Franco Tagliati
Diario di un Adolescente Studio Byblos
Franco Tagliati
Diario di un Adolescente
L’adolescenza sulle rive del Po, secondo i ritmi scanditi della natura e dal fiume più lungo d’Italia è un’esperienza che manca a noi figli dell’angusta cementizia modernità sommersa dall’inquinamento luminoso e non accarezzata dalla luce baluginante delle stelle. Oggi la stagione che è il preludio della vita adulta e il crepuscolo dell’infanzia disconosce la magia del tramonto del sole tra gli alberi, non è capace di giocare e ridere avendo come compagna la semplice fantasia, ignora la rassicurante bellezza di un fuoco estivo nel cortile, unico riflettore per un presentatore narratore delle vicende delle vita umana. Soprattutto è priva del rapporto con un ente naturale, quale è il Po nel caso del Tagliati, che tutto da e tutto toglie, incurante spesso della necessità di chi gli vive intorno. Regala la serenità, ad un animo inquieto, che si placa con lo scorrere delle sue acque, opprime quando gonfio di pioggia si allea con il cielo plumbeo e la nebbia per opprimere dispettoso chi gli vive attorno. Un po’ lo stesso ruolo che esercita il mare, d’estate e d’inverno, o un alta montagna, donatrice di pascoli e madre di rovinose valanghe. Questo libro di Franco Tagliati è sia un inno che un evocazione all’umana semplicità, quella dei tempi passati in cui l’armonia con la natura non era una ricerca, ma un inconsapevole realtà, quando ci si meravigliava o meglio ancora neanche si immaginavano le cose che adesso sono considerate scontate e l’uomo lottava per sopravvivere durante una quotidianità fatta di sudore e fatica fisica. “Diario di un adolescente” è un ritorno all’antico, un viaggio nel tempo passato, quasi d’obbligo, per meglio interpretare e capire certi nostri atteggiamenti e comportamenti; per ritrovare le nostre origini che spesso sottovalutiamo abbagliati dall’accattivante modernità che ci travolge. A intercalare i paragrafi, delle brevi poesie del Tagliati, che sono idilli dell’animo che si specchia nel racconto narrato nel paragrafo stesso. Si legge bene questo libro del Tagliati, e una volta finito, ci mancherà, tant’è che diverrà un classico da rileggere ospite gradito delle nostre biblioteche personali. Dino Marasà
Diario di un adolescente
AGRESTI RICORDI è con l’inchiostro della notte che riempio le bianche pagine della memoria: La merenda sul muretto dell’aia lacrime versate per la morte del mio cane le corse tra i filari i tuffi nel fiume la scalata degli argini il lancio dei sassi le carriole riempite di rane il rifugio tra i pioppi sotto l’ombra dei salici giochi semplici tra il verde dei campi le storie del nonno il profumo della sua pipa frammenti di luce di una perduta gioventù.
6
Diario di un adolescente
LA RADIO DEL BISNONNO
rano gli anni cinquanta, la mia era una famiglia di fieri contadini abituati al duro lavoro, ai sacrifici e ai disagi dovuti alla povertà. I braccianti, i mezzadri, gli affittuari stentavano a sfamare i propri figli e in quegli anni del dopo guerra era ancora troppo grande il divario sociale tra i poveri ed i padroni, ma c’era nell’aria una grande voglia di riscatto da quel mondo di tribolazioni. Molti decidevano di espatriare in cerca di fortuna, ma altri si rimboccavano le maniche per rendere più fertile e produttiva la propria terra con la speranza di un futuro nuovo e migliore. Quel giorno l’alba si affacciò vestita di un intenso arancione su un cielo grigio azzurro e l’aria sembrava essersi addolcita. I solchi sulla terra arata disegnavano ombre che si allungavano sotto gli olmi nello scintillio della prima brina. Gli uomini stavano terminando di fare colazione quando dall’aia il suono stridente di un clacson li distolse. Abitavamo distanti dal paese in aperta campagna e non eravamo abituati a vedere arrivare automezzi dalle nostre parti. Vederne uno fermarsi proprio sulla nostra aia era un fatto inconsueto ed eccezionale. Una TOPOLINO C. che scintillava era una meravigliosa visione. La zia Linda era venuta a farci visita con suo marito. La zia era la sorella del bisnonno. Aveva sposato nel 1921 un impiegato delle poste di Milano e viveva in quella città in un lussuoso appartamento ove aveva fatto costruire un bellissimo giardino pensile. L’appartamento era di proprietà di suo marito che l’aveva avuto da suo nonno. Ricordo che un fine settimana, accogliendo il suo invito, andammo a Milano a farle visita, lo zio venne a prenderci alla stazione. Ambedue furono felici e ci accolsero amabilmente ma si dovettero presto pentire di averci regalato dei palloni perché presto con quelli rimase ben poco del famoso giardino pensile. Nostro cugino più piccolo, distrusse una lampada da tavolo e un prezioso vaso di vetro; oggetti preziosi realizzati da un artista veneziano dal nome imponente, un certo Napoleone Martinuzzi della vetreria Venini. La collera dello zio in quei giorni andò alle stelle. Il disperato correva per l’appartamento come un gatto selvatico che salta sugli scavi archeologici. Inutilmente ci scusammo del trambusto e del danno arrecato, ma inutile dire che le nostre scuse non valsero a nulla.
7
Diario di un adolescente
“Siete un branco di pirati inferociti!! Mai più! Mai più!” Gridò lo zio congedandosi. Quella fu la prima ed anche l’ultima volta che ci recammo a Milano. Il bisnonno aprì la portiera ed aiutò sua sorella a scendere con una calma disarmante e l’abbracciò affettuosamente. “Desö, Linda, ‘t’arcordàt quànd a sierum piccul, quànd in cambi ad ‘na bucìna ad tera cota, tam dav la tö fétta ad pulénta?” (Dimmi, Linda, ti ricordi quando eravamo piccoli che in cambio di una pallina di terracotta tu mi davi la tua fetta di polenta?) Questa era la frase che il bisnonno ripeteva ad ogni incontro con la sorella. Sempre la stessa e con l’usuale lenta cadenza, come se fosse un rituale e la zia Linda ogni volta si commuoveva e lo stringeva in un abbraccio affettuoso. Lo zio scese dall’auto e ci salutammo mentre il bisnonno e la zia entrarono in casa ed una volta entrati nella grande cucina la zia guardando con aria severa suo fratello disse: “Tuo cognato ti ha portato un regalo, cerca di essere gentile con lui e mi raccomando non cominciare a litigare per quella maledetta politica”. Il bisnonno era sempre stato un uomo rude ma schietto come l’aceto non tacque: “Me a sun vön dal popul, un sucialìsta vér, e mia un servitùr di padron e un squàsa sutàni di prét”. (Io sono uno del popolo, un socialista vero e non un servitore dei padroni, o uno che cambia il proprio modo di agire quando si trova di fronte alle sottane di un prete). C’erano regali per tutti. Come di consueto per noi ragazzi il solito pacchetto di caramelle che sapevano di muffa e nessuno di noi le mangiava, ma le barattavamo con gli amici in cambio di palline di vetro. Nella vasta cucina affollata erano tutti intenti ad aprire i loro regali. Lo zio entrò per ultimo e aiutato dal nonno depose sul tavolo un enorme pacco proprio davanti al bisnonno. Il regalo lasciò senza parole tutta la famiglia. Tolto l’imballaggio, sotto gli sguardi stupefatti di tutti, apparve una radio PHONOLA Saronno Milano mod. 51. La zia sapeva che suo fratello aveva sempre desiderato una radio e fu felice di vedere che il dono aveva ottenuto lo scopo. Al bisnonno brillarono gli occhi ed iniziò a carezzare l’apparecchio come se fosse il suo gatto. Gli zii si trattennero sino a Natale. Zia Linda ripeteva che forse quella sarebbe stata una delle ultime volte in cui avrebbe goduto del calore della famiglia riunita. L’inverno giunse con anticipo e per la fiera di Santa Caterina c’erano già venti centimetri di neve, il gelo aveva formato piccoli stalattiti che pendevano dalle grondaie e la campagna imbiancata appariva come un lenzuolo steso sul letto dei campi. Lo zio non nascondeva il suo disagio; il freddo non faceva che accentuare i suoi dolori reumatici, inoltre da noi non esistevano le comodità a cui era abituato. Il bagno era un casotto di legno dietro la stalla. Quando vi entrava per i suoi bisogni, noi tiravamo dei sassi contro le pareti di legno con la fionda e lui si spaventava e impre-
8
Diario di un adolescente
cava e spesso usciva coi pantaloni in mano dicendocene di tutti i colori. Una volta cadde e si impiastrò tutto di mota. Anche l’acqua calda corrente era un sogno. Noi facevamo il bagno dentro la “SUIÖLA” (grande mastello di legno) nella stalla. Ciò era per lo zio inconcepibile e avvilente, una vera tortura barbara. Quello che apprezzava di cuore però, era la cucina emiliana: tortelli, cappelletti, gnocco fritto, salami, cotechini, lasagne, l’intingolo di pollo, gli facevano immediatamente dimenticare i disagi e le sofferenze di quella permanenza e cancellava persino le marachelle subite da noi ragazzi. Il bisnonno non mancava mai di prenderlo in giro: “Ad se ‘na mèsa cartöccia!” (Sei una mezza cartuccia!). Loro non erano mai andati d’accordo. Spesso discutevano animatamente, tanto da sembrare due galletti infuriati, ma alla fine, davanti a un buon bicchiere di lambrusco ed i rimproveri della nonna, sempre armata di infinita pazienza, ritornavano mansueti come agnellini. Inutile dire che la tregua durava poco. Lo zio accusava il bisnonno di essere un bolscevico ignorante, incapace di cogliere l’essenza delle cose: “Le vostre sono soltanto illusioni” Blaterava lo zio, “Parlate di uguaglianza e giustizia, ma quando si è al potere si pensa solo ai propri interessi e del popolo non glie ne frega niente a nessuno”. “Ma taci, voi con la vostra finta democrazia che si copre dietro le sottane di una chiesa egoista e fascista. Per questo Cristo è stato messo in croce, perché era socialista! Voi, invece, vi nascondete dietro le mutande del papa per proteggere i ricchi e dare addosso a chi lavora...” Andavano avanti così, botta e risposta, per ore. Allora non esistevano molti mezzi di informazione. Lo zio non era a conoscenza che sua moglie anni addietro, subito dopo la guerra, aveva regalato al fratello una serie di volumi di EDWARD H.CARR sulla rivoluzione bolscevica dal 1917 al 1929. Il bisnonno li aveva letti tutti, ne conosceva ogni passaggio, ogni brano e nelle discussioni sfoggiava questa sua conoscenza così ben custodita da mettere in crisi l’interlocutore. Quando la battaglia tra i due cognati infuriava, la nonna se li guardava scuotendo la testa: “Gli eserciti delle vostre chiacchiere crescono sulle vostre labbra senza invecchiare” Diceva sconsolata. Il bisnonno non amava essere ripreso da una donna, ma difronte alla nonna si controllava. Conosceva bene di che pasta era fatta e capiva che se pur contrariato era meglio per lui tacere. Per quanto riguarda lo zio, egli non tollerava di trovarsi sempre in posizione svantaggiosa nelle discussioni col cognato. Gli seccava ammettere che nonostante le loro diverse idee politiche, il bisnonno avesse una così intensa preparazione e conoscenza.
9
Diario di un adolescente
Ciò lo metteva a disagio ed allora sfoderava quel sorriso insolente di chi si sente difensore puro di ideali sacrosanti. Ma dentro di lui covava la rabbia di essere stato sconfitto ed allora si isolava dal resto della famiglia e si ammutoliva fissando le travi del soffitto con quei suoi gialli occhi da gatto. Molti di noi si chiedevano quali doti nascoste avesse lo zio di Milano. Nessuno aveva il coraggio di parlarne, ma forse il motivo era che nessuno, per quanto lo si osservasse, ne aveva trovato traccia. Dopo ogni battaglia verbale, si rimaneva tutti imbarazzati e tesi, soltanto la zia, noncurante del putiferio, continuava a rimpinzarsi di budino fatto in casa di cui andava ghiotta; ne fece fuori due belle scodelle mentre la dentiera suonava come i tasti di un pianoforte. Gli zii tornarono a Milano il giorno di Santo Stefano. Partirono subito dopo colazione. La neve s’era diradata, la topolino s’allontanò dietro i nostri saluti. Fu l’ultima volta che vedemmo gli zii. Nella primavera dell’anno successivo a distanza di tre mesi uno dall’altro se ne andarono in pace. La loro scomparsa aprì un vuoto, per molto tempo non se ne parlò ma ognuno continuò a conservare il loro ricordo tra le pagine delle rispettive esistenze. Non avevamo l’energia elettrica. Per il bisnonno la radio fu come una conquista sociale ma era anche un tormento perché non poteva ascoltarla. Il proprietario del nostro podere aveva promesso che avrebbe installato l’impianto elettrico, ma le sue promesse s’erano perse nella nebbia. Il bisnonno non si perse d’animo: iniziò a spargere in giro la notizia di possedere una radio ma ripeteva il motivo per cui non la poteva ascoltare. Gli effetti di questa sua iniziativa non tardarono a manifestarsi. Durante l’inverno si cenava alle 18,30 puntualmente e non erano ammessi ritardi. Abitualmente accompagnavo il bisnonno ai “Filòs” (intrattenimento serale). Sedevo sulla canna della bicicletta mi avvolgevo nel suo scuro “Tabar” (mantello). l mio compito era quello di reggere la radio dentro un sacco imbottito con piume di oca. D’estate, oltre che sostenere la radio impugnavo una pila per illuminare il percorso nelle sere buie. Quando andavo a scuola dovevo essere a letto entro un certo orario ed il bisnonno era rigorosissimo nel rispettare gli orari. Io mi divertivo, ormai il bisnonno era diventato talmente abile a cercare le stazioni che pareva un disc Jokey professionista. Raccolta nelle stalle o nelle case la gente amava ascoltare musica o notizie. Spesso raccolti nelle stalle più grandi, tra due file di armenti legati alle greppie, si poteva persino ballare. Le mucche guardavano con quegli occhi grandi e umidi la pazzia degli umani e le loro mosse strane e ogni tanto mollavano sul pavimento una cascata dei loro escrementi profumati. Per tutto l’anno il bisnonno continuò a fare questi fantastici “Filòs” (intrattenimento serale) radiofonici, ma d’estate, sull’aia, la festa diveniva ancora più allegra. La musica si diffondeva per la campagna intorno e le lucciole a volte sembravano
10
Diario di un adolescente
danzare su quelle note agitandosi tra i cespugli. Era delizioso e divertente notare l’abilità dei ballerini che a volte erano costretti a difendersi dagli assalti delle zanzare che volevano partecipare alla festa. Finalmente, un bel giorno, l’energia elettrica fu installata in paese per tutti. Mi ero sempre divertito col bisnonno nei suoi “Filòs” (intrattenimento serale) che purtroppo finirono ed iniziò la sua tristezza. Non poteva più condividere l’ascolto della sua radio con gli altri, ed iniziò a chiudersi in se stesso e nei suoi mutismi. Un giorno dimenticò persino di mettersi la dentiera che di notte usava lasciare immersa in un bicchiere d’acqua sul comodino. Non la mise più. Nonostante i brontolii della nonna che cercava in tutti i modi di scuoterlo dalla sua inerzia, si chiuse in camera brontolando strane e incomprensibili parole. Andavo spesso a trovarlo con la radio, mi guardava con aria sconsolata e con un filo di voce mi ripeteva: “Ora c’è quel maledetto marchingegno che chiamano televisione, un’invadente stregoneria che brucia il cervello delle persone, e poi tutta questa gente forestiera che ti entra in casa senza chiederti il permesso, per controllare tutto quello che fai, mentre non si ha più nessun interesse o rispetto per la discreta radio”. Memore di quanto vissuto con lui nei “Filòs” (intrattenimento serale) tentavo di ribattere asserendo che non era vero. Avevamo portato l’allegria nelle fattorie vicine e regalato momenti memorabili a tanta gente, ma il progresso non si poteva fermare. Lui mi guardava severo: “Il progresso va bene soltanto quando non toglie dignità e valori all’uomo, perché allora sarà la fine; i geni contadini ritorneranno nelle loro lampade, seppellendo il passato, cedendo al compromesso, sarà il prezzo da pagare per una moderna follia che tenterà di cancellare le radici ad una terra amata, di cui nessuno coglierà il grido, perché sarà trasformata, stuprata, derubata, e nel paesaggio sconfitto la sua essenza urlerà la rabbia delle zolle”ribadiva ostinatamente. “...Senza valori...schiavo di se stesso...” lo sentii ripetere più volte mentre fissava con gli occhi il soffitto. Mi mise una mano tra i capelli: “la gente perderà la sua dignità, venderà l’anima per delle cagate dette da uno schermo, confonderà il vero dal falso e non vi sarà più dialogo tra le famiglie...” La sua voce s’affievolì e tacque per sempre. Fu un tremendo colpo per tutta la famiglia. La radio fu collocata accanto alla salma. Il sole quel giorno pareva un tuorlo d’uovo che si sfalda sulla padella. Il bisnonno aveva affrontato i disagi della guerra del 1915, la fame e la miseria di anni in cui ogni speranza sembrava essere stata inghiottita da un demone insaziabile, aveva superato gli orrori dell’ultimo conflitto rischiando più volte d’essere fucilato. Aveva avuto in cambio soltanto la soddisfazione di possedere una radio: la sua gioia, ma anche la sua fine. Chiuse gli occhi per sempre coperto dalla sua terra accanto alla sua inseparabile compagna elettronica.
11
Diario di un adolescente
FIUMI di IMMAGINI Batter d’ali stormire di foglie racconti dell’acqua sabbia irreale pianto di salici la sicurezza dei pioppi bolle di insetti sprazzi di luce immagini fuggenti tra la terra ed il fiato nei giardini del Po si impara a scoprire il cielo nudo di vento incanto e poesia sotto foglie nascenti pulsare di elementi palpitare di tramonti luna pigra che si specchia sulle foglie delle gaggie l’approdo d’una barca che scivola tra le mie mani una manciata di sabbia perdutamente indifferente lacrime segrete che colmano la mia valigia di ricordi ritrovati in questo affannoso respiro del giorno.
12
Diario di un adolescente
AL FILÒS (Trattenimento serale tra amici)
uand’ero ragazzo, a casa mia non c’era l’energia elettrica, e tutta la luce che si poteva contemplare, era attraverso le candele o le lucerne a petrolio. Naturalmente non avevamo nessun tipo di informazione, e il rapporto col mondo esterno, era lento e spesso travisato. Le notizie che si acquisivano, venivano traghettate dagli ambulanti, che settimanalmente facevano visita nelle grandi corti contadine, compresa la nostra. Oltre agli ambulanti, c’erano alcuni personaggi che ogni quindici giorni, giravano per le corti, d’estate e d’inverno. Li chiamavano i “Gasàroi”, (erano una specie di gazzettino viaggiante) che avevano (chi più chi meno) una infarinatura di cultura generalizzata (o improvvisata) su tante cose. Quando raccontavano le loro storie, si pavoneggiavano coi loro ascoltatori, per la sapienza esternata. Questi personaggi, avevano un’età abbastanza avanzata, e portavano sempre appresso, una sporta di paglia che custodivano gelosamente. Questa era foderata all’interno da una stoffa grigia o marrone. La sporta era sempre piena di scartoffie scritte a mano con l’inchiostro; filastrocche, tiritere, indovinelli, brevi romanzi, pezzi di giornale e qualche rivista di quegli anni cinquanta. A volte c’erano anche storie scritte dagli stessi narratori. Poi tutte le ultime notizie, che il mondo in quel momento poteva offrire. La nostra casa era frequentata da due “Gasàrol”; c’era quello dell’estate che era un po’ più giovane di quello dell’inverno. A noi ragazzi piaceva di più quello dell’inverno, perché aveva i capelli e la barba bianchi come il latte, lunghi e riccioluti come una pecora merinos. Questi sapeva raccontare le storie in un modo fantastico e misterioso. D’estate, dopo cena, sull’aia di pietre rosse cotte dalla luce torrida del giorno, ci si riuniva a chiacchierare o ad ascoltare storie. Venivano i nostri vicini, e qualche volta, anche persone dal vicino paese, in bicicletta, che distanziava circa 5/6 km. La nonna, portava sull’aia, quante sedie poteva, ma tanti presenti, si sedevano sul muretto dell’aia. Per tenere a bada le zanzare, il nonno, faceva bruciare senza fiamma, in un piccolo paiolo di rame (o stagnadén) un miscuglio di erbe secche, che la nonna raccoglieva in primavera, e dopo averle seccate, le teneva al buio dentro un sacco di canapa, appese sotto il portico come un salame. Questo tipo di fieno, veniva usato solo per il “filòs” estivo. Questo miscuglio era composto da: rosmarino, ortiche, erba cipollina selvatica,
13
Diario di un adolescente
foglie di olmo, gerano selvatico, salvia e menta selvatica. Il fumo che usciva dal coperchio (tutto forato) del paiolo, creava una nube di un colore grigiastro aereo, che sonnolento vacillava dinanzi a noi. Le zanzare, ubriache, cadevano al suolo stordite, ma poi si rialzavano per trovare riparo ai margini dell’aia, tra le siepi profumate d’oleandro. Al “Gasàrol” o (narratore), era un’artista delle suggestioni. La situazione durante il racconto delle notizie prima, e di una storia dopo, richiedeva, tra i presenti, un certo contegno, o quiete spirituale, che noi ragazzi non avevamo. Nel riverbero della luna, i rumori, anche i più flebili, sparivano, come le grinze di una stoffa sotto il ferro da stiro. Dalla pipa del bisnonno, seduto davanti al portone, usciva una nube di fumo, che pareva raccontare in silenzio una quantità di storie. Storie che al bisnonno non piacevano, perché diceva: (sono tutte lamentele o filastrocche di gente che non ha voglia di far niente). A Lui piaceva solo la politica. Il narratore estivo, dal punto di vista fisico, era un enigma a se stesso. Lo sguardo radicato in mezzo agli occhi, la faccia asimmetrica, grasso e con pochi denti. Quando rideva, faceva ridere più dei suoi racconti. A volte le sue storie parlavano di sentimenti, di illusioni, di stranezze lontane, di amore e gratitudine con grande intensità. Tutto questo si stringeva dentro le anime degli adulti presenti; allora un uomo o una donna smetteva di fumare o di fare la treccia e si lasciava andare, guardando nel vuoto i fantasmi che la luce della luna creava attorno al cortile. Anche l’aria, pareva caricarsi di desideri, e nel suo gonfiore estivo, pesante, ardeva scaricarsi come un essere vivente. Alla fine del racconto, se non c’erano commenti da parte dei presenti, la nonna si alzava, entrava in casa, per ricomparire subito dopo, con un cestino di uova, o una bottiglia di vino cotto, che consegnava al “Gasàrol” ogni tanto, come compenso per i suoi servizi di intrattenitore serale. Così faceva anche con quello invernale. La serata dal “filòs” estivo terminava sempre con i discorsi sulla terra. In campagna, i lavori quotidiani erano come processioni, che avvenivano giornalmente, accompagnate dallo scandire del tempo e dal mutar delle stagioni. La nonna, in queste serate, a volte ai presenti offriva una specie di gnocco fritto schiacciato e mezzo dolce, con dentro riso e vino cotto, che lei chiamava “flipòn”. Naturalmente tutti ne erano ghiotti, e lo mangiavano con grande avidità. Per noi ragazzi, sbadigli a parte, seduti sul muretto dell’aia, seguivamo con molto interesse questo tipo di intrattenimento. Era un intimo piacere, che si provava solo coi sogni, o in una giornata calda benefica, quando ogni desiderio è soddisfatto. A volte era la nostra famiglia che andava a fare “filòs” nelle altre corti vicine. Durante i brevi tragitti sulla strada ghiaiata, si sentiva la polvere pulsare sotto ipiedi. Il gracidare delle rane era un concerto che vibrava. Le lucciole che si raggruppavano sull’erba in scintillii festosi, mentre noi ragazzi col naso all’insù contavamo le prime stelle. Ogni tanto, dalle tasche dei nostri genitori uscivano gallette da mettere sotto i denti. Tra una risata e l’altra, si saltava il fosso, e si
14
Diario di un adolescente
faceva qualche capriola, sulle tracce della spensieratezza. A volte si sentivano, da lontano, gli ultimi carri da fieno arrancare stanchi, e le fruste di alcuni carrettieri, vibrare schioccando. L’autunno preparava la strada all’inverno, mentre si spogliava dei suoi ornamenti. Con la sua nebbia, senza colore , che vela la campagna e accarezza tutte le cose. Con le giornate corte, quando l’aria si fa gelata e pizzica le orecchie, e la brina ricama le finestre, allora al “filòs” si faceva nelle stalle. In casa non si poteva stare, perché bisognava risparmiare la legna, e le braci da mettere nella padella per “al prét a lett” (il fuoco dentro il baldacchino per scaldare il letto). D’inverno si cenava presto, e verso le otto di sera, la stalla cominciava a riempirsi. La luce della lucerna riempiva gli spazi fra le pietre, come un fluido giallo-arancione, e accarezzava la faccia della gente mentre chiacchierava, seduta sulle balle di paglia che si raccontava la vita. Le mosche, che si erano imboscate nel caldo tepore della stalla, ora si muovevano da una schiena all’altra delle mucche, sembravano piccole sfingi. Quando una mucca faceva la pipì, tutti si spostavano velocemente, poi tutto tornava come prima. A volte le donne, in attesa del “Gasàrol”, intonavano una filastrocca, a bassa voce per non disturbare troppo gli armenti. Con abilità intrecciavano la paglia, lavoravano a uncinetto, e rammendavano. Gli uomini dal canto loro, con la sigaretta in bocca, sistemavano gli attrezzi della campagna. La nonna in un angolo della stalla, si pettinava i suoi capelli bianchi, parevano mille e mille fili di ragno. Il nonno sul suo seggiolone (portato nella stalla da noi ragazzi, quasi tutte le sere), faceva ribollire la sua pipa di piccole palle di fumo. Tra le mani di mia madre, i fagioli uscivano dai baccelli, si ammucchiavano in silenzio in un secchio. Nella serenità che invadeva lo spirito di ogni presente, le bestie si agitavano, muggendo grate, con occhi lucidi e caldi fiati. Arrivato il “Gasàrol”, si toglieva il suo “tabàrr” (mantello) e il largo cappello. Il nostro era un “perdgón” (persona alta e magra) e prima di sedersi su una balla di paglia, doveva esternare un piccolo cerimoniale; si dava una lisciatina ai baffi, alla barba e ai capelli. Aveva due scarpe marroni, sformate e arricciate come labbra ghignanti. Portava un orecchino all’orecchio sinistro (che amava far notare) e al posto della cravatta, aveva un nastro nero annodato. Quando parlava, la lingua quasi gli usciva dalla bocca, era tutta rossa e grassa. Tutto questo conferiva alla sua figura un aspetto di guardiano infernale. A volte, cominciava con una poesia, della quale, conosceva solo pochi versi. Io ne ricordo alcune rime: la valle canta l’eco delle campane – la riva ascolta il canto delle onde – per estinguere la sete – alle sorgenti di un sogno. Le donne presenti, dicevano che questa presunta poesia, sembrava come quell’amore, che viene la sera e parte alla mattina. Poi raccontava delle storie, misteriose, mentre le esternava, incuteva a noi ragazzi un po’ di paura. L’atmosfera che si creava, ci
15
Diario di un adolescente
faceva sbiancare in viso come una candela. In quei momenti anche gli oggetti inanimati che ci circondavano, parevano avere un’esistenza mentale. Ad appesantire la paura, a volte contribuiva anche il vento, che col suo violino, suonava tra i tubi delle grondaie la sua macabra melodia. Poi tutto tornava nella penombra della lampada a petrolio. A volte le storie erano più allegre o più sdolcinate. Quando parlava di amanti o cose di questo genere, le nostre cugine (più grandi noi), sedute negli angoli della stalla, facevano dei piccoli gridolini, forse di eccitazione o forse immaginando chissà quali amori. Noi maschi seguivamo le storie con maggior attenzione, senza commenti. La nostra carne non era ancora sveglia per l’attrazione. Dalle storie che ascoltavamo, ognuno di noi, conservava nel proprio animo ogni più piccola immagine del racconto, e questo diventava fantastico, più di qualsiasi cosa che ci circondava attraverso i nostri giochi. Durante queste sere di “filòs”, del periodo invernale, ricamate di semplicità, che indorano i sogni, con la fantasia e la poesia, si mangiavano anche le brostole, o i semi di zucca fritti con strutto e sale. Se la stalla era grande, certe volte si giocava a carte, mescolando il gioco, con qualche bicchiere di lambrusco, dove vi si intingevano i bastoncini di “papasén” (castagnaccio). Ora quei momenti non si gustano più. Le sere sono ormai senza più essenza. Gli amici non sanno più stare insieme. Si svuota l’anima come un catino forato, che perde muto le gocce della memoria.
