Luigi Nastasi - ANTIPHEMOS - La nascita di Ghelas

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Luigi Nastasi

ANTÍPHEMOS La nascita di Ghelas romanzo

Studio Byblos



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ANTÍPHEMOS La nascita di Ghelas

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INTRODUZIONE La scelta di utilizzare i nomi traslati dal greco antico, nella narrazione di '”Antíphemos” è stata deliberata per rendere più accessibile e coinvolgente l'esperienza di immersione nell'antica Grecia. Tale approccio mira a rendere più agevole l'identificazione con i personaggi e la comprensione delle dinamiche della storia narrata, senza compromettere l'essenza e l'atmosfera dell'epoca. Ciò permette ai lettori di immergersi nell'incanto dell'antica Grecia senza sentirsi distanti o estranei, offrendo un ponte tra il passato e il presente attraverso un linguaggio più familiare e accessibile, senza però compromettere la magia e la profondità della storia. L’autore

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Antíphemos. La nascita di Ghelas

I LINDOS, UNA POLIS NEL CAOS

Anche quell’anno non era piovuto molto, solo qualche isolato temporale, soprattutto sulle montagne, insufficiente a placare il bisogno d’acqua delle poche terre coltivabili, ormai arse dal sole. Le spighe di grano, rinsecchite e quasi prive di chicchi, erano di un colore che evocava la morte. La carestia minacciava l’intera popolazione. Non era una novità: da sempre eravamo abituati alla scarsità di piogge, ma mai come in questi ultimi due anni. Per dare un’idea dello stato in cui versava la città, basti pensare che il misero raccolto di grano e orzo veniva custodito dai nobili all’interno di magazzini presidiati da guardie armate. Nessuno più coltivava alberi da frutto, non solo a causa della siccità, ma anche perché i frutti quasi mai raggiungevano la maturazione: venivano rubati ancora acerbi. Era diventato un caos generale di furti reciproci. Eppure Lindos, questo è il nome della mia città, è sempre stata ricca grazie al commercio di vasi, metalli preziosi, legno e statue. Molti nobili e alcuni commercianti hanno accumulato ricchezze considerevoli. Questo benessere ha portato a un aumento della popolazione, soprat3

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I - Lindos, una polis nel caos

tutto di schiavi che svolgevano un ruolo fondamentale in ogni settore della società. Tuttavia, ora la città è caduta in preda alla disperazione. Sono bastati due anni consecutivi di piogge scarse. La situazione era insostenibile non solo a Lindos, ma anche nelle altre città dell’isola: Ialysos e Kamiros. Mi chiamo Antíphemos, vivo a Lindos sull’isola di Rodi, ho trent’anni e appartengo alla classe dei Nobili o Cittadini. Lindos è una delle tre principali città di Rodi, forse la più significativa grazie al famoso tempio dedicato alla dea Athena. Situata lungo la costa orientale di Rodi, la città sorge su una penisola che si estende nel mare. Sono sposato da dieci anni con una donna di nome Misya, ma nonostante il nostro grande desiderio, non siamo riusciti ad avere figli. In realtà, considerando le circostanze attuali, forse è una fortuna. Questa situazione pesa molto a Misya: non le preoccupa tanto la carestia, quanto il desiderio di dimostrare la propria fertilità e capacità di concepire. Nella nostra società, la maternità rappresenta spesso il culmine dell’esistenza per una donna, conferendole una sorta di normalità agli occhi critici della gente. Non poter generare figli, invece, è considerato una tragedia personale, specialmente per i Nobili, poiché interrompe la linea di discendenza del marito. In realtà, poco dopo il nostro matrimonio, Misya rimase incinta. Ricordo chiaramente quel giorno: mi trovavo nel Palazzo delle Riunioni quando sia lei che sua madre, Aglaia, vennero a cercarmi. Misya aveva un viso radiante, illuminato da un bellissimo colore rosato e, senza troppi preamboli, mi abbracciò e disse: “Sto aspettando un bambino!” 4

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Era felice e sicura del fatto. Erano già passati tre cicli senza alcuna mestruazione, un segno, secondo quanto mi disse sua madre, inequivocabile di una gravidanza. Anch’io ero estremamente emozionato; avevo sempre sperato di avere un figlio maschio, non perché non mi piacessero le femmine, anzi le trovavo più graziose dei maschi fin da quando sono piccole, ma per una famiglia nobile come la mia, avere un figlio maschio era di estrema importanza in quanto rappresentava la continuità del potere. Tuttavia, la gioia fu effimera! In una notte, Misya fu presa da forti dolori al basso ventre. La vedevo contorcersi nel letto, soffriva terribilmente e io non potevo fare nulla per alleviare le sue pene. Le sue sofferenze proseguirono per tutta la notte e, nonostante le preghiere rivolte alla dea della fertilità, Aphaia, nulla sembrava alleviare il suo dolore. La mattina seguente, la sentii piangere. Senza proferire parola, mi mostrò un candido panno di lino sporco di sangue. Rimasi sconvolto; non c’era bisogno di spiegazioni per capire ciò che era accaduto, bastava vedere la disperazione dipinta sul volto di Misya. L’ho abbracciata, accarezzando i suoi neri capelli, cercando di rassicurarla dicendole che non era come lei temeva. Immediatamente ci siamo diretti da un’Ilizia, una donna che capiva di problemi di gravidanza, una certa Lirys, molto rinomata a Lindos. La casa, seppur non particolarmente grande, era costruita in pietra e intonacata di bianco. Nel muro che si affacciava sulla strada, c’era una nicchia contenente una statua in argilla, vividamente colorata, raffi5

