli occhi, sì, anche la malattia e la morte ci ha reso tutti uguali, perché tutti proviamo gli stessi sentimenti; e guardarsi negli occhi tra malati e medici, tornato necessariamente fondamentale, ci ha fatto riscoprire l’eccezionalità dell’esperienza umana. Ed è diventata anch’essa terapia. DOTT.SSA TERESA SERINI Specialista in Psichiatria, docente di materie mediche Università di Ostrava, Sede distaccata di Chiasso 3


Con il Patrocinio

Gli autori e l'editore devolveranno i proventi della vendita del libro alle famiglie dei medici deceduti lottando contro il Covid, attraverso la FNOMCeO


Chi nel cammino della vita ha acceso anche soltanto una fiaccola nell’ora buia di qualcuno non è vissuto invano. MADRE TERESA DI CALCUTTA Non esiste uomo tanto codardo che l’amore non renda coraggioso e trasformi in eroe. PLATONE

Dedicato all’uomo egoista, narcisista, che si sente invincibile, immortale, che si è deificato ed ha perso la sua umanità... A questo uomo il coronavirus ha voluto insegnare la fragilità, il valore del sacrificio, della solidarietà e della compassione. Se anche un solo uomo è cambiato l’umanità ha vinto...a noi la scelta. RENATA VAIANI

Agli eroi sconosciuti e silenziosi volati in cielo senza onori che ci hanno lasciato la traccia del cammino da seguire senza paura. ANASTASIA CARCELLO

Ai donatori di sangue che neanche questo flagello è riuscito a distogliere dal desiderio di aiutare tutti i malati trasfusione dipendenti. PIETRO BONOMO

L’uomo che sta zitto sa quello che dice, chi non ha mai pianto mai sarà felice, non vincerà mai chi non ha mai perduto e chi non è mai morto mai sarà vissuto. PIERDAVIDE CARONE

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ASPETTI EMOTIVI

COVID - GIANCARLO GIUDICE 7



IN PUNTA DI PIEDI, UN FIL DI VOCE Antonella Amadori Specialista NPI - Sassari

Eccomi qui, in punta di piedi con un fil di voce, a provare a mettere su carta quello che è successo in questi due mesi. Non è un fatto individuale, per lo meno non solo, è un fatto collettivo, un taglio epocale, un punto di non ritorno, una frattura del tempo fluido che eravamo abituati a vivere. Con umiltà e con un po’ di vergogna provo di getto a buttare giù cosa è successo. Era febbraio quando distrattamente iniziavo ad informarmi su quanto accadeva in Cina, nella lontanissima Cina, sembrava non toccarci, sembrava un altro pianeta, pianeta Covid-19. Questo meccanismo dell’Altro più volte ritornerà nella mia riflessione. Noi Mondo Globale, noi che una coca-cola la trovi anche alla fine del mondo, improvvisamente pensavamo di essere distanti da ciò che accadeva a qualche check-in da noi. Ah i meccanismi di difesa!! Ce ne saremmo accorti in seguito quando gli “Altri” saremmo diventati noi, “les Italiens”. E dopo un mese di notiziari, di allarmi lontani, arriva “Mattia” a catapultarci progressivamente nei numeri esponenziali della catastrofe: “Uno, nessuno, centomila”. Siamo passati da “succede a Codogno” a “succede in Lombardia e in Veneto”, a “può succedere e accadrà”. 9


Ero spaventata, nel trance perenne di chi sembra prepararsi ad un impatto imminente. Per lavoro sono abituata a fare delle grandi meta-rappresentazioni ma ciò che stava accadendo non riuscivo a simbolizzarlo, non riuscivo ad inquadrarlo, non volevo. Dal venerdì “il caffè al bar forse non lo prendiamo”, siamo passati al lunedì LOCKDOWN globale, tutti ZONA ROSSA. Le notizie continuavano a scorrere copiose e drammatiche, notizie di malati, di morti, di infetti, non più persone, nei numeri a tre zeri sembrava perdersi la soggettività. Di fronte al Coronavirus, questo sconosciuto, noi medici cresciuti con le evidenze della medicina moderna eravamo improvvisamente fragili, impotenti e disarmati. Sono una neuropsichiatra infantile, ho studiato medicina con il desiderio di aiutare, prendermi cura del paziente, esserci e “sporcarmi le mani” (di pennarello e slime nel mio caso) nel solco della tradizione familiare. Sono figlia di medici ed il mio pensiero è subito andato ai miei genitori entrambi medici di medicina generale, soldati semplici di questa guerra senza vincitori né vinti. Loro, sicuri di trent’anni di esperienza, sembravano avere nel volto la fermezza di chi deve convincerti che sei nelle buone mani di chi sa cosa sta facendo. Io mi sono sentita un verme, ho sentito il giuramento di Ippocrate bruciare come se fosse un marchio a fuoco: dovevo fare, dovevo studiare, dovevo aiutare, avrei voluto essere sul campo, in trincea. Allora ho iniziato uno studio “matto e disperatissimo” di pubblicazioni cinesi, alla ricerca di una chiave, di una soluzione. 10


Il mio Servizio NPI bloccava tutte le visite programmate, “solo urgenze e che Dio ce la mandi buona e che ce li mandi negativi”, senza nessuna eventuale protezione individuale. I famosi DPI, sacro Graal dei tempi moderni, sono arrivati a fine marzo, recati al servizio con la stessa cura dei Magi e con la stessa rarità. Avevo paura, mi sentivo alienata, stava succedendo a me, ma lasciavo correre. In balia di questa angoscia un giorno per caso sono stata invitata al gruppo medici Covid-19, una scialuppa in un naufragio collettivo. È stato importantissimo ascoltare le esperienze dirette dei colleghi, ascoltare la prima linea di chi stava fronteggiando l’impatto che io solo temevo. Arrivavano testimonianze, reviews, utili confronti clinici, improvvisamente eravamo diventati di nuovo una classe, non più 100 ma 100.000, le specialità erano diventate un dettaglio, ognuno dava il proprio contributo per una causa unica. Nel frattempo nella mia città guadagnavamo il triste primato di essere i primi in Sardegna per numero di contagi, Sassari era prima per positivi, l’incubo si avvicinava, ne potevo sentire il fiato sul collo. Mio padre e mia madre hanno studiato le prassi, fatto le prove di vestizione così come si usa fare in una famosa festa in Sardegna, la Sartiglia: si osserva la vestizione misteriosa del cavaliere mascherato che propizierà l’andamento e le sorti dell’annata. Così nella correttezza della vestizione dei DPI si giocava il destino. E poi un giorno è passato vicino l’incubo: mio padre, lui che ha recuperato presidi e rotto i coglioni a tutti per utilizzarli cor11


rettamente, un giorno decide di fare il sierologico, d’impulso entra in un laboratorio privato e lo fa, senza pensarci... Il giorno dopo arriva il referto, io sono al lavoro, sono ad un’ora di distanza, non sono lì, non sono seduta?? Il risultato è: positivo per IGM, IGG negativo. Me lo comunica mia madre con una voce ferma, calma sdrammatizza: “Sarà un falso positivo vedrai, sono sicura, agitarsi non serve”. Lei, un faro nella notte di rotte alla deriva. Il cervello mi esplodeva, una carrellata di immagini che nelle notti precedenti avevo passato in rassegna: tutti gli scenari, panico. Ho respirato, ho respirato forte, ho pianto solo un attimo, il tempo di tornare a casa e mettermi a giocare con mio figlio di 4 anni, a cui ho il dovere di restituire un’immagine del mondo calma, sicura, ma reale. Il tempo di tornare tra le braccia di mio marito ancora stabile anche nelle tempeste più incerte, mi contiene?? “Aspettiamo, non fasciamoci la testa, andrà tutto …” “No, non lo dire, non lo posso più sentire”. Nel frattempo fissano a mio padre il tampone dopo due giorni, due giorni sospesi, di limbo, di fiato corto e risate strane, abbiamo persino organizzato una grigliata a distanza, a molta distanza (da non crederci). Poi arriva il giorno tampone “Pit Stop, fatto”, poi di nuovo ore sospese. “Babbo, come stai?”, “Sto benissimo”, “Fai Walking test, desaturi?”, “No, tutto ok…”, “Senti gli odori?”. Sento la collega del laboratorio, ci farà sapere appena possibile. Ore lunghe, pensieri ellittici... Poi finalmente il risultato: NEGATIVO, NEGATIVO!!! ma io sentivo “Il cielo è azzurro sopra Berlino”. L’istituto di Igiene lo libera. 12


Io riprendo a respirare e a pensare a quante sedute di analista mi ci sono volute per capire tutto ciò che in pochi giorni mi è stato improvvisamente chiaro. Soli?? All’inizio ci siamo sentiti soli. Poi ci siamo uniti tra colleghi, a qualsiasi ora abbiamo insieme studiato percorsi e strategie. Ho pensato di dare il mio contributo con quello che so fare, ho proposto ai colleghi in prima linea un supporto psicologico per prendere contatto emotivo con quello che stava succedendo, i racconti che ricevevo narravano di profondi vissuti di impotenza, smarrimento ma poi di progressiva fiducia, competenza, tutto questo mentre ognuno viveva l’isolamento personale da tutto per non mettere le persone amate a rischio. “Voglio stargli vicina, voglio toccare il paziente, ci sono abituata, non sopporto di non dare conforto”: questo mi ha raccontato una collega anestesista che mi narrava del suo malessere. Ci sono altri modi di essere vicini, le parole creano abbracci dello stesso calore, gli occhi dietro le visiere creano contatti veri. Il mondo fuori invece, quello negativo, si lamentava della noia, delle restrizioni, alcuni hanno iniziato a chiamare i sanitari eroi, altri a sperimentare un filo inconscio, di odio e sospetto, verso gli untori. Questa è l’umanità: una continua oscillazione tra chi più facilmente odia e chi più difficilmente ama. Ci possiamo raccontare che dal pianeta Covid-19 torneremo migliorati, edificati e nuovi, e per fortuna per qualcuno sarà persino un po’ vero, per la maggioranza invece sarà come aver vissuto un grande bluff, se la prenderanno con il governo, con il vi13


cino, con l’Altro, penseranno che fosse tutta una messa in scena per il complotto “Trend topic” della settimana e continueranno a dormire sereni nei loro lettini. Noi medici non possiamo dimenticare, non vogliamo, perché, se una cosa abbiamo imparato, è che siamo davvero una classe e che possiamo sempre contare sul collega che ti passa le sbobinature di quell’esame pazzesco o che ti salverà il culo in un turno perché insieme siete una squadra. In punta di piedi con un fil di voce, questa è la mia piccola storia.

NETTUNO-19 A BOLOGNA - ERMANNO MARCO MARI 14


NUOVA REALTÀ Carmine Spadafora Igiene e Medicina preventiva - Crotone

Tutti con la mascherina. Verde, azzurra, bianca. Ora c’è anche chi per vezzo o per comodità ce l’ha a fantasia, tricolore, a fiorellini, mimetica… ma tutti ci guardiamo negli occhi. Un po’ per riconoscerci, un po’ per sentirci vicino, accomunati da un unico sentimento, un’unica paura. Era passato di moda guardarsi negli occhi. Ormai con i cellulari e gli smartphone avevamo perso il contatto umano con la gente, con i conoscenti e gli sconosciuti. Ora invece con il volto semicoperto cerchiamo negli occhi di coloro che incontriamo solidarietà, vicinanza. Come quelli a cui manca un senso e sopperiscono a tale mancanza con lo sviluppo di altri sensi. Chi non vede, con il tatto. Chi non sente, con la vista e l’attenzione. Con questi sguardi privi di parole vorremmo comunicarci l’un l’altro le nostre apprensioni, le nostre paure, la nostra solidarietà. Niente sms, mail, abbiamo bisogno di contatti umani. Di sentimenti espressi a parole ma anche senza purché non virtuali. Come se questo cambiamento volesse insegnarci qualcosa. Come se l’umanità avesse bisogno di “umanizzarsi” veramente nel rispetto degli uni per gli altri e dell’uomo verso la natura. 15


Mai come ora siamo stati costretti a riflettere sull’importanza di certi valori fra di noi e sul rispetto della natura. Questa pandemia senza confini ci ha fatto riflettere sulla necessità di considerare ognuno di noi come cittadino del mondo intero, senza barriere, confini, differenze di razza, di religione, di opinioni politiche… ci siamo ritrovati tutti a navigare non su una nave ma su una grossa zattera in un naufragio. Stretti stretti gli uni agli altri, avvinghiati alle travi di legno, appiccicati, vicini con vicini. O ci salviamo tutti o non si salva nessuno. Siamo stati costretti a considerare la natura in maniera diversa: come una mamma che dobbiamo amare e rispettare perché l’abbiamo violata e oltraggiata e lei ha voluto farci capire a quale tragedia stiamo andando incontro. Mare, cielo, terra, aria, hanno riacquistato colori, profumi, aspetti che noi non conoscevamo. Si sono viste cose che prima per colpa dell’uomo erano nascoste, per opera del progresso. Riusciremo a ricominciare a vivere in un mondo diverso? O meglio riusciremo, memori di questa brutta esperienza, a rispettare la terra per evitare che essa si vendichi sulla nostra salute? Il sole filtra da una fessura della persiana. È fastidioso, ma mi indica il mattino. Ne sono felice. Vuol dire che è giorno, posso svegliarmi: l’incubo è finito. Ho fatto un brutto sogno: un tremendo virus contagioso aveva colpito il mondo intero… tutto era fermo… i morti non si contavano. I governi avevano dovuto, per fronteggiare i contagi, chiudere gli stati, le regioni, le città... 16


I miei figli?! Non avrei potuto vederli per tanto, quanto tempo? Non si poteva uscire. Le scuole, gli uffici, i negozi... era come essere chiusi in una bolla dove tempo e spazio si erano fermati. Chi aveva fede pregava. Vedevo in televisione file e file di camionette dell’esercito che trasportavano bare perché i cimiteri non ne potevano contenere più. Era uno strazio. Immagini di medici e infermieri in tute da astronauti venivano trasmesse dai telegiornali. Ho la fronte imperlata di sudore. Corro in bagno e mi sciacquo la faccia e poi vado sul balcone. C’è uno strano silenzio: niente vociare di bimbi che vanno a scuola, sportelli di auto, saracinesche o balconi che si aprono. Nessuno che cammina per strada. Niente, niente, niente. Un mondo addormentato, narcotizzato. Ma che succede? È tutto fermo, immobile come una cartolina. Silenzio innaturale. Non c’è un’anima in giro. Mi guardo meglio intorno: non è un incubo. È la realtà. Il mondo intero si è fermato. Quasi sembra di dover trattenere il fiato per non fare rumore. È tutto sospeso. Ma alle diciotto succede qualcosa! Siamo tutti affacciati ai balconi e alle finestre delle nostre case. Abbiamo scoperto vicini e dirimpettai che non avevamo mai visto ed ora li guardiamo come naufraghi aggrappati a tronchi in mezzo al mare. Chi mette fuori la bandiera e chi canta: gesti scaramantici o come per dire “non sei solo ci sono anche io”. 17


Persone a cui non avevamo rivolto mai uno sguardo o una parola ed ora gli diciamo: “dài, fratello, siamo ancora qui, un altro giorno è passato... ciao, ci vediamo domani”. Una nuova umanità e un nuovo rispetto verso la natura. Che non vuole vendicarsi di noi, no, al contrario. Vuole che riflettiamo, vuole che prendiamo decisioni e atteggiamenti diversi. Che proviamo a vivere meglio, circondati da spazi vivibili e salutari. La natura come madre benigna ed educatrice dei suoi figli.

ERMANNO MARCO MARI 18


RSA: BUONE NOTIZIE Bernardo Marrazzo Specialista in Pneumologia - Mesoraca (KR)

La fortuna, il buon senso, la posizione geografica e la Provvidenza hanno lavorato insieme per un risultato finale incredibile: zero contagi nella nostra RSA, in un periodo in cui i bollettini nazionali davano cifre allarmanti di anziani deceduti per la pandemia in corso. Da anni presto servizio come dirigente medico in una RSA calabrese di 58 posti letto convenzionati, e tutti gli inverni trascorsi ho visto i nostri ospiti anziani ammalarsi di influenza, malgrado avessero fatto il vaccino nei tempi stabiliti. Gli anziani, di solito, hanno di base altre patologie, dal diabete all’ipertensione arteriosa per citare solo le più frequenti, per cui le risposte immunitarie sono in parte compromesse. Inoltre, per le loro patologie, l’assunzione ripetitiva dei farmaci, non priva di effetti collaterali, interferisce con la funzionalità degli organi, soprattutto dei cosiddetti emuntori, fegato e rene. Per questo con la popolazione geriatrica bisogna essere molto cauti nella somministrazione di nuovi medicamenti. Come tutte le strutture sanitarie, già all’inizio dell’inverno eravamo preparati ad un’ondata influenzale massiccia e quindi avevamo predisposto alcune precauzioni per limitarne la diffusione, che poi si sono rivelate utilissime per impedire il contagio del 19


Covid-19. Fin dal febbraio 2020, un mese prima del lockdown, la Direzione Sanitaria della struttura, dopo alcune riunioni dei dirigenti medici, aveva approvato una norma transitoria che impediva l’accesso alla RSA ad estranei e soprattutto ai parenti, per proteggere gli ospiti, sempre troppo predisposti al contagio. In aggiunta si è sensibilizzato il personale sanitario, a cominciare dagli OSS (operatori socio-sanitari) sulla necessità di una perfetta igiene delle mani, così sono stati dislocati dispensers di gel disinfettanti in punti strategici di accesso sia alle camere che ai locali di uso comunitario e guanti mono-uso dappertutto. Le mascherine accumulate negli anni precedenti e quelle ordinate quando si era diffusa la notizia dell’esteso contagio a Wuhan, in Cina, sono state molto utili nel successivo periodo di carenza generalizzata. Pur non avendo preso decisioni particolari, ma con semplice prudenza e condivisione delle norme igieniche siamo riusciti a tenere lontano il Covid-19. Preciso, inoltre, che nei casi sospetti è stato fatto il tampone naso-faringeo, in particolare 33 tamponi sono stati eseguiti sul personale in servizio, dotato sempre di mascherina. Altri 12 tamponi sono stati effettuati in ospedale o privatamente dagli ospiti prima di essere ricoverati in ospedale e poi trasferiti in RSA. Infine sono stati fatti i tamponi anche al personale che rientrava in servizio dopo la cassa integrazione. Non è stato sempre facile mantenere il giusto equilibrio emotivo per affrontare la quarantena soprattutto in famiglia, dove il timore del contagio era sempre presente. La reclusione forzata, periodo complesso sotto vari aspetti, si è rivelata anche una 20


grande opportunità per noi esseri umani, per lo meno per chi non ha l’abitudine di criticare, di manipolare gli altri, di essere sempre in una posizione negativa e di trascinare chi ascolta in un stato emotivo inquieto. A me, personalmente, la solitudine, o meglio l’isolamento, il silenzio e l’assenza di confusione nelle strade, hanno fatto scoprire le cose più piccole, trascurate da sempre. Vedere le prime piccole foglie e le gemme sugli alberi che si svegliavano dal torpore invernale, ascoltare Mozart mentre leggevo notizie allarmanti sulle RSA del nostro Paese, sentire il profumo dell’erba fresca o dei cibi durante la cottura, assaporare con gusto una pietanza che mi ricordava le tradizioni culinarie della mia famiglia d’origine e ringraziare di essere in vita ed in salute insieme ai miei, per poter apprezzare tutte queste piccole/grandi cose dell’esistenza umana. Piano piano sono andato alla ricerca di me stesso, come se tutti questi anni vissuti tra famiglia e lavoro frenetico mi avessero tolto il tempo o la capacità di riflettere più a fondo, per capire davvero le priorità della vita. Bisognava andare alla ricerca del punto zero, resettare tutto e cominciare a dare il giusto peso alla Natura, alla bellezza, a tutto ciò che non può essere comprato con i soldi, come l’amore incondizionato e l’amicizia vera. Essere finalmente consapevoli di ciò che è utile rispetto all’inutilità, come ad esempio alcuni comportamenti meccanici introiettati nel tempo per la buona convivenza sociale, ma del tutto inutili al nostro equilibrio psico-fisico e dannosi alla nostra serenità. 21


In questo contesto di timore del contagio e di maggior consapevolezza della morte incombente, vista nelle ripetute immagini in TV dei tanti deceduti negli ospedali, nelle RSA e nelle altre Nazioni, si sente il bisogno di ringraziare la Provvidenza per la famiglia che abbiamo, per ogni singolo atto affettuoso che riceviamo, per la coscienza e l’intelletto che ci permettono il buon discernimento. La fiducia che la scienza, gli studiosi e la condivisione delle ricerche nel mondo porteranno a contrastare con armi idonee questo virus, mi dà la carica per affrontare le responsabilità quotidiane con i miei pazienti anziani nella struttura e i doveri familiari in casa, sfidando la paura della pandemia.

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LE EMOZIONI IN QUARANTENA Anastasia Carcello Specialista in Radiodiagnostica e Psicoterapia - Bologna

Hanno provato in tanti a chiudermi la bocca, senza successo, usando ricatti affettivi e di potere oppure denigrando apertamente il mio operato. In molti hanno più volte tentato di trasmettermi la paura che albergava in loro da sempre, con emozioni distruttive e scenari futuri catastrofici, senza mai riuscirci. Quando esprimi con sincerità i tuoi pensieri provochi quasi sempre una reazione negativa in chi ti ascolta, soprattutto se si tratta del familiare o dell’amica/o a cui tieni di più. In pochi sono disposti ad accogliere, comprendere, rispettare e accettare un pensiero o un comportamento diverso dal sentire comune. Per modificare le consuetudini, spesso non condivise, bisogna avere il coraggio delle proprie idee e delle proprie azioni, affrontando la possibilità di sbagliare ed il timore del giudizio. Per questo devo ricordarmi sempre della mia Anima superiore, ascoltare la voce della coscienza connessa con la mia spiritualità, respinta dalla mente razionale e misconosciuta dalla maggior parte degli esseri umani. In tal modo si possono annullare gli automatismi comportamentali, nati dal condizionamento sociale, familiare e religioso, di cui la sfera economica rappresenta la spinta propulsiva. 23


È difficile, ma non impossibile, che le persone cambino per via degli ostacoli o grazie all’esperienza e neppure per la quarantena. Quando si verifica un cambiamento volto alla vera comprensione della vita si tratta di un miracolo che compie l’anima, decisa ad una evoluzione spirituale. In questa quarantena tante emozioni si susseguono in noi esseri umani, senza il tempo necessario per focalizzarle una per volta, si accavallano per non lasciare lo spazio temporale alla riflessione e all’analisi. La prima sensazione è lo sgomento. Ma non riesco a chiamarlo paura dell’incognito, per cui lo trasformo in silenzio mentale di colore bianco, in modo tale che l’assenza di colore inondi il mio cervello e copra i miei pensieri come una coltre di neve. Il clima sereno, l’aria pura e il silenzio assoluto evocati producono uno stato di quiete mentale, lontana dal cicaleccio dei pensieri disordinati e dalle inquietanti notizie quotidiane. Non tranquillizza per niente il non sapere come affrontare il virus, tanto che neanche gli esperti lo sanno fino in fondo. Si diventa consapevoli che la scienza e la medicina non ci proteggeranno dal contagio né dalla morte, soltanto i dispositivi di protezione individuale, come le mascherine, l’isolamento forzato e l’igiene, soprattutto delle mani, fermeranno quel bastardo, almeno fino a quando non ci sarà una terapia mirata. Al momento non ci sono farmaci in grado di debellare questo nemico all’esordio, così lui avanza indisturbato tra le persone, 24


spostandosi da una casa all’altra, cionondimeno si spera in un possibile vaccino futuro. Ecco perché mi concentro su quello che devo fare: accudire la mia nipotina di un anno, cucinare per tutti e fare quelle cose banali domestiche che ci aiutano a vivere e sopravvivere con dignità, sopratutto in questa quarantena. Sono la più vecchia in casa e i giovani mi vogliono proteggere per il rischio legato all’età e alle mie patologie di base, quindi non esco assolutamente e per fare la spesa si alternano i giovani, marito e moglie, mentre io rimango ad ingannare il tempo dilatato ed i pensieri negativi. Escogito lavori non importanti da portare a termine entro una data prefissata, perché gli impegni vanno mantenuti, così comincio a ricamare, anche se non sono un’esperta, e a cucire, da dilettante, tovaglie artigianali che una volta terminate mi danno l’idea del tempo trascorso, come faceva Penelope. Sono convinta che sia importante mantenere la manualità e l’attenzione in queste circostanze anomale e ascoltare musica classica o leggera, purché stimoli sensazioni gradevoli. Le settimane si susseguono con un ritmo cadenzato, pare di essere in caserma a volte, la mattina principalmente, quando l’alternanza della toilette e della colazione precede la pulizia della casa e la preparazione dei pasti. Subentra a tratti la rabbia nella mente, colore rosso fuoco, sensazione distruttrice che pervade ogni gesto ed ogni parola detta. Provoca la lite, scatena l’intolleranza e crea un’atmosfera elettrica, allora bisogna fermarsi, respirare a fondo, meglio andare 25


in terrazzo e se puoi urlare, urla più che puoi, altrimenti inspira ed espira a fondo. Intanto poniti qualche domanda: Chi sono? Come mi chiamo? Che faccio qui? Quando finirà quest’incubo? Ho alternative? E poi silenzio... Respiro profondo. La risposta arriva da sola: sono viva e sto bene! Mi posso muovere e allora... vado a preparare un dolce per tutti!!! Bisogna combattere quel senso di abbandono che sconfina nel senso di incomprensione e di severo giudizio. Sentirsi ferita dalle parole e trascurata, non solo dagli amici e dalle amiche, o dai familiari lontani, ma sopratutto da chi è vicino, vicinissimo, che sta condividendo la quarantena insieme a te. Questa sensazione esclude la sua gemella: l’abbandono che sente anche chi ti vive accanto, la delusione che prova di fronte alle tue risposte astiose, non allineate sul filo dell’affetto e della comprensione. Capisci allora che i tuoi pensieri e le tue paure non appartengono solo a te, ma sono ugualmente sentiti da chi ti sta vicino e cerca di nasconderli per proteggerti. Ti deprime, saltuariamente per fortuna, la presunzione di crederti più infelice degli altri in questa segregazione, perché non puoi uscire neanche per andare in farmacia e hai tanta voglia di passeggiare a lungo in un parco verde. Scarseggia il sole in queste vie strette tra vecchi palazzi del centro cittadino, lo si può inseguire dal mattino al tramonto dalla finestra in orari precisi per guardarlo per poco, ma quanto basta per riceverne calore e coraggio. 26