16
Diario di un adolescente
RICHIAMO Sono salito su un treno di illusioni con assolata giovinezza testarda e insolente ubriaco scrissi euforiche righe tra strade di luci artificiali sull’asfalto di note trionfanti senza accorgermene piantai chiodi sulle ali della libertà. Poi la fuga ma ero straniero smarrito nel tempo con il grigiore di sogni e brandelli di ricordi gabbiano ferito dietro al tuo richiamo cerco il risveglio dell’erba l’antico vociare di stagioni fuggite il canto di ore strappate i volti segnati della mia gente.
17
Diario di un adolescente
RICORDI D’INFANZIA Stride il tramonto lungo le rive del Po nella danza di rondini e pioppi. Radici e foglie attimi di vita sogni inseguiti. Grida gioiose giovani dopo il bagno le orme sulla sabbia. Mondo antico di semplici cose percorso a piedi scalzi biciclette nell’azzurro di un paesaggio che odora d’acqua nel sangue adolescente che scorre tra quegli argini l’eterna forza di un amore immortale.
18
Diario di un adolescente
LA CORSA CON LE RANE
ravamo sdraiati sull’argine per goderci il sole del mattino, l’acqua del canale scorreva rumoreggiando e i nostri corpi di ragazzi accarezzati da un vento caldo si abbandonavano sull’erba godendo di quella pace. Il nonno ci raggiunse e ci invitò tutti a prestargli attenzione. “Tra una settimana in paese si svolgerà la sagra del patrono e per l’occasione, la parrocchia, l’osteria ed alcuni artigiani, hanno deciso di organizzare una gara: la corsa delle carriole con sopra le rane. Il torneo è riservato a tutti i ragazzi del paese dagli otto ai quindici anni. Vi voglio tutti sotto il portico della barchessa dopo pranzo per programmare la vostra partecipazione alla gara”. Stava per andarsene quando si voltò e con voce severa ci rimproverò: “Vi ho detto mille volte che non mi piace vedervi qui sull’argine completamente nudi come fannulloni, brutti somari senza pudore”. Colpiti dal rimprovero, scattammo subito in piedi, ma tutti ci sentivamo alquanto sorpresi ed eccitati dalla proposta del nonno. Era un’enorme opportunità che ci veniva offerta proprio da lui che di solito con noi era molto severo e la cosa ci stupì. Dopo pranzo ci trovammo tutti sotto il portico seduti sulle balle di fieno desiderosi di ascoltare il nonno e ci sorprendemmo nel vedere con quanta pazienza riuscì a catturare la nostra attenzione dato che in quel momento, presi dall’eccitazione e dalla curiosità, eravamo alquanto euforici. “Domani vi voglio svegli molto presto. Andremo nel bosco a catturare cavallette” disse camminando su e giù come un generale che impartisce ordini per un’imminente battaglia. Antonio, il più piccolo lo interruppe: “Ma nonno siamo in vacanza!” tentò di far osservare. “Lasciaci almeno dormire un po’ di più, e poi a che serve catturare cavallette?”. “Ora ve lo spiego. An vöi mia cha sighi indré cme la cua dal gugiöl (non voglio che siate arretrati come la coda del maiale)” rispose prontamente il nonno. “Questi insetti servono per poter poi catturare le rane nel canale”. “Ma nonno, come faremo a catturarle? Lo sai quanto sono veloci a saltare tutte e due”. “Sei proprio un brontolone!” gli rispose Ciro “Stai calmo e lascia finire il nonno”. Il nonno sorrise lievemente, poi riprese con la solita voce da generale: “Ora andrete in campagna, raccoglierete un bel sacco di foglie e fiori di menta selvatica che met-
19
Diario di un adolescente
terete poi a macerare in due secchi d’acqua con due pezzi di cannella per dieci ore. Dopo aver strizzato bene la menta verserete il liquido dentro le macchinette del flit e quello che rimane va in bottiglie che serviranno da scorta. Il liquido spruzzato sulle cavallette ancora appollaiate sulle foglie dei salici, delle gaggie o sui rovi ci permetterà di catturarle, poi vi insegnerò a catturare le rane per cui dovrete essere più veloci di un fulmine”. Quella notte non riuscimmo a chiudere occhio, sentivamo che stavamo per vivere una nuova avventura. Erano le sette ed eravamo già tutti seduti sul muretto dell’aia. Il cielo era terso e l’aria frizzante. Il nonno aveva già attaccato il cavallo al calesse su cui aveva caricato una gabbia a rete finissima che sarebbe servita a contenere le cavallette, poi, cinque macchinette del flit riempite d’acqua di menta con le bottiglie di riserva, un sacco di fieno per il cavallo e, dentro lo zaino, l’immancabile bottiglia di vino, dell’acqua e una polenta intera avvolta in un canovaccio, un salame con un sacchetto di ciccioli e l’immancabile gnocco fritto. Salimmo svelti e partimmo per il bosco. Migliaia di insetti ci svolazzavano attorno per perdersi ai margini della strada ghiaiata da dove ogni tanto qualche sasso schizzava sulla riva spaventando qualche uccello o animale nascosto. Filippo pregò il nonno di cantare una delle sue filastrocche e dietro le nostre insistenze lui iniziò con la sua voce roca e modulata: “Tutu, cela cavalón, va in piàsa dal padrón; degh-a-cse a la siura laura ch’la paréccia bén la tàula; a ga da gnir di furastér bén visti da cavaliér, e la mama l’ha fat i gnocch e al papà al ‘na magnà tropp e la mama l’ha s’è ingusàda e al papà al l’ha bastunàda al l’ha bastunàda in un cantón al-c’fa far i macarón e la mama l’ha fat al grögn e al papà al ga dat di pögn”. Tutti ridemmo a crepapelle, “Nonno sei forte!” disse Antonio dal volto paonazzo dal gran ridere. Attraversammo il ponte di chiatte per risalire l’argine mantovano e spingemmo lo sguardo sulle acque del Po nel loro gorgogliare. Dopo un sentiero sterrato ci fermammo vicini ad una spiaggia e l’odore del fiume che era spalmato sull’aria ci entrò dentro trasportato da un venticello caldo che svogliatamente faceva ondeggiare i pioppi. Il cavallo fu legato ad un albero e gli fu dato il fieno e un secchio d’acqua, mentre noi scaricavamo prontamente il calesse. Il nonno distribuì il flit e diede a Ciro l’incarico di trasportare la gabbia. Ecco che come soldati eravamo pronti alla battaglia o alla grande caccia inoltrandoci nel bosco silenzioso. Le prime cavallette vennero presto imbambolate dal flit e catturate e man mano riempivamo la rete. Quando fu piena venne coperta dal nonno con un sacco di canapa. Il fischietto del nonno ci avvisò che l’azione compiuta con successo era terminata. Come eroi vittoriosi, o cacciatori soddisfatti, ci radunammo sulla spiaggia e
20
Diario di un adolescente
dopo aver acceso un fuoco iniziammo a far colazione. Sulla griglia che Ciro aveva disposto sulla fiamma fu abbrustolita la polenta che il nonno divise a fette con un filo, mentre Filippo si accingeva ad affettare il salame. Antonio non esitò a chiedere al nonno un’altra delle sue filastrocche e lui iniziò a canticchiare: “Tasi, tasi, pütei ch’à faròm un bell piàtt ad turtèi a-ia faròm tant buiént da far plar i dént, i dént i s’insöpà a faròm balàr la pötta, la pötta l’han völ mia balàr, tö ‘na stanga e fala trutàr...” “Ora siete a posto?” chiese quando ebbe finito, ma Antonio continuava a ridere divertito: “Sei forte. Nonno!” Riuscì a malapena a sussurrare “Dai cantane un’altra, un’altra ancora!” “No, ora basta, la prossima quando rientriamo”; ma davanti allo sguardo del piccolo cedette ed intonò la nuova filastrocca: “A piöv la gata la fa löv me madar la mal cös, me surèla la mal màgna l’è ingùrda cme ‘na cagna”. Le nostre risate si persero sulla riva, eravamo felici e ad un tratto Andrea chiese: “Ma dove le hai imparate queste filastrocche?” “Mio nonno, quando ero bambino le cantava nella stalla durante il filòs d’inverno. Io e i miei fratelli seduti su un mucchio di paglia ascoltavamo divertiti mentre le donne rammendavano e gli uomini sistemavano gli attrezzi. Mio nonno faceva proprio come adesso faccio io con voi”. “Ma nonno” chiese Antonio “perché proprio nella stalla?” “Durante l’inverno era freddo e la legna era poca, nella stalla ci si poteva riscaldare e risparmiare la legna. Proprio come facciamo ancora oggi”. Andrea estrasse dalla tasca il suo organetto ed iniziò a suonare. Avevamo il desiderio di fare il bagno, ma il nonno lo proibì. Il sole scintillava sull’acqua e diverse barche di pescatori sembravano scivolare in quell’incanto sfidando la frizzante brezza. Nonostante le nostre insistenze, dovemmo rinunciare all’irresistibile richiamo delle onde, il nonno fu irremovibile e disse: “Non avete il costume e non voglio che giriate completamente nudi sulla spiaggia. Alcuni di voi sono già grandi, in giro ci sono troppi pescatori e voi non avete un briciolo di pudore”. Improvvisammo allora una guerra con spade di legno create sul posto tanto per sfogare la nostra esuberanza. Il fuoco si era spento ed il fischietto del nonno trillò avvertendoci che bisognava rientrare. Riattraversammo il ponte di chiatte. La luce danzava intermittente sull’acqua mentre i pioppi sfidavano l’orizzonte. C’eravamo tutti ammutoliti ma ecco che improvvisamente il nonno ricamò con la sua solita voce un’altra filastrocca: “Trénta, quarànta, la pégura la cànta, la cànta in d’an sentér, ciàma ciàma al pégurèr; al pégurèr l’è anda a rómma, ciàma, ciàma la padróna; la padróna l’è al marca, ciàma, ciàma al carnuàl; al
21
Diario di un adolescente
carnuàl l’era mort e nisön as’n’era acòrt, as’n’era acòrt li me surèli, chi-era dre far li fartèli”. Il buon umore tornò come d’incanto. Tra risa e schiamazzi il caldo si faceva sentire e le cicale stavano intonando la loro stridula canzone. A tavola il nostro vociare aveva assunto un tale frastuono che il bisnonno fu costretto a battere il suo bastone per richiamarci all’ordine. Eravamo trentasei intorno alla tavola e ognuno voleva dire la sua. Il nonno ci rammentò che il torneo doveva essere per noi solo un gioco perché c’erano cose molto più importanti di cui doversi preoccupare. Ciò, però, non voleva assolutamente dire che dovevamo far male quello che stavamo preparando, anzi nulla andava trascurato perché è dalle piccole cose che si vede la serietà di una persona. Il nuovo giorno sembrava non volesse concederci riposo. Per ordine del nonno, dopo pranzo, ci ritrovammo in fondo all’aia sotto il grande platano. Fummo addestrati all’uso delle canne che ci avrebbero consentito di catturare le rane, ma il tempo era poco ed il nonno si raccomandò di porgere la massima attenzione se si voleva compiere i rimanenti preparativi. Il nonno sedeva su uno sgabello poggiando la schiena al grande albero e noi sedemmo intorno a lui avidi di apprendere. Si alzò ed accese la sua pipa, afferrò una canna di bambù lunga circa due metri. Dopo averla sfogliata, la tagliò alla sommità, poi da una vecchia cartella di cartone ne estrasse una matassa di corda di canapa una camera d’aria di una bici, delle forbici e un coltello. “Fate attenzione”, disse, “ora vi mostro perché voglio che per domani a mezzogiorno tutto il materiale sia pronto”. Detto questo fece un taglio con il coltello sulla canna e vi infilò la treccia di canapa lasciandone quaranta centimetri da un lato e un metro e venti dall’altra. Iniziò poi ad avvolgere il cordone più corto disponendolo dentro e fuori il taglio fino a riempirlo. Fatto ciò chiuse il tutto applicando alla sommità un pezzo di camera d’aria e la strinse fasciandola con la treccia di canapa rimasta. Nella parte più grande della canna, quella che avemmo dovuto tenere in mano, fece alcune incisioni circolari ed equidistanti, vi avvolse la treccia tirandola stretta creando una nuova impugnatura che ci avrebbe consentito di avere una presa non scivolosa, quando veloci avremmo catturato le prede bagnandoci le mani con la loro pelle viscida. Dalla gabbia prese una cavalletta come esca che, calata in acqua, iniziò ad agitarsi attirando l’attenzione delle rane. “Qui dovete essere rapidi e ritirare la canna verso di voi prima che la rana rigurgiti l’esca e catturare la preda”. Eravamo attenti a non perdere neanche una parola di quanto spiegatoci e quella dimostrazione pratica ci rese sicuri sul da farsi.
22
Diario di un adolescente
“Ora al lavoro!” ordinò il nonno “Dietro alla concimaia c’è il canneto, andate e scegliete le vostre canne. Usate l’occhio e la testa, avete tempo sino a domani prima di pranzo. Ricordate che una volta finite dovranno essere lasciate in acqua per almeno un’ora e dopo asciugate al sole affinché la canapa si gonfi e poi asciugandosi si ritiri rendendo più robusti gli incastri”. Ci mettemmo subito all’opera e ci organizzammo dividendoci le mansioni. Eravamo in sette e quel pomeriggio fu davvero estenuante. Alla fine avevamo le mani screpolate e piene di graffi, ma un altro tassello si aggiungeva alla nostra esperienza. Soddisfatti e orgogliosi il giorno dopo, come piccoli guerrieri ci presentammo con le nostre belle canne in mano. Dopo la rassegna il nonno parve contento del nostro lavoro: “Perfetto!”, esclamò sorridendo, “Ed ora a caccia”. “Ma nonno, non mangiamo prima?” chiese Antonio preoccupato. “Prima il dovere e poi il piacere, questa e l’ora più propizia per la caccia. Forza! Andiamo!”. “Uffa!” rimbottò Antonio. “Smettila di lagnarti” disse il nonno con aria severa. Giungemmo al canale, la pesca fu abbondante e fummo meravigliati di scoprire quanto fossimo abili in quell’occasione; riempimmo tutti i nostri cestini che avevamo a tracollo. Al rientro, tutte le prede furono versate in un grosso mastello di legno, la suiöla, dove sul fondo era stato steso uno strato di fieno (come nascondiglio per le rane). Un coperchio lo chiuse e una pesante pietra fu messa per sicurezza per mantenerlo chiuso. Finalmente un bel piatto di tagliatelle ci attendeva, eravamo affamati e non riuscimmo a resistere al sugo preparato dalla nonna. Tutti facemmo il bis, anche il nonno non resistette, ma la nonna lo rimproverò: “Tan se mia pö un suvnòtt par magnàr acsè tant”. Ma lui quando era con noi era felice e dopo l’avventura si sa che l’appetito cresce. C’era tutta la famiglia che ci stava osservando e improvvisamente si accese una discussione in quanto la nonna sosteneva che le energie andavano spese per cose importanti e non per le fesserie. Si alzò e aperta la stufa vi gettò una manciata di quelle sue erbe aromatiche che conservava nella vetrinetta della cucina. Era un’operazione che di solito faceva scappare via tutti come zanzare affumicate e interrompeva qualsiasi discussione. Io mi divertivo ad osservare la nonna con quel sorriso limpido; rimanevo sempre sorpreso da quei suoi modi forse bruschi, ma che nascondevano una profonda saggezza. Sabato, giorno prima della gara, sotto lo sguardo vigile del nonno lavammo per bene le carriole che si era fatto prestare da un suo amico muratore. Mentre eravamo intenti nell’operazione, fu Ciro che, interpretando le preoccupazioni di tutti, osò domandare: “Nonno come facciamo a tenere ferme le rane sulla carriola mentre corriamo?” “Per tutto il percorso dovrete imitare il loro gracidio, ma stanotte verserò nel contenitore una bottiglia di birra e vedrete che domani mattina saranno talmente brille che non potranno muoversi così velocemente e voi potrete giostrarle come vorrete”.
23
Diario di un adolescente
La gara era una autentica guerra tra ragazzi di campagna e quelli del centro del paese. Ci sentivamo un po’ come in trincea e ovviamente quella notte prima della battaglia nessuno di noi riuscì a prender sonno. La domenica mattina sbocciò calda e limpida. Caricato l’occorrente sul carro ci dirigemmo in paese. Ad ogni concorrente singolo, o squadra, era stata assegnata una postazione ove prepararsi. Il percorso era stato preparato sul campo da calcio della parrocchia: era un cerchio che bisognava percorrere ben cinque volte e il vincitore sarebbe stato colui che non avrebbe perso neanche una rana o almeno il minor numero possibile. Una grande folla accorsa anche dai paesi vicini si era accalcata sugli spalti e rumoreggiava allegramente. Un signore in giacca e cravatta avanzò al centro del campo e con un megafono annunciò l’inizio della gara elencando alcune regole che bisognava rispettare durante la sfida: “Non fermatevi, non cadete, lasciate andare le rane che saltano fuori dalla carriola, non urtate carriole avversarie e rammentate che non serve arrivare primi, ma mantenere il maggior numero di rane all’interno della propria carriola”. Il boato di una finta pistola diede il via. All’interno del percorso i giurati avrebbero controllato i concorrenti. Avevamo dieci rane ognuno e, tra singoli e squadre, eravamo una quarantina. Dovevamo affrontarci su un terreno cosparso di sabbia così il nonno aveva provveduto a far indossare ad Antonio che era allergico alla polvere negli occhi, un paio di grossi occhiali da fabbro che erano stati ben legati intorno alla testa. Ovviamente dopo il via si alzò una gran nuvolone di polvere che diede insofferenza ad alcuni concorrenti che si dovettero fermare a starnutire o a pulirsi gli occhi. Alcuni, tenendo la carriola con una sola mano si rovesciarono perdendo il carico, altri inciamparono per evitare di calpestare le rane che fuggivano da ogni parte. Anche Ciro fu sbalzato fuori pista e disperse il suo carico. La folla impazzita gridava e noi correvamo concentrati ma sudati e affaticati sotto quel sole battente che mescolava i colori. Le grida attorno erano soltanto un rimbombo confuso che somigliava al grido di un mare in tempesta. Il nonno osservava impassibile, sembrava un rettile in agguato in attesa di catturare la sua preda. Alla fine del primo giro vi furono cinque squalificati, ma al secondo salirono a otto i concorrenti che persero le rane. Il terzo fu terribile, il numero degli eliminati salì a quindici; alcuni s’erano urtati, altri capovolti e molti s’erano persi a cercare di arginare la fuga delle bestiole. L’ultimo giro vedeva ancora in gara il nostro Antonio e due ragazzi del paese. La folla rumoreggiava e noi tifavamo per lui: “Tieni duro! Non mollare!” gridava Ciro. Non sappiamo come fece a mantenere intatto il carico, ma fu così. Forse la sua caparbietà od orgoglio, forse la voglia di non deluderci, sta di fatto che vinse la gara e, in fondo, devo
24
Diario di un adolescente
dire che fu un’enorme soddisfazione. A braccia aperte, col suo sorriso vincente, conquistò la simpatia e l’ammirazione di tutti, anche degli avversari. Vi potete figurare il nonno. Gli corse incontro festante abbracciandolo, sembrava che quel gelido involucro di neve si fosse sciolto lasciando apparire una persona diversa. Non ricordo mai di averlo visto così raggiante. Prese il vincitore e se lo caricò sulle spalle portandolo in trionfo, scortato da una banda urlante di ragazzi. Il premio era un grande cesto colmo di ogni ben di Dio. Il nonno continuava a correre tra la folla ubriaco di gioia, il vento gli scompigliava i capelli annullando ogni sforzo. Quella notte fu incastonata tra le stelle di un’infanzia trascorsa troppo velocemente ma colma di emozioni, come quel cesto che traboccava di golosi bocconi.
25
Diario di un adolescente
LUNGO IL FIUME La mia terra è lungo il fiume non c’è altro luogo con voce così lenta i miei piedi vagano tra pesanti giunchi mentre l’acqua sospira. Accarezzo la sabbia della riva un frullo d’ali ultimi sogni che sfrecciano via nel giardino lucente gioca la memoria riso di bimbo un bacio tra i pioppi promesse di vento e barche in secca.
