ALEX - VITA PARALLELA

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ALEX

VITA PARALLELA

Studio Byblos ANTEPRIMA


© Tutti i diritti riservati all’autore. ANTEPRIMA


Dedico questo libro a chi, nel bene e nel male lo ha reso possibile. E a Voi che ormai non ci siete più.

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Prefazione

Ho conosciuto un ragazzo. Gay come me. Ci siamo conosciuti solo amichevolmente, casualmente al Pronto Soccorso. A Francoforte. Lui la classica bellezza partenopea: capelli neri, occhi neri, un abbronzatura invidiabile, un corpo leggermente tondeggiante, ma non eccessivamente, come ogni classico italiano che ami la buona tavola. E un sorriso da sturbo. Teoricamente avrebbe potuto avere chiunque col suo fascino. Ma con un problema. Completamente sordo. Il che influiva anche sulla sua parlata. Mentre attendeva di poter entrare per essere visitato, mi spiegava, come poteva, che avrebbe voluto trasferirsi a Francoforte. Gli chiesi se col labiale riuscisse a comprendere anche altre lingue, oltre all’italiano. “NO” rispose. Lo guardavo senza riuscire a non meravigliarmi. Lo guardavo rivedendo me, quando ero molto piú giovane dei suoi 33 anni. Lo guardavo pensando che la gente dibatteva se fosse giusto chiamarlo o meno “Frocio”, se potesse sposarsi legalmente, se potesse affidargli una cifra come genitore. Lui aveva bisogno di altro, molto piú concreto. Indipendentemente dal suo orientamento sessuale.

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Lui aveva bisogno di un aiuto nell’entrare nella societá e nel mondo del lavoro. Lui aveva bisogno di essere accettato non come gay, ma come portatore di un handicap non indifferente. In una cittá dove anche i gay sono omofobi tra di loro. Perché diciamoci la veritá , noi gay che facciamo pride, manifestazioni e chiediamo rispetto, tra di noi non siamo molto tolleranti. E parlo per esperienza. Frequentando chat dove se fai anche solo un complimento ad uno che trovi affascinante, il 75% delle volte vieni aggredito di insulti se non rientri nei gusti dell’altra persona. Ed ho pensato ai tempi in cui ho iniziato a vivere la mia omosessualitá . A cavallo tra gli anni 80 e 90. Quando non solo era impensabile confidarlo a qualcuno, ma dovevi nasconderlo anche a casa. Quando non c’era internet, il sesso facile, o quando ancora credevo che avrei incontrato qualcuno di speciale e sarebbe stato il mio “vissero felici e contenti”. Sorrisi pensando che ora vogliono sconvolgere le nostre fiabe, il modo di vivere, il modo di chiamarci perché pensano che “accettare un gay” sia quello. Forse sono una voce controcorrente nel mondo gay. Ma non sento la necessitá di essere accettato come gay. Perché io sono gay solo nel mio letto, col mio partner. Io voglio essere accettato come essere umano. Da qui questo libro. la mia testimonianza, che vuole solo far capire di cosa ha bisogno un gay, già dalla sua adolescenza. Che la gente, la famiglia, i genitori capiscano che prima di essere omosessuale, un ragazzo é una persona che vorrebbe confidare i propri batticuori. Che vorrebbe far conoscere l’amico ai genitori 6

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e portarlo a cena. Vorrebbe che i propri cari si preoccupassero che il partner possa essere quello che lo rende felice. Oggi non so se è così, ai miei tempi no. In fondo la nostra vita è parallela a qualsiasi altra. Ci innamoriamo, ci lasciamo, lavoriamo, studiamo, a volte abbiamo anche problemi di coppia, nelle nostre convivenze, piú o meno gravi.

