La riga rossa

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Livio Comisso

LA RIGA ROSSA



Dedicato a Manu presenza vitale.



prefazione



Le parole scritte dallʼamico Livio Comisso raccontano il suo percorso di vita, partendo da un fatto che diventa per lui una sorta di nemesi, intesa come concetto fondamentale dell'equilibrio inalterabile della conditio humana. Nell'antica Grecia, Nemesi era una Dea che assegnava agli essere umani la propria sorte secondo criteri di equità e di merito, e sui quali ricadeva poi la sua punizione per le colpe, da essi commesse, che avessero modificato questo equilibrio. Tali punizioni, tuttavia, servivano anche a ripristinare quellʼequilibrio spezzato, riportando il destino alla giusta armonia. E questo è esattamente il modo in cui Livio ha vissuto il suo dramma personale, riuscendo a comprenderlo e ad elaborarlo volgendolo in positivo. Tutto questo viene narrato attraversando i ricordi e le contraddizioni di una generazione di creativi, nata tra gli anni ʻ50 e ʼ60, che sognava il cambiamento attraverso lʼarte. Questa generazione ha visto scorrere davanti ai propri occhi eventi che hanno lasciato un segno indelebile nella storia, come la ripresa economica e sociale del dopoguerra, in bilico tra utopia e speranza di un destino migliore, il Muro di Berlino, la guerra del Vietnam, la conquista dello spazio, il ʼ68, gli anni di piombo del terrorismo e della lotta armata, la questione medioorientale, le guerre in Iraq e nella ex-Yugoslavia, solo per citarne alcuni. In campo culturale, abbiamo assistito a rivoluzioni epocali, nella musica come nella letteratura e nella pittura. Ma siamo riusciti a cogliere la grande opportunità di costruire una società migliore, essendo stati testimoni diretti ed imparando da questi avvenimenti, o siamo piuttosto una generazione senza qualità, per dirla alla Musil, fatta da individui incompiuti che vivono nellʼillusione

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dellʼarte, avendo sostanzialmente fallito il nostro compito in una realtà da cui saremmo i primi a voler fuggire? I nostri genitori hanno combattuto a mani nude per dare un senso al nostro futuro e noi, che ci riteniamo furbi, abbiamo lasciato che tutto svanisse nello spazio di un mattino, lasciando ai nostri figli un vuoto culturale che fa paura. Ci riconosciamo a vista… siamo quelli che custodiscono gelosamente i vinili dei Genesis, dei King Crimson, di Jimi Hendrix, siamo i quaranta-cinquantacincinquenni i cui figli hanno visto nei loro genitori il fallimento umano di una generazione di idealisti che hanno rincorso visioni utopiche del mondo, facendo terra bruciata attorno ad ogni speranza. Scorrendo le pagine di questo libro ho avvertito la vaga sensazione di aver perduto il nostro Tempo, nel senso che lo stato di inquietudine creativa e le energie dissipate da un intera generazione abbiano fatto in modo che la nostra epoca ci sia sfuggita dalle mani. Livio, attraverso la sofferenza, ha capito che non dobbiamo più sprecare talento, impegno, intelligenza e cultura e sta trasformando la sofferenza in nuove opportunità di vita. La metafora della riga rossa, che la maestra usava a scuola per evidenziare gli errori, viene da lui utilizzata per darci una chiave di lettura, una chiave tanto semplice e banale quanto efficace e preziosa: traiamo insegnamento dai nostri errori e non permettiamo che la nostra sia ricordata come una generazione che conosce solo se stessa. (Marina Tuni)

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Il Moleskine…il taccuino di appunti preferito da Hemingway, (un gradito regalo di Paola) con la sua carta leggermente giallina, perfetta per ricevere la biro, mentre scrivo questi appunti, la mente rincorre ricordi evocati via via da frasi che ritornano. Basta una parola per aprire un capitolo, come fosse un rubinetto per innaffiare lʼorto, con il rigagnolo dʼacqua che cerca la sua strada. La storia che voglio raccontare è quella di un passaggio di vita che mi ha fatto vedere le cose con unʼaltra prospettiva. Una malattia che si manifesta allʼimprovviso, il ribaltamento dei valori e la “riga rossa” con la quale tiri le prime somme della tua vita. Il Moleskine di Hemingway mi fa ricordare una curiosità: quando ero ragazzo, durante le vacanze estive, racimolavo qualche soldo dipingendo stanze o interi appartamenti. Ebbene, unʼ estate ero a Gorizia in uno stabile dʼepoca e davo una “mano” di bianco ad un grande stanzone, quando la proprietaria mi disse: “…sai che in queste stanze cʼè passato Hemingway? Questo era un ospedale militare e lui, ferito, ha soggiornato proprio qui e tra queste mura ha scritto il suo Addio alle armi…” Hemingway lʼho incrociato ancora una volta a Key West, in Florida, dove ha vissuto in una casa che ora è meta turistica. È una casa bianca con le inglesine e, tutto intorno, un prato verdissimo e curato.

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Allʼinterno, il sapore dei ricordi, con foto e scritti alle pareti. Fuori dalla casa, diversi gatti, tutti belli. I gatti a Key West sono una presenza costante; ogni sera cʼè la festa del tramonto: centinaia, forse migliaia di persone si radunano sulle banchine del porto. Ci sono giocolieri, mangiafuoco, trampolieri e tutti i personaggi più strani e inimmaginabili che cercano unʼ offerta. Cʼè anche un ammaestratore di gatti. Avvicina qualche esemplare che dorme, attira intorno a se tutti i turisti curiosi che può e poi fa finta di addormentare il gatto. Nel caso che la bestiola si svegli e se ne vada, fa credere che è stato lui ad ordinare al felino di andarsene. È un gioco che fa ridere i presenti e guadagnare qualche spicciolo al “domatore”. Le navi da crociera (quelle più belle costruite a Monfalcone) attraccano con estrema precisione e velocità deponendo sul molo, come fossero uova di tartaruga, centinaia di turisti tutti uguali, americani, che in file ordinate si dirigono verso qualche punto di osservazione. Guardano il sole che scompare allʼorizzonte, risalgono sulla nave come su un autobus, e questa, con altrettanta velocità e precisione, salpa per le Barbados… Il sole è lo stesso, lo spettacolo anche, ma il sentimento del guardare, probabilmente no. Vedere le cose da unʼaltra prospettiva è, in fin dei conti, ciò che il nostro professore di disegno dal vero, Agostino

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Piazza, ci insegnava giornalmente. Guardare le cose con altri occhi, ribaltare il punto di vista, osservare attentamente anche i particolari più insignificanti. Era un uomo mingherlino, con la barba e la voce flebile, gli occhi curiosi di un bambino e le mani che inseguivano le sue parole. Ci portava fuori dalla scuola, come i bambini delle elementari, alla ricerca di un posto adatto ad essere ripreso in qualche schizzo veloce o di qualche architettura particolarmente affascinante di Gorizia. Talvolta anche un sasso era analizzato nella sua forma e colore. Diventava così opera dʼarte, posto in evidenza come nel movimento Ready-made. Il guardare le cose con unʼaltra ottica mi accompagna da quel tempo. È stata una grande lezione di vita perchè mi ha permesso di vivere certi momenti in maniera “distaccata” o con altri occhi. Per esempio, ho visto la mia malattia come un drago da sconfiggere in un epico duello. Lʼavevo detto a Piera, la conduttrice di un corso di scrittura creativa a cui avevo partecipato qualche mese prima, dove si prendeva spunto dalle fiabe per poi lavorare su noi stessi e sui nostri processi creativi. In un messaggio, Piera mi invitò ad andare nella mia città natale a cercare un luogo che mi ispirasse, e assorbirne lʼenergia: “è per i tuoi reni” - disse.

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Come se si trattasse di una fiaba, credetti subito a quel messaggio, anche perchè Piera era una persona che, come me, andava “aldilà” delle cose, alla ricerca della nostra energia cosmica. Così decisi di seguire il suo consiglio. Stavo entrando nella città stellata di Palmanova, in un pomeriggio assolato di luglio, attraverso una delle sue storiche porte. Dovevo cercare un punto che mi risultasse familiare o quantomeno mi ispirasse qualcosa. Poteva essere un angolo, un arco o una fontana, qualsiasi cosa che attirasse la mia attenzione e lo rendesse in qualche modo familiare. Ero nato in questa città solo perché qui cʼera lʼospedale, in un tempo in cui tutte le donne partorivano in casa e solo le “privilegiate” si potevano permettere tutte le assistenze di sala parto. Lo scooter sembrava cercare anche lui qualcosa di particolare e per il momento trovammo solo lʼombra di un parcheggio vicino al Duomo, in piazza. Forse allʼinterno avrei trovato qualcosa. La chiesa, in quel pomeriggio caldo, stranamente non attirava nessuno, nemmeno con le sue navate fresche e ampie. Cʼerano due studenti che osservavano attentamente gli affreschi del coro, leggendo alcuni cartelli descrittivi degli autori. Li seguii a ruota, scoprendo così che alcune opere erano del ʻ600 e che gli affreschi più grandi, di epoca più tarda, erano stati eseguiti da un pittore di maniera, che

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aveva lavorato molto in regione e anche nel santuario della Beata Vergine della Marcelliana a Monfalcone. Mi venne in mente un giro artistico che feci molti anni prima con un mio compagno di classe, Lucio Zambon. Girammo per il Friuli osservando opere quasi sconosciute ma piene di fascino. Come se avessimo intuito qualcosa, visitammo molte chiese che lʼanno successivo crollarono o furono danneggiate dal Terremoto in Friuli del ʻ76. Osservavo attentamente tutti gli angoli della chiesa, le splendide vetrate decorate, gli altari in legno, lʼostensorio... poi decisi di uscire. Sulla porta principale mi colpì, in alto, una decorazione in vetro che raffigurava una bilancia, il mio segno zodiacale. Era una bilancia del tipo usato dai farmacisti, con i due piatti: sul piatto a destra cʼera un cuore rosso fuoco, sullʼaltro un elemento poco chiaro, una lettera… e sotto una spada che sorreggeva tutta la figura. Stetti parecchi minuti ad osservare questo simbolo, certo che era ciò che dovevo cercare. “Quella energia è per i tuoi reni...” mi ripetei. Cinque giorni dopo, dallʼospedale, finito un esame terribile, mandai un sms a Piera: “devo combattere contro un Drago maligno che si porterà via un rene. Ma ho un cuore che ha voglia di emozioni e la spada dellʼArte...”. Non ci avevo pensato, ma avevo inserito nel messaggio i due elementi della bilancia, il cuore rosso e la spada... Piera mi rispose subito con un messaggio pieno di amore che feci leggere a Emanuela, la mia amatissima

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compagna, che mi chiese: ”quale lettera cʼera sullʼaltro piatto della bilancia?” “Sembrava una T...” - le risposi rabbrividendo; avevo avuto lʼesito degli esami quel giorno a Palmanova, ma non me ne ero accorto subito. Ora dovevo subire un esame medico piuttosto complesso, per stabilire una diagnosi certa su alcuni sintomi che avevo da alcuni mesi e lei, amorevolmente, mi dava consigli. I giorni seguenti furono un susseguirsi di messaggi telefonici e di telefonate di sostegno. Iniezioni di energia.

La vetrata sulla facciata del Duomo di Palmanova

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Era la prima volta in vita mia che andavo allʼospedale ed avevamo deciso (Manu ed io) di affrontare la cosa con spirito combattivo, positivo ed anche con un pizzico di ironia. Arriva la vigilia dellʼintervento. Manu ed io siamo in una bella camera con aria condizionata, in compagnia di un signore anziano di Udine che ci racconta lʼavventura della sua TAC. In mattinata il disbrigo di formalità quali colazione (lʼultima prima dellʼintervento) e la rasatura. Mi sembrava di essere un porco disteso sul lettino, mancava lʼacqua bollente e non mi avevano ancora scannato! Lʼinfermiere, molto meticolosamente, rade in senso orizzontale la mia trippa, arrivando alle palle. “Che lavoro del cazzo!” - gli dico con comprensione - “...eeh, toca anche questo!” - mi risponde, forse con una punta di rammarico perchè sono un uomo e non lʼinfermierina mora che zampetta in corridoio. “Poi passeremo per il consenso da firmare.” ”Consenso per che cosa?” Ah, ho capito, si tratta di questo: fuori della sala operatoria ci sono 3 o 4 gabbie ognuna con un gatto dentro. Sono i mici dei chirurghi e ce nʼè uno anche dellʼanestesista (è quello dal pelo rosso). Bisogna dare il consenso per dar da mangiare il rene asportato a uno o allʼaltro micio! Il chirurgo, quando taglia lʼorgano, chiama con il classico

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richiamo per gatti, che corrisponde al bacino con risucchio. A questo punto si apre la gabbia del fortunato, che se ne scappa in corridoio con lʼambìto trofeo. Gli altri mici aspetteranno un altro intervento, magari in pneumologia visto che vanno ghiotti anche per il polmone! Ci siamo fatti una risata in corridoio, così esplosiva che un gruppo di medici ed infermieri si è girato mormorando: “ma quel rosso lì, sa cosa lʼaspetta?” Io so che mi operano in laparoscopia (quindi con tre buchi sulla pancia) e subito mi viene in mente una foto di Maurizio Frullani su San Sebastiano trafitto dalle frecce. Potrei posare io: i buchi li ho, non servirebbe tanto trucco... sarei anche “magro” giusto! Beh, vedremo; per le foto cʼè tempo. Mi ha telefonato Teddy Reno: “Anche tu sei del Club? Il Club degli sderenati!”. Quota associativa 100 euro che comprende la tessera, una bottiglia di Riesling Renano, una gita in barca sul Reno. Ma se mi tagliano il fegato? Gita a Venezia! Arriva lʼora del beverone per rendere immacolato lʼintestino. Trattasi di 2 litri di soluzione allʼaroma non ben definito ma che quando, dopo diversi anni, ti trovi in un bar a bere cocktail con quel sapore, chiedi subito: “Dovʼè il bagno?” Il water mi accoglie a “braccia” aperte, sapendo che ci vedremo spesso nelle prossime ore. A me farà piacere quando lo vedrò dopo lʼintervento.