Basta uno starnuto in più durante il giorno oppure un movimento accelerato dell’intestino per pensare ad un contagio virale e piombare nel timore della malattia e della morte, anche se da giorni ormai non si hanno nuovi contatti vivendo reclusi dall’inizio della quarantena. Alla sera, poi, quando vado a letto a volte mi chiedo se sono pronta a morire e cosa immagino che succeda dopo. La morte è una delle poche cose certe nella nostra vita, nessuno è immortale, quindi non la si può evitare. Dopo tanti pensieri, dubbi, seminari e ricerche anche fantastiche sulla morte e sull’altra dimensione, ho ancora paura del dopo? La mia Fede mi sostiene? Mi vengono in mente i miei genitori, mia nonna, mio fratello, le persone che ho molto amato e non ci sono più e le ringrazio perché sono proprio loro a rimuovere la paura della mia morte: in fondo si tratta di un semplice trasferimento di energia da viva a morta, attraverso una finestra che si aprirà su un luogo luminoso dove non sarò mai sola, come lo sono stata, a volte, da viva. Finalmente approfitto di una evasione dalla prigione, la casa di mia figlia, grazie ad un week end in libera uscita, che trascorro in solitudine completa nella mia abitazione in mezzo al verde, per mettere in ordine i miei pensieri e i miei sentimenti. Siamo sempre tutti pronti a giudicare e a pontificare sull’operato degli altri, ma poco inclini al giudizio sulla nostra condotta. Non si riesce a decodificare le nostre paure, spesso non consapevoli, che condizionano in modo negativo il nostro comportamento. 27


Sappiamo bene che siamo di passaggio in questa vita terrena, dove tutto è impermanente e prima o poi torneremo alla fonte o meglio alla casa del Padre, questo però non ci aiuta per niente a migliorare la nostra condotta sulla terra. Neppure adesso che, come se fossimo in guerra, ascoltiamo i comunicati giornalieri di circa 700 morti al dì a causa del coronavirus. Mi rattrista il pensiero di tutte le persone contagiate curando i malati, come i medici e gli infermieri deceduti in servizio, mentre io continuo a stare su questa terra senza più molto entusiasmo e sarei già pronta a decollare per l’oltretomba, reputando che il mio tempo migliore sia passato e sperando di aver attuato almeno in parte lo scopo della mia vita. Persistono, tuttavia, due desideri maturati meglio in quarantena da realizzare con la buona volontà di tutti ed in particolare della classe medica: il primo riguarda la correttezza professionale fra noi medici. Vale a dire educazione e maggior rispetto fra colleghi, smettendo di sparlare e denigrare gli altri, soprattutto alle spalle. I motivi possono essere diversi, veri o falsi, ma tutti mirano allo stesso risultato: guadagnare prestigio e maggiore stima oppure trarre utilità materiale. Non si rispettano più i pareri diversi dal nostro nella gestione di una malattia o di un percorso organizzativo, quindi si reagisce d’impulso, senza connettere la lingua al cervello né pensare alle conseguenze. Di sicuro a nessuno di noi piace ricevere lo stesso trattamento di critica o giudizio negativo espresso in pubblico, a meno che 28


non siamo convinti di essere talmente bravi da non dover mai sbagliare e quindi nessuno potrà disapprovare il nostro operato. Il comportamento irrispettoso è particolarmente deleterio soprattutto se fatto in privato al paziente che chiede la nostra consulenza, dopo essere stato dal suo medico di base o da un altro specialista. È più facile essere bravi “dopo”, approfittando del percorso, dell’interpretazione e dell’errore altrui, intascando poi i meriti quando si arriva alla diagnosi corretta per esclusione. Dimentichiamo spesso che parlando male di un collega in ogni circostanza si decreta la sfiducia nella classe medica e l’effetto negativo diventa un boomerang. Se non si condivide l’operato di un collega, conosciuto o sconosciuto che sia, potremmo comunicare direttamente con lui per telefono, mail o altro e con onestà dire ciò che pensiamo. Ma questo percorso richiede tempo, buon volontà e l’umiltà di affrontare un problema che secondo noi è stato già risolto dalla nostra “competenza” . Il secondo auspicio da condividere con tutti i medici, soprattutto con i consulenti legali, è la depenalizzazione dell’atto medico. Non si può continuare a lavorare con la paura della denuncia, seguendo solo i dettami della medicina difensiva che pone in secondo piano il buon senso e l’intuito clinico. Questo comporta un maggior consumo delle risorse economiche mediante richiesta di ulteriori accertamenti con esami strumentali costosi e non sempre necessari che allungano i tempi per la diagnosi e per l’impostazione terapeutica. 29


Proseguendo in questa maniera in futuro ci saranno sempre meno medici a prendersi cura dei malati e più avvocati a difenderli per malasanità. In tal modo le assicurazioni diventeranno più costose mentre i pazienti troveranno di continuo un motivo per denunciare il sanitario di turno solo per avere un risarcimento. Non dimentichiamo la depressione e la voglia di non lavorare più come prima che i medici vivono dopo una qualsiasi denuncia. Ricordo con tristezza il collega che si è suicidato per una condanna ingiusta. Riflettiamo bene su questo argomento, visto che da eroi i sanitari rischiano di diventare “colpevoli” delle tante morti da Covid-19. Questa pandemia può insegnarci ancora tante cose a cui prima non si dava peso. Ogni lezione è indirizzata a chi deve cambiare per l’indegno comportamento verso gli esseri viventi e la Natura, purtroppo si sa che chi dovrebbe migliorare non comprenderà. Una delle tante considerazioni in periodo di Covid-19 riguarda il valore che diamo al denaro con accezione positiva e negativa. Resta sempre una fonte energetica indispensabile al vivere umano, ma in questa circostanza il denaro dimostra la sua inefficacia a chi ne ha troppo, soprattutto se guadagnato con poca trasparenza: la pandemia non differenzia il miliardario dal senzatetto e non servirà ad evitare il contagio con le sue gravi conseguenze né ad eludere la quarantena. Il Coronavirus ci insegna inoltre che tutti abbiamo paura di morire affamati: il nutrimento 30


diventa una priorità essenziale ed imprescindibile, tale da giustificare provviste alimentari esagerate per il timore che all’improvviso vengano a mancare. Tuttavia fare la spesa ogni giorno è l’unico motivo che permette di uscire di casa e pur di rompere per poco la quarantena si comprano alimenti che mai avremmo comprato prima della pandemia. Abbiamo imparato anche quanto sia importante la famiglia, proprio in quest’epoca in cui i divorzi, le separazioni e la partenza dei figli per altri lidi hanno ridotto il nucleo familiare ad un’unica persona, spesso anche portatrice di qualche patologia. La solitudine in tale frangente può non essere avvertita perché già avvezzi da tempo a vivere da soli. Al contrario chi in famiglia vive rapporti ambigui, con partner distanti emotivamente o con figli ribelli e genitori inflessibili, rimanere vicini giorno e notte può scatenare momenti di insofferenza reciproca con la possibilità di sfociare in litigi violenti. Da includere anche i maltrattamenti, aumentati nella quarantena, sui familiari più fragili, che fanno meglio intuire quanto la famiglia possa essere un luogo malsano di sofferenza nascosta, pure in tempi normali. Aumenta o diminuisce la nostra fede durante la fase più contagiosa del Covid-19? Si prega e si medita di più insieme ad altri online. Non potendo andare nei luoghi di culto, si organizzano sul web preghiere, meditazioni, approfondimenti sui Vangeli, sulla spiritualità e sullo scopo della nostra vita. 31


Potrebbe sembrare una delle tante maniere per passare in modo diverso il tempo in casa, ma in realtĂ quasi tutti questi incontri spingono alla riflessione individuale, per questo anche io ho seguito alcuni gruppi specifici ritenendoli utili allo Spirito.

CORAGGIO - ALAIN HARVET 32


2020 ANNO MEMORABILE Mariantonia Altimari Specialista in Psichiatria - Crotone

Nei primi mesi di quest’anno bisestile, 2020, abbiamo vissuto un periodo inaspettato, che resterà nella memoria storica per sempre, a causa di una pandemia da Coronavirus, responsabile del Covid-19, grave affezione che in breve tempo ha determinato moltissimi decessi in tutto il mondo. La paura del contagio, all’inizio sottovalutato, ha cambiato il nostro modo di vivere, a cominciare dalle abitudini sociali. La quarantena obbligatoria ci ha impedito di incontrarci come prima, sia con i parenti che con gli amici: niente più cene conviviali o aperitivi né appuntamenti al cinema tutti insieme. Finanche le palestre e i centri di fisioterapia sono stati chiusi. Banditi gli abbracci e perfino stringerci la mano non era più possibile, nemmeno quando ci incontravamo negli unici luoghi frequentati come il supermercato o la farmacia, rigorosamente con la mascherina. In questi due mesi di reclusione forzata non abbiamo potuto comunicare dal vivo con le persone care per raccontarci la nostra quotidianità e condividere il disagio del cambiamento improvviso. Era stata emanata dal governo nell’intento di evitare l’ulteriore diffusione del virus una serie di decreti per regolamentare le uniche uscite da casa. 33


Si poteva uscire esclusivamente per rifornirsi di viveri o di medicinali. Erano stati chiusi tutti i negozi di abbigliamento, di scarpe, le profumerie, le librerie ecc. con gravi danni economici alle attività commerciali. Pure gli uffici statali e parastatali erano stati chiusi e si lavorava da casa online. Sono stati fermati tutti i mezzi di trasporto, dagli aerei, treni, autobus, ai veicoli privati, circolavano solo i furgoni delle derrate alimentari, dei farmaci e delle consegne a domicilio. Gli unici luoghi dove si lavorava più del solito erano gli ospedali e gli ambulatori dei medici di base, rimasti tutti aperti a fronteggiare l’emergenza Covid-19. Gli operatori sanitari, soprattutto medici ed infermieri, all’improvviso hanno realizzato che il tempo non era più sufficiente per seguire adeguatamente la marea di ammalati che si accalcava al Pronto Soccorso. Combattevano senza armi contro un nemico sconosciuto ed invisibile con il rischio di contagiarsi e di portare in famiglia il Covid-19, e spesso raddoppiavano il turno senza tornare a casa. Anche io, medico specialista in Psichiatria attualmente in pensione, ho vissuto questo periodo critico con particolare timore in quanto moglie di un MMG ancora in servizio. In questa circostanza ho sperimentato da vicino la paura del contagio attraverso mio marito, che tutte le mattine si recava al suo ambulatorio, dove lo attendevano almeno dieci pazienti, di età avanzata. Come tutti, anche lui, lavorando ininterrottamente senza supporto delle istituzioni né direttive ministeriali, aveva fatto i conti con il pericolo reale del contagio. 34


Privo all’inizio di DPI e di linee guida da seguire, senza perdere altro tempo e d’accordo con i colleghi, ha deciso di provvedere autonomamente al rifornimento di mascherine, gel disinfettanti, camici monouso e guanti usa e getta per salvaguardare l’integrità propria, dei familiari e dei pazienti. In breve io avevo superato ogni limite, diventando quasi maniacale, tanto era l’apprensione per il contagio e la preoccupazione di evitarlo. Non facevo altro che pulire continuamente la casa, le mani, disinfettare tutto quello che si toccava al rientro in casa, lavare gli indumenti indossati, lasciare sempre le scarpe fuori dalla porta dell’appartamento, mettere le borse della spesa in terrazzo per lavarle subito dopo. Escogitavo altri accorgimenti mai pensati prima nel timore di aver portato dall’esterno oggetti contaminati. In casa io e mio marito mantenevamo le distanze, soprattutto durante i pasti e quando vedevamo la TV e la notte non si dormiva più insieme, camere separate tanto da sembrare quasi estranei. Tuttavia ci univa come non mai l’angoscia, la paura e la preoccupazione per nostro figlio fuori sede, da solo, rimasto bloccato a 1000 km di distanza dalla quarantena che imponendo a tutti di restare a casa, impediva i viaggi. Avere a che fare con tante emozioni non espresse faceva perdere l’armonia fra noi e a volte l’atmosfera diventava elettrica, per la prevalenza dell’irascibilità sulla vulnerabilità. Entrambe giocavano con il nostro umore, sempre più instabile. Mi sforzavo di mantenere un’aria sicura e fiduciosa ma non sempre ci riuscivo e a volte l’incertezza del futuro mi angustiava 35


oltre misura. Nonostante tutto arrivava la sera, malgrado le giornate sembrassero interminabili, per fortuna potevamo continuare a comunicare con nostro figlio. Stressati andavamo a letto sempre più tardi, sperando di addormentarci presto per la stanchezza non solo fisica, ma di fatto le notti erano spesso insonni. Quando uscivo per fare la spesa avvertivo una sensazione strana, come di smarrimento, nel vedere le strade vuote, i negozi chiusi. La difficoltà di riconoscere le persone amiche con la mascherina quando mi salutavano acuiva il mio senso di disorientamento. Anche restando chiusa in casa, come tutti del resto, il silenzio delle strade, mai sperimentato prima, e l’atmosfera ovattata della città una volta rumorosa, mi facevano pensare che fuori dal balcone o dalla finestra non ci fosse più niente, come se fosse imminente la fine del mondo e questo mi angosciava ancora di più. Il martellamento continuo della televisione nel dare tutti gli aggiornamenti dell’andamento della pandemia, specificando il numero dei ricoverati, dei contagi, dei decessi, dei degenti in terapia intensiva, ecc. era diventato peggio di un bollettino di guerra. Per completare il senso di impotenza e alimentare la paura della morte, i telegiornali riproponevano più volte al giorno la visione di scene orribili, provenienti dall’obitorio dell’ospedale di Bergamo, la città più colpita dal Covid-19. Quei morti chiusi nei sacchi neri per terra, i 300 camion dell’esercito utilizzati per trasportare le salme in altre città per cre36


marle, mi hanno ricordato l’impotenza dell’uomo e della medicina in particolare, creando nella mia mente immagini incancellabili, che resteranno impresse per sempre. Nello stesso tempo, in questo periodo, la tecnologia dei cellulari e dei tablet ci ha supportato e permesso di vederci grazie alle videochiamate. La consolazione di vedere nostro figlio, rimasto a Bologna, i fratelli, i parenti, le amiche e gli amici tutti lontani, ha alleviato le nostre ansie e i nostri timori. Questi due mesi di quarantena ci hanno fatto vivere un’esperienza emotiva unica, che ci ha segnato profondamente e rimarrà impressa per tutta la vita.

ABBRACCI GHIACCIATI - ALAIN HARVET 37


ESTATE ANTICIPATA A CROTONE IN QUARANTENA Ermanno Daniele Scienze infermieristiche 118 - Crotone

Oggi sembrava la solita giornata lavorativa in piena estate... A Crotone l’estate arriva presto, tanto che è facile vedere la gente in spiaggia a prendere il sole e i più audaci addirittura fare il bagno in mare. Invece siamo ancora a fine marzo dell’anno 2020 in piena quarantena, al termine di un turno lavorativo diverso dal solito, che ormai sfortunatamente sta diventando una routine. Oggi, in questo periodo particolarmente critico, noi operatori sanitari ci sentiamo chiamare “eroi” e la cosa dovrebbe procurarci piacere ed orgoglio, invece paradossalmente rimpiangiamo i vecchi tempi, quando eravamo denigrati e chiamati “gli imboscati con il posto fisso” o denunciati per malasanità. Oggi tardiamo ad intervenire alle chiamate dei soccorsi perché dobbiamo aspettare i tempi tecnici di completamento della sanificazione dell’ambulanza e delle attrezzature appena utilizzate, inoltre abbiamo bisogno di altro tempo per indossare questa scomoda armatura necessaria per affrontare un nemico invisibile. Ma nonostante tutto le persone ci ringraziano appena arriviamo sul posto e pur tuttavia ci mancano i vecchi tempi, quando prendevamo qualche insulto anche se eravamo solerti ad arrivare prima possibile. 38


Oggi i pazienti ci chiamano per lo stesso motivo, hanno tutti i medesimi sintomi: tosse, febbre e difficoltà respiratoria e nondimeno ci mancano i vecchi tempi quando il motivo del soccorso era alquanto vario. Oggi quando le persone ci incontrano, anche gli amici e i parenti, fanno finta di non vederci oppure si allontanano subito ad una distanza prudenziale, perché sanno che lavorando in Sanità (ospedale e ambulanza) possiamo essere portatori del Coronavirus e per questo ci mancano i vecchi tempi allorquando la gente voleva stare con noi non perché abbiamo il posto fisso, ma perché si fidavano del nostro servizio e ci stimavano davvero. Una cosa non è cambiata! Oggi come ai vecchi tempi siamo i primi ad avere il contatto diretto con il paziente sul territorio in questa quarantena, senza sapere se sono portatori di Coronavirus o no, quindi se positivi, debolmente positivi (scarsa carica virale) o negativi. Da qui la necessità di proteggerci usando i DPI per evitare di essere contagiati anche noi e portare poi il virus nelle nostre case. Ma il problema vero è che tali dispositivi protettivi non sono sempre disponibili, anzi erano completamente insufficienti all’inizio della quarantena. Oggi si parla di Guerra al COVID-19, ma tutti sappiamo che nelle guerre si eseguono gesti sconsiderati e disumani, invece il COVID-19 è una malattia che va curata e non combattuta. La malattia colpisce persone che diventano fragili, che soffrono anche per l’isolamento e l’impossibilità di vedere i propri cari. 39


Proprio per questo noi operatori sanitari dobbiamo star loro vicino e consolarli fino all’ultimo respiro, specialmente quelli che non ce la faranno. Oggi però, una guerra c’è davvero, siamo noi operatori sanitari che combattiamo per avere sempre i dispositivi di protezione individuale e i protocolli soprattutto per i percorsi e per le linee guida, in modo da ottenere una organizzazione efficiente e protettiva per noi stessi e per i pazienti!

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OCCHI Tiziano Zurlo Specialista ORL - Milano

Il silenzio del reparto è rotto da un grido: ”Aiuto mamma!” Una piccola fragile donna, attaccata all’ossigeno, ormai in fase pre-terminale, si aggrappa alla persona a lei più cara. Le infermiere controllano lo stato della paziente e si rendono conto che qualcosa non va. Entro nella stanza e mi accorgo che la piccola donna ha uno sguardo diverso, intenso, acceso. È la voglia di vivere, la richiesta di aiuto alla persona più cara. Tutto tace e tutto torna nella tranquillità. Finisco il turno. Due giorni dopo chiedo della paziente, che respira male ma ha quella strana espressione negli occhi, non parla e non si muove. È la stessa espressione che ha un bimbo alla nascita, alla ricerca del mondo. Quanta dignità, quanta voglia di vivere nella consapevolezza del passaggio. Quegli occhi non li dimentico e mi rendo conto che talvolta più delle cure, un gesto appropriato accompagna il distacco. Ora l’emergenza si è assopita, ognuno è tornato alla routine pensando che tutto sia finito. 41


Ma quante volte ancora il grido “mamma” associato ad uno sguardo intenso trafiggerà il mio sguardo. È la vita che scorre che ti insegna e segna il tuo cammino.

RAPACE - ALAIN HARVET 42


DIARIO DEI PRIMI GIORNI COVID-19 Ombretta Grassi Specialista in Nefrologia Medicina Interna - Provincia di Milano

Sono un medico ospedaliero, specializzata in nefrologia, e come tutti i miei colleghi sono stata investita dallo tsunami provocato dal coronavirus. Vivo e lavoro nel Nord Italia, in provincia di Milano, una delle aree più calde per la Pandemia del COVID19. La mia storia ha inizio il 20 febbraio, quando mio figlio mi comunica che è stato confermato il primo paziente COVID-19 positivo a Codogno ed io che gli rispondo “…è finita!”. Certo, è arrivata la fine delle abitudini. Nonostante tutto quello che si possa dire, il COVID-19 ha cambiato la vita, il modo di pensare, di relazionarsi e le priorità di ognuno di noi. Ha imposto le sue regole, mettendoci nelle condizioni di accettarle. Il 24 febbraio ero di turno in ambulatorio mentre i vertici del nostro ospedale cercavano di concretizzare le corrette disposizioni per la tutela degli operatori sanitari stessi e dell’utenza, tuttavia tutto era così confuso e incerto, quasi surreale. Tante domande ma nessuna o poche risposte, per lo più teoriche. Dovettero passare, però, solo alcuni giorni per scontrarmi direttamente con Lui, il Covid-19. Il primo paziente del nostro territorio è stato da me accolto in pronto soccorso, in condizioni critiche. 43


Non potrò mai dimenticare quegli occhi terrorizzati ed imploranti “Dottoressa, non respiro…a fiadi minga..”, mentre io e i miei colleghi prestavamo i primi soccorsi per stabilizzarlo, muniti di semplici mascherine chirurgiche. Il paziente, malgrado i presidi terapeutici messi in atto, dopo pochi giorni morì, lasciandomi un senso di sconfitta e di incertezza. Il destino volle che nessuno di noi sanitari contrasse il Covid-19 in quella circostanza. Nella mia vita professionale ho gestito molte insufficienze respiratorie, ma questa era “diversa”, tanto che questa “diversità” ha trasformato la nostra attività quotidiana in una battaglia continua: eravamo in trincea, in prima linea, e senza armi adeguate. Da questi primi giorni, i successivi sono stati un rincorrersi di eventi, a cominciare dall’osservanza delle nuove disposizioni emanate dalla DS, che si incalzavano, si modificavano e a volte si contraddicevano, fino alle iniziative personali che ogni medico mise in atto per i propri pazienti, per la loro tutela. Era una battaglia dura e complessa, ciò nondimeno noi andavamo avanti. Abbiamo visto la morte con gli occhi ogni giorno ed ogni giorno ci spingevamo oltre, impegnandoci sempre di più e su più fronti differenti e difficili. Abbiamo avuto esperienza diretta di un ventaglio Covid-19, comprendente situazioni diverse e manifestazioni cliniche disparate, in cui si doveva prendere attimo per attimo la decisione migliore possibile, consapevoli che non sempre era sufficiente. Abbiamo scritto noi, con i nostri pazienti e purtroppo con le vittime, quasi tutto ciò che oggi si conosce del Covid-19. Il mio reparto era COVID free, anche se il “free” era alquanto 44


relativo, perché non veniva fatto a tutti i pazienti il tampone nasofaringeo, soprattutto all’inizio della pandemia, poi si cominciò a farlo più spesso, anche se scoprimmo che a volte la negatività del tampone non escludeva la malattia in atto. Come referente del mio reparto mi occupavo anche di pazienti fragili sul territorio, con patologie croniche. Questi ammalati venivano seguiti periodicamente con visite ambulatoriali per limitare il ricovero in ospedale, ma durante la quarantena è stata sospesa tutta l’attività ambulatoriale. Pertanto per continuare a monitorarli fu deciso di comune accordo di utilizzare la telemedicina. Un progetto utile alle famiglie e a noi sanitari, che potevamo controllare la salute dei pazienti verificando la terapia e programmando ulteriori esami a breve, se indispensabili. Il successo di questo progetto me lo confermò un paziente, quando mi riferì che da mesi non aveva mai visto così spesso suo nipote come in quei giorni. Difatti erano proprio i familiari ad aiutare i pazienti più anziani con video chiamate e chat, per metterli in contatto con noi e per condividere eventuali modifiche terapeutiche. È stato un ottimo lavoro con ottimi risultati: solo per un paziente fu necessario il ricovero, mentre tutti gli altri sono rimasti al proprio domicilio. Abbiamo vissuto un’esperienza dura che ha messo a dura prova ognuno di noi. Per questo quando leggo delle denunce a carico dei medici per le morti da Covid19, mi viene voglia di gridare e piangere la mia rabbia. Perché nessuno dei camici bianchi si è mai tirato indietro. Eravamo lì, in prima linea, con tante paure, con tanti dubbi, con nottate passate a chattare con altri colleghi per condividere o discutere su 45


terapie nuove o vecchie, capire i loro e i nostri successi o sconfitte, e alimentare la speranza che davvero sarebbe finita presto questa pandemia. A ciò va aggiunto il tempo sottratto al sonno per leggere le ultime riviste e le nuove pubblicazioni sulle terapie più idonee da utilizzare come armi vincenti sul Covid-19. Eravamo lì. Presenti a noi stessi, al giuramento di Ippocrate, che abbiamo fatto anni prima. Ognuno di noi, tutti i sanitari, sono stati profondamente colpiti dagli eventi clinici e dalla responsabilità etica e morale dei nostri malati. Abbiamo perso più colleghi in tale pandemia che militari in questi anni di pace, ma tuttavia non ho visto nessuna bandiera a mezz’asta per le vittime innocenti, per i veri guerrieri del Covid-19. Ma questa è una riflessione personale e nel mio cuore “nessuna croce manca”. Abbiamo vissuto quei giorni con coraggio e determinazione e nonostante la persistente minaccia di essere infettati e di portare a casa il “mostro” ai nostri cari, nessuno ha esitato nemmeno una frazione di secondo. Tutti presenti, solidali con i colleghi, e vicini alla forza della disperazione dei familiari che per essere tutelati sono stati tenuti lontano dai propri cari. Abbiamo però condiviso con loro l’angoscia di vedere i nostri pazienti, soli in un letto, senza gli affetti di sempre. Di quei giorni resta un ricordo freddo, trafittivo, perché noi tutti sappiamo che potrebbe tornare. Avevo solo 12 anni quando scrissi in un tema “un camice bianco, un ospedale, ed io con i miei malati”.