26
Diario di un adolescente
UNA GITA SUL PO
l campanello del nonno quella sera squillò più forte del solito. Durante la cena, si era alzato in piedi per attirare l’attenzione di tutta la famiglia, e scampanellò con tutta la sua forza. Era un po sordo, e quando voleva parlare con qualcuno per farsi ascoltare, osava far tintinnare il suo campanello che gli era stato regalato da un suo cugino prete che essendo anche lui un po sordo, era solito adottare lo stesso sistema per farsi ascoltare dalla perpetua e dai ragazzi. Tutta la famiglia si zittì, il nonno con lo sguardo, passò velocemente in rassegna i presenti poi disse con voce decisa: “domani mattina” voglio sellato “Pippo” (il cavallo) alla barusína (calesse) perché porto i ragazzi in gita sul Po. Voi donne preparate da mangiare; una bella frittata di dieci uova con cipolla e polenta abbrustolita, dieci bottiglie d’acqua e una di vino. Penso siano sufficienti per tutta la giornata. Domani mattina partiremo presto, mettete tutta questa roba, avvolta in due asciugamani bagnati, dentro il mio baule da militare. Voi uomini preparate fieno e secchio per il cavallo. - “Se i ragazzi vogliono fare il bagno?”. Chiese la nonna. - “Preparategli una canottiera con un paio di mutande e qualche asciugamano. - E se dopo il sole picchia troppo, dove vi riparerete? I ragazzi possono prendere un colpo di calore!”. - Il nonno fu spazientito da tante domande: “insomma non dobbiamo andare in America, ma solo sul Po”. Poi per tranquillizzare la nonna aggiunse: “mettete sulla barusína anche tre ombrelli, ai bastoni per il sostegno penserò io”. Quel mattino, fummo tutti e sette esonerati da qualsiasi mansione di lavoro. Ci alzammo presto, più del solito, eravamo tutti eccitati. La giornata era splendida, e dopo colazione, eravamo già seduti sul muretto dell’aia. Cappellino in testa, sandali ai piedi, canottiera e pantaloncini corti, pronti per partire. - “Avete intenzione di comportarvi bene e di non farmi tribolare?” ci chiese il nonno, presentandosi sull’aia puntuale. - “Rispondemmo tutti insieme con un marcato sì”. La nonna premurosa come sempre, porse al nonno un fazzoletto a cravatta, da avvolgere attorno al collo, e lui se lo annodò. Con i suoi lunghi baffi, il cappello di paglietta con la fascia nera, una camicia a quadri con maniche rimboccate, un paio di pantaloni grigi, sorretti da una cintura marrone intrecciata (di cui avevamo una discreta conoscenza) e un paio di scarpe marroni un po consumate, ma lucide come uno specchio, sembrava un gran signore. Aprì la valvola della sua pipa, ed iniziò a spargere
27
Diario di un adolescente
nuvole di fumo grigio. Noi lo guardavamo con l’impazienza di partire mentre ci invitava a sistemarci per bene sul calesse. La nonna si avvicinò per un’ultima raccomandazione: “non tornate tardi stasera; e voi state attenti, se fate il bagno, non allontanatevi troppo dalla riva”. - Il nonno, non gradiva troppo certe smancerie, ma apprezzava le premure e la saggezza della moglie. Seduti col nonno davanti, si erano sistemati i due cugini più grandi, Ciro e Filippo, mentre noi più piccoli ce ne stavamo appollaiati dietro, stretti l’uno all’altro, come uccellini. Il cavallo scalpitava, il nonno dopo aver guardato il suo orologio a cipolla, agitò le redini: “oplà via!” la barusína (calesse) si avviò a tutta briglia. Il fumo amaro e acre della pipa spinto sul retro, ci faceva lacrimare gli occhi. Lungo la strada le canzoni dei lavoranti, erano tristi come la loro vita. La vecchia corriera rombò attraverso i campi di granoturco della pianura, lasciando dietro di noi una velata nube di polvere. Il cigolio della ghiaia sotto le ruote del calesse e il leggero fischiettio del vento, donavano alla luminosa mattina qualcosa di magico. In noi c’era una muta adorazione, un sentimento di gratitudine, per quel nonno, sempre affettuoso e disponibile. Durante il percorso sulla strada ghiaiata, ogni tanto si incontrava qualche persona in bicicletta che salutava il nonno togliendosi il cappello. Prima di entrare lungo viale Po, iniziò ad intonare una canzone (sempre quella) noi rispondevamo come fosse la prima volta. Erano le nove e mezza, quando attraversammo il ponte di chiatte sul Po. Fu talmente grande l’emozione, che il nonno ebbe il suo da fare a tenerci seduti e fermi. Il crudo odore dell’acqua, si confondeva con l’afa. I raggi luminosi del sole danzavano tra le onde leggere. Giunti sull’argine mantovano, il nonno guidò il cavallo lungo un sentiero che si snodava per il bosco, per terminare sulla spiaggia. Dopo aver legato ad un pioppo “Pippo” col calesse in un luogo ombreggiato,scaricammo le provviste. Dentro un sacco di canapa, c’era un bel blocco di fieno pressato per l’animale e un secchio d’alluminio per l’acqua. Ciro corse subito a riempirlo. Il nonno tirò fuori dalle sue tasche (che erano un piccolo bazar) un pezzo di spago e una runchìna (una sorta di coltello con lama ricurva che si chiude col manico). Si avvicinò ad un cespuglio di salice e ne tagliò tre rami medi. Dopo averli sfoltiti da rametti e foglie, ne ricavò tre paletti; li conficcò nella sabbia per circa quaranta centimetri, e vi legò a media altezza gli ombrelli aperti. Il Po, in quel mese di luglio afoso, era in magra. Coricato nel suo letto di segatura grigia, aveva l’acqua limpida e fresca che ci invitava a sguazzarci dentro. In men che non si dica, eravamo già tutti spogliati. Ci sembrò di immergerci in una piscina d’argento e la nostra allegria era ai sette cieli. Il nonno si era tolto la camicia e la canottiera, arrotolato i pantaloni fino al polpaccio, tolti i sandali, se ne stava seduto su un telo, vigilando su di noi e fumando la sua pipa. Aveva fatto una buca nella sabbia, riempita di foglie bagnate, per metterci dentro il baule con tutto il suo
28
Diario di un adolescente
contenuto, affinché rimanesse al fresco. Il silenzio era infranto dalle nostre grida. In giro non c’era nessuno, salvo due figure lontane di pescatori, dei quali si intravedeva a malapena la rete che ogni tanto alzavano e calavano. Il caldo divenne insopportabile. Sulla riva, avevamo costruito un bellissimo castello, contornato da un grosso fossato pieno d’acqua. Antonio il più piccolo di noi sette, sera tutto inzaccherato, corse dal nonno per chiedere se si poteva togliere le mutande; e questi , dopo essersi, guardato attorno per vedere che non ci fossero altre persone nelle vicinanze, acconsentì. - Antonio era un mezzo zingaro. A casa era sempre mezzo nudo, a piedi scalzi e anche abbastanza trasandato. Si insudiciava sempre, ed era la disperazione di sua madre, da cui spesso rimediava marcati scapaccioni. - La meravigliosa brezza che palpitava vicino all’acqua, e la sabbia appiccicata ormai ovunque,ci spinse ad imitare nostro cugino Antonio. Ciò non piacque al nonno, anche perché tra di noi qualcuno era già grande. Brontolò per un po, ma alla fine ci lasciò godere di quella trasgressione. Se fosse arrivato qualcuno però, ci saremmo subito rinfilati le mutande. Dopo mangiato il nonno pretese che stessimo quieti all’ombra sotto i pioppi per un po’, ma non fu così. Prendemmo a rincorrerci tra gli alberi del bosco, come folletti lucenti. Il nonno si rassegnò e continuò a fumare la sua pipa, poi tentò di schiacciare un pisolino, ma durò poco: a causa delle nostre grida. Rise sotto i baffi, mentre mormorava: “siete proprio un branco di selvaggi”. Giocammo anche a nascondino tra i rampicanti che cascavano giù dagli alberi come cordame d’un bastimento affondato. Antonio durante il gioco, si era intrufolato sotto un rovo dove c’erano tante ortiche; pianse disperatamente per il bruciore. Fu immerso subito nell’acqua per alleviare il dolore, ed il nonno se lo tenne vicino all’ombra per tutto il pomeriggio. - Antonio aveva il sedere e le gambe rosse come una salsiccia – Il vento spirava tra i rami degli alberi e noi improvvisammo una guerra con spade di legno. Improvvisamente il nonno fece due fischi chiamandoci tutti a rapporto. Si udirono delle voci avanzare verso di noi. Ci fu subito imposto di ricomporci. La nostra libertà era finita. Tre pescatori, pieni di canne e cestini, parlavano un dialetto diverso dal nostro. Dopo essersi guardati attorno si piazzarono proprio vicino al nostro castello di sabbia. Uno dei tre disse subito:“ragazzi andate a giocare da un’altra parte, noi abbiamo bisogno di silenzio”. Col permesso del nonno dovemmo spostarci dal lato opposto dei pescatori, e continuammo ad inventare altri giochi. Il pomeriggio però non era stato divertente come il mattino: i tre pescatori, intrusi ci avevano costretti a privarci della nostra libertà. Un gruppo nutrito di farfalle variopinte, danzavano attorno ad una vecchia scatola di latta colorata, l’una contro l’altra nell’aria calda, su una duna di sabbia. Questo spettacolo ci distolse per un’ora abbondante. Eravamo riusciti a prenderne alcune e a portarle in visione al nonno; che subito ci rimproverò e ci impose di liberarle.
29
Diario di un adolescente
Cambiammo gioco, e dopo aver preparato una piccola pista con alcuni ostacoli, iniziammo la gara con le bilie di vetro colorate, discutendo animatamente sugli imbrogli dei due cugini più grandi. Un’unghia di luna in un chiarore sulfureo apparve in cielo. Avevamo finito l’acqua, e già qualcuno si lamentava per la tremenda sete. Il nonno guardando il suo orologio a cipolla, decise che era ora di rientrare a casa. E quando il nonno stabiliva una cosa, non c’era verso, bisognava obbedire. Erano le sei del pomeriggio, e tardare ancora, significava darsi in pasto alle zanzare. Tra un brontolio e l’altro ci rivestimmo. All’orizzonte il sole sembrava una goccia d’oro ardente che scivolava sempre più giù. Anche “Pippo” era stanco; i tafani, le mosche, il gran caldo, il non potersi muovere a piacimento, lo aveva reso nervoso e irrequieto. Scuoteva la testa su e giù, e con gli zoccoli scalpitava sul terreno. Al ritorno il nonno passò per la circonvallazione di Guastalla. Le luci cominciavano ad ingioiellare la città. Quando prese ad intonare una filastrocca. La sua voce aveva le note delle corde di un’arpa. L’orizzonte era tornato indifferente, mentre il silenzio della pianura diventava più opprimente della calura. Sopra di noi, un lembo di cielo era di un celeste pallido con chiazze rosa, e la sera prendeva possesso della campagna. Il rientro a casa fu dolce e triste allo stesso tempo. Sull’aia la nonna aveva preparato un grosso mastello di legno pieno d’acqua calda per lavarci. Eravamo sporchi di sabbia e stanchi e quel bagno ci ritemprò. Dopo cena, il sonno ebbe la meglio. Il nonno ad uno ad uno, ci prese in braccio e ci condusse a letto sussurrando la buona notte.
30
Diario di un adolescente
MIO NONNO Foto sbiadita ritrovo nel cassetto perduta nel passato di un epoca amorevole dei ricordi. Sabbia del tempo che scivola tra le dita clessidra inesorabile che terminerĂ nel silenzio. Odo la tua voce tuono di temporale nelle antiche stanze di una casa contadina. Il picchiettio della falce sotto il portico l'odore della pulitura di armenti il frusciare del taglio del fieno la zolla umida e palpitante. Porto il tuo nome ed il tuo sangue come linfa d'olmo secolare riparo alla tua ombra ma sono esile ramo che resiste una pagina bianca sulla quale scrivere ancora una storia.
31
Diario di un adolescente
QUI Non chiedo lapidi di granito seppellitemi qui tra i filari di vite di questa terra con la sua nebbia dai lunghi sbadigli di noia. Seppellitemi qui lungo gli argini del Po con le storie sussurrate dai pioppi senza epitaffi ma canzoni dei salici. Tornerò con i colori delle stagioni sarò il brivido che increspa le acque del fiume foglia strappata dal vento profumo del fiore sull'argine onda silenziosa che accarezzerà la riva.
32
Diario di un adolescente
LA SAGRA
a festa del Patrono in paese si celebrava sempre verso la metà di agosto. In casa per una settimana c’era il finimondo. Bisognava fare mille pulizie dentro e fuori. Poi la parte più importante, la cucina; preparare le torte, il pesto dei cappelletti e poi farli, macellare capponi, galline, e piccioni. Mettere ghiaia nuova nel cortile, pulire bene l’aia, l’orto e le piante verdi attorno al cortile. Andare al caseificio a prendere il ghiaccio da mettere in cantina per tenere in fresco il vino e altre cose. Tinteggiare il pollaio e le cucce dei cani e sopratutto riassettare il gabinetto dietro la stalla, poi svuotare le cisterne per evitare cattivi odori. Insomma tutta la famiglia doveva far bella figura nei confronti dei parenti che venivano dalla città. Le donne di casa, facevano a noi ragazzi, mille prediche; di parlare in italiano, di essere gentili, non dire parolacce e sopratutto di non succhiare il brodo, e non mangiare con le mani. Al bisnonno tutte queste imposizioni davano molto fastidio e ripeteva a tutti: “Ai miei tempi, queste stupidaggini non esistevano, contavano solo l’onestà e la sincerità, ed essere se stessi, e non l’incipriatura. Questo mondo non andrà mai bene, finché si guarda il superfluo. I nostri ragazzi non devono imitare nessuno, ma essere sempre se stessi, e camminare a testa alta in mezzo agli altri con la coscienza a posto”. Il bisnonno non sopportava la gente di città; diceva che puzzava di fumo da tubo di scappamento, e che avevano una faccia da “carta ciücìna” (carta assorbente) perché la gente incapace di ragionare con la propria testa, assorbiva tutto quello che certe persone gli facevano credere, perdendo la propria personalità. Dopo queste accese discussioni sui comportamenti da seguire, la nonna aveva sempre la meglio, e rispondeva a tutti: la vita degli altri non deve essere criticata, ma lasciarla vivere in piena libertà. Per noi ragazzi la sagra era uno dei tre momenti dell’anno che attendevamo con più impazienza. Dopo Natale e Pasqua, questa festa era un momento di euforia notevole. Si invitavano i parenti lontani, che non rifiutavano mai l’invito. Si mangiava di più e cose diverse e in abbondanza. Per l’occasione il nonno ci dava una piccola mancia da spendere per i divertimenti, ma sempre dietro una marcata raccomandazione; che ognuno di noi tenesse il denaro ben nascosto in tasca, perché in caso di bisogno serio, avremmo fatto tutti bella figura. Abituarsi a spendere troppo ci avrebbe resi fragili e incapaci di affrontare le cose. I teneri richiami sul risparmio che il nonno ci esternava, ci mettevano suggestione.
33
Diario di un adolescente
Davanti alle giostre, per paura di spendere, stavamo tutti e sette in silenzio, divorando con lo sguardo gli altri ragazzi che si divertivano. In quei momenti, i nostri pensieri turbinavano come foglie in un ciclone. Dopo aver preso tutte le misure per spendere il meno possibile, decidemmo di comune accordo di rinunciare al gelato, e che l’unica cosa che potevamo permetterci in quel momento, era lo zucchero filato. Con poche lire ci fecero una grossa palla bianca come la neve, e a turno con una boccata ciascuno, fummo tutti soddisfatti. Naturalmente passata la festa, bisognava restituire i soldi che il nonno ci aveva dato, dimostrando così al nonno e a tutta la famiglia, di avere avuto giudizio, serietà e carattere; nonostante il nostro bagaglio d’inclinazioni e passioni per la nostra giovane età. La giornata di festa, iniziava al mattino con le celebrazioni liturgiche, che terminavano con la solenne processione per il centro del paese. Per onorare il Patrono, tutti indossavano l’abito nuovo. Ai ragazzi più giovani (maschi e femmine) mettevano l’abito della prima Comunione o Cresima. Su un baldacchino, portato da quattro persone robuste, c’era la statua del Santo, rimessa a nuovo per l’occasione. Col suo sguardo immobile, a noi ragazzi dava l’impressione di voler camminare in mezzo alla folla presente, in quel momento, triste e piangente delle proprie miserie, che si trascinava tra le rughe del mondo. Ai due lati del Santo, c’erano quattro donne con grossi ceri accesi. La statua era preceduta da un nutrito gruppo di bambini con cesti in mano, ripieni di fiori, da spargere sulla strada. Davanti ai ragazzi una signorina portava una grande croce dorata, la cui luce mandava uno strano riflesso sulla processione. Dietro il baldacchino c’era il Parroco nei paramenti colorati, con le mani giunte, che intonava le preghiere e i canti, seguito da un discreto numero di chierichetti che facevano dondolare turiboli fumanti di incenso. Poi tutta la gente del paese, disposta su due file, una a destra e l’altra a sinistra in fila indiana. Allora l’aria era talmente satura di preghiere che ne aveva la sensazione fisica. Al passaggio del Patrono del paese, ogni finestra delle case era addobbata con drappi rossi rubino, ceri accesi e fiori. La calura regnava sovrasta, e le preghiere e i canti si arrotolavano tra il canto delle cicale, l’abbaiare dei cani, e il ronzio delle mosche. Talora un soffio di vento, portava l’odore di caprifoglio, poi regnava, solo, quell’alito di campagna, che sapeva di letame, di fieno, di polvere calpestata. La limpida voce delle campane, annunciava la fine della processione, e il rientro in chiesa per ricevere la santa benedizione. Finita la S. Messa, con tutto il suo cerimoniale, la gente, più accaldata che mai, dopo i saluti di rito davanti alla chiesa, se ne tornava alle proprie case per la grande abbuffata.
34
Diario di un adolescente
All’afa senza fine sulla calda strada assolata, noi trovammo un po di ristoro lungo il viale verso casa nostra, dove gli alti pioppi con la loro ombra che si allungava, striava la strada ghiaiata da un margine all’altro, e il debole vento si nascondeva col suo bisbiglio tra i rami. A casa tutto era pronto. Le tavole apparecchiate, brillavano di mille colori, donando alle smisurate pareti della grande cucina, dove non pendevano quadri, un senso di sfrontata allegria. Dopo il bisnonno, e il nonno , tutti presero posizione attorno ai tavoli. C’era un confuso accavallare di risa, di ordini e contrordini, di rumori di forchette e coltelli, di tappi di bottiglia e di coperchi, l’acciottolio dei piatti. Tutto sembrava avvolto in una magica tenda di terra calda per piante esotiche. La fiamma della grande stufa, rivestiva il viso rugoso della nonna di una luce ardente, mentre versava i cappelletti nel brodo fumante. La luce entrando dalle finestre della cucina, danzava negli angoli delle pareti tremolando nel soffitto. Il bisnonno intanto, impaziente, masticava con le sue gengive e un dente solo, macinava il pane con una lentezza da ruminante. Le donne di casa cominciarono a servire in tavola. A tutti venne servito un particolare antipasto; “al bévr-in vén” (un mestolo di cappelletti in brodo in una scodella, riempita di ridente lambrusco, e un buon cucchiaio di formaggio). Naturalmente i primi ad essere serviti erano sempre il bisnonno e il nonno. Ogni tanto la campanella asmatica del bisnonno, suonava la sua nenia; a tavola era impaziente e voleva essere servito subito. Seguirono piatti fumanti di cappelletti in brodo, poi arrosti, cotechini, polenta abbrustolita, il cappone con gallina, il manzo, salse varie, insalate, torte, budini colorati, e tanto, tanto lambrusco, nero e bianco. La luce dorata dei piatti che si susseguivano, mandava uno strano riflesso sulle facce dei presenti. Tutti sudavano, mentre mangiavano a bocca piena. Ogni tanto dalle labbra di qualcuno, uscivano parole come gocce di rugiada che cadono dai petali dei fiori, scossi dal vento. Verso le tre del pomeriggio le emozioni culinarie erano finite. Un riverente e dolce tenero silenzio cominciò a regnare. Fuori il vento muggì sulla campagna. Il tuono si accese all’improvviso martellando. Scoppiò un temporale, questi, riaccese i sorrisi di tutti, (che il lauto pranzo aveva animato, ora soffocato dalla lenta digestione). Molti presenti si erano tolte le scarpe, cercando refrigerio sulla pietra nuda e fredda, della grande cucina. Mentre il cielo fuori piangeva, e la pioggia rumoreggiava, noi ragazzi, col naso appiccicato ai vetri delle finestre, guardavamo il pulsare della campagna. La nonna, preoccupata per il violento e improvviso temporale, riempì un tegame di rametti di ulivo benedetti. Depose il contenuto davanti al portone della casa, si fece il
35
Diario di un adolescente
segno della croce, disse una breve preghiera, poi con un fiammifero diede fuoco all’ulivo. Il sacrificio serviva per invocare una benedizione e protezione speciale dal cielo, affinché in quel momento il temporale non mandasse grandine sui raccolti. Gli uomini presenti si fecero portare ancora bottiglie di lambrusco. Tra un brindisi e l’altro, si misero ad arrotolare il tabacco da sigaretta, in un acconcio cilindro, e a leccare la cartina. Mentre il fumo aleggiava nella stanza tra il rimprovero delle donne. Il bisnonno seduto sul suo seggiolone a dondolo, russava come un trombone. Il nonno invece, accesa la sua pipa, se ne stava in un angolo ad osservare tutto il parentado, mentre gli anelli di fumo della sua pipa si allargavano sulle pareti come fantasmi che affollano gli inquieti sogni notturni. Il violento acquazzone cessò. Il sole obliquo già animava lo svolazzare degli insetti, mentre piano piano indorava metà della campagna, e la brezza portava via fiumi di scintille. Fra le mura della casa, persisteva ancora tutta la calura del giorno. Le donne cominciarono a riappropriarsi della faccende domestiche. Gli uomini cominciarono a brontolare per la confusione, ma le donne ebbero la meglio; si misero a cantare, per coprire l’acciottolio dei piatti, rimettendo in ordine ogni cosa. A questo punto gli uomini presero un tavolo e lo portarono nell’aia. Cominciarono a giocare a carte, tra canti e balli. Uscirono anche le donne, e uno zio suonò il suo organetto, e un’altro la fisarmonica. L’allegria era al massimo della eccitazione. Il cielo si era ripulito, e la fresca brezza, invitava tutti a prolungare la giornata festosa. Era un crepuscolo ancora ardente di agosto, ma le mucche nella stalla cominciavano a chiamare gli uomini per essere munte e governate. Intanto sull’aia si era radunato tutto il pollaio, tra la curiosità dei presenti. I poveri polli, reclamavano un po’ di granaglie, che in occasione della festa erano stati dimenticati. La nonna, premurosa e gentile come sempre, aveva gia preparato ad ogni invitato un piccolo fagottino, che conteneva alcune fette di torta, da portare a casa. I parenti dopo averci passato singolarmente in rassegna, con baci e abbracci, ci salutarono, tra i singhiozzi silenti della tristezza che salivano in gola. Le parole di rito erano sempre le stesse, ma restava l’augurio e la speranza di rivederci l’anno venturo. La malinconia della strada ancora bagnata, era illuminata da una luna piena, che brillava sui tetti delle macchine, ancora bagnati, parcheggiate nel cortile, sembrava vi accostasse le labbra come per bere. Mentre le macchine si perdevano lungo il viale alberato, noi eravamo tutti li a salutare. La sagra era finita e l’allegria accumulata durante la giornata, ora appariva simile
36
Diario di un adolescente
impronte sulla sabbia, che restano fino a che non sono spazzate via dalla piggia o dal vento. In breve tempo tutto era tornato alla normalità . Ogni componente della famiglia aveva di nuovo indossato l’abito quotidiano, mentre un lucore opaco, giallastro, indugiava sulle cose e sulla campagna, e il cielo sembrava calar sulla terra il dolce fuoco delle stelle.
37
Diario di un adolescente
PIANURA Manto d’azzurro riflesso dal fiume carezza di vento che sfiora le acque spartiti di glicine e rondini sospese tra le mani della primavera. Estate che brucia in attesa d’autunno ove la terra concede le zolle all’aratro e ai ricordi inchinati al silenzio e poi il tempo degli inverni dai silenzi laboriosi delle notti infinite il sussurro della neve manto candido sulla pianura. L’animo che sfugge ai pensieri vola libero verso la speranza di un mondo perfetto.
38
Diario di un adolescente
PESCADÜR DA SFRÜS (Pescatori di frodo)
uella fine di giugno, il canale era svuotato quasi tutto. “Al dügarol” (addetto alla manutenzione e regolazione delle acque nei canali di campagna) aveva chiuso “li ciàvghi” (paratoie) lasciando scorrere solo poche decine di centimetri d’acqua. Il canale, largo tre metri e profondo due, con poca acqua per letto e il cielo come coperta, appariva come un povero infelice. Il copioso temporale dei giorni prima aveva donato alla campagna un po’ di ristoro, alleviando ai contadini la tribolazione dell’irrigazione del mais, barbabietole e prati. L’estate appena iniziata s’era subito impossessata di ogni cosa e il sole con sfrontatezza ingialliva l’erba allo stridore delle cicale, che marcavano il silenzio, indorando i campi di grano e le ridenti vigne. S’avvicinava il momento della mietitura del frumento. Le spighe erano gravide di chicchi e il raccolto si presentava ottimo e abbondante. L’inverno era stato ricco di nevicate e per i contadini ciò voleva dire una annata buona. La scuola era terminata e noi ci sentivamo liberi come il vento. Compiuti i doveri quotidiani ci dedicavamo con passione alla pesca. Le canne con filo ed amo, naturalmente erano state fatte da noi con la saggia guida del nonno, che come al solito era abilissimo nello stimolare la nostra fantasia, pieno di nuove idee com’era, e noi abboccavamo proprio come pesciolini. Alcuni anni prima aveva comprato al mercato tutto il necessario per costruire una canna da pesca. Il tappo consisteva in un semplice sughero da bottiglia colorato da noi con dello smalto rosso. Le canne semplice di bambu che il bisnonno aveva piantato dietro la stalla. Le esche erano i “bégh da tera” (lombrichi) che raccoglievamo di fianco alla concimaia perché erano più grossi e lunghi. Quando la nonna faceva la polenta, dopo averla rovesciata sull’asse di legno, ci lasciava raschiare il fondo del paiolo di rame e ciò che riuscivamo a racimolare veniva impastato con farina di frumento diventando così un’ottima esca. Ma c’era un altro sistema per pescare: quella della “ripasàda sótta al punt” che il bisnonno furtivamente ci aveva insegnato anni prima. Era una pesca di frodo e comportava qualche rischio: essere scoperti dal guardia pesca con relativa multa, essere morsi dalle sanguisughe o dalle salamandre. Una volta il nonno si arrabbiò molto con suo padre quando scoprì che ci aveva insegnato questo metodo proibito. Ma il bisnonno era tenace
39
Diario di un adolescente
e quando si metteva in testa una cosa non cambiava idea: “birichinate da ragazzini” soleva ribadire,“piuttosto che stare in strada a fare i lazzaroni, meglio lasciarli pescare senza che facciano del male a nessuno.” Il canale girava attorno alla casa come un serpentone e i ponticelli che attraversavano il “caradón” (la carreggiata) delle biolche erano due. Quando il canale era quasi in secca, sotto i ponticelli restava un metro o poco più di acqua per una lunghezza di tre metri. Qui il pesce si nascondeva indisturbato sotto l’ombra del ponte e di alti pioppi che vegliavano come mute sentinelle. D’estate sull’acqua si formava una patina verde, la “bavarìna”, una specie di trifoglio acquatico, a volte talmente spesso che le gallinelle acquatiche vi camminavano sopra e nutriti gruppi di ranocchie si sdraiavano al sole. In quel piccolo angolo di terra il tempo era come un monaco che cercasse nei manoscritti della natura per narrare meraviglie celate. Dopo aver fatto un sopralluogo ai ponticelli, il bisnonno decise che quello più adatto fosse il primo, perché aveva una curvatura più alta e sotto potevamo starci comodamente e poi era ben nascosto da lussureggiante vegetazione. Preparammo una serie di assicelle di cinquanta centimetri per un metro di altezza che sarebbero servite per lo sbarramento delle acque e una serie di secchi grandi e piccoli per il pesce e per togliere acqua alla nostra diga. Una lampada a petrolio ci faceva luce nell’oscurità sotto il ponte. Con nostra sorpresa, all’impresa partecipò anche il nonno e questo accrebbe in noi ragazzi l’eccitazione. Dopo molte raccomandazioni ci invitò a cospargerci il corpo con il “dulégh” (strutto), che ci avrebbe evitato sanguisughe ed altro. Quel pomeriggio avevamo fatto una nutrita merenda, evitando così la cena della sera. La nonna, premurosa come sempre, ci aveva preparato un buon bicchiere di vino cotto con tre fette di polenta “scàda al sul” (seccata al sole) perché più facile da digerire. Il nonno ci aveva proibito di mangiare prima di entrare in acqua per evitare indigestioni o improvvise diarree. Arrivammo al ponticello trascinandoci dietro tutta la nostra attrezzatura. Era buio: di fronte a noi il respiro del silenzio denso di emozione e di mistero. Iniziammo a spogliarci e a sistemare gli abiti dentro i sacchi che la nonna ci aveva procurato, poi lentamente ci spalmammo lo strutto su tutto il corpo trattenendo le risate e insieme avvertendo tutta l’intensità di un momento magico. Ciro accese la lampada e dopo averla legata al palo, scese nell’acqua sotto il ponte e la sistemò a metà della piccola galleria. Poi fu il nostro turno e iniziammo a piantare lo sbarramento dalla parte della corrente. Velocemente iniziammo a togliere secchiate di acqua che gettavamo oltre la riva. La luce rossastra della lanterna muoveva le ombre sulla volta scura e donava alla nostra pelle un colore di lumaca, mentre il pesce tra le nostre gambe iniziava a saltare man mano che il livello scendeva.