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Intanto ho scoperto che il mio anziano compagno di stanza è lʼarchitetto capostipite di uno studio associato, figlio, figlia & co. Il figlio, in effetti, poteva essere architetto, visto il senso pratico vicino allo zero dimostrato dal padre per aprire una confezione di fette biscottate. Prontissima la reazione di Manu che si è prestata ad aprirle, ben sapendo che altrimenti avremmo fatto notte con quella colazione. Il figlio, da par suo, con un borsello a tracolla assicurato ad una catena che non si capisce dove vada a finire, è un tipo di quelli a cui non chiederesti mai aiuto, di nessun tipo. Un attimo che vado al bagno... Eccomi. Due etti abbondanti in meno! Ma il drago è ancora lì, tra il rene e la vescica, pronto a uscire e a farmi vedere i sorci verdi. Intanto gli faccio vedere un passaggio ininterrotto di diarrea, comprendente una dose di brodo di pollo che non è riuscita nemmeno a farsi vedere dallʼintestino… subito via, nel condotto fognario! Sembrava di essere allʼAquasplash a Lignano, entri nel serpentone e ne esci, senza aver capito niente, dieci secondi dopo, espulso con grandi spruzzi di acqua... Ho attivato il mio “SALVAVITA”, una giusta dose di sano egoismo e ironia accompagnata da tutta la voglia di vivere possibile; è un aggettivo di Manu ma assolutamente azzeccato. Nulla dovrà distogliermi dalla voglia di recuperare e vivere. Come lo chiamo? E rimasto con me per 53 anni, fin

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dallʼinizio, ottimo servizio, insieme al fratello gemello, con un lavoro a volte massacrante e magari con qualche infreddatura ma sempre lì, a sinistra. Mi mancherai... ma come ti chiamo? RENÈ! È il giorno della battaglia, mi sento bene e pronto al combattimento. Il drago sta ancora dormendo... “Amore, i pantaloni sono leggermente lunghi?” È la Manu che si è fatta accorciare un paio di pantaloni alla pescatora; sua mamma ha deciso quanto accorciare, nonostatante le misure prese insieme e adesso le braghe, secondo Manu, sono un poʼ lunghe... che braghe ha il drago? Ore 8.30. Arrivano i dottori, primario, secondario, apprendisti, praticanti, ecc. In tutto una quindicina di persone, tanto che nella stanza non entran tutti. Il primario (lo dice la parola stessa) guarda per primo la cartella clinica sulla sponda del letto, commenta, diagnostica, pontifica e tutti quanti, attenti, ascoltano il verbo; solo lʼultimo dottorino con gli occhiali, magro, in fondo, che non è riuscito neanche ad entrare e non ha sentito niente, chiede, si informa, ma ormai il primario ed il suo staff sono nellʼaltra stanza. È in ritardo perenne di un paziente e talvolta confonde le diagnosi con la patologia. Avrà vita dura!

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Ore 9.30. (Appunti di Manu) Esce dalla stanza sul letto spinto dallʼinfermiera, mi manda un bacio e dice: “Tien de ocio i gati!” Ore 18.00. Esce dalla sala operatoria è stremato e pallido ma riesce ugualmente a dire qualche flebile battuta. Ore 20.50. Telefona la Giulia, il tuo amore, ti manda un grande, grande, grande bacio. Non te lo dico perchè stai male. Lo leggerai domani... Mi sembra di essere nudo, in un groviglio di filo spinato, al freddo e al buio. Non è una bellissima sensazione ma passerà. Il drago mi ha procurato diverse cicatrici; ho la spada insanguinata, lʼarmatura ammaccata, ma sono qui, a pensare. Capisco gli animali quando stanno male, rimangono immobili per giorni, fino a che il dolore si dipana e torna la vita. Sono sforacchiato dai tubi: due per il drenaggio, il catetere, lʼalimentazione sul polso e una sonda gastrica che entra dal naso. Non succede mai, ma questʼultimo tubicino è risalito dallʼesofago e si è attorcigliato con uno o due cerchi alla lingua. Comincio ad avere dei conati che mi procurano un dolore acuto a tutto il corpo, poi, sollecitata, arriva una

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dottoressa che si accorge che sto soffocando e ordina all’infermiera di togliere (con movimento deciso) il sondino dal naso. È stato il momento più terribile di tutta l’avventura. Non deve essere stato un bel momento neanche per il mio compagno di stanza che doveva essere operato il giorno dopo e che ha assistito alla scena. Gian ed io siamo diventati amici dopo questa avventura. Un’ amicizia vera, perché nata senza condizionamenti. Eravamo entrambi vulnerabili, nudi di fronte alla vita o alla morte, e questo ci ha unito con un filo robustissimo che è dentro di noi.

Il drago era sconfitto, ma con quali dolori... Eppure non c’è un momento di disperazione o abbandono; sento un’energia, che viene da lontano, che mi avvolge e protegge. Ho Manu vicina, che soffre con me ma che mi regala una forza inimmaginabile. C’è anche mio fratello, preoccupato, vicinissimo come mai in questi anni. La nostra storia fatta di separazioni lunghe, ma anche di periodi di avvicinamento intensi, avrebbe potuto avere diversa fortuna, ma, tant’è... “Siamo sempre stati precari nei luoghi dove abbiamo vissuto..” - mi dice in un momento di riflessione, dove entrambi ci confessiamo. Avremmo potuto raggiungere qualsiasi obiettivo nella vita, se non fosse stato per il DNA compromesso da esodi, spostamenti, fughe. Dapprima i nostri genitori, con l’esodo degli istriani, che se ne vanno dal paese dov’erano considerati dei “signori”, portandosi via quel poco che si poteva, lasciando casa, negozio, campagna, cisterna, cuore... per andare in Friuli,

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in un paese scelto su una improbabile cartina geografica dove, ipoteticamente, gli eserciti non sarebbero transitati... e invece… Rimettere in piedi un’attività, vivere di lavori precari, poi l’incontro di nostro padre con Dolores (un nome atipico per una friulana), il matrimonio, il breve ritorno in Istria, la fuga definitiva con mio fratello in braccio. Una donna con le palle, nostra madre. Aveva caricato su un camion tutte le masserizie possibili ed impossibili (un torchio per l’uva ed altri attrezzi) che erano vietate. La Milicija iugoslava obbligava a lasciare tutto nella casa in Istria. Ma Dolores aveva caricato il camion e alla frontiera, all’intimazione di scaricare tutto per i controlli, aveva assalito il “graniciaro” con la frase: “Se volete controllare, scaricate voi e poi rimettete tutto a posto.” Aveva mio fratello Licio in braccio e probabilmente questo le dava la forza di un animale che protegge il suo cucciolo con tutta la determinazione necessaria. Ci ha raccontato più volte, negli anni, la sensazione liberatoria e di enorme felicità che le ha provocato l’alzarsi di quella sbarra di confine, linea di demarcazione tra l’oppressione e la libertà, tra il passato ed il futuro, con un figlio e una famiglia che comunque se la sarebbero cavata. Una sera a cena, parlando di questo episodio con Licio, mi dice che per tutta la vita ha avuto uno strano rapporto con le auto o i veicoli di color verde. Quel verde non ben definibile tra il verde ringhiera e il verde marcio tipico dei veicoli dell’est. Poi nella sua mente si è palesato un ricordo: quel camion che lo ha portato via dall’Istria era verde… Dopo aver concluso le scuole elementari e quelle medie, un po’ in un collegio, un po’ in un altro, aveva deciso di

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frequentare l’Istituto Nautico a Trieste... di nuovo in collegio e di nuovo un allontanamento. Quando ci capitava, raramente, di dormire assieme, mi diceva che lui sarebbe partito per mare: sognava d’imbarcarsi e navigare. E così fece. Il suo primo imbarco fu su una barca di legno che trasportava bauxite dall’Istria a Porto Nogaro, il paesino dove a quel tempo abitavamo. C’erano delle cave vicino a Gimino, la bauxite veniva poi imbarcata a Rovigno, arrivava a Porto Nogaro e finiva il percorso in qualche industria veneta che ne estraeva l’alluminio. Lui dormiva in un’angusta cuccetta, sistemata a prua, molte volte invasa dall’acqua... ma era felice. Più avanti si sarebbe imbarcato sulle più grandi petroliere del mondo, ricoprendo il grado di direttore di macchina. Avrebbe girato il mondo, dimenticandosi velocemente quel paesino di trecento abitanti con un piccolo porto! Lui aveva (ed ha) il mare dentro, la barca, il navigare, forse la fuga. Con i primi soldi degli imbarchi, aveva deciso di farsi costruire la prima “batela”, un barchino in legno di 4 metri e con fondo piatto, tipico della navigazione fluviale e lagunare. Aveva contattato un “costruttore” del paese, molto abile, procurato il legname, e incominciato la costruzione. Io assistevo qualche volta alla sagomatura dello scafo, che comprendeva la lavorazione e la piega delle assi di legno a fuoco vivo, fino a portarle alla forma voluta. Dopo che lo scafo era pronto, si passava all’impermeabilizzazione, con catrame dall’odore improbabile quasi quanto il nome: carbulineo. Infine la pitturazione: celeste, bellissima. Ho rivisto il suo sorriso di quel varo degli anni ‘60, esattamente quando ha comperato uno sloop d’epoca,

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qualche anno fa. E anche qui una fuga, più “matura”, più avvincente e più fascinosa. Una splendida barca a vela in legno con la quale, penso, abbia passato alcuni anni come voleva. Siamo ritratti, lui ed io, in un volume sulle barche partecipanti alle regate d’epoca di Imperia. Ed è una foto, scattata nel Golfo di Trieste, una delle poche foto che ci ritrae insieme, come vorremmo che fosse sempre. Quando era ragazzo, sognatore di grandi viaggi, mi accompagnò nel piccolo porto dov’era ormeggiata una splendida barca a vela in legno, un dragone (allora non era d’epoca), senza cabine, con la coperta liscia. Aveva una linea splendida, quella che si ritrova spesso nelle riproduzioni di mezzo scafo che si appendono nei salotti. La guardava estasiato e allo stesso tempo pensava che un giorno l’avrebbe posseduta. Mi disse anche che lui ed io saremmo arrivati in quel porticciolo natio, risalendo il fiume con la sua barca. Era bello quel fiume con le sue anse piene di vegetazione. Nasceva a pochi chilometri da quel porto, si allargava dapprima in un piccolo cantiere navale, specializzato in chiatte e rimorchiatori, poi sulle banchine dove si ormeggiavano le navi mercantili e dove arrivava anche la ferrovia. Quindi, lentamente, sempre più ampio, arrivava al mare, in laguna. Quando c’era la festa del paese, la prima domenica di agosto, la processione della Madonna della Neve avveniva risalendo il fiume con un rimorchiatore, dove era collocata la statua della Vergine tutta illuminata. Verso la sorgente del fiume si accendevano lumini galleggianti, a centinaia, tenendo conto dei tempi di percorrenza e della corrente. Così il rimorchiatore, seguito da tante “batele” festanti,

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incrociava, al tramonto e contro corrente, tutti quei piccoli fuochi proprio davanti al porto, dove i fedeli aspettavano la Madonna. Era, senza dubbio, una serata speciale, alla quale ho assistito da una posizione privilegiata: sul ponte del rimorchiatore.

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Licio e Livio su “Kristal”

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Ebbene, anni più tardi mio fratello, il papà ed io risalimmo il fiume con la barca a vela, che assomigliava moltissimo a quella ormeggiata trentʼanni prima. Fu una conquista perchè, comunque, un sogno si era realizzato. Con quella barca intraprendemmo, qualche tempo dopo, la circumnavigazione dellʼItalia.

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Partimmo un venerdì Santo, da Lignano. Lʼequipaggio era composto dal capitano Licio, uno skipper, Aldo, proveniente dal Tirreno, dal Capitano in seconda, Tomas e dal cuoco/mozzo che ero io. Tomas fece una promessa perentoria: “Si naviga facendo la rotta solo con il sestante, sarà più avventuroso ed avvincente.” Io, da parte mia, avevo fatto le provviste per una decina di giorni ed ero pronto per sfamare la ciurma. Licio e Aldo erano i tecnici/tattici e quantʼaltro!. Mio fratello aveva anche acquistato un GPS, (per quegli anni, uno strumento allʼavanguardia), che aveva sistemato, rigorosamente imballato, in un gavone. Si va... rotta su Ravenna, arrivo previsto: boh! A nemmeno tre ore di navigazione il mare ingrossa, il vento si rafforza, diamo due mani di terzaroli, via il fiocco. Tomas sta male, Licio pure, Aldo anche. Lʼunico pimpante è il cuoco/mozzo che. dopo un brevissimo indottrinamento, si ritrova a timonare in piena burrasca notturna, seguendo un numero sulla bussola. Ma se questo è lʼinizio dellʼavventura... Viste le previsioni meteo, il mal di mare, il sestante, ecc. decidiamo, dopo una notte di tregenda, di ritornare a Lignano allʼalba del giorno di Pasqua. Fine del viaggio, senza aprire nemmeno una scatoletta di tonno... Negli anni a seguire navigherò con Licio in Tirreno, nei raduni di barche dʼepoca, attraverserò lo stretto di Messina e sarà comunque un bel navigare.

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Ora navigo con lui, spero per un breve tratto, in questa stanza dʼospedale e la sua presenza mi conforta. Quando lui ebbe lʼinfarto, qualche tempo fa, il mondo mi crollò addosso, pensando al peggio; poi le notizie divennero via via sempre più positive e infine, quando sentii la sua voce al telefono, scoppiai in un pianto a dirotto e liberatorio. Facemmo un blitz allʼospedale di Siena partendo la mattina e ritornando la sera, tenendo allʼoscuro papà. Ora mi rivedo sul suo letto dʼospedale, in pensiero per la sua salute, ed i ruoli si scambiano, con Licio che mi osserva preoccupato. Oggi, dopo aver tolto il catetere, mi sale la febbre in maniera improvvisa. Chiedo una borsa di ghiaccio che raffreddi la testa e un farmaco. È la seconda febbre forte questʼanno. La prima, allʼinizio di gennaio, in pieno deserto libico. In un accampamento tendato nellʼAkakus, lontano da ogni civiltà, in un mare di sabbia, affascinante e misterioso. Le mie difese, evidentemente, si sono allentate, ho mandato a quel paese le preoccupazioni e lo stress di tutti i giorni ed il corpo ne ha approfittato. Siamo partiti (Manu ed io) per un viaggio che avrebbe segnato in qualche modo la nostra vita. Il deserto ci ha conquistato con la sua forza, lasciandoci senza parole davanti alle sue dune altissime, con spazi inimmaginabili e colori da tavolozza. Il deserto sembra vivere con il nulla, con le rocce o con le

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montagne che hanno visto lʼuomo incidere scene di caccia con giraffe, elefanti, leoni... ”Che cosa ci manca qui?” - ci siamo chiesti. A parte un poʼ di cibo e acqua, non ci manca niente. Cʼè una forza nella natura che ci circonda, cʼè una pulizia del nulla che, senza saperlo, abbiamo sempre cercato. Ci siamo noi. Con la febbre sono rimasto alcune ore da solo nellʼaccampamento. La responsabile era andata a fare provviste ed il gruppo era in tour. Sono uscito dalla tenda per capire qualcosa di più sul silenzio e la totale assenza di... tutto. Ho ritrovato me stesso, la mia dimensione, il mio respiro. Il deserto ti protegge dalla massa inutile di mercanzia di tutti i giorni, ti protegge dalla stupidità umana, fa affiorare in te lʼistinto primordiale che preserva, innanzitutto, il corpo e la mente. Ero libero e felice... Il giorno prima, in visita ai graffiti sullʼ Akakus, avevo acquistato un oggetto particolare da un improvvisato venditore Tuareg. Era un minuscolo strumento musicale, fatto con una scatoletta di sardine che fungeva da cassa armonica; nella parte superiore una serie di 5 lamelle, tese come fossero tasti di un piano e riproducenti cinque note. Il venditore Tuareg mi disse che era lo strumento del deserto, quello che tiene compagnia nella solitudine. Ed era vero.