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LA MIA VITA DIVERSA DURANTE L’EPIDEMIA DA COVID-19 Rosaria Nigro Pediatra - Belvedere Marittimo (CS)

Sono una pediatra ospedaliera, ho cinquant’anni ma, restando sempre a contatto con i bambini, fortunatamente ne dimostro di meno. Lavoro presso l’Unità Operativa Complessa di Pediatria in un ospedale spoke della Calabria con altri quattro colleghi, oltre al direttore. Agli inizi di febbraio di quest’anno, 2020, quando andai a prendere mia madre all’aeroporto di Lamezia Terme, mi stupii nel vedere molte persone con la mascherina. Fu la prima volta che misi a fuoco il problema del contagio. Sapevo che da gennaio, in Cina, era presente nella città di Wuhan un’importante epidemia di tipo H1N1 (simile a quella del 2009), provocata dal coronavirus, ma non l’avevo ritenuta un grave problema, per cui mi sembrava eccessiva questa precauzione. Da lunedì 24 febbraio, purtroppo, il Coronavirus iniziò a diffondersi anche in Calabria e l’ospedale dove lavoro si trasformò da un giorno all’altro per far fronte alla pandemia, come del resto quasi tutti gli altri ospedali regionali. Convertirono i reparti in unità Covid, per accogliere e gestire i pazienti contagiati dal Coronavirus. Furono quindi realizzati nuovi percorsi non comunicanti per degenti e personale sanitario. 47


Nel mio dipartimento, poi, arrivò un’altra tegola sulla testa, sotto forma di ordine di servizio: due colleghi, i più giovani, furono trasferiti temporaneamente, per un mese, nel reparto pediatrico di un altro ospedale della provincia. Di conseguenza gli unici medici rimasti in sede, io ed il mio collega, siamo stati costretti a modificare gli orari di servizio e a sostituire la guardia attiva notturna con la reperibilità, perché in due non era più possibile coprire i turni settimanali. Durante le reperibilità ci chiamavano di continuo, era difficile riposare e al mattino, malgrado la stanchezza, eravamo sempre pronti ad affrontare il lavoro quotidiano. All’inizio mi impegnavo ad avvisare tutte le persone giunte in ospedale, specie se per futili motivi, che sarebbe stato meglio restare a casa propria, data la possibilità di contagio. Il direttore del reparto, non approvando il mio comportamento, mi ha richiamata, dicendo che stavo solo generando falsi allarmismi. Il direttore sanitario, intanto, aveva emanato severe disposizioni a tutto il personale ospedaliero, affinché collaborasse per l’imminente emergenza, predisponendo anche la possibilità di essere trasferiti nel reparto Covid. In Pediatria nel contempo era entrata in vigore la direttiva che soltanto una persona poteva essere ammessa in reparto ad assistere il piccolo paziente, pertanto si pose fine agli orari delle visite e agli assembramenti. Solitamente dalle 19 alle 20 erano presenti in reparto una ventina di persone, tra parenti e amici: all’improvviso il vuoto assoluto, la pace. 48


Mancavano protocolli specifici per la gestione dei pazienti affetti da Covid-19, tuttavia era stata montata una tenda fuori dall’ospedale per selezionare i pazienti provenienti dalla Cina, dalle zone rosse o con febbre di qualsiasi tipo. I bambini, però, by-passavano il pre-triage e il triage e venivano portati dai genitori direttamente in reparto. Le infermiere, impegnate su altri fronti, non riuscivano ad assisterci durante le visite, quindi pure l’accettazione del paziente ricadeva sul medico che veniva a contatto anche con i familiari. Di conseguenza cominciai ad usare la mascherina chirurgica ad ogni turno, i guanti durante la visita e a lavarmi diecimila volte le mani. All’inizio, verso i primi giorni di marzo, non c’era carenza di mascherine, che venivano cambiate ad ogni turno, ma poi si sono esaurite perché sparivano e si era molto ridotto il rifornimento. Fummo costretti a disinfettare quelle rimaste e ad avere molta cura per l’unica ffp2 che ci avevano fornito. Nel frattempo venne decretato il lockdown: chiusura delle scuole, delle palestre, dei negozi, dei ristoranti, di tutto. La vita sociale subì un brusco mutamento: tutti chiusi in casa, uscivano in pochi e le strade erano deserte. Solo la natura continuava a seguire le stagioni, come di consueto, mostrandoci le fioriture primaverili più rigogliose per il ridotto inquinamento. Pure nella mia famiglia cambiarono le consuetudini a cominciare dai miei figli che, in reclusione forzata, erano più spesso sul letto, davanti al computer o a mangiare. 49


Del resto anche io immediatamente ho modificato il mio look. Infatti il giorno prima della chiusura dei parrucchieri ho tagliato i capelli, per agevolarne la gestione, considerata la carenza di tempo libero. Ho eliminato la miriade di bracciali che ero solita indossare per lavare più facilmente e meglio le mani e i polsi. A poco a poco anche le mie abitudini più vecchie subirono un drastico cambiamento: niente più rossetto, poco trucco, mascherina per uscire e addio alle mie abituali e rilassanti passeggiate sul lungomare. Incominciarono turni massacranti, la notte ero reperibile ma mi chiamavano sempre per cui correvo in ospedale dove c’era tanto da fare, quindi mi fermavo in reparto e poi rimanevo direttamente in servizio, senza tornare a casa. Non vedevo la mia famiglia per giorni interi! Nel frattempo le consulenze di pronto soccorso subirono una battuta d’arresto, molti ambulatori chiusero e nel reparto rimasero solo i bambini ricoverati. A fine marzo finalmente rientrarono i due colleghi in trasferta nell’altro ospedale, ma la situazione per me peggiorò in quanto l’ordine di servizio questa volta mi riguardava: trasferimento transitorio ad oltre cento chilometri di distanza da casa mia. Mi ritrovai, così, per un mese a lavorare non solo in pediatria, ma anche in neonatologia con assistenza ai parti e alla nascita dei bambini seguendo il nuovo protocollo Covid. Nessun parente alla nascita dei piccolini, né papà in sala parto, ma solo la neomamma con la mascherina, le ostetriche, i ginecologi, l’infer50


miera pediatrica e la pediatra, cioè io. Ogni volta che nasceva un bambino mi sentivo felice: nuova speranza, nuova vita e un bellissimo e nuovo rapporto mamma-neonato, senza parenti, senza fiori, cioccolatini o confetti, né confusione di persone in visita che di solito soffocano la puerpera ed il bebè. Nel reparto era stata predisposta un’area dove visitare i piccoli pazienti, un ambulatorio speciale in cui si accedeva solo se bardati di tutto punto ed io mi ero procurata una visiera, guanti e camici monouso, ma restavano ancora problemi di approvvigionamento con le mascherine, che non si trovavano né in sala operatoria, né da nessun’altra parte. In autonomia mi ero preparata dei mini kit di emergenza con una mascherina chirurgica e all’occorrenza la ffp2. Indossavo gli occhiali, la cuffia, il camice di sala operatoria, i doppi guanti e così abbigliata visitavo i pazienti sospetti di aver contratto il virus. I bambini non facevano mai il tampone, al massimo venivano messi in lista di attesa e, se poi il piccolo stava meglio, tornava a casa. Uno o due tamponi, tuttavia, sono stati fatti, tutti negativi per fortuna. Febbre sì, ma radiogramma del torace nella norma: presumibilmente non erano Covid-19. Nel mese di aprile, subito dopo Pasqua, finalmente ritorno al mio ospedale e vengo informata di alcuni casi di contagio tra gli operatori sanitari: infermieri e un medico. La notizia, oltre al dispiacere, fa aumentare dentro di me il timore del contagio, ogni giorno sempre più forte, non solo per me che sono più esposta, ma soprattutto per la mia famiglia. 51


La Direzione Sanitaria intanto emana disposizioni atte a verificare lo stato degli operatori sanitari, se sono stati a contatto del virus o meno. Redatta una lista di attesa, si inizia a fare il tampone naso-faringeo a quasi tutto il personale ospedaliero. Riguardo al test ho potuto sentire la testimonianza diretta di un piccolo paziente ricoverato che, con la sorella, presentava febbre e sintomatologia clinica riconducibile all’infezione da Covid19. I due bambini, di otto e dieci anni, pronti per fare il tampone naso-faringeo, erano titubanti per questa indagine strana, allora la bambina, più coraggiosa, la fece per prima, ma appena il bastoncino dalla cavità nasale fu spinto più a fondo la piccola cominciò a piangere e a gridare dal dolore. Il fratello, vedendo la scena, scappò dalla sala prelievi, ma riuscirono ad immobilizzarlo e a fare il tampone anche a lui. Mi domandavo se il tampone fosse davvero così doloroso o se invece si trattava di una esagerata reazione infantile, chiesi quindi delucidazioni ai colleghi che così mi risposero: “Dipende da chi te lo fa”. Molti hanno riferito sanguinamento dal naso e in alcuni pazienti sensazioni di dolore anche all’arcata dentale. Nonostante le varie preoccupazioni e difficoltà siamo giunti anche in Italia alla fase 2. Si inizia a vedere un po’ di gente in giro, ma la paura dell’infezione è ancora tanta. Penso allo slogan “andrà tutto bene”: un po’ ne sono convinta, un po’ no. Una mattina, mentre camminavo velocemente, mi ha sorpassato un anziano conoscente, arzillo in tuta blu, che correva molto più di me. “L’importante è che siamo sopravvissuti”, mi ha detto mentre mi superava alla rigorosa distanza di un metro. 52


Sono ottimista, pian piano saremo capaci anche noi ad uscirne. In Calabria per fortuna abbiamo avuto pochi contagi e i reparti di rianimazione dei due ospedali dove ho lavorato sono riusciti ad accogliere i casi più gravi, evitando il collasso. In molti paesi limitrofi al mio, all’inizio del lockdown, avevano posizionato dei grossi massi di cemento ai bivi delle strade per impedire l’entrata, ma adesso sono stati rimossi per la riapertura. Durante le trasferte da un ospedale all’altro mi hanno fermato spesso le pattuglie di carabinieri e di polizia: a volte sono stati così gentili da farmi il saluto militare, altre volte mi hanno chiesto l’autocertificazione, dubitando anche del fatto che stavo rientrando dall’ospedale. La mia vita è cambiata, certo, come per tutti, ma sono sicura che non importa quanto ci vorrà, riusciremo presto a tornare a “respirare”.

INVASIONE - ALAIN HARVET 53


IL TRADIMENTO IN QUARANTENA Anonimo

Non avrebbe mai pensato che suo marito, conosciuto nel periodo universitario, sposato per amore, amore vero, e padre delle sue bambine, potesse perdere il senno per una donna sconosciuta, incontrata su una chat per soli uomini. Il lockdown era iniziato da 25 giorni, vivevano con ansia e timore quella circostanza che aveva portato alla chiusura di tutto e alla reclusione forzata per tutti, perfino per loro due, medici funzionari lui dell’Inail e lei dell’ufficio d’Igiene e prevenzione, per cui potevano continuare a lavorare da casa online. Non erano a contatto con i pazienti ma si occupavano di scartoffie, leggi e grafici e quant’altro riguardasse statistiche provinciali e regionali. In realtà, io che racconto questa vicenda, non capivo niente del lavoro burocratico che svolgevano, in quanto abituata ad avere un diretto contatto con la paziente e la nascita, visto che la mia professione è quella di medico, specializzata in ginecologia e ostetricia. A me piace la vita, sentir vagire i neonati, vedere la gioia negli occhi delle puerpere e dei neo-papà ed ho scelto questa professione perché mi sta bene come un vestito su misura, perciò ringrazio l’Universo per aver potuto realizzare il mio sogno giovanile. 54


Durante la quarantena, mio malgrado, mi sono trovata a fare la psicoterapeuta di una mia amica di vecchia data con la quale avevamo in comune lo stesso percorso universitario. C’eravamo laureate in Medicina lo stesso giorno ed avevamo brindato con i familiari al nostro futuro ancora sconosciuto. Dopo la specializzazione ci siamo ritrovate a lavorare nella stessa città condividendo i momenti essenziali della vita, come matrimonio e nascita dei figli. Recentemente, preoccupate per il diffondersi del coronavirus in Italia, ci telefonavamo più spesso anche perché entrambe avevamo uno dei due figli in Lombardia, dove l’epidemia stava raggiungendo livelli molto critici. Si parlava del virus, dei decreti, dei contagiati, dei deceduti e soprattutto dei colleghi e degli infermieri che avevano sacrificato la loro vita nel prestare il proprio servizio. Ivana e Lorenzo erano una coppia tranquilla, molto tradizionale con solide radici familiari e saldi valori morali, per questo anche io sono rimasta stupefatta quando, piangendo al telefono, mi ha confidato questo incredibile tradimento del marito. Lei non era mai stata una attrattiva mozzafiato, ma veniva considerata da tutti un tipo particolare, e con intelligenza sopperiva alla mancanza della canonica bellezza col fascino, il savoirfaire e l’eleganza, ma adesso a 52 anni cominciavano a vedersi e a sentirsi i segni del tempo che passa. Il marito, invece, invecchiando diventava sempre più interessante e gradevole d’aspetto. Si ostinava a non voler invecchiare, ripetendo che si sentiva più giovane di prima, per questo ci teneva in modo particolare al 55


look, sempre ricercato e, se possibile, unico. A vederlo così elegante, sempre in giacca e cravatta, sembrava un alto funzionario che dominava lo staff del suo ufficio e faceva colpo sulle donne. Ivana, oltre alla sua professione, si occupava della gestione domestica e delle sue figlie ormai cresciute. La grande, Giovanna, laureata in Economia e Commercio, aveva trovato lavoro a Milano ed era fuori sede da oltre un anno. La piccola, Anna, era all’ultimo anno di Giurisprudenza e viveva ancora con loro. Decretata la quarantena in tutta Italia, Ivana modificò le sue abitudini e come tutti si adattò al nuovo modo di vivere restando a stretto contatto con il marito e la figlia. Le dispiaceva sapere che la figlia maggiore era dovuta rimanere a Milano, ma la sentiva anche due volte al giorno per informarsi sulle sue condizioni di salute. Si reputava fortunata ad avere le persone più amate vicine, i suoi suoceri e genitori erano morti e lei era figlia unica, per questo la sua famiglia rappresentava il suo unico vero tesoro. Cominciò a notare quanto il marito fosse legato al cellulare, sempre a scrivere messaggi o ad allontanarsi per parlare da solo, in luoghi protetti, dove nessuno poteva ascoltare. Era sempre attento, in maniera maniacale, alla carica del cellulare, come se vivesse con terrore l’eventualità di perdere contatto con il suo interlocutore. Questa dipendenza inconsueta nei confronti del cellulare, attirava ogni giorno di più l’attenzione di Ivana, che, pur non verbalizzando, notava con inquietudine l’attaccamento morboso del marito per quel dannato strumento che teneva sempre in tasca, in mano o in carica. 56


Una mattina gli disse ridendo:”Sei diventato una cosa sola col tuo cellulare, non esisti che per comunicare con gli altri”. Lui neanche rispose, brontolò qualcosa dopo aver preso il caffè e si chiuse in bagno come faceva ormai troppo spesso e per un tempo troppo lungo. Nel frattempo il Covid-19 imperversava ovunque nel mondo, mietendo migliaia di vittime e mettendo a dura prova il Sistema Sanitario Nazionale. Ivana si teneva in contatto con le colleghe d’ufficio e con me chiedendomi notizie sulla salute dei miei genitori anziani in casa di riposo. Una mattina la sua telefonata mi sorprese per l’orario e per l’apprensione che aveva nella voce. Per la prima volta mi parlò di suo marito, stava bene fisicamente ma lo vedeva completamente estraniato, come scollegato dal resto della famiglia e dalle esigenze domestiche. Esisteva solo il maledetto cellulare dal quale non riusciva a staccarsi. Cercai di tranquillizzarla, avevo anche fretta perché dovevo correre a lavorare, dato che per me non c’era quarantena, anzi si lavorava di più se non altro per seguire tutte le procedure igieniche e di protezione per noi e per le pazienti. Dopo una settimana, il sabato prima della domenica delle Palme, io ero in recupero a casa quando giunse la sua telefonata che mai, dico mai, mi sarei aspettata. In lacrime mi raccontò d’aver scoperto che suo marito la tradiva dall’inizio della quarantena, che lo aveva scoperto mettendolo alle strette dopo un’ennesima telefonata “strana” che l’aveva insospettita. Costretto, lui aveva confessato di avere questa particolare, quanto forte, rela57


zione con una donna conosciuta in chat e mai vista dal vivo, però ci teneva molto e non aveva alcuna intenzione di interromperla. Le era caduto il cielo addosso, non credeva a quello che ascoltava, stava facendo un brutto sogno, un incubo, peggiore del Covid-19. Non riusciva a pensare, ma solo a piangere, voleva scappare, andare lontano e non tornare più in quella casa, adesso trasformata nella tana dell’orco. Presa dalla furia di scappare si mise in macchina e si avviò nell’unico posto possibile: il parcheggio sotterraneo del supermercato dove abitualmente lei faceva la spesa. Ci rimase tutto il giorno, accasciata sul volante a piangere e a disperarsi. Purtroppo la sera dovette rientrare, il supermercato chiudeva e non poteva allontanarsi dalla città per la quarantena in corso. Raccontò alla figlia di essere stata da un’amica in lutto per la recente perdita della madre, contagiata dal virus in ospedale, senza averla vista né salutata nel momento estremo della morte. Non poteva non esserle vicina almeno in quel frangente, malgrado la quarantena, per fortuna la sua amica abitava vicino al supermercato. Al marito non rivolse uno sguardo e andò direttamente a letto facendosi piccola piccola nel suo angolo per non rischiare di toccare quell’essere disgustoso che era diventato il padre delle sue bambine, come le chiamava ancora adesso. Era troppo stanca e avvilita, sapeva che il sonno non sarebbe giunto e quindi ingoiò un sonnifero e spense la luce. Tutto questo era successo due giorni prima e lei aveva aspet58


tato a chiamarmi perché non osava dire a nessuno quello che succedeva a casa sua, per non denigrare la personalità del marito con gli altri amici: cosa avrebbero pensato? Ma stava così male che almeno a me doveva dirlo, era importante che una persona amica l’ascoltasse e le dicesse qualcosa. Incredibilmente mi trasformai in una psicoterapeuta, forse mi è congeniale perché immediatamente e con semplicità mi trovai in questo ruolo, accogliendo tutte le sue parole, l’ansia, la paura del domani ed il senso del fallimento per non aver previsto il comportamento del marito in questo particolare momento. Da allora sono continuate giorno dopo giorno telefonate all’ora prestabilita in cui lasciavo parlare liberamente Ivana per poi affrontare insieme le emozioni che le esplodevano nel cuore e nella mente invitandola a sentirne l’intensità fino ad accettarle. Con gradualità, smettendo lei di piangere, abbiamo affrontato anche il difficile problema sessuale col quale suo marito convive da almeno due anni, senza chiedere aiuto ad uno specialista. Questo il motivo del tradimento in chat: per raggiungere l’erezione, che dura poco, ha bisogno di essere stimolato mentalmente a lungo e con frequenza, senza che la donna si aspetti da lui una performance fisica particolare. Tra le mura domestiche sembra che sia tutto uguale a prima: a tavola loro tre, madre, padre e figlia, in silenzio o con poche parole consumano il pasto quotidiano, camuffando il conflitto coniugale con il timore del Coronavirus, sperando che Anna non si accorga di quanto siano cambiate le dinamiche tra i suoi genitori. 59


Di fatto anche a fine quarantena apparentemente nulla è cambiato. Ivana continua a vivere con Lorenzo in una formale vita coniugale, pur non stimando più il marito come prima, anche se lui ha giurato di aver troncato la relazione telefonica con la donna conosciuta in chat e ha promesso di consultare un andrologo. Lo straordinario, che poi tanto straordinario non è, di questa storia vissuta in quarantena è la dimostrazione che pure i medici hanno difficoltà ad affrontare problematiche sessuali, come la maggior parte degli uomini e rimandano continuamente la consulenza specialistica. In questo caso la moglie è quella che ha sofferto di più per il tradimento, scoperto proprio quando le emozioni di tutti erano focalizzate sulla strage mondiale del Covid-19.

CUORI SPEZZATI - ALAIN HARVET 60


ASPETTI CLINICI

PAURA - GIANCARLO GIUDICE 61



CRONACA DI UNA EPIDEMIA ANNUNCIATA Annalisa Salsa Medico di PS e di RSA - Castellanza (VA)

Da 13 anni lavoro ininterrottamente in Pronto soccorso, questo vuol dire che ci si abitua a tutto, tanto da non meravigliarsi più di niente. Seguendo le direttive aziendali sull’aggiornamento continuo, abbiamo periodicamente fatto le simulazioni per eventuali maxi-emergenze. Con puntualità sono arrivate le linee guide in corso di epidemia di Ebola e di Sars, per citare le più aggressive. Le abbiamo studiate, ci siamo preparati per da stare più sereni. E poi all’improvviso arriva la notizia che in Cina gli ospedali stanno esplodendo per una nuova forma virale responsabile di gravi polmoniti, tanto da portare a morte in breve tempo chi ne è colpito. Ogni giorno le notizie da Wuhan sono allarmanti, senti che chiudono tutto, che costruiscono ospedali in una settimana, che muoiono medici ed operatori sanitari. Così un pensiero mi trafigge la mente... e se poi arriva pure da noi... Ma va, non succederà, non può succedere, mi rispondo da sola. Sembra ancora qualcosa di esotico e molto lontano dalla nostra realtà occidentale. Ma poi un brutto giorno ecco il primo caso ed il primo focolaio, proprio qui in Lombardia. 63


Lo ricordo bene il giorno successivo all’allarme lanciato da Lodi: arrivo al lavoro e vedo la tenda della Croce Rossa all’esterno del triage, poi incontro i miei colleghi bardati con tuta e casco e ne vedo solo gli occhi, occhi di chi si trova catapultato all’improvviso in un mondo surreale. Mi sembra uno scenario di guerra chimica. Tutti i pazienti sono potenzialmente infetti, a tutti va misurata la temperatura, a tutti va fatta la radiografia del torace, perché la sintomatologia è assolutamente variabile e quelli asintomatici possono essere portatori del virus e diffondere il contagio. Si richiede l’ausilio della TC, in grado di esplorare dettagliatamente il polmone e quando il referto della TC torace è “a vetro smerigliato”, la diagnosi è fatta. Dopo 1,2,3...25 TC al giorno impari subito a riconoscere le polmoniti interstiziali e ad inquadrarle nella patologia da Covid19. Tutti ricoverati, una marea! All’inizio viene allestito un piano dedicato a loro, poi un secondo piano, nel frattempo la Terapia Intensiva viene trasformata in terapia Covid, perché questa è la diagnosi in più del 90% degli accessi di quei giorni. In Terapia Intensiva i posti letto diventano 9 da 4 che erano, l’attività è frenetica con direttive non univoche: intubare, mettere il paziente in posizione prona, cortisone no, idrossiclorochina si, cortisone si, non intubare ma sostituire con ossigeno ad alti flussi, eparina, cortisone ed ancora cortisone. Una confusione che mortificava il mio essere medico di pronto soccorso e mi rendeva ancora più impotente di fronte a questo virus ancora sconosciuto. 64


Per fortuna ci sono i colleghi che sono anche amici, non ti puoi sentire sola.. ci si confronta, ci si incoraggia si condivide il timore ed il disagio del momento critico, mai sperimentato prima. Niente parenti, niente visite, solo occhi per comunicare un po’ di umanità in quello scenario così surreale. Ad inizio turno ci vengono forniti una mascherina e una tuta, per 10 ore, durante le quali non puoi bere, non puoi fare pipì perché non hai altri dispositivi con i quali sostituire quelli che indossi. Quando, finito il turno, tolgo i calzari di plastica, i miei piedi sono come in un acquario. Poi, rimossi casco e occhiali protettivi, mi accorgo di avere le orecchie perché mi fanno così male che sembrano staccarsi, insieme ai dispositivi. E intanto la paura di contagiare è sempre presente nella mente. Dopo il turno faccio sempre la doccia in ospedale, a casa lascio i vestiti fuori dalla porta e vivo con la mascherina 24 ore al giorno, anche di notte che dormo sul divano. I miei colleghi genitori stanno lontano dai loro figli e si comprende quanto pesa questa situazione in famiglia. Sembra che non ci sarà mai una fine, sembra di non vedere via d’uscita. Malgrado tutto continuo a fare il mio dovere rispettando i turni e restando in servizio oltre l’orario canonico. Mi sposto da casa all’ospedale munita di autocertificazione, come tutti in quarantena, per viaggiare su strade deserte. Intanto i colleghi si ammalano, muoiono, la paura aumenta, ma non ci devo pensare. 65


Poi un giorno, finito il turno senza aver mai fatto il tampone, cominciano a tornare in PS pazienti con altri sintomi, sembra quasi un miracolo. I ricoveri diminuiscono, i reparti Covid si svuotano, l’area contaminata del PS si riduce, la Terapia Intensiva torna ad essere covid-free. Finalmente gli occhi che si incontrano riprendono speranza. Torna la voglia di staccare la mente da quello che per tre mesi è stato l’unico pensiero. Finalmente faccio il tampone... negativo, posso quindi riavvicinarmi ai miei cari. Di questa forte esperienza medica, umana e professionale, che ha decretato la quarantena, mi resta una sensazione indescrivibile ed un grande desiderio di responsabilità che viene dal rispetto profondo verso tutti quelli che non ce l’hanno fatta. Ora è solo voglia di ripartire verso una normalità che hai scoperto essere così preziosa. Responsabilmente.

