ROSOLIO AL MANDARINO - PIETRO CARMINA

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PIETRO

Rosolio al mandarinoStudioCARMINAByblos

a Carmela e Mario

Oriana Fallaci, Un cappello pieno di ciliegie

“…fu a quel punto che la realtà prese a scivolare nell’immaginazione e il vero si unì all’inventabile poi all’inventato: l’uno complemento dell’altro, in una simbiosi tanto spontanea quanto inscindibile”

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Sabato, 30 settembre 1922

Giovanni Brancato gettò la torcia che illuminava il podio, e sé stesso oltre gli scalini, mentre il deputato, accovacciatosi, si copriva il capo, schermato dal corpo erculeo di un vecchio compagno, anche lui con la torcia in mano.Lamassa di contadini ondeggiò, cercò rifugio nelle vie laterali, le lanterne disseminate per la piazza roteavano come lucciole impazzite, le bandiere rosse sciorinate, simboli di lotta che in altre occasioni mai sarebbero state abbandonate, volavano via sopra le teste, dai balconi adiacenti grida femminili, sottofondo al lesto sbarrare delle persiane: “pena ranni!”, urlavano, “petra di l’ariu”. (“grande condanna” - “una pietra dal cielo” N. d. R.)

Tutt’attorno al podio improvvisato urlavano dal dolore, i feriti. Turriddu Pitrola si teneva la schiena, strillando come solo un quindicenne sa fare.

- Compagni, i lavoratori hanno risposto all’appello…Aveva appena iniziato ad arringare la folla, l’onorevole Domenico Salvatore Cigna, ma il fschio prima, e gli spari poi, secchi, improvvisi, avevano squarciato il brusio, le richieste di “voce!!” dal fondo poco illuminato, i “bravo” incoraggianti da più parti.

Lo sbandamento fu generale tra i contadini che afollavano la piazza.

L’onorevole era stato trasportato all’interno del circolo socialista.

Si aferrava il piede Pitrinu D’Angelo, che non si capacitava del sangue che ne fuoriusciva, “matruzza mia” mormorava Cruciddu Ciotta, divorandosi con gli occhi la camicia stracciata proprio sotto il cuore e, tastandosi tutto, poco convinto che dentro non avesse proiettili, e si reggeva la fronte

Capitolo9 I

Dietro le fnestre continuava lamentevole la cantilena di madri addolorate.

La piazza fu avvolta in un silenzio caldo e denso, struggente come una musica di violino.

Si volsero tutti verso quel lato, in tempo per accorgersi di un’ombra che barcollava e si accasciava. Si avvicinarono in tanti, le lanterne fumanti acetilene rischiararono il volto di Mariano La Rocca, gli occhi sbarrati verso una luna omertosa, la mano destra a coprire lo squarcio che gli insanguinava la camicia bianca.

con entrambe le mani Pasqualino Ciullo, ferito al sopracciglio. Le urla non riuscirono ad attutire il rumore distinto, secco, di un nuovo sparo.

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L’oscurità di un punto deflato della piazza fu rotta dallo sbattere di un lampione che incocciava le basole del terreno.

E sì che avevano occhi birbanti, quelli!

Un crampo, un crampetto e nulla più, ma quella vrudicchiata (brodaglia N. d. R.) stasera non ci voleva.

Alla luce di una candela tremolante, l’arciprete aveva intravisto sul tavolo apparecchiato, e scarsamente illuminato, la frugale cena preparatagli dalla ‘zza Cuncittina, la sua perpetua, una vecchina tutta nervi, ancora in forze, e dal carattere duro.

Niente di particolare, certo; le poche vecchiette lì davanti non si erano accorte di nulla, curvate com’erano a biascicare sialodatoeringraziatoognimomentoilsantissimodivinissimosacramento, e di nulla si erano avveduti la decina di ragazzotti che, attorno all’altare, si segnavano.

Era una settimana ormai che cicoria iva e cicoria viniva. Non che la cicoria non gli andasse bene, quella, poi, era cicoriella di cugnu, tenerissima, amarognola, buonissima. Solo che proprio stasera aveva sentito qualcosina allo stomaco, una stretta, non molto forte in verità, ma bastevole a fargli trattenere il fato durante la benedizione, alla fne del vespro serale. Un crampo che lo aveva bloccato, e con lui aveva bloccato quel pesante ostensorio mentre dall’ in nomine Patris, scendeva verso et Filii, per concludersi nell’ et Spiritui Sancti.