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gurante la dea Aphaia. Bussai ripetutamente e dopo un po’, una donna di età avanzata venne ad aprire: era di bassa statura, con due occhi neri molto vivaci, profondamente incavati. Aveva pochi denti in bocca e i suoi capelli argentei erano raccolti all’indietro a mo’ di umbone, fissati con fermagli di avorio. Indossava un bellissimo chitone nero con uno scialle anch’esso nero. Si diceva che non si fosse mai sposata. Permise l’ingresso solo a Misya, poiché le questioni erano di competenza femminile. Mentre aspettavo in strada, passeggiavo nervosamente e pregavo davanti alla nicchia della dea, anche se non ero molto credente, affinché assistesse Misya e il bambino. Passò del tempo e l’Ilizia si affacciò dalla porta, ancora avvolta nello scialle, facendomi segno di entrare. Una volta dentro, vidi Misya seduta, con le mani che le coprivano il viso mentre singhiozzava. Aspettai che la vecchia dicesse qualcosa. Dopo uno sguardo che non prometteva nulla di buono, si sistemò i capelli e, con gli occhi bassi e la voce tremante, disse: “Mi dispiace tanto, il cuore del bambino non batte più, è morto!” Misya scoppiò nuovamente in un pianto disperato, rifiutando di accettare le dure parole dell’Ilizia. La strinsi ancora più forte, e piansi anch’io. Realizzai che nessuno avrebbe potuto farci nulla, poiché la morte dei bambini e gli aborti erano eventi comuni a Lindos. Uscimmo da quel luogo che aveva annientato il nostro sogno e chiesi a Misya come l’Ilizia avesse capito che il bambino era morto. 6

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Mentre parlava e piangeva contemporaneamente, raccontò ciò che era accaduto.“Appena entrai, mi condusse in un’altra stanza, più piccola e scarsamente illuminata, separata dalla prima da una tenda rossa di lana grezza. Mi fece sedere su una sedia di legno massiccio e mi invitò a raccontarle l’accaduto e le mostrai il panno di lino sporco di sangue. Pensierosa, si diresse verso una piccola cassapanca e prese uno strano strumento di legno lungo circa un piede (30 cm.), colorato di nero, con due specie di trombe alle estremità, una più grande e una leggermente più piccola, collegate da un sottile foro. Mi chiese di alzare il chitone e, imbarazzata, obbedii. Poi, delicatamente, posò la parte più ampia dello strumento sulla mia pancia e appoggiò l’orecchio sull’estremità opposta, tenendo gli occhi chiusi. Nel silenzio opprimente, io provavo paura. Spostava lo strano strumento su e giù, nella zona del basso ventre, sotto l’ombelico. Dopo alcuni interminabili minuti, si alzò con una smorfia sulle labbra. Mi fece abbassare il chitone e poi ti chiamò.” Dopo questa brutta esperienza, la vita riprese ma avvolta da un velo di malinconia. La mancanza del bambino mai nato aveva incrinato la spensieratezza del nostro rapporto. Misya sprofondò in uno stato profondo di malinconia, trascorrendo gran parte del tempo a letto senza voler parlare o vedere nessuno, nemmeno me. Il rimorso per la perdita del bambino non la lasciava neanche per un istante; si sentiva colpevole. Riprovammo ad avere un altro figlio, ma dal quel giorno non è rimasta più incinta. E questo non giovava alla salute di Misya. 7

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Mi immersi nelle mie attività quotidiane, evitando di farmi trascinare dal cupo umore di mia moglie. Partecipavo alle riunioni dell’Assemblea, tuttavia non ero concentrato sulle discussioni riguardanti la complessa situazione politica della città in quel periodo, accentuata dal malcontento degli schiavi. La città era suddivisa in tre distinti gruppi sociali: i “Nobili o Cittadini”, i “Mastrói” e gli Schiavi. I nobili, di cui facevo parte, si vantavano di essere diretti discendenti dei Dori, (un’antica popolazione Greca) e rivendicavano il possesso quasi esclusivo delle terre coltivabili, anche se queste non erano numerose a causa della natura montuosa dell’isola. Oltre al dominio delle terre, detenevano il potere attraverso un’assemblea, emettendo leggi che non ammettevano contestazioni o discussioni. In aggiunta, avevano il controllo sull’esercito ed erano i soli a possedere armi. Per consolidare l’unità e il senso di appartenenza, i Nobili condividevano almeno un pasto al giorno insieme. All’interno dell’assemblea dei Nobili, veniva eletto un ristretto gruppo di anziani noti come Gorgi, tra i quali veniva poi scelto un capo, il Primo Magistrato. I Mastrói erano individui liberi, talvolta anche benestanti, ma erano esclusi dalla cerchia dei Nobili. Alcuni di loro potevano possedere terre, ma non avevano voce in politica e non avevano il permesso di possedere armi. Questa categoria comprendeva artigiani e commercianti. La parte predominante della popolazione di Lindos era costituita 8