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Prologo

Quel giorno con la scuola saremmo andati a visitare il centro storico di Genova. Ero contentissimo per quello, un po’ meno perché la megera aveva deciso di accompagnarmi a scuola perché voleva parlare coi professori, dal momento che aveva messo in testa al Cobra che io marinassi la scuola. Non avevo nulla da nascondere, effettivamente non marinavo, ma l’idea di farmi vedere dai miei compagni con quella donna mi mortificava. Difatti arrivammo all’entrata della scuola poco prima che suonasse la campanella, e Milena e Simona, due mie compagne con cui chiaccheravo sempre prima dell’entrata, mi guardarono con aria interrogativa, vedendo che mi tenevo in disparte. Milena mi chiese sottovoce “Ma è tua madre?” io la guardai e le risposi, sempre sottovoce “Ma chi... questa...? Spero che stai scherzando!” Suonò la campana e arrivammo all’atrio della scuola, e la megera disse che voleva parlare coi miei professori. Io li guardavo mentre discutevano sulle mie presunte assenze, senza intromettermi, perché intuivo che da quel loro colloquio sarebbe cambiata la mia vita, in quello stesso giorno. Difatti, anzichè riportare al

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Cobra (colui che un destino beffardo mi ha assegnato come padre) di una sola assenza, peraltro dovuta ad una visita medica a cui lei stessa mi aveva accompagnato, lei ne riportò addirittura tre. Senza nemmeno farmi mangiare venni caricato su un treno e spedito da mia madre. Questo fu il motivo per cui non parlai quel mattino...! Era il 1 febbraio 1989. In quelle due ore di treno qualcosa cambiò. Non avevo nemmeno 13 anni. Ed a quell’età decisi che il Cobra non sarebbe mai più stato mio padre. E nonostante i vari scaricamenti da una parte all’altra, come ogni figlio di genitori divorziati, nonostante i vari “È mio figlio deve stare con me... No, meglio se sta con te perché è ingestibile...” sia da una parte che dall’altra, a differenza di mia madre, lui non fu mai più mio padre! E tutto diventò parallelo alla realtà per me.

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I

Mi sembra di risentire la voce di mia madre al telefono. “Ho letto il tuo diario... ormai so tutto! Te ne vai da tuo padre!”. La mia risposta fu la più stupida possibile in quella circostanza. “Ma come ti sei permessa di intrometterti nei fatti miei?”. Mia madre aveva appena scoperto che ero gay, aveva letto le mie fantasie nel mio diario (giusto fantasie, perché nella Mondovì del 1991 non è che si facesse parecchia pratica!), aveva letto dei miei attriti con mio patrigno... e io mi incazzai perché aveva letto il mio diario. Ero in vacanza dalla Angela, una ex compagna del Cobra, da cui aveva avuto Roberto. Avevamo passato 2 settimane paradisiache. Tutti i giorni al mare, la Angela mi copriva di regali e la sua famiglia mi trattava come se fossi il loro nipotino, Roberto. Dopo qualche discussione, in cui subentrò anche la Angela, che non capiva come mia madre potesse scaricarmi così, terminammo la telefonata. Io mi girai piangendo verso di lei, e le dissi “In quella casa no... Non posso stare qua con te?” Lei addolorata rispose “Non possiamo, se i tuoi genitori hanno deciso in maniera differente”, “...i miei genitori...” risposi con ironia.

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Passai quell’ultima sera da lei a cercare di capire perché tra tutti quelli che mi volevano bene, proprio i miei genitori si stavano astenendo. Ok, il Cobra non lo ritenevo più mio padre da anni, ormai, la cosa era reciproca comunque. Io per lui son sempre stato “una cosa che è successa”. Ciò era quello che intuivo dal suo modo di trattarmi. Ma con mia madre era diverso. Per me mia madre è sempre stata il mio idolo, nel bene e nel male. Tra alti e bassi. Avevamo passato i miei primi otto anni di vita assieme, io e lei. Avevo visto i suoi pianti, le sue difficoltà, avevo gioito delle sue coccole... negli anni in cui un bambino forma i propri affetti. A distanza di anni credo che le cose che confidai a quel diario avrei preferito confidarle a lei. Magari nei tempi nostri, perché nel 1991 l’omosessualità era ancora un tabù, specialmente in una famiglia di destra come la nostra. Specialmente, immagino, in un ragazzino di 15 anni che faceva le stagioni negli alberghi, quindi non pernottava a casa e non era controllabile. Col senno di poi tante cose si cambierebbero, ma la realtà di quella sera era quella pocanzi descritta. Roberto, il mio fratellino, che mi guardava sconsolato, perché a otto anni non capiva perché le nostre vacanze fossero state così bruscamente rovinate, perché dovevo andare da quelle persone che facevano soffrire tutti, perché continuavo a piangere... D’altra parte io cercavo di capire perché ero sempre io quello sbagliato, perché io dovessi sempre pagare per i compromessi dei miei genitori, perché non potevo essere un ragazzino con una vita normale come tutti i miei amici... ad ogni età ci furono i propri perché quella sera.