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Provai a suonarlo ed era come se il deserto iniziasse a cantare. La sensazione di libertà lʼhanno provata tutti i componenti del gruppo, che abbiamo risentito a viaggio concluso. Per tutti, un ritorno alla pura essenza delle cose... anche se per pochi giorni. Poi il ritorno, pian piano, alle abitudini, allo stress...

Avevo organizzato, circa un anno prima, una mostra di un artista amico, Cristiano Leban, il quale, in quel periodo, dipingeva sulla carta fatta a mano da lui stesso. Oltre allʼesposizione nella Galleria AlternʼArt, avevamo organizzato un evento anche in una palestra della zona, molto frequentata e con una grande sensibilità da parte dei titolari per certe manifestazioni. Tempo prima avevamo sentito degli ottimi concerti e anche esposto altre opere dʼarte. Questa performance aveva come tema la carta. In una sala avevamo appeso grandi fogli bianchi, dove ognuno poteva esprimere la propria creatività, sotto la guida di Cristiano. Lo scopo era quello di far provare a chiunque lʼemozione, o lʼansia, di avere di fronte uno spazio da riempire con qualcosa; un segno, un colore, una scritta... In unʼaltra sala, una ventina di persone aspettavano le mie direttive per un esercizio/gioco molto divertente e liberatorio. Lo avevamo sperimentato in un corso di espressività

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corporea, organizzato da Aldo Rupel, un grande uomo di cultura mentale e fisica. Si tratta di togliere le scarpe, sistemare fogli di giornali quotidiani fino a coprire tutto lo spazio della sala, camminarci sopra con un sottofondo musicale adeguato; bisogna sentire sotto i piedi il fruscio dei fogli, percepirne il rumore. È un esercizio che si fa senza parole. Poi, ad un mio invito perentorio, accompagnato da una musica travolgente (in quel caso Goran Bregovic) si corre, ci si rotola, si scivola sulla carta, la si appallottola, ci si libera insomma da ogni tensione. Quello che avevo provato io, quando avevo fatto questo esercizio, era un gran timore di rovinare le pagine, di spiegazzarle camminandoci sopra. Rupel mi dette una spiegazione molto semplice: “tu lavori con la carta, per te è sacra, quindi ti sembra di rovinare il tuo lavoro…” In un altro spazio della palestra avevo collocato un pallet di carta, circa 200 chili in un unico blocco. Avevo portato unʼaccetta, una mazza ed un coltello. Lʼinvito era quello di tentare di distruggere quel blocco di carta di un metrocubo. Naturalmente era impossibile! Spiegai allora il perchè di quella esposizione. “Questo blocco è composto solo ed esclusivamente da fogli di carta, uno sullʼaltro; ogni foglio è facilmente distruttibile, tagliabile, eliminabile ma, insieme, uno sullʼaltro, formano uno dei materiali più resistenti, persino

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al fuoco. I fogli sono i nostri stress quotidiani, le arrabbiature che non sappiamo gestire ed eliminare; allora le appoggiamo lì, una sullʼaltra, finchè avremo un blocco così massiccio e pesante che ci porterà alla malattia.” Ribadii che queste tensioni non risolte portano anche a forme tumorali, che si manifesteranno nei nostri organi più deboli. Mai fui più profetico, soprattutto per me stesso.

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Nei giorni successivi allʼoperazione, quando mi medicavo da solo le ferite, lʼodore del disinfettante mi riportò indietro negli anni (la memoria degli odori é uno dei temi che mi affascinerà di più…). Eravamo a Dubai, Emirati Arabi, per seguire la carovana del Mondiale Offshore (quegli enormi motoscafi che filano a oltre 200 km sullʼacqua). Il mio socio Aldo curava tutta lʼospitalità del Team Agip che, pur non avendo un motoscafo in gara, presentava tutti i prodotti da competizione, dalla benzina arricchita, agli oli più performanti. Avevamo allestito una serie di gazebo, una fontana con il marchio Agip riprodotto sulla base, un autobus inglese che serviva da cucina; il tutto nel sito più centrale di Dubai, il municipio. Eravamo sul giardino antistante, dove cʼè anche la statua del cammello, simbolo sacro agli arabi; un posto verdissimo. Con oltre 40 gradi dʼinverno ci chiedevamo come faceva a crescere tutto quel verde. Ebbene, dove cʼè del verde a Dubai, ci sono delle condotte sotterranee di acqua dolce che irrigano, giorno e notte, la terra. Acqua a Dubai non manca, grazie ai dissalatori a mare. Avevamo anche portato dallʼItalia una Ferrari Formula 1, che era arrivata in aereo smontata in tre tronconi. Nellʼefficientissimo Cargo Terminal di Dubai, alla presentazione dei documenti, un carrello elevatore era immediatamente sparito negli enormi corridoi dellʼhangar,

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ritornando pochi istanti dopo con una prima cassa marchiata Ferrari. Era comunque stata unʼemozione particolare avvitare con brugole in titanio i tre corpi della vettura. Era una Ferrari. Tutti noi provammo a sederci nel posto di guida, un bozzolo strettissimo per me, ma pieno di fascino. La sistemammo su una pedana illuminata, proprio di fronte alla fontana con il marchio Agip. Attirò subito lʼattenzione di tutti i passanti sul viale principale, soprattutto la sera, quando il caldo era più sopportabile. Anche la gara con i monopattini allʼinterno del paddock era troppo divertente! Avevamo portato tre monopattini elettrici e una sera, per ingannare il tempo e far divertire i curiosi, organizzammo una gara tra gazebo, molo e giardino pubblico. Il monopattino elettrico lo vidi per la prima volta da Aldo. Era un veicolo al quale non potevo resistere. Ecologico, pieghevole, veloce e comodo. Ne avevo uno in studio, personalizzato con i miei colori, il grigio chiaro ed il giallo, e viaggiavo per strada, in città, suscitando qualche volta lʼilarità dei passanti, ma, più spesso, una certa invidia per la praticità del mezzo. Mi riconoscevano tutti, era troppo bello... troppo! Una mattina, una pattuglia dei Carabinieri mi inseguì e mi fermò, con la classica manovra dedicata solitamente ai trasgressori di qualcosa: tagliandomi la strada! “Buongiorno, favorisca i documenti”

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Quali documenti? La carta dʼidentità basterà? “Questo veicolo è omologato per circolare in città?” “Mah, credo di sì, però non ho il libretto di circolazione, quindi non paga bollo nè assicurazione...è elettrico!” “Scenda! Vada a piedi fino a casa e non circoli più per strada. Per questa volta non le faremo nessuna contravvenzione!” È la legge con tutte le sue regole, qualche volta non chiare, che comunque preferisce proibire che lasciar correre. A Barcellona, sempre con Aldo, un week-end presentammo la Pireña, una corsa di sleddog sui Pirenei. Ma la partenza, con tanto di cerimonia di presentazione, la facemmo sulla spiaggia con i cani, le slitte, gli equipaggi. Arrivammo con una serie di camion. Allestimmo un ufficio stampa, un palcoscenico ed un piccolo percorso, delimitato da picchetti, per una dimostrazione con i cani. Gli equipaggi avevano dormito in tenda, sulla spiaggia, ognuno con la sua muta di cani, in fila come sulla neve, con il capobranco in testa. Si capiva che era il capobranco non solo perchè era il primo della fila, ma anche perchè i cani vicini, nonostante fossero legati, si avvicinavano a lui e si sdraiavano porgendogli la gola. Lui li mordicchiava, stabilendo così le gerarchie. La presentazione avvenne verso le 14.30, prima di pranzo, davanti a non meno di tremila curiosi. Per avere il premesso di allestire questo “circo” bastò una

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comunicazione al Comune di Barcellona, che rispose affermativamente praticamente subito. In Italia, per una manifestazione simile, ci sarebbero voluti una dozzina di permessi rilasciati forse dopo mesi. E comunque non si sarebbero potuti portare i cani in spiaggia, tantomeno le jeep e le tende… Ma parlavo di Dubai... Nel programma dei due week-end di gare cʼera anche una cena di gala offerta dal Team allʼemiro. DallʼItalia avevamo studiato un menù tipico che tenesse conto del fatto che alcuni cibi sono banditi dai musulmani. Idea delle idee! Minestrone di fagioli (senza cotiche!). Con noi era venuto un cuoco, nostro compagno di avventure. Era un tipo burlone, grande e grosso, sempre allegro e pronto a cucinare qualsiasi cosa. Aveva portato i fagioli dallʼItalia e adesso, la mattina della cena, eravamo a colloquio con il responsabile dello Sheraton di Dubai, uno svizzero mingherlino, cordiale ed efficiente. Ci mise a disposizione un angolo della cucina dellʼHotel ed incominciammo a cucinare. Incominciammo (al plurale) perchè io facevo da assistente e riprendevo con la mia telecamera tutte le fasi della preparazione. Beh, cucinare pasta e fagioli allo Sheraton di Dubai, per poi servirla allʼEmiro, non era cosa di tutti i giorni! La cena fu un successo: cʼerano tutti i Vip del circo dellʼOffshore, alcuni attori, sportivi famosi, gente nota, e la pasta e fagioli mise tutti su uno stesso piano... questa fu la mia sensazione. Seguirono un menù tipico italiano,

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francese e arabo. La coreografia comprendeva una grande scultura in ghiaccio, al cui interno era inserito il marchio dellʼAgip. Lʼaveva fatta un giapponese, allo Sheraton. Lavorava praticamente tutto il giorno in una stanza/frigorifero, con enormi blocchi di ghiaccio che sagomava con martello e scalpello. Erano le sculture a tema per le cene di gala, mediamente due al giorno, che si svolgevano nei saloni dellʼHotel. Le figure erano tratte da libri, illustrazioni o di fantasia. Da una parte dello “studio” cʼerano ancora elementi coreografici di ispirazione italiana: un improbabile David di Michelangelo, insieme a gondole veneziane e vulcano (Vesuvio o Etna non si capiva). Il nostro totem di ghiaccio era però un capolavoro che durò qualche ora nel caldo serale di Dubai. E la cena rimase memorabile. Il giorno dopo arrivò al residence dove alloggiavamo un nuovo ospite che, senza disturbare, si mise a dormire su un divano. Al mattino facemmo colazione insieme e si presentò. Era Franco Acerbis, quello degli accessori in plastica per le moto, conosciutissimo nellʼambiente e un gran simpatico. Ci chiese cosa avremmo fatto quella mattina; avevamo deciso di andare al mare e lui si unì al gruppo. Partimmo verso una zona dove cʼera una lunga spiaggia, assolutamente deserta, dove si alternavano le ville degli sceicchi e dei ricconi di Dubai. Ne notai una in particolare, che aveva una recinzione di

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almeno un chilometro, con un entrata hollywoodiana dove cʼera un posto di guardia che era di per sè una villa bellissima. Figuriamoci cosa doveva essere la casa vera e propria! La spiaggia era una lingua di sabbia chiara, non tanto larga, senza nessuna struttura, pulita, con un mare dalle onde azzurre e calde. Trovammo dei noleggiatori di moto dʼacqua; arrivavano al mattino con grossi pick-up con a rimorchio, avevano 4/6 moto, piantavano un ombrellone e aspettavano i clienti. Arrivammo noi quattro, eccitati per lʼopportunità di poter volare sullʼacqua, saltare sulle onde e fare i matti! Pagammo per unʼora e incominciammo a scaricare le moto. Mentre aiutavo a sistemare la mia nellʼacqua, tirandola verso di me, il propulsore mi ferì lʼalluce tagliandolo quasi in due. Dolore fortissimo, sangue, unghia che sarebbe caduta fra poco, ma la voglia di andare in mare era troppo forte. Mi feci medicare alla meglio e poi – idea!! - mi avvolsi il piede con un sacchetto di nylon. Prendemmo dunque il mare e filammo come pazzi verso il largo: virate, salti sulle onde, cadute piacevoli in acqua... Decidemmo di andare a curiosare dal mare le ville dei ricconi; tutte con porticciolo privato, mega yacht ormeggiato e piscina a livello mare. Franco, il più scatenato di tutti, ci indicò un punto al largo dove cʼera un gran ribollire dʼacqua; probabilmente un branco di pesci, sardine o altro... Arrivammo sul posto e dopo una serie di salti, evoluzioni,

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tuffi in acqua, ci acorgemmo che dalla riva ci stavano facendo dei segnali con grandi gesti. Probabilmente lʼora era finita, volata! Ritornammo a riva e, appena toccato terra, il noleggiatore ci raggiunse trafelato, facendoci capire, in inglese, che non avremmo dovuto allontanarci così dalla riva e che nel posto dove avevamo visto brulicare il mare, cʼera in effetti un branco di pesci ma sicuramente anche qualche squalo affamato. Ed io avevo un sacchetto di nylon avvolto su un piede sanguinante... In farmacia avevo trovato una serie di bende ed un disinfettante che aveva lʼodore che adesso ricordo perfettamente. Lʼavventura di Dubai con le sue cene, il gran premio (vinto per la prima volta dal Team Victory degli Emirati), la Ferrari e la pasta e fagioli, mi rimasero a lungo nella memoria. Di incontri con gli squali non ne ebbi più, al massimo con un tonno nel reef di Ras Mohammed, durante unʼimmersione piena di meraviglie in un viaggio a Sharm el Sheik assolutamente tradizionale, che però mi fece conoscere un altro amico interessante. Aveva una piccola ditta in Italia e conosceva bene il Sinai perchè ci era venuto in moto anni prima, quando i viaggi erano pioneristici, in una zona dove il turismo non era ancora arrivato e gli israeliani se nʼerano andati da poco. Aveva trovato diversi posti di blocco ma poi il suo ricordo