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dagli Schiavi. Proprietà dei nobili, non godevano di alcun tipo di diritto ed erano trattati come oggetti, venduti e acquistati come se fossero merci qualsiasi, privi di qualsiasi considerazione umana. Tuttavia, presto si sarebbe verificato un cambiamento drammatico. Le proteste furono alimentate dai Mastrói: si lamentavano di non essere più in grado di condurre affari come in passato, anche se la vera ragione era la loro aspirazione a essere coinvolti nella gestione politica della città. Un giorno, mentre mi dirigevo a cavallo verso uno dei miei campi, fui fermato da uno dei miei schiavi. Quest’uomo, bloccando il mio cammino, si rivolse a me con una certa audacia: “Padrone, perdonami se ho l’ardire di interromperti. Il mio nome è Mnasithales e sono tuo schiavo. Ho lavorato nei tuoi campi fin da quando ero un bambino, così come mio padre prima di me. Tra gli schiavi, sono considerato fortunato a lavorare per te. Ti prego, fermati, c’è una cosa di grande importanza che devo dirti.” Mi arrestai e lo osservai attentamente: era di bassa statura, con i capelli neri, il viso segnato dal sole e dalle rughe, quasi a sembrare delle ferite, una barba irsuta e trascurata. Era molto magro, vestiva un sudicio chitone bucato e indossava un paio di calzari fatti di strati di paglia legati insieme con lacci: un mendicante al suo confronto sembrava un nobile! Mi rivolsi a lui e con espressione infastidita dicendogli: “Perché mi fermi, cosa vuoi da me? Se hai qualche lamentela da fare falla al sovrastante, è lui che si occupa dei vostri problemi”. Nonostante ciò, 9

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l’uomo continuò a insistere e arrivò persino a prendere le redini del mio cavallo. “Signore, non ho alcuna lamentela nei tuoi confronti”, rispose. “Sono qui per salvarti la vita! Ho sentito dire che tutti gli schiavi della città si stanno armando per scacciare i Nobili, anche quelli di Ialysos e di Kamiros. C’è un’insurrezione imminente sull’isola”. Ero scettico riguardo alla sua storia e gli contestai: “Come può uno schiavo tradire altri schiavi per salvare la mia vita? ”Fece una sorta di ghigno che sembrava un sorriso:” Lo so, signore, può sembrare strano, ma ho un debito nei tuoi confronti per qualcosa che hai fatto tanti anni fa. È giunto il momento di ripagarti, è una questione di onore per me!” Stupito e interessato, gli chiesi: “Ho fatto qualcosa per te? Quando? E cosa? Non conosco nemmeno la tua identità!” Mnasithales sorrise, mostrando una bocca quasi priva di denti: “Vedi, signore, l’evento è accaduto molto tempo fa. A quel tempo, avevo un figlio di quattro anni di nome Fileta, la ragione per cui valeva la pena di vivere in questa vita da schiavo. Di tanto in tanto lo portavo con me per farlo divertire a inseguire grilli e farfalle, per dargli un momento di distrazione e dare un po’ di pace a sua madre. Un giorno, mentre lavoravo nei campi, lo vidi correre verso di me, stringendosi la gola con le mani, respirando affannosamente, con la faccia rossa diventata blu, gli occhi rivolti all’indietro e dalla bocca usciva schiuma bianca. Lo presi tra le braccia, disperato, senza sapere cosa fare. Gridavo aiuto, piangevo. Altri schiavi accorsero alla mia chiamata, cercando di aiutare, ma nulla, non dava segni di vita. Preso 10

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dallo sconforto, lo strinsi a me e corsi verso la città... caddi! Ero angosciato, il mio ragazzo sembrava morto, le braccia penzoloni e le labbra nere. All’improvviso sei apparso tu, su un cavallo, proprio come adesso. Mi avvicinai a te in preda alla disperazione, mostrandoti il mio bambino. Senza dire una parola, tu capisti immediatamente la gravità della situazione: l’hai preso e senza curarti che fosse il figlio di uno schiavo, girasti il cavallo e galoppasti indietro verso la città. Per tutta la mattinata non ebbi notizie del mio bambino, l’angoscia mi pervase completamente. Caddi a terra, piangendo e pregando gli dei. Non potevano permettere che mi privassero dell’unica fonte di gioia della mia triste esistenza, non potevano essere così spietati. Verso il tramonto, quando ormai avevo perso ogni speranza, udii un cavallo che si avvicinava al galoppo: eri tu, con mio figlio in groppa, abbracciato a te da dietro. Non riuscivo a credere ai miei occhi, corsi verso di voi gridando il nome di Fileta, lo abbracciai e lo baciai senza sosta, piangendo e ridendo allo stesso tempo, ringraziando gli dei, ma soprattutto te, baciandoti le ginocchia e i piedi. Ecco perché sento il dovere di ripagarvi!” Mentre ascoltavo il suo racconto, tutto mi tornò alla mente: quel giorno, appena presi il bambino, corsi subito in città da un mio amico medico. Appena lo vide, mise il piccolo su una panca, aprì la sua bocca con entrambe le mani e soffiò dentro per due o tre volte. Poi posò le mani sul petto del bambino, sopra il cuore, e iniziò a comprimere ritmicamente per circa trenta volte. Per un po’ alternò questa procedura con il soffio, fino a quando, come per miracolo, il bambino riaprì gli 11