Capitolo11 II

Cicoria e uovo duro.

-“Ci’ abbatti ‘ccu sta cicoria!” - ( “E ancora con questa cicoria!” N. d. R.) non potè fare a meno di esclamare indispettito il prete, guardandosi però subito intorno, con il timore che la ‘zza Cuncittina fosse nei paraggi.

Si avvicinò allo stipetto, prese una bottiglia di vino e fnalmente si lasciò cadere sulla sedia, allungando le gambe per stiracchiarsele un tantino. Le troppe genufessioni cominciavano a farsi sentire, le ginocchia, di tanto in tanto, emettevano un sinistro scricchiolio: ma lui era ancora un ragazzo, aveva 30 anni, qualcuno in più di quelli che aveva lasciato sotto, in sacrestia, a giocare a carte.

Il suo costante dare addosso ai cattolici era insopportabile.

Con la mano sinistra, padre Sorrento cominciò a sbottonarsi la tonaca, mentre con la destra si sflava il colletto bianco semirigido. Liberatosi il collo, la mano si sofermò per una lieve carezza ed un breve e deciso massaggio al pomo d’Adamo.

Quel sabato pomeriggio, poi, avevano mostrato una decisione, una caparbietà, una vitalità che era rimasto a bocca aperta.

E perché, poi?

Avevano sfdato l’opinione pubblica la Notte di Natale di qualche anno prima, quando si erano messi in fla per prendere la Comunione, solo loro e le donne. Non usava allora che gli uomini agissero in Chiesa come le donne. Erano stati sfottuti quando la notizia si seppe in giro, ma quel gruppetto, deciso più che mai, non solo continuò a fare la Comunione, ma aprì anche un circolo sturziano, proprio accanto alla Chiesa.

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I rossi stavano esagerando, l’Avvocato, poi, te lo raccomando quello là.

Quei ragazzi della sua Matrice erano proprio in gamba.

Perché difendevano a spada tratta le ragioni della Santa romana Chiesa? perchè il neonato partito popolare era attecchito in quel lontano piccolo paese dell’agrigentino? Ecchè facevano di male?

Avrebbe potuto lasciarla lì, senza mangiarla, ma se all’indomani se ne fosse accorta la ‘za Cuncittina, oh, beddamatri, e “Pirchì un si la mangià”, e “chi era fatta tinta?”(“che era fatta male? N. d. R.”), e “ora un sacciu cucinari cchiù”, e “chistu mi mieritu doppu du anni!” Aaalt. Pur di fermare la sicura mitragliata di parole, si mangi la cicoria, e sia fatta la volontà di Dio!

Poi, distintamente, lo scalpiccio di passi che si afrettavano velocemente giù dal campanaro via via, fno alla discesa di via Ruggero, proprio accanto alla sacrestia.

- “Come Dio vuole “, mormorò, segnandosi velocemente.

Ma decisi erano i picciotti. Occhio per occhio dente per dente, si incoraggiavano tra loro. E padre arciprete, con le parole li calmava, ma solo con le parole, perché con il cuore era più fero di quelli, pronto a tutto, anche a menar le mani e non solo quelle.

Tirò la tonaca, che un lembo era fnito sotto la sedia, e si precipitò alla fnestra. Aveva spalancato la fnestra, e di fronte, sul podio precario, era salito uno che non riusciva a distinguere, forse era forestiero, circondato da altri, ombre pure loro da quella distanza.

La forchetta attorcigliata attorno alle prime foglie di cicoria fu disturbata da una confusione di passi in sottofondo, attutiti dalla fnestra che dava sulla piazzetta. Appena il tempo di fermare la forchetta in aria che lo schiamazzo si fece più vivido, adesso si sentivano anche delle voci, anzi dei canti

- Arriè?... Arriè?- (Di nuovo?... N. d. R.) cominciò a gridare l’Arciprete, lasciando cadere olio, brodo e cicoria, e alzandosi di scatto - arriè corteo, arriè comizio, ogni sira ‘sta camurria?! - (ogni sera questa scocciatura?! N. d. R.) dimenticandosi delle prossime elezioni al Comune.