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si concentrò su un lunghissimo rettilineo asfaltato che arrivava a Sharm dal deserto, percorso al tramonto, dopo giorni di sabbia. Era stata unʼavventura, e ricordarla aveva un nuovo e diverso sapore: voleva tornare a Dahab. La spiaggia dellʼultimo attentato terroristico in Sinai. Così noleggiammo unʼauto e dopo un centinaio di chilometri e due posti di blocco, arrivammo nel paradiso degli hippies. Eravamo nel 2000 ma lʼatmosfera di quel posto era anni ʻ60. Ci aspettavamo da un momento allʼaltro di veder comparire da qualche parte Jimi Hendrix o Janis Joplin, vestiti con quelle camicione indiane di Woodstock e suonando Hey Joe o qualche altra ballata di quegli anni. Passammo la giornta a ciondolare tra botteghe di profumi ed improbabili bar/pizzeria. La “vita” a Dahab iniziava di sera. Ritornammo a Sharm, perchè il giorno dopo ci aspettava un giro nel deserto in “quad”, unʼesperienza della quale si può fare tranquillamente meno. Più preparati e temerari erano i motociclisti solitari che ogni tanto si vedono nel deserto ed il pensiero corre verso Edi Orioli, vincitore di diverse Parigi Dakar e grandissimo pilota, che avevo conosciuto anni fa durante la 12 Ore Enduro di Lignano Sabbiadoro. Era una bellissima gara che si svolgeva sulla spiaggia e durava, appunto, 12 ore. Il mio studio ne curava lʼimmagine fin dalle prime edizioni ed ebbi così modo di conoscere diversi campioni, da De

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Petri a Marinoni (morto durante una delle ultime edizione della Parigi Dakar) a Edi Orioli appunto, con il quale facemmo più di qualche cena pre e post-gara. Quello che mi colpì, sin dal primo momento, era la sua struttura: un corpo massiccio che si evidenziava già dalla stretta di mano poderosa. Mi raccontò di una caduta con la moto sui sassi del Tagliamento a gran velocità e rialzarsi senza un graffio... impensabile per un uomo normale, ma il suo corpo era più forte. Ne sono convinto più che mai adesso che sto vivendo questa esperienza in ospedale. Il corpo guarisce in fretta, con grandi progressi giornalieri; ritrova lʼequilibrio, calma i dolori, riassorbe i traumi. Quante volte abbiamo sentito di qualche incidente in cui il protagonista era in fin di vita per poi, dopo qualche settimana, seppure con stampelle o ingessature varie, ritrovarlo, quasi di buonumore, a riprendere il cammino della normalità? A pochi giorni dal mio intervento (che è durato otto ore e mezza) il mio corpo reagisce progressivamente alle cure, migliorando ora dopo ora.

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Edi Orioli

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Ricordo quando Edi ebbe un serio incidente alla ParigiDakar. Era quasi spacciato, con numerose lesioni vertebrali. Lo aspettammo alle 3 di notte, allʼaeroporto regionale. Arrivava dallʼAfrica con un aereo ambulanza. Era completamente intubato e stretto in barella. Suo padre, preoccupatissimo, lo tenne stretto accompagnandolo allʼambulanza, mormorandogli qualche frase e tranquillizzandosi piano, piano. La forza del suo fisico gli permise di reagire in fretta e dopo qualche mese riprese a correre in moto. La stessa struttura fisica, la ritrovo in un altro grande amico. Gianfranco Crivellari: campione di motocross, moto dʼacqua, kite surf... e basta, direi! Anche su di lui, le cicatrici parlano di infortuni ed incidenti che il corpo ha subito guarito. Era arrivato allo studio un pomeriggio e mi aveva chiesto alcuni consigli per il suo futuro. Si era accorto che fino a quel momento aveva vissuto in un mondo parallelo a quello reale: quello delle gare sportive, degli allenamenti, dei piloti, dei camper, dei premi vinti... ma ora che gli anni bussavano alla porta, si ritrovava con un pugno di mosche, senza lavoro, una casa, una sicurezza. Non che fosse a fine carriera, perchè era in piena forma lo è tuttora - ma perchè forse si sentiva mancare la terra sotto i piedi. Lo rincuorai offrendogli quello che potevo; sʼinnamorò del lavoro e qualche tempo dopo trovò casa e una sistemazione lavorativa concreta in unʼazienda che commercializza strutture per ospedali, sale operatorie, ecc. Quando mi portarono in sala operatoria per la seconda

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volta, osservai la lampada scialitica sopra di me e dissi ad un medico che mi stava operando: “Ma questa lampada è vecchia, non avete una Trumpf Med® a led?” Il medico si meravigliò della mia conoscenza: “ No, quelle sono in sala al piano terra.” Verificai lʼaffermazione con Gianfranco, il quale confermò che cʼera stata una fornitura in quellʼospedale, montata al piano terra. È tornato in zona perché era scontento del suo lavoro, troppo stressante, con la voglia di tornare a casa, ad una vita più semplice, senza ore di code, di traffico, consegne da brivido, problemi tecnici di ogni tipo e viaggi in giro per lʼItalia per risolverli. È ciò che cercano tutti. Una tranquillità fatta di ritmi diversi ma che presuppone esigenze diverse; molto più contenute. Quali sono le priorità? Dopo unʼesperienza come questa la mente cerca di dimenticare le sofferenze, il dolore e i momenti drammatici nei quali si pensa alle cose importanti della vita: la salute, i rapporti con il prossimo, in unʼottica totalmente diversa dallʼ”avere” o dal “dimostrare”, lʼessere positivi non “a tutti i costi”, ma, con una visione razionale delle difficoltà da affrontare. Comunque, la priorità è di vivere bene con se stessi e con gli altri, attraverso una serie di attenzioni alle proprie e altrui esigenze. Nella mia vita ho cercato sempre di ascoltare gli altri, le

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loro visioni, i loro problemi, e questo è sempre stato un arricchimento. Quando parlavano di malattie come il Drago, ascoltavo con attenzione cercando di immedesimarmi nelle loro angosce. Ma si può arrivare fino ad un certo grado di comprensione, poi cʼè un solco... È il solco di chi ci è passato e chi no. Per quanto si può star vicino ad una persona che soffre per queste patologie, con tutte le conseguenti cure debilitanti e il terrore del male, non si può capire se non ci si trova di persona davanti alla morte. Cʼè il bianco e il nero. Il vivere e il non vivere, in una sorta di atteggiamento quasi di onnipotenza. È paradossale ma in questi momenti non cʼè più niente di terreno che spaventa. Cʼè la roulette che fa uscire il rosso o il nero. Si delinea la riga rossa...

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Dove sta andando la vita? I viali alberati, diritti e ombrosi si sono trasformati in ripidi sentieri arsi dal sole o freddi e scivolosi. I compagni di viaggio cambiano ogni tanto e, a seconda della voglia di arrivare, si allunga il passo. Parlo con tantissimi colleghi di lavoro, fornitori o clienti, sullʼandamento delle cose; non ce nʼè uno che non si lamenti e che sia contento. Non è un lamento di circostanza ma qualcosa di più profondo, che viene da lontano: problemi economici, mancanza di tempo. Ecco, è la mancanza di tempo, comune a tutti, che ci frega. Non cʼè tempo per pensare, elaborare qualche idea, sviscerarla completamente. Penso agli inizi del mio lavoro, quando dovevo studiare un marchio. Partivo da una prima idea grafica, poi, piano piano la modificavo, ribaltandone linee e colori, poi ancora e ancora, fino a che le proporzioni erano esatte, i colori bilanciati ed io ero soddisfatto. Sembrava che il tempo facesse maturare le linee, proporzionasse i testi e “guarisse” i difetti della fretta. Osservare le cose come al tempo della scuola, meditare come certi artisti che lasciano per giorni sul cavalletto una traccia, un colore e li riprendono poi con un tempo “maturato”. Mi capita spesso, quando realizzo qualche quadro, che le varie fasi siano dilatate. Quando si dipingeva solo ad olio su tela, i tempi erano obbligatoriamente lunghi per far si che il colore si

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asciugasse. Ora si preferisce la tecnica più veloce, ma io, tra una fase e lʼaltra, lascio “riposare” lʼimmagine e quasi mai prevedo il risultato finale, che può arrivare anche dopo sei mesi. Tempo fa, preparando una collettiva di artisti dellʼIsontino, grazie alla collaborazione di Franco Savadori, andai a trovare la mamma di un artista che si è tolto di mezzo giovanissimo, Mario Di Iorio. A casa sua, oltre trecento quadri riposti con cura in varie stanze. Unʼorgia di colori ma anche tanto bianco e nero. Ecco, Mario era un artista che aveva iniziato dipingendo quadri geometrici, molto accurati, con linee precise, campiture di colore perfette, qualche figura... poi allʼAccademia a Venezia, Emilio Vedova, la malattia… ed ecco la violenza del segno, lʼastrattismo puro, la rabbia del pensiero, lʼenergia dei colori. La mamma ci confidò che lui tornava a casa periodicamente; lei gli preparava le tele, dipingendo il fondo di bianco, grandi superfici, che lui quando arrivava, carico del suo malessere, ma pieno anche di talento, riempiva di grida colorate, di canti di speranza, di mormorii o di stridio di bianco e nero. Il tempo accumulava, dentro di lui, tutta lʼenergia del bene e del male, probabilmente senza filtri, senza attese meditative. In questa mostra, che avevamo allestito Franco ed io, cʼerano otto artisti che avevano attraversato cinquantʼanni di storia, ognuno con la sua arte, specchio del proprio periodo, attenta alla società. In realtà, al di là della figurazione, dellʼastrattismo o del neorealismo, tutti loro

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denotavano il proprio rapporto con il tempo attraverso il segno, soprattutto. Come le incisioni di migliaia di anni fa del deserto Libico (prepotentemente attuali), anche qui il segno era legato ad una temporalità. Cesare Mocchiutti, mio insegnante allʼArte, aveva un segno che denotava una profonda riflessione. Tempo dilatato sulle colline di Mossa, nella sua casa/studio, circondato da vigneti. Ogni tanto gli faceva visita Mario Di Iorio, che era diventato, in qualche modo, il suo pupillo. La pittura di questʼultimo diventava così più “tranquilla” e riflessiva, il colore calibrato... i segni meno violenti. Il tempo si prendeva tutte le responsabilità, calmando le ferite di gioventù e placando i dolori della vecchiaia. Mocchiutti a circa ottantʼanni ebbe un calo della vista e smise con la pittura per un periodo. Il tempo aveva decretato uno stop. Poi la vista ritornò, anche se non completamente; riprese allora il suo corso pittorico: come un fiume in piena, egli inondò tele su tele di splendidi colori, in una serie di mostre di grande successo. Questo grande uomo, vinto dalla sofferenza fisica, a novantʼanni, si tolse la vita. Secondo me, con un grande gesto “vitale”. Prima di entrare in ospedale, mentre preparavo questa mostra, ebbi la sensazione di essere circondato di energia. Osservavo i quadri di questi grandi artisti, li maneggiavo,

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li posizionavo per fotografarli ed essi emanavano una forza che arrivava da lontano. Forse aspettavano me, forse queste personalità messe insieme per la prima volta (alcuni morti da anni ma altri vivi e prolifici), si erano incontrate nei colori, nellʼodore delle tele, nel tempo delle immagini. Le foto di Maurizio Frullani (un grande), riconsegnavano, anche dopo anni, tutto lo spirito che lui aveva percepito andando nello studio di ognuno di loro a fotografare il personaggio, lʼartista, lʼuomo che traduce la realtà o la fantasia con la sapienza dellʼascoltatore in una tela o in una scultura. Ora mi guardano, disposti in semicerchio, e sembrano chiedere qualcosa, sperano che la loro arte travalichi i confini piccoli e la cultura minima del nostro territorio. Vorrei anchʼio essere una foto... Ho provato una grande emozione qualche anno dopo quando Maurizio mi chiese se mi faccio fotografare da lui. Così farò parte della grande galleria fotografica di artisti, grafici, poeti e personaggi in genere, che muovono la cultura del territorio. È bellissimo. Dopo il suo servizio nel mio studio di pittura, rimango imbarazzato dalla bellezza di quegli scatti che mi ritraggono nella maturità.

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De Locatelli

Doliach

Mocchiutti

Mauri

Girotto

Furlan

Altieri

Di Iorio

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Mio fratello è anche un grande fotografo, ma il suo carattere ha “intaccato” anche questa passione, ormai dismessa da anni. Le sue foto erano sfuggenti, sembrava che lui fosse da unʼaltra parte, che i suoi soggetti fossero da soli davanti allʼobiettivo. Era unʼennesima fuga da un momento “statico”. Cʼè una serie di bellissime foto del nostro gruppo musicale degli anni ʼ70, e una in particolare che ci ritrae mentre Franco ed io solleviamo da terra Francesco, dopo una corsa in un campo grandissimo. Franco era il chitarrista del gruppo, Francesco il tastierista ed io il “drummer”. Lʼentusiasmo di quegli anni traspare in tutta la foto, che è un inno allʼenergia della giovinezza. Facevamo da spalla a gruppi famosi e non del Progressive italiano. In quegli anni, la creatività musicale aveva portato alla ribalta internazionale la musica italiana: Il Banco del Mutuo Soccorso, la PFM, Osanna, Area e innumerevoli altri stavano creando un nuovo sound, ispirati dai maestri inglesi quali i Genesis, i Gentle Giant, i Led Zeppelin, gli Yes, gli ELP, ma con una propria originalità. A proposito dei Led Zeppelin, abbiamo visto di recente un concerto di Robert Plant, un animale da palcoscenico di sessantʼanni che ripropone ancora oggi le canzoni di quegli anni con la stessa determinazione. E con lo stesso entusiasmo! Sotto il palco, moltissimi giovani ballano e si dimenano

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come facevamo noi. A quel tempo, andare a vedere i Led Zeppelin poteva provocarti un poʼ di mal di testa. Ora hai problemi di prostata... Sono rimasto immobile anche quando la chitarra ha intonato Whole lotta love, che, assieme a Smoke on the water dei Deep Purple e a Satisfaction dei Rolling Stones, bastano due note per scatenare lʼapoteosi. È un brano da pelle dʼoca che ha già tirato fuori da noi (della nostra generazione, intendo) tutta lʼenergia durante gli anni. E ho fatto un pensiero. È come se questi anni, queste preoccupazioni, il lavoro, i figli ecc. abbiano cancellato piano quei brividi giovanili, non lasciando più nessuna traccia. Solo il ricordo di quei tempi. Ma questa musica è grandiosa, attraversa tre generazioni riuscendo a mantenere intatta la sua forza. Due gruppi hanno suonato prima di Robert Plant. Giovani, bravi tecnicamente, sembravano cercare qualche strada non ancora tracciata... ma tutto è già stato scritto in quegli anni meravigliosi. Noi, piccolo gruppo di provincia, ci facevamo notare: eravamo assolutamente originali. Venivamo quindi chiamati ad aprire i concerti di band come Le Orme, gli Osanna, Latte e Miele, Osage tribe ecc... e qualche volta suscitavamo più interesse dei gruppi “grandi”. Abbiamo lasciato sicuramente una traccia nel panorama pop della nostra zona.