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II

Dopo sei mesi da quel giorno dissi tremando dal nervosismo alle assistenti sociali “O mi tirate fuori da quella casa o mi butto giù dal quarto piano!” Le cose andarono ben oltre le mie peggiori previsioni. La megera si rivelò essere la sorella stronza di Crudelia De Mon, il Cobra accettava passivamente tutto ciò, ritenendo sottinteso che lo dovessi accettare pure io, mia nonna Luigina (sua madre) assisteva impotente, e quando vedeva che i miei nervi erano al limite mi faceva dormire da lei. Ma diversamente le mie uscite erano limitate a quando facevo la spesa, dal momento che sua signoria aveva scaricato su di me i lavori di casa. E botte, maltrattamenti ed umiliazioni erano all’ordine del giorno. E quel giorno il vaso traboccò. Dopo l’ennesima lite uscii di corsa e mi recai nella panetteria dove lavorava il Cobra. Mentre stava per uscire gli dissi che volevo andare dalle assistenti sociali, che così non si poteva andare avanti. Ovviamente fu ben felice di liberarsi di ciò che credeva fosse la causa dei problemi, cioè io. L’unica cosa che commentò fu “Occhio alle minchiate che dici, perché poi ci parlo io”, “Non

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penso di aver bisogno di dire poi tanto... ti conoscono già!” risposi io con sarcasmo. Difatti quando io minacciai di gettarmi dalla finestra alle due assistenti sociali attonite, quella che mi seguiva da più tempo commentò “Si, conosco che persona è suo padre!” e cercò immediatamente una comunità di pronta accoglienza. Effettivamente si riferiva anche al passato ben oltre la linea di confine tra legalità ed illegalità del Cobra, e non nascose la sua perplessità nei confronti di chi, pochi mesi prima, mi avesse nuovamente affidato a quell’individuo e alla sua compagna, che in quanto al passato era alla sua altezza... se non peggio. In più con evidenti segni di schizofrenia. Decisamente un clima famigliare non adatto ad un ragazzino di quasi 16 anni. A distanza di anni sono certo che le cose le avrei potute modificare molto prima, senza vivere quell’inferno. Ci sarebbero stati parecchi modi. Andare dalle assistenti sociali sei mesi prima, quando la Angela mi dovette accompagnare lì, ad esempio. Ripeto, col senno di poi si cambierebbe tutta la propria vita, è un dato di fatto. E tutto avrebbe acquisito una dimensione parallela a quella che viviamo. Comunque quel giorno fui fortunato. Già con la prima comunità, “La Spiga”. Prima che arrivasse il Cobra, che doveva avvisare la megera di quanto stava succedendo, ci accordammo con la comunità che sarebbero venuti a prendermi lo stesso pomeriggio verso le 14,30. Quando lui arrivò si limitarono a spiegargli approssimativamente che sarebbe stato meglio per tutti che io potessi uscire da quel nucleo famigliare e gli descrissero brevemente questa comunità e la sua funzione. Approfittammo tutti del fatto che lui era stanco, essendo appena 14