40
Diario di un adolescente
Veloci iniziammo a catturare le prede che si dibattevano affiorando. Gobbi, pesce gatto, tinche, quattro grosse anguille e un bel luccio, la pesca sembrava procedere alquanto bene, ma il diavolo ci mette sempre lo zampino per rendere la vita più complicata. Antonio, il più piccolo, e anche il più “sandròn” (disordinato) , si era messo a giocare sulla riva con i pesci catturati e fu inevitabile che il luccio gli mordesse una mano. Fu Ciro che con prontezza e abilità risolse la drammatica situazione. Con il coltello, tagliò la testa al mostro che rimase attaccata alla mano di Antonio che piangeva disperato mentre la mano sanguinava copiosamente. Il fattaccio ci spaventò molto. Il piccolo pasticcione fu immerso nell’acqua pulita oltre lo sbarramento, e si riuscì a staccare dalla mano la testa del luccio tentando di placare le sue urla di dolore, ma nel frattempo il livello dell’acqua iniziò a crescere. Dovemmo togliere lo sbarramento e saltare nell’acqua pulita per darci una lavata. Ma l’acqua aveva assunto un aspetto spettrale grigia, infida, come incantata emanava oscuri scintillii. Completamente nudi, sulla riva sonnolenta, iniziammo una esile danza, imitando gli indiani tanto eravamo eccitati mentre il vento spirava caldo tra le fronde e i tentacoli dei riflessi della lampada si agitavano sulle cose intorno, l’odore del pesce catturato si spandeva intorno. Ci sedemmo sull’erba per asciugarci attendendo che Ciro recuperasse la lampada, i nostri corpi puzzavano di pesce, di mota e di strutto, mentre la notte si consacrava alle stelle. Ci sentivamo fieri e eccitati guardando il pesce catturato che guizzava nei sacchi, ma durò poco. La nostra euforia svanì quando udimmo degli strani rumori provenire dal buio. Tutti e sette ci rintanammo nella siepe vicina lasciandoci martoriare il corpo dai rami e dalle ortiche che ci riempirono di graffi. Dal buio improvvisamente apparve Pippo il cavallo che trainava il carro del nonno. Tranquillizzati sbucammo fuori dal nostro nascondiglio. Il nonno prese in spalla Antonio che era ancora nudo e tremante e sul piccolo volto dolorante ancora fresche scendevano lacrime salate. Quell’uomo severo, inflessibile, austero, d’un tratto ci apparve sotto un’altra luce: per la prima volta l’immenso amore e la profonda tenerezza che si celava dietro quel carattere duro e coriaceo... Quanta bontà oltre quei suoi gesti aspri e rudi! Ci rivestimmo in silenzio sentendoci protetti da quella figura che ci parve imponente e amorosa, un buon amorevole Mago Merlino di cui ci sentimmo tutti fieri allievi. Arrivammo nel pieno della notte silenziosa e a casa ci attendevano tutti. Inutile dire che la prima cosa che ci toccò fu di fare un bel bagno dentro la “suiöla”(mastello di legno).Tutti, compresa la nonna rimasero muti, sembrava si parlassero col silenzio e comunicassero soltanto con i gesti, mentre la notte scivolava via bella come un’onda ininterrotta di scuro calore su cui galleggiavano le nostre emozioni ancora fresche.
41
Diario di un adolescente
Il giorno dopo di buon’ora ci trovammo tutti seduti sul muretto dell’aia, lontano il fischio della locomotiva tagliò l’aria densa di profumi. La nonna trasportò fuori i secchi colmi di pesce e le donne iniziarono a pulirlo. Una parte finì sulla grata per farlo asciugare, poi fu cosparso di sale per rimanere al sole per una settimana. Dopo di ciò, deposto in una damigiana dal collo grande sistemato a raggiera con una innaffiata di aceto una spruzzata di aglio, alloro tritati fini. La damigiana veniva poi sigillata con un tappo di alluminio e deposta in un angolo buio della cantina coperta da un panno di canapa. La cena per l’inverno era così assicurata. Ciò che rimase delle prede fu fritto in giornata e divorato con polenta abbrustolita... Ricordi incastonati nel tempo: non sbiadiscono anche se delicati come l’orlo di una nube primaverile, tornano sempre per riaccendere i fiori di quelle perdute primavere.
42
Diario di un adolescente
MISTERIOSA DANZA DELLA VITA Gocce di rugiada accarezzano foglie di vecchi salici Vanitose margherite giocano col sole l’alito dei prati è un vapore di miele Il frumento ondeggia indeciso alla corte del vento Mulinelli di polvere spariscono tra le siepi arse Grappoli di fosforescenze cadono dai pioppi Barattoli di nuvole si aprono sulla mensola del cielo Anima senza più sorrisi L’eternità della mia memoria fluisce come le acque del Po E’ la voce della mia appartenenza a questa terra dove il velo del tramonto incombe triste percepisco il sapore dell’abbandono nella misteriosa danza della vita.
43
Diario di un adolescente
ALCHIMIE Nei tuoi occhi il colore del cielo richiami sconosciuti pigramente cullati in un labirinto d’emozioni mistero che si scioglie col tuo sorriso riverbero di luce che sovrasta ogni pensiero Incontrarti nuovamente passeggiare con te farfalle cullate nell’estasi d’azzurro afferrarti ancora fiamma che accende speranze ancora una volta prima che primavere fuggano al galoppo di un pentimento Ho trovato il coraggio nel miele dell’alchimia di perdermi nel colore del tuo spazio dove tutto si può mescolare e tutto può far rinascere.
44
Diario di un adolescente
AL CASTRADÙR
’è una tradizione che ancora resiste nelle nostre campagne, quella della “castrazione dei galletti”, che poi diventeranno capponi. Questa pratica l’ho appresa tanti anni fa da una vecchia zia, quando la mia famiglia era ancora un unico nucleo. All’inizio non è stato facile, perché questo tipo di lavoro mi faceva schifo e paura contemporaneamente, poi non lo ritenevo adeguato a un maschio. Imparare mi è costato molto sacrificio, poi la grande curiosità ha avuto la meglio. All’età di 14 anni, un giorno la zia, (dopo avermi guardato attentamente le mani) mi disse che ero pronto per imparare tutti i passaggi per quella operazione e che se avessi imparato bene, tutta la sua amata clientela sarebbe passata a me. A ciò, subito non diedi importanza, ma ne ebbe quando divenni adulto. Così un sabato mattina di fine aprile, la zia assieme alla nonna, mi invitarono nel pollaio per controllare la situazione. C’era un gruppo di galletti (una ventina circa) spavaldi, con piume multicolori, che cantavano. La nonna, mi fece subito notare che molti di questi “bellimbusti”, avevano già cominciato a corteggiare le galline, quindi erano pronti per la castrazione. Ma la nonna era contraria alla mia iniziazione, e quel giorno discusse aspramente con la sorella rimproverandola e la sentii ripetere: “questo, è un mestiere per sole donne, non sai che gli uomini possono diventare sterili”. La zia seccata le rispondeva: “sono tutte sciocchezze, dicerie di vecchie zitelle. Chiunque può farlo maschi e femmine, basta rispettare certe regole. Chi la pratica deve solo avere alcune doti particolari”. Quei polli che mi avevano fatto vedere, erano nati in gennaio, cresciuti in un angolo della stalla. All’arrivo della primavera, erano stati portati fuori all’aria aperta, liberi di mangiare erba e razzolare a piacimento. Tutte le donne di casa sentenziarono che non era ancora il momento. I galletti erano belli, ma la luna non era quella buona, debole e in quel momento coperta da troppe nuvole. Così la zia e la nonna dopo aver consultato il calendario appeso in cucina, marcarono in rosso la data del 15 maggio, proprio in luna vecchia. Le due sorelle concordarono che durante quei 20 giorni i polli avrebbero acquistato più vigore, mostrando cresta e bargigli rosso rubino e della giusta lunghezza. La sera del 14 maggio, ritornai nel pollaio con la zia. Venti galletti furono messi in una gabbia, con due sole ciotole di acqua. I polli dovevano restare a digiuno almeno per dodici ore. L’in-
45
Diario di un adolescente
domani la zia mi svegliò prima del solito, c’era da preparare tutto l’occorrente con la massima cura, durante l’operazione era assolutamente proibito staccarsi dal pollo per cercare un utensile. Sotto il portico del fienile, dopo aver spazzato il pavimento, la zia mi fece stendere un telone in terra per evitare che la polvere potesse alzarsi. Cominciammo a preparare il resto: due grembiuli lunghi fino al ginocchio, tre secchi pieni d’acqua (uno per le penne, uno per i testicoli le creste e i bargigli, l’altro con dentro ghiaccio, per rinfrescare la testa e la parte operata. Una spagnoletta di filo bianco, un ago medio con la cruna un po’ larga, un paio di forbici sterilizzate il giorno prima, due asciugamani e due sgabelli. Verso le ore nove, dopo essersi sistemati uno difronte all’altro, la zia prese in mano il primo galletto e mi porse le zampe da tenere ben strette. Iniziò a togliere penne da ali e coda, le così dette: “péni ciüciòni” penne fresche di muta, non ancora formate e piene di sangue lungo lo stelo. La nonna mi spiegava che bisognava toglierle perché, dopo l’operazione, avrebbero succhiato molto sangue, indebolendo l’animale. Fatto questo, mi allungò le ali con le zampe, affinché il pollo non potesse muoversi. Cominciò a togliere tutte le penne fin al petto, finché la pelle non fu pulita. Si bagnò la mano nel secchio e la passò sulla parte spennata. Prese la pelle in verticale, la alzò e con la forbice fece un taglio di 4/5 centimetri. Uscì subito una membrana sottile e trasparente come un palloncino, che la zia bucò subito con la forbice. Venne fuori anche una parte dell’intestino, che fu rimesso dentro. In quel momento il galletto fece un’abbondante evacuazione proprio sulle mie mani, che la zia velocemente ripulì, senza lasciarmi il tempo di provare disgusto. Prese in mano il pollo con la mano destra, appoggiò l’animale contro il grembiule con la testa verso destra, e tenendo bassa verso sinistra la parte restante del corpo operata. Poi entrò con due dita della mano sinistra (delicatamente) nel corpo del galletto, e cominciò ad esplorare, invitando i presenti al silenzio più assoluto, mentre io seguivo ogni movimento con grande attenzione e apprensione. Poco dopo estrasse con le dita il primo testicolo dal corpo del galletto, alcuni secondi dopo fu la volta del secondo. I famigliari che intanto avevano fatto cerchio attorno a noi, si scambiavano sguardi di compiacimento. A questo punto la zia, girò verso di me le zampe con le ali, mentre con il palmo della mano tappò la parte del corpo aperta, e preso ago e filo, cominciò a richiudere la ferita con l’altra. Dopo aver riunito le due parti tagliate, bagnò una mano nell’acqua ghiacciata portandola sulla parte cucita, rinfrescando la ferita. Al povero galletto l’ultima fase dell’operazione non era certo stata gradita, perché ogni tanto si agitava sbraitando. Ma sapeva che non era finita ancora. Sollevando la testa del galletto, posizionata sul secchio d’acqua, la zia, lo afferrò per il collo e veloce tagliò
46
Diario di un adolescente
cresta e bargigli, poi ne immerse la testa nell’acqua con ghiaccio. Il primo cappone era stato operato. La nonna lo mise dentro un’altra gabbia, preparata per l’occasione, con acqua e aceto per dissetarsi e un impasto fatto di farina di mais, di orzo, e crusca. Suonava mezzogiorno e la zia stava iniziando l’intervento sull’ultimo galletto. Con un sorriso compiaciuto e orgoglioso, ripeteva a se stessa che era stata molto brava. Ma il diavolo ci mette sempre lo zampino, e l’ultimo pollo la fece tribolare un po’. Mi ricordo che in quel momento mi venne da ridere, e la cosa non piacque molto alla zia, che subito rispose: “s’at las mia l’è at riva un fuión ch’at gir par tri dè” (se non la smetti ti arriva una sberla che ti fa girare per tre giorni). Dopo aver estratto il primo testicolo, col secondo impiegò dieci minuti, col rischio di dissanguare l’animale. Spazientita e rossa in viso per la rabbia, riuscì alla fine ad estrarne solo una parte. Rassegnata, con un mezzo sorrisino ironico disse: “cóstu al ne mia gnü bén, però al ne mia pö un galöstar” (questo non è riuscito bene, però non sarà più un dongiovanni con le galline). Tagliò all’animale solo la cresta perché spiegò: “così lo riconosciamo che non è un cappone perfetto. Prima o poi riprenderà a corteggiare le galline, per cui la sua carne (se pur buona) non sarà bianca, tenera, e saporita come quella dei fratelli castrati. Anche la nonna disse la sua: “cun cóstu quànd le ura agh fóm un bell pucén cun li patàti e la pulénta” (con questo galletto, quando sarà il momento, ne faremo un bell’intingolo con patate e la polenta). I polli castrati rimasero in gabbia per due settimane. La nonna e la zia a turno ne controllavano lo stato di salute, e se dopo le 24 ore non era successo niente, il pericolo era passato. Dopo un periodo di isolamento di 15/20 giorni circa, furono messi in libertà in un recinto già pronto di fianco al pollaio. Dopo un mese, la zia, un pomeriggio mi invitò di nuovo nel pollaio. C’erano ancora una decina di galletti (di una covata successiva), pronti per essere castrati. Toccò a me guardarli attentamente, e scegliere quelli adatti. Ne contai (a mio giudizio), solo sei idonei. Per gli altri quattro; tre erano troppo grassi e con poca cresta, mentre il quarto era un galletto molto bello, elegante, con un portamento regale e bisognava conservarlo per la riproduzione. La nonna e la zia concordarono per l’ottima scelta. Il mio primo cappone fu una tragedia, mi morì tra le mani. Invece dei testicoli gli avevo estratto il cuore. Ci volle tutta la pazienza della zia per tranquillizzarmi e invitarmi a continuare seguendo i suoi preziosi suggerimenti. Su gli altri intervenni con scrupolosa attenzione e riuscii a salvarmi la reputazione. Quella sera a cena, non si parlò d’altro. Il nonno mi volle vicino a tavola, e per premiare il mio impegno mi regalò un soldo. Dovetti raccontargli ogni minimo dettaglio, mi ricordo che a tratti rise. Passò tutta l’estate e l’autunno, i capponi si erano ricoperti di piume nuove, e avevano delle code splendide. Si erano ingrassati, mostrando due zampe e un becco forti e gialli come la polenta.
47
Diario di un adolescente
Ai primi di dicembre erano pronti per le feste di Natale. La nonna in quel periodo era solita venderne qualcuno. Coi soldi ricavati avrebbe preso tante cose necessarie per la casa. Ma purtroppo i più belli del gruppo presero un’altra via. La mia famiglia non era proprietaria del podere che lavorava, per cui essendo in affitto, nel contratto, oltre ai soldi, bisognava dare una parte dei frutti della terra. Formaggio, vino, salumi, quattro capponi (per Natale), e quattro galline (per Pasqua), i più belli del pollaio. Queste cose, a me non erano mai piaciute. Dopo tanto lavorare, sacrifici, rischi, e tante altre cose, non era giusto che un padrone pretendesse tanto. La nonna dopo averli scelti con cura, legati ai piedi, li depose in una gabbia di legno pronti per essere consegnati. Andai io col nonno quella mattina a consegnare i capponi al padrone del podere. I signori abitavano proprio in centro a Guastalla. Arrivati davanti al palazzo, il nonno dopo aver legato il cavallo ad un anello di fianco al portone, suonò il campanello. Venne ad aprire un signore anziano coi capelli bianchi come il latte, subito riconobbe il nonno, aiutandolo a portare ai piani superiori la gabbia coi capponi. Ci fecero aspettare in una stanza grandissima. Io in silenzio, col naso all’insù guardavo con meraviglia le fantastiche pitture sui muri. Dopo un po’ arrivò una signora alta e magra coi capelli color viola, tutta ingioiellata. Salutò il nonno con un freddo buongiorno che contraccambiò col cappello in mano con un leggero inchino. La vecchia signora gli chiese chi fossi: “mio nipote” rispose il nonno. La vecchia signora allora mi porse una ciotola con dentro alcune caramelle, io guardai il nonno che con un cenno del capo mi diede ad intendere di non accettare. Il maggiordomo prese in mano uno alla volta i capponi per mostrarli alla padrona. E lei li palpò, gli soffiò sotto le ali per vedere se erano belli gialli, poi alla fine disse: “anche quest’anno andiamo bene, mi raccomando per Pasqua, la puntualità con le galline, e che siano belle grasse”. Durante il ritorno il nonno non disse una parola, nel suo silenzio io percepivo la sua umiliazione, e la mia rabbia per non essere stato grande abbastanza, da dire a quella vecchia megera quello che le spettava. Solo verso casa al nonno sfuggì una frase: “caro mio a questo mondo ci vuole tanta pazienza, e tu non farti mai mettere i piedi in testa da nessuno”. Dopo aver assistito a quella scena, e ascoltato quelle parole, io non volevo più saperne di castrati, ma col tempo placai l’ardore e il risentimento. Dopo la morte della zia, tutto ciò che essa mi aveva insegnato passò nelle mie mani. La zia, per decenni in paese e oltre i confini del comune aveva svolto questa professione con la massima serietà. Quando cominciai a prendere il suo posto, io ero giovane, per cui destavo nella gente qualche perplessità, ma gli ottimi risultati hanno cancellato in poco tempo qualsiasi incertezza. Una volta questo mestiere, non veniva pagato con denaro: ogni dieci castrati, uno spettava di diritto al castratore. Se per caso i capponi da fare erano come numero inferiori a cinque, la paga era una ventina di uova, se superiori a cinque ma inferiori
48
Diario di un adolescente
a dieci, oltre alle uova c’erano anche due litri di latte. Col tempo la gente aveva imparato a conoscermi a operare anche fuori provincia. Oggi questa pratica non è più in uso, salvo qualche rara eccezione. I capponi vengono acquistati negli allevamenti già pronti. I polli vengono castrati da esperti, che conoscono alla perfezione l’anatomia del volatile. Molto spesso sono gli stessi veterinari che praticano questo intervento. Con una incisione su un nervo (posto sotto le ali) collegato coi testicoli. Questo nuovo metodo è molto più igenico e veloce, ed evita ai poveri polli, tormenti di vario genere.
49
Diario di un adolescente
IO AMLETO e IL PO Lascio la giovane ingenuità un mondo di colori mescolati allineati in me senza rumori. Scorro come te ma tra rive sconosciute e non trasporto sogni ne canzoni. Tutto velocemente muta in questo secolo servile. Amleto errante di una vita disillusa sfocerò in un mare di speranze per guardare a nuove stelle.
50
Diario di un adolescente
LA BATTAGLIA DELLE FIONDE
uella sera la luna ci pareva gravida di sogni. Si era alla fine di giugno, l’afa era insopportabile e ce ne stavamo tutti e sette seduti sul muretto dell’aia. Sette cugini impazienti in attesa che il filòs (intrattenimento serale) avesse inizio. La nonna aveva preparato alcuni secchi di quelle sue erbe anti zanzara e dopo averli coperti con un sacco di canapa forato vi aveva gettato un pezzo di carbone acceso. Il fumo protettore iniziò subito a diffondersi come una nebbiolina mentre iniziavano ad arrivare i primi vicini e con loro i nostri coetanei. Le donne iniziarono a servire agli ospiti il vino tenuto in fresco, per quella circostanza nell’albi (abbeveratoio per bovini) mentre la nonna, sotto il portico, serviva il tradizionale gnocco con fette di polenta fritte. Un’occasione unica per noi ragazzi per abbuffarci senza dover chiedere il permesso, poiché solitamente il cibo era misurato. Con gli otto ragazzi del vicinato c’era sempre una accesa competizione che spesso sfociava in animate baruffe ma quando i ragazzi del centro del paese vicino venivano a provocarci trovavamo sempre in loro dei validi alleati. Ovviamente nella speciale occasione di quel filòs ogni ostilità fu messa a tacere. Il loro capo si chiamava Gabriele ed aveva quattordici anni come nostro cugino Ciro e fu proprio lui che quella sera, proprio nel bel mezzo della festa, ci radunò tutti per darci una tremenda notizia. “Quelli del centro ci hanno dichiarato guerra”. Si fece un profondo silenzio. Ciro ruppe per primo il silenzio: -è proprio vero? Hanno dunque fatto questa affermazione? -è vero si! - rispose pronto Gabriele incoraggiato dall’effetto che le sue parole stavano provocando. -Così non può durare! - esclamò Filippo; - mi chiedo il perché di questa loro improvvisa decisione. -Ho dato un pugno ad uno di loro perché mi aveva chiamato “sterco di campagna” ed aveva dato lo stesso appellativo a tutti noi”. - Chiarì Gabriele senza esitare. -Io lo avevo sempre detto che era ora di agire ma voi avete sempre sostenuto che ancora non era giunto il tempo! Ebbene: io penso che, se continua così, non solo quelli ci razzieranno anche i fazzoletti da naso, ma verranno a prenderci in giro pure sul nostro stesso campo – Disse Giorgio indispettito.