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“Hoc Opus”: Livio, Francesco, Franco

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Forse, con un manager cocciuto, avremmo potuto fare qualche passo in più con successo. Cʼera una grande creatività in noi, anche perchè stavamo attraversando gli anni più vitali, dove cʼera sperimentazione in tutti i campi artistici, dove la cultura proponeva nuove tematiche di vita, la musica esplodeva in innumerevoli proposte e tendenze, grazie a numerosi gruppi che avrebbero fatto storia per vari decenni. Nel nostro piccolo, noi eravamo un gruppo che proponeva musica progressiva. Ascoltavamo gruppi inglesi, Yes, Emerson Lake e Palmer, Genesis, John Mc Laughlin e la sua Mahavishnu Orchestra, Chick Corea, Weather Report. Un passo più avanti, verso il Jazz. Assorbivamo la musica e poi, durante le prove, uscivano le nostre composizioni, assolutamente filtrate ed originali. Ci furono anche concorsi musicali a cui partecipammo e vincemmo. Uno, in particolare, rimane nel ricordo di molti. Era organizzato molto bene, in un paese del Friuli, allʼinterno della festa patronale. Bel palco, bella amplificazione ed i gruppi erano agguerriti. Il palco era sistemato al centro del paese, praticamente in piazza, in mezzo alle case. A noi toccò il compito di aprire la serata, non ricordo esattamente con quale brano, forse Rondò dei Nice, ma era certamente un inizio travolgente. Quel concorso durò una sera, anche perchè, il giorno

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dopo, arrivò la notizia che in un allevamento di polli, a pochi metri dal palco, si era consumata una tragedia. I pennuti, atterriti dal volume sonoro, si erano ammassati verso il fondo del capannone. Ne erano morti soffocati almeno un centinaio! Un settimanale italiano trattò la notizia, con tanto di illustrazione alla Walter Molino, che ritraeva sul palco un gruppo di scatenati con i capelli lunghi (un classico dellʼiconografia dellʼepoca) e un gruppo di polli che, spaventatissimo, fuggiva incontro alla morte! La festa del paese propose, durante i giorni successivi, ottimi polli allo spiedo e noi ritirammo il premio in tutta segretezza. Fu lʼestate in cui cambiai la batteria (la prima era stata un premio per una promozione); lʼavevo adocchiata in un negozio di Gorizia. Non era di marca, ma per me era un sogno. Avevo risparmiato qualche soldo facendo il cameriere dʼestate e, con qualche piccola entrata dai concerti, lʼacquistai da un musicista professionista che aveva smesso; era una Rogers, americana, colore grigio striato, con le custodie. Ora ero un professionista. Naturalmente personalizzai la pelle della cassa con il nostro nome Hoc Opus (Questa Opera), un nome latino, lontano dai nomi inglesi. Lʼunico gruppo che aveva un nome in latino, in quel periodo erano i Colosseum. E John Hiseman era uno dei miei idoli.

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Negli anni cambiai diversi strumenti, suonando anche generi diversi. Ma quella prima batteria fu come il primo amore e quei primi anni di musica rimangono un ricordo meraviglioso. Fu un periodo assolutamente prolifico, che io auguro a tutti i ragazzi di passare. Franco, il chitarrista, dopo aver saputo della mia disavventura di salute, mi telefonò appena seppe del mio ritorno a casa: “senti, Francesco (il tastierista) è stato derubato a casa sua dopo essere stato narcotizzato, io sono stato investito sulle strisce pedonali e ne avrò per mesi, tu hai avuto un tumore... non credi che sia un messaggio chiaro per il nostro gruppo?” Dopo trentʼanni ci siamo riuniti nella sfortuna... con una cena. Adesso parleremo dʼaltro, non ci saranno passaggi al piano e le dissonanze di Francesco, non ci sarà la mitica chitarra Vox semiacustica rossa di Franco a distorcere note su note e nemmeno i miei tempi impossibili. Comunque ognuno di noi suona ancora, con una sensibilità diversa e una nuova intensità, da “vecchi leoni”. Francesco è diventato architetto di grido. Dopo diverse esperienze musicali, che hanno portato il suo nuovo gruppo alle soglie della celebrità (contratto con una multinazionale, registrazione di un CD e di un videoclip), ha intrapreso la professione di architetto, partendo con diversi progetti in Germania, in Italia e adesso in Cina.

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Ha progettato il recupero di una antica città e la realizzazione, su unʼisola, di un albergo, un centro commerciale e un residence. La Cina in questo momento, insieme a Dubai, ha la più grande concentrazione di gru da cantiere al mondo. Ha partecipato anche ad una recente Biennale dellʼArchitettura di Venezia, con uno stand da lui progettato assieme ad un architetto cinese. Ogni tanto ci troviamo su un palco, tra amici, e la canzone che tutti vogliono che lui canti è Purple Rain di Prince che lui storpia in Par purè (sembra purè), facendo sbellicare tutti. È un poʼ tornare ai nostri anni. Ora, quando ascolto musica, oltre al jazz preferisco ancora le sonorità degli anni ʻ70/ʼ80 e la grande creatività espressiva. Anni fa ci fu anche il periodo “demenziale” con due gruppi con cui suonavo, totalmente pazzi. Nel primo (era un trio), al basso Fender cʼera un grandissimo personaggio, che ha lottato per anni con una malattia terribile, che lo ha portato a consumarsi su una sedia a rotelle. Massimo era lʼironia pura! Anche durante la sofferenza era un genio della musica ma anche della scrittura. Con pochissime persone sono riuscito ad esprimermi come con lui. Cʼè stato un periodo in cui avevo selezionato dentro di me alcune persone che avessero una grande apertura mentale, un fortissimo sense of

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humor e una voglia di giocare con tutto. Volevo fare una cena del non sense, naturalmente con menù adeguato e in un posto atipico, nella quale ognuno sarebbe stato libero di spararle grosse, senza paura che qualcuno non capisse o non fosse pronto a partire da quella stronzata per dirne altre dieci. E così, con un meccanismo che si espandeva come unʼepidemia, venivano fuori idee e concetti tipici delle sedute di brainstorming. Lʼavevo sperimentato con qualche amico, ma mai con più di tre. Ora avevo individuato una decina di elementi e, a loro insaputa, stavo organizzando “lʼevento”, che puntualmente doveva essere filmato e registrato in segreto. Massimo ci lasciò prima e non me la sentii di proseguire con gli altri, per rendergli memoria. Qualche tempo dopo istituimmo un gruppo che organizzò un concerto e fece pubblicare un libro, presentandolo in una serata multimediale. Fu emozionante per tutti, ma non triste: Massimo non avrebbe voluto. Nel concerto suonammo anche un brano inciso dal nostro trio demenziale dal titolo Ki gʼhanda; il titolo era la storpiatura di Chi canta?, domanda che ci ponevamo ogni qualvolta, componendo il brano, ci accorgevamo che era solo musicale. La frase veniva pronunciata come la parlata di un negro: “Buana, chi ganda?”. Successivamente venne modificata

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nel nostro dialetto “Chi ga ánda?”, cioè chi ha spirito o atteggiamento particolare. Insomma, giocavamo con tutto ed era assolutamente bellissimo. Il pezzo musicale è tuttʼora accettabile ed io ne vado fiero. Ah, dimenticavo, il gruppo si chiamava Idee Salvagent e il tastierista era Roberto Verzegnassi, oggi grande chef. Non sto qui a spiegare il significato... Lʼaltro gruppo “fuori dagli schemi” si chiamava Estensione Est. Anche questo gruppo, un sestetto, era allʼavanguardia per quegli anni, perchè suonavamo musica etnica. Lʼispirazione era balcanica, prima ancora che Goran Bregovic avesse messo il naso a Trieste. Lʼanima del gruppo era il cantante. Andrea aveva una voce baritonale molto allenata. Ricordava quella di Demetrio Stratos degli Area e riusciva anche ad emettere due note contemporaneamente. Istrionico e teatrale, si presentava sul palco vestito come un bulgaro e se avesse mangiato tre o quattro cipolle prima del concerto sarebbe stato perfetto nel suo ruolo! Gli altri componenti non erano da meno: Gianni, polistrumentista, si cimentava anche con strumenti a fiato improbabili che aveva acquistato nei suoi viaggi nei Balcani e in Turchia. In testa un fez colorato, contornato di perline, e panciotto ricamato. Braghe “alla zuava” e via, sul palco! La nostra pianista era un elemento a sè stante.

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Grandissima musicista, si perdeva nei suoi pensieri e per le strade in macchina… Sul palco vestiva un tubino di lamè e in testa una fascia con una grande piuma di struzzo... Il violinista, diplomato al Conservatorio, non aveva bisogno di cappelli. Aveva una capigliatura esagerata, nera e riccia ed era un mostro come musicista. Basso, chitarra e batteria, i più “normali”. Grandi camicie a fiori, pantaloni dai colori impossibili e cappelli da clown. La musica era travolgente; e non solo quella! Andrea, in apertura del concerto, presentava il gruppo con voce possente, fingendo di essere di origine balcanica: “Dove il contorno del mondo occidentale si frastaglia e diventa meno consistente sfumando nellʼinsolito, là cʼè Gorizia: città di frontiera, di mercati, dogane e contrabbandieri, città poliglotta dove anche il fenomeno rock assume, a volte, una natura inconsueta. Dal rombo dei pesanti autotreni, tra bivacchi di camionisti slavi e bulgari, turchi e magiari nasce quel linguaggio narrativo, rude e universale che è il motore rombante dellʼEstensione Est, un insieme eterogeneo, riunito in una carovana itinerante che è la musica rock popolare, senza egemonie anglofone o statunitensi, per nutrire di linfa musicale balcanica e mediterranea lʼentusiasmo delle feste fra i popoli.”

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Un brano, in particolare, rimaneva nella memoria di tutto il pubblico. Raccontava del lavoro in cantiere, con gli operai trattati quasi da schiavi. Per renderlo ancora più vivace, salivamo sul palco con un demolitore e con una flex. La flex la usavo io, passandola sul metallo della batteria e sprigionando un sacco di scintille; il demolitore lo azionava, in mezzo al brano musicale, Andrea, che demoliva veramente qualcosa che trovava lì intorno. Ci chiamarono ad una festa di compleanno, sapendo che eravamo un gruppo particolare, e quando, ad un certo punto, Andrea demolì un muretto nel giardino, ci fu unʼovazione, anche del proprietario, che andò in estasi. Mah, non so perché ma facemmo pochi concerti, forse avevamo una musica piuttosto “distruttiva”. A proposito di distruttivo, mi viene in mente un episodio che ha per protagonista un gruppo di bikers. Per alcuni anni, insieme a mia moglie, abbiamo gestito una trattoria che riscuoteva un successo clamoroso. Il segreto di questo successo era semplice: buon cibo, buon vino, musica giusta e simpatia. Da noi arrivavano le persone più disparate, dagli artisti al commissario di polizia, da primari dellʼospedale a qualche tossico. Tutti comunque in armonia con il mondo, grazie allʼospitalità e al buon bere. La domenica sera era delle coppiette, che venivano a

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cena. Si sedevano in una piccola saletta piena di quadri, con unʼatmosfera molto calda e intima, e passavano qualche ora in compagnia di musica scelta. Atmosfera tranquilla, bella gente, relax anche per noi. Verso metà serata, con un rombare di moto, arrivò questo gruppo di bikers dallʼaspetto piuttosto aggressivo. Entrarono schiamazzando, con un gran clangore di catene e metalli. Con loro cʼera anche un mio amico pittore. Era uno di quegli artisti che negli anni ʻ60/ʼ70 vivevano una vita alternativa. Aveva fondato una comune, in una casa di Ronchi, dove arrivavano gli hippies di allora (oggi manager o impiegati di banca). Musica, qualche spinello, niente roba pesante, gran pittura, sesso libero. Non so quanto, ma libero. Era entrato nel locale per ultimo ed io, vedendolo, mi ero un poʼ tranquillizzato. Ma non troppo… Davanti ad una scena del genere, gli avventori cambiarono espressione; la serata avrebbe potuto trasformarsi in un incubo. In questi casi, lʼistinto avrebbe suggerito di mettermi sulla difensiva e di chiudere gli spiragli di dialogo per non provocare alcun incidente. Poi, ripensandoci, decisi di allearmi con loro. Prima di tutto uscii dal bancone e chiesi a quello che sembrava il più feroce di accompagnarmi a vedere le moto; come per incanto, un sorriso si stampò sulla sua

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faccia tatuata. Le motociclette erano tutte splendide! Cʼerano due o tre Harley e il resto erano custom esagerate. Dentro di me un poʼ di Easy Rider cʼera ancora e adoravo Born to be wild degli Steppenwolf, che naturalmente avevo tra i dischi in locale. Rientrando, scortato dalla “bestia”, mi misi nel gruppo che sostava davanti al bancone e presi una bottiglia di vino ma non la offrii: sarebbe stato come pagarli per stare buoni. Il fatto che fossi tranquillo, in mezzo a loro, rilassò anche tutti i clienti i quali, vedendo la situazione sotto controllo, ripresero a mangiare e a scambiarsi effusioni. Parlando scoprii che tutti, o quasi, lavoravano in porto a Trieste e che non erano certo degli squattrinati. Vedendo poi che avevamo un amico in comune (il pittore hippie) diventai presto uno di loro… o quasi! Si sedettero in un tavolo ad angolo e da alcuni sacchetti di carta comparve tutta una serie di accessori cromati, e assolutamente kitsch, per le loro moto. Tornavano da una mostra-mercato in Austria e avevano acquistato diversa mercanzia che si mostravano a vicenda, ammirandola con gli occhi da bambini. Se ne stettero buoni buoni a bere e mangiare per qualche ora, poi si alzarono per pagare ed andarsene. Io stavo tagliando il prosciutto a mano e lʼoperazione li incuriosiva, perchè usavo un coltello dalla lama sottilissima e affettavo il crudo con maestria. Chiesi loro se cucinavano la minestra di fagioli poiché,

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avendo appena finito il prosciutto, avrei dato loro lʼosso completo da metterci dentro. Risposero in coro che sarebbe stata una “figata” avere un osso intero! Fu il mio regalo di arrivederci. Era quasi mezzanotte e se ne andarono dandosi appuntamento in un altro locale, mio concorrente, sul Carso. Il giorno dopo avevo turno di chiusura ed ero in centro per qualche spesa. Incontrai un amico che mi disse: “hai saputo del Trulli?” era il locale sul Carso - “...una banda di motociclisti lo ha distrutto ieri sera!” Immediatamente pensai ai miei “amici” bikers. Il mattino seguente comperai il quotidiano locale che riportava la notizia in grande evidenza: “Distrutto locale da una banda di teppisti in moto” Leggendo lʼarticolo capii che erano proprio loro. Avevano chiesto lʼultimo giro di birre e il titolare si era rifiutato di servirle, minacciando di chiamare i Carabinieri e provocando una reazione furibonda. Curiosità: lʼarma usata dai teppisti per sfasciare tutto il retrobanco con i liquori era... un osso di prosciutto!