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uscito dal lavoro, e che comunque anche lui voleva chiudere quella situazione squallida e snervante. Arrivammo a casa accolti dagli urli da indemoniata della megera, la quale non accettava il fatto che io mi fossi ribellato, che dimostravo di “fare quello che volevo”, usando le sue parole. Mentre loro mangiavano io preparai le mie cose, frattanto mi chiamò anche mia nonna Luigina, che mi assicurò che ci saremmo visti e sentiti. Lei ha sempre capito la situazione, ma purtroppo aveva anche le mani legate. Anni dopo, durante una discussione, mi disse la frase “Ricordati che il padre che odi tanto è anche mio figlio”. Purtroppo solo successivamente imparai a rispettare i legami degli altri, a dispetto dei miei rancori personali. Tuttavia successivamente mia nonna subì molto il non-affetto di quel figlio, a cui lei come madre sentiva di dover giustificare molte, troppe cose. Come d’accordo il coordinatore della comunità venne all’ora prestabilita. Ovviamente la megera doveva fare la sua figuraccia! Dal momento che il Cobra stava dormendo, visto che in quanto panettiere lavorava dalle quattro di notte a mezzogiorno, lei decise di tentare di opporsi al fatto che io venissi prelevato da uno sconosciuto, affermando, col sorriso di chi crede di aver avuto una trovata geniale “Senza il consenso di suo padre io non lo lascio nelle mani di uno sconosciuto”. Claudio, lo “sconosciuto”, che non smetterò mai di ringraziare per tutta la vita, rispose con un sorriso garbato “Signora, il padre del ragazzo da circa mezz’ora non ha più la patria potestà sul ragazzo. Quindi se lei crea dei problemi io sarò costretto a chiamare i carabinieri” Avendo preso, la discussione, un tono abbastanza concitato, il Cobra si svegliò.

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Dopo quache discussione io finalmente uscii da quella casa, accompagnato ancora nella strada dagli urli. La comunità rimaneva praticamente quasi nella stessa strada, giusto svoltato l’angolo. Solo che era al primo piano, anzichè al quarto. Ma ero finalmente fuori da quell’inferno. Ricordo che entrai nella gradevole stanza, appoggiai le mie borse sul letto e mi lasciai andare ad un pianto liberatorio di quasi due ore.

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III

Anche i cambiamenti in meglio danno un senso di destabilizzazione all’inizio. Come una pianta, quando la travasi o la metti a dimora nella terra, passa un leggero trauma. Così fu per me per un paio di giorni. Cercavo di mettere in ordine le idee, ora che mi trovavo in un ambiente neutrale, dove non mi avrebbero cacciato di casa perché ero gay, non non mi avrebbero malmenato o maltrattato. Finalmente avevo davanti un concetto di normalità. E non sapevo da dove cominciare a gestire quella normalità. Non sapevo da dove cominciare a fare tutte quelle cose che mi erano state negate. Rivedere i parenti da parte di mia madre. Mia zia Claudia, in particolare, con cui una volta ero molto legato, mia nonna Laura, i miei cugini. Avrei potuto finalmente riprendere gli studi, decidere una scuola, decidere cosa volessi fare da grande. Per un paio di giorni, mentre mi ambientavo in quello che per me era una specie di paradiso, mi crogiolai in tutti questi pensieri. Molto confusi tra di loro, in realtà e molto disordinati, non avendo ben chiaro o cosa dare o meno la priorità. Gli educatori, tutti obiettori di coscienza o ragazze del fino allora a me scono-

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sciuto “Anno di volontariato sociale” erano tutti gentili con me. Credo che cercassero comunque di capire che tipo di ragazzino fossi. Quindi sia io che loro cercavamo di capire me stesso. Anche se dalla finestra sentivo sovente i litigi della famiglia da cui me ne ero andato, mi sentivo comunque protetto e al sicuro. Volevo anche riprendere i rapporti con mia madre. O per lo meno volevo che la comunità mi aiutasse a farlo. Mi mancava tanto, mi mancava anche Monica, mia sorellina, la figlia di mia madre, avuta da mio patrigno; e volevo a tutti i costi che mia madre capisse che prima di essere un omosessuale, ero comunque una persona degna di rispetto. E comunque a quell’età ed in quel periodo non avevo molto le idee chiare anche sulla sessualità o meno di una persona. Come adesso, non concepivo il fatto che una persona fosse solo “con chi andasse a letto”. In fondo avevo già ben chiaro che, indifferentemente dalle mie tendenze sessuali, la mia vita sarebbe dovuta essere come quella di tutti gli altri. Sarei dovuto andare a lavorare, avrei dovuto pagare le tasse, un giorno avrei (destino voglia) trovato una persona speciale... tutte le cose che faceva tutto il resto del mondo. E quel mio concetto fu una cosa positiva, anche per il lavoro su di me in comunità. Fino ad allora non ero riuscito a riflettere su questo mio aspetto, ma adesso avevo anche la possibilità di confrontarmi con gente adulta che era competente su queste problematiche giovanili. Anche se “problematiche” non è il termine esatto. Su questi quesiti... ecco... penso che sia più appropriato! Nei periodi in cui abitavo con mia madre, il suo compagno con cui inizialmente avevo un rapporto abbastanza conflittuale, mi 18