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occhi. Ricordo distintamente la gioia che provai nel vederlo respirare nuovamente, sembrava che avessi salvato il figlio che non ho mai avuto. “Cosa gli è successo a questo bambino?” chiesi incuriosito al medico. “È stato punto da un’ape che gli ha procurato la mancanza d’aria”. E mi fece vedere il pungiglione ancora conficcato nel collo. Dopo che si riprese del tutto, salutai il mio amico e ritornai indietro. Le parole del mio schiavo mi turbarono. Non sapevo se credergli, ma fui preso da una agitazione strana, non avrei mai pensato che il mondo in cui ero nato e vissuto poteva scomparire da un momento all’altro e non solo esso, ma la mia stessa vita. A Lindos e nelle altre citta di Rodi, che io ricordi, non c’erano mai state rivolte di schiavi né guerre tra le città dell’isola. Per due giorni, non feci parola con nessuno di quanto mi era stato raccontato da Mnasithales. Non volevo credere che il vero motivo fosse la carestia, anche se, a pensarci bene, non poter dare niente da mangiare ai propri figli e vederli piangere, credo sia già più che sufficiente per una ribellione. Dovevo fare qualcosa, non potevo tenermi tutto dentro. Facevo parte dei nobili, avevo il dovere di avvertire i miei compagni del pericolo imminente, d’altronde noi Nobili siamo legati da un giuramento sacro che ci obbliga alla solidarietà tra i componenti. Quel giorno stesso andai a cercare Timophanes. Lo trovai presso l’Agorà. Era seduto su uno scalone di marmo, sotto un albero di carrubo, assieme a tanti altri dell’Assemblea. A Lindos l’acropoli si tro12

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vava su una altura a precipizio sul mare. Da lì si vedeva un panorama di incredibile bellezza: il mare appariva come un’immensa distesa d’acqua luccicante, fino all’orizzonte, dove si confondeva col cielo. Timophanes era un nobile, aveva una sessantina d’anni, pienotto nel corpo e senza capelli, portava una folta barba bianca che gli sfiorava la parte superiore del petto e che tormentava continuamente con la mano, arricciandone i peli. Indossava una tunica bianca con il bordo laterale rosso. Era stato un grande amico di mio padre. Gli feci cenno con la mano per richiamare la sua attenzione. Appena mi vide subito mi raggiunse: “Antíphemos, perché sei qua? Ti devo parlare!”, risposi. “È successo qualcosa?” “Sì, ti devo raccontare qualcosa di importante” “Allora, andiamo, allontaniamoci”. Si alzò e camminammo verso la parte esterna dell’acropoli, in direzione di una terrazza laterale. Gli raccontai quello che mi era stato riferito dal mio schiavo. Lui non disse nulla, abbassò solamente la testa e con la mano si strinse la bocca. Ebbi l’impressione che non fosse affatto sorpreso da quello che gli raccontavo, anzi, era come se avesse avuto conferma di qualcosa che sapeva già. Stupito, gli domandai: “Ma come, non dici niente? Ti sembra una cosa da poco una rivoluzione del popolo per scacciarci o peggio per ucciderci?” Mi guardò, accarezzandosi la barba, rispose: Antíphemos, quello che mi hai raccontato non giunge nuovo alle mie orecchie, anche un 13

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mio schiavo, non più di tre giorni fa, mi ha riferito le stesse cose. Credo che questa volta gli schiavi stiano parlando seriamente. Quando un uomo è disperato, può essere spinto a fare qualsiasi cosa”, ribattei. “Domani proporrò nuovamente la questione direttamente al Primo Magistrato, Megacles; spero che almeno lui riesca a comprendere la situazione. Dobbiamo fare tutto il possibile per evitare una devastante rivolta”. Considerando la questione, va detto che Lindos era estremamente popolata, soprattutto da schiavi. Tutto ebbe inizio più di cinquant’anni fa, quando a causa della scarsità di terre coltivabili, l’intera isola, specialmente la città di Lindos, si rivolse al mare. In pochi decenni, la flotta di Lindos divenne predominante sull’intero Mar Egeo grazie alla qualità delle navi, considerate tra le migliori dell’epoca, seconda solo alle navi fenicie. I cittadini di Lindos erano diventati abili marinai e commerciavano con tutte le città-stato del Mar Egeo, espandendo persino il commercio nel Grande Mare al di là dell’Egeo. Le ceramiche di Rodi erano molto richieste non solo in Grecia, ma anche in Egitto e persino in Trinakría, un’isola situata molto lontano ad ovest della Grecia, nel Grande Mare, prima delle Colonne d’Ercole. Questo intenso commercio aveva portato a un notevole benessere per la città. Più si commerciava, e più si aveva di bisogno di schiavi e più aumentava la popolazione. Questa terra sassosa non poteva sfamare tutti! Io, pur facendo parte dei nobili, ero considerato come un mode14