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... Avanti popolo alla riscossa…

La forchetta rimase in aria, la cicoria in equilibrio precario gocciolava olio e brodo.

Pochi istanti, e da quella posizione privilegiata potè assistere al fattaccio. Un attimo: fschi, spari, uomini a terra, urla strazianti.

Una bella gioventù cattolica, era soddisfatto l’Arciprete, se li stava crescendo bene quei ragazzi.

La discussione era stata lunga, spigolosa, parecchio tesa, ora che i suoi ospiti erano andati via una bella fumata ci voleva proprio.

Prese un sigaro, ne spezzò la punta, si bloccò indeciso, no, il sigaro no, ci voleva una potente tirata di trinciato, il sigaro no, meglio il tabacco, il rito della preparazione in quel momento lo solleticava di più.

Una bella tirata di trinciato forte ci voleva.

Aperta la tabacchiera d’argento, vi inflò il pollice e l’indice, diede una mescolatina, aferrò un bel po’ di tabacco e se lo portò al naso, inspirando conL’aromaforza.

del tabacco si sparse per la stanza.

Usava tabacco speciale, Don Ignazio Bonanno, mandato a prendere ogni quindicina del mese presso la rinomata tabaccheria Ribaudo di Palermo.Soddisfatto, il barone si appoggiò all’alta spalliera della poltrona, afferrò un tagliacarte d’avorio e cominciò a tormentarsi le unghia, mentre lo sguardo vagava per la stanza, la più bella del suo palazzo.

Da una vela di gesso, all’angolo in alto, un puttino sorrideva beato verso il riquadro centrale dal quale un cacciatore, truce e minaccioso, tendeva il suo

Capitolo15 III

Gliarco.amorini

I candelabri accesi illuminavano lo scrittoio, stagliando sul muro enigmatiche ombre.

delle volte ne avevano visti di fatti e fatterelli in quello studio, perché da lì don Ignazio gestiva i suoi afari che erano tanti e consistenti.

– Mi ni futtu! capisti? Di tuttu ‘stu burdellu di li socialisti, mi ni stracatafuttu! –

Non era stata facile la discussione di prima.

Sentore c’era stato di occupazione di terre, e loro non avevano reagito con la dovuta energia.

- Ma… sunnu poveri viddani, don ‘Gnà ! - aveva tentato di giustifcarsi, Minicu.-Mi ni futtu! - lo aveva interrotto, a muso duro, il nobiluomo – le terre sono mie e nessuno deve permettersi di avvicinarsi –Ora passeggiava nervosamente davanti a quelle teste chine, come un toro dalle froge fumanti.

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Aveva convocato i suoi campieri, e se li vedeva ancora lì davanti, con il tasco in mano e i fucili a tracolla.

Nelle altre sale del palazzo ferveva gran movimento: la servitù apparecchiava la cena, e nel salottino donna Giuseppa e la fglia stavano completando al tombolo una deliziosa trina che avrebbe abbellito il fne tessuto delle lenzuola di corredo di Concettina.

Al circolo, ogni giorno sul Giornale di Sicilia leggeva una litania: il feudo di Floristella a Valguarnera, il Cucco di Godrano, Sabucina a Caltanissetta, e proprio ieri il feudo santo Nicola di Butera e persino le terre di Cicuta Grassa di Delia, dell’amico suo Conte Testasecca. E, ad ogni feudo espropriato, gli saliva la bile fno agli occhi, fno al cervello.

Puntò il bastone sul petto di Turiddu

Le voci fltravano attutite nello studio di don Ignazio che, afatto disturbato, si compiaceva delle “sue” proprietà: terre, palazzo, servitù, moglie e fglia. Finalmente si stava rasserenando.

In quello studio i fratelli Bonanno si erano divise le proprietà paterne, erano stati contrattati e defniti matrimoni, erano state sciolte alleanze. In quella stanza, con le porte ben chiuse, a bassa voce, erano state allestite vendette e pianifcate faccenduole, destinate al segreto eterno.