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rimproverava sempre che non avevo dialogo con mia madre e lui. A ripensarci aveva ragione, in parte. Per fortuna, con gli anni il nostro rapporto è andato via via migliorando, ed anche il nostro dialogo. Comunque all’epoca non mi sembrava opportuno confidare loro le mie tendenze sessuali. Nell’inizio degli anni ‘90 in una famiglia di estrema destra. Invece in quel contesto potevo fare comunque domande, come un qualsiasi altro adolescente avrebbe potuto fare ai genitori. La cosa che mi aiutò molto fu la mia passione per la lettura. Ricordo che il primo libro sulla tematica gay che lessi fu “Ragazzi che amano ragazzi”. Una serie di testimonianze di adolescenti che scoprono e iniziano a vivere in maniera soft la loro omosessualità. Era quello che stavo passando io: sguardi furtivi, fantasie erotiche, sogni ad occhi aperti, l’illusione di vivere un amore da fiaba. Parallelamente alla crescita sociale. Ho sempre definito quel periodo come il migliore della mia vita. Ovviamente non mancava il diario segreto, costante della mia vita, senza il quale ora non sarei qui a scrivere.

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IV

Credo che una delle prime cose che feci fu proprio telefonare mia madre. Sorprendentemente per tutti, fu ben disposta al telefono, mi chiese come stavo, mi chiese della comunità, se mi trovavo bene, cosa avevo intenzione di fare... Notai con gioia in quella telefonata che, in quel momento la cosa importante non era la mia sessualità, ma il mio futuro. Ovviamente non sapeva quello che avevo passato negli ultimi mesi, e non lo seppe per parecchi anni. Ero comunque molto motivato e felice. Difatti iniziai a rivedere i miei parenti con regolarità, al sabato e alla domenica pomeriggio andavo in discoteca con una mia cugina (essendo nel frattempo diventato 16enne), regolarmente andavo a trovare mia nonna Luigina e mio zio Enrico, qualche volta andai a trovare la Angela e Roberto, i quali notarono con piacere che stavo finalmente rinascendo. L’unico punto su cui avevo le idee confuse era il lavoro. Come ogni ragazzo a quell’età dovevo decidere cosa veramente mi sarebbe piaciuto fare da grande, ma purtroppo arrivavo da una serie di situazioni in cui non avevo mai avuto tanta libertà di scelta su ciò che mi sarebbe piaciuto fare.

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Quindi, come d’abitudine, spulciavo gli annunci di lavoro sul giornale, mentre parallelamente qualcuno più competente mi semplificava la strada. Casualmente mi venne proposto l’annuncio di un corso polisettoriale che teneva delle selezioni, tramite un test. Era indirizzato proprio a giovani come me, che avevano avuto problemi di varia natura e che cercavano un inserimento nel mondo del lavoro. Partecipai al test, che consisteva, se ricordo bene, in qualche domanda di cultura generale. Anche se sono sempre stato sicuro riguardo alla mia cultura, anche in quel periodo, passai qualche giorno di suspense. Visti i miei precedenti insuccessi in campo lavorativo, davo per scontato che non mi avrebbero chiamato, pur rimanendo in attesa. E man mano che passavano i giorni la delusione aumentava. Finchè mi chiamarono una mattina. Mi avevano preso! Avevo superato la selezione! Dalla gioia corsi in ogni stanza della comunità, urlando la notizia a tutti. In poche ore la notizia giunse ai miei parenti ed, ovviamente, a mia madre. La parte di cui mi interessava della mia famiglia era tutta orgogliosa di me. E io... stavo diventando grande. Quello pensavo. Stavo diventando grande. Facevo le cose dei grandi che fino a pochi mesi fa mi sembravano impossibili. Entravo nel mondo del lavoro. Parlavo e la gente mi ascoltava. Decidevo della mia vita. E andavo in discoteca! Io e mia cugina Nadia iniziammo a frequentare una discoteca nella zona di Genova Piccapietra, aperta al pomeriggio, proprio per una clientela più giovane. E in discoteca anche chi è bello di natura si rende ancora più bello. Inizialmente stavo abbastanza sulle mie. 22