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ERMANNO MARCO MARI 67


STORIA DI UNA INFERMIERA Anastasia Carcello Specialista in Radiodiagnostica e Psicoterapia - Bologna

Quel venerdì pomeriggio tornando a casa, dopo una giornata di lavoro, Anna guardava dal finestrino del bus le goccioline di pioggia che scendevano lungo il vetro, ma intanto pensava a quello che avrebbe dovuto fare nel weekend, il primo weekend di marzo 2020. A casa l’aspettava l’anziana madre disabile, che accudiva da tempo con dedizione, avendo rifiutato di rinchiuderla in una residenza per anziani, dove di sicuro lei non sarebbe stata a suo agio. C’erano anche il marito ed il figlio ventenne a casa che di solito, però, rientravano dal lavoro più tardi di lei. Per quel fine settimana voleva preparare una pasta al forno con le melanzane, quella tipica siciliana, alla Norma, molto appetitosa e poi di secondo avrebbe cucinato un arrosto con patatine, sempre ben gradito. Aveva deciso, quindi, di fare la spesa al supermercato più vicino, prima di arrivare a casa. Si sentiva un po’ stanca ma non ci fece caso, dopo otto ore in ospedale a fine giornata era allenata alla stanchezza, non la sentiva quasi più, continuava a lavorare in automatico, come un robot programmato ad ottimizzare il tempo. Pur consapevole della fatica che l’attendeva anche a casa non era per niente turbata, abituata com’era da sempre a lavorare, ma 68


di certo non prevedeva la sorpresa in agguato che le avrebbe impedito di cucinare e di occuparsi delle faccende domestiche. Anna aveva 54 anni e seppure in moderato sovrappeso, era sempre stata bene in salute. Sottoposta in passato all’asportazione della colecisti per via dei calcoli, responsabili delle continue coliche biliari, al momento era in terapia antipertensiva da 2 anni, sotto controllo periodico. Attualmente è una delle infermiere più amate del servizio di Medicina Nucleare per la disponibilità ed il sorriso col quale accoglie i suoi pazienti. Pronta a dare una mano a chi ne ha bisogno, anche fuori dall’ospedale, quell’ospedale tra i più grandi di Bologna dove ha iniziato la sua professione. Benché non avesse mai avuto particolari sindromi influenzali durante la stagione invernale, quest’anno per la prima volta in vita sua decide in autunno di fare il vaccino antinfluenzale. La sua vita si svolge in maniera tranquilla seguendo una routine domestica e professionale, tra casa e ospedale, dove abitualmente si reca col bus cittadino, da lunedì a venerdì dalle ore 7,30 alle 15,00, ma per fortuna nel week end libero può dedicarsi alla famiglia in maniera più completa. Quel famoso fine settimana del 7/8 marzo, corrispondente all’inizio della quarantena per l’emergenza Covid-19, circolavano già le voci sulla pericolosità del Coronavirus. Giunta a casa con le sacche della spesa fatta a fatica, l’infermiera si rende conto che non si tratta solo di stanchezza e sentendosi ancora peggio si misura la febbre e capisce il perché: ha la febbre a 39°C, con astenia marcata e dolori articolari diffusi, tanto da non riuscire a stare bene neanche a letto. 69


Non pensa subito al Covid-19, crede di aver contratto una banale influenza perché i sintomi sono gli stessi, per questo non si mette in quarantena per proteggere i suoi cari, d’altra parte ancora nessuno sa le regole da seguire nel sospetto di contagio e non c’è l’obbligo di un tampone per la diagnosi più precoce possibile, adesso poi sta così male che il pensiero non è fluido come al solito. Anna consulta il suo medico di base che la rassicura e le prescrive la classica Tachipirina per la febbre, la invita alla tranquillità e le promette di telefonare ogni giorno, così da avere l’aggiornamento quotidiano del quadro clinico. I sintomi migliorano poco e l’infermiera resta a letto con la spossatezza del primo giorno, per questo il lunedì il suo MMG invia online il certificato di malattia alla Direzione Sanitaria dell’Ospedale dove Anna lavora e contemporaneamente denuncia all’ufficio di Igiene territoriale il caso come sospetto Covid-19, perché in quel periodo vedeva tanti pazienti così che poi si conclamavano come Covid-19. Siamo all’inizio della quarantena ed in alcune città il numero dei contagiati aumenta di ora in ora, ma ancora manca una coscienza reale della pericolosità del contagio e della gravità dei sintomi, che in alcuni soggetti anziani, particolarmente defedati o con altre malattie (co-morbilità) ed immuno-depressi, possono portare a morte. Perfino i medici sono impreparati nella gestione di un virus che si sta dimostrando particolarmente aggressivo e non ci sono ancora farmaci noti per debellarlo. I protocolli e le direttive sanitarie sono inesistenti, al momento mancano linee 70


guida da seguire ed infatti per Anna non viene programmato alcun percorso e tantomeno di fare subito il tampone naso-faringeo, indispensabile per la diagnosi di Covid-19. Lei, tuttavia, non è particolarmente preoccupata, perché rassicurata dal sostegno del curante che ogni giorno la chiama verso le 10 per informarsi sull’andamento della sua presunta influenza. Dopo tre giorni di febbre elevata, che si abbassava solo col paracetamolo, compaiono altri disturbi: mal di gola, anosmia e ageusia, cioè non sente più gli odori ed i sapori, per cui il MMG le prescrive subito la terapia antibiotica per 8 giorni. Alla rapida regressione dei sintomi per fortuna spariscono anche i pensieri negativi di Anna e poiché ormai si sente bene torna in servizio, dopo 15 giorni di assenza dal lavoro. Con diagnosi di sindrome influenzale pregressa, malgrado persista saltuario mal di gola, l’infermiera è riammessa in servizio, senza altri accertamenti. Nel frattempo si assiste ad una marcata diffusione del Coronavirus su quasi tutto il territorio nazionale, con aree “rosse” particolarmente critiche nelle regioni del Nord Italia e relativo risparmio delle regioni del Sud. Il contagio si estende anche agli operatori della Sanità, questi si ammalano e, talvolta, muoiono, come tutti. In particolare i MMG sono quelli più colpiti perché non conoscono ancora la reale pericolosità del virus e non sono protetti neanche dalle mascherine, allorquando visitano i pazienti affetti da Covid-19. Dopo 2 mesi dall’inizio della quarantena 169 medici e 40 infermieri moriranno, pagando un pesante tributo alla loro profes71


sione. Per tale motivo dopo il primo mese dell’epidemia, ormai trasformata in pandemia, le Direzioni Sanitarie dei grandi ospedali cittadini, al fine di proteggere i propri dipendenti e limitare l’ulteriore contagio, emanano nuove direttive di controllo, atte a verificare quanti di essi siano stati a contatto col virus, senza manifestare sintomi. Pertanto anche il personale sanitario della Medicina Nucleare dove lavora Anna viene sottoposto a screening ematico per appurare quanti abbiano sviluppato anticorpi contro il virus e quindi creare la mappa di diffusione del virus nei vari reparti e servizi ospedalieri. Dopo 35 giorni dalla ripresa in servizio inizia lo sgomento dell’ignara infermiera per la spiacevole sorpresa di scoprire in questo modo di essere stata contagiata dal virus, cioè di aver avuto il Covid-19 e non una banale influenza. Senza saperlo ha messo in pericolo i suoi familiari e tutte le persone con cui era stata a contatto prima, durante e dopo la sua malattia. I risultati ematici evidenziano, infatti, una positività per le IgG, che indica gli anticorpi prodotti dal suo organismo per fronteggiare il virus, con IgM negative. Diventa quindi obbligatorio eseguire il tampone naso-faringeo il giorno successivo, il cui esito è positivo. La povera donna non trattiene le lacrime alla vista dei risultati, si sente in colpa, pensando che adesso inizierà il calvario per i suoi congiunti che, anche se asintomatici, dovranno stare comunque in quarantena in attesa di fare il tampone! L’infermiera, allontanata immediatamente dal servizio, viene collocata in isolamento fiduciario per 15 giorni prima di ripetere il tampone e, pur avendo la possibilità di andare in un albergo 72


messo a disposizione dall’ospedale, per motivi familiari sceglie di fare la quarantena a casa. Anna è sopraffatta dall’evoluzione delle circostanze, comprende quanto non sia stata presa nella giusta considerazione la sua infezione, perfino lei stessa aveva sottovalutato i sintomi all’esordio e ora teme per i suoi familiari, i suoi colleghi e tutte le persone con cui è stata a contatto una volta rientrata a lavorare dopo la malattia. Per il persistere di quel fastidioso mal di gola, Anna insiste con il MMG perché le prescriva, prima possibile, una visita specialistica in Malattie Infettive col risultato di una richiesta ulteriore di visita specialistica ORL, per arrossamento faringeo. Effettuata una fibrolaringoscopia, lo specialista ORL conclude così: “Quadro di flogosi cronica con ipertrofia tonsillare bilaterale, più marcata a destra”, e consiglia terapia con collutorio OKI, gargarismi quotidiani e ibuprofene al bisogno. Non sono stati segnalati linfonodi ingrossati loco-regionali. Il risultato delle consulenze specialistiche tranquillizza parzialmente Anna che ha perso il sonno, è molto ansiosa per i suoi e deve affrontare lo stesso la quotidianità casalinga, gravata dall’impazienza del marito e del figlio che per causa sua devono osservare le prescrizioni di legge. Il marito ed il figlio, benché negativi al tampone, sono costretti alla quarantena per 15 giorni. All’anziana madre dell’infermiera, invalida, portatrice di patologie multiple, oncologica, cardiopatica e osteo-articolare, non è possibile effettuare il tampone per la difficoltà di programmarlo a domicilio, ma per fortuna rimane asintomatica dall’inizio alla fine del contagio di sua figlia. 73


Lo screening ematico sugli altri colleghi del Servizio di Medicina Nucleare risulta negativo al Covid-19, quindi Anna è l’unica ad essersi infettata tra tutti gli operatori e per questo si sente particolarmente sfortunata. Fra alti e bassi con marcate variazioni dell’umore, finisce la quarantena e finalmente l’infermiera effettua i due tamponi successivi di controllo, necessari per ritornare alla normalità completa. Questi confermano la negatività e così Anna viene riammessa in servizio, più tranquilla e serena. Le sue emozioni, ansia, depressione, rabbia, impotenza... potevano essere accolte dal trattamento psicoterapeutico proposto dall’ospedale per tutti i dipendenti, ma Anna ha rifiutato per vari motivi, che neppure lei ha messo completamente a fuoco. Non è stato possibile individuare dove e come l’infermiera si sia contagiata, tenuto conto della promiscuità in autobus, particolarmente affollato la mattina, ma va considerato pure che le mascherine protettive sono divenute obbligatorie nelle strutture sanitarie a partire dal nove marzo, in piena emergenza Covid-19. Non si è ancora in grado di spiegare per quale ragione l’infermiera non abbia contagiato i familiari, con i quali era a diretto contatto durante tutto il periodo di stato della malattia né si può chiarire perché non abbia diffuso il virus ai suoi colleghi, una volta rientrata a lavorare, data la positività al tampone e alle IgG. Avremo modo di scoprirlo quando saranno accumulate e valutate tutte le esperienze sul campo, quando saranno completati gli studi riguardanti la terapia e la risposta individuale al virus e ai farmaci, nonché l’eventuale legame con il vaccino antinfluezale. 74


In questa storia emergono alcuni aspetti critici, giustificabili dall’incompleta padronanza nella gestione della situazione sanitaria, ancora sottovalutata: Diagnosi scorretta (sindrome influenzale), malgrado la comparsa di sintomi ritenuti caratteristici di Covid-19 (febbre, anosmia e ageusia). Mancata esecuzione di tampone naso-faringeo nel sospetto di Covid-19, considerata l’attività professionale, indispensabile per proteggere i familiari e tutte le persone con cui l’infermiera sarebbe venuta a contatto al rientro in servizio. Gestione disfunzionale nella programmazione del tampone naso-faringeo ai familiari, in particolare alla madre convivente, grande invalida che non ha mai eseguito il tampone, dopo la diagnosi di positività della figlia.

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POLIAMBULATORIO ATTIVO IN QUARANTENA Patrizia Castellacci Fisioterapia e Psicoterapia - Monselice (PD)

Sono una felice nonna, purtroppo lontana dai nipotini durante la quarantena, ma non lontana dai miei pazienti che ho continuato a seguire anche durante questa reclusione forzata. Si è bloccata qualsiasi attività lavorativa a partire dai primi di marzo 2020 per arginare l’estesa diffusione dell’epidemia da Coronavirus, pare che con una bacchetta magica una strega abbia messo a riposo tutti, come nella “bella addormentata”. Gli unici lavori consentiti sono quelli sanitari e di approvvigionamento alimentare e farmaceutico. Pertanto ho proseguito a lavorare con lo stesso ritmo di prima della quarantena in quanto faccio il Direttore Sanitario di un Poliambulatorio di Monselice, cittadina localizzata tra Padova, Vò e Schiavonia, in un’area geografica definita “zona rossa” per l’elevato numero di contagi e di decessi da Covid-19. La nostra struttura ha continuato a prestare le cure richieste ai propri pazienti. Naturalmente sono state rispettate scrupolosamente le direttive nazionali e regionali per tutelare la salute degli operatori sanitari e dei pazienti, tenuto conto del personale medico ed infermieristico deceduto per il contagio durante il loro lavoro. La situazione emotiva, prevalentemente di paura/panico, comunque instabile che si era creata dappertutto e che ha minato 76


l’equilibrio psico-fisico di molte persone, ha slatentizzato molti disturbi psichiatrici, come sperimentato anche dai colleghi di altre strutture sanitarie. Nel corso delle varie terapie cui si sottoponevano i pazienti, tutti noi sanitari abbiamo avuto una particolare attenzione all’aspetto emotivo che non poteva e non doveva essere sottovalutato. I pazienti, stimolati ad aprirsi, avevano modo di parlare, oltre che dei propri problemi di salute, anche delle paure nascoste, delle difficoltà incontrate nella loro quotidianità, spesso per una convivenza forzata con familiari che portava a galla vecchie problematiche messe sotto la cenere. Perciò, oltre al timore del contagio e delle conseguenze connesse, abbiamo rilevato un aggravamento dell’insonnia o l’insorgenza dell’insonnia stessa. È stato osservato pure un peggioramento degli stati depressivi, la comparsa della riduzione della libido e della pratica sessuale, contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare, visto che il tempo senza impegni era illimitato. Io credo che l’amore sia un’ottima medicina, e anche fare l’amore lo sia, ma in queste circostanze lo stress emotivo ha evidentemente giocato un brutto scherzo! Nel nostro centro ogni giorno viene offerta un’ora di terapie gratuite alle persone meno fortunate e se in passato, in alcuni periodi, non vi era molto richiesta, durante il lockdown la domanda è aumentata a causa delle difficoltà economiche di molti, altro grave problema insorto con il Covid-19, e prontamente la struttura ha risposto andando incontro a chi aveva bisogno. 77


I servizi erogati dal nostro Poliambulatorio comprendono la Fisiatria, l’Ortopedia, la Fisioterapia e la Psicoterapia, ma in piena crisi epidemica abbiamo potenziato le terapie con Ossigeno-Ozono per aumentare le difese immunitarie dei pazienti afferenti alla nostra struttura. Dei benefici di tale terapia se ne è giovato pure il Dirigente della Fisioterapia, ricoverato d’urgenza all’ospedale di Abano, per una colica in un reparto con 20 pazienti positivi al Coronavirus, e ne è uscito indenne da un possibile contagio. Ritengo che questo sia merito della ozonoterapia, poiché da mesi si sottoponeva settimanalmente, e continua a farlo tuttora, a fleboclisi con Ossigeno-Ozono, potente antivirale, come dimostrato dai successi ottenuti in diversi Ospedali anche con pazienti affetti da Covid-19 e da epatite virale. Nessuno tra i sanitari e i pazienti ha contratto la malattia nella nostra struttura e ne siamo felici ed orgogliosi. Ora che la paura è diminuita noi continuiamo ad accogliere i pazienti bisognosi delle nostre cure, offrendo sempre la nostra professionalità con una visione a 360° sulla loro salute.

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CI ASPETAVAMO UN’ONDA, È ARRIVATO UNO TSUNAMI Simonetta Vernocchi Specialista in Pneumologia - Magenta (MI)

Abbiamo rivoluzionato tutto l’ospedale, dedicato in totale quattro reparti ai pazienti COVID, sono ormai quasi cento, ed il pronto soccorso è sempre pieno. Non finiscono mai! Dalla finestra vedo le ambulanze che arrivano di continuo ma ormai senza sirena, le strade sono deserte, parcheggiano in fila, in attesa di entrare sotto la pioggia, e poi in uscita per disinfettare e sanificare. Gli equipaggi con le tute da astronauti, le mascherine, le visiere, i guanti, aspettano sotto la tettoia, in silenzio, che l’interno dell’ambulanza sia asciutto ed arieggiato dopo la sanificazione, qualcuno fuma e cammina nervosamente. Il clima allegro solito negli equipaggi della CRI ha lasciato il posto alla desolazione più totale. Sono arrivata in anticipo perché non ho trovato nessuno per le strade, neppure un posto di blocco, sembra un paesaggio da The day after, piove. Vicino al locale dove mi cambio c’è un distributore automatico di bevande che emette rumori lugubri, risuonano nel piano dismesso, come il sonar di un sommergibile in un film di guerra. Non c’è nessuno neppure per le scale che dal IV mi portano al IX piano. 79


Nel mio nucleo oltre ai 30 ventilati, ce ne sono 26 in ossigeno, ad alti flussi, il massimo che il sistema può reggere. Non conosco nessuno, lavoro qui da poche settimane. Prendo le consegne dalla collega e mi presento alle infermiere del piano. Cerco l’equipe degli anestesisti costituita da un medico e due infermieri dedicati, eseguono emogas-analisi seriate ai pazienti ventilati con caschetto, saluto anche loro. È notte fonda nel nucleo COVID-19, reparto sub-intensivo, silenzio spettrale, si sentono solo i ronzii dei ventilatori, sono 30, siamo al completo, speriamo non arrivi nessuno che necessiti di essere ventilato. Il tempo passa veloce. Adesso sono le 2, ho terminato i ricoveri e risolto l’urgenza, posso riposare un poco. Sfoglio le consegne, gli anestesisti oggi hanno valutato almeno 12 pazienti troppo anziani con molte co-patologie per cui è molto improbabile un successo terapeutico, anche con l’intubazione. La ventilazione non invasiva viene tentata, ma di solito la patologia prende il sopravvento ed il paziente si presenta con dispnea continua, senso di fame d’aria, angoscia di morte. Viene proposta per queste persone la sedazione. Di solito si sceglie la morfina, un farmaco ottimo, che non induce la morte, ma toglie l’angoscia della morte, associata a farmaci come il Midazolam, che diminuisce la percezione dei sintomi sgradevoli di qualsivoglia natura, inducendo il sonno. Sono farmaci che si metabolizzano all’istante, non si accumulano, vanno dati di continuo e possono essere interrotti in qualsiasi momento. 80


Sono efficaci su tutti perché non presentano dose tetto. Abbiamo per entrambi gli antidoti. Un grande sollievo dalla dispnea. Nell’elenco dei pazienti da non rianimare, scorgo un nome conosciuto: un mio paziente diabetico, con insufficienza renale grave ma non ancora in dialisi, che abita dall’altra parte di Milano. Non ci credo! Come è finito qui? Sarà proprio lui? È ebreo, e questo mi ha offerto, in più di un’occasione, motivo di complicità, anche la mia bisnonna materna lo era. Voglio vederlo: entro nella camera, è lui davvero! Shalom Aaron! Le gravi patologie di questi pazienti sono le solite che conducono a morte gli anziani. A parte l’aver contratto il virus, le copatologie sono elemento di criticità: probabilmente morirebbero anche senza il COVID, anche con una semplice influenza. Aaron è uno di loro. Aaron mi riconosce: Shalom! Tra poco sarà Pasqua! Ci mettiamo a chiacchierare, si rivitalizza. Non mi sembra stia così male, né che ora sia così diverso da come è stato negli scorsi ricoveri, ce l’ha sempre fatta. È uno tosto. Perché ora non dovrebbe farcela? Aaron, non dormire, cerca di stare sveglio, stai seduto, cerca di muoverti. Vedi che così saturi meglio? Raccontiamoci la vita. Coinvolgiamo anche l’altro paziente, Bruno, il vicino di letto, ha 58 anni, è un tecnico informatico, ha due figli di 28 anni, una ragazza ed un giovane di 20, è magris81


simo, si è contagiato in ospedale, dove era stato ricoverato per stadiare la sua malattia, un linfoma. Sta piuttosto male, ha ancora la febbre alta. Aaron invece si è contagiato da un amico che gli faceva la spesa, forse, non ne è sicuro. Le infermiere mi prendono per matta: che ci fa lì seduta nella camera piena di virus aerosolizzati a parlare del nulla? Ma che senso ha? Già, che senso ha? Valorizzare i rapporti interpersonali, far sentire i pazienti unici, importanti, riconosciuti. Certo la paura del virus è tanta, ma non abbastanza da disumanizzare la cura. La solidarietà umana è un grande valore specialmente in questo momento. Nessuno si salva da solo. Dopo due giorni, torno a trovarlo, un po’defilata perché non è nei miei letti e non voglio interferire. Shalom Aaron! Dai, Aaron, cerchiamo di fare qualche progresso: in bed is death, questa malattia causa la morte non tanto per l’insufficienza respiratoria ma per embolia polmonare, i pazienti vanno mobilizzati spesso, in modo attivo. Facciamo il test del cammino: dapprima pochi passi, con il saturimetro al dito, vediamo una saturazione che cala di qualche punto per guadagnare molto verso la fine del test e con il recupero: 93, 92, 90, 87 e poi 92, 95. Ogni giorno sempre meglio, da pochi passi a qualche minuto. La saturazione migliora e passa da 88-90% a valori di 92-93% in aria ambiente. Mettiamoci seduti, non stiamo a letto. Restiamo svegli di pomeriggio, restiamo alzati. Shalom! 82


Il suo saluto riecheggia nel reparto. Altra notte in nucleo COVID, è la terza in dieci giorni, torno a trovarlo. Aaron non c’è più, neppure Bruno. Morti? Bruno è stato spostato, la sua prognosi è troppo severa. L’hanno messo in camera singola, hanno chiesto la deroga alla proibizione delle visite per la moglie: è ricoverato da troppo tempo, quasi sei settimane che non si vedono, non possiamo consegnarlo in un’urna. E Aaron? Morto? No… Dimesso? Non è possibile, non ci credo. Aaron è migliorato nonostante il diabete, la cardiopatia, l’otto di creatinina che è diventato un cinque in meno di una settimana, nonostante le piaghe ai piedi. Ha deciso di tornare a casa dove farà la quarantena in attesa che si negativizzi il tampone di controllo. Fantastico.

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PENSIERI E PAROLE AL TEMPO DEL COVID-19 Anna Maria Sulla Specialista in Pediatria - Crotone

Sono una pediatra da oltre quarant’anni e vivo in una cittadina solare della costa ionica calabrese, dove ho maturato la mia professione, dopo il periodo formativo e i primi anni lavorativi a Firenze. In questo splendido posto, che si chiama Crotone, siamo orgogliosi di essere i discendenti di Alcameone e Pitagora, le nostre radici affondano nella Magna Grecia e quindi nella Grecia classica. Ad Alcameone viene attribuita una teoria medica, divenuta molto popolare fra i Greci, secondo la quale la salute è il risultato di un peculiare equilibrio tra elementi o proprietà di opposta valenza. La salute quindi è, per Alcameone, l’armonica mescolanza delle qualità opposte da cogliere nella vita. Ma questo cosa c’entra con il nostro report e i miei piccoli pazienti? Parliamo quindi di loro ai tempi del Covid-19. Non eravamo, noi adulti, preparati a questo tsunami che ci ha resi fragili, vulnerabili e impotenti di fronte all’avanzare della pandemia. Grazie alla mia diretta esperienza, tuttavia, ho potuto constatare che sono stati soprattutto i bambini a risentirne di più e a pagarne lo scotto maggiore. 84


Da un giorno all’altro, privati di spazi fisici come la scuola, le palestre, le feste di compleanno ecc., e di quelli emotivi, amicizie, affetti di parenti vicini e lontani, si sono sentiti disorientati. È necessario, pertanto, interrogarsi oggi su quello che per loro ha rappresentato la quarantena e su come è cambiato, per sempre, il concetto di normalità e quotidianità, soprattutto per i più piccoli che cominciavano a camminare fuori casa felici. Noi tutti, pediatri e genitori, abbiamo il dovere di cercare di capire il perché questi bambini oggi hanno bisogno di un aiuto specifico per superare quello che per loro è stato un trauma peculiare e per accompagnarli verso una nuova normalità a cui la convivenza con il Covid-19 ci chiamerà in futuro, futuro già iniziato. I giorni del lockdown sono stati carichi di angoscia e paura per mamme e bambini. Il mio telefono non ha mai smesso di suonare in quel periodo. Dall’altro capo del filo genitori terrorizzati. Febbre, tosse, starnuti dei loro figli sono stati campanelli d’allarme che hanno letteralmente sconvolto anche la mamma meno ansiosa. “Dottoressa, non è coronavirus, vero?”, domanda ripetuta all’infinito nella speranza di una risposta negativa. Le paure dei genitori per l’emergenza sanitaria prima e poi anche economica si sono inevitabilmente proiettate sui bambini. Chiusi in casa, in una situazione tutt’altro che tranquilla, carica di tensione che loro mal decodificavano, scandita ogni giorno alle 18 dal bollettino della Protezione Civile, con la conta dei morti e dei contagiati, a migliaia nel nostro Paese, i più piccoli non potevano certo rimanere indifferenti. 85


La storia di cui sono stata testimone e che mi ha più colpita fra tante, è quella di due fratellini, Marco di anni nove e Fabio di sette (i nomi sono ovviamente di fantasia per proteggere la loro privacy), entrambi a me ben noti da quando sono nati, essendo io la loro pediatra. Con loro ho sempre avuto un bel rapporto. Una famiglia apparentemente tranquilla, come tante, in cui sono cresciuti in un’atmosfera circondata da molti affetti. Mamma e papà lavorano, ma nonni e zii sono sempre pronti a fare da cordone di amore e solidarietà per questi nipotini. I giochi, le litigate tra fratelli maschi, i dispetti inevitabili erano all’ordine del giorno. Insomma una vita normale. Marco, un carattere precisino e per questo “cocco” di mamma. Fabio, il più piccolo, con un carattere più impertinente, da vero accattivante monello. Marco veniva additato ad ogni occasione da mamma e papà come esempio da seguire a casa e a scuola, e Fabio era infastidito di avere sempre il fratello maggiore come termine di confronto. Chi ha avuto fratelli e sorelle nella vita sa che questo fa parte della quotidianità. È il miracolo della biodiversità! Per fortuna siamo tutti unici, nel nostro genere, con i nostri pregi e difetti. Poi però un bel giorno arriva il Covid-19. E tutto improvvisamente cambia. Le paure, i litigi, i conflitti, consumati in una prigione speciale, quale è la propria casa, si amplificano, si moltiplicano e la situazione sfugge di mano. 86


È quello che è successo alle vite di Marco e Fabio. Ma soprattutto a quella di Fabio, il più piccolo, il più debole e fragile. La pressione su di lui, recluso nelle quattro mura domestiche, è diventata esplosiva, incontenibile. Frasi o rimproveri come “comportati come tuo fratello, fai il bravo come lui “ sono diventate insopportabili, pesanti come macigni. Nella disperata ricerca di conforto e riconoscimento della sua diversità, in una situazione ai confini della realtà, come quella causata dal Covid-19, Fabio, giorno dopo giorno, con una lenta discesa verso il suo abisso di incertezze e fragilità, è regredito. Prima sono cominciati i disturbi del sonno, poi quelli del linguaggio, poi l’enuresi notturna. Fare la pipì a letto ha ulteriormente peggiorato il confronto col fratello maggiore che non l’aveva mai fatta da quando aveva iniziato a parlare e a controllare gli sfinteri. Purtroppo Fabio soffre ancora per questi problemi. Continuo a seguirlo insieme a tutta la sua famiglia, non solo dal punto di vista clinico, ma anche con consigli semplici e pratici, per aiutarlo a ritrovare il suo equilibrio e la sua serenità in seno ad una famiglia resa più consapevole. Non sarà facile. È importante un supporto psicologico, unito alla comprensione di tutti i suoi bisogni, alla pazienza, con attenzione e amore. Ma passerà! Ne sono sicura. Come sono certa che vinceremo questa grande sfida a cui la vita ci ha chiamati. Invito i miei colleghi pediatri a guardare oltre l’aspetto clinico, ad indagare anche il lato psicologico dei nostri piccoli pazienti, 87


ma sono sicura che già lo stanno facendo. Aiutiamoli a capire che cosa ha significato per loro vivere la pandemia e cominciamo a prospettare un futuro sereno malgrado difficoltà mediche, sociali e familiari. Quello che è successo a Fabio non è un caso isolato. Come lui sono tanti i bambini diventati più fragili a causa del Coronavirus, e per aiutarli a tornare alla normalità la “cura “ esiste da sempre e si chiama Amore!