– Calò, li socialisti annà stari a lu so puostu. E lu primu, l’abbocatu Lauricella, sinnacu di ‘sta minchia – si involgarì, aiutandosi espressivamente con la mano sul cavallo dei pantaloni di fustagno.

I campieri avevano annuito, ma don Ignazio li vide poco convinti e calò il carico di undici.

I suoi erano stati poveri disgraziati, e lui non voleva ritornare a fare vita grama come i suoi fratelli.

- Itivinni, ora! - intimò don Ignazio.

- La curpa di ‘sta cazziata (La colpa di questo rimprovero N. d. R.) è di l’abbocatu - mormorò Caloiru, tra sé e sé, non tanto, però, che gli altri non udissero.

- Callu di cudèra (testa calda N. d. R) iè Caloiru - rimase a pensare don Ignazio, con una smorfa incerta tra il preoccupato ed il soddisfatto, anche se i muscoli facciali propendevano decisamente per la seconda ipotesi. Non era trascorso molto tempo, i suoi uomini, sicuramente, non avevano fnito di sellare le giumente, di sotto, che il rumore delle stoviglie e le risate delle serve vennero sommerse da frastuoni più irruenti provenienti dalla piaz-

Altri due passi e si avvicinò a Caloiru, gli si pose ad un palmo dalla faccia mal rasata, le mascelle tese allo spasimo sugli zigomi

- Chissu– avà – stari – luntanu – di – li – ma – terri - scandì, premendo l’indice sul petto dei presenti, passati in rassegna al ritmo delle parole.

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Anche per un contadino il ragionamento era semplice semplice.

- Vo’ssa binidica - risposero i quattro, uscendo in fla verso lo scalone ed il cortile, dove li aspettavano le giumente.

Caloiru aveva capito perfettamente che legarsi a doppia maglia con il barone gli conveniva: io faccio quello che tu mi chiedi e anche quello che tu pensi, anche se non me lo chiedi, tu mi paghi, ed io sto zitto.

- Prima chiudiamo ‘sta faccenna, e prima vi la fazzu passare ‘cchiu miegliu di cuomu vi la stati passannu!Stavolta, a Caloiru brillarono gli occhi.

zetta. Si alzò stancamente dalla sua poltrona, don Ignazio, e andò a piazzarsi dietro le persiane a vanidduzza. Rimase lì a guardare, di fanco, con prudenza. Non erano tempi tranquilli, un po’ di precauzione era necessaria.

Dalla fnestra si dominava la piazza e buona parte del corso, fno a Cafagna, da lì una fumana umana si avvicinava, tra bandiere rosse, lampioni e cori.“Stu gran curnutu!” mormorò don Ignazio Bonanno, notando in prima fla il sindaco Pippinu Lauricella e un altro a lui sconosciuto, ma doveva essere pure n’atra cosa nubilusa.

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Ancora pochi minuti, e davanti agli occhi sbarracati del barone Bonanno si presentò la successione di fschi, spari, uomini a terra, urla strazianti. “Minchia!”, balzò all’indietro, e riparò dietro la pesante tenda damascata.

Capitolo19 IV

- Turì, ti lu dicu iu, Mussolini avi du cugliuna accussì - esclamò il notaio Luigi Gallo, incaricando le mani a dimensionare opportunamente gli attributi del fondatore del partito fascista, ad uso esclusivo del fratello Salvatore e del nipote Michele.

La triade Gallo stava avidamente leggendo tutto il discorso tenuto da Mussolini al Politeama Rossetti di Trieste, parola per parola, come riportate