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Sabato 2 Settembre È la prima uscita in barca dopo lʼoperazione. Dopo il maltempo e le piogge di agosto o dopo giornate belle ma impegnate, finalmente un pomeriggio incantevole. La domenica prima di essere ricoverato, mentre tornavamo allʼormeggio dopo un pomeriggio di mare e sole, dissi a Manu: ”lʼunico desiderio che ho è di poter uscire di nuovo domenica prossima.” Voleva dire che lʼoperazione era riuscita e ottimisticamente sarei uscito dallʼospedale in quattro giorni. Naturalmente, lʼottimismo esasperato che mʼaccompagna sempre non rispettò questa tempistica. Ma non fa niente. Ora eravamo in barca dopo un mese e mezzo, con le ferite rimarginate, con il mio mare che mi aspettava e un sole caldo. Misi il motore ad una bassa velocità; volevo godermi anche il trasferimento dal canale del Timavo alla foce dellʼIsonzo, dove lʼacqua è bassa e pulita e si possono raccogliere le vongole... È come andare in un parcheggio di barche, visto che non siamo i soli ad apprezzare quella zona, ma non importa, quello che prima mi dava fastidio ora mi rallegra e mi fa star bene. Il mare lʼho pensato diverse volte, allʼospedale: è il mio grande guaritore, il mio amico di sempre; vado a trovarlo quando posso e mi ascolta, tra unʼonda e lʼaltra. Lo cerco anche quando è incazzato, nelle giornate di

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vento, con lʼacqua sporca di temporali lontani. Lui sta male, vomita sulla spiaggia rami, pezzi di rete, galleggianti, tavole, fino a sfinirsi. Allora sono io che lo ascolto, cercando di calmarlo, ma non è facile. Poi, piano piano, la brezza di terra si fa sentire, le nuvole si aprono e spesso il sole, un altro grande amico, ci regala tutti i colori di un tramonto. Penso sempre che nel sole ci siano due doni: il primo è per noi, quando scompare nel mare con pennellate rosso fuoco, e lʼaltro è per un altro emisfero, che si risveglia con unʼalba fatta di tonalità che ognuno di noi vorrebbe avere dipinte sui muri di casa. Bellissima lʼalba in barca, il risveglio con il mare calmissimo, ancorati in rada... “Ancorarsi in rada” è stato lʼargomento di unʼintera lezione per il conseguimento della patente nautica. Frequentavo da mesi le lezioni, con un istruttore molto esperto, velista e organizzatore di charter. Avevo deciso di fare la patente nautica perchè avevo un motorsailer di otto metri, un Tortuga 27, sognato da molto tempo e acquistato per fare qualche crociera... ma le questioni familiari spesso si mettono di mezzo e allora il massimo era “ancorarci” in rada per una notte solamente. Io, però, volevo capire come si navigava e avevo deciso di fare la patente dopo una gita domenicale fantozziana in golfo. Eravamo arrivati, come spesso accade, alla foce dellʼIsonzo ed avevamo cercato “parcheggio”, un posto

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accettabile, più vicino possibile allʼacqua bassa (il motorsailer pesca molto di più di un motoscafo). Avevo gettato lʼancora, non calcolando esattamente il rapporto tra la profondità e i metri di catena da svolgere. Eravamo anche in prossimità di un segnale di pescatori, che avevano gettato le reti proprio lì. Fatto il bagno e pranzato avevamo deciso che era arrivato il momento di fare un riposino. Preferivo dormire sottocoperta, aprendo il tambuccio di prua e rinfrescando lʼambiente con una manica a vento. Il sonno arrivò veloce e dolcemente. Dopo un poʼ, arrivò anche una serie di imprecazioni che mi fecero sobbalzare. Andai in coperta e vidi che eravamo a ridosso di un peschereccio che stava ritirando le reti, o quello che ne rimaneva, visto che noi, avendo gettato poca ancora, avevamo “arato”, spostandoci con la corrente di quasi un centinaio di metri. Il pescatore era furibondo, avendo capito che ero un inetto a non aver calcolato il rischio di finire contro il suo pescato. Mi scusai, liberai quel che potevo dal timone e dallʼelica, restituii i brandelli di rete ed i galleggianti e filai lontano. Passata una mezzʼora chiamai mio fratello chiedendogli lumi. “Devi calcolare tre volte la lunghezza della catena rispetto alla profondità dellʼacqua” - mi disse perentorio. Accesi lʼecoscandaglio e verificai che cʼerano due metri e mezzo dʼacqua sotto di me, quindi avrei dovuto calcolare

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una decina di metri di catena, mentre io ne avevo calcolati forse 5. Lo ringraziai e dopo aver navigato un poʼ ci apprestammo a rientrare. Prima, però, volevo guardare da vicino, praticamente sottobordo, lʼultima nave passeggeri costruita dal Cantiere. Imboccai il canale dʼingresso al porto con unʼandatura molto tranquilla quando, ad un certo punto, mi girai... unʼenorme nave da carico stava anchʼessa entrando in porto ad una velocità maggiore. Non sapevo che lato del canale tenere ed accostai a destra, a ridosso dellʼargine di accesso, dove una mezza dozzina di pescatori sportivi pescavano. Le lunghe canne, protese verso il canale, sembravano antenne; probabilmente, per essere così lunghe e maneggevoli, erano in fibra di carbonio. Tuttavia, mi stavo accostando troppo e incominciavo a vedere un poʼ di agitazione sullʼargine. Agitazione che diventò frenesia nel recuperare lʼesca… troppo tardi! Stretto fra trentamila tonnellate da una parte e lʼargine dallʼaltra, piombai sui pescatori! Il filo si impigliò sullʼalbero del Tortuga e due o tre pescatori non riuscirono a tenere le canne, che finirono in acqua. Ebbi lʼimpressione che ognuno di loro avesse in repertorio un intero libro, pure bello grosso, di bestemmie da gridarmi addosso con un condimento di maledizioni mai sentite prima... Quella domenica decisi di fare la patente nautica...

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Non so come sia nata quella pazzia dei trentʼanni o giù di lì. Eravamo un trio di amici che al sabato andavano sul Carso a passeggiare o a visitare qualche grotta/rifugio della prima guerra mondiale e, in primavera, a raccogliere gli asparagi selvatici per poi cucinarli in frittate. La Rocca, monumento di Monfalcone che sorge su un antico Castelliere, era molto spesso la nostra meta. Ora che la strada di accesso era stata asfaltata, ma chiusa al traffico con una sbarra, era più agevole camminare fino lassù. Dalla Rocca si vede Monfalcone, il mare fino a Trieste, la pianura, Aquileia e, nelle giornate più limpide, lʼIstria, Grado e la Laguna. È un fortilizio di pianta circolare, con una torre bassa centrale. Compare su tutte le cartoline, le vedute, i marchi del Comune, della Pro Loco, come marchio su tutte le attività che ne fanno propria lʼimmagine per far capire che siamo a Monfalcone. Ogni associazione incrocia lʼimmagine della Rocca con quella del falco, per poi metterci la propria ragione sociale. La Rocca era lì, in alto, e noi scendevamo a piedi da quella discesa ripida, con due curve iniziali, un tornante, un rettilineo veloce e una curva a gomito che finiva con la sbarra, sentivamo che i nostri pensieri convergevano verso qualcosa di simile ma non ben definito; una corsa,

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una gara… si, ma con che cosa? Claudio esordì con: “potremmo costruirci dei carretti come quelli che avevamo da bambini, con qualche tavola, quattro cuscinetti a sfera (volgarmente chiamati “baleniere”) e scendere gareggiando tra di noi...” Il pensiero coinvolgente era quello. Ma tre pazzi, quasi trentenni, non potevano costruire dei veicoli “approssimativi”, senza un minimo di tecnologia o design. Dopo accordi sulle regole costruttive (che poi si ridussero solo al tipo di “baleniere” da usare) ognuno di noi portò avanti il proprio progetto. Io ero lʼunico che non aveva costruito un carretto da piccolo, per una ragione molto semplice: fino a 14 anni ho vissuto in un paese con il fiume ma senza uno straccio di discesa, mentre Monfalcone era adagiata sulle pendici del Carso, quindi con un gran numero di discese di tutti i tipi. Questo gap non fermò di certo la mia creatività! Preparai un telaio robusto, con lʼasse anteriore saldamente fissata ad esso con un fermo girevole munito di vite a dado; la scocca era in multistrato sagomato, con la forma delle auto da Gran Premio. Poi, siccome si guidava distesi, avevo fissato uno schienale di sedia imbottito di gommapiuma nella parte posteriore. Davanti, qualche striscia adesiva di antiscivolo (quella che si fissa sui gradini). Cavetti di acciaio con morsetti e maniglie ergonomiche per lo sterzo, olio Singer per macchine da cucire per la lubrificazione delle “ruote” che, avevamo stabilito, essere cuscinetti di 1100 FIAT e che trovavamo

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da uno sfasciacarrozze. Gli altri due “piloti” avevano realizzato dei bolidi non così raffinati ma, in compenso, avevano lʼesperienza di guida che io non avevo. Decidemmo che il sabato pomeriggio era il momento giusto per “testare” i veicoli, visto che sulla Rocca non ci andava tanta gente. La prima volta ci andammo da soli, senza le ragazze, anche perchè non era proprio uno sport da trentenni! Lʼabbigliamento era importantissimo: io avevo una tuta bianca da meccanico americano, con un sacco di scritte rosse ricamate. Anche in questo gli americani devono distinguersi… non possono avere una tuta qualsiasi. Calzavo gli anfibi da militare, una delle poche cose che avevo tenuto e che adesso risultavano essere indispensabili per la frenata. Avevano anche il tacco in gomma sostituibile, avvitato senza incollaggio. Erano il mio freno. I guanti erano da saldatore, anche perchè se si usciva fuori strada e non si finiva contro una roccia accuminata, ci si infilava in qualche cespuglio di rovi, con conseguenze immaginabili.Niente casco. Unʼultima occhiata ai carretti sistemati sulla panchina, alla base della salita, unʼoliata, una stretta di viti e via! La salita era di circa 300 metri fino al piazzale vicino allʼentrata della Rocca, da dove si partiva. Arrivati in cima ci appostavamo a caso, senza tener conto delle curve che avrebbero favorito uno o lʼaltro. Avevamo anche già fatto qualche prova di discesa nel tratto più ripido.

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Era uno sballo! Si arrivava alla curva a gomito finale a 50 Kmh e si tagliava il traguardo, passando sotto la sbarra chiusa, distendendosi sul carretto. La cosa particolare era il rumore che facevamo: sembrava quello di un jet in fase di decollo, ma avendo lʼaeroporto a pochi chilometri, il rumore era confuso. Tutto era pronto per quella gara di tre pazzi, che non pensavano assolutamente ai rischi ma solo allʼadrenalina che provocava quella discesa. Al classico “un, due, tre, via!”, partimmo. Il primo tratto era di “assestamento”, con un pendio medio che arrivava alla prima curva a gomito e che permetteva di attuare la strategia migliore: rimanere indietro per poi sferrare lʼattacco, o in testa, cercando di non farsi superare. La curva a gomito precedeva la “vera”, discesa dove il nostro sferragliare era assordante e la velocità era da brivido! Poi la frenata violenta con gli scarponi, lʼimpostazione dellʼultima curva ed il traguardo, sfiorando con la testa la sbarra di ferro... Qualche spettatore rimaneva attonito da quello spettacolo così inusuale, che lo riportava indietro nel tempo, e lo sguardo denotava un pizzico di invidia. Eravamo felici, amici, pazzi scatenati. Così ogni sabato si rinnovava lo spettacolo. Adesso anche le nostre ragazze venivano a guardarci e probabilmente i loro pensieri erano altri nei nostri

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confronti. Poi, verso le cinque del pomeriggio, tutti al bar Commercio, da Piero, dove arrivava il prosciutto cotto nel pane, grande tradizione monfalconese persa oggi tra un happy hour e un pestato al rum.

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La discesa dei carretti dalla Rocca

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Non porto più lʼorologio. Un appassionato come me, che ne conserva una ventina, un bel giorno si stufa e non ne porta più nessuno. Il tempo, nella malattia, diventa relativo. Passa veloce nel dormiveglia, provocato da qualche farmaco antidolorifico; passa lento, attraversando qualche dolore o nellʼattesa di qualche rimedio. In qualche momento scompare, nascondendosi dietro ad un cumulo altissimo di pensieri, per riapparire durante una fitta alla schiena, che non ti permette nemmeno di chiedere aiuto. Il tempo poi, per farsi perdonare, cura le ferite velocemente, rasserena, scorre come fiume che va via, che arriva alla foce, si sporca di problemi stupidi, di ansie inutili... Anche il tempo ha i suoi limiti... In bagno abbiamo un orologio da tavolo, regalo di mio fratello. È uno splendido Movado, replica del Royal Museum, quello, per intenderci, tutto nero con un punto dʼoro alle ore 12. Lʼaltro giorno si è fermato. È un orologio con movimento al quarzo e ogni tanto si cambia la pila. Una volta inserita la batteria sento uno strano ticchettio; normalmente lʼorologio scandisce i secondi ma ora il “battito” è raddoppiato. Non ci faccio caso più di tanto e mi faccio la barba. Guardo lʼora e scopro… che sta andando al contrario. Provo a girare la pila, pensando, non so come, che ci sia

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un motorino e, invertendo i poli, giri in senso inverso. Ma la pila è inserita correttamente e lui ha deciso che “dʼora in poi” andrà allʼindietro! Mi piace molto questa idea, mi alleggerisce il futuro che incalza con i giorni, ore e minuti velocissimi. Mentre lui sembra assorbirne un poʼ, di questa fretta. Ci vorrebbe uno bravo in matematica per trovare qualche analogia con le ore vere. Cioè, ad una data ora sarà preciso a dodici ore dopo, o prima... per me è una battaglia persa. Non sono mai stato un calcolatore, non sono bravo nei giochi matematici, non ricordo i numeri, figuriamoci... Ora, quando vado in bagno, lo guardo con compiacimento. Bravo, hai deciso di andare controcorrente, contro il tempo, contro i tuoi simili tutti uguali, tutti puntuali... Ma il Tempo al contrario è sempre Tempo, forse indica il tempo perso. “Non riesco a trovare il tempo per fare qualcosa a tempo perso.” Scrivevo questa frase ventʼanni fa, quando il fiume del tempo era largo e i minuti abbondanti. Penso che la vita sia un fiume da percorrere al contrario. Quando si è giovani ci si trova vicino alla foce; le sponde lontane, lʼacqua abbondante e calma. Poi si risale, con gli anni, su un percorso sempre più stretto e pieno di difficoltà, sempre più controcorrente.