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ASPETTI SOCIALI

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PANDEMIA E QUARANTENA Anastasia Carcello Radiodiagnostica e Psicoterapia - Bologna

Il Coronavirus si sta diffondendo dovunque: partito dalla Cina è atterrato in Italia e in poco tempo ha dato segno della sua allarmante presenza. I medici ed il Sistema Sanitario Nazionale non erano preparati a questa catastrofe umana poiché non era conosciuta completamente la modalità di contagio né tantomeno erano note le caratteristiche tipiche del virus per poterne bloccare subito la diffusione. Per questo all’inizio, sottovalutati gli effetti del Coronavirus, i primi ammalati non sono stati isolati come era d’obbligo, ma alcuni addirittura trasferiti nelle RSA dove hanno diffuso il contagio. Spesso, senza un tampone naso-faringeo precoce, non è stata fatta neanche la diagnosi di Covid-19, ragion per cui il paziente non è stato allontanato dai congiunti e non sono stati messi in atto trattamenti precoci, in assenza di linee guida terapeutiche da seguire. Infine senza un efficace controllo evolutivo le persone si aggravavano, tanto da richiedere un ricovero immediato in ospedale dove le terapie intensive non avevano più posti liberi. Nel frattempo si cominciava a morire troppo in fretta, soprattutto gli anziani. Da parte mia, quale medico radiologo, attualmente in pensione, avrei voluto subito arruolarmi in risposta alla richiesta di 91


specialisti da parte della Croce Rossa e di alcuni ospedali, come volontaria nelle zone “rosse” della Lombardia, per dare il mio piccolo contributo nella diagnostica delle polmoniti interstiziali, causa del netto peggioramento clinico dei contagiati. Il mio entusiasmo è stato subito smorzato dai miei figli che mi hanno ricordato la mia età e le mie malattie. Mi hanno rammentato, anche, che in fondo fare servizio per la famiglia, soprattutto se ci sono piccoli da crescere in periodi critici come questo, è ugualmente un atto di volontariato, che ti torna indietro come energia positiva. In effetti non vivo, durante questo primo mese ormai trascorso, con particolare difficoltà o ansia la reclusione forzata dichiarata il 7/8 marzo 2020 e nemmeno la vivo come un’imposizione sconvolgente. Noi esseri umani, di solito, ci adattiamo alle nuove abitudini, soprattutto se siamo costretti, in questo caso da una grave minaccia alla nostra salute. Minaccia che diventa reale quando ascoltiamo dai vari mezzi di comunicazione il numero dei malati che aumentano di ora in ora, finiscono in ospedale, si aggravano, vanno in terapia intensiva e poi, in tanti, muoiono. Vedere in TV i camion dell’esercito carichi di bare che racchiudono le salme delle persone morte per il contagio da Coronavirus fa male. Vengono in mente i morti nei terremoti, nelle guerre, nelle calamità naturali periodiche, ma non si ipotizza mai e poi mai che un numero così elevato di deceduti esca proprio dagli ospedali, dove abitualmente si curano le persone per farle guarire. 92


Così nel cervello arriva, neanche subdolamente, una nuova consapevolezza: neppure in ospedale si sopravvive, malgrado la presenza di validi operatori sanitari, farmaci innovativi e macchinari sofisticati, come i respiratori. Ed invece eccoli là: quanti morti, tutti da cremare per evitare ulteriore diffusione del virus o perché non si sa dove mettere queste salme? Non arrivano chiarimenti in merito, ma si continua a ripetere che nessun parente può avvicinarsi al malato per il reale pericolo del contagio. Questo comporta l’abbandono al suo destino del congiunto ricoverato, con grande sofferenza dei parenti. Morirà da solo, nessuno dei suoi cari potrà stargli vicino a stringergli la mano o fargli una carezza, anche se la perdita della coscienza vanificherebbe il gesto, chi invece è ancora vigile apprezzerebbe la vicinanza affettiva, e si potrebbero accogliere le sue ultime parole e i suoi ultimi desideri. Per fortuna i medici che lo seguono fino all’ultimo respiro riescono a mitigare il dispiacere della mancanza dei parenti mediante qualche video-chiamata se il paziente è sveglio o solo restandogli vicino per parlargli serenamente e accompagnarlo fino alla fine. Si può stare tranquilli, il proprio congiunto quanto prima tornerà a casa, rimpicciolito e trasformato in cenere contenuta in un’urna più o meno elegante. Rispetto a prima del lockdown si assiste ad uno stravolgimento della morte, dei riti funebri e delle funzioni religiose. Non si possono più celebrare battesimi, matrimoni, cresime e neanche i funerali nelle chiese, anch’esse serrate per lo stesso timore. Se il decesso è avvenuto per cause diverse dal Coronavirus, ci saranno pochi consanguinei ad ac93


compagnare la salma al cimitero, dove sarà effettuata una benedizione veloce dal sacerdote, ma non si possono incontrare parenti o amici per le abituali condoglianze né a casa né al camposanto. In tutte le abitazioni, alla sera, si aspetta il telegiornale per avere gli ultimi dati sull’ecatombe del giorno divenuta quotidiana come il pane: quanti morti, quanti nuovi ricoveri, quanti in terapia intensiva, quanti contagi ecc. mentre in tutti aumenta la paura di contagiarsi e di morire. Sembra di sentire il soffio malefico del Coronavirus sul collo, pronto a toglierci il respiro, terrore alimentato pure dai messaggi poco rassicuranti degli scienziati, noti prevalentemente in TV, dove esibiscono competenze successivamente smentite. Capisco, malgrado tutto, che anche in quarantena ci si abitua, giorno dopo giorno, ad un ritmo circadiano diverso da quello abituale, che avevamo consolidato da tempo, anche se non manca l’insofferenza. Continuiamo sempre a lamentarci per ogni piccola inconvenienza e a criticare qualsiasi azione decisa dal Governo nel tentativo di proteggerci al meglio dal virus. La paura di ammalarci dovrebbe farci diventare più disciplinati e facilitare il cambiamento delle abitudini con consapevolezza, ma spesso per esorcizzare il timore della vita in pericolo si diventa aggressivi e più intolleranti. Non è la libertà interiore a mancare, perché nessuno, e tanto meno un virus, potrà mai togliere quella che ognuno sente nel cuore e nei pensieri, ciò nonostante si percepisce l’assenza della libera scelta di uscire all’aria aperta, per una passeggiata nel parco, in riva al mare, in montagna o per incontrare un amico per strada. 94


Diventa necessario rinunciare ad abbracciare i figli neanche molto lontani, i nipotini, i fratelli e le sorelle, che si possono vedere con le video-chiamate, grazie all’evoluzione tecnologica dei cellulari, ormai utilizzati pure dalle persone anziane per sentirsi meno isolate. In questo periodo ho avvertito con intensità la carenza del sole, del verde, dell’infinito spazio celeste, della luna la sera, delle stelle al tramonto e all’aurora. Mi sono sentita prigioniera dei blocchi di palazzi troppo vicini nel centro cittadino, che limitano lo sguardo oltre il confine del cemento. Si osservano, involontariamente, scene familiari dalle finestre di fronte, assistendo alla gestione dei piccoli nei momenti del pasto e ascoltando a sprazzi parti di discorsi fatti al telefono, sul balcone troppo vicino. Puoi condividere la segregazione con tutte le persone sconosciute sedute davanti alla tv in cucina mentre cenano, puoi immaginare a luci spente e finestre chiuse il loro menage quotidiano, ormai standardizzato perfino nel rituale della sigaretta fumata sul terrazzo. Si rimane, tuttavia, bloccati nella comune riflessione di questi ultimi tempi: un nemico invisibile ha dichiarato guerra all’umanità! Ci ha rinchiusi tutti nelle nostre case, senza distinzione di sesso, età, stato sociale, razza o religione, obbligandoci a stare vicino ai nostri familiari, imparando daccapo la convivenza, la tolleranza e la speranza, dimenticate negli ultimi anni. Avevamo disimparato come si vive nella propria dimora senza correre fuori per il lavoro, per gli impegni e per gli appuntamenti ludici, oppure semplicemente per sfuggire alla presenza di un coinquilino poco amato, come ad esempio un partner. 95


Mettiamo in luce lo sforzo necessario per accettare un pensiero diverso dal nostro, soprattutto se espresso dalle persone che amiamo o credevamo di amare. Si preferisce condividere il pasto in silenzio, ognuno chiuso nei propri pensieri ripetitivi e improduttivi, pronti a scaricare la propria insoddisfazione su chi si permette di rompere quello stato di quiete apparente, dato dal silenzio forzato, con una parola soltanto o col rumore di una stoviglia. Un ulteriore effetto negativo del lockdown è l’insofferenza verso i bambini che a causa della chiusura delle scuole di ogni ordine e grado vengono maltrattati da genitori senza amore, poco avvezzi a curare e contenere l’energia dei figli. L’impazienza è acuita dall’impegno di dover seguire i bambini nei compiti scolastici, assegnati online dagli insegnanti, che preparano le lezioni nell’intento di non far perdere l’anno scolastico ai propri alunni. Diventa davvero inammissibile per gli operatori sanitari scoprire i maltrattamenti e gli abusi sul corpo dei minori giunti in Pronto Soccorso in periodo Covid. Non si può accettare né tantomeno giustificare quell’uomo che in queste circostanze difficili per tutti, accecato dalla gelosia, dalla rabbia e da altre emozioni negative uccide irrazionalmente la propria compagna: in nove settimane di quarantena ci sono stati undici femminicidi. Non uccide solo il coronavirus, purtroppo si muore anche per la mente malata di alcuni uomini che, massacrando la propria donna, credono di esprimere la virilità e la supremazia.

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RIFLESSIONI SUL CAMPO Un Medico Ospedaliero Italiano

Il susseguirsi ininterrotto delle sirene delle ambulanze, che come un pianto senza tregua, di giorno e di notte, ha risuonato nelle strade circostanti gli ospedali, resterà impresso come una cicatrice nella memoria emotiva di ciascuno di noi. E come la generazione che ha vissuto i bombardamenti nelle proprie case, anche dopo mezzo secolo, sobbalza ad ogni boato o si sveglia di terrore per un incubo notturno, così la nostra generazione continuerà a sentire un brivido freddo al suono prolungato di un’ambulanza. Quanto agli incubi, non hanno mancato di tormentare i miei sonni sin dalle prime settimane di emergenza. Venivano a farmi visita di notte le bare sigillate che di giorno vedevo uscire dai sotterranei dell’ospedale, con il loro funebre corteo di barellieri incappucciati le cui maschere dal becco adunco e dal profilo particolare ricordavano quelle degli antichi medici nel periodo della peste. Tali visioni turbavano il mio spirito producendo una profonda angoscia che aumentava al pensiero di tutte quelle vite improvvisamente strappate al loro gomitolo di affetti. Queste esperienze visive, uditive ed emotive sono destinate a segnare per sempre la memoria e la consapevolezza di tutti noi 97


medici che abbiamo vissuto personalmente la pandemia in prima linea. Ma perché la storia non si ripeta, la si deve scrivere attenendosi ai fatti, prima ancora che alle emozioni personali. E di ciò vorrei dare conto in questa breve riflessione, che si propone volutamente senza nomi e senza dettagli, proprio perché i fatti che determinano il corso della storia sono quelli in cui molti possono riconoscersi. La mia è la storia di un medico ospedaliero specialista che lavora in uno dei grandi ospedali di Bologna e che ha visto stravolgere la quotidianità come tutti, e il proprio modo di lavorare come tanti. Ed è questo secondo aspetto che mi interessa divulgare in tale contesto. Appena esplosa l’emergenza Covid-19 nel nostro paese, ho avuto improvvisa e immediata la sensazione di essere solo, come i MMG in tutta Italia. Solo ad indossare la mascherina e il camice usa e getta nei primi giorni dopo la segnalazione del virus in Italia, in un contesto sanitario in cui tutto sembrava procedere invariato, come se le notizie quotidiane parlassero di un altro paese. All’inizio della pandemia l’errore più grande che si potesse fare è stato proprio quello di banalizzarla, sottovalutandola e paragonandola ad una influenza stagionale. Le conseguenze di questo atteggiamento sono state purtroppo chiare e rapide, in quanto il virus ha regalato in poco tempo una letalità sconvolgente. Se poi tale atteggiamento è condiviso anche da chi gestisce l’organizzazione ospedaliera, si finisce col perdere definitivamente la fiducia che le cose possano migliorare. Si percepisce e si subisce in prima persona l’assoluta incapacità di coloro che si 98


sono ritrovati a gestire l’emergenza, giustificabile in parte dalla mancanza di esperienza diretta con questo specifico virus. Mi sono sentito solo pure nel constatare fra i primi, a malincuore, che il servizio sanitario del proprio Paese è ben lontano dall’essere il tanto sbandierato migliore del mondo. L’elevatissima mortalità registrata non può che indicare quanto il sistema non abbia funzionato, che la sconfitta è stata durissima, che abbiamo vissuto un brutto capitolo della storia della Medicina, impossibile da dimenticare. Solo nel cercare di approfondire, di andare oltre quanto annunciavano i comunicati stampa, in un momento storico in cui i mezzi informatici avrebbero reso quanto mai rapida e facile la condivisione in tempo reale di dati clinici e di comportamenti “virtuosi” fra colleghi. Solo di fronte ad improvvisati cultori ed esperti in virologia che hanno esibito in quei giorni ripetutamente le loro competenze sui media, senza alcuna reale conoscenza di quello che avveniva sul campo. Solo nell’adempimento del mio dovere, recandomi ogni mattina in prima linea, nel silenzio assordante della Direzione Sanitaria che ha atteso settimane prima di mettersi in comunicazione diretta con tutto il personale riguardo ad una realtà in cui eravamo immersi fino al collo da troppi giorni. Solo nel constatare che il rischio di infezione era molto alto anche nell’attività ambulatoriale routinaria (che rappresenta la maggior parte del mio impegno professionale), di fronte ad un paziente asintomatico, e non solo nei reparti di terapia intensiva, 99


con la differenza angosciante di non aver a disposizione gli stessi dispositivi di protezione indispensabili per difendersi dal virus. Solo nel non avere chiare indicazioni per rispondere ai pazienti che mi chiedevano se fosse necessario eseguire la visita programmata, pur correndo il rischio di essere contagiati. Solo nell’essere lasciato all’oscuro di direttive sanitarie sempre subite, mai condivise né preannunciate, come del resto avveniva negli altri grandi ospedali della regione. E, quel che è peggio, direttive spesso dettate da legge di necessità o di convenienza, travestite da ottemperanza a linee guida in continua trasformazione. Un solo esempio: in uno dei momenti più bui del lockdown, la mancanza di mascherine – fenomeno che ogni paese del mondo in questa circostanza ha conosciuto – ha generato la regola di non usare mascherine nei corridoi o persino durante alcune procedure mediche che non comportassero una particolare prossimità col paziente. Solo ad appurare, nei primi giorni di emergenza, che il carico di mascherine appena consegnate era già sparito nella notte o che non ci si poteva fidare neanche dei presidi protettivi a disposizione perché di materiale scadente. Solo nelle notti infinite di reperibilità-guardia, nell’attesa frustrante di sanificazioni degli ambienti contaminati che non arrivavano mai perché non previste. Solo nella fatica accumulata, con un rischio maggiore di compiere disattenzioni che potessero metter a repentaglio l’incolumità propria e altrui. 100


Solo nell’attesa di una risposta mai pervenuta alla mia richiesta di essere sottoposto a tampone. Solo, in altre parole, sia di fronte ad un nemico virale invisibile quanto pericoloso, sia di fronte al “fuoco amico”, un sistema cioè che non ha – per ignoranza, incompetenza, disorganizzazione o convenienza (non sta a me giudicare) – messo al primo posto la mia incolumità in quanto operatore sanitario. Da soli non si vince nessuna guerra: la storia ce lo ha insegnato spesso. Ma evidentemente non basta.

DISTRUZIONE - ALAIN HARVET 101


LA PANDEMIA CI CAMBIERÀ Simonetta Vernocchi Specialista in Pneumologia - Magenta (MI)

La Lombardia è in ginocchio. Non è andato tutto bene: ci sono i morti, troppi morti. Ci sono i parenti dei morti che sono arrabbiati, che non capiscono come i loro cari possano essere davvero morti, così in fretta, così soli, così inutilmente, così lontani. Ci sono i troppi medici che si sono ammalati e sono morti. Ci sono i medici, gli infermieri, gli operatori socio-sanitari che si sono ammalati, che hanno infettato le loro famiglie e messo a rischio le loro vite. I medici e gli infermieri sopravvissuti a tutti quei morti, che non riescono a dimenticare, non riescono a non pensare, che hanno un dolore dentro continuo che non li fa dormire, che rode. Si sentono in colpa per essere sani, per essere sopravvissuti. Si sentono in colpa per non essere riusciti a salvare tutti. Ci sono le responsabilità dei capi e la dedizione delle dottoresse. C’è la stupidità di chi ci governa. C’è l’arroganza della scienza. C’è l’insegnamento dei morti che da sempre insegnano ai vivi, ma non a tutti, solo a coloro che hanno mente e cuore per imparare. 102


Ci sono i nostri anziani che se ne vanno in silenzio nelle case di riposo, le persone più fragili che non abbiamo saputo proteggere. Ci sono i poveri che non possono curarsi. Ci sono i poveri uccisi dalla fame e anche dalla pandemia. Noi saremo diversi. Ma saremo migliori? Se saremo in grado di ridiscutere i nostri valori potremo essere persone migliori. Allora la pandemia avrà avuto un significato. La morte, questa morte incombente sul mondo, ci ha reso tutti uguali, tutti fragili, tutti, ricchi o poveri, tutti impauriti, tutti allo stesso modo ignoranti o scienziati. Tutti dicono sciocchezze, anche i premi Nobel, anche i luminari. Lontani, separati, possiamo ridiscutere i nostri confini, rivedere le nostre priorità e sentirci vicini come non mai. Possiamo sentirci fratelli senza mai abbracciarci, o conoscendoci appena. Abbiamo capito chi amiamo e di chi possiamo fare a meno. La pandemia ha cambiato radicalmente le nostre priorità, abbiamo improvvisamente capito cosa è importante e cosa non lo è, e di cosa possiamo fare a meno. Della salute possiamo fare a meno se non siamo soli. Se siamo con le persone a cui vogliamo bene, che tengono a noi, e che ci tengono: anche la morte non fa paura. Fa paura il sacco nero se siamo soli. Abbiamo abbandonato la frenesia del lavoro, delle cene, del fitness, degli impegni sociali, accademici, politici, turistici, pos103


siamo fare a meno di tante cose, ma non dei nostri cari, non delle persone che amiamo. La pandemia ci ha reso fratelli, ha mostrato il lato nascosto della nostra personalità, ha tirato fuori chi siamo davvero: chi si è nascosto nel suo buco, messosi in «malattia preventiva» e chi ha mostrato un grande coraggio, intraprendenza e generosità. La ragionevolezza e la saggezza in un momento come questo devono fare i conti con le nostre paure e con l’amore. Già, l’amore. Ma cosa è l’amore? Siamo disposti a rischiare il contagio per amore? Siamo disposti a rischiare la nostra vita per amore di persone che nemmeno conosciamo, che non ci diranno neppure grazie? È giusto chiedere ad una mamma e ad un papà di isolarsi, di rinunciare a stare con la propria famiglia, di rischiare la vita per salvare persone che nemmeno conoscono, che non gli riconosceranno comunque nessun merito, che anzi, se andrà male, li denunceranno e cercheranno una rivalsa? Questo è il paradosso della nostra società. Se andrà tutto bene sarai un eroe, se andrà male ti denunceranno. Ma non dipende da te, la vita e la morte non dipendono dai medici. Dalle ceneri delle frenetiche vite deve rinascere un modo nuovo di considerarci fratelli. Dal fallimento del sistema sanitario in Lombardia potrà rinascere un modo nuovo di fare salute? 104


Riusciranno finalmente i medici ad aiutarsi senza umiliarsi, senza dover in ogni momento tentare di primeggiare e di mostrarsi i migliori? Ci affideremo ancora ai “tromboni disturbati” o avremo il coraggio di voltare pagina ed essere essenziali ed obiettivi nelle nostre scelte? Avremo «l’onestà intellettuale» o saremo prezzolati dalle ditte farmaceutiche? Le dottoresse in prima linea sono umili, sanno che in Medicina non ci sono certezze, gli aiuti reciproci sono preziosi, sono oneste, sincere, agiscono come se di fronte avessero un figlio, un padre, un fratello. Eviteremo di scodinzolare dietro ai primari golosi ed avidi di palcoscenico? Le nostre scelte saranno guidate dalla conoscenza che viene dalla pratica o ci lasceremo ancora abbindolare da chi urla più forte? Complottisti, negazionisti, no-vax, nostalgici della medicina esotica delle cure alternative: è ora di scendere in campo. Se davvero avete fede nelle vostre idee mostrate il vostro coraggio ed affrontate il virus, siate solidali con il vostro credo.