La lotta è l’origine di tutte le cose perché la vita è tutta piena di contrasti: c’è l’amore e l’odio, il bianco e il nero, il giorno e la notte, il bene e il male e fnché questi contrasti non si assommano in equilibrio, la lotta sarà sempre nel fondo della natura umana, come suprema fatalità. E del resto è bene che sia così. Oggi può essere la lotta di guerra economica, di idee, ma il giorno in cui più non si lottasse, sarebbe giorno di malinconia, di fne, di rovina. Ora, questo giorno non verrà. Appunto perché la storia si presenta sempre come un panorama cangiante. Se si pretendesse di ritornare alla calma, alla pace, alla tranquillità, si combatterebbero le odierne tendenze dell’attuale periodo dinamico. Bisogna prepararsi ad altre sorprese, ad altre lotte. Non ci sarà un periodo di pace sino a quando i popoli si abbandoneranno ad un sogno cristiano di fratellanza universale e potranno stendersi la mano oltre gli oceani e le montagne. Io, per mio conto, non credo troppo a questi ideali, ma non li escludo perché io non escludo niente: tutto è possibile, anche l’impossibile e l’assurdo. Ma oggi, come oggi, sarebbe fallace, pericoloso, criminoso costruire le nostre case sulla fragile sabbia dell’internazionale cristiano-socialista-comunista. Questi ideali sono rispettabili, ma sono ancora molto lontani dalla realtà.”

- Eh, carmativi (calmatevi N. d. R.) tutti dui - pose fne il notaio, dall’alto del prestigio della sua età e del suo status sociale.

- Grande uomo questo Mussolini – cantilenava il notaio, - av’azzizzari (deve drizzare N. d. R.) la testa a tutti – di contrappasso il fratello Turiddu, - li primi di tutti a li socialisti – chiudeva Michilinu.

- Tranquillo, zio, ti vendicherò io - lo confortava il nipote Michele, dalla penombra in cui era seduto, il che lo rendeva più scuro di quanto non fosse, Otello lo aveva soprannominato qualche intellettuale che aveva ascoltato l’opera Verdiana. - Non ho bisogno di aiuto io, si vuogliu ci sparu ‘nni li corna, a chissu! – replicò Turiddu, sentendosi ancora la forza di combattere battaglie verbali, e, perché no, anche di altro tipo.

Per la verità Turiddu Gallo lo scherzetto l’aveva preparato bene, aveva inviato al Prefetto le liste elettorali incomplete e il sindaco avrebbe fatto la fgura dello sprovveduto. Solo che, all’ultimo momento, il Sindaco si era accorto che qualcosa non andava, riuscì a rattoppare la vicenda e chiese alla Giunta di assumere provvedimenti disciplinari. E Turiddu era rimasto a casa per sei mesi e senza stipendio.

La famiglia Gallo aveva accumulato parecchia ruggine in passato nei

Se ne stavano, i Gallo, in quel bugigattolo, al primo piano della casa ad angolo tra piazza Umberto ed il corso, in perenne seduta carbonara, a rivisitare i fatti passati ed a pronosticare i futuri.

20 dal Popolo d’Italia, datato di una settimana, ma arrivato a Ravanusa solo la mattina di quell’ultimo giorno di settembre.

Turiddu lavorava nell’ufcio di segreteria del Comune e alcuni mesi prima aveva avuto uno scontro molto duro con il sindaco a proposito di liste elettorali compilate e non compilate, inviate e non inviate.

E non solo quelli nazionali, no, perché anche la cronaca locale meritava attenzione.Daquando poi era diventato sindaco Pippinu Lauricella la situazione era diventata insostenibile.

E rimasero dietro la fnestra, acquattati, con le antenne pronte a captare qualche mala parola nei loro confronti, oggettivo casus belli per una bella sciarra (lite N. d. R.) l’indomani.

Anche quel pomeriggio, loro, seduti al circolo Progresso ed i lauricelliani, al tavolo del circolo socialista, distanziati da una decina metri, si erano gurdati in cagnesco, soppesati, sfdati.

In vista delle elezioni, i socialisti erano intenzionati a comiziare.

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La sera precedente la scaramuccia era scoppiata.

confronti dei Lauricella, ed ogni occasione era buona per rinvangare avvenimenti trascorsi e dedicarsi a contumelie colorite.

- Avanti popolo – Abbassu l’acipreti – abbassu la borghesia e la regia guardia ca ci fa la spia - … ma contro di loro neppure una parola, manco un puntoDelusiesclamativo.inparte, sollevati nell’intimo, cominciarono a sbirciare fuori la fnestra.Ecco, ‘ddi scassaminchia di dei socialisti stavano iniziando a comiziare. Poi, anche a loro si presentò la successione di fschi, spari, uomini a terra,

I Gallo ed altri fascisti si erano raggruppati al centro del corso, fschiettando con noncuranza, a bloccare corteo e comizio. Erano volate parole grosse, e gli “Arditi” vistisi afrontati da decine e decine di contadini, avevano preferito desistere.