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rato verso gli schiavi, anzi, oserei direi che essi mi vedessero quasi come un loro amico. Ma questo non mi ha mai dato fastidio.

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II DISCUSSIONE IN ASSEMBLEA

Timophanes mantenne la parola! Aveva parlato direttamente con Megacles, il quale comprese la gravità della situazione e dopo due giorni convocò l’assemblea. Tutti i nobili e i Gorgi ci riunimmo, in un pomeriggio afoso, presso la sala delle riunioni del Palazzo del governo. Timophanes venne invitato dal Primo Magistrato ad esporre la questione, egli si alzò, schiarì la voce e incominciò a parlare: “Cari Cittadini, come sapete la nostra gloriosa città sta attraversando una grave crisi, sia politica che economica. Ad aggravare la situazione c’è anche questa lunga siccità che ha decimato i nostri raccolti, portando la popolazione sull’orlo di una insurrezione”. “Cittadini, secondo Timophanes tra poco entreremo in guerra contro un esercito di straccioni” gridò un Cittadino, deridendo il discorso di Timophanes e suscitando l’ilarità di gran parte dell’assemblea. “Ridete pure, ma vi garantisco che tra qualche giorno succederà proprio questo, dovremo combattere con un esercito di straccioni e non solo. Un mio schiavo, cresciuto fin dalla più tenera età dentro casa 17

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II - Discussione in assemblea

mia, mi ha confidato che gli schiavi stanno organizzando una ribellione, fomentati dai Mastrói. Pensiamoci bene, prima che sia troppo tardi, questi poveretti non hanno niente da mangiare, sono costretti a nutrirsi di piante selvatiche come le bestie, rubando qualsiasi cosa sia commestibile. È normale che vogliono assaltare i nostri depositi. Non possiamo più permetterci di agire come abbiamo sempre fatto: opprimendoli! Non conviene a nessuno, soprattutto a noi possessori di terre, che gli schiavi incrocino le braccia”. Venne subito interrotto da un certo Cándalo, uno dei più accaniti e corrotti personaggi della vita politica di Lindos: “Timophanes, credo che tu stia drammatizzando troppo, un po’ di carestia non ha mai fatto male a nessuno, men che meno agli schiavi, anzi ha permesso di farli diventare più resistenti e forti. Se proprio ti fanno pena e ti preoccupi per la loro salute, apri i tuoi depositi e dai loro le tue scorte di grano”. Vi dico anche che i Mastrói sono contro di noi, anche se per motivi diversi: da sempre non riconosciamo loro i diritti politici, escludendoli dalle nostre Assemblee. Persino i nostri secondi e terzi figli hanno delle responsabilità, quelli che non erediteranno nulla sono desiderosi di conquistarsi questo diritto. Caro Cándalo, se tu avessi un briciolo di cervello, capiresti che cedendo un po’ di potere, conserveremo il nostro.” Questa volta l’assemblea non rise, anzi, ognuno sussurrava al vicino: “Forse Timophanes non ha tutti i torti. Dovremmo pensarci bene, prima che succeda l’irreparabile”. 18

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Prese la parola Xenoclìdas, un uomo stimato da tutti, alto di statura con lunghi capelli neri, di una magrezza spaventosa, non certo perché non mangiasse. Era soprannominato il “filosofo”, perché colto e disponibile alle novità. Così disse: “Cari amici, tutti noi siamo dei privilegiati e lo sappiamo. Le nostre famiglie si vantano di discendere direttamente dai Dori, la popolazione che ha contribuito al benessere di questa città. Oramai nessuno di noi ricorda perché ci vantiamo di questi antenati; sarebbe molto istruttivo ricordarlo a tutti: molto tempo fa, tutte le isole dell’Egeo erano dominate dai Micenei, che facevano della guerra di conquista la propria missione. Essi presero la nostra isola, sfruttandola e creando una monarchia dispotica e prepotente. Nessuno dei nostri antenati, allora, possedeva terre. Solo quando furono scacciati dai Dori, si ebbe una forma più libera di governo, proprio quello che abbiamo oggi. Quindi, non facciamo lo stesso loro sbaglio, non soffochiamo il resto della popolazione, concediamo loro cibo e leggi più giuste». Il silenzio scese nell’Assemblea! Tutti erano stati colpiti dalle parole di Xenoclìdas, ma non Cándalo il quale continuava a imprecare contro tutte le ipotesi di cedere potere e cibo. La riunione si concluse senza che venisse presa alcuna decisione, ma il seme era stato lanciato. Nel frattempo, anche gli Schiavi e alcuni Mastrói si erano riuniti in gran segreto in una capanna rurale. Erano undici, ognuno in rappresentanza di ogni grande proprietario terriero. A coordinare il gruppo 19