51
Diario di un adolescente
Se dobbiamo agire contro di loro, dobbiamo prepararci – disse Gabriele evitando polemiche. -Che vengano pure – Urlò Filippo – li accoglieremo con il letame che si meritano. -Come? Domandò Giorgio. -Sì! Hai capito bene, con il letame, - confermò Ciro che non solo aveva compreso ciò a cui si riferiva il compagno, ma lo condivideva appieno e non tardò ad illustrare quell’idea: Faremo delle piccole palline di letame e paglia ma nell’impasto vi aggiungeremo minuscole sfere di ferro. Pietro era il cugino di Gabriele e non convinto alzò timidamente la mano per manifestare la sua perplessità - Dove troveremo le sfere di ferro? -Mio nonno ha un amico che fa il fabbro e non esiterà a rifornirci della quantità necessaria – rispose Filippo. -Dunque, aprite bene le orecchie, riprese Ciro – si prende un secchio di letame, vi si aggiunge della paglia tritata fine fine e le minuscole sfere di ferro. Il tutto va mescolato bene…Silvano aveva nove anni e se ne stava da una parte a braccia conserte e con un muso lungo brontolò: Che schifo! Bisognerà toccare la merda con le mani? Io non lo faccio! Gabriele gli mollò uno scapaccione per farlo tacere e rimetterlo in riga prima di ridare la parola a Ciro che continuò a spiegare il modo di preparare le speciali munizioni: le palline non dovranno essere più grandi di un uovo di quaglia, una volta preparate dovranno essere messe ad asciugare al sole ed infine, pennellate con dell’albume che le renderà più compatte e pronte per essere tirate con la fionda. Tutti annuirono condividendo ma fu Nello a prendere la parola. Ma ne servirà un gran quantitativo, come faremo ad essere pronti per l’attacco? -Lavoreremo tutti insieme – rispose Gabriele. -Allora dobbiamo muoverci in fretta – aggiunse Filippo. E sopratutto non farne parola con nessuno – aggiunse Ciro. Andrea suo fratello Mariano chiesero ai due capi se la banda fosse in possesso di fionde, poiché senza di quelle, la preparazione delle munizioni sarebbe stata inutile. Ma Ciro e Gabriele li rassicurarono. Si disponeva di ben tre fionde a testa. La banda sembrava convinta sull’efficacia del piano e sul da farsi, a ognuno fu assegnato uno specifico compito, la riunione sembrava terminata ma Ciro volle aggiungere un’ultima cosa prima di congedare le truppe: Consiglio a tutti di evitare di recarsi in paese da soli, se fosse necessario andate in gruppo. Armando, cugino di Gabriele era un tipo schivo, soprannominato Grasöl (cicciolo di maiale) per via della sua corpulenta corporatura. Aveva ascoltato senza mai intervenire, non amava molto parlare, ma in quella occasione sentì che era necessario dire la sua, ed
52
Diario di un adolescente
il suo intervento si rivelò estremamente utile mettendo a fuoco un particolare che a molti di noi era stato sottovalutato o trascurato: -Secondo me quando sferreranno l’attacco lo faranno all’improvviso perché penseranno di trovarci impreparati e sono sicuro che lo faranno dall’argine o dal canale dove se non sbaglio la famiglia di Ciro possiede un casotto situato proprio nel mezzo dei due canali. La palizzata che chiudeva frontalmente il riquadro dove era situato il casotto, dava su un vecchio viottolo sterrato, ed era delimitato, ai due estremi, da due case. Dietro la palizzata, dalla parte opposta, il terreno era scosceso, e su buona parte di esso si ergevano alte cataste di legna. Era insomma un labirinto dove facilmente ci si poteva nascondere. A sinistra di queste cataste sorgeva il casotto. Era una casaccia bizzarra in legno e mattoni; i muri esterni d’estate si ricoprivano di piante rampicanti: edera, glicine, vite selvatica, che lasciavano nudo, sul tetto, solo il grande fumaiolo nero. Il posto era ideale. Il suolo sostituiva meravigliosamente le praterie americane quando si giocava ai pellirosse. Quanto alle cataste di legno, con un po’ di buona volontà, con un briciolo d’immaginazione, potevano diventare ogni cosa: città, foreste, montagne rocciose, case, fortezze… a seconda delle circostanze. La notte pulsava e nell’oscurità la magica danza delle lucciole donava un tocco magico al buio. Nessuno di noi riuscì a chiudere occhio quella notte. Il giorno seguente ci alzammo prestissimo tra sbadigli e stiramenti. I nonni avevano preparato la solita scodella di latte con due fette di polenta che consumammo velocemente per poi uscire come fulmini dal portone per essere puntuali al raduno convenuto. Ci radunammo sull’aia per dare il via al piano, talmente impegnati nel lavoro non badavamo al ronzio fastidioso dalle mosche che ci bersagliavano incessantemente. Tutti avevano assolto i compiti assegnati e disponevamo di tutto il materiale occorrente e l’aia si trasformò in una efficiente catena di montaggio, nel frattempo, Ciro e Gabriele strapparono al nonno il consenso di usare il casotto presso il quale decidemmo di stabilire il nostro quartier generale. La notizia ci venne comunicata gioiosamente dai nostri capi i quali riuscirono ad ottenere anche la dispensa dalle nostre quotidiane mansioni, sino a che la faccenda non fosse stata risolta. Ciò voleva dire che eravamo liberi di organizzarci per stabilirci in quella sede per alcuni giorni sino a che la guerra non fosse terminata. -Giurate che osserverete quanto stabilito da me e Ciro senza obbiettare e che a nessuno venga in mente di tirarsi indietro a l’ultimo momento. Disse Gabriele in tono solenne e deciso, ma in quel momento, presi come eravamo dall’euforia, a nessuno di noi venne in mente di potersi tirare indietro o di disobbedire ai
53
Diario di un adolescente
capi che ci eravamo scelti. Sarà meglio iniziare ad allenarci se vogliamo essere davvero efficienti aggiunse Ciro, - direi che sarebbe meglio fare delle prove. Rimediammo dei vecchi barattoli che disposti a una certa distanza fecero da bersaglio e raccolti dei ciottoli lungo lo stradello li usammo provvisoriamente come munizioni per allenarci. Alcuni di noi, nel frattempo si davano da fare per rimediare provviste e tutto ciò che necessitava per la lunga permanenza. Era stato portato addirittura un fischietto, ci sarebbe stato utile per dare l’allarme durante i turni di guardia. Il sole era alto, la calura faceva ondeggiare la polvere sul viottolo e dall’alto del tetto del casotto dei passeri osservavano indifferenti i movimenti delle truppe. Fu stabilito di togliere scarpe e sandali per evitare rumori. Matteo fu l’unico ad essere felice di quella decisione, portava sempre scarpe più grandi e spesso inciampava, veniva da una famiglia povera che non poteva permettersi il lusso di comprare scarpe adatte, si doveva arrangiare con quelle rimediate. Sua madre sempre malata, il padre quasi assente, avevano contribuito alla formazione di un carattere chiuso nel fanciullo che sembrava non sapesse sorridere e privo d’amore non conosceva che il volto amaro della rassegnazione. Una lancia di sole penetrò dal soffitto e sfiorò l’angolo dove erano state ammucchiate le scarpe e i sandali. Intorno al casotto ondeggiarono alti pioppi ed olmi e la leggera brezza sparse il profumo dei cespugli di lauro, rosmarino e salvia che crescevano sotto di loro. Pronti a fare del nostro meglio, iniziammo le prove di abilità, Silvano e Piero sbagliarono alcuni tiri, ma nel complesso, l’allenamento risultò promettente. Fu durante la pausa che, dopo essersi denudati completamente, ad Antonio, Piero, Matteo e Silvano, balzò in testa l’idea di tuffarsi nel canale per cercare refrigerio. Gli schiamazzi dei quattro anatroccoli cessarono con l’intervento autorevole di Ciro che infuriato ordinò che uscissero immediatamente dall’acqua e li apostrofò con dure parole: -Che non vi venga più in mente di fare una cosa simile senza permesso, perché vi cospargerò di miele e dopo avervi legato ad un palo vi darò in pasto alle formiche. -Non si può fare niente, -avete sempre ragione voi. Si lamentarono piagnucolando Antonio e Matteo, mentre Silvano e Piero a testa china dicevano che non era giusto ma Ciro volle chiarire il motivo del suo rimprovero: -Questo non è un gioco, se fossero giunti i nostri nemici mentre eravate intenti a fare gli stupidi nel canale dove vi sareste nascosti sott’acqua? Nessuno di noi può dire se non ci stessero già spiando. Dobbiamo fare attenzione. La parola gioco per noi era una parola poco usata. La nostra vita in casa di contadini era già adulta. Il nostro corpo così come l’anima maturava velocemente e l’infanzia
54
Diario di un adolescente
terminava con altrettanta rapidità senza che noi ne fossimo consapevoli. Non so dire se i lavori che presto venivamo chiamati a svolgere ci rendessero più forti o forse più maturi. Nel tardo pomeriggio Ciro si arrampicò su un prunus carico di frutti che sembrò un ottimo punto d’osservazione. Noi al di sotto attendevamo impazienti l’esito della sua esplorazione, ma per il momento tutto sembrava tranquillo e decidemmo di osservare dei turni di guardia per la notte. Alle prime stelle la lucerna venne accesa ed essa diede alla stanza del casotto l’aspetto di una prigione. Le zanzare iniziarono a colpire il bersaglio come frecce infallibili mentre al frinire delle cicale rispondeva il gracidio delle rane. Seduti in cerchio sui nostri improvvisati giacigli di paglia ci rifocillammo con pane e formaggio. Ciro e Pietro affrontarono il loro primo turno di guardia, il fischietto ci avrebbe dato il segnale nel caso in cui il nemico avesse osato attaccarci. Le zanzare stavano creando un bel po di disagio all’interno del casotto. Gabriele aprì la sacca e ne estrasse un barattolo contenente un unguento appositamente preparato da sua nonna e ci ordinò di denudarci. Ci cospargemmo con quel provvidenziale preparato che risultò davvero efficace contro quelle bestiacce e finalmente riuscimmo a riposare meglio sui giacigli di paglia che pizzicavano la schiena. Qualcuno all’improvviso bussò energicamente sull’uscio del casotto. Ci svegliammo e in men che non si dica eravamo ammucchiati e tesi in un angolo della stanza. Il silenzio era totale. Gabriele con passo furtivo come un felino in agguato si avvicinò alla porta quando dall’esterno giunse la voce conosciuta del nonno: -Truppa siete svegli? Domandò con quella sua voce un po rauca. Gabriele rasserenato aprì la porta ed il nonno gli porse un salame mentre Ciro e Pietro abbandonata la postazione ci raggiunsero. -Sono venuto per constatare che tutto fosse sotto controllo Disse il nonno mentre depositava sul pavimento ciò che aveva portato: una bottiglietta di petrolio, del pane, alcune bottiglie d’acqua e una scatola di fiammiferi. Lo ringraziammo per la premura sentendoci sollevati e lui sorridendo alzò la mano in segno di saluto e rapido scomparve nel buio. Quella notte, però sembrava non volesse affatto trascorrere tranquilla, fuori all’improvviso iniziò ad imperversare un vento insistente che non prometteva nulla di buono, bagliori di lampi squarciavano il cielo e la tempesta si stava annunciando con il rumore degli scuri delle finestre. La fiamma della lanterna creava ombre danzanti sulle pareti mentre puntuale giunse il rumore della pioggia sul tetto. Usciamo! Gridò Filippo ad un tratto lasciando tutti stupefatti; Si usciamo, danzeremo sotto la pioggia proprio come fanno gli indiani prima di ogni battaglia. Fu incredibile come quella proposta che in un primo momento sembrò assurda suscitasse, invece, l’en-
55
Diario di un adolescente
tusiasmo di tutti. Con i tuoni che rombavano furiosi ci ritrovammo sotto l’acqua scrosciante a danzare abbracciati a ciò che rimaneva della fantasia che rendeva magico ogni movimento di quella spensierata follia giovanile, e ci sentimmo ebbri ed appagati come se il mondo stesse per chinarsi ai nostri piedi. Eravamo liberi dalle paure, dall’ansia, da ogni vincolo che ci serrava nella morsa quotidiana e quelli che udivamo non erano tuoni ma rombare di tamburi. Le nostre grida sfidavano la tempesta facendoci sentire invincibili. Il sole del mattino si specchiava nelle numerose pozzanghere. Per la prima volta guardammo l’alba con occhi diversi. Allineati facemmo pipi lungo il canale e percepimmo il rumore degli insetti tra l’erba ed il nuovo respiro della natura. Ciro si avventurò nuovamente sul grande prunus ma anche stavolta non vi era segno del nemico. Raccogliemmo alcune prugne riempendoci le tasche. Pietro che s’era addentrato tra i cespugli per impellenti bisogni, ad un tratto urlò: -Correte! Venite! Ci precipitammo verso di lui e guardammo nella direzione che ci indicava. Sotto un olmo c’era un bidone del latte, lo riconobbi subito era del nonno. Lo aprimmo e all’interno c’erano quattro bottiglie di latte e un bel po di fette di polenta abbrustolite e numerose uova sode. Il nonno ci aveva fatto un’altra delle sue gradite sorprese. Qualcuno esagerò nel trangugiare troppe prugne con il latte e gli effetti non tardarono a farsi sentire. Ciro e Gabriele si alternarono più volte sul prunus ma stranamente tutto appariva calmo. L’attesa iniziava a farsi stressante e i due capi si guardarono perplessi. Fu Ciro che accortosi della tensione che si andava accumulando propose ai più giovani di andare a pesca nel canale: -Abbiamo la polenta rimasta, non ci resta che pescare qualche buon pesce e avremmo messo a punto il nostro pranzo. L’entusiasmo che si scatenò a quella proposta aveva spinto già molti di noi a denudarsi completamente per tuffarsi in acqua ma Gabriele intervenne a placare l’euforia: -Non tuffatevi subito, il pesce a quest’ora sta pascolando vicino alla riva, è bene entrare adagio. La pesca fu abbondante. Fu acceso un fuoco per cuocere le prede e la polenta fu lasciata scaldare al sole, ma negli occhi dei due capi vi si scorgeva la cupa ombra dell’apprensione. Quella calma non era naturale e con tacito accordo decisero di esplorare l’argine che sino a quel momento era rimasto inesplorato. I due si sparsero della mota su tutto il corpo per meglio mimetizzarsi e si avventurarono verso l’argine risalendo sino alla prima banchina ai piedi di un grosso salice attenti a non fare il minimo rumore e vigili come leopardi a caccia. Noi alternandoci sul prunus tentavamo di seguire i loro movimenti tenendoci pronti ad ogni evenienza. In quegli attimi di febbrile attesa ci ac-
56
Diario di un adolescente
corgemmo quanto i legami tra i due gruppi, una volta rivali, si fossero in quell’occasione rinsaldati e trasformati in una grande amicizia. L’afa non dava tregua e il tormentoso frinire delle cicale sembrava di bronzo. Dopo circa un’ora le sagome dei due esploratori si stagliarono sotto il sole cocente e noi tirammo un sospiro di sollievo. Sui loro volti leggemmo la fatica dello sforzo ma anche la preoccupazione. I due non dissero nulla, silenziosi si diressero al canale per ripulirsi dalla mota che si era seccata sui loro corpi. -Vi si legge in faccia che siete preoccupati Disse Pietro – abbiamo il diritto di sapere che succede. -C’erano quattro di loro sull’argine con le bici coricate ai margini della riva, intenti a spiarci. Rispose Gabriele mentre si asciugava la faccia. -Quel branco di stupidi bovari li attacchiamo quando vogliamo proprio dall’argine senza che se ne rendano conto. Prima di sera invieremo alcuni dei nostri sul lato opposto per trarli in inganno e sarà facile farli fuori una volta per tutte e se vorranno tornare in paese dovranno stare sotto la nostra cappella. Così aggiunse Ciro riportando esattamente le parole udite dai nemici. Ci guardammo spaventati e confusi e per un attimo ci sentimmo smarriti ma un capo capisce al volo lo stato d’animo dei suoi uomini e Ciro era un ottimo capo e gli era difficile perdersi d’animo e non avrebbe permesso che ciò accadesse ai suoi. -Non vi nascondo che tra i nemici vi sono cinque quattordicenni e un quindicenne e sotto un certo punto di vista loro sono più forti di noi, ma c’è una cosa che il nemico ha sottovalutato: noi siamo più concreti, più svelti, ed uniti. Siamo imbattibili ad arrampicarci sugli alberi, abbiamo la pelle dura perché siamo abituati alla fatica ed abbiamo l’occhio e la misura delle cose… Parole sagge pronunciate da un capo che sa infondere coraggio non possono che far esplodere l’entusiasmo ed incendiare gli animi dei suoi uomini, e fu ciò che avvenne in quei momenti. -Prendete i sacchi che usiamo come giacigli, riempiamoli di paglia ed indossiamoli, che ci coprano avanti e dietro come corazze attutiranno i colpi e ci proteggeranno. Scattammo come molle e ci gettammo nei preparativi mentre il piano di battaglia veniva approntato velocemente. -Adesso ascoltate bene: sto per dirvi la cosa più importante. Seguitemi bene sulla carta. -Il gruppo più nutrito arriverà dall’argine, i più grandi di noi resteranno giù disposti a freccia verso l’argine a destra del casotto, i più piccoli su gli alberi a cerchio. Tre di noi verso l’argine a sinistra due più piccoli sul tetto uno verso l’argine e l’altro verso la campagna. Gli altri due si disporranno sui rispettivi canali ben nascosti dalle canne.
57
Diario di un adolescente
Mirate giusto e buona fortuna a tutti. Erano poco più delle cinque quando la banda nemica irruppe nel nostro territorio. Non appena furono a tiro il fischietto di Gabriele suonò e la battaglia ebbe inizio. Decine di palle sibilarono tagliando l’aria e piombando sul nemico che frastornato non riusciva a scorgerci mentre noi li vedevamo benissimo. Ben cinque di loro vennero subito messi fuori combattimento e quando si avvidero del fallimento subito dai loro piani se la diedero a gambe. Caddero due dei nostri sugli alberi: Mariano e Gianni, fortunatamente senza gravi conseguenze. In compenso il secondo gruppo degli avversari ben presto cedette e malconcio battè in ritirata con la coda tra le gambe. Piero era caduto dall’albero e riportò molti graffi e contusioni. Dopo mezz’ora la battaglia era cessata ed il nemico fuggiva sconfitto vergognosamente. Radunati davanti al casotto esultammo vittoriosi e mai provammo gioia più grande. Non solo avevamo sconfitto un nemico più forte ma avevamo dimostrato a noi stessi quanto fosse preziosa l’amicizia, l’unità e la fratellanza. Avevamo scoperto una cosa preziosa, un tesoro che ci avrebbe accompagnato per sempre nella vita. Ma le grida di esultanza furono interrotte da un lamento proveniente dal fossato dietro il casotto. Un ragazzo giaceva con la faccia sull’erba. Gabriele lo riconobbe immediatamente mentre lo girava e notò che aveva una profonda ferita vicino all’occhio. -è Enrico il loro capo. Ciro portò dell’acqua per lavare la ferita e dissetare il nemico caduto. -Allora beccamorto chi è lo sterco di letame ora? Lo beffeggiò Gabriele in tono trionfante – non fai più il gradasso ora? Non azzardatevi mai più a trattarci in quel modo – Queste ultime parole suonarono alte chiare e minacciose. Andate a cagare! Ghignò Enrico dopo aver bevuto ed essersi sciacquato la faccia ma un pugno di Ciro lo fece ruzzolare in terra. -Spogliatelo completamente e legatelo a quel palo! Ordinò Gabriele. Il prigioniero cercò di difendersi e mollò un pugno in faccia a Filippo, ma per quanto grugnisse come un maiale al macello ogni tentativo di fuga fu vano: fu denudato e legato al palo per ricevere gli sputi di tutti poi gli fu lanciata addosso della mota. Gli tirarono il pisello, e i più piccoli gli strapparono dei peli mentre ridevano e ridevano. Armando il Grasöl afferrò l’occasione per vendicarsi per tutte le volte che aveva dovuto subire l’umiliazione di essere preso in giro da quei delinquenti quando si recava in paese per comprare le sigarette per suo padre. Non poteva dimenticare la filastrocca che quei porci cantavano in coro per prenderlo in giro: CICCIO BOMBOLO CANNONIERE CON TRE BUCHI NEL SEDERE CON TRE BUCHI NELLA PANCIA CICCIO BOMBOLO VOLA IN FRANCIA. - BRÖTT GRASÖL SPÜSULÉNT – (brutto cicciolo puzzolente).
58
Diario di un adolescente
Strappò dal prato una manciata di ortiche e le strofinò sul basso ventre (davanti e dietro) del prigioniero. Basta! Urlò Enrico scoppiando a piangere - giuro che da oggi non accadrà più che vi si manchi di rispetto. Se mi lasciate andare torneremo ad essere amici. -Avete una strana concezione dell’amicizia voi bastardi, guarda come ti hanno abbandonato in fretta i tuoi amici. Fece notare Gabriele, ma Enrico piangeva disperato e Ciro ordinò di slegarlo, aiutarlo a ripulirsi e liberarlo. Aiutammo Enrico a rimettersi in sesto e lo accompagnammo sino sopra l’argine dove la sua bici giaceva abbandonata ai margini della strada ghiaiata tra l’erba. Davanti al casotto ci raccogliemmo festanti mentre le zanzare avevano ripreso le loro scorrerie sui nostri corpi sudici e sudati. Poi raccattate le nostre cose ci congedammo fraternamente e mestamente. L’avventura era giunta alla fine ora c’era da rientrare nelle nostre case e la quotidianità ci avrebbe risucchiato ma questa volta non avrebbe potuto toglierci quello che avevamo così duramente conquistato. Ognuno riprese la sua strada ma mentre la compagnia si scioglieva fu accompagnata dalla preghiera dell’acqua che scorreva placida nel canale e la sera ornava il suo cielo con un filo rosso, la terra spossata dalla calura attendeva avidamente l’ombra della notte e i fabbri del tempo avevano soffiato dentro le nostre fucine modellando i ricordi più belli.
59
Diario di un adolescente
BOLLE DI SAPONE Fragili storie di vita trasparenti si infrangono. Un’amore esaurito alchimia perduta nel vuoto dei giorni come bolla di sapone non rimane che una lacrima.
60
Diario di un adolescente
LA STORIA DELL’AIA
er noi, ragazzi di campagna, l’estate s’accendeva di colori e di allegria, soprattutto perché terminava la scuola, e ciò non lasciava spazio alla noia, il tempo ci assorbiva come una spugna ed ogni ora, ogni attimo era vissuto pienamente. Ma c’erano soltanto i giochi, i nostri compiti ci venivano assegnati puntualmente dai nostri genitori e ciò avveniva in base all’età, dato che non tutti eravamo in grado di svolgere le stesse mansioni. Alla fine però si finiva col fare tutto insieme. Le ore mattutine erano le più impegnative ed il tempo sembrava infinito, ma il pomeriggio tutto sembrava assumere un aspetto migliore. C’era tempo per spassarsela ad inventare giochi nuovi. Eravamo in nove: due femmine di sedici e diciassette anni e sette maschi dagli otto ai tredici anni. Alle ragazze venivano sempre assegnati lavori casalinghi, mentre a noi spettavano quelli esterni. Al mattino ci si alzava di buon’ora, bisognava pompare l’acqua nei serbatoi posti sul fienile per far dissetare le mucche che bevevano dagli abbeveratoi appesi alle greppie. C’era da strigliare il cavallo e lucidare gli ottoni dei suoi finimenti, poi portarlo a pascolare sull’argine. Pippo era uno stallone irlandese, alto bruno e possente. La sua criniera folta e bionda sembrava una vela in mare aperto quando trottava. Spesso correvamo insieme ed ovviamente ci distanziava sempre, quando s’accorgeva d’essere rimasto solo, si fermava per voltarsi indietro per vedere dove fossimo. Conducendolo al pascolo, spesso capitava che ci sdraiavamo tra l’erba e ci lasciavamo andare in chiacchiere dimenticandoci completamente di lui. Pippo puntualmente si avvicinava a noi e spingendoci col muso ci sollecitava affinché lo riportassimo a casa. Altro onere mattutino era la cura dei cani. Ringo e Trebbia erano due pastori tedeschi, affettuosissimi e molto giocherelloni ma formidabili nel fare la guardia. Alla sera venivano legati alla catena, la quale era agganciata ad un filo di ferro molto robusto e talmente lungo da permettere loro ampi movimenti per tutto il cortile, stalle, porcile e pollai compresi. Quando era tempo degli amori i loro lamenti erano insopportabili. Un fatto increscioso accadde proprio durante uno di questi periodi infelici e lasciò un segno profondo nei ricordi di quell’estate. Ringo e Trebbia consumati da una irresistibile smania, non si sa come, riuscirono a slegarsi e a fuggire lontano, chissà dove. Nonostante tutti i nostri sforzi, le ricerche risultarono vane. Mancarono per settimane, poi un bel giorno, inaspet-
61
Diario di un adolescente
tatamente, riapparvero, malridotti, sporchi e sanguinanti. Mio padre ci spiegò che era dovuto al fatto di dover sostenere lotte violente con altri maschi per conquistarsi le grazie delle femmine. Era la natura, ma ciò non alleviava la gravità di quanto avvenuto in loro assenza. Durante una delle notti precedenti, infatti, approfittando della assenza dei cani, i ladri fecero man bassa nel pollaio, ed inoltre portarono via due maialini di mezza taglia. Il nonno era infuriato e ciò aggravava assai la posizione dei due fuggiaschi. Fu emesso un verdetto severissimo, come del resto lo fu la pena: a digiuno completo per tre giorni, legati alla catena, ed inoltre si vietava nel modo più assoluto a chiunque di avvicinarli per qualsiasi motivo. I due compari avrebbero ricordato per un pezzo che cosa spettava a chi disertando aveva consentito ai ladri di fare il loro comodo. Dopo la severa punizione, però, sembrò che i due avessero compreso la gravità del loro gesto e che facessero di tutto per riguadagnare la perduta reputazione, divenendo rigidi e temibili nel fare la guardia. I primi a farne le spese furono gli ambulanti che erano soliti passare a vendere le loro mercanzie sui loro mezzi. Quei poveretti ci rimettevano o i polpacci o le gomme degli automezzi, così che i guai per i due amici non finivano mai. Nel frattempo noi scrivevamo in silenzio la storia dell’aia. Durante il giorno, quando il sole era già alto, dovevamo pulire bene l’aia con la scopa di saggina. Operazione che bisognava compiere alla perfezione per poter in seguito stenderci sopra a seccare i resti dell’erba nelle greppie, la falciatura delle rive dei fossati e quella raccolta sotto i filari. La sera, quando era seccata, veniva poi raccolta con i forconi e ammassata nel fienile. Il tritume che rimaneva sull’aia veniva raccolto dentro dei secchi e portato nel pollaio. Ricco di svariati semi era nutrimento ottimale per le galline che non aspettavano altro che razzolarci sopra golosamente. Sull’aia si usava far seccare i fagioli o i ceci, e quando erano al punto giusto si battevano con un doppio palo per farli uscire dai baccelli. Lo stelo che rimaneva si usava per fare il letto alle mucche, ciò che restava veniva setacciato per separare i fagioli dalla pula. Dopo la trebbiatura, il posto sull’aia era assegnato al frumento o granoturco, ma per queste granaglie il lavoro era molto più complesso. Bisognava essere sicuri che non piovesse per accumulare una grande quantità, poi tutte le mattine, si stendeva il grano con le pale di legno. Per tutto il giorno ci si passava sopra a piedi nudi per smuoverlo affinché l’aria lo asciugasse per bene e togliere l’umidità in fretta. La sera dopo aver ricomposto il mucchio con le pale si tornava a spazzare l’aia per raccogliere tutti i chicchi dispersi. Alla fine, un enorme telo bianco veniva disteso sul raccolto per proteggerlo e lo si fermava con numerose pietre. Tutta l’operazione veniva eseguita con la massima cura ed attenzione sotto lo sguardo esperto e vigile del nonno e del bisnonno. Seduti davanti al portone, con le loro inseparabili pipe, tra nuvole di fumo
62
Diario di un adolescente
bianco e vaporoso, ed i loro occhi vigili e severi puntati su di noi. Ricordo che la nonna ci spediva spesso per i campi in cerca di papaveri. Questa è un’altra di quelle storie di un passato che oggi sembrano così lontane ed incredibili. E’ la storia dell’inchiostro. Partiti per i campi, cercavamo affannosamente più papaveri possibili, e tornavamo soltanto quando eravamo certi di aver effettuato un discreto raccolto. La raccomandazione della nonna era sempre quella di non stropicciare i petali altrimenti non avrebbe potuto usarli per le sue alchimie. Sembrava una maga quando si accingeva a preparare quell’intruglio misterioso da cui avrebbe semplicemente ricavato del puro e naturale inchiostro. I petali venivano, all’inizio, messi a macerare in un litro di vino vecchio con polvere di carbone ed inoltre la nonna, con mano esperta, aggiungeva un altro ingrediente misterioso che non ricordo. Il contenitore con il preparato veniva così conservato per due mesi. Trascorso tale periodo il liquido veniva filtrato e versato in piccole bottiglie, ed avevamo l’inchiostro per tutto l’anno. Quando suonava mezzogiorno, bisognava presentarsi a tavola vestiti decentemente altrimenti erano guai, e noi eravamo alquanto sudici dopo i lavori svolti durante la mattina, inoltre non c’erano bagni con le vasche o le docce, tutto ciò era un lusso che si potevano concedere i signori. La soluzione era il canale. Un bel tuffo e poi ci si asciugava al sole, e dato che non esistevano costumi, per non bagnare canottiere e mutande, non esitavamo a farci il bagno completamente nudi. A tavola ci sedevamo sempre freschi e qualche volta un po’ umidi, ma nessuno ci faceva caso, s’aveva ben altro da pensare in quel momento. Intorno alla lunga tavola c’era sempre affollamento dato che la famiglia al completo era composta di ben trentasei elementi. Le voci si intrecciavano e l’atmosfera era irreale, sapori e profumi si confondevano: la tribù era riunita, e tutto serbava un aspetto semplice ma allo stesso tempo sacrale, dai gesti agli sguardi, dal rituale primo piatto per il bisnonno, alle occhiate severe ma amorose del nonno, e poi sulla tavola apparivano miracolosamente le tagliatelle con i piselli, ed allora sembrava che s’aprisse il Paradiso. Dopo il pranzo c’era sempre il riposino, ma ovviamente, ciò valeva solo per i grandi. Per noi era il momento di giocare alle biglie sotto il portico ombreggiato cercando di non fare troppo chiasso. Quelle biglie avevano una storia da raccontare. C’erano state regalate dal bisnonno che ne possedeva un centinaio, le aveva acquistate a Venezia durante una visita ad un suo cugino che la s’era stabilito alla fine della prima guerra mondiale. Per noi erano un vero e proprio tesoro e venivano conservate scrupolosamente, ma durante le sfide sotto il portico spesso dovevamo guardarci dagli imbrogli che i più grandi non mancavano mai di attivare a discapito di noi più piccoli. Per sfuggire alla persecuzione noi ci rifugiavamo nel nostro nascondiglio segreto.