I tifosi delle due parti erano convinti che un giorno o l’altro dalla mimica si sarebbe passati ai fatti, fno ad ora, però, il fuoco si limitava a covare sotto la cenere.

La lettura a voce alta del giornale da parte del notaio riportò l’attenzione degli altri due su avvenimenti milanesi e romani.

La voce venne, però, ad un tratto soprafatta dallo strepito che saliva dalla piazza. La lettura fu fermata ed i tre si afrettarono sul balconcino, rientrando subito quando si accorsero che voci, bandiere, canti e lampioni appartenevano ai socialisti.

urla strazianti. Il notaio si sbarattò, e cercò sostegno nel fratello e nel nipote, ma entrambi erano spariti, e con loro, i novantuno che portavano sempre con sé.

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“Ci voleva anche il morto“ pensava, rappresentandosi tutta la camurrìa di interrogatori, indagini e cartacce da riempire.

Attorno a lui si era raccolta una folla silenziosa di contadini, i visi scavati dal tempo e dalla fatica, il tasco stretto tra nodosi pugni.

I muli dei militi scalciavano nervosi, il maresciallo, a braccia conserte, fssava quella gente, povera e dignitosa, calma nella rabbia, pronta a tutto.

Ad un tratto, come un’onda vero la risacca, l’urlo iniziò ad afevolirsi, da più lontano, poi, pian piano fno al cadavere.

Un pantaloncino sflacciato e accorciato alla meglio ricopriva due gam-

Dalla caserma si erano afrettati il maresciallo e due militi, sospinti dalle urla.Mentre

Uscirono dal circolo anche Vito Zagarrio e gli altri, infuriati, reclamando giustizia, e in sua assenza, minacciando vendetta.

- Giustizia… giustizia…giustizia... - ritmava la folla, battendo i bastoni sulle basole, ed il rimbombo diveniva assordante.

i due carabinieri si afaccendavano attorno ai feriti, condotti subito al circolo democratico e medicati alla meglio dal dottore Testasecca, il maresciallo, lisciandosi i bafetti, girava attorno al cadavere, evitando accuratamente di calpestare i rivoli di sangue che si incanalavano tra gli interstizi per mescolarsi col putridume degli scoli laterali.

Il silenzio inseguiva un bambino che si avvicinava lentamente.

La notte diventava giorno per le faccole accese, sempre più numerose, il vigore della protesta insostenibile.

Capitolo23 V

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Il bambino aveva risucchiato le grida, e si ritrovò in un silenzio angosciante accanto al cadavere e di fronte al maresciallo.

bette smagrite, sulle quali sbatteva lo scampolo di una camicina sbottonata, trattenuta soltanto da uno spago annodato a cintura, sotto una bunachina di un paio di taglie più grandi.

- Giacomino, il fglio di Mariano La Rocca – gli replicò una voce.

- Portatelo via – mormorò Valvo. Nessuno si muoveva.

- Portatelo via! – gridò allora il Maresciallo, anche a lui si stavano inumidendo gli Qualcunoocchi.prese il bambino per un braccio e lo tirò via, senza trovare resistenza.-Chiera quel ragazzino? - chiese Valvo.

Pugni stretti e mascella serrata, il ragazzino fssava il volto dell’ucciso, impietrito.Pochisecondi, poi i tratti del visetto si rilassarono e dagli occhioni grandi iniziarono a scivolare due ruscelletti, che nessun argine avrebbe potuto trattenere.

Erano passati tre anni e poco più da quando era diventato arciprete, e ne aveva combinate già di tutti i colori: suonava le campane per non fare tenere i comizi, organizzava processioni a tutto spiano per impegnare le donne, aveva avviato un circolo cattolico, ora aveva fondato anche una sezione del partito popolare, si diceva avesse intenzione di creare persino una banca.Eloro, poveri disgraziati, andavano appresso ai socialisti, gli unici a combattere per un futuro diverso.

A grandi falcate si era precipitato sulla piazzetta, inginocchiandosi accanto al povero La Rocca, rantolante.