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II - Discussione in assemblea

erano due Mastrói: Kallis e Mnesilas, tutti e due abili vasai. Questi, forti del loro accresciuto ruolo economico, approfittando della carestia, avevano promesso agli schiavi la redistribuzioni delle terre, parte del raccolto e la cancellazione dei debiti. Con queste premesse i disperati e nullatenenti, erano pronti a combattere per sovvertire l’ordine politico. Venne il giorno della protesta: gli Schiavi e i Mastrói lasciarono i campi e le botteghe diretti verso il Palazzo delle Riunioni. Nel frattempo, i Gorgi e l’Assemblea dei Nobili, avvisati della sommossa, si riunirono in seduta straordinaria, chiudendosi dentro il Palazzo con l’esercito schierato tutt’attorno. Non ricordo a memoria mia, proteste così accese, i Nobili non erano preparati a tutto questo. Nei loro cuori entrò prepotentemente la paura, l’arrogante sicurezza di prima era scomparsa. Chi voleva scappare verso un’isola vicina, chi si armava di spada e lancia. Regnava la confusione più totale! Nel frattempo, i ribelli, con coraggio ed entusiasmo, si diressero verso il Palazzo delle Riunioni. La massa era impressionante e armata solo di bastoni e zappe. Il Palazzo, di forma rettangolare, non era molto alto e neanche imponente. La parte inferiore era composta da blocchi di pietra bianca proveniente dalla città di Ialysos, alti circa sette piedi (circa due metri), mentre lo strato superiore era costituito da mattoni cotti. Era stato costruito dal popolo precedente i Dori come sede del loro re. Quando arrivarono a circa cinquanta passi dalle mura, su un segnale di Mnesílas, l’esercito di schiavi si fermò. Davanti a loro c’era una fitta barriera di cavalieri armati di lancia, dietro i quali una fila di 20

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soldati con spade e scudi. Ad essere sinceri, la maggior parte dei soldati, figli di nobili, non mostrava un particolare entusiasmo bellico; anche a loro la paura aveva paralizzato il corpo. I nobili, me incluso, eravamo affacciati dalle merlature del Palazzo, mescolati agli arcieri. Mnesílas avanzò di qualche passo rispetto agli altri e iniziò a parlare con voce forte e chiara: “Nobili, ascoltatemi. Sono Mnesílas, il vasaio. Voi mi conoscete, ho lavorato duramente per tutta la vita per creare vasi di ogni genere, venduti in tutto il Grande Mare, soprattutto in Egitto, trasportati da marinai che affrontano la morte ad ogni viaggio. È vero che anche noi abbiamo guadagnato bene, qualcuno è riuscito persino a comprare un piccolo pezzetto di terra, ma questa è stata un’eccezione. Quasi tutte le terre sono di vostra proprietà. Ricordatevi è da noi che viene la vostra ricchezza, mentre ci opprimete con leggi durissime. Non avete pietà nemmeno ora che c’è questa terribile carestia! Gli schiavi sono costretti a mangiare erba e altre cose raccolte qua e là, mentre voi avete i magazzini pieni di grano e di farro. E se ciò non bastasse, questa povera gente non ha nessun diritto. Siete arrivati al punto di controllare le loro nascite: se uno schiavo è tranquillo e ubbidiente, allora gli è concesso di riprodursi; se al contrario è gracile o è un contestatore, gli è vietato. Questo stato di cose non va più bene! Chiediamo che una parte delle terre venga distribuita agli schiavi, in modo che il raccolto, tolta la parte per voi, sia di loro proprietà e possano disporne per la loro famiglia”. Tutti si agitarono sulla muraglia e quelle parole di Mnesílas, per i 21

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II - Discussione in assemblea

nobili, erano sacrileghe. Proseguendo con le sue richieste, disse: “Anche noi abbiamo qualche richiesta, ed è quella di voler partecipare alla politica della città, eleggendo un nostro rappresentante”. Tutti si guardarono uno con l’altro, aspettando che qualcuno rispondesse. Da sopra le mura si levò una voce furibonda, era quella del solito Cándalo, paonazzo in viso e gesticolando come un indemoniato, rispose a Mnesílas: “Mnesílas maledetto traditore, ti sei messo a capo degli schiavi, contro di noi? Tu misero vasaio, con le mani sempre sporche d’argilla e di colori, come osi minacciarci? Hai dimenticato quando sei venuto da me a chiedermi un prestito, perché i tuoi vasi non li voleva più nessuno? Sono stato io a darti un po’ d’oro per tenere aperta la tua bottega, ora mi ricambi così... che Zeus ti fulmini! Per me potete morire tutti di fame!” Alle dure e minacciose parole di Cándalo, la situazione stava per precipitare, solo l’intervento di Timophanes che dall’alto delle mura urlò agli insorti: “Fermi! State tutti fermi, discutiamo. Non siamo dei Barbari”. Timophanes scese dal Palazzo e avanzò verso i ribelli allargando le braccia in segno di pace, dirigendosi verso Mnesílas, a bassa voce gli disse: “Mnesílas, non fare caso alle offese di Cándalo, in lui dimora uno spirito maligno che ne ha rubato l’anima, anche fra di noi non è ben visto”. Alzando la voce, Timophanes, si rivolse alla massa: “Popolo, la carestia sta mettendo a dura prova questa città, siamo consapevoli che soprattutto voi state pagando il prezzo più alto, ma 22