63
Diario di un adolescente
Tra il cortile e l’argine si apriva un grande fossato. Era il nostro esclusivo mondo incantato ove la luce ricamava ombre sottili tra il fogliame e i campi apparivano pigri e melodiosi allo stormire delle cicale. In quel “castello incantato” si preparavano con cura le armi per le nostre battaglie ed il cuore ci pulsava sereno ed ebbro di libertà quando ammiravamo il tesoro che in quel covo avevamo accumulato dentro una vecchia scatola di latta: una grande conchiglia di fiume dai riflessi azzurri e madreperla dove sul guscio s’aprivano tanti forellini. Ma la cosa più straordinaria era il “grande teschio”. Non era altro che un teschio di maiale, ben ripulito che ci era stato donato dal nonno. Ben raschiato, con alcuni bastoni robusti, divenne il nostro carrarmato, la nostra invincibile arma segreta. I nostri nemici abitavano in una vicina corte. Erano ben agguerriti ed organizzati, tanto che spesso avevano tentato di rubare i nostri tesori. Allora, la strada ghiaiata che separava le due case e che era sempre immersa nel silenzio, si riempì di grida di battaglia, ed accadde il finimondo. Ma le nostre guerre duravano poco. La pace si stipulava con enorme facilità e ci si scambiavano regali e cortesie, si ricevevano i vicini nel nostro “castello” e si ricambiava la visita nel loro nascondiglio. Tutto iniziò una mattina in riva al canale quando fummo invitati ad una sfida alquanto singolare. Sarebbe risultato vincitore chi avrebbe pisciato nell’acqua più lontano. Sotto un sole battente ci riunimmo per stabilire le regole, poi completamente nudi iniziammo il confronto. Devo dire che il merito dei nostri successi era quasi sempre di nostro cugino Ciro che era il più grande e dimostrava tutti i suoi tredici anni per questo lo avevamo eletto nostro capo. Anche in quell’occasione non mancò di dimostrare tutto il suo valore. Inutile dire che fummo noi i vincitori e ne fummo lieti, anche perché ciò ci fruttò un bel bottino: un mazzo di figurine di calciatori e un numero di biglie di vetro colorate. Dovemmo però ammettere che anche gli avversari erano comandati da un abilissimo capitano quattordicenne. Quando ci si trovava sull’argine per fare il bagno, noi piccoli ci divertivamo a prendere in giro i più grandi. Vedevamo quei corpi sgraziati coperti di peli mentre i nostri erano lisci come seta e non riuscivamo a trattenerci a fare il paragone con le scimmie ed imitarne i gesti. Ciò faceva veramente imbestialire i due e si finiva a sberle. Ma l’incendio si spegneva subito e quando la sfuriata si placava eravamo di nuovo tutti in acqua insieme fino a quando non giungeva il richiamo della nonna per la merenda. Seduti sulla parte ombreggiata del muretto dell’aia attendevamo la nostra porzione di vino cotto e di polenta.
64
Diario di un adolescente
Non appena rifocillati ci accingevamo a svolgere il compito più spassoso della giornata: portare al pascolo e al bagno le oche. Allora possedevamo circa venti esemplari: quindici femmine e cinque maschi. Aperto il recinto le oche starnazzando invadevano il cortile tra l’abbaiare dei cani che le facevano svolazzare da tutte le parti, ma bastava che solo una prendesse la via dell’argine che ben presto tutte le altre la seguivano. I maschi allora assumevano un portamento fiero e si disponevano a proteggere il loro harem: aprivano le ali abbassando la testa con aria minacciosa e prendendo la rincorsa tentavano di aggredirci. Si rideva e ci si divertiva, era uno spettacolo vederle nuotare libere e veloci, ma bisognava stare con gli occhi aperti e non permettere che si allontanassero troppo poiché esisteva un pericolo. Era già accaduto in precedenza che qualche pescatore si nascondesse e con un pezzo di grasso appeso ad un amo attirasse le povere bestiole. Le anatre, si sa, sono animali ghiotti, e una volta afferrato il boccone lo ingoiano immediatamente rimanendo sofferenti. A questo punto il pescatore ritira la lenza per trarre dall’acqua la sfortunata bestiola mezza morta e tutta sporca di sangue. Le oche erano importanti per noi, non solo per le carni. A primavera, la settimana prima di Pasqua, c’era l’usanza di svuotare i materassi ed i cuscini e riempirli con nuove piume. Per questo dopo aver macellato l’animale, le piume venivano raccolte dopo essere state asciugate per bene. Questa era un’altra delle ragioni per cui non bisognava perdere nessun animale, e le punizioni erano severe. Purtroppo non sempre le cose andavano lisce. Accadeva che qualcuna delle oche si allontanasse dal gruppo a volte anche per qualche chilometro. Se c’era burrasca si nascondevano tra le canne delle rive e per noi iniziava un’odissea. Corse eccitate sull’argine all’affannosa ricerca del fuggitivo battendo bastoni per fare più baccano possibile in modo da stanarlo dal suo nascondiglio. Se poi tutti i nostri disperati tentativi non risultavano sufficienti, si correva a casa per slegare uno dei cani. Ringo era più esperto ed abile per questa ricerca, vigile e attento iniziava ad abbaiare e col suo formidabile fiuto individuava prontamente il fuggiasco. Una volta stanato ci si tuffava tutti nel canale e in un attimo le oche uscivano dall’acqua e si radunavano sull’argine starnazzando come volessero protestare per aver interrotto il loro momento di libera uscita. Quando il gruppo era di nuovo riunito il ritorno si svolgeva in modo tranquillo e l’entrata nel pollaio era per noi la fine di un’altra avventura. Il sole si adagiava stanco sull’orizzonte lanciando i suoi ultimi gioielli sull’acqua che si increspava, mentre avanzavano le prime ombre. Non ci rimaneva che annaffiare l’orto, e qualche volta ci concedevamo un ultimo bagno nel canale prima di metterci in ordine. Sdraiati sulla riva per asciugarci osservavamo le nubi che si coloravano degli ultimi bagliori del tramonto mentre le prime zanzare affilavano le armi. La notte s’adornò presto di una
65
Diario di un adolescente
tonda corona d’argento e accarezzò i grappoli carnosi dei filari ed il viso della nonna, che come una chioccia amorosa, ci chiamava a raccolta per la cena. Dopo cena, raccolti sull’aia, seduti sul muretto, ascoltavamo appassionatamente le storie che il bisnonno amava raccontare mentre fumava la sua pipa. Sembrava che il fumo formasse le immagini nell’aria ed i personaggi prendessero vita come bianchi fantasmi sino a che gli occhi non si chiudevano cedendo alla stanchezza dell’intensa giornata, non rimaneva che tessere la tela per catturare i sogni e prepararci per dipingere l’indomani: una tela bianca, dove avremmo sparso i colori fragranti di nuove esperienze, avvincenti avventure, e collezionato ricordi ardenti come perle per la collana del nostro futuro.
66
Diario di un adolescente
CANTILENE Infinito frinire ore bonarie anonime in braccio al sole Colori dilatati arcani miraggi bolle di sapone sfarfallio di luci ombre inquiete sui muri sui tetti sussurrio di vento sul paesaggio imprigionato cantilene in attesa di approdo tra l’incontro delle nebbie e gentili brine pungenti gli arabeschi fantasiosi che scricchiolano sotto i passi cantilene racchiuse nella stanza dei sogni.
67
Diario di un adolescente
RICORDO UN TEMPO Tormento che afferra il tramonto nell’anima addormentata come seme pianti l’immagine l’odore il suono che mai più si potrà dimenticare. Catturato da felicità incantatrice su strade lastricate di illusioni per poi troppo tardi scoprire l’abile gioco in cui ero caduto. Esule vago amata terra mia con gli occhi colmi del tuo sole il suono del vento che scompiglia i capelli tra gli argini del fiume la carezza sui muri screpolati l’abbraccio della nebbia il bacio delle zolle inumidite il richiamo della golena nei giorni della merla e il pianto sommesso della lontananza.
68
Diario di un adolescente
LE RICEVUTE DEL LADRO
a nonna era sempre la prima ad alzarsi al mattino. Di solito controllava che nell’andito fosse tutto in ordine, ma quel giorno non lo fece. La cucina era fredda. La sera prima aveva cucinato delle rane fritte con polenta, gli odori si erano condensati, per far cambiare aria alla stanza, non aveva chiuso le finestre. Le lunghe tende danzavano come candidi fantasmi e creavano sul soffitto un bizzarro gioco di ombre. Fuori il sole si affacciava ancora timido accarezzando la terra rossiccia e colorando la polvere dell’estate di una tinta arancione. La campagna sembrava un paesaggio fantastico con le colline appena indorate, giardini misteriosi ove uccelli invisibili cantavano tra le fitte chiome delle siepi. Chiusa la finestra e tornata nell’andito, la nonna notò l’anta del portone aperta e da sotto una coperta spuntavano due scarpe. Nella casa la porta rimaneva sempre aperta. Solo una spessa tenda attaccata al soffitto sbarrava la soglia. La nonna fece per raccogliere le calzature e riporle in cantina insieme alle altre quando si rese conto che appartenevano a un vagabondo (giramónd). Evidentemente entrato durante la notte si era appollaiato, con i suoi stracci, dietro l’anta del portone rimasta aperta. L’uomo si svegliò impaurito e nel tentativo di raccogliere frettolosamente le sue cose scivolò battendo la testa contro la gamba del tavolo dell’ingresso. La nonna cercò di tranquillizzarlo e lo invitò ad entrare per offrirgli una tazza di latte e del pane. “Parché?” Chiese l’uomo esitante. “Parché la pansa pina l’an pénsa mia a cla vöda” (perché quando la pancia è piena si vive bene e non ci si preoccupa più di quando era vuota e si sta meglio). Gli rispose prontamente la nonna mentre pensava: “Chi vive bene non si preoccupa di chi sta male. Ma non in questa casa” si disse. Il poveruomo la fissò confuso e dietro quello sguardo la nonna percepì la dolorosa realtà di lacrime e solitudine, sbiadita come un vecchio film in bianco e nero. Era una donna generosa e forte al punto tale che sapeva ben nascondere il profondo dolore per la morte del figlio perduto durante la guerra che tornava a riaffacciarsi di fronte alle altrui sofferenze. Il vagabondo fu servito e saziato, nel suo sguardo si leggeva la gratitudine. Mentre sul vialetto polveroso si voltò per lanciare un’occhiata a quella casa dove per la prima volta aveva provato il sapore del calore umano.
69
Diario di un adolescente
Quando la notizia si venne a sapere in casa tutti brontolarono. Il nonno rimproverò per il troppo buonismo, ricordandole che non bisognava fidarsi degli sconosciuti, prima o poi avrebbe potuto aspettarsi qualche brutta sorpresa. “Chi l’è cara la me dónna i fa finta ad tiràr fià pri dént, ma i sta mei che me e te” (quelli, cara la mia donna, fanno finta di respirare a fatica, ma stanno meglio di me e te). Ma la nonna aveva sempre la risposta pronta e non le mancò neanche questa volta: “Chi fa del bene non aspetti che bene”. Negli ultimi tempi in paese c’erano stati dei furti di piccola entità ma sempre più frequenti e anche la nostra casa non ne fu risparmiata solo che da noi i furti venivano compiuti in un modo anomalo e a dir poco originale dato che il ladro usava sempre lasciare un biglietto. Solo uno degli ultimi ritrovato nel pollaio c’era scritto: “Perdonatemi se prendo solo due galline, ma a casa ho poco posto, e a mia madre piace molto il brodo...”. A lungo andare la faccenda divenne seria e suscitò la rabbia dell’intero paese e l’ilarità dei vicini. Persino il parroco scuotendo la testa durante l’omelia della domenica in chiesa manifestò la sua preoccupazione: “Dall’antro buio della miseria giunge un grido disperato. Se chi compie ciò lascia una ricevuta, vuol dire che ha fame, e la fame è sorella della miseria e della disperazione. Meditate fratelli! Meditate!”. Il nonno se la prese con i cani. “Venduti!” Gridava alle povere bestie. C’è da dire che ogni volta che si verificavano quegli strani furti, al mattino venivano trovati sull’aia dei succulenti ossi di manzo. Così le due povere bestie vennero tenute a lungo a digiuno e i loro latrati squarciarono il silenzio delle notti scompigliando le stelle e spaventando la luna che si nascose dietro nubi d’argento. Ma ciò evitò che si verificassero nuovi furti. Eravamo alla fine dell’estate e durante un “Filòs” (intrattenimento serale) avevamo acceso un fuoco sull’aia per allontanare le zanzare. “Stasìra as bàla la cavalìna” (questa sera ci si diverte senza freno). Urlò il nonno euforicamente mentre la gente iniziava ad affluire. Il fuoco faceva danzare le ombre intorno rendendo irreali i contorni degli alberi e delle siepi diffondendo leggeri luccichii sui fili elettrici e la musica si disperdeva allegra per la campagna. Fu proprio allora che il ladro colpì nuovamente, ma questa volta nel modo più teatrale ed inaspettato. Al mattino le donne trovarono nel pollaio il misterioso biglietto: “Ho preso un oca ma quando sono tornato a casa mia moglie disse che era troppo grassa, così l’ho riportata indietro ed ho preso due germani. Vi ringrazio per la comprensione.” Le donne controllarono il pollaio, ed in effetti non mancava nessuna oca ma solo due germani. Tutti rimanemmo sconcertati e ci chiedemmo come mai durante quel furto le oche non avessero dato nessun avvertimento e fossero rimaste tranquille senza emetter alcun schiamazzo, come facevano quando entrava un forestiero.
70
Diario di un adolescente
Fu chiaro a tutti che si era di fronte ad un professionista che sapeva esattamente come raggirare gli ostacoli e non si arrendeva alle difficoltà. Un ladro che agisce indisturbato lasciando un biglietto era una cosa che non si era mai sentita ma nonostante suscitasse rabbia non si poteva far a meno di riderci sopra. Adirato il nonno un sabato decise di recarsi dai carabinieri e mostrare loro i biglietti rinvenuti dopo i furti subiti. Il maresciallo e l’appuntato a stento riuscirono a trattenere risa sarcastiche ma rassicurarono il nonno promettendo che avrebbero provveduto a scovare l’autore di quegli strani furti. Per prima cosa vennero a controllare la casa per constatare se vi fossero sistemi di sicurezza adeguati... Controllarono porte, finestre, catenacci, serrature. Ci consigliarono di lasciare liberi i cani durante la notte. Tutto era in ordine, ma c’era una cosa che nessuno della famiglia osò rivelare e cioè che la nonna di notte non chiudeva mai niente, neanche la porta di casa. Dopo aver esaminato i cinque biglietti i carabinieri furono in grado di affermare che due erano stati scritti con gli stessi caratteri, mentre gli altri sembravano scritti da una persona diversa. La nonna sperava ardentemente che il ladro non venisse mai trovato. “Infondo è una persona buona che ha bisogno di un pezzo di pane e si arrangia come può”. Pensava dentro di se mentre sgranava i grani del rosario. Il respiro dei giorni era dolce ed amaro, il tempo coi suoi scricchiolii, le sue beffe, le aveva insegnato a vedere le cose sotto un’altra ottica. Il dolore le faceva comprendere il linguaggio segreto delle stagioni e la fede a comprendere il grido degli uomini disperati. Giunse l’autunno con le sue piogge ed i suoi colori. L’acqua scivolava dalle tegole riempendo le grondaie che mandavano un grido monotono e presto arrivò anche la nebbia ad ovattare i giorni. Quella mattina la nonna mattiniera scesa in cucina ebbe un’altra sorpresa: accovacciata sotto il tavolo dell’ingresso, una donna con un bambino giacevano immobili avvolti in un umile coperta. Riavutasi dalla sorpresa, osservò il bimbo, pallido, magro che giaceva immobile tra le braccia di quella povera disperata e la molla dentro di lei scattò prontamente senza esitazione, senza alcun altro pensiero che tendere la sua umile mano per alleviare, almeno in parte, quel disperato grido di aiuto. Dopo aver rifocillato la poveretta ed il suo bambino, prese una vecchia valigia, vi infilò una coperta ed alcuni indumenti per il piccolo, una pagnotta di pane e del cibo e la consegnò alla donna che timidamente ringraziò. Fu in quel momento che l’attenzione della nonna cadde sulla pancia che appariva gonfia ma dava l’impressione d’essere quella di una donna incinta. L’occhio attento della nonna riconobbe alcuni oggetti nascosti tra le pieghe della lunga veste, oggetti rubati in casa durante la notte. Tacque, mentre la zingara si allontanava e si voltava a guardare silenziosa la casa ove aveva trovato ospitalità.
71
Diario di un adolescente
Dalla vetrinetta della cucina era sparito il vassoio d’argento ed una tovaglia ricamata al tombolo. Regali che aveva ricevuto da uno zio monsignore per il suo matrimonio. Ma non era la perdita di quegli oggetti a rattristare il suo cuore, sebbene essi fossero per lei importanti affettivamente. Sgranava spesso il suo rosario e nelle sue preghiere invocava il perdono ringraziando Dio per averle concesso la forza e la salute. Sola nella sera la sua figura argentata di luce lunare rimaneva immobile mentre l’erba si copriva di brina ed apparivano le prime stelle ad aprire l’uscio alla notte. Di ciò che era accaduto, la nonna non ne parlò con nessuno. Rimase un segreto racchiuso nel suo scrigno profondo sino a che una mattina di metà novembre, scendendo come al solito in cucina, trovò sul tavolo gli oggetti trafugati. stava riponendoli al loro posto quando dalla tovaglia cadde un biglietto: “Perdonate, non lo farò più. Grazie per il vostro buon cuore.” Le lacrime inondarono copiosamente i suoi occhi, lanciò uno sguardo alle mura di quella stanza che conosceva da quaranta anni, e le sembrò di vederla per la prima volta. Dicembre bussò impietosamente sui tetti delle case, il vento soffiava creando vorticosi mulinelli ed imbiancando di neve gli arbusti della campagna, ma il sereno tornò presto anche se perdurò il gelo. Il nonno decise che era giunta l’ora di macellare il maiale. Mancava una settimana a Natale e fervevano i preparativi. In casa regnava una gran confusione che preoccupava le donne. Una buona parte del maiale accuratamente preparata venne conservata nel granaio in una apposita stanzetta, ma il resto rimase sul tavolaccio nell’andito. Ciccioli, pancetta, salsicce, cotechini e lardo, rimasero belli esposti per prendere aria prima di essere riposti nella dispensa, ma qualcun altro pensò bene di abbreviare i tempi. Una notte sparirono due cotechini e una decina di salsicce e sul tavolo il solito biglietto: “Auguri di buon Natale. Speravo di trovare qualche salame, ma anche i cotechini vanno benone. Mi auguro che siano buoni.” Il nonno andò su tutte le furie. La cosa aveva assunto un aspetto grottesco e inammissibile e doveva assolutamente cessare. Impose risolutamente alla nonna di chiudere tutte le porte con il catenaccio. “Nella nostra casa non si è mai negato un pezzo di pane a nessuno, ma questa storia deve cessare, questo non è un negozio di alimentari”. Urlò inviperito sbattendo la porta mentre usciva. Lo trovammo poco dopo mentre sfogava la rabbia dando fuoco ad una catasta di foglie che avevamo ammucchiato sull’aia per il falò di fine anno. Nessuno osò proferire parola, e chinammo la testa preoccupati e tristi mentre la colonna di fumo azzurro si levava tra le fiamme dove crepitavano le foglie ed anche le nostre speranze. Il vento agitò la biancheria stesa infondo al cortile come se volesse dissipare l’amarezza di quei giorni. Trascorremmo un Natale tranquillo, nessuno accenno fu più fatto sui furti. Forse per scongiurare ulteriori ruberie, tentammo di dimenticare.
72
Diario di un adolescente
In effetti non accadde più nulla, come se l’oscuro sortilegio invocato col silenzio facesse scudo alla casa. I primi di gennaio la stalla ospitò due vitellini appena nati e di latte ne rimaneva poco dato che i nuovi arrivati ne consumavano una parte notevole, così al caseificio ci si andava una volta al giorno. Il poco latte munto lo si lasciava in un bidone sotto il portico al fresco. Dopo la sfuriata del nonno, in casa non entrava più nessuno. Tutto veniva regolarmente chiuso con catenacci e lucchetti dopo essere stato controllato. Avevamo l’impressione che l’incubo fosse cessato e che la normalità avesse ristabilito i regolari ritmi alla nostra vita familiare. Fu un’illusione. Una mattina, dopo aver tolto i lucchetti per entrare nella stalla, gli uomini si accorsero che il bidone del latte non aveva coperchio ed era stato svuotato. Trovarono il coperchio appoggiato all’albi (abbeveratoio per bovini) ed attaccato vi era il solito biglietto: “Perdonate se ho preso il latte. Non ce n’era molto. Mia moglie vuole fare un po di burro ed era chiuso da dappertutto.” Il nonno aveva il volto paonazzo. Sembrava un vulcano che sta per sbottare. Fu per noi una scelta saggia quella di allontanarci furtivamente e il più possibile dalla scena del crimine prima che la colata di lava incandescente ci travolgesse. Ogni limite era stato abbondantemente superato. Il giorno dopo il nonno inforcò decisamente la sua moto Guzzi, un Galletto, dopo aver inforcato occhiali scuri e casco partì. Così conciato sembrava una vecchia civetta appollaiata su un comignolo. Suo cugino abitava a Castelnuovo Monti, decise di fargli visita e per l’occasione preparò due salami e due cotechini che senza dubbio furono molto apprezzati. Si trattenne un paio di giorni, poi una mattina fece improvvisamente ritorno. Sul sedile posteriore della moto spuntava uno strano oggetto scuro a forma di dentiera di pescecane. Ci spiegò che si trattava di trappole per lupi che suo cugino usava nelle malghe su in montagna. Noi non immaginavamo nemmeno l’uso che ne potesse farne il nonno, ma quando fummo tutti riuniti a tavola volle illustrarci il suo piano di battaglia: “Il nostro furbo amico ha voluto rischiare...” iniziò guardandoci ad uno ad uno negli occhi, “la fatt ssànta, al pöl far ssantön” (ha fatto sessanta può fare sessantuno) e noi lo “aspettiamo”. La nonna aveva immediatamente intuito le intenzioni del marito e disapprovò con tutte le sue forze, ma il nonno non volle sentir ragioni e adirato rispose: “Dal mumént che al nostar om al völ töras dli cunfidénsi, a vróm törsli anca nüatar. Ci piaceresse così signora moglie?” (Dal momento che il nostro uomo si è preso delle confidenze, vorremmo prendercele anche noi). Alla nonna non piacque quella risposta e ne rimase molto colpita. Come era stato previsto dal piano del nonno, da quel momento non si chiuse più nulla, ne pollaio ne stalla e le quattro tagliole furono approntate ed accuratamente disposte a raggiera. Furono persino tolte alcune pietre per sistemarle nella maniera più adatta e poi ben camuffate. Alcune balle di fieno servirono ottimamente allo scopo e tutto fu con-
73
Diario di un adolescente
trollato minuziosamente affinché si avesse la sensazione di assoluta normalità. Il tempo trascorse lentamente e la campagna stava spogliandosi dei suoi colori, febbraio giocava con le foglie superstiti rosse come lingue di fuoco. Una mattina gli uomini accorsi si agitavano. Due tagliole erano sparite. Una fu ritrovata in un fosso poco distante, tra le fauci inesorabili lembi di stoffa e ovunque macchie di sangue gridavano sulla terra gelata e nuda. Raccolta e ripulita fu riposta in solaio. Trascorse un altro mese e per quanto si indagasse in giro nessuno raccolse notizie di ferimenti o incidenti capitati, neanche tra i sospettati apparve mai il segno di uno zoppicamento o l’accenno ad un fortuito incidente. Nessuna notizia giunse mai che riguardasse ladruncoli scrittori scoperti o catturati. Insomma l’incubo sembrava essersi dissolto con le sue ferite nella nebbia dell’inverno e così come era apparso questa volta aveva scritto fine con il suo sangue. La nonna riaprì il portone, ma solo sino a mezzanotte, poi tutto si richiudeva, come una gabbia che imprigionava la sua anima.
74
Diario di un adolescente
DESOLATE TERRE Zolle pazienti non piÚ governate campi incolti di anime migranti muto canto dei geni contadini fuggiti nella lampada c’è il vuoto della memoria nel silenzio della falce e il grido della campagna si spegne su desolate terre.
75
Diario di un adolescente
LA SCARTOCCIATURA Ceste colme di pannocchie sotto il portico del fienile il giallo scartocciato nel polveroso rito. Una bottiglia di lambrusco e le note di un organetto risa di giovani e sorrisi di ragazze la luna che cerca compagnia tra baci rubati. L’oro dei chicchi che rotola tra le mani delle donne e si trasforma in polenta amore sbocciato cresciuto troppo in fretta appassito. Mi piacevano i suoi capelli che somigliavano ai filamenti setosi che si eliminano dalle pannocchie. Il mio cuore fu sepolto tra i campi di granoturco.