Lampi, irriguardosi del luogo, danzavano facendosi strada tra i singulti

Padre Sorrento, che fesso non era, aveva captato quei messaggi silenziosi che partivano da occhi arrossati dalle lacrime e dal sole, si avvide che la sua presenza in quel momento non portava pace, si alzò, e senza nemmeno scotolarsi la tonaca, impolverata e macchiata di sangue innocente, calcò sul capo il tricorno e lentamente si avviò verso la canonica.

Era sceso di corsa, padre Sorrento.

Capitolo25 VI

Gli astanti lo guardavano in cagnesco: quel prete non era stato mai accanto a loro nelle lotte per vivere più da persone e meno da animali. Mai! padre Sorrento, anzi, pareva avercela con loro.

Dalla porticina della sacrestia entrò nella chiesa buia, si avvicinò all’altare, rischiarato solo da un lumicino foco, si gettò in ginocchio, con il viso tra le mani, e scoppiò in lacrime.

e i lucciconi: Marianu La Rocca per terra, l’astio degli sguardi intorno, il lisciarsi dei bafetti di Valvo, i passi del campanile, quei passi gli rimbombavano nelle tempie: il campanile - la sacrestia - i suoi ragazzi.

- Signore, no! – gemette padre Sorrento, le immagini oramai abbacinanti dei suoi ragazzi avevano preso il sopravvento, ed il pianto si trasformò nel guaito lamentoso ed intermittente di un cuore pieno di pena e di tormento.

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- Ma chi fù, Gnà, dicimillu – piagnucolava la moglie.

- Minchia! minchia ! minchia !! - cantilenava il barone Bonanno, abbandonando la tenda damascata e correndo verso il soggiorno.

- Pippì... bedda matri, Pippì...- continuava ad urlare, mentre la moglie, che aveva sentito pure lei gli spari, correva verso di lui. Sull’uscio quasi si scontrarono – lu sentisti? –

- Non lo so, Pippì, non lo so, - abbandonando il dialetto, come gli ca-

Emesso un bel respiro, il barone prese per un braccio la moglie e la tirò verso il divano, davanti al quale, all’impiedi, ammutolita, cerea, stava la f gliuola.-Tanticchiedda di rabarbaru, Maddalè ! – ordinò il barone alla serva che approfttò subito per correre in cucina ed avere più notizie dalle altre donne della servitù.

– Unna sunnu li carusi? – si accavallavano le domande reciproche, ma nessuno dei due le ascoltava veramente, e nessuno rispondeva.

- Gnà (diminutivo di Ignazio N. d. R.), chi successi? -

- Carmammuni (calmiamoci N. d. R.), ora – respirò forte di nuovo il barone, rientrando nella sua postura e nel suo contegno normale.

La baronessa era pafutella, compressa in un vestito cenerino ricamato. Il tuppo dei capelli la faceva più alta d’un palmo, il collo, benché turgido, non strabordava sul cotone del collettino.

Con un fazzoletto di fandra iniziò ad asciugarsi le tempie, e continuava a fssare il marito, con una smorfa.

Capitolo27 VII

Il primo bicchierino lo ingoiò di colpo, il barone, poi se ne fece riempire un secondo, ma questo se lo centellinò, e il cervello cominciò a rimuginare.

Ma Caloiru ritornava, e accompagnato stavolta dal dialogo di quella

Povera donna, non riusciva nemmeno a pensare che il marito fssava il

pitava quando veniva solleticato nelle sue conoscenze e nelle sue informazioni, il barone, - spararu ‘dda sutta, ‘nni la chiazza – seguitò, dimenticando contegno ed Continuaronoeminenza.tutti

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Scosse il bicchierino, in soprassalto, quasi svegliandosi, non gli piaceva quella visione, non gli piaceva per nulla. Che c’entrava Caloiru con il rosolio e lo scanto (spavento N. d. R.) suo e della sua famiglia?

Dal liquore giallognolo lo ipnotizzava il viso di un conoscente, ne riconosceva gli occhi, il ghigno, la mascella serrata: Caloiru, sì, era lui, il suo campiere fdato.