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non è ammazzandoci tra di noi che risolveremo il problema. È sotto gli occhi di tutti che la nostra piccola Lindos nel tempo si è trasformata in una grande e popolosa città, con molte più bocche da sfamare. Chi meglio di voi sa che non abbiamo grandi terre da coltivare? Sino a quando i nostri commercianti riuscivano a vendere i loro prodotti: olio, metalli, vasi, legname, potevamo comprare grano ovunque, anche dall’Egitto. Ma da tempo che i nostri commercianti stanno trovando difficoltà a vendere o scambiare i loro prodotti, per la concorrenza spietata delle altre città, come quelle di Creta o della bella Korinthos. Questa è la situazione! Vi prometto, come segno di solidarietà verso di voi, che apriremo i nostri magazzini per dare a tutti un po’ di grano o di orzo per andare avanti qualche settimana. Nel frattempo, l’assemblea resterà dentro il Palazzo, fino a quando non troverà una soluzione che vada bene a tutti”. Quelle parole placarono i manifestanti che pian piano si dispersero per le vie della città. Come promesso, i Gorgi e l’assemblea dei nobili restarono riuniti dentro il Palazzo. Discussero della promessa fatta da Timophanes ai protestanti: che ognuno dei nobili concedesse un po’ di grano o di orzo e di trovare una soluzione definitiva per risolvere il problema. La proposta di Timophanes fu approvata a maggioranza, con sette voti contrari. Non per umana solidarietà, ma per il terrore avuto nel vedere quella gran massa inferocita e la consapevolezza che la prossima volta avrebbero agito con più determinazione, mettendo in pericolo la vita dei Nobili e delle loro famiglie. Questo evento doveva 23

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II - Discussione in assemblea

essere scongiurato nell’immediato. La quantità di grano e di orzo che ogni nobile doveva dare venne fissata in cinque talenti da portare subito nel punto prefissato dall’assemblea: presso lo spiazzo antistante il Palazzo delle Riunioni. Il secondo punto, più complicato da risolvere, generò diverse proposte. Ad esempio, Elpias propose di vietare a tutti gli schiavi di fare figli per ridurre la popolazione. Questa proposta venne scartata perché richiedeva molto tempo per ottenere risultati tangibili. Altri suggerirono di vendere almeno la metà degli schiavi presenti in città.” Dal punto di vista della fattibilità, era la più logica, ma nessuno comprava più schiavi; la carestia non aveva colpito solo Lindos, ma tutte le città dell’Egeo orientale. A questo punto si alzò Xenoclidas, si recò al centro della stanza e con fare pensoso si rivolse alla platea: “Portiamoli in Trinakría! Andiamo a fondare una nostra colonia. Non pensate davvero che possiamo risolvere il problema della sovrappopolazione e della carestia fornendo un po’ d’orzo e un po’ di grano? Il problema si ripeterà certamente, fino a quando non accadrà che gli schiavi e i Mastrói prenderanno il potere. E poi, con l’occasione, daremmo una possibilità ai nostri secondi e terzi figli che qui non hanno aspettative di successione. Già alcune città della Grecia hanno affrontato più di settant’anni fa gli stessi problemi, soprattutto i Calcidesi e i Corinzi, che in Trinakría hanno fondato diverse colonie. La fondazione di queste colonie così lontane ha permesso di risolvere due grossi problemi: hanno espulso dalla loro 24

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Antíphemos. La nascita di Ghelas