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TESTIMONIANZA DI UN CARDIOLOGO Lucio Giordano Specialista in Cardiologia - Crotone

Da settimane i telegiornali danno notizie sulla diffusione dell’epidemia da Coronavirus in Cina, ma non sembra che ci sia un particolare allarmismo, per lo più si ascoltano le notizie con indifferenza. Un pomeriggio di fine febbraio fui chiamato per una consulenza in Ortopedia, in medicheria il televisore era acceso e trasmetteva le immagini allarmanti dell’ospedale di Codogno: questo comunicato interessava tutti noi presenti, all’improvviso fermi e attenti per seguire con apprensione ciò che stava succedendo non in Cina ma in Italia! Poi la consulenza, shock settico, ma il pensiero martellante è che prima o poi il contagio arriverà da noi, nel sud dove le carenze sanitarie sono maggiori rispetto al nord Italia. Cosa mi preoccupa? Chi mi sta vicino ovviamente, prima di tutto la mia famiglia, non tanto Francesca, mia figlia, che intuendo una diffusione dell’epidemia, aveva anticipato il suo rientro da Roma, al contrario di Cesare, suo fratello che aveva deciso di restare lì. È Carmelita, la mia preoccupazione maggiore, che pur avendo superato la chemio e la radioterapia (sono trascorsi già 5 anni), resta la persona più fragile. 106


Il 5 marzo viene indetta con urgenza un’assemblea provinciale in cui incontro insieme al prefetto i sindaci della provincia di Crotone, i vertici ASP, il questore, ecc. ecc. Inizia il Prefetto ad informare sul motivo della riunione e sull’urgenza del momento che vive il nostro Paese, parlano ad uno ad uno i vertici delle ASP, poi prendono la parola alcuni sindaci ed infine tocca anche a me parlare. Esprimo subito le mie apprensioni, elencando i punti deboli del nostro sistema sanitario. Comincio dai medici di famiglia (MMG) che sono da soli sul territorio, senza supporto alcuno, e che saranno in grande difficoltà di fronte all’imminente emergenza. Passo quindi all’ospedale, il luogo meno sicuro per chiunque vi arrivi: è tutto aperto, dagli ambulatori al bar, inoltre il continuo via vai dei parenti per le visite ai pazienti incrementerà la possibilità del contagio favorendo la diffusione del virus in maniera esponenziale. Il prefetto con poco garbo mi toglie precocemente la parola, secondo lei non mi devo permettere di dare consigli ai vertici ASP, che notoriamente non sono in corsia, in prima linea. Per rispetto istituzionale non abbandono l’incontro, mi obbligo a rimanere e devo assolutamente ascoltare la replica del Direttore Sanitario dell’Ospedale. Ho capito che i Sindaci erano stati invitati per ascoltare non per intervenire, senza considerare che io, oltre ad essere sindaco del mio paese, sono anche uno specialista con decenni di esperienza in Ospedale, dove lavoro tuttora. 107


Per fortuna dopo 5 giorni dalla riunione è il presidente della Regione Calabria a chiudere tutto e a decretare il lockdown. Attività ambulatoriali intra-moenia, esami programmati, visite dei parenti, bar e quant’altro: tutto chiuso in Ospedale. Il primo caso di Coronavirus a Crotone si registra il 9 marzo e purtroppo anche io devo mettermi in quarantena poiché la paziente numero 1 aveva partecipato ad un convegno a S. Severina, organizzato al Castello nella Sala conferenze, dove ero anche io. Nel frattempo anche due fratelli risultano positivi al tampone per cui inizialmente i pazienti Covid vengono trasferiti a Catanzaro, fino a quando anche l’ospedale di Crotone apre il reparto Covid. Informo sui social che anche nel nostro ospedale ci stiamo organizzando per fronteggiare la pandemia. Ed ecco che mi arriva un inaspettato whatsapp di C.C., l’infermiera incaricata per assistere il primo paziente Covid ricoverato all’ospedale d Crotone: “Buonasera, ti scrivo dopo aver visto il tuo post su FB, ed ero tentata di scriverti lì, ma oltre al fatto che sei un personaggio pubblico seguito da tutti i tuoi concittadini... avrei provocato altre ansie nella povera gente! La verità, Lucio, è che hanno creato due parcheggi in una degenza dove ieri sera ho fatto la notte col paziente Covid in maniera disumana... Quel luogo pazzesco è a rischio di contaminazione per chi ci ha lavorato come me. Ho dovuto portare la mascherina Fp3, inoltre mi hanno fornito di scafandro e calzari che ho dovuto tenere addosso tutta la notte senza poter andare neanche in bagno. 108


Col paziente ora c’è anche G.D. che lo assiste. Il paziente era stabile, ma non ha riposato per niente durante la notte... ha crisi dispnoiche e tosse stizzosa e ingravescente. Non aveva bisogno di assistenza intensiva ma solo di aiuto e conforto. Ho tenuto duro per tutta la notte, rimanendo vicino all’ammalato e parlandogli in continuazione, gestendo da sola il quadro clinico, in quanto il virologo è reperibile da casa. Abbiamo più volte cercato di sensibilizzare i nostri dirigenti sulla necessità di percorsi obbligatori, sostenendo che non potevano esserci tratti privi dei DPI… ed ecco l risultato: il castello di carta sta crollando… in un battibaleno hanno smontato l’OBI (Osservazione Breve Intensiva del Pronto Soccorso). Intanto è arrivato il paziente da intubare...e nessuno ha capito che il vero problema non è l’esterno, ma l’interno dell’ospedale!” C.C. è una delle infermiere più brave del presidio ospedaliero e per questo è stata scelta per fare la prima notte al paziente Covid, tenuto conto che nessuno aveva esperienza con questo tipo di contagio. L’infermiera si è dimostrata all’altezza del compito affidatole ed ha seguito da sola il paziente nella maniera più corretta possibile, considerate le circostanze precarie. Il reparto Covid di Crotone è arrivato a gestire contemporaneamente 20 pazienti, e questo grazie agli infermieri che hanno permesso di fronteggiare una situazione critica del tutto nuova, dove non esistevano linee guida né terapie mirate. Non possiamo non ricordare la storia travagliata del caposala del Pronto Soccorso, G.D., contagiato durante il suo lavoro, che ha lottato per tre mesi, in buona parte in Rianimazione a Germaneto (CZ). 109


Durante questa lunga degenza è stato sottoposto a dialisi renale, a numerose trasfusioni e alla fine anche ad un intervento chirurgico d’urgenza per perforazione della colecisti. Penso che sia l’unico paziente Covid che abbia subito un tale intervento chirurgico in condizioni così particolari. Quando ha superato il contagio ed è stato dimesso, la televisione locale ha voluto intervistarlo e mia moglie Carmelita, se non fosse stato per il nome, non lo aveva nemmeno riconosciuto per quanto era cambiato e dimagrito. Con G.D. da tempo ci sono forti legami d’amicizia, rinsaldata da anni di lavoro durante i quali abbiamo condiviso le sofferenze degli ammalati e dei parenti, cercando sempre una via di conforto e di solidarietà, ma devo ammettere che la nostra amicizia si è ulteriormente intensificata per la gratitudine che io sento nei suoi riguardi per tutte le volte che mi è venuto incontro partecipando alle mie amarezze e sofferenze.

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LA SPERANZA VIENE DALLA CONOSCENZA L’IMPATTO DI NAPOLI CON IL SARS COV2 Antonio Izzi Specialista Malattie Infettive - Napoli

Sono sempre stato molto orgoglioso di appartenere al Dipartimento delle Emergenze Infettivologiche dell’Ospedale “Domenico Cotugno” di Napoli, ed a maggior ragione devo esserlo ora che il mio ospedale ha raggiunto una inaspettata ma meritata fama planetaria. Il nostro ospedale, per anni è stato considerato un “lazzaretto” dalla popolazione napoletana per lo stigma di essere l’Ospedale dei pazienti untori, contagiosi, con malattie trasmissibili. Gli stessi pazienti si vergognavano di dire in giro di essere seguiti o ricoverati al Cotugno... L’Ospedale dove lavoro riflette tantissimo quella che è la mentalità vocazionalmente altruista di una metropoli straordinaria come Napoli, città aperta, pronta ad accogliere tutti, senza distinzione di razza, etnia, credo religioso ed appartenenza politica. Il “Cotugno” è l’Ospedale con Pronto Soccorso Infettivologico, aperto H24, dove chiunque sia in difficoltà per patologie infettive o presunte tali trova ospitalità e conforto; è in particolar modo l’Ospedale dei negletti, degli “ultimi”, dei clochard, degli emarginati sociali per gli stili di vita… è un vero ammortizzatore sociale! Ma il Cotugno è anche una palestra: da un lato una palestra di vita, una esperienza unica nel Meridione, dall’altro una 111


palestra fatta di allenamento, simulazione e preparazione alle “microbiological weapons” ed alle pandemie infettive ove, negli anni, si è creato un backbone di medici che sono una formidabile ossatura di tempestivo adeguamento a nuovi e vecchi pericoli. È stato così che, allorquando il 28 gennaio 2020 mi è arrivata una telefonata da una bravissima collega del Pronto Soccorso dell’Ospedale dei Pellegrini di Napoli, è cominciata la nostra battaglia contro quello che all’epoca veniva chiamato 2019-n-Cov. Mi viene segnalato l’arrivo, con mascherina chirurgica sulla bocca e mediatore culturale cinese a latere, di un giovane cinese di 27 anni (M.N.) che si trovava da alcuni giorni a Napoli in viaggio di nozze con la deliziosa consorte di 26 anni, il quale aveva sviluppato durante la permanenza napoletana una febbre con tosse e dispnea... Chiedo alla Dottoressa di farsi dare il passaporto del paziente, di contumaciarlo immediatamente in una stanza e di effettuare subito dopo una Rx standard del torace. Il paziente proveniva da Wuhan, provincia di Hubei, ed era partito in pieno scoppio della epidemia dall’epicentro cinese con volo diretto della Southern China Airlines da Wuhan per Roma e quindi giunto a Napoli. Immediatamente si mette in moto la “macchina da guerra” del Cotugno: vengono rese disponibili subito le stanze di alto isolamento respiratorio a pressione negativa annesse al “nostro” Pronto Soccorso e, insieme ad una bravissima collega, iniziamo all’istante il “rito” della vestizione nelle nostre stanze a compartimenti stagni. 112


Decidiamo di andare sul sicuro adottando tutte le misure e le precauzioni dei percorsi che avevamo già da anni preparato per il virus di Ebola: camice monouso non riciclabile sotto, tuta ermetica intero corpo impermeabile con zip, copricapo monouso sulla stessa, maschera impermeabile personalizzata sul volto per gli occhi e la fronte, mascherina FFP3, visor monouso, calzari monouso, triplo paio di guanti di cui l’ultimo lungo per coprire ogni possibile scopertura del polso. Arriverà la consorte anch’essa prontamente ricoverata, come M.N., in stanze diverse. Nel frattempo il marito verrà rapidamente avviato, tramite percorsi già da tempo meticolosamente preparati, in Radiologia per una HRCT torace. Questa indagine ha evidenziato subito la caratteristica radiologica più tipica della polmonite da SARS-CoV2: areole groundglass “a vetro smerigliato” disseminate elettivamente su tutta la superficie perimantellare polmonare. M.N. resterà da noi come caso sospetto (all’epoca non confermato dall’Istituto Superiore di Sanità con la RT-PCR home made effettuata con i primers provenienti dal Prof. Christian Drosten di Berlino), con la diagnosi di polmonite lieve-moderata, per circa due settimane, cosa che ci ha consentito di “allenarci” a quella che un mese dopo sarebbe stata l’onda d’urto dei pazienti infetti campani di rientro dal Nord Italia. L’attenta ed aggiornata riproposizione di linee guida organizzative interne e terapeutiche internazionali, già predisposta da metà gennaio presso il nostro Dipartimento delle Emergenze Infettivologiche, nonché lo studio ed il rispetto meticoloso dei per113


corsi sporchi rispetto a quelli puliti, unitamente al continuo update sulla evoluzione epidemiologica, clinica e terapeutica della malattia da COVID virus-19, hanno fatto sÏ che il nostro ospedale sia riuscito ad offrire una assistenza di elevato livello anche ai pazienti molto gravi e contemporaneamente ad evitare contagi tra il personale medico e paramedico. Per tale motivo il Cotugno ha rappresentato un esempio di speranza e di sprone nella lotta al Coronavirus, facendosi apprezzare come modello di nosocomio che con l’umiltà mista alla conoscenza e all’organizzazione specialistiche ha combattuto vittoriosamente contro quello che ad un certo punto sembrava un nemico inarrestabile!

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DONAZIONE DI SANGUE IN TEMPI DI CORONAVIRUS A RAGUSA Pietro Bonomo Rete Raccolta AVIS - Provincia Ragusa

In questi mesi in cui la nostra vita è stata totalmente ridisegnata dal virus abbiamo dovuto rivedere tutto, compreso l’approccio alla donazione di sangue. Credo che tutti inizialmente abbiamo sottovalutato questa virosi, relegandola al ruolo di fastidiosa influenza, ma, ben presto ci siamo ritrovati di fronte ad un fenomeno epocale che mai avremmo potuto immaginare possibile! Tra i ricordi dei nostri avi abbiamo ripescato episodi riferiti alla SPAGNOLA degli anni 20 che si rivelano drammaticamente sovrapponibili alle nostre narrazioni del 2020, inducendoci a pensare che un secolo è passato invano o perlomeno senza avere prodotto niente di più efficace delle mascherine e della CLAUSURA! In questa atmosfera tremenda che ha sospeso la vita e bloccato la socialità ci viene immediatamente detto a noi medici trasfusionisti che non avremmo potuto aggiungere ai morti da Corona Virus anche i morti da carenza di sangue e di emocomponenti! Bisogna andare avanti e convincere i donatori ad offrire il loro braccio, garantendoli al meglio delle nostre capacità. L’autorità nazionale (CNS) prontamente dà indicazioni, istruendoci sui tempi di incubazione, sui tempi di quarantena (isolamento fidu115


ciario), sulle modalità di trasmissione, sui sintomi precoci, ma soprattutto ci invita a mettere in atto una serie di misure organizzative al fine di evitare l’aggregazione dei donatori nei locali di attesa e, di conseguenza, consentire il mantenimento della distanza di sicurezza interpersonale, almeno un metro. Io ho l’onere e l’onore di gestire la raccolta del sangue e degli emocomponenti della provincia di Ragusa che è quella con più donatori d’Italia /1000 abitanti e che contribuisce alla raccolta siciliana, pur essendo popolata da soli 310.000 abitanti, con 40.000 donazioni/ANNO, pari a circa il 20% delle 200.000 donazioni dell’Isola! Un crollo delle donazioni avrebbe messo in crisi tutto il sistema sanitario siciliano che oltretutto, al pari di quello della Sardegna, gestisce una presenza importante di pazienti talassemici, trasfusione dipendenti! La rete da me gestita si avvale di 12 punti di raccolta fissi ben organizzati nei quali si alternano circa 90 operatori sanitari (50 infermieri 40 medici) con un flusso medio di donatori intorno a 3400/mese. Ecco le raccomandazioni ESSENZIALI del Centro Nazionale sangue: • Ricorrere preferenzialmente alla chiamata-convocazione programmata dei donatori al fine di regolare il numero degli accessi evitando il contatto stretto con eventuale soggetto affetto da COVID-19 asintomatico • Adottare misure di triage preliminare del donatore già al momento del contatto telefonico per porre alcune domande su eventuali patologie in corso o contatti a rischio recenti • Adottare triage con misurazione della temperatura nella fase 116


di accoglienza dei donatori, suggerendo il valore di 37,5°C della temperatura corporea come parametro di rinvio temporaneo del donatore. • Mantenere la distanza interpersonale di sicurezza superiore ad UN METRO. Ma come avrei potuto garantire la reciproca sicurezza degli operatori sanitari e dei donatori dal momento che per visitare un donatore, per misurare la pressione, per determinare la emoglobina, per fare la flebotomia per la donazione, gli infermieri e i medici non possono certo mantenere un metro di distanza?! La risposta tecnica ovvia fu quella di adottare obbligatoriamente le mascherine da parte degli operatori sanitari e dei donatori. Peccato che a quell’epoca trovare le mascherine era assolutamente impossibile ed anche gli operatori dei reparti ospedalieri più a rischio erano in seria difficoltà! Scrissi all’Assessorato Regionale della Salute ponendo questo quesito e desidero riportare fedelmente la risposta che mi fu data dall’autorità sanitaria: “In ordine a quanto sopra e in assenza di univoche disposizioni impartite dal livello centrale, si comunica che l’attuale limitata disponibilità regionale dei DPI non consente, alla data odierna, di destinare i predetti ai donatori volontari di sangue, afferenti di fatto ad un setting di attività ambulatoriale a basso rischio”. Non sarebbe stato più corretto ammettere che l’Italia, per ragioni varie che mi astengo dal commentare, era sprovvista di DPI e che sarebbe stato opportuno cercare di garantire comunque i donatori e gli operatori sanitari con presidi procurati attraverso 117


l’impegno del volontariato, piuttosto che definirci un Setting di attività ambulatoriale a basso rischio? Nel frattempo cominciavano a morire gli operatori sanitari, oltre 170 medici fino ad ora, per non essere stati adeguatamente protetti! Insieme a me si impegnarono tutti i volontari dell’Avis, Presidenti in testa, per risolvere il problema delle mascherine. Trovammo una ditta produttrice di tute da lavoro, camici etc, che accettò il compito e si impegnò a fornirci 100 mascherine al giorno in TNT , date ai donatori gratuitamente ed al personale delle unità di raccolta sia amministrativo che volontario per poter infrangere la barriera del metro imposta dalla stessa autorità sanitaria che ci negava i dispositivi! Un donatore asintomatico che aveva appena donato fu scoperto essere COVID positivo, in quanto pochi giorni dopo la moglie divenne sintomatica e positiva al tampone. Immediatamente tutti gli operatori amministrativi e sanitari della UDR (Unità di raccolta) AVIS siamo stati sottoposti a tampone e test sierologici per fortuna risultati tutti negativi! Grazie alla mascherine artigianali? Può darsi! Quante volte ci siamo sentiti dire che le criticità possono essere foriere di grandi opportunità?! Ebbene questo sconvolgente virus ci ha obbligato, senza se e senza ma, a darci una nuova organizzazione, cui i donatori hanno aderito con disciplina, grande spirito di collaborazione e responsabilità. Il flusso dei donatori all’interno delle strutture sanitarie e durante tutte le fasi del percorso di donazione è stato gestito in modo regolare e cadenzato. 118


Quali sono le ricadute operative principali positive per le nostre strutture di raccolta? TRIAGE: Un accurato PRETRIAGE telefonico che bloccava la presentazione presso il punto di raccolta PRENOTAZIONE di tutte le donazioni in base alle postazioni, allo spazio e alle risorse umane disponibili, soprattutto medici selezionatori. Zero attesa significa nessuna fila alla reception per l’autenticazione, nessuna fila dal medico selezionatore, nessuna fila per occupare una poltrona in sala donazione, nessuna fila per occupare un tavolino monoposto per ogni singolo donatore in sala ristoro! DPI: I dispositivi di protezione individuale sono stati potenziati ed estesi a tutti. Benché adesso sia facile reperirli sul mercato, l’associazione continua a farsene carico acquistandoli e distribuendoli. In segreteria sono state collocate barriere divisorie di plexiglass che consentono in basso il passaggio di documenti o tablet e le segretarie, dotate di mascherine e guanti per sé, li hanno forniti ai donatori durante l’accettazione invitandoli ad indossarli. La mascherina ai donatori è stata ritenuta da subito indispensabile, nonostante le perplessità iniziali delle autorità sanitarie. Gli infermieri e i medici, che già di norma indossavano mascherine, occhiali e guanti, sono stati dotati di visiere più confortevoli degli occhiali. Mascherine e guanti sono stati dati pure al personale addetto al ristoro e alle pulizie. Infine dispensatori di igienizzante per le mani sono stati resi disponibili in ogni locale della UDR. 119


SANIFICAZIONE sono state riviste e potenziate le procedure di sanificazione, prevedendo interventi su ogni postazione della sala donazione dopo ogni procedura, interventi giornalieri su separatori, lettini, bilance, attrezzature, mobili, PC, tastiere e interventi con ditte esterne a scadenze di 15 gg. RSPP: Il Responsabile del Servizio di Protezione e Prevenzione dei lavoratori ha elaborato tabelle con valutazione dei rischi correlati al SARS-COV 2, attraverso indicazioni e prescrizioni ai lavoratori del Centro di raccolta, inclusa la misurazione giornaliera della temperatura corporea, prima di prendere servizio, uso corretto dei DPI etc. DPO: Il responsabile della Privacy (Data Protection Officer) ha predisposto una nuova informativa per i donatori allo scopo di informarli sul nuovo trattamento dei dati personali richiesti dall’AVIS in correlazione con l’emergenza COVID 19, incluso l’obbligo di comunicare all’ufficio competente la presenza di patologie infettive nella struttura. PDI (Post Donation Information): Il CNS e quindi il CRS hanno imposto il censimento costante di eventuali comunicazioni di febbri sospette o altro sopraggiunte in fase post donazione. A tale scopo i donatori sono stati sensibilizzati a comunicare con tempestività qualunque problema di salute dopo l’effettuazione della donazione, come febbre tosse etc. CONCLUSIONI Non sarà possibile a breve termine eliminare le mascherine, né abolire le altre procedure protettive, ma anche quando sarà ri120


pristinato un apparente stato di normalità pre-Corona, credo che poco o niente saremo disposti a modificare, perché questa criticità ci ha insegnato che è possibile ottenere livelli di efficienza e di sicurezza più alti, se tutti contribuiamo con buona volontà ad ottenere ricadute positive sia sui donatori che sulla organizzazione globale.

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IL MIO PAESE AL TEMPO DEL COVID-19 Loredana Marrazzo MMG - Mesoraca (KR)

Mesoraca (KR), piccolo centro di 5.000 abitanti della Provincia di Crotone, sorge su una collina della Piccola Sila, tra due torrenti, Reazio e Vergari, non molto lontano dalla montagna e dal mar Jonio. In questo piccolo paese svolgo la mia attività lavorativa: sono MMG, ovvero il vecchio medico di famiglia come si diceva in passato e come fu mio padre. Da lui ho ereditato la passione per la Medicina, la voglia di stare vicino alla gente e lo studio medico, al piano terra della casa di famiglia dove vivo con i miei. Come tanti colleghi mi sono trovata impreparata, all’inizio di questo anno bisestile, di fronte ad una patologia grave e preoccupante, il Covid-19 sostenuto dal coronavirus, di cui nessuno di noi poteva immaginare l’evoluzione, spesso funesta. Una delle poche certezze di questa pandemia, considerata la diffusione rapida ed ubiquitaria del virus responsabile, era data dal fatto che nel Sud Italia venivano registrati pochi casi di contagio e scarso ricorso alla terapia intensiva. Tutto il contrario del Nord, dove il virus circolava spavaldamente in maniera aggressiva, intasando il Pronto Soccorso e la Terapia Intensiva degli Ospedali delle grandi città, tanto da creare problemi per la mancanza di posti letto. 122


Inoltre il contagio cominciava a serpeggiare e a mietere vittime anche tra gli operatori sanitari, medici ed infermieri. In Calabria le carenze sanitarie note avrebbero senz’altro provocato una strage, ma per fortuna tutti i casi Covid-19, numericamente esigui rispetto a quelli della Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto, sono stati trattati adeguatamente col risultato di pochi decessi e molte guarigioni. Quasi tutti i contagi provenivano dalle “zone rosse” per il rientro dei calabresi dal nord, principalmente degli studenti universitari che studiavano nelle città più colpite dal coronavirus. Dopo una riunione informale con i colleghi del paese, durante la quale abbiamo espresso i nostri timori, all’unanimità è stato deciso quanto fosse importante proteggerci con i DIP e stare molto attenti ai primi sintomi dei pazienti per evitare di far parte del numero dei medici, prevalentemente MMG, deceduti per il contagio. Ci sono state in seguito altre riunioni con le autorità del paese e della provincia, a cui hanno partecipato la CRI e la Protezione Civile. Una volta iniziato il lockdown, il primo cittadino del paese ha emanato, sulla linea delle direttive ministeriali, una serie di decreti/raccomandazioni per obbligare le persone a non uscire di casa, se non per andare in farmacia o al supermercato. A vigilare che le norme fossero seguite erano stati coinvolti i carabinieri, che, fermi alle entrate e alle uscite del paese, controllavano e bloccavano i cittadini che uscivano di casa senza un valido motivo. Non posso dire di non essere stata turbata e molto preoccupata per questa calamità, soprattutto in assenza di linee guida per la diagnosi e di terapia mirata, da cominciare fin dall’inizio. 123


Comprendevo bene che era meglio tenere a casa propria il paziente con febbre e iniziali sintomi respiratori, anche lievi, ma non mi faceva stare tranquilla la mancanza di farmaci specifici, da usare subito per bloccare l’evoluzione del quadro clinico e accelerare la guarigione. In tale situazione sono stata molto vicina ai miei pazienti telefonicamente, soprattutto a quelli con qualche sintomo sospetto, ma per fortuna in paese non ci sono stati contagi. Per le terapie ripetitive intervenivano gli addetti della protezione civile, a cui si consegnavano le ricette, che portavano in farmacia. Ritiravano i farmaci e li consegnavano al diretto interessato. I pazienti dal canto loro erano soddisfatti del servizio e, considerata la circostanza, accettavano di buon grado questa modalità di cura/servizio, consapevoli della transitorietà del periodo critico, nella speranza che quanto prima tutto sarebbe tornato alla normalità. D’altra parte mi sentivo molto responsabile della mia famiglia e mi terrorizzava l’idea che potessi essere quella che portava a casa il maledetto virus, esponendo i miei cari al contagio, anche se erano rimasti tutti a casa in quarantena. In Calabria, terra ricca di uliveti, vigneti, castagneti e altri doni della natura, abbiamo poche strutture sanitarie idonee a fronteggiare qualsiasi malattia, figuriamoci un virus di questa portata mondiale, tuttavia è stato messo in campo il buon senso, osservando rigorosamente la quarantena e l’isolamento dei parenti rientrati dal nord. 124


Gli aggiornamenti quotidiani riguardanti contagi, ricoveri e decessi annoveravano la Calabria tra le regioni “virtuose” o fortunate ad avere meno contagi e decessi, per questo in paese abbiamo vissuto la quarantena con una relativa tranquillità. Mi sento in obbligo di ringraziare i miei concittadini per la responsabilità dimostrata ed il corretto comportamento, rispettando i decreti del governo e le ordinanze regionali. Ancora oggi, senza dispositivi di protezione individuale, forniti insufficientemente dalla Regione, noi MMG di questo piccolo centro calabrese, ci siamo muniti di mascherine, guanti, visiera e quant’altro per essere presenti ogni mattina nel nostro ambulatorio vicini ai bisogni dei pazienti e delle loro famiglie. A dirla tutta, in realtà, noi medici del Sud siamo stati fortunati molto più dei colleghi del Nord che, per essere al fianco dei propri assistiti e visitandoli senza protezioni, all’inizio della pandemia hanno sacrificato la loro vita, contagiati dai propri pazienti. Questo è il mio lavoro a volte rischioso, come in questa circostanza, ma sempre ricco di tante soddisfazioni.