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Avevo sempre l’impressione di essere lo sfigato in quel posto, anche se in realtà ero semplicemente uno dei tanti frequentatori. Nulla di più, nulla di meno. Ma 16 anni era anche l’età delle paranoie. Quando dopo qualche settimana cercai di rendermi più indipendente da mia cugina, riuscii a socializzare e a fare amicizia anche con altri ragazzi. Effettivamente eravamo tutti lì solo per divertirci e fare amicizia. Nessuno mi metteva in disparte o mi trattava da sfigato. La paranoia era solo mia. E tra questi nuovi amici c’era lui. Di un paio d’anni più grande di me, capelli cortissimi riccioli, castano scuri, abbronzatissimo! Marco! Vedere un ragazzo così bello fu già uno shock per me. Farci amicizia fu... come dire... indefinibile! Nel corso delle settimane mia cugina iniziò a venire di meno, in discoteca, anche perché aveva nel frattempo trovato lavoro. Noi del gruppo ci trovavamo al bar accanto, prima di cominciare la fila, ci prendevamo un caffè, ci raccontavamo i nostri grattacapi che all’epoca ci sembravano insormontabili e poi iniziammo a fare la fila per entrare in discoteca. Dopo aver fatto tappa per comprare le sigarette, ovviamente. Perché allora si poteva fumare nei locali. Non mi sono mai chiesto se il mio gruppo di amici avesse mai intuito che fossi gay, in fondo io andavo là solo per ballare e divertirmi, non per altro. Anche se con il tempo questo Marco divenne la ragione reale per andare in discoteca. La cosa che mi fa sorridere, a ripensarci, che prima di uscire passavo almeno un’ora davanti allo specchio, a pettinarmi, a decidere che maglia mettermi... dopo un’ora che ero in discoteca talmente che mi scatenavo, sembravo appena tornato da una guerra.

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Parallelamente anche la mia giovane vita andava avanti. Iniziai il corso professionale, dopo un periodo teorico iniziale, fatto di molti test sulla personalità venne deciso lo sbocco professionale più adatto a me. Pastaio. Praticamente i primi due giorni della settimana saremmo andati normalmente al corso, mentre per il resto della settimana avremmo tenuto uno stage lavorativo, in base al proprio indirizzo professionale. Coi responsabili del corso mi recai ne “Il regno della pasta fresca”. Venni presentato al titolare, Daniele e ci accordammo che il mercoledì successivo avrei cominciato lo stage... alle 4 del mattino! Sul piano teorico mi piaceva quel lavoro. Sul piano pratico... ero abbastanza scettico. Comunque diedi la notizia al parentado, al settimo cielo, anche perché era uno sbocco professionale a cui non avevo mai pensato e a Genova era molto diffuso. In ogni caso nel corso degli anni qualsiasi mio scetticismo al riguardo venne vinto dalle possibilità che mi diede questo mestiere, specialmente dopo il mio trasferimento in Germania. Rispetto ai miei compagni di corso ero comunque fortunato, in quanto smettevo di lavorare a mezzogiorno ed avevo il pomeriggio completamente libero. Dopo circa sei mesi dovetti cambiare comunità, dal momento che quella in cui mi trovavo era “di pronta accoglienza”, ti dava cioè la disponibiltà immediata, ma per un periodo limitato di tempo. Venne scelta la comunità “Chiossone” che aveva due sedi, oltre ad un istituto per ciechi dove sorgeva la direzione. Per farmi un’idea dell’ambiente dovetti recarmi a cena nelle due comunità. Gli educatori di quelle cene furono rispettivamente Enrico, per la sede in Via Cabella, e Monica, per quella in Corso Torino. Successivamente furono quelli con cui legai di più, ad24