città molti schiavi e qualche delinquente; inoltre hanno creato un nuovo mercato dove vendere i loro prodotti. Perché non possiamo farlo anche noi? In tempi passati, abbiamo già fondato colonie sulla sponda orientale del mare Egeo. Andare in Trinakría è un’altra cosa, eppure dobbiamo tentare”. Preso dalla curiosità, intervenne un uomo piccolo di statura, con capelli riccioluti e un naso a patata, sproporzionato rispetto alla faccia, che rispondeva al nome di Damás. Non amava particolarmente Xenoclìdas, anzi lo detestava. Per lui i filosofi erano dei perditempo che consumavano i beni accumulati dai padri. Il suo unico interesse era quello di ammassare ricchezze ovunque se ne presentasse l’occasione. “Xenoclìdas, chi ci dice che quell’isola non è già tutta occupata per intero?” chiese Damás. Per andare in Trinakría dovremmo consumare molte risorse. Se non c’è una terra libera, potremmo ritrovarci con gli stessi problemi, anzi aggravati.” “Le tue perplessità sono anche le mie”, rispose Xenoclìdas. “Quando si parla di fondare una colonia, dobbiamo considerare attentamente tutti questi dettagli. Ma la situazione attuale richiede una soluzione. Dobbiamo essere pronti a prendere rischi calcolati per il bene della nostra città”. I nostri valenti marinai, sono già stati in Trinakría, non certo per creare colonie, ma conoscono la rotta. Diamo l’incarico a uno di noi e inviamolo in esplorazione, per capire quali possibilità ci sono di trovare terre ancora libere”. Quest’ultima proposta piacque a tutti, specialmente a Megacles e chiese all’assemblea se c’era qualcuno disposto ad andare in Trinakría. 25

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II - Discussione in assemblea

Nessuno alzò la mano. Ognuno aveva una buona ragione per non partire: chi era troppo vecchio, chi non godeva di buona salute, chi non poteva lasciare la famiglia. La verità era che tutti avevano paura di affrontare il viaggio! Non essendoci volontari la discussione durò fino a notte fonda. Ad un tratto, prese la parola Timophanes: “Amici, l’ora è tarda; dovremmo andare a dormire. Visto che nessuno si è offerto per intraprendere questo viaggio, propongo io un nome: Antíphemos! Per me è l’uomo giusto per questo scopo, grazie ai suoi modi gentili e alla saggezza che lo contraddistinguono.” Nessuno disse niente; al contrario, tutti si mostrarono sollevati e accolsero con entusiasmo la proposta... tranne me, manifestando un grande applauso liberatorio. Stavo per urlare il mio no, quando Timophanes si avvicinò e sottovoce mi disse: “Accetta, poi ti spiego”. Non ero abituato a fare viaggi per mare, li evitavo come la morte, ne ho sempre avuto paura. Non sopportavo l’idea di stare dentro un guscio di legno a merce dell’immensità del mare e dei suoi capricci. Non sapevo neanche nuotare... e dovere andare in Trinakría? Non sia mai! Preso alla sprovvista e fiducioso a causa di quel “Poi ti spiego”, accettai. Mi alzai, sentivo la gola secca, quasi la voce non usciva dalla bocca e ringraziai, con la morte nel cuore, il Cittadino Timophanes e tutta l’assemblea, per la fiducia accordata alla mia persona. L’Assemblea fu sciolta a tarda ora e tutti andarono a dormire. Cercavo disperatamente Timophanes per avere spiegazioni, ma lui 26

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INDICE Introduzione

1

I - Lindos, una polis nel caos

3

II - Discussione in assemblea

17

III - Il comandante Testore

37

IV - Korinthos

55

V - In Trinakría

67

VI - Una collina tutta verde

75

VII - La scelta dell’Ecista

95

VIII - L’Oracolo di Delfi

101

IX - Partenza per la Trinakría

107

X - La costruzione del tempio

131

XI - Il commercio dei vasi e la semina

137

XII - Il ritorno a Lindos

159

XIII - La conquista di Onfake e di Maktorio

175

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Copyright Luigi Nastasi - tutti i diritti riservati

ISBN: 9791280343529 Studio Byblos Publishing House www.studiobyblos.com ‐ studiobyblos@gmail.com

Palermo gennaio 2024

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Nel tumulto dell’ottavo secolo a.C., l'antico Mar Mediterraneo si trasforma in un palcoscenico di avventure, scoperte e ambizioni. Questa è la storia avvincente della fondazione di una colonia greca in terra siciliana, una terra ricca di promesse e pericoli in egual misura. Il romanzo “Antíphemos. La nascita di Ghelas” racconta il viaggio epico di un gruppo di pionieri greci in cerca di nuove opportunità oltre il mare Egeo. Al comando di Antíphemos da Rodi e di Èntimos da Creta, un gruppo eterogeneo di uomini intraprende una traversata per trovare una nuova patria dove prosperare. Giunti sulla costa della Sicilia, affascinati dalla fertile terra e dalle promesse di prosperità, decidono di fondare una colonia: Gela. La nuova città diventa il fulcro di speranze e sogni di una vita migliore, ma anche il campo di battaglia di conflitti interni e minacce esterne. Tra tradimenti, alleanze tese e le sfide della costruzione di una società nuova e prospera, i protagonisti devono affrontare i rischi dell'ignoto mentre si immergono nelle dinamiche politiche e sociali della loro colonia appena nata. Il romanzo “Antíphemos. La nascita di Ghelas” è una storia avvincente di coraggio, determinazione e scoperta. Attraverso le prodezze degli eroi e le sfide incontrate, offre uno sguardo intimo e coinvolgente sulla nascita di una colonia greca in Sicilia, intrecciando abilmente storia e avventura in un viaggio che esplora il significato della creazione di un nuovo mondo oltre i confini conosciuti.

Euro 15,00


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