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ESSERE MEDICO AL TEMPO DEL COVID-19 Francesco Gaeta Urologia e Andrologia - Milano

Sono medico e ho nelle mani la vita dei miei pazienti, perciò se non mi è chiara una procedura non debbo, non posso, e neppure lo voglio, adeguarmi. Mentre gli italiani sono in grandi difficoltà economiche per la lunga inazione del sistema produttivo nazionale dovuta al lockdown, il governo e la classe dirigente del nostro Paese, ma non soltanto loro, sembrano ancora lontani dall’aver realizzato appieno ciò che è successo da gennaio ad oggi. Il virus ha messo i nostri dirigenti nella condizione di essere inamovibili nonostante la loro patente incapacità, per cui nel corso della pandemia, non sono riusciti a fornirci alcun servizio che sia stato efficace e tempestivo. E la ragione di questa inamovibilità è semplice: in genere non si cambia il cavallo durante una situazione di emergenza e, mi si perdoni la maliziosità, credo che il prolungamento fino a dicembre dello stato di emergenza ventilato dal governo vada esattamente in questa direzione. La politica politicante, per carità, mal si concilia con la missione del medico, ma l’altissimo prezzo che la nostra categoria ha dovuto pagare nei giorni bui della pandemia per le omissioni, gli errori e i ritardi della classe dirigente ci im126


pone di parlar chiaro, lo dobbiamo ai 172 colleghi che si sono sacrificati, spesso a mani nude, sul fronte del dovere come dei soldati valorosi. Credo, perciò, valga per essi il motto della nostra Sanità Militare: “Fratribus ut vitam servares”. È il caso di ricordare preliminarmente che, a gennaio scorso, il governo nel giro di una settimana passò dalla totale sottovalutazione del pericolo di contagio proveniente dalla Cina (per ragioni assurdamente ideologiche) al lockdown totale: fu come se dopo aver mandato le proprie truppe in ferie, un Generale si trovasse a dovere organizzare, nel giro di un’ora, la difesa da un attacco esterno di un Paese di sessanta milioni di abitanti! Una parte di colpe per tale sottovalutazione è da attribuirsi, a mio avviso, soprattutto al premier Conte che ancora lo scorso 31 gennaio ci diceva che era tutto a posto e che tutto era stato predisposto: «Non c’è motivo di panico e allarme sociale, sono già state adottate misure rigorose di precauzione e continueremo a farlo con il massimo dispendio di energie per assicurare la protezione di tutti i cittadini» Peccato che uno dei principali leader della maggioranza che tutt’ora sostiene Conte il 26 febbraio successivo si sarebbe dato da fare per organizzare aperitivi antipanico sui Navigli milanesi. A proposito di efficacia e tempestività del governo basti ricordare la via crucis delle mascherine, introvabili nel momento critico della pandemia, nonostante la nomina di un commissario ad hoc. 127


A questa già poco limpida visione operativa di un governo rinunciatario del proprio ruolo di decisore, si è aggiunta la vulgata di scienziati e virologi, che per la verità frequentano più gli studi televisivi che non i loro laboratori e tra i quali non se ne trova uno che dica la stessa cosa degli altri. Infatti, se i cittadini spaventati vogliono entrare in confusione al cospetto di una malattia che già conoscono poco per mancanza di letteratura pregressa, basta che ascoltino queste nuove star televisive e così non riusciranno neppure a capire se servono i tamponi fatti prima, quelli per vedere gli anticorpi dopo, o il vaccino che, quando arriverà, potrebbe non essere efficace contro tutti i ceppi o addirittura superato dal decorso dell’epidemia. Non va meglio neppure se il cittadino ignaro si inoltra nell’ardua comprensione delle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che riesce a creare disagio, caos e inquietudini perfino meglio degli altri... e stiamo parlando di un’organizzazione dell’ONU! E che l’OMS non ne abbia imbroccata una, che fosse una, sulla pandemia lo ha spiegato, con rara chiarezza, il professor Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università e del Laboratorio di Virologia e Microbiologia dell’Università di Padova: «In questa pandemia, l’OMS ha sbagliato tutto lo sbagliabile perché si è completamente affidata ai dati forniti dalla Cina che è un Paese in cui la trasparenza non è un valore. Ma soprattutto, mi piacerebbe sapere che cosa hanno analizzato e ispezionato gli esperti dell’OMS quando sono andati in Cina. Credo che questa sarà una delle questioni alla quale l’OMS sarà chiamata a 128


rispondere. Sono quindi d’accordo con coloro che ipotizzano che la posizione dell’OMS sia stata influenzata da considerazioni geopolitiche più che di sanità pubblica di interesse mondiale». Purtroppo quest’epidemia da Covid-19, che ha messo a dura prova l’intero sistema sanitario globale, mi ha visto coinvolto nella triplice veste di medico, di paziente e di capofamiglia in un momento di grande difficoltà professionale e personale. Infatti, operando presso una struttura sanitaria statale di Milano, lo scorso 25 marzo, il giorno del mio genetliaco (sic!), mi è stato fatto il tampone e ventiquattro ore dopo ho conosciuto la sentenza: ero un positivo asintomatico! Subito fui messo in quarantena presso la medesima struttura sanitaria lasciando soli a casa, a Busto Arsizio, i miei familiari tra i quali la suocera, una persona di 89 anni, già in terapia con ossigeno per enfisema e Broncopneumopatia cronica ostruttiva oltre che cardiopatica trattata con l’Apixaban- Eliquis. Ebbene, mentre ero soggetto alla impossibilità di muovermi, la sera del 30 marzo mia suocera accusò sintomi neurologici che a mia moglie apparvero da ictus per cui, spaventata, chiamò il numero delle emergenze. Sopraggiunse l’ambulanza un paio d’ore dopo la mezzanotte e la diagnosi del medico fu di “verosimile” ictus, con la precisazione che lui non poteva fare niente di più di quanto l’anziana già non stesse facendo assumendo l’Eliquis e poi soggiunse che, data l’emergenza virale in atto, la paziente poteva rimanersene a casa. Ma la situazione non migliorò e, al mattino successivo, mia moglie fu costretta a richiamare il numero di emergenza. Arrivò una seconda ambulanza che, con129


statata la situazione, provvide al trasporto di mia suocera presso l’Ospedale di Legnano, designato dalla Regione Lombardia come HUB per i problemi afferenti gli ictus. Quivi, fatti gli accertamenti del caso, si scoprì che, in realtà, mia suocera non aveva avuto un ictus ma soltanto una iposodiemia da Covid-19, per cui fu ricoverata in regime di isolamento e, una volta riequilibrati i livelli del sodio, venne sottoposta alla prevista quarantena in ospedale. Al termine effettuò il secondo tampone, che risultò ancora positivo, per cui dovette effettuare un’altra settimana di isolamento. Terminata l’altra settimana di quarantena, mia suocera effettuò i due tamponi di rito (e siamo a quattro tamponi in totale!) che finalmente diedero risultato negativo e, pertanto, la vecchina poté rientrare in famiglia: tutto questo mentre io - a mia volta in quarantena - cercavo di rendermi utile, di fare il medico per telefono. Ma l’epopea della vecchina di famiglia non era ancora terminata. Infatti agli inizi di giugno la “Fondazione Anziani” di Lonate Pozzolo, dove mia suocera fruiva del servizio diurno prima dell’emergenza, ci richiamò per la riapertura del diurno ma richiese l’effettuazione dell’esame sierologico, nonostante mia moglie avesse già informato la fondazione del ricovero della mamma e dell’esito dei tamponi effettuati. Peraltro, durante il ricovero di mia suocera a Legnano, era venuto a casa un agente della Polizia Municipale per appurare dove fosse mia suocera che in quel momento era ancora ricoverata. Il predetto funzionario aveva in mano una lista della Prefettura di Varese riportante i positivi al Covid-19 da controllare. 130


Ma quanto questa lista fosse scollegata dalla realtà lo dimostrava il fatto che vi ero incluso anche io che, in quel momento eravamo a metà aprile - ero a casa in quanto dimesso dall’ospedale, dopo un ricovero canonico di quindici giorni, con tampone all’ingresso e due tamponi negativi prima della dimissione. Sicché l’agente sobbalzò e quasi non voleva crederci quando gli dissi che in quella lista dovevo esserci anche io. Poi controllò e infatti c’ero, mentre gli altri componenti del nucleo familiare erano praticamente ignoti al sistema sanitario. Quanto a mia suocera, la Fondazione Anziani, con tempistica e solerzia certamente degne di miglior causa, ci fornì le direttive della ATS di Varese alle quali doveva soggiacere un loro assistito. Queste direttive, in buona sostanza, sancivano il fatto che se mia suocera fosse risultata positiva al test sierologico per le IgG - e che cosa potevano aspettarsi in una persona che aveva contratto l’infezione! - un solo esame effettuato e per giunta in un laboratorio privato convenzionato per conto della ATS di Varese, doveva poi mettersi in quarantena... a distanza di più di due mesi dalla fine del ricovero per la stessa infezione e senza alcun sintomo! Magari per attendere il tampone naso-faringeo, nel caso il quinto, e per dimostrare cosa? Ovviamente le IgG risultarono positive e con un titolo alto, così come anche il tampone risultò negativo. Sulla quarantena alla quale si sarebbe dovuta sottoporre mia suocera in quei giorni di tregenda preferisco stendere un velo pietoso perché era quello un periodo difficilissimo per tutti, special131


mente per le strutture sanitarie e parasanitarie che, da un giorno all’altro, hanno dovuto operare con regole e protocolli che sono arrivati dopo l’inizio dell’emergenza, non prima come sarebbe stato auspicabile, ciò a causa di quella presa di posizione ideologica assunta dal governo e alla quale abbiamo accennato prima. Esclusivamente per dare un ulteriore contributo alla chiarezza, riporto anche quanto accaduto a me nella fattispecie, nell’insolita veste di paziente, fidando fosse azzeccato l’assunto del medico inglese James Paget: «Non si può essere buoni medici finché non si è stati pazienti». Dopo la trafila del ricovero precauzionale per la quarantena presso l’Ospedale milanese dove lavoro, ho effettuato i due tamponi negativi alla fine dello specifico periodo nonché alcuni esami sierologici. A giugno la ASST-Nord di Milano, dove pure esercito come urologo ambulatoriale, mi ha offerto la possibilità di effettuare un test sierologico di screening, al quale ho aderito soprattutto per avere una certificazione del risultato e per controllare se il titolo anticorpale fosse rimasto nei valori iniziali. Ebbene, voi non ci crederete, ma una volta effettuato il test mi è stato detto da un’infermiera che avrei dovuto, sulla scorta delle disposizioni vigenti, effettuare il tampone... e meno male che non mi ingiunse di mettermi pure in quarantena preventiva! Ovviamente non ho fatto nulla di tutto questo e, per fortuna, dopo circa tre settimane mi è arrivata la mail del medico competente il quale mi informava che la questione era chiusa e che non dovevo fare null’altro. Meno male. 132


Restano forti, però, le mie perplessità per la disomogeneità dei protocolli e per la confusione ingenerata da disposizioni antinomiche e caotiche come precisato in premessa, dalla nebulosità dei protocolli e da coloro che hanno dovuto elaborarli in fretta e furia, senza conoscere la situazione sul terreno che evolveva più rapidamente del loro pensiero sul Covid-19 che, ed è onesto precisarlo, non era supportato da un’adeguata letteratura. Pur tuttavia, una volta usciti dalla stringente emergenza, devo dire che la direttiva sui sierologici lascia in me, e in molti colleghi interpellati, non poche perplessità. Sì, perché, comunemente, a seguito dell’esposizione a un agente virale, il nostro sistema immunitario produce anticorpi, chiamati immunoglobuline M/IgM e immunoglobuline G/IgG, diretti verso le proteine dell’involucro virale. A riguardo, i maestri della medicina ci hanno insegnato che gli anticorpi IgM sono prodotti nella fase iniziale dell’infezione e forniscono una protezione a breve termine: sono la manifestazione della prima risposta del nostro sistema immunitario, compaiono normalmente non prima di cinque giorni dopo che il virus è stato contratto e tendono a negativizzarsi dopo qualche settimana dalla fine della malattia. Gli anticorpi IgG sono prodotti, invece, in seguito, dopo circa venti giorni dai sintomi, durante la prima infezione, e generalmente sono responsabili della protezione a lungo termine. Allora mi domando quale possa essere la ratio di rifare il tampone a una persona con una chiara anamnesi di infezione da Covid-19 in cui poi risultano positive le IgG: quale senso ha fare un sierologico di screening ricercando solo le IgG e non anche 133


le IgM, che potrebbero darci maggiori informazioni su di un eventuale dubbio di infezione in corso? Un esame specifico ed attendibile al 100% per il coronavirus non c’è, ma ciò non assolve coloro che nascondono questa amara verità, per calcolo o per sostenere una tesi, perché in ambedue i casi ne viene soltanto un danno agli ammalati e discredito alla medicina come ci ricorda il buon Marcel Proust: «Sicché, credere alla medicina sarebbe suprema follia, se non crederci fosse una follia peggiore, poiché da quell’accumularsi di errori è pur scaturita, alla lunga, qualche verità». Il tampone naso-faringeo, in effetti, ci dà l’indicazione della carica virale presente al momento della sua effettuazione però, anche in questo caso, si sono riscontrati dei falsi positivi dovuti a probabili contaminazioni o risultati di “debolmente positivo” che hanno generato qualche problema nei clinici. Il sierologico, analisi delle IgM e/o IgG tramite prelievo venoso, è un esame quantitativo che analizza il titolo di questi anticorpi estratti da un prelievo ematico. Il problema di questo esame è che non ci dice direttamente quale sia la carica virale al momento del test, oltre al fatto che possono aprirsi delle finestre temporali durante il decorso della malattia in cui il risultato del test potrebbe non essere dirimente. Il terzo test attualmente in auge è quello rapido, tramite goccia di sangue per puntura di un dito, che è un test qualitativo, ossia ci dice solo se ci sono IgM ed IgG, ma non il loro titolo. Questo è il test adottato da alcune Regioni, come la Campania, quale screening di massa economico. 134


Quali interessi possa nascondere il bailamme dei test non è compito dei medici indagarlo e, tuttavia, pretendo di capire il costrutto di scelte che mi vedono coinvolto in prima persona sia come cittadino sia come prestatore di servizi sanitari. Una strategia confusa di diagnosi e di screening, a maggior ragione se non abbiamo una attendibilità dei test al 100%, genera soltanto incertezze e dubbi che, alla fine, vanno a vanificare tutti gli sforzi posti in essere per potere affrontare e contenere una malattia epidemica. Ma voglio terminare questa breve e certamente imperfetta disamina sui metodi e sui mezzi messi in campo per affrontare una disastrosa epidemia, con la lezione che essa è stata capace d’impartirmi e che, ritengo, debba indurre a riflettere profondamente noi medici su di un convincimento che in questi mesi ha mostrato la sua evanescenza: la medicina disumanizzata fatta da operatori super professionali e da tecnici raffinati, che hanno confidato eccessivamente nelle nuove tecnologie pensando che con il loro aiuto si potesse fare sempre il meglio in diagnosi e terapia, trascurando l’uomo, il paziente e, soprattutto, sopravvalutando l’imbattibilità della scienza. Ma è bastato che un cinese di Wuhan consumasse un pipistrello arrostito (da quella parti è una leccornia) per farci precipitare tutti quanti nei giorni della peste raccontata da Manzoni.

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LA STORIA DEL COVID-19 E DELLE SUORE DELLA BARBARA MELZI “UN CONVENTO RSA” Renata Vaiani Specialista in Medicina Interna - Tradate (VA)

Voce narrante: Dott.ssa Renata Vaiani, specialista in Medicina Interna, direttore sanitario di MeD House società medico/infermieristica accreditata sul territorio della provincia di Varese. Introduzione: Voglio oggi raccontare una storia, quella delle 23 suore Canossiane dell’Istituto “Barbara Melzi” di Tradate (Varese) che inizia nell’aprile 2020, in pieno “attacco Covid. Viviamo in una società dove vige l’ageismo, la poca considerazione dei “vecchi” che, lungi dall’essere considerati “saggi”, vengono emarginati, considerati inutili per la comunità e per la società produttiva. Viviamo in una società spietata che offre modelli di eterna gioventù e dove essere “vecchi” è considerata quasi una colpa. Viviamo in una società che rifiuta la morte, “delirante” di eterna giovinezza, dove i vecchi non hanno più spazi. La parola “vecchio”, che io trovo meravigliosa, in questa società è proibita, non deve essere usata e deve essere sostituita dall’anonimo vocabolo “anziano” e “vecchio” non devi apparire se vuoi partecipare alla vita del mondo, spingendo chi è avanti nell’età, a ridicoli rifacimenti per sentirsi ancora vivi e accettati. Improduttivo, dunque inutile, fragile, quindi un peso per chi 136


deve produrre e, per molti, il destino è l’RSA, cioè la casa di riposo, che pur bellissima non sentirai mai come la tua casa. Anche per le suore vale la triste regola di essere collocate in RSA, quando non sei più attiva e utile. La rinuncia alla famiglia che hai fatto in gioventù farebbe però di te un anziana sola, invece vieni inserita in un convento dove, almeno, non sei isolata. Il Coronavirus colpisce, come ormai ben sappiamo, gli anziani, i più deboli e li attacca ferocemente, come fossero soldati in prima linea nella guerra che il mondo sta combattendo contro un nemico invisibile e potentissimo. La prima storia La “Barbara Melzi” è un convento di suore, un tempo molto ricco di vocazioni con sorelle votate, non alla clausura, ma alla formazione dei giovani. Da qualche anno ospita 23 religiose quasi tutte ultraottantenni che, per l’assistenza, possono contare oltre che su personale proprio, non qualificato, anche su due consorelle infermiere. Compare il Coronavirus in convento e due consorelle vengono ricoverate con sintomi Covid, la severa insufficienza respiratoria porta entrambe al decesso, ma una delle consorelle, già con patologia cardiaca, muore prima. Non vengono eseguiti tamponi alle sorelle rimaste in comunità. Nel frattempo anche la madre superiora si ammala, contagiata anche lei, viene ricoverata e resterà in ospedale per circa un mese. 137


Le sorelle restano sole anche perché il personale proprio non si presenta al lavoro mandando il certificato di malattia. Per fortuna una delle religiose della struttura ha telefonato ai servizi sociali per chiedere un intervento, come se si trattasse di un controllo di routine, cioè un prelievo per valutare la terapia anticoagulante. L’assistente sociale si rivolge a me, sapendo che collaboro con MeD House, società medico infermieristica, accreditata, che opera in ambito delle Cure palliative Domiciliari nel territorio dell’Insubria, al fine di pianificare i tempi tecnici per effettuare il prelievo. Dal contatto telefonico si intuì, però, che poteva essere un focolaio Covid19, poiché i sintomi descritti riconducevano al contagio da Coronavirus, pertanto non si trattava di dover effettuare un semplice prelievo per un problema cardiologico di routine. La situazione richiedeva una complessa rete di intervento sanitario, sociale e di solidarietà nei confronti di un gruppo di anziane, sole e malate. Come società accreditata per le cure domiciliari, abbiamo cominciato subito a valutare la situazione, riservandoci di decidere se accettare o no, in un momento in cui trovare medici e infermieri era quasi una missione impossibile. La seconda storia Dopo un sopralluogo in cui abbiamo trovato 13 suore in infermeria in condizioni pietose (anche perché la suora infermiera era febbrile e non dormiva da 48 ore), non era umanamente possibile non accettare di intervenire e anche in fretta. Intanto le altre 10 suore, non sintomatiche, ultraottantenni, 138


erano in balia di loro stesse, senza possibilità di cucinare, di lavare la biancheria e in assenza di servizi igienici. Era necessario attivare una vera e propria rete di sostegno per queste suore anziane, chiuse nel loro convento, tutti d’accordo con la volontà di agire senza pregiudizi o diversità di opinione o di colore politico. Era una situazione che toccava le coscienze, una questione di diritto, di solidarietà, “di amore” per chi soffre, di dovere professionale, di dovere morale, di etica professionale. E la rete si è strutturata rapidamente, rete in cui ognuno ha fatto con semplicità “la sua parte”: il sindaco Giuseppe Bascialla, la coordinatrice delle assistenti sociali, Mariella Luciani, il medico di base, dott.ssa Silvia Di Giovanni, la società MeD House con Monica Baratelli, come infermiera case manager, il medico specialista in medicina interna della società, dott.ssa Renata Vaiani, la voce narrante di questa storia, tre ASA della società, la locale sezione della Croce Rossa e il Comitato Insubria di CRI, che ha fornito tutti i dispositivi di protezione necessari, la Protezione Civile che ha distribuito i pasti, l’RSA Fondazione Velini, che ha fornito i pasti. E allora, con questa grande e sincera collaborazione, via all’assistenza! Si è presa la decisione di non ricoverare, ma di trattare le “suorine” in loco, anche con sintomatologie gravi, decisione che si è rivelata vincente. Abbiamo evitato, da una parte, ricoveri sicuramente pericolosi e, dall’altra, grazie al coordinamento stretto con i servizi sociali 139


di Tradate siamo riusciti a risolvere i problemi in modo tempestivo, abbiamo anche impedito che, nell’elenco di anziani deceduti nelle case di riposo, si aggiungessero i nomi delle suore canossiane di Tradate. Quali sono stati gli interventi sanitari: Quarantena per tutto il convento. Presenza di 2 ASA/OSS per tre turni, presenza di infermiera per 6 ore al giorno e inserimento della sorella infermiera come appoggio. Isolamento stretto in “infermeria”: questa “chiusura” di parte del convento adibito a ricovero per sorelle malate è stato un punto critico perché le suore erano abituate ad entrare e uscire dall’infermeria e molte sorelle anziane non comprendevano l’importanza di non passare da un ambiente a un altro. Disinfezione e introduzione dei disinfettanti per il lavaggio delle mani e la sanificazione delle superfici Separazione del percorso sporco-pulito. Educazione all’uso dei dispositivi di protezione: questa parte è stata più difficile poiché le sorelle anziane non erano sempre in grado di rispettare le raccomandazioni. Terapia alle sorelle sintomatiche con protocollo: Plaquenil, Azitromicina, Eparina ad alto dosaggio o utilizzo di ossigeno ad alto flusso e corticosteroidi secondo valutazione medica. Controllo delle patologie diverse dal Covid19 in anziane multi-patologiche. Formazione del personale della RSA, prima del rientro in servizio dopo la malattia, e ripristino della struttura a convento RSA Covid free. 140


CONCLUSIONE È andato tutto bene e oggi la vita del convento è ripresa con serenità e tutti i tamponi sono negativi, non vi è stato più alcun decesso. La storia finisce con la considerazione che l’Istituto “Barbara Melzi” non sarà ricordato come un lazzaretto grazie all’organizzazione e alla compartecipazione dei tanti attori che hanno ben cooperato nei diversi interventi. Vi è anche una morale: in guerra l’uomo rivela la capacità di essere solidale e di rischiare con coraggio per gli altri, di esprimere il meglio di sé, ma, come in ogni esercito, nell’esercito “umanità” vi sono anche i disertori, i codardi, i vili. Non si può cambiare il mondo, ma la solidarietà e il coraggio di moltissimi, ci fa vedere un orizzonte migliore.

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ERMANNO MARCO MARI 142


PROGETTO MICHELANGELO UNA DELLE RISPOSTE MILANESI AL COVID-19 Luigi Regalia - Projet Manager presso Progres Cooperativa Sociale Università degli Studi dell’Insubria - Milano

“Che fa, Regalia?”... “Dormo dottoressa, sono le otto e mezzo di domenica mattina”... Ecco, questo è l’inizio della mia esperienza come gestore della parte logistica e di supporto del Progetto Michelangelo: un risveglio improvviso da parte della dirigente comunale, poco prima che il Sindaco di Milano, Beppe Sala, il 22 marzo, raccontasse su Facebook che il Comune aveva intenzione di utilizzare l’albergo per la gestione delle quarantene e altro... Dopo questo incipit, provo a mettere in fila, per chi vorrà leggere queste poche pagine, i dati necessari per comprendere il progetto. Da ipotesi suggestiva è diventato un caso di studio pertinente la gestione delle quarantene, primo covid-hotel destinato ad accogliere ed isolare pazienti clinicamente guariti, ma ancora positivi, paucisintomatici e asintomatici con problemi di isolamento domiciliare. La struttura ha svolto la propria funzione di accoglienza dal 30 marzo al 10 luglio per 103 giorni solari e per più di 12.000 giornate di ricovero. Una positiva sinergia tra il Comune di Milano e la Prefettura che hanno intuito il valore e l’utilità dell’isolamento fiduciario 143


come arma per limitare la diffusione dei contagi intra-familiari e comunitari, ha portato a valutare l’Hotel Michelangelo, a 100 metri dalla stazione Centrale per 17 piani con 280 stanze disponibili, come la soluzione ideale da adottare. Tutto questo per ovviare al pesante carico delle situazioni di fragilità sociale e abitativa proprie della città metropolitana: appartamenti sovraffollati, comunità per senzatetto, dormitori comunali e caserme. Per la componente sanitaria, le strutture organizzative interessate sono state due: l’Agenzia Tutela della Salute-ATS Milano e l’Azienda Socio Sanitaria Territoriale - ASST Nord Milano. L’Agenzia Tutela della Salute si è occupata del supporto sanitario quotidiano nella prima fase attraverso i MVI (Medici Volontari Italiani) e poi con le USCA (Unità Speciali Continuità Assistenziale), del supporto psicologico, della gestione dei tamponi e del percorso di verifica e dimissione. La seconda, ASST Nord Milano, si è fatta carico della sorveglianza sanitaria secondo procedura Covid (rilevazione della temperatura e saturazione, principali valutazioni cliniche e delle condizioni generali due volte al giorno) impiegando personale sanitario di ospedali, ambulatori e di altri nuclei sanitari chiusi nel periodo dell’emergenza. Tutto quanto sopra esposto doveva essere coordinato a livello amministrativo e supportato a livello logistico da una organizzazione che già operava con il Comune. Considerato il carattere d’urgenza e l’impossibilità a ricorrere a procedure legali, quali bandi, gare e concorsi, il Comune di Mi144


lano, avendo già attiva una convenzione per la gestione di due RSA in zona Corvetto con la cooperativa Proges, ha affidato a quest’ultima la gestione del “Progetto Michelangelo”. Io e la cooperativa per la quale opero da ormai 14 anni come direttore di Residenze Sanitarie Assistenziali-RSA prima, come coordinatore per l’Area Lombardia in seguito, abbiamo accettato l’incarico con molto entusiasmo e rispettoso timore. Nella settimana del 23 marzo, con la curva dei contagi in salita paurosa e gli ospedali ormai al collasso, ci siamo attivati per stilare un progetto gestionale il più completo possibile e un preventivo economico equilibrato, che consentisse al collega Andrea Casiraghi e al sottoscritto, temporaneamente impegnati in un complesso cantiere per la realizzazione di una nuova struttura socio-sanitaria, di provare a cimentarci nel nuovo ruolo di co-gestori di un progetto del tutto sperimentale. Visto che il fallimento non era un’opzione da tenere in considerazione, abbiamo lavorato sodo per arrivare al primo sopralluogo di venerdì 27 marzo in hotel organizzati al meglio. Sabato e domenica abbiamo stravolto la hall, recuperato materiali qua e là e con il supporto di ATS abbiamo impostato i percorsi sporco/pulito. Con la collaborazione di una società interinale abbiamo, inoltre, creato una squadra di operatori senza professionalità sanitarie, ma ben motivati. Lunedì 30 marzo eravamo pronti a partire. Ecco l’invasione di giornalisti che già al mattino volevano conoscere i contenuti, vedere le stanze dell’albergo, capire il progetto nei dettagli economici ecc... 145