Il barone non la degnava di risposta né di sguardi, fssava davanti a sé un punto del tappeto, che anche la moglie cominciò a scrutare, convinta che il marito avesse notato un qualcosa che attirava la sua attenzione.

a guardarsi, nessuno osava più dire nulla, e Maddalena stava servendo il rosolio di rabarbaro, facendo tintinnare i bicchieri, anche perché anche lei si era scantata (spavenatata N. d. R.), e non si era calmata nemmeno dopo aver mandato giù il rabarbaro, e direttamente dalla bottiglia, tanto non c’era nessuno piedi piedi, nemmeno quella ruffana di Crucifssa, che faceva sempre la spia.

sera.Lo voleva scacciare quel dialogo, il barone, smanacciava, il bicchierino dondolava pericolosamente il suo contenuto, tanto che la moglie gli si avvicinò preoccupata: - che hai Gnà, pirchì accussi’ fa, sta’ attentu ‘ccu stu bicchirinu ! -

Girava quel bicchierino aggraziato tra le dita, ne osservava il disegno delizioso, i delicati forellini in altorilievo lievissimo sul cristallo, l’orlatura fnissimamente dorata.

nulla, trascinato com’era dai ricordi, dalle parole, dagli sguardi di quell’ incontro nello studio, conclusosi solo da mezz’ora ma lanciato volutamente lontano centinaia di anni.

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Il fatto di cronaca, pertanto, è realmente accaduto, ma i personaggi di cui si parla nel racconto, l’intreccio, le deduzioni e le ipotesi circa mandanti ed esecutori, sono, invece, solamente il frutto della fantasia dell’autore.

POSTFAZIONE195

Sulla vicenda non è mai stata fatta luce del tutto.

Sono molte le verità che si possono trovare in questo breve romanzo.

Nell’oscillazione fra realtà ed invenzione, fra romanzo e cronaca, c’è un momento in cui si ha l’illusione che il pendolo possa arrestarsi nel punto in cui si vede la verità. Ma, purtroppo, come sostengono i seguaci di Lacan, nessuno può sapere quale sia tutta la verità, giacchè per ciascuno la verità si può dire solo a metà.

Il perno della trama, che intreccia politica, antropologia, sociologia, è un omicidio avvenuto a Ravanusa, la sera del 2 ottobre 1920.

Quella sera, durante un comizio tenuto dall’avvocato Giuseppe Lauricella, veniva ucciso un uomo, Giuseppe La Rocca, che gli stava accanto.

Mercoledì 4 ottobre 1922, 77

Lunedì 2 ottobre 1922, 39

Capitolo XVII, 79

Capitolo XIV, 61

Capitolo VII, 27

Capitolo VI, 25

Capitolo V, 23

Capitolo XII, 51

Martedì 3 ottobre 1922, 57

Capitolo XVIII, 83

Sabato 30 settembre 1922, 7

Capitolo IV, 19

INDICE

Capitolo X, 41

Capitolo II, 11

Capitolo VIII, 31

Capitolo XIII, 59

Capitolo XV, 67

Capitolo I, 9

Capitolo III, 15

Capitolo XI, 45

Domenica 1 ottobre 1922, 35 Capitolo IX, 37

Capitolo XVI, 71

Capitolo XXXVI, 181

Capitolo XXVI, 129

Capitolo XIX, 93

Capitolo XXXIV, 167

Domenica, 8 ottobre 1922, 179

Giovedì 5 ottobre 1922, 91

Capitolo XXIV, 117 Capitolo XXV, 123

Capitolo XXXI, 151

Capitolo XXVII, 133

Venerdì 6 ottobre 1922, 127

Capitolo XXIII, 113

Capitolo XXII, 111

Capitolo XXXV, 173

Capitolo XXI, 103

Capitolo XXXII, 155

Aprile 1923, 185

Capitolo XXXVII, 187

Epilogo, Postfazione,191195

Sabato, 7 ottobre 1922, 149

Capitolo XXVIII, 139 Capitolo XXIX, 143 Capitolo XXX, 147

Capitolo XXXIII, 161

Capitolo XX, 97

Studio PublishingByblosHouse Finito di stampare per conto dello Studio Byblos - Palermo nel mese di Agosto 2022 studiobyblos@gmail.com www.studiobyblos.com ISBN: 9791280343635

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