76
Diario di un adolescente
UN GIORNO IN SOFFITTA
ncora è indelebile il ricordo di quell’estate in cui ottenemmo il permesso di rovistare nella soffitta. Sino ad allora il nonno non lo aveva mai permesso e per noi ragazzi quel luogo si ammantava di mistero e non faceva altro che alimentare sempre più la nostra curiosità. Ma il nonno era spesso generoso e trovava la maniera di stimolare la nostra giovane età con idee straordinarie. Certo c’era un prezzo da pagare per quella eccitante avventura, quindi, come stabilito, dovemmo impegnarci a promettere che avremmo messo ordine una volta che fossimo entrati in quel posto. Si era negli anni cinquanta, eravamo ragazzini, e quella domenica mattina, ci svegliammo al suono del muggito delle mucche e alle note acute del canto del gallo, mentre i tordi già disegnavano grandi cerchi nel cielo, per poi tuffarsi affamati sul grano maturo. Dopo aver fatto colazione col latte appena munto inzuppato di polenta abbrustolita, sfilavamo tutti e sette sull’aia davanti al nonno come se fossimo un battaglione in parata ma eccitati ed entusiasti. Lui ci avvisò con molta chiarezza che desiderava che fosse fatto ordine per cui saremmo dovuti rimanere lassù sino a quando ciò non fosse stato ottenuto. La nonna ci preparò persino il pranzo dato che non si sapeva quanto tempo ci sarebbe voluto per compiere l’impresa. Un “pucén” (intingolo) con patate, carne di pollo, cubetti di pancetta, in un brodo di pomodoro, cipolla, aglio, e tante erbe aromatiche. Poi una bella polenta avvolta in un canovaccio. La nonna ci disse: “Ste mia bütàr via gnint, magnè tött” (non buttate via niente, mangiate tutto), poi aggiunse: “e ste mia bravàr cun li soliti foli; “tè, te magnà pö che mè, iv capì” (e non litigate sempre con la solita filastrocca con; tu hai mangiato più di me!) avete capito! Avevamo letto il foglio che il nonno ci aveva consegnato e su cui aveva chiaramente scritto ciò che bisognava riordinare, e raccomandandoci di scartare quello che era inutile, a meno che da noi non fosse stato considerato utile ai nostri giochi. Ciro era il più grande. E fu a lui che il nonno affidò la direzione e la responsabilità dell’operazione e noi dovemmo accettare che lui ci guidasse. Fu Antonio, il più piccolo che alzò la mano e chiese: “Ma se non possiamo scendere prima d’aver terminato dove andiamo a fare i nostri bisogni?” “Avrete a disposizione dei vasi da notte che poi vuoterete nella concimaia” Rispose il nonno tutto serio.
77
Diario di un adolescente
Allora intervenne anche Filippo con aria alquanto preoccupata: “Ma nonno, lassù farà caldo...” “Si, ma i vostri padri hanno rimosso i vetri ed ora lassù c’è un’arietta che vi farà stare meglio che all’ombra di un albero” Tutto sembrava a posto, ma il nonno volle ancora dirci un’ultima cosa prima di farci salire: “Mi raccomando, tutto questo deve rimanere un segreto, non dite nulla ai vostri amici” “Perché” Rispose Andrea. “perché i vicini meno ne sanno delle nostre cose meglio è, avete capito?” Mentre la brezza mattutina soffiava sui nostri visi illuminandoli, il nonno col fumo della sua pipa copriva gli spazi vuoti della nostra immaginazione. Ma tra di noi i segreti duravano il tempo di uno sbadiglio e quello stesso giorno durante il “FILOS” (intrattenimento serale tra amici) sull’aia con tutti i nostri vicini, Antonio non riuscì a trattenersi e raccontò tutto al suo amico che militava nella banda rivale. L’indomani, dopo aver pompato l’acqua per le mucche, servito i maiali, le galline e aver tolto dalle greppie degli armenti l’erba rimasta e stesa sull’aia, salimmo col nonno in fila indiana in soffitta. Era un mondo fantastico che apparve sotto ai nostri occhi, là nella penombra ove la polvere aveva imbiancato ogni cosa le ragnatele apparivano come argentei veli emanati da un’intrusa fata e le sagome scure degli oggetti accatastati alla rinfusa sembrava ci chiamassero per farci scoprire tesori inimmaginabili. C’era un baule, aveva quasi perduto il suo colore nel tempo, fu la prima cosa che aprimmo. Saltò fuori di tutto: Vecchi abiti d’altri tempi, libri dalle copertine scure e sbiadite, giochi di latta, attrezzi agricoli arrugginiti, maschere. Era come se in quel silenzio ovattato e in quel velo di polvere, il presente si fosse fermato e lasciasse rivivere il passato nelle voci di quelle cose che tornavano alla luce. Oggetti appartenuti a non si sa chi, in un lontano passato e poi riposti, dimenticati, forse ormai obsoleti, divenuti inutili, ma tra la penombra polverosa avevano conservato segretamente antiche storie, storie di vite passate, storie di tempi andati, ed il solo rimuoverli da quel lungo letargo mi dava una indescrivibile emozione, lasciando la fantasia ricamare favole e desideri. Ogni cosa conservava un pezzo di storia per lungo tempo narrata silenziosamente ai topi o a qualche colombo entrato furtivamente o a qualche civetta incuriosita e nella confusione creata dal lungo abbandono capii che quel luogo non era semplicemente un cimitero di cose inutili, ma un tesoro che il tempo aveva conservato, un grido, un sussurro, che veniva dal passato.
78
Diario di un adolescente
Ciro aperto il foglio con le disposizioni del nonno, iniziò ad assegnare i rispettivi compiti e obbedendo ci mettemmo all’opera. Ebbi la sensazione d’essere su un palcoscenico a recitare una parte davanti ad un pubblico fatto di oggetti d’altri tempi, spettatori misteriosi che sapevano meravigliare e stupire. La delicata carezza della poesia giaceva in quel luogo dove malinconia e stupore, storia e passato si mescolavano in un gioco d’emozioni e di meraviglia per le innumerevoli scoperte che si susseguivano. Le cose furono presto sistemate per bene ed anche catalogate. Un biglietto ne descriveva il contenuto: gli attrezzi vennero raggruppati in un unica scatola così come i vestiti e le varie altre cose ebbero ognuna il suo cartellino. Ad Antonio fu dato l’incarico di inscatolare i giochi trovati che con il permesso del nonno avevamo deciso di tenere. Fuori la calura incalzava, mentre le foglie della vite tessevano il sole, l’allodola cantava con la voce del grano, e le api ronzavano sui fiori selvatici che ondeggiavano sul prato dietro la casa. Mentre dai finestrini della soffitta fluttuavano folate di vapore profumati di polenta e soffritto, che la nonna stava preparando. Il pomeriggio trascorse in fretta, le ombre si allungavano sulle cose e sui muri screpolati, il tempo era trascorso e tutto era in ordine ora, eravamo stanchi si, ma ci sentivamo soddisfatti. La nonna ci sorprese, entrò in soffitta con un grosso tegame coperto con un canovaccio, quando lo tolse il profumo si propagò per tutto l’ambiente. La polenta abbrustolita imbottita di ciccioli, prezzemolo e foglie fresche di tarassaco, una merenda, che ci rinvigorì non solo lo stomaco, ma anche la nostra curiosità per quel magico luogo. Furono però le maschere che attirarono la nostra fantasia, le mettemmo vestimmo vecchi abiti dando sfogo all’immaginazione come se fossimo teatranti professionisti. La porta s’aprì improvvisamente il nonno entrò e dall’espressione serafica del suo viso, capimmo che si sentiva soddisfatto del nostro lavoro. Ci donò a ciascuno cento lire. Eravamo sudati e sudici e non appena scesi ci tuffammo tutti nel canale per un bagno ristoratore. La sera, durante la cena, i nostri silenziosi sorrisi di sincera contentezzafurono di grande sollievo per il nonno. Quel giorno passato in soffitta, ci aveva regalato il mondo tra le nostre mani nude. Dopo cena, fuori l’aria sembrava dormire come incantata, mentre noi ci sedevamo sul muretto dell’aia, il nonno accese la sua pipa, strofinando il fiammifero sulla suola delle scarpe, una goccia di luna scintillava da un catino pieno d’acqua prima che un gregge di nubi ne coprisse il volto, le lucciole creavano archi di luce gialla nell’oscurità, poi il nonno disse: “Allora, giovanotti, prima che la notte invecchi sui nostri occhi, vi racconto
79
Diario di un adolescente
una filastrocca, e poi tutti a letto! Siamo intesi!” Si lisciò i baffi, poi cominciò: “La vecia cucóna, la bàla e la sùna, la va in dal palàss e la sbràga i piàtt, la va in cantìna, la mola la spina, la va in cà e la fa i turtèi, l’han da gnint ai sö fradèii; i sö fradèii i fa la panàda e in da gnint a la vecia plada; la vecia plada la va in dal foss e la sla fa tötta adòss”. Quell’esperienza ci aveva lasciato qualcosa di più che una semplice gioia. Ciro fu il primo che riuscì a trarne un modo nuovo per trascorrere il tempo, e ci coinvolse tutti in quella sua straordinaria idea. Così alla fine dell’estate mettemmo in scena un piccolo spettacolo teatrale per i nostri amici e familiari e fu un tal successo che dovemmo replicare l’esibizione più volte. Avevamo scoperto un nuovo modo d’apprezzare la vita un nuovo linguaggio che ci consentiva di volare ma allo stesso tempo rimanere con i piedi in terra. Fu inevitabile per il Natale presentare uno spettacolo durante il “FILOS” nella stalla, e fu un’impresa prepararci per l’occasione del carnevale dell’anno successivo ma questa volta in paese nel piccolo teatro della parrocchia. Poi, così come era nato e cresciuto, tutto finì. Un lungo giorno trascorso in soffitta aveva dato slancio alla nostra fantasia trasformando la solita lunga e pigra giornata estiva in qualcosa di estremamente eccitante, poi al molo del tempo attraccammo i nostri preziosi ricordi.
80
Diario di un adolescente
FANTASIA Sogni come bimbi sperduti. L’immaginazione ha il volo dell’angelo è un lampo che varca i mari dove rischiamo di naufragare. Ci sono tenebre che hanno divorato le nostre illusioni, e pregiudizi che sommergono la nostra felicità. E l’inestinguibile fonte che disseta il poeta l’acqua sbalorditiva che preserva dalla ragione lascia impronte variopinte ed induce ad attraversare spazio e tempo e piange per la generazione che non osa attraversare l’orizzonte neanche col pensiero a nuoto.
81
Diario di un adolescente
DENTRO La pace della natura filtra come luce del sole tra il fogliame il vento marca la sua forza e le pene si staccano come foglie l’unico luogo dell’universo dove l’anima impara che la bellezza è in tutte le cose e i sogni si illuminano non è difficile arrivare basta scendere dentro noi stessi.
82
Diario di un adolescente
VIGILIA DI NATALE
l mese di dicembre era il nostro periodo più amato. Tutto contribuiva a rendere l’atmosfera straordinariamente magica: la neve, l’allegria delle vacanze, la grande attesa. La sera che precedeva la notte di Santa Lucia, fervevano eccitanti preparativi, e noi ragazzi sognavamo ad occhi aperti. La Santa, passando, sarebbe entrata per riposarsi e ristorarsi. Sedendosi avrebbe gradito la torta paradiso preparata appositamente per Lei dalle esperte mani della nonna. Era necessario che tutto fosse in perfetto ordine. A quei tempi si conservava ancora la semplicità delle cose e l’osservanza delle antiche tradizioni anche se la miseria ingialliva le mura e le modestissime stanze della casa. Nella vasta cucina l’arredamento era alquanto modesto; c’era un mobile adattato all’esigenza, metà credenza e metà madia, un tavolaccio enorme ed una vecchia stufa di pietra rossa con il frontale piastrellato dal quale pendevano coperchi, mestoli, pentoloni e tegami d’alluminio. Le innumerevoli sedie di paglia erano sparse intorno e dalla nera trave del soffitto pendeva una lanterna a petrolio che all’occasione veniva lasciata accesa durante la notte di Santa Lucia e per la vigilia di Natale. Era come una minuscola luna giallastra semi appassita che diffondeva la fioca luce della speranza. Il dodici dicembre (vigilia della notte di Santa Lucia), per noi ragazzi c’erano importanti incarichi da svolgere: pulire bene le proprie scarpe era la prima cosa, e poi era doveroso preparare con cura una scodella d’acqua ed una di crusca dopo aver pulito per bene i davanzali delle finestre dove questi sarebbero stati deposti con attenzione. Sarebbero serviti alla Santa per ristorare il somarello con cui viaggiava. C’erano, inoltre, da preparare le letterine che sarebbero, in seguito, state nascoste sotto il piatto dei nostri padri e quella dedicata alla Santa per ringraziarla delle Sue benedizioni. Quest’ultima veniva infilata nelle scarpe lasciate pulite sul davanzale. La nonna usava lasciare sul tavolo un piccolo cesto contenente un mazzolino di carote ed uno di prezzemolo e ci spiegava che se l’animale sceso dal cielo per accompagnare la Santa avesse gradito il modesto dono, avrebbe benedetto tutti gli animali della casa per un anno intero. L’anziana zia brontolava rimproverando a sua sorella di tenere la nostra fantasia ancorata sotto una campana di vetro e lontana dalla realtà, ma la nonna, con la sua proverbiale calma sapeva come risponderle e senza scomporsi era solita risponderle: “non preoccuparti, c’è sempre tempo per ogni cosa”. “Le nostre virtù somigliano ai nostri vizi! Il nostro buon Dio, quando
83
Diario di un adolescente
sarà sceso, farà fatica a distinguere i cattivi ragazzi dai santi della famiglia, ammesso che ve ne siano!” Replicava la zia, suscitando l’ilarità delle nostre madri che non riuscivano a trattenersi dal ridere. Ci avevano insegnato che era importante per noi ragazzi recitare le preghiere serali. Al ritmare dei grani del rosario della nonna, alla tenue luce di una candela sussurravamo le orazioni consegnando i nostri sogni e tutti noi stessi nelle mani di nostro Signore. Fuori il cielo, coricato sulla campagna come un mendicante stanco, era di una solitudine crudele; pareva che le case attorno, avvolte nel grigiore freddo tossissero. Quella notte faticammo a prender sonno: il freddo si faceva sentire ed il buio sembrava avere una densità metallica ed arcana. Sussultavamo ad ogni impercettibile rumore ma nessuno aveva il coraggio di aprire gli occhi. Soltanto nostro cugino Antonio, che era il più piccolo, osava sfidare il buio e con quella sua esile vocina che tradiva una incontenibile impazienza: “Mamma è arrivata?” Noi seguivamo i segnali della notte: i ticchettii, gli scricchiolii delle travi, il fischio del vento, lo sbattere delle imposte. Eravamo giovani, soli e poveri, non restava altro che ricamare la modesta esistenza con orli di sogni e fantasie con fili di gioiosa speranza. Giunse il mattino. Ci levammo presto, l’alba saliva e lentamente bussava sui vetri ghiacciati delle finestre. Tutta la famiglia si radunò nella cucina dove la vecchia stufa covava il suo rosso cestello di calore con una fiamma allegra e generosa. Noi ragazzi in mutande eravamo ansiosi di recuperare le scarpe dai davanzali ghiacciati e riempirci le mani dei doni. Questi erano cose semplici, e certamente non rispecchiavano ciò che avevamo osato chiedere con le nostre letterine: c’era un sacchetto di “stracadént” (un biscotto assai duro, con mandorle tritate, zucchero, farina di mais e albume d’uovo, impastati con mezzo bicchiere di latte, sagomati e poi cotti al forno). C’erano anche due mandarini, un sacchetto di mentine colorate, un carrettino di legno dipinto trainato da un cavallino di terra cotta. Per le femmine, una bambola di stoffa e il cartoccio della pannocchia di granoturco e poi dipinte. Spesso trovavamo delle statuine per il presepio in terracotta. Eravamo abituati a non avere molto, e tutto ciò, anche se non corrispondeva ai nostri sogni o desideri, ci rendeva ugualmente felici e soddisfatti come se tutto il mondo fosse stretto nelle nostre mani, che fremevano nel ricevere quel tesoro. Durante la settimana che precedeva il Natale, dopo la scuola, terminato il pranzo, tutti e sette ci recavamo in campagna armati di secchi e spàtole per raccogliere il muschio necessario per il presepe. La densa nebbia attutiva i suoni ed un vento gelato ci segnava mani e piedi incendiando i nostri nasi come peperoni. Il nonno, al nostro rientro, aveva preparato un angolo in cantina dove sul pavimento in terra battuta erano stati stesi dei sacchi di canapa che avrebbero assorbito e sciolto il
84
Diario di un adolescente
gelo dal muschio. La nonna aveva preparato due larghi tavoli nell’andito della casa. Mancavano soltanto quattro giorni a Natale. Per la sera della vigilia tutto doveva essere in ordine. Nei giorni che seguirono il presepe fu realizzato sotto il vigile ed esperto controllo del nonno e del bisnonno. Nei loro occhi così severi impercettibili lampi di luce guizzavano come faville ed su quei volti incupiti dal tempo, avvolti dalla bianca nuvola che si levava dalle loro pipe, le labbra si piegavano in un sorriso soddisfatto. A Ciro, il cugino più grande era sempre affidata la regia, mentre ad Antonio, il più piccolo, veniva concesso l’onore di adagiare Gesù nella culla la notte della Vigilia dopo la benedizione della tavola imbandita. Per tutta la settimana in cucina vi fu un incredibile via vai ed i profumi e gli aromi ci facevano venire l’acquolina in bocca, senza descrivere le lamentele dei nostri stomaci e le insistenze della nostra golosità. Con la complicità del nonno e del bisnonno che distraevano con un espediente le donne addette alla cucina, a turno piombavamo ai fornelli dove bolliva la pentola con lo stracotto dei cappelletti ed armati di un bel pezzo di pane, sollevato furtivamente il coperchio, lo si intingeva velocemente, prima di scappare come fulmini. Il trucco però non sempre riusciva e qualcuno di noi veniva colto con le mani nel sacco. Erano sonori scapaccioni, ma ne valeva sempre la pena di correre il rischio. Abituati ad un regime alimentare alquanto povero e modesto ci sentivamo conquistati ed attratti dagli odori e dai sapori di tutto quel ben di Dio. Il mattino del ventiquattro si presentò grigio ed opaco. Su tutta la campagna aleggiava ovatta argentata ed intorno le case erano accucciate tra il gelo, solo un po’ di fumo si levava dai camini scuri, ma il vento spazzava i cattivi pensieri e lasciava impronte di speranza. La colazione fu breve e leggera, bisognava digiunare sino a sera. A turno noi ragazzi fummo i primi a farci il bagno dentro “li suiöli” (mastelli di legno) dentro la stalla tra il caldo muggire delle mucche. Gli uomini seguirono non appena terminati i lavori della stalla. Gli ultimi furono il nonno e il bisnonno poiché loro spettava il compito di scaldare l’acqua nel paiolo sotto il portico. Per la Vigilia, era tradizione di indossare qualcosa di nuovo. La nonna diceva che bisognava farlo per onorare quel Bambino sceso tra noi povero per realizzare i nostri sogni e speranze. Il pomeriggio volò via velocemente in un crescendo di preparativi. I tavoli furono sistemati a ferro di cavallo ed imbanditi e la povera cucina brillò di una luce tutta sua che la faceva apparire come una reggia. Sulla tovaglia di pizzo, piatti colorati e luccichio di cristalli e la famiglia al completo in quel momento fu come cinta da una cappa di luce calda e confortante dove le voci che si intrecciavano sembravano note di una misteriosa sinfonia e le storie si susseguivano dipingendo quadri colorati di una semplice e modesta vita contadina. “DEO SINTORIO A MINTENDI” (Deus in auditorium meum intende) intonò la nonna col rosario tra le dita, con quel suo latino sgangherato, prima di sedersi
85
Diario di un adolescente
a tavola. “Dome vantum me destina” (Domine ad aiuvandum me festina), rispondevamo in coro sempre in quel gergo incomprensibile. Poi le candide mani tremanti snodando il rosario le si adagiarono sul grembo come stanche colombe ricordando uno dei suoi figli morto in guerra. A me parve che celesti figure si aggirassero tra noi da un angolo all’altro della stanza come volessero proteggerci e benedirci o condividere con i presenti l’intensità di quegli attimi benedetti agitando le loro bianche ali invisibili. Antonio emozionato depose il Bambino nella sua culla e la nonna benedì il presepe e la tavola. Ma c’era ancora qualche rito che doveva essere compiuto, ed era importante che ciò avvenisse al più presto. Afferrato un vassoio, la nonna vi depose un piatto di tortelli di zucca, un bicchiere di vino ed uno d’acqua, alcune fette di torta con qualche mandarino ed un pugno di arachidi. Coprì il tutto con una tovaglia rossa e lo depose davanti al portone. In quella notte il cielo si mescolava con la terra, gli angeli ed i defunti che transitavano per andare ad onorare il Cristo si sarebbero fermati. Sulle finestre vennero accesi i lumini per illuminare il cammino. Tutta la famiglia stretta intorno alla tavola si rallegrò alla luce delle candele accese sul collo di due bottiglie che illuminavano il presepio. Poi il profumo dei tortelli di zucca con sugo attirò l’attenzione di tutti. Fuori la campagna lentamente si andava imbiancando. Nella cucina il fuoco ardeva e crepitava: “Ascoltate!” Esclamò la nonna improvvisamente “Forse un angelo sta passando, la sua canzone si ode, sta annunciando il Salvatore”. Noi leggemmo le nostre letterine, si completò l’attesa magica, ma non dissipò mai l’incanto.
86
Diario di un adolescente
PRIGIONIERO ANCESTRALE La vita lascia spesso a mani vuote ricama orli di incertezze per le mancate occasioni Avere il cuore di un bambino con il fremito delle tue labbra ma il mio pensiero è un gabbiano senza ali e senza amore perso nel vuoto prigioniero ancestrale di rimpianti e infinite attese di storie piantate sul corpo e stringo la mano alla notte che cammina con me.
87
Diario di un adolescente
ESTATE SUL PO Tra i grovigli dei rami merletti di luce ed ombre e il canto del merlo che si nasconde. L'onda spumosa che bacia la riva il giallo sussulto di gaggia impazzita e l'argine s'offre al tramonto arrossato come segreto diario di infanzia lontana e l'anima leva un canto beato alla giovinezza che tra i pioppi ho perduto.
88
Diario di un adolescente
UN INVERNO PARTICOLARE
iniva l’estate. Con lei salutavamo le calde giornate spensierate di giochi, di corse in bicicletta sugli argini, di tuffi tra il frinire della campagna. Iniziava la scuola svogliatamente e solo nostro cugino Filippo mostrava una dedizione straordinaria per quelle materie da noi tutti ritenute di una noia infinita. Chiusi ore seduti per apprendere regole che non facevano altro che farci rimpiangere le corse all’aperto. Come ogni anno, notavamo l’arrivo di gente nuova che veniva ad insediarsi nelle corti vicine. Erano mezzadri o biolchi che per mantenere la loro famiglia accettavano di lavorare a dure condizioni. Verso l’undici di novembre di quell’anno una di queste nuove famiglie prese il posto di una che conoscevamo bene e che era stata cacciata dal padrone perché il capo famiglia aveva osato tagliare un vecchio tronco ormai secco, per poter fare legna e riscaldare la sua vecchia madre malata. Ciò era stato ritenuto un furto e al poveruomo, con tutta la sua famiglia, fu imposto di abbandonare la casa. Gli fu sequestrato il maiale e le poche galline che erano l’unico sostentamento di quella povera gente. In quei momenti le ombre sembravano incupire il cielo che avvolgeva la campagna come un nero sudario. La nuova famiglia era composta da sei elementi: padre, madre e quattro figli: due maschi e due femmine. Il più grande dei ragazzi aveva quindici anni, come nostro cugino Ciro. Si chiamava Tristano. Aveva i capelli ricci come sua madre ed un sorriso gentile; presto scoprimmo che era simpatico e socievole. Non andava più a scuola perché al compimento dei suoi quindici anni e dopo aver conseguito il diploma di quinta elementare, suo padre preferì averlo come aiuto nel suo lavoro ripetendogli spesso che quattro braccia valevano più di due. Ma il giovane aveva un difetto fisico provocato da una rara malattia che gli aveva curvato la colonna vertebrale rendendolo gobbo. Questo almeno era ciò che gli avevano detto i suoi famigliari. Quando Gabriele, il capobanda, dopo alcuni giorni ce lo presentò, alcuni di noi sorrisero, ma Ciro con una occhiataccia fece sparire ogni ilare commento. “Lasciali pure ridere” intervenne Tristano a cui non erano sfuggiti quegli stupidi risolini. “So benissimo di portarmi dietro qualcosa che suscita il riso, ma in compenso ho qualche cosa che voi non avete”. “Che cosa sarebbe questa cosa che noi non avremmo?” chiese Ciro. “Un attimo di pazienza e ve lo mostro” rispose Tristano e con una mossa repentina ma di una sfrontata
89
Diario di un adolescente
naturalezza si calò le braghe e le mutande sorridendo. “Questo!” disse e tutti rimanemmo sbalorditi senza parole. “Grande!! Il doppio del mio” disse Pietro tra lo sconcerto e la meraviglia. “Vaca ma che làur, al par al tòr cha gòm in dla stala” (caspita ma che lavoro, sembra il toro che abbiamo nella stalla) esclamò Filippo e ognuno dei presenti che aveva formato un cerchio ebbe modo di esternare la propria meraviglia. “Ma è vero o finto? Al par al managh d’an badèl” (sembra il manico di un badile) disse incredulo Antonio che era il più piccolo e fu così invitato da Tristano a toccarlo, cosa che fece senza scrupoli dopo aver fatto una grande risata “Che schif!”. Aggiunse poi: “Al par un gross ligur” (grossa lucertola). Risero tutti, ma Gabriele invitò il giovane a ricomporsi. Tristano aveva, nonostante la sua età, un pisello e dei testicoli veramente enormi. Ci raccontò che fu il padre a fargli coraggio, dicendogli che non si doveva sentire inferiore a causa della gobba, anzi un giorno sarebbe stato lui a ridere degli altri. Si integrò molto bene nel branco e dopo neanche un mese dal suo arrivo sembrava essere stato sempre uno di noi. Lo avevamo soprannominato: “Al Tòr” (il toro) e a lui non dispiaceva affatto. Sembrava indifferente alle ilari osservazioni delle ragazze, forse per quel suo carattere semplice e gentile che gli consentiva di non farci caso, anzi accettava lo scherzo con una disinvoltura disarmante. Il cugino di Gabriele, Armando, a volte gli diceva: “Posía tucàrat la goba cla porta furtüna” (posso toccarti la gobba che porta fortuna) e lui sorridendo acconsentiva non curandosi delle risa. Antonio, nostro cugino, e quello di Gabriele, Silvano, chiesero al gobbo di fargli vedere ancora il pisello, ma Ciro severamente insorgeva “No! Assolutamente no! Non è mica un baraccone da fiera”. Ma Tristano non si offendeva. Forse per paura di non essere accettato, sopportava questi compromessi e con naturalezza mostrava la sua mercanzia: “Non crediate che me ne abbia a male, certamente sarei più contento di mostrarmi ad una bella ragazza e magari sarei lieto di portarle fortuna”. Quando dava queste dimostrazioni lo faceva mostrando sicurezza ed una profonda ironia, facendo ridere tutti, soprattutto Ciro e Gabriele, ma in verità lo faceva per togliere e spazzare via ogni tentazione di compassionarlo. In quel piccolo mondo contadino, semplice e abituale, sentivamo tutti la necessità di avere nuove storie ed avventure per allontanare le paure di quella realtà cruda e a volte difficile. Alcuni giorni prima di Natale ci trovammo un pomeriggio sotto il nostro portico seduti sulle balle di paglia, ma Tristano era triste se ne stava in disparte e a nulla valsero i nostri tentativi di coinvolgerlo nella corsa con gli slittini. “Tristano perché non parli?” chiese Ciro, “Non ti piace più stare con noi?” “Oggi sono stato in paese a comprare le sigarette per mio padre...” Rispose a testa china.