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E poi diventa torrente, con le rapide da affrontare sempre più insidiose ma con lʼacqua sempre più pura man mano che si va verso la sorgente. Là, la vita sembrerà un distillato di saggezza, poche gocce di acqua cristallina che ripagheranno tutti gli sforzi della risalita. Dalla cima scorgeremo il percorso del nostro fiume, la valle, le anse, le sue curve. Nel suo scorrere riconosceremo i paesi o le città che ha attraversato, i campi che ha bagnato... E ora che si fa? Guardo lʼorologio che va al contrario: forse era questo il suo messaggio.

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Un anno, a Carnevale, non sapendo quale costume indossare, decisi allʼultimo momento di racimolare tutti gli orologi della mia collezione, più quelli soprammobili e uno che tenevo in studio, che era un orologio da stazione ferroviaria, bifacciale, che appesi al collo. Mi legai tutti gli altri attorno alla vita, indossai tutti quelli da polso, presi il mio monopattino elettrico e partii per la sfilata di Carnevale con un cartello appeso che diceva: “Non ho tempo da perdere!” - filando come un matto in mezzo alla gente. Qualche anno prima avevo sfilato vestendomi come un lord, con tanto di bombetta originale inglese e con con una gallina al guinzaglio. Nellʼorto di casa avevamo un piccolo e scalcinato pollaio e quando dissi alla mamma quello che volevo fare, come sempre mi assecondò, realizzando anche un bel fiocco rosso che applicò, in qualche modo, sul pennuto. Per farla camminare avevamo previsto di darle dei chicchi di mais avvolti ad uno ad uno in cartine, a moʼ di caramelle. Passeggiando, le parlavo promettendole cibo in abbondanza e tirando fuori dalla tasca un chicco di mais ogni tanto. Il fatto è che la gallina, stupida comʼera, mangiava i miei chicchi ma anche dei pezzetti di polistirolo da imballaggio a forma di patatina sparsi sulla strada, cosicché lʼindomani la trovammo nel pollaio stecchita ma con un sorriso stampato sul becco: si era divertita un sacco! Il Carnevale era un momento in cui mi piaceva recitare.

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Non mi mascheravo in faccia, dovevo essere riconoscibile, far divertire e divertirmi, far sorridere, insomma un momento di teatro... o cinema.

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Carnevale monfalconese

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Anni prima, venni a sapere che cercavano comparse per un film che si sarebbe girato nella nostra zona. Mi presentai alla selezione, come quasi tutti quelli della mia età. Probabilmente bastava essere maschi e non ottantenni poichè ci presero tutti! Si girava un film sulla Grande Guerra, nelle trincee del Carso. Era un film per la televisione che trattava la nascita della lingua italiana, con tutti i suoi neologismi, così come la parliamo ora. Per la prima volta, dopo lʼunificazione dʼItalia, si trovavano, uno vicino allʼaltro, uomini di tutte le regioni, ognuno con il suo dialetto, con la sua parlata tipica e tutti dovevano capirsi. Il regista non ci spiegò tutto questo; lo lessi da un settimanale che riportava le foto di tutti i miei amici, in divisa, che combattevano sul fronte del Carso contro lʼesercito austriaco. Il set delle riprese erano proprio le trincee, ripulite per lʼoccasione e riadattate con gli “accessori“ dellʼepoca: sacchi di sabbia, lamiere di protezione, filo spinato in gran quantità. Chissà se gli operai che hanno scavato nelle linee del fronte hanno provato qualche emozione diversa; chissà se tra loro cʼera qualcuno che aveva il nonno, o forse il padre, che aveva combattuto su queste pietraie. Sicuramente, anche in queste occasioni, cʼera un motivo di unione tra italiani.

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Noi, comunque, andavamo alla “guerra“ truccati di tutto punto. In un hotel di Monfalcone cʼera il quartier generale: sala uniformi, sala trucco, zona ferite, armeria, ecc. Quando tutti erano pronti, una serie di pullman ci portava sul Carso, nei luoghi delle riprese, posti che noi frequentavamo da ragazzi, soprattutto a Pasquetta per la tradizionale scampagnata. Il Carso rimane comunque, come del resto il mare, una componente essenziale nella nostra cultura di bisiachi, ci accompagna con le sue stagioni e in autunno si veste di rosso sgargiante con il suo sommacco, un bellissimo cespuglio di foglie che mio nonno raccoglieva in sacchi, per poi venderlo a dei fabbricanti di colori. Le sue pietraie ci ricordano la fatica ed il dolore dei combattenti della Prima Guerra, durante la quale fu versato un altissimo tributo di sangue, e la caparbietà di chi lo coltiva adesso, ricevendone in cambio soprattutto vino ed olio di eccellente qualità. Il vino, ad esempio, vuole anchʼesso ricordare lʼasperità della terra, con un gusto duro e intenso: si chiama Terrano e le macchie sulla tovaglia o sulla camicia sono macchie di sangue, si tolgono a fatica, come a ricordarci il passato di queste colline. I truccatori di noi comparse erano bravissimi a riprodurre il sangue e le ferite. Qualcuno, finito di girare, se ne tornava a casa senza pulirsi per fare uno scherzo a qualche amico... Le riprese, sostanzialmente, si svolgevano allʼinterno

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delle trincee, visto che bisognava evidenziare come i soldati, provenienti da ogni parte dʼItalia, comunicavano tra di loro. Quindi, andirivieni su e giù, poi qualche battuta in qualche dialetto, qualche sparatoria e il rancio (finto e vero!). Il giorno seguente, lo scenario si movimentò con un assalto alla baionetta. Si tattava di uscire dalle trincee tutti insieme e correre, fucile spianato, verso un ipotetico nemico. Il regista ci dette le ultime indicazioni: “il nemico è là, dovete conquistare la linea. Al mio via, tutti allʼassalto!“ Tutto era pronto, era lʼultima ripresa della giornata e, se devo dire la mia, fare la guerra non era una passeggiata. Eravamo pronti per lʼattacco: “pronti, motore, azione! Ok, fuori dalle trincee, correte più veloci che potete...“ Uscimmo tutti insieme dalla trincea, posso assicurare che non è facile con un fucile, lo zaino e tutto il resto, ci scagliammo verso il nemico che, se ci fosse stato veramente, avrebbe preso paura! La scena era veramente impressionante, eravamo tanti, ormai “pratici” della guerra dopo qualche giorno di riprese e cercammo tutti di essere credibili in quellʼultimo assalto al tramonto. “Qualcuno muoia, si getti a terra!” Come colpiti da unʼipotetica batteria di mitragliatrici, con un sincronismo perfetto, tutti “morimmo” allo stesso istante. Vidi il regista, appollaiato sulla macchina da presa, togliersi la coppola che aveva tenuto salda sulla calvizie e gettarla a terra con unʼimprecazione... Riprovammo a “morire” il giorno dopo.

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Quando “combattevo” sul Carso

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Dietro la cinepresa o la telecamera ci sono finito ancora alcune volte. Sergio Spina è un regista e lo si vede anche quando gioca a scacchi da solo, con una scacchiera elettronica che si porta sempre dietro. Quando si gioca a scacchi bisogna essere registi e poi lui ha il physique du rôle, con la sua pipa perennemente accesa e gli occhiali tondi, dietro ai quali ci sono occhi curiosi, pronti, entusiasti. Era il regista di Gianni Minoli in Mixer ma lui non ne parlava mai. Con lui facemmo uno spot pubblicitario per la campagna politica del PCI che diventava PDS. Fui arruolato da un dirigente politico assieme ad altri tre grandi: Altan, Calligaro, Cojaniz. Io ero lo sconosciuto del gruppo, ma per qualche strana alchimia ero diventato il punto dʼincontro per i primi brain storming che avvenivano nel mio studio. Cojaniz è un musicista eclettico, girovago con una grande esperienza pianistica alle spalle. È un omone grande e grosso, con grandi baffi e capigliatura lunga. Era il musicista del gruppo, quello che doveva creare la base musicale dello spot. Renato Calligaro, grandissimo grafico ma anche pittore, pubblicitario e fumettista è un personaggio che sfugge alle etichette (ma ce nʼè bisogno?), si pone sempre con una calma piena di significati, ponderando parole piene di saggezza, mettendoti quasi in soggezione.

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Era il coordinatore grafico di tutta la faccenda. E poi Altan, che non ha bisogno di commenti: come sono le sue vignette così è lui. Calmo, tranquillo. Lo andammo a trovare nella sua casa di Aquileia, un grande casolare giallo sulla strada che porta verso Grado. Era una casa molto accogliente e lui uno splendido padrone di casa. Il gruppo si riunì 4 o 5 volte per trovare unʼidea calzante per quellʼavvenimento, che desse anche uno scossone alla base del Partito e che facesse capire quali erano gli obiettivi di quella politica. Non era facile, ma unʼidea venne fuori quasi subito. “Giocare a carte scoperte”, senza nascondere nulla, con le mani bene in vista. Altan produsse subito una decina di vignette che vennero stampate e raccolte in un astuccio, tipo carte da gioco: feci un lavoro di packaging molto semplice ma accattivante, che venne apprezzato da tutti. In quella occasione imparai da Calligaro la pulizia grafica, importantissima nel mio lavoro. Lui aveva lavorato molto in America Latina e aveva portato in Italia il giusto mix di creatività e rigore. Cojaniz intanto aveva scritto una partitura per lo spot televisivo che era stato concepito così: attorno ad un tavolo da gioco, con luce fioca, in un ambiente fumoso - qui non cʼerano problemi per la pipa di Sergio - quattro giocatori cercano di barare finchè uno, stanco di quellʼandazzo, gioca a carte scoperte.

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Il messaggio era molto sottile, in quel periodo storico della politica. Io non ne capivo granchè, ma il tutto mi piaceva moltissimo. La musica interpretava bene la scena, con una suspance iniziale e poi il colpo di scena. Girammo lo spot in un pomeriggio, presso gli studi di una TV privata di Pordenone. Andò in onda pochi giorni dopo. Non mi ricordo lʼesito di quel messaggio così diretto, come un pugno, alla classe politica di allora, ma mi rimane un disegno di Altan raffigurante un Cipputi, allʼinterno di un fumetto troppo piccolo, che mi dice: “ sempre più stretti Livio.”

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È una splendida domenica di primavera con il sole che scalda, finalmente, e i pensieri si schiudono dopo un inverno grigio. Sto andando a fotografare alcune opere di Pino Furlan, un artista locale che non ha avuto in vita i giusti riconoscimenti per la sua opera. Erano quadri perduti in un incendio, recuperati dopo mesi di lavoro e di attese e in questo caso, il fuoco non era purificatore ma distruttivo, della sua casa/studio di Ronchi. Quelle che fotografo ora sono opere che sono “avanzate”, dopo una conta sommaria fatta quando sono state recuperate. Si tratta di quattro piccoli monocromi, forse bozzetti, una fotocopia ritoccata di una “madre” e di un quadro 50x70, in pessimo stato, con una tela dipinta di bianco e applicata a posteriori su un telaio di carta. Lo stato è drammatico, due o tre fori, la carta sporchissima e priva di qualsiasi segno pittorico, il telaio in pessimo stato. Da buttare via. Faccio le riprese di queste opere con la mia digitale. Serviranno comunque alla catalogazione di tutto il lavoro di Pino Furlan che abbiamo in programma. Poi osservo meglio questo pezzo 50x70 e decido di portarlo a casa. Lo butterò via più tardi. Ma qualcosa mi ferma. Un lembo è sollevato e sotto cʼè una pittura, un fondo bruno; se ne percepisce solo un piccolo pezzo. Quando arrivo a casa ho la sensazione che devo in qualche modo scoprire se sotto cʼè qualcosa di dipinto, e,

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nel caso non ci fosse niente, butterei via tutto inesorabilmente. Trentʼanni fa acquistai da Pino quattro formelle in truciolare, con una carta applicata e dipinta a vari strati. Era una serie degli anni ʻ70 intitolata Divisione del mondo. Quelle formelle mi piacquero molto e ancora oggi le tengo esposte con molto amore. Sono venuto in possesso, recentemente, di un foglio di appunti dove Pino annotava gli incassi delle vendite dei suoi quadri e le “uscite”, quasi tutte per cene e riunioni conviviali con amici. Cʼero anchʼio in uno di quegli appunti, con un incasso di 400.000 Lire, che al tempo erano una bella cifra. Era la serie che mi piaceva di più. Dopo aver scaricato il quadro, quasi non riesco ad entrare nel garage, tanta è la curiosità. Tolgo la tela superficiale con molta facilità, senza nessuno sforzo. Ho un sobbalzo ed il cuore comincia a battere forte. Sotto cʼè un capolavoro, un quadro degli anni ʻ70 della mia serie preferita. La carta dipinta è intatta, cʼè solo una rottura che va sistemata. I colori sono caldi, al centro cʼè un “sole”, dipinto con dei cerchi concentrici colorati in blu carta da zucchero, le sfumature e i puntini ci sono tutti, la tempera annacquata, i toni caldi di una terra, la parte superiore bianca... Se avessi dovuto scegliere, tra settanta quadri avrei scelto questo.