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dirittura il rapporto con Monica permane tuttora. Fui poi indirizzato comunque in quella in Via Cabella, per una ragione di disponibilità di posti, sebbene io preferissi l’altra sede. Ma comunque mi trovavo benone. A differenza della comunità precedente eravamo più ragazzi, circa una decina, tra cui trovai un mio ex compagno del collegio che frequentai quando ero in seconda elementare, Massimo. Tra i tanti c’era anche qualche bulletto. Ma per il momento nessuno mi impediva di procedere la mia vita come avevo iniziato. Andando allo stage durante la settimana, passavo davanti ad un’edicola che a quell’ora riceveva i giornali. Sostando lì davanti fui attirato da certi giornali. Che seppur fossero un po’ nascosti, le copertine si notavano. Il titolare notò la mia malcelata curiosità, e mi rassicurò dicendo che potevo guardare. Ma visto che dovevo andare al lavoro non potevo perdermi in quelle riviste, e comunque un po’ di imbarazzo lo provavo. Tornai il giorno dopo, comunque. Ed anche nei successivi, finchè un giorno il titolare mi regalò una pila di quelle riviste, suppongo di quelle che avrebbe dovuto restituire ai fornitori perché invendute. Infilai quel tesoro a luci rosse nello zaino ed andai a lavorare. Nei giorni successivi fui rapito, anche fisicamente, da quelle foto che finora avevo solamente visto nei giornaletti coi miei amici, di nascosto dai nostri genitori; ma in versione etero. In quei giornali erano invece le stesse cose, ma in versione gay. In comunità li nascosi sotto il materasso, convinto che fossero al sicuro. Ma comunque i giornaletti porno fanno parte del cammino di qualsiasi adolescente, soprattutto quando ancora non esisteva internet. E le mie fantasie ebbero comunque visi conosciuti, uno su tutti, Marco. Il mio idolo del weekend.

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Quando si ballava freneticamente, specialmente a quei ritmi che imperversavano negli anni ‘90, i bagni erano una tappa obbligata per rinfrescarsi. Difatti, come ho scritto pocanzi, per tutti, dopo un paio d’ore là dentro, del tempo usato per abbellirsi non rimaneva più nulla. A parte i fortunati che erano belli di natura, ovviamente. Una domenica, credo che fosse l’ultimo weekend prima della chiusura estiva, andai come sempre in discoteca. Io e Marco eravamo diventati molto amici, anche se non c’era alcuna allusione a qualche cosa di più, anche perché io non immaginavo che lui avesse capito qualcosa di me. E al di fuori degli educatori della comunità e qualche amica, le mie cose personali rimanevano un segreto per me. Dopo un paio d’ore mi presi la mia Coca Cola, come di consueto e mi avviai in bagno per rinfrescarmi. Marco mi aveva preceduto, e scherzando ci schizzammo l’acqua a vicenda, ridendo a crepapelle e mi stuzzicò facendomi il solletico. Mi trovai con le spalle al muro e... lui mi baciò. I desideri che si avveranno ti destabilizzano quasi come una botta in testa. Rimasi attaccato al muro, come se facessi parte di quel muro, rispondendo a quel bacio, approfittando di ogni decimo di secondo, per imprimerlo nella mia memoria. Ma il rischio che entrasse qualcuno era enorme. Ci staccammo, lui uscì e io mi sciaquai di nuovo il viso. Non era il mio primo bacio, il quale aveva la data 1 novembre 1989. Ma era speciale. Anche se non lo avevo desiderato, perché nella mia mente concepire un evento del genere con lui sarebbe stato troppo. Quello che sentivo fisicamente era indescrivibile. Mi girava la testa. Nelle labbra sentivo ancora il calore. Tremavo. Non riuscivo a ricompormi. 26

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INDICE

Prefazione ..............................5 Prologo ...................................9 Capitolo I..............................11 Capitolo II ............................13 Capitolo III...........................17 Capitolo IV...........................21 Capitolo V ............................29 Capitolo VI...........................33 Capitolo VII .........................39 Capitolo VIII ........................43 Capitolo IX...........................47 Capitolo X ............................51 Capitolo XI...........................55 Capitolo XII .........................59 Capitolo XIII ........................65 Capitolo XIV........................69 Capitolo XV .........................75 Capitolo XVI........................81 Capitolo XVII ......................85 Capitolo XVIII .....................89 Capitolo XIX........................93 ANTEPRIMA

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