90
Diario di un adolescente
“I ragazzi mi credono un disgraziato perché sono gobbo” Matteo si alzò e serio disse: “Quando ti prendono in giro tu calati le braghe e falli vergognare”. “Ma va là!” lo riprese Gabriele, “Non può mica tirarsi su e giù i pantaloni come se fosse un maniaco per mettere a tacere degli imbecilli: fregatene Tristano, tu vali molto di più”. “Ben detto!” aggiunse Filippo. “Grazie per la vostra comprensione, ma conta poco, voi non avete questo orrore sulla schiena a rendervi diversi”. “Non devi dire così!” disse Pietro “Noi ti abbiamo accettato come sei, non ti abbiamo mai sentito diverso”. “Solo perché ho avuto il coraggio di abbassarmi i pantaloni” “Stai esagerando” disse Ciro. “Non volevo offendere nessuno, lo feci con rabbia, perché voi siete così perfetti, mentre io continuo a sentirmi handicappato su tutto”. “Nessuno è perfetto” e lo riprese Gabriele. “Noi ti abbiamo accettato prima di ogni cosa. Sei tu che vuoi dare importanza ad una cosa e ci hai mostrato ciò che forse noi non avremo mai. Sta a te dunque decidere se vuoi rimanere nostro amico o mollare tutto”. “Voltiamo pagina, non ne parliamo più” disse Tristano nuovamente sorridente, come se le parole di Gabriele avessero prepotentemente spazzato via del tutto i foschi pensieri. Lontano udii Mariano e Gianni borbottare e non riuscii a capire se desiderassero che Tristano se ne andasse o restasse nel gruppo. Ricordo però che dai nostri due capi presero subito due scapaccioni. Quella sera, ricordo che raccontammo tutto al nonno che rise di cuore; ma ciò che ci disse non potrò mai dimenticarlo: “Ricordatevi che si entra in punta di piedi nella vita, c’è sempre il mistero a disegnarne i contorni. La natura stessa è un mistero: sa donare e togliere sempre sapientemente. Fortunato chi riesce a guardare sempre avanti senza dare importanza alle etichette, ai giudizi e alle valutazioni ipocrite degli altri”. Le fiamme del camino creavano ombre magiche sulle travi e sulle pareti della vecchia casa, mentre fuori il vento tamburellava contro i vetri. Ci accorgemmo che iniziava a nevicare e ci fu gioia grande. Il giorno seguente non riuscimmo ad uscire di casa per la gran quantità di neve che aveva coperto ogni cosa. Ne fummo felici perché per questo anticipammo le vacanze di un giorno. Era il ventitré dicembre, il giorno prima della vigilia e cadeva di sabato e rimanemmo chiusi in casa. Passò un trattore per togliere la neve e pulire le strade e poi giunsero due biciclette ed i cani usciti dalle cucce abbaiarono con insistenza. Era il parroco del paese seguito dal sagrestano. Erano venuti a vedere il presepe per la gara e per benedirlo. La nonna consegnò loro alcuni prodotti della campagna. Uscimmo subito dopo col nonno sull’aia e con pala e badili aiutammo a togliere la neve.
91
Diario di un adolescente
Giunsero in quel momento i nostri amici della banda. Il nonno con i pantaloni sin quasi alle ginocchia avvicinatosi all’argine aveva tracciato una striscia sulla quale noi avremmo gareggiato con gli slittini dalla sommità dell’argine sino alla base. Alcuni di noi iniziarono a schiacciare la neve ed altri la pareggiavano con delle assi. Tra gli ultimi arrivati c’era anche Tristano a cui il nonno chiese aiuto per creare una canalina ai lati della pista per far defluire l’acqua, poi bagnammo la neve che si sarebbe trasformata col gelo in ghiaccio. Così impegnati il tempo trascorse in fretta e giunse la voce della nonna che ci chiamava per il pranzo a cui furono tutti invitati. Dopo pranzo eravamo nuovamente in trincea a terminare il lavoro iniziato. Prestammo attenzione ai consigli del nonno su come usare nel modo giusto gli slittini per evitare di farci del male, e non esitò a raccontarci alcuni aneddoti della sua giovinezza. Lui era stato un provetto nuotatore ed aveva persino vinto alcune gare importanti a livello nazionale ed aveva anche effettuato delle traversate del Po. Ma i tempi erano duri. Non c’erano soldi e si soffriva la fame, dovette dividere i pochi soldi con i fratelli e per tirare avanti andò persino a rubacchiare qualche frutto nei giardini dei vicini. Un velo di tristezza increspò il suo sguardo mentre raccontava e improvvisamente si interruppe come se il ricordare rievocasse l’antico dolore e l’orrore di quella terribile guerra che gli rubò ambedue i genitori lasciandolo solo a prendersi cura dei fratelli. Ad accendere nuovamente l’allegria fu la merenda preparata dalla nonna. Il profumo del vino cotto si impadroniva dell’aria e le calde fette di polenta abbrustolite attrassero la nostra attenzione. Furono risa e scorribande in quel crepuscolo che indorava la campagna, ma un vento gelido preannunciava nuove nevicate. Quando rientrammo in casa il tanfo di suole bagnate si sparse intorno e la nonna ci impose di toglierci le scarpe prima di infilarci nei mastelli di legno per il bagno. Dopo cena andammo fuori con il nonno ad ammirare la meraviglia del cielo stellato, una manciata di cristalli e d’argento gettata sulla volta notturna che sembrava pulsare in una danza magica. La luce della luna carezzava la campagna spiando tra le fronde degli alberi. Filippo prese una manciata di neve e la infilò nel collo di Antonio che reagì piangendo e urlando. Il nonno lo capovolse a testa in giù come una bambola di pezza per far uscire la neve e poi ridemmo tutti di cuore “Dove ci sono troppi galletti non fa mai giorno” disse prima di mandarci tutti a letto. Il mattino della vigila di Natale faceva freddo, la temperatura era notevolmente scesa. Prendemmo gli slittini dalla cantina e ci avviammo sull’argine aspettando i nostri amici. La neve suonava sotto i nostri passi e la casa sembrava sospesa sulla bianca distesa. Gabriele e la banda furono puntuali e lo fu anche Tristano, che per l’occasione fu dispensato dal padre dal governo degli armenti.
92
Diario di un adolescente
Demmo inizio alle gare senza perdere altro tempo, scendendo dall’argine sulla pista che ora sembrava bella ghiacciata, al massimo della velocità. Avrebbe vinto chi non si fosse mai capovolto. Ciò fu impossibile, più o meno a tutti capitò di ribaltarsi su quella pista realizzata da noi. Tra lo stupore e la meraviglia di tutti, invece, il vincitore risultò essere, proprio Tristano. Fu un pomeriggio meraviglioso. Stanchi e trafelati, con le guance infuocate, al ritorno ci sentivamo euforici, ma in realtà sfiniti e malvolentieri affrontammo l’usuale bagno nei mastelli prima della cena. Pregammo insieme prima che i tortelli fumanti giungessero sulla tavola. “Dèo sintòrio a minténdi” (deus in auditorium meum intende) la voce della nonna in quel latino sgangheràto in cui tutti rispondevamo: “Dòme vàntum me destina” (domine ad aiuvandum me festina). La luce della lanterna ricamava i nostri pensieri mentre il rosario della nonna cessava di scorrerle tra le dita. “Domani sarà un giorno nuovo, ci sarà un sorriso in più tra di noi; sarà quello di nostro Signore Gesù” disse la nonna riponendo il rosario nella tasca del grembiule. La neve continuava a cadere e lo fece per tutta la notte seppellendo la campagna; il Natale ci parve più bianco del solito, ma ci fu proibito in quell’occasione di far uso degli slittini. La tentazione però era troppo forte ed alcuni di noi, non resistendo, disobbedirono per andare furtivamente con gli amici sull’argine. Armando, cugino di Gabriele, e nostro cugino Antonio, il più discolo, scesero dalla parte opposta. Armando finì tra i rami di una gaggia graffiandosi tutta la faccia e strappandosi i pantaloni con brutte ferite alle gambe, mentre Antonio finì nell’acqua ghiacciata rimanendo incastrato. Aveva appena terminato di fare colazione per cui rischiava una congestione oltre ad altre conseguenze. Iniziò a gridare disperato attirando subito l’attenzione degli altri. Pietro si affrettò a chiamare il nonno che accorse prontamente con i nostri padri. Antonio sembrava svenuto. “Andè sübìt a far un büs in dla masa!” (voi andate subito a fare un buco nella concimaia presto) ci disse il nonno mentre agli altri ordinava di soccorrere Armando e di accompagnarlo in casa. Gridando più volte il suo nome, il nonno estrasse Antonio dal ghiaccio mentre la madre del piccolo gridava disperata. Spogliato Antonio, velocemente il nonno lo immerse nel buco della concimaia sino al collo coprendo il capo con il suo giubbotto per impedire che il letame coprisse il viso. Nel frattempo tutti accorsero agitati e preoccupati. Trascorremmo il giorno di quel Natale attorno alla concimaia e con l’apprensione sul volto di tutti. Antonio non sembrava dare segni di ripresa, soltanto il nonno riusciva a restare calmo, consapevole che quel rimedio, avrebbe dato i suoi frutti. E con tutta fermezza cercò di tranquillizzare i presenti. “Il calore prodotto all’interno è in grado di rimettere in sesto il ragazzo, siatene certi” e continuava a ripetere mentre intorno le donne pregavano. Poi si udì un verso di
93
Diario di un adolescente
rigurgito, Antonio vomitò ed iniziò a gridare: “Tirèm föra dad chè cha sum dré brüsàr da par tött”! (tiratemi fuori di qua che sto bruciando dappertutto). Nel frattempo la nonna aveva preparato un paiolo di acqua bollente con cui riempì un mastello per lavare i ragazzi. Sia Antonio che Armando furono ripuliti nella stalla e noi rimanemmo muti e increduli come pesci che con sorpresa scoprono di aver ingoiato l’amo da un pezzo. I nostri pensieri frullavano nelle teste insieme ai ricordi come uccelli che fuggivano dalle gabbie. Seguirono giorni tranquilli e trascorremmo serenamente il resto delle vacanze, anche se tormente di neve continuavano ad infuriare e il sibilo del vento si univa al latrato dei cani. l’uso degli slittini ci venne tassativamente vietato dai nostri genitori e gli unici momenti in cui potevamo spaziare con la fantasia erano quelli che trascorrevamo al filos (intrattenimento serale) che si teneva nella stalla insieme ai vicini. Il “Gasàröl”, il cantastorie raccontava il mondo da una cascina all’altra. La sua barba bianca gli donava un’aria speciale, quasi magica, che ci spingeva a sognare: con le sue storie era per noi come sognare o leggere un libro. Era esattamente come uno specchio in cui ognuno di noi vi vedeva riflesso il prodotto della propria fantasia. Il tempo sembrava arrestarsi per regalarci arcane atmosfere ricamate di sogni.
94
Diario di un adolescente
FINE DI UN IMPERO
n altro capitolo della nostra vita stava per finire. Nell’aprile del 1962, dopo alcuni eventi, la famiglia decise di separarsi. Era la fine di un impero. Così, almeno, ricordo di aver associato quei giorni nella mia fantasia. Il nonno e il bisnonno se n’erano andati in silenzio alla fine di gennaio. Un grande re e suo figlio avevano abbandonato per sempre il regno che era rimasto nel vuoto senza guida. C’era un dolore che trasudava da ogni cosa e bruciava come una stella incandescente. Furono giorni opachi, ovattati di silenzi e s’aveva l’impressione che la vita scivolasse senza suoni, senza colori, come sabbia spazzata via dal vento. Noi, piccoli dei che avevamo bevuto le gocce dell’universo dalle coppe dei gigli e avevamo goduto di un olimpo contadino di gioie ed aromi di vigne e di grano, di zolle e d’erba, ora eravamo precipitati improvvisamente nella realtà dolorosa di quei momenti dove ogni certezza sembrava fosse sparita. Ciro, il cugino più grande, compiva 19 anni ed aveva iniziato a fumare. Era stato chiamato per la visita militare e s’era fidanzato con una ragazza del paese. I nostri giochi erano finiti. Nell’autunno di quell’anno i nostri sorrisi spensierati si sarebbero infranti contro i muri grigi di città avvolte nella noia. Il mondo che stava cambiando sembrava dimenticarsi delle antiche tradizioni spogliando i giorni d’amore e rispetto. Capimmo che non avremmo più lasciato le nostre orme sulla terra sotto la vastità del cielo. Anche Filippo aveva trovato la ragazza, aveva perso la testa per lei; non studiava più e dopo cinque mesi di ragioneria, si ritirò lasciandosi coinvolgere dai mille problemi quotidiani. Suo padre gli trovò un posto in una carpenteria del paese. Quando giunse la primavera mostrò la sua veste sgualcita quasi desolata. Alcuni di noi già lavoravano ed imparavano il sapore della fatica. I primi di maggio, un pomeriggio ci ritrovammo in tre seduti sotto il portico per una partita a carte; io, Pietro ed Antonio. Eravamo come le ultime radici di un albero che si avvinghiano alla terra. Antonio d’un tratto udì dei mugolii provenire dal fienile; “A ghè di gatt in-sal fnel andóm a véddar” (ci sono dei gatti nel fienile andiamo a vedere). In un attimo salimmo lo scalone. Antonio delicatamente si sporse da una colonna per sbirciare, poi ci fece segno di avvicinarci. “Venite, presto!” e a noi parve di udire dei sospiri.
95
Diario di un adolescente
Quando lo raggiungemmo scoprimmo Filippo coricato sul fieno, seminudo, e abbracciato alla sua ragazza. L’estate calò improvvisa, calda, soffocante. L’ultimo acquazzone c’era stato ad aprile e la terra gridava dalla sete come le rane che desideravano refrigerio gracchiando giorno e notte. I nostri genitori avevano svuotato la stalla, era rimasta soltanto una mucca per il latte quotidiano, tutti gli altri armenti erano stati venduti ai vicini. La nostra famiglia attendeva soltanto il momento in cui si sarebbe raccolto il frumento, il granoturco e l’uva a settembre, poi la corte sarebbe stata abbandonata al suo destino. Erano gli anni in cui le campagne si andavano spopolando. Si accorreva nelle fabbriche dove per guadagnare non si doveva più tribolare. Si abitavano case cittadine in cui c’era l’energia elettrica, il frigorifero, la lavatrice, e l’autovettura per la domenica libera. Tutto ciò disintegrava i sogni e tagliava le ali della nostra libertà che ci permetteva di vivere al passo con le stagioni, di assaporare il nettare delle albe e dei tramonti di un mondo contadino che stava scomparendo. Non avremmo avuto più la magica sensazione di perderci nel giallo oceano dei campi di frumento o udito il canto del gallo e neanche la tenerezza di veder spuntare il primo filo d’erba o la magica atmosfera che s’accendeva d’inverno e dove a stento si riconoscevano le voci sparse tra la nebbia. Mi sentivo confuso. Cresceva in me un colore malinconico di una improvvisa partenza, con la dolorosa consapevolezza della fine di un mondo forgiato con i sogni dell’adolescenza. Mi resi conto dolorosamente dello sgretolarsi inevitabile di una grande famiglia che aveva regnato in una corte contadina regalando collane di gioie e spensieratezza. Piansi, e furono lacrime di rugiada, frecce di luce lanciate al tramonto, pennellate calde di cieli di campagna che non avrebbero più cantato con la stessa voce. I giorni trascorrevano. Niente più bagni nel canale tutti insieme, ma solamente io, Antonio e Pietro, gli ultimi. Non giocavamo più con le fionde, ne’ si cantava sotto le fronde degli alberi. Non trovavamo neanche l’ombra che ci forniva il solito refrigerio, il canto degli uccelli non ci rallegrava più e si rimaneva muti all’indifferenza del vento. Qualche volta ci recavamo nelle corti vicine dove nelle sere estive i giovanotti cantavano per le ragazze e noi li prendevamo in giro. Ma così come s’era spenta la voglia di pescare, anche quello scherzo sembrava senza sapore quando si apprendeva che anche i nostri vicini stavano per andarsene. Gabriele si era trasferito a Milano per fare il tassista con suo zio e nessuno di noi lo rivide più. Tristano “il gobbo”, ultimo giunto nella nostra banda, aveva messo incinta una ragazza e s’era sposato, suo padre aveva acquistato per lui un piccolo podere. Tutto si frantumava trascinando molti in una avventura che avrebbe deturpato il paesaggio in cambio di sfrenati consumi. I facili guadagni, il cosiddetto progresso stava diabolicamente divorando gli usi, i costumi e le tradizioni e con loro appas-
96
Diario di un adolescente
sivano i fiori della poesia, del rispetto, della solidarietà e dell’amicizia. Ogni giorno dolorosamente, non potevo far a meno di imbattermi nelle forti contraddizioni che permeavano questo nuovo mondo. Le persone m’apparivano come bianchi fogli di carta dove non apparivano che cifre e calcoli di interessi e nuove parole come profitto, capitale, proprietà, benessere, prendevano il posto di semplicità, fatica, amore per la terra, solidarietà, moralità. La campagna aveva insegnato agli uomini ad alzare gli occhi al cielo, a guardare la luna e le stelle, il sole, le nuvole, ad apprezzare pioggia, vento, gelo, nebbia, a capire le stagioni rispettando le piccole cose che compongono la grandezza che ci circonda. Questo presente mi sfuggiva, il mio vecchio mondo si stava staccando dalla mia mente come un’etichetta quando viene sostituita con un’altra. Lo sapevano bene anche le donne della famiglia che erano state le padrone incontrastate della casa. Principesse senza corona ma con vesti di regale dignità, abili nel dosare abilità, astuzia, dolcezza e a soggiogare gli uomini anche con la loro pacatezza. Anni di servilismo, anni di svergognata supremazia maschile; ora gridavano pretendendo il giusto riscatto. La frenesia del cambiamento andava ad aprire una porta attraverso la quale s’entrava in un nuovo mondo che avrebbe portato nuove contraddizioni e nuove problematiche. Antonio aveva compiuto tredici anni ed era divenuto alto e robusto, tanto da sembrare più grande. Nonostante ciò aveva conservato una mente da fanciullo, per questo a volte le sue marachelle venivano perdonate. Suo padre l’aveva colto mentre si masturbava con due suoi amici nel mezzo di un campo di mais. Era così anche per tutti noi che scoprivamo innocentemente il palpitare del nostro corpo. Ai primi di agosto, Ciro partì per il servizio militare, mentre Filippo partiva per fare i tre giorni a Piacenza. Le nostre cugine più grandi si erano sposate tutte e due a luglio; fu un momento felice. Il raccolto del grano prima e del mais dopo, furono abbondanti. Ma la poesia di quei momenti scomparve del tutto. Mostruose macchine avevano cacciato gli uomini prendendone il posto. L’aia che una volta si riempiva di gente per la trebbiatura o la scartocciatura rimase muta e vuota. La famiglia si assottigliò quando due cugini con i rispettivi genitori ci lasciarono. Allora la vasta cucina della casa mi sembrò senza voce e colma soltanto di ricordi. Le cose stavano cambiando sempre più velocemente, ne ebbi la conferma quando la mamma di Antonio, dopo tredici anni, partorì un maschietto. Lui portò per un breve momento una ventata di gioia che profumò di nuovo la casa come ai vecchi tempi. Anche la vendemmia fu abbondante in quel settembre il vino nuovo eccellente, ma intorno sempre di più si allargava, pesando, il volto dell’abbandono delle case e la tristezza della solitudine. La terra tradita non rideva più. L’essenza del passato svaniva e con le prime nebbie i fantasmi di ciò che era stato sbucavano nel grigiore per gettare nei campi abbandonati una cupa desolazione.
97
Diario di un adolescente
Una sera, la nonna, seduta davanti al camino con la sua inesauribile tristezza, mentre intrecciava la treccia di paglia per cappelli e sporte se ne uscì con una frase che mi segnò profondamente: “Ciò che si deve ad ogni costo conservare anche nei momenti più tristi è la dignità di sentirci importanti. Mantenere il diritto di vivere, di esistere per contrastare l’alterigia di chi ci vuol far credere di essere nulla tentando di convincerci che la luna è un pezzo di formaggio da grattugiare”. In una luce amorfa e grigiastra di fine ottobre, una pioggia incessante segnò gli ultimi giorni di permanenza nella corte. L’impero era alla fine. Come un ruminante, la grande casa aveva macinato gioie, lacrime, fatica e sudore, allegria e saggezza. Tutto era svanito in un momento e della numerosa famiglia che aveva prosperato in quell’impero contadino non rimaneva che un camino spento. Era il primo sabato di novembre e l’aia pullulava di furgoni e camioncini. Le masserizie furono caricate sotto nubi pallide che carezzavano i campi solitari e la tristezza, come dama scontrosa e gelida, avvolse tutte le cose. Quando scese la sera nella nuova casa mi sentii straniero, vestii abiti di silenzio e cercai di intravedere il mio destino tra le acque irrequiete del futuro.
98
Diario di un adolescente
RICORDI Le storie raccontate sono attimi viventi il ricordo di chi eravamo la speranza di ciò che potremmo diventare. Prezioso il ricordo di un’infanzia della casa paterna d’antica spensieratezza ancora di salvezza nell’infuriare dei giorni. I ricordi tornano sempre per invaderti l’anima per ferirti, per stregarti il cuore per ucciderti. Non rimuoverli fanno parte della tua vita riportano attimi intensi passati con qualcuno che ormai non fa più parte di te.
99
Diario di un adolescente
ULTIMA PAGINA Ho solo il mio respiro per compagno come autunno non temo la fuga d’ore ingiallite Sull’ultima pagina l’epilogo non fiorisce Tra il gorgoglio di luci lontane mi disseto nel fiume di questa amata terra e tra radici segrete trattengo sogni per ancora rinverdire alla nuova stagione.
100
Diario di un adolescente
RITI D’ESTATE Nelle azzurre sere d’estate, vago tra sentieri, lo sguardo sui balconi trasognato odo il vocio delle donne nei cortili nella calura gerani ed oleandri sfiorando l’erba nuova ne sento la frescura sotto i piedi, l’amore infinito mi sale nell’anima, canto nenie da zingaro ubriaco della notte che conserva il ricordo riacceso improvviso d’un tempo scomparso e come un rito conto le briciole di luce rimaste beccate dai colombi nel crepuscolo.
101
Finito di stampare per conto dello Studio Byblos - Palermo
Studio Byblos Publishing House www.studiobyblos.com
Franco TagliaTi è nato a Guastalla dove vive e lavora. Commediografo, Poeta, Pittore. Ha ricevuto molti premi, tra questi: L’oscar del teatro amatoriale, dal Resto del Carlino, come interprete e autore, alla XX Rassegna di Teatro Dialettale, di Vezzano S\C (RE). Sipario D'Argento, alla 25° Rassegna Teatrale Dialettale di Vezzano S/C (RE). Il primo premio al X Festival Teatrale dei Dialetti della Bassa di Moglia (MN), come miglior interprete e autore. Primo premio come miglior attore protagonista, alla Rassegna di Commedie Dialettali “Premio Dino Villani” di Suzzara (MN). Trofeo D’Argento, come miglior attore caratterista, alla Rassegna di Teatro Dialettale di Poggio Rusco di (MN) memorial “Paolo Barbieri”. Medaglia d’argento di finalista, al premio nazionale di poesia “Ida Baruzzi Bertozzi” di Chiavari (GE). Primo premio al Premio Letterario categoria “I Fiumi” di S. Donà di Piave (VE). Primo Premio targa d'oro al XXIX Premio di Poesia “La Giareda” di (RE). Primo premio medaglia d'oro al Concorso di Poesia Dialettale di S. Ilario D’Enza (RE). Premio Speciale, alla X edizione del Concorso di poesia “La Caravella” a Villapiana di Cosenza. Al XIX Edizione Premio Nazionale di Poesia e Narrativa “Emozioni e Magie del Natale” Città di Piacenza IV Classificato. Al II Concorso di Poesia “A tema libero” al Centro Sociale Circolo Albinetano di ALBINEA (RE) Primo classificato con una Poesia in vernacolo e II classificato con una Poesia in lingua. Menzione d’Onore al 4° Premio Letterario “CITTà DI FERMO” (Ascoli Piceno) con una Poesia in dialetto. Al 7° Concorso Nazionale di Poesia Inedita Nuova Acropoli di Pescara, III Classificato, dedicato a “La Meraviglia”. Alla 7° edizione del Concorso degli Assi promosso dalla Casa Editrice CARTA e PENNA di TORINO, Sezione Narrativa, “Segnalazione di Merito”. Alla IV Edizione del Premio Letterario Internazionale di Poesia – Pittura – Narrativa e Saggistica di “CASTEL GOVONE” di GENOVA, III Classificato con un racconto. Sue opere letterarie si trovano in diverse antologie Italiane, tra queste: la casa editrice “Pagine s.r.l. di Elio Pecora di ROMA” gli pubblica sette liriche nell'antologia “Viaggi Di Versi” di Nuovi Poeti contemporanei, e una lirica nell'antologia Poeti e Poesia “Mappe e Percorsi”. è membro dell’Associazione Scrittori Reggiani di (RE), dell'Associazione Culturale “ARGINE MAESTRO” di Guastalla (RE), e dell’Associazione Artistica Tricolore di Novellara (RE). Come pittore, ha vinto numerosi concorsi, ha esposto in numerose città italiane e straniere. è presente sul catalogo dell'archivio monografico “ARTE ITALIANA” - www.arteitaliana.net - Sul Catalogo Europeo POLYCHROMIA 2018 Edito dallo Studio Byblos curated by Dino Marasà di Palermo. Ha pubblicato “TERRA AMATA” E. Lui Editore, e “Racconti di vita e d’amore” edito dalla Casa Editrice Montedit di Milano.