Ora, quattro mesi dopo, possiamo riguardare quei servizi in modo distaccato e tranquillo, ma quel battesimo dei riflettori ci ha posto in una nuova dimensione che non avevamo considerato: non solo provare a realizzare il nuovo progetto, ma riuscire a raccontarlo ad un pubblico trasversale, in un momento di comunicazione caotica e ridondante, restando sereni e tranquillizzando chi ci ascoltava, vedeva o leggeva. Quel medesimo lunedì sono arrivati anche i forni per riscaldare i pasti: Milano Ristorazione infatti forniva monoporzioni in catena di freddo ogni giorno. Abbiamo realizzato e fornito agli ospiti anche i kit per la pulizia in autonomia delle camere. Sono state stampate e distribuite le copie del regolamento e verso sera sono giunti i mezzi sanitari della Polizia che hanno portato all’ingresso dell’Hotel i primi 19 ospiti, tra agenti e operatori di diverse forze dell’ordine, che non potevano gestire l’isolamento in maniera corretta in caserma. Il progetto è entrato subito nella sua fase operativa. Il sistema del triage che abbiamo impostato a più mani era molto semplice ma funzionale, nel rispetto delle regole generali di utilizzo dei DPI, del distanziamento sociale, dei percorsi sporco/pulito. Gli operatori di ASST accoglievano gli ospiti in arrivo con il trasporto sanitario e controllavano i nominativi sul portale PRIAMO, visto che in quei giorni a Milano l’hotel Michelangelo era diventato a tutti gli effetti una Unità di Offerta socio-sanitaria. Agli ospiti, invitati a sanificare le mani, veniva misurata la temperatura e la saturazione. Il controllo, ripetuto due volte al giorno, sarebbe stato per loro il momento di maggior interazione sociale. 146


In collaborazione con la reception, una volta accettato l’ospite e assegnata la camera, veniva consegnato il kit per l’igiene e messo al corrente delle poche ma chiare regole, quindi lo si accompagnava al piano... ma la chiave della camera restava a noi! Il giorno successivo gli operatori ATS prendevano in carico la salute dell’ospite verificando le tabelle realizzate dai passaggi delle operatrici ASST, per la somministrazione delle terapie croniche o estemporanee e al contempo iniziava la calendarizzazione dei tamponi, accertarne la negativizzazione ad almeno 14 giorni. Non vi tedio con grafici e istogrammi, ma fornire qualche dato può essere utile a capire meglio il contesto: sono stati accolti 515 ospiti (per il 68% uomini), di età variabile tra i 2 mesi (confermo, mesi, positivo lui e la mamma…) e gli 81 anni, con età media 42 anni, inviati per il 51% dagli ospedali della Città Metropolitana, per il 24% dalle diverse comunità cittadine impegnate nel supporto alle fragilità e per il 15% appartenenti alle forze dell’ordine. I restanti arrivavano direttamente dal proprio domicilio perché impossibilitati a garantire l’isolamento fiduciario a causa degli spazi limitati. La durata della permanenza merita una nota di rilievo: solo il 24% degli ospiti ha rispettato perfettamente il periodo delle due settimane, più il tempo di risposta al tampone. La media rilevata di 28 giorni di soggiorno fa comprendere come moltissimi ospiti abbiano trascorso presso il Michelangelo almeno un mese, chi un mese e mezzo, qualcuno quasi due mesi, due ospiti addirittura più di due mesi. Chiaramente anche noi usavamo il codice numerico per identificare l’ospite sia per la con147


segna del pasto con o senza dieta particolare, che per la rilevazione dei parametri, in quanto il telefono della camera era lo strumento di comunicazione più efficace. Il 1710 corrisponde alla suora che una domenica mi ha chiesto di poter uscire per andare in Duomo, poiché dalla sua finestra non lo vedeva, ma soprattutto non scorgeva la Madonnina, a cui indirizzare la sua preghiera particolare. Fu subito da me accontentata e accompagnata sulle scale di emergenza a 60 metri da terra, da dove vedere bene il profilo del Duomo e soprattutto la sua Madonnina che l’ha resa tanto felice. Porterò per sempre con me questo momento commovente. Al 352 rispondeva Said che fumava, ma solo vicino alla finestra così il rilevatore di fumo non segnalava l’allarme; 402 Domenico, allergico o intollerante o che non gradiva il pesce, “sai te”… Nel periodo del Ramadan abbiamo individuato la direzione della Mecca per gli ospiti di fede musulmana, per permettere loro di rispettare i momenti di preghiera. Il progetto è stato, inoltre, arricchito da un paio di giorni di momenti musicali, non solo per gli ospiti che potevano godere di una piacevole pausa musicale dalle finestre ma anche per tutti le persone che prestavano servizio con dedizione. Poi a Pasqua un Assessore ha portato colombe per tutti… Dietro a questi numeri ci sono però esseri umani, ognuno con il proprio vissuto prima dell’arrivo al portone dell’hotel. Per quanto possibile provavamo a rassicurarli ricordando loro come il peggio fosse alle spalle, che li aspettava ora una camera pulita, sicura, 148


comoda e connessa al mondo con il Wi-Fi e nei loro occhi leggevamo come la paura lasciasse spazio a una moderata fiducia. La metafora che ho spesso usato nelle interviste rilasciate è quella sportiva, il linguaggio che per formazione più padroneggio: chi arrivava al Michelangelo era agli ultimi due chilometri della maratona, il più era fatto ma restavano sempre due chilometri da percorrere. Per questo si trasmetteva agli ospiti/pazienti in tutti i modi la forza e il sostegno per correre o camminare fino al traguardo, rappresentato dall’uscita dalla porta principale dell’hotel con certificato di dimissione, dopo il doppio tampone negativo. Confido che tutta l’esperienza accumulata e maturata diventi il mio bagaglio personale e professionale, ma mi auguro che non debba più servire in futuro come “cassetta degli attrezzi” per eventuali ed insperate nuove ondate epidemiche. Lavorando con la cura necessaria e salvaguardando anche la nostra salute, possiamo dire, però, di essere stati dei privilegiati rispetto a chi, nella prima fase del Covid, era impegnato in Ospedale o nelle RSA a combattere battaglie con poche armi o strumenti di difesa inadeguati, contando i morti a fine turno. Al Michelangelo non abbiamo avuto contagi tra gli operatori, né tra gli ospiti. Di questi ultimi nessuno ha presentato seri problemi di salute tali da dover essere ricoverato, se non per accertamenti generici. Restano ora le emozioni che abbiamo condiviso: per scelta ci davamo del “tu”, non servivano ruoli e titoli, ma solo soluzioni concrete e tempestive ai problemi contingenti. 149


È stato bellissimo sentirci rispondere “grazie fratello!” al nostro augurio “coraggio andrà tutto bene”. Ho riscoperto l’importanza di riconoscere la mimica facciale in era post-covid: quando metà faccia è coperta dalla mascherina per ore ed ore al giorno, tutta la comunicazione non verbale passa solo dagli occhi. Non era il massimo della semplicità trovarsi di fronte ad un operatore coperto con Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) da capo a piedi. Ogni incontro con il personale per gli ospiti era occasione di contatto umano, per poter scambiare qualche parola e farsi rassicurare, malgrado la barriera linguistica poiché il 60% degli ospiti non era di lingua italiana. L’interazione è stata utile anche per gestire i pochi casi di insofferenza, a far desistere qualcuno dal volersene andare. E dopo 103 giorni di lavoro, faticoso ma gratificante soprattutto da quando le dimissioni superavano i nuovi ingressi, eccoci finalmente al 10 luglio con la dimissione di Jaynal dalla camera 606, l’ultimo ospite presente. Allora ho chiamato io (non all’alba) la dirigente del Comune che mi aveva svegliato qualche mese prima, per confermarle che il Michelangelo aveva concluso nel modo migliore la propria funzione, anche grazie alle preghiere della suora di qualche riga fa, suor Vittoria... ...è andato tutto bene!

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LA PREGHIERA DI SUOR VITTORIA - foto di LUIGI REGALIA 151


IO CI SONO Antonella Di Rosolini Malattie Infettive - Modica (RG)

“Un paese in figura di melagrana spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all’altro, trafelate come Cavalleggeri del Re. (Gesualdo Bufalino) Ecco la migliore descrizione di Modica (RG) cittadina della Sicilia orientale che ospita l’Ospedale Maggiore dove lavoro dal 1991 come dirigente medico infettivologo. Il reparto di Malattie Infettive da marzo 2020 sta vivendo, come tutto il mondo sanitario, in pieno lo tsunami Covid-19. Già da febbraio, silenziosamente, ci si preparava per affrontare l’emergenza. Percorsi sporco-pulito, approvvigionamento dei presidi, acquisto apparecchio per emogas, il cellulare Covid h 24 e quant’altro: tutto a ritmo di galoppo! Sono sbarcati in reparto un gruppo di infermieri incaricati: belli, dinamici e, soprattutto, giovani e forti! Giunti in reparto con un ordine di servizio per l’assistenza Covid, hanno conquistato noi medici e la vecchia guardia infermieristica portando aria fresca! Il tempo Covid accorcia le distanze, velocizza la nascita di rapporti sani e, dal primo turno, la giovane famiglia Covid era in perfetta armonia. 152


Tutti uguali, come soldatini, bardati di tutto punto, senza un centimetro di pelle esposta, ma a cuore aperto, abbiamo affrontato con cauta allegria i turni. Un linguaggio nuovo si parlava con tacito accordo: la solidarietà, la serietà dei comportamenti per non rischiare per sé e per gli altri e non ultimo il desiderio di portare aiuto. Non è stato facile abituarsi a stare bardati anche dodici ore di seguito, senza bere, senza mangiare e senza fare pipì. Il reparto sembrava un nuovo Circolo Pickwick: tutti pronti a intraprendere il nuovo viaggio con “strampalati e allegri” compagni, preparati a scendere nei meandri della sofferenza e della morte per portare aiuto. (Charles Dickens) Torte, gelati e pizze non sono mancati: da consumare rigorosamente dopo il turno. Prima del turno: niente acqua, pochissimo cibo asciutto e pipì un secondo prima di bardarsi. E se c’era la necessità di fare pipì, ci si limitava a riderne... aspettando tempi migliori. Le prostate sono state pregate di accomodarsi fuori. I fumatori incalliti non hanno fumato per dodici ore: un miracolo inaspettato. Pure la ”Biblioteca del paziente “ del nostro reparto, realizzata grazie alla donazione di libri, altrimenti destinati alla polvere, ha collaborato insieme al personale sanitario a migliorare il periodo da trascorrere in ospedale. Grazie al progetto “Cura e Cultura” in tempi pre-Covid sono stati organizzati spettacoli per “La domenica del paziente“ raccogliendo circa 1500 libri per la “Biblioteca del paziente”. 153


Oltre alla terapia con eparina e quant’altro, una “aspirina stura pensieri” è arrivata per il personale e per i pazienti. I pazienti che superavano la prima fase in cui era prioritario l’uso dei ventilatori, si dedicavano volentieri a spulciare tra i libri a disposizione in biblioteca. Così tra una videochiamata con i parenti e l’altra, molti visitatori, e non in remoto, sono venuti a trovare tutto il personale e qualche paziente. Ricordo che l’amico Dostoevskji ha lungamente raccontato dell’irrequieto Ivan de “I fratelli Karamazov”. Pavel Florenskji, dal suo esilio nelle isole Solovki, ha scritto nelle lettere ai propri figli e a noi, di ascoltare musica e leggere i romanzi perché dilatano lo spirito. (Non dimenticatemi –Pavel Florenskji) I giovani infermieri hanno ascoltato le mie puntate de “I quaranta giorni del Mussa Dagh “di Franz Werfel: il giovane armeno Gabriel resiste strenuamente contro i turchi e salva cinquemila armeni dal genocidio! Mi piaceva raccontare e a loro piaceva ascoltare: ci sentivamo nella lotta al Coronavirus come il giovane Gabriel, pronti a combattere contro questo nemico invisibile che ha messo in ginocchio il mondo! Non c’era tanto tempo a disposizione, l’assistenza richiedeva incessante attenzione tuttavia tra una emogas e l’altra il tempo si dilatava e le Storie venivano incontro a noi. Le Storie non erano solo scritte: i pazienti ci hanno raccontato silenziosamente, facendoci da specchio, le loro paure, ansie e speranze. 154


Davvero ansia ne abbiamo avuta tanta e l’abbiamo accolta, come si accetta un passeggero in treno che si siede nel nostro scompartimento, consapevoli che sarebbe sceso prima o poi. Benché bardati e con il triplo guanto non si aveva il tatto, ma non si è mai perso il “tocco” ed i pazienti ci riconoscevano guardandoci negli occhi. Ho apprezzato il carico di responsabilità dei miei ausiliari e infermieri in particolare verso un giovane autistico e nei confronti dei malati di Alzheimer, colpiti dal Covid-19. Sono pervenuti al nostro reparto, da imprese e da semplici cittadini, doni di vario genere: prodotti per curare gli ematomi e le escoriazioni da mascherina, lavatrice, asciugatrice, sanificatore allo ozono, litri di candeggina, fiori, uova di Pasqua, dolci ecc. Donare ai pazienti il gelato appena arrivato, la cioccolata modicana regalata, ed altre leccornie trasportate dall’ascensore pulito e sanificato è stato un onore ed un piacere essere testimone della gratificazione negli occhi dei pazienti Tutta la cittadinanza ha fatto arrivare con energia e amore, la propria solidarietà e vicinanza. Tutta questa energia positiva è arrivata a destinazione, contribuendo a sostenere l’umore di quelle giornate che sembravano eterne. Ci siamo sentiti parte di un esercito ben più grande del solo personale, eravamo in trincea è vero, ma alle spalle sentivamo la protezione di un vero esercito. Non ci siamo mai sentiti soli. Da quando l’Ospedale Maggiore di Modica è diventato Centro HUB Covid -19, la Direzione Generale, la Direzione Sanitaria 155


del Presidio, i Caposala, i Medici, gli Ausiliari, sono diventati un alveare operoso, in sintonia per raggiungere lo stesso obiettivo nel minor tempo possibile. Grazie a ciò non abbiamo mai disperato, neanche quando era difficile reperire i DIP, pur non condividendo sempre le decisioni organizzative. Un clima di incertezze ha caratterizzato tutta l’Italia e non ha risparmiato la Sicilia. Gli annali della sfiducia atavica meridionale hanno avuto un’occasione d’oro per allungare l’elenco degli iscritti ma fortunatamente non è stato così. Asimmetria di Lisa Halliday ha consentito, a tutto il personale, di riconoscere la realtà nella sua natura asimmetrica e lo stato di emergenza ha fatto crescere la tolleranza verso tutti, anche verso coloro che non sempre hanno ispirato fiducia. L’asimmetria che c’è in ognuno di noi ci ha dato il nuovo orizzonte poiché di asimmetria si vive e si impara a tollerare e a lottare! Il Covid-19 ha mietuto vittime di tutte le età, ha creato sbando e serie difficoltà organizzative per far fronte alla emergenza sanitaria, ha fatto venire fuori gli avvoltoi dell’occasione, ha determinato un dissesto economico difficile da superare ma ci ha intimato una cosa importante: Ognuno di noi deve sempre dire IO CI SONO! E questo vuol dire vivere come esseri umani e sociali col dovere di ridare il giusto valore all’uomo e alla sua salute, nel pieno rispetto delle leggi della Natura. Non è stata una sorpresa questa antropozoonosi, tutti sono consapevoli che sia il risultato della marcia innaturale dell’uomo 156


contro il confine, pur sapendo che di confine si vive: la nostra pelle! La lettura e la musica sono state parte integrante del nostro Protocollo terapeutico per i pazienti e anche per tutto il personale sanitario. Tanti personaggi ci hanno consolato, supportato e spronato: siamo rimasti ammaliati da Vince il biblio-terapeuta ne “Ogni coincidenza ha un’anima” di Fabio Stassi. E come Vince, grande camminatore, esploratore di spazi e persone, siamo stati attirati, traendo insegnamento dalle paure e dalle gioie degli uomini che abbiamo accompagnato in corsia. La musica in filo diffusione, per noi e per i pazienti, è stata la sposa delle parole (Madrigale senza suono di Andrea Tarabbia). Biblioterapia dunque! Passione, dolore, gioia, fatica, libri, musica, condivisione, paura e coraggio per vivere questa esperienza rammentandoci sempre: IO CI SONO! Riferimenti biblioterapeutici: 1) Il Circolo Pickwick di C. Dickens 2) I fratelli Karamazov di F. Dostoevskji 3) Non dimenticatemi di P. Florenskji 4) I quaranta giorni del Mussa Dagh di F. Werfel 5) Asimmetria di L. Halliday 6) Ogni coincidenza ha un’anima di F. Stassi 7) Madrigale senza suono di A. Tarabbia

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MASCHERINA COVID-19 - NUCCIO LORETI 158


NOTE Le opere grafiche contenute nel testo e denominate: “Coraggio”, “Cuori Spezzati”,”Rapace”, “Invasione”,”Distruzione” e “Abbracci Ghiacciati” sono stampe su legno, Xylografie, (carta Fabriano 220 gr Formato A3) prodotte in 10 esemplari ciascuna, nell’atelier di Alain Harvet in via Centotrecento 2/2D Bologna. I Disegni di Giancarlo Giudice “Covid” e “Paura” sono stati eseguiti con pennino nero, matita pastello e pennarello. La scultura in acciaio “MASCHERINA COVID-19” dell'artista Nuccio Loreti di Catanzaro, eseguita nel mese di luglio 2020, è stata donata al dott. Giuseppe DE DONNO, Direttore della Terapia Intensiva Respiratoria dell'Ospedale “Carlo Poma” di Mantova, per il suo impegno nella lotta al Coronavirus. Il messaggio della scultura è racchiuso nell'auspicio di mettere definitivamente “al chiodo” il Covid. I Disegni di Ermanno Marco Mari sono stati fatti direttamente su carta da schizzo svedese leggera, come "Nettuno-19", disegnato con penne fini 0,3 e 0,5 e poi rinforzato con penne feltro più grosse. Gli altri disegni sono su cartoncino con pennino e inchiostro di china.

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INDICE Presentazone Dott.ssa Teresa Serini.....................................................................................3 ASPETTI EMOTIVI............................................................................................................7 In punta di piedi, un fil di voce ............................................................................................9 Nuova realtà .......................................................................................................................15 RSA: buone notizie ............................................................................................................19 Le emozioni in quarantena.................................................................................................23 2020 anno memorabile.......................................................................................................33 Estate anticipata a Crotone in quarantena..........................................................................38 Occhi ..................................................................................................................................41 Diario dei primi giorni di Covid-19 ...................................................................................43 La mia vita diversa durante l’epidemia da Covid-19.........................................................47 Il tradimento in quarantena ................................................................................................54 ASPETTI CLINICI............................................................................................................61 Cronaca di una epidemia annunciata .................................................................................63 Storia di una infermiera .....................................................................................................68 Poliambulatorio attivo in quarantena .................................................................................76 Ci aspettavamo un’onda, è arrivato uno tsunami...............................................................79 Pensieri e parole al tempo del Covid-19 ............................................................................84 ASPETTI SOCIALI...........................................................................................................89 Pandemia e quarantena ......................................................................................................91 Riflessioni sul campo.........................................................................................................97 La pandemia ci cambierà .................................................................................................102 Testimonianza di un cardiologo .......................................................................................106 La speranza viene dalla conoscenza. L’impatto di Napoli con il Sars Cov2....................111 Donazione di sangue in tempi di Coronavirus a Ragusa..................................................115 Il mio paese al tempo del Covid-19 .................................................................................122 Essere medico al tempo del Covid-19 .............................................................................126 La storia del Covid-19 e delle Suore della Barbara Melzi “Un convento RSA”.............136 Progetto Michelangelo. Una delle risposte milanesi al Covid-19....................................143 Io ci sono..........................................................................................................................152 NOTE...............................................................................................................................159 161



Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, trasmessa in qualsiasi forma o mezzo meccanico, fotocopia o altri, senza la preventiva autorizzazione scritta degli Autori e dell’Editore. Gli Autori e l’Editore pur garantendo la massima affidabilità dell’opera non rispondono dei danni derivanti dall’uso dei dati e delle notizie ivi contenute. Gli Autori hanno descritto la realtà dei fatti con la massima obiettività e impegno possibili e declinano ogni responsabilità civile e penale per eventuali inesattezze o equivoci derivanti da tale descrizione. La proprietà intellettuale dei riferimenti scientifici del libro è degli scienziati stessi e gli Autori e l’Editore declinano ogni responsabilità civile, penale e morale su ogni uso improprio di tali riferimenti.


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Un gruppo di medici, in parte amici, in parte incontrati sul web, hanno condiviso le proprie

Questo libro è il frutto di un rifiuto! Alcuni medici, invitati a scrivere le proprie emozioni in

esperienze professionali ed emotive vissute durante la quarantena per il Covid-19.

periodo di quarantena da un grande gruppo nato su FB, si sono visti rifiutare il loro testo, senza

Sulla scia di altri colleghi, che hanno già dato alle stampe le proprie emozioni in tempo di Co-

una specifica motivazione. Tale esclusione ha alimentato in loro il bisogno di continuare a dif-

ronavirus, sono state raccolte ulteriori testimonianze provenienti da varie regioni italiane, allo

fondere le emozioni e le esperienze vissute durante il lockdown dalla classe medica.

scopo di informare e ribadire che anche i medici e i superdirettori della sanità sono esseri umani

Sono state raccolte, quindi, in autonomia e libertà, 26 testimonianze in questo piccolo testo,

come tutti, sebbene questo in apparenza sia ben noto, dotati di pregi, difetti ed emozioni.

per non dimenticare il vissuto in prima linea, il coraggio di affrontare un nemico sconosciuto

I responsabili della Sanità pubblica, legati al ruolo ricoperto, con scarsa dimestichezza della

e la speranza di debellarlo.

trincea lavorativa, a volte commettono errori di gestione, che a cascata ricadono sugli operatori

Sono stati inclusi anche progetti socio-sanitari che dal nord al sud del nostro Paese indicano

sanitari e sui pazienti.

la volontà di affrontare compiti sempre più difficili, facendo così emergere la speranza in un

Si aggiungano anche gli esperti di virologia, epidemiologia, malattie infettive ecc. che sui

futuro sicuro con la solidarietà, la competenza e l’onestà.

media hanno diffuso informazioni contraddittorie, alimentando in tutti il timore del contagio

Gli autori, di diversa provenienza geografica e specialistica, fotografano quello che vivono e

e l’incertezza sul futuro.

vedono nel nostro Paese e ciò che sentono nel proprio intimo in piena pandemia, esplicitando

Pertanto le testimonianze provenienti dalla prima linea aiutano il lettore a comprendere quello

in parole solo parte delle emozioni profonde provate.

che hanno sperimentato gli operatori sanitaria durante la quarantena, entrando nella vita per-

I contributi sono stati coordinati dalla dottoressa Anastasia Carcello e arricchiti da originali

sonale e professionale dei medici, spesso avviliti dai giudizi negativi o perseguitati da denunce

opere grafiche di tre artisti bolognesi: Giancarlo Giudice, Alain Harvet ed Ermanno Marco

per malasanità.

Mari e di uno scultore calabrese: Vitaliano Loreti, detto Nuccio.

Il testo, suddiviso in tre sezioni, disegna appieno gli “ASPETTI EMOTIVI” degli autori, de-

In maniera diversa hanno dimostrato il proprio coinvolgimento emotivo alla pandemia, la sen-

scrive parzialmente gli “ASPETTI CLINICI” difformi del Covid-19 e l’assenza di linee guida

sibilità nell’affrontare la quarantena ed il dolore nel vedere gli effetti letali del contagio virale.

terapeutiche ed infine espone, negli “ASPETTI SOCIALI E DI POLITICA SANITARIA”,

Le opere di Alain Harvet, artista francese ma bolognese d’adozione, rappresentano il percorso

le immediate conseguenze delle normative in quarantena, che suscitano a volte la rabbia per i

di sofferenza dell’autore per la perdita della moglie, contagiata da Covid-19 e morta in ospe-

provvedimenti non sempre condivisi.

dale senza che lui potesse vederla. In questa maniere vuole salutare la sua amata ricordando il

Non mancano progetti socio-sanitari realizzati e portati avanti con ottimi risultati a Tradate

profondo amore che ancora li tiene uniti.

(VA) , a Milano, a Modica (RG) e dalla rete Avis della provincia di Ragusa.

La scultura di Nuccio Loreti “Mascherina Covid-19”, pensata e realizzata come auspicio di

I medici autori del testo, mettendo a nudo la propria vita, comprese le emozioni sperimentate,

speranza per un futuro Covid free.

dalla gratitudine alla rabbia, il vissuto della solitudine e della sconfitta, dimostrano che solo

Gli autori ringraziano gli artisti per aver partecipato alla realizzazione del testo permettendo

umanizzando le cure mediche ed elargendo con generosità le proprie competenze, si può af-

di utilizzare le immagini delle loro opere.

frontare anche un virus devastante come il Coronavirus, responsabile della pandemia. In questo compito di miglioramento è necessaria la collaborazione del paziente, delle famiglie e di tutta la società, affinché non sia frainteso l’atto medico, trasformando i medici da eroi a responsabili delle morti per il Covid-19 e non si finisca in tribunale per difendersi da accuse miranti al risarcimento. È davanti agli occhi di tutti quanto la società attuale sia interessata solo all’aspetto economico e di guadagno materiale in senso lato, piuttosto che alla comprensione e all’amore per il prossimo, senza differenza di età, sesso, razza o religione. Questo interesse egoistico porta alla mancanza di rispetto non solo fra gli esseri umani ma anche per la Natura, che in qualche modo si ribella con calamità di ogni sorta.



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