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Il tempo, le sensazioni, i pensieri, le immagini e i ricordi di Pino si mescolano come tessere di un grande puzzle e piano piano si sistemano dentro di me. Cʟè un dio che accompagna le nostre azioni, ci osserva mentre apriamo il cuore a qualcuno. I quadri, ancora una volta, diventano protagonisti di una vita che non sa farne a meno. Le lettere mai scritte, i discorsi solo accennati, i ricordi sbiaditi di Pino sono impressi a tinte forti dentro di me. La dolcezza di un vivere pacato, i gesti lenti ed il parlare asciutto di un grande protagonista del mio tempo sono grandi insegnamenti del vivere. Non gli ho mai dato del tu, per un grande rispetto, ma ora sento che devo essere io, ancora una volta, a leggere il suo messaggio in una giornata di primavera, dove la brezza, il sole, la pioggia improvvisa, i colori di un tramonto con la quiete della sera fanno da sfondo. Ed è meraviglioso vivere cosÏ. Grazie Pino

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Pino Furlan

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Gli artisti hanno una marcia in più. Il mio sogno, fin dai tempi della Scuola dʼArte, era quello di aprire una galleria dʼarte, dove far confluire giovani talenti che non avessero la possibilità di esporre in sedi prestigiose e quindi costose. Volevo capire come la creatività si muove allʼinterno di un movimento, di un gruppo e di un singolo. Volevo vedere, negli occhi di una persona, brillare qualcosa di difficilmente tangibile. Lo stesso luccichio che probabilmente avevo io allora. Durante il servizio militare avevo scritto ad unʼamica parlandole di questo sogno. Poi, i fatti della vita hanno coperto per un poʼ questo fuoco. Gli anni della maturità sono arrivati anche con questo regalo. Insieme a Pamela, una esperta in pubbliche relazioni e proprietaria di un piccolo ufficio in centro, decidemmo di aprire uno spazio alternativo dʼarte e di gestirlo in maniera particolare. Lʼintento era quello di proporre delle esposizioni dʼarte con un metodo nuovo, arricchendo la mostra con una scenografia adatta, scegliendo una base musicale appropriata ed un profumo coerente. Ma per non escludere nessun “senso”, proporre, nel momento della vernice, anche qualche cibo sfizioso legato allʼartista. La prima mostra del neonato spazio alternativo

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“Alternʼart” fu quella delle foto di Elisa. Avevamo unʼamica, Marina Tuni, che a quel tempo era la responsabile del fan club, o, come dice Elisa, del fun club. Avevo chiesto a Marina se erano disponibili alcuni quadri della cantante e dopo una breve indagine mi rispose che i dipinti erano sparsi un poʼ qua e un poʼ là; cʼerano, tuttavia, alcune foto interessanti che Elisa aveva scattato in giro per il mondo e che destavano la mia curiosità. Erano scatti di natura, di deserti, di alberi, di fiori di loto. Marina ci fornì anche una serie di immagini di Elisa molto carine. Una di queste la ritraeva con lʼindice sulla bocca, come ad indicare di far silenzio: la mostra la intitolammo “Shh... i silenzi della natura” Presi i file ed iniziai la stampa degli ingrandimenti. Parlando con Marina cominciavo a capire un poʼ il carattere dellʼartista e la sua ritrosia ad apparire in veste di fotografa esponendo alcuni “momenti” solo suoi. Applicai le foto su pannelli di agglomerato, quel materiale fatto di un intreccio di corteccia che si usa negli imballaggi; un prodotto povero ma molto decorativo. Feci ricopiare in bella calligrafia, da Katy Frate, alcuni pensieri che Elisa aveva scritto nei suoi viaggi e realizzai dei piccoli leggii, fatti con uno stelo di bambù, una piccola clip che sorreggeva un foglio di carta fatta a mano e scritta con inchiostro di seppia. Alla base del perimetro della galleria misi della corteccia di pino e delle ciotole con una candela dentro, il tutto accompagnato dal DVD di Lotus, il lavoro di quellʼanno

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fatto con i musicisti amici di Monfalcone. La mostra coincideva con le feste di Natale e per far risaltare ancor di più lʼavvenimento studiai una campagna pubblicitaria per lʼAscom con il titolo Monfalcone città di Luce dove Luce era anche il brano di Elisa vincitore del Festival di Sanremo. Per lʼoccasione, ad ogni acquisto di un certo importo, nei negozi aderenti veniva regalato il CD della canzone. Inoltre Monfalcone si vestiva di luce (quella elettrica) con una serie di luminarie davvero spettacolari. Quella mostra, grazie anche al lavoro di Marina presso il fan club, portò circa duemila visitatori da tuttʼItalia, in quella piccola galleria allestita con tantissimo entusiasmo. Elisa, nonostante fosse in zona non passò a vederla e, a parte Marina, non venne nessuno del suo staff e nemmeno la mamma. La mostra divenne itinerante. Chiesi alla sorella di Elisa tutti i permessi per portare la mostra a Monza, in una galleria gestita dagli Amici del Parco, che erano rimasti colpiti dalle immagini del sito. Poi venne Manzano, con unʼesposizione in Municipio a cura della Pro Loco, poi la Sicilia, nel castello normanno di Acicastello vicino a Catania, dove arrivarono in 15 giorni quasi 5000 persone. Per questa mostra mi contattò una persona che poi diventò un amico. Voleva fare un regalo alla sua città e pensò di proporre queste immagini di natura, in un contesto di rara bellezza. Passammo cinque giorni nella splendida Sicilia, una terra

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generosa e non valorizzata appieno. La mostra di Elisa, quindi, fece da apripista per la galleria dʼarte AlternʼArt. Unʼavventura piena di emozioni e riflessioni, che via via ha messo in moto nuove idee e installazioni, che mi ha fatto conoscere artisti veri e meno veri, ma tutti con la voglia di fare e sperimentare. Fin dal primo momento che ho sentito parlare di lei da Enea Baldassi ho capito che doveva essere una persona speciale. Devo confessarle che quando lui mi chiese di aiutarlo ad allestire la sua mostra pensai: “ecco, la solita mostra celebrativa; chissà come dipinge questa De Romans?” Ma poi mi diede il catalogo con la sua biografia e immediatamente capii che ero di fronte ad un pezzo di Storia dellʼArte. Io ho fatto lʼIstituto dʼArte di Gorizia e i miei maestri furono numerosi artisti che sono diventati colonne portanti dellʼArte della nostra regione. Forse quello che conosce è Celiberti, che lʼha premiata al Moret dʼAur qualche tempo fa. Lui fu a Gorizia per un breve periodo di supplenza ma lei sa che quando si rimane a contatto con un grande personaggio, si assorbe un poʼ della sua energia. Ed è proprio quello che è successo a me, allestendo la sua personale a Torviscosa. Anche se ho avuto modo di stare con lei poche ore, il contatto con i suoi quadri mi ha coinvolto in un percorso

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che lei ha fatto nel mondo artistico, pieno di grandi movimenti culturali, di correnti artistiche, ma anche di drammi personali che traspaiono, senza mentire, nelle tele. Il buon Franco Savadori, il critico dʼarte della mostra, una persona ancora sprecata da noi, ha saputo cogliere tutte le sfumature del suo lavoro in una sintesi non facile, che gli rende merito e che esalta la grande artista che, come tutti i grandi artisti è rimasta una persona semplice, disponibile, curiosa, generosa. Apprezzo tantissimo lʼomaggio che lei ha voluto farmi con una cartella di sue opere. Per me è una testimonianza e un riconoscimento molto importante poichè io vivo di queste cose e vorrei in qualche modo restituirle lʼenergia vitale che lei distribuisce a piene mani con la sua presenza e le sue opere. Intanto accetti i miei più affettuosi ringraziamenti. È la lettera di ringraziamento che ho inviato a Maria Luisa De Romans, figlia di Marinotti, il fondatore di Torviscosa. È un paese nato dal niente, negli anni ʻ20, bonificando una pianura paludosa che aveva come unica ricchezza enormi distese di canna gentile. Con questa canna si fabbricava la cellulosa e quindi la carta, i tessuti e altri beni che hanno determinato il progresso industriale della Bassa Friulana. Lʼarchitettura è quella del ventennio, con un rigore ed una pulizia nelle costruzioni assolutamente attuali. Ampi viali alberati, parchi curati, case degli operai che

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adesso sono diventate ville con orto e giardino, piscine olimpiche, teatro, museo… come dovrebbe essere in tutte le città del mondo. Torviscosa conta solamente duemila abitanti... Marinotti, persona coltissima, ha costruito un edificio adibito ad esposizioni e congressi, rimasto chiuso per diversi anni dopo la sua morte. Per iniziativa del Comune è stato riaperto proprio con una mostra della figlia, che ora ha superato ottantʼanni... È una persona minuta, molto raffinata e colta, che ha attraversato la storia dellʼArte del Novecento. Sfogliando un suo catalogo, la si vede fotografata con Andy Warhol e altri grandi dellʼarte. È stato un incontro pieno di significati, e per ringraziarmi del lavoro che avevo svolto con così tanta passione (avevamo allestito la sua mostra e preparato il pieghevole illustrativo), mi ha fatto recapitare una cartella con 5 serigrafie degli anni ʻ70. Una meraviglia... Lʼarte mi stupisce spesso con sorprese che sembrano premiarmi per lʼamore che le dedico.

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Maria Luisa De Romans

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Lʼestate del 2008 si è fatta attendere un poʼ troppo. Il 20 giugno la temperatura era di 14 gradi con giorni carichi di pioggia e così ci siamo presi una picola parentesi di sole limpido e acqua cristallina a Malta. Dopo forse 15 anni dalla prima visita, lʼisola è cambiata profondamente, perdendo unʼidentità difficile da capire sul momento, ma che riassume un poʼ di Sicilia, molta Inghilterra e un cuore arabo. Ora percepisco solo la voglia, da parte dei maltesi, di entrare in un circuito turistico, saltando molti passaggi storici di cultura dellʼaccoglienza, senza sensibilità verso il proprio tesoro naturalistico e storico. Eppure è un posto magico, pieno di atmosfera, dove ti senti minuscolo e dove il corpo ritrova il tempo. LʼIpogeo, sulla collina della Valletta, è un posto di questi. 3800 anni di età, dove i nostri antenati celebravano il culto dei morti. 2200 mq scavati nella roccia, in profondità, con percorsi, sale, aperture, che faremmo fatica a realizzare ai giorni nostri. E loro non avevano ancora scoperto il ferro e scavavano usando corna di animali. La visita, che dura circa unʼora, ci accompagna lentamente dentro noi stessi con una spirale che scende sempre più in profondità, a toccare i nostri sensi più sopiti. È una delle meraviglie entrate a far parte del patrimonio dellʼUmanità, sotto la sovrintendenza dellʼUnesco. Malta ci colpisce con la sua luce abbagliante, esaltata dalla pietra delle costruzioni, che nelle foto sembra

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dorata. Anche qui è prepotente la percezione dello sviluppo turistico che prende la mano, che crea diverse situazioni di inquinamento, deteriorando siti di importanza universale. Lʼuomo non si rende conto del danno che provoca a se stesso e di ciò che lascerà ai propri figli. Tornati a casa, abbiamo trovato strade pulite, poche immondizie, meno caldo, ma una cappa di smog umido a cui non siamo abituati. La natura sta cambiando e risponde alle nostre continue provocazioni. Nel nostro golfo ci sono i cormorani, nellʼAdriatico pesci tropicali, le api stanno sparendo, non vedo più le lucciole. Le lucciole, insieme a certi odori e certi sapori, mi riportano allʼinfanzia. Verso la metà di giugno, dopo che il commercialista mi ha comunicato quante tasse devo pagare e dopo un periodo di poco lavoro, in attesa del ricovero per il controllo, ho rivisto le lucciole ed erano bellissime. Hanno aperto una porta segreta dentro di me, riportandomi ad un passato un poʼ più spensierato, agli amori di maggio, alle sere dʼinizio estate, quando si mescolano i profumi delle erbe, svanito il glicine e pronto il grano. Fermo questo scorrere di sensazioni già vissute, che rotolano come sassi. Cʼera una grande luna ieri sera, stasera la luna è piena,

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domani il solstizio dʼestate. Le lucciole sono arrivate, un poʼ in ritardo, a rischiarare i ricordi, come i lampi dʼestate. La pensa come me un amico, venuto in studio per un lavoro accompagnato dal figlio (cuffiette inserite, piercing e tatuaggi come se piovesse, vestito da naufrago) che quando ci sente parlare di lucciole, con tutta quellʼenfasi, sembra che abbia la nausea per le nostre frasi “melense”. Gli dico che la nostra generazione, prima di innamorarsi delle lucciole, ascoltava i Black Sabbath o i Van Halen, rock duro che più duro non si può. E poi abbiamo scoperto che la nostra più grande ricchezza è il tempo. Il tempo per “riosservare” le cose con gli occhi dei cinquantʼanni e le lucciole rimangono una magia che nessuno può toglierci.

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Ho rivisto, dopo forse 15 anni, Josko Sirk. Nei primi anni ottanta, con la mia attività pubblicitaria, stavo realizzando un depliant illustrativo sul Collio, su Cormòns e i suoi dintorni. Un percorso tra vigneti, trattorie, cantine e uomini della terra. In quel periodo, quella zona si rendeva consapevole dei grandi prodotti che coltivava, dello scambio di culture con i confini che ne bloccavano lʼespansione, con una cucina dai toni accesi, che ricordava le Langhe di Cesare Pavese. Nel percorrere quelle strade, per i servizi fotografici, trovammo sapori nuovi, profumi intensi, lontani da quelli marini del Golfo. Ho conosciuto gran parte dei vignaioli: i padri stavano per lasciare le briglie ai figli scalpitanti. Si percepiva che quelle terre, ricche di tradizioni, si sarebbero affacciate, prima o dopo, ad un mercato che era alla ricerca di nuovi spunti. Le cantine si sarebbero trasformate in splendide dimore, i vigneti, come le grafiche di Piazza, in ordinate forme illuminate da una luce tersa. Le stalle sarebbero diventate delle sale di degustazione e i fienili splendide terrazze da dove gustare il paesaggio delle colline del Collio sloveno. Conobbi Josko quando visitai la sua trattoria, Al Cacciatore, ancora nella sua vecchia sede, con lʼentrata e il bancone frontale, lo stile rustico vero, con i trofei, i lampadari fatti con le ruote dei carri e lʼinsegna in ferro.

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Era di qualche anno più vecchio di me, con gli occhi piccoli e vivaci, un grande sorriso e la voglia di percorrere una strada difficile, piena di ostacoli ma sicuramente premiante. Parlava già allora delle trasformazioni del suo locale, della ricerca della qualità dei prodotti, della cultura del territorio. Credo sia arrivato dove voleva, anche grazie alla moglie e ai suoi figli, che ne hanno condiviso il percorso. Ho rivisto Josko Sirk dopo 15 anni ma ne ho seguito il percorso. Durante la convalescenza in ospedale ho ricevuto un piccolo libro di fotografie di Maurizio Frullani, dove si raccontava della Subida, la trattoria, con il suo contorno di agriturismo, maneggio, tennis e piscina, tutto immerso nella natura, dove il relax fisico e mentale sono messi al primo posto. In particolare, mi sono rimaste impresse alcune foto ritraenti Josko mentre si occupa della sua cucina, o quando cerca le erbe più profumate nei monti della Slovenia, o mentre fa la spesa al mercato di Lubiana sempre dalla stessa “venderigola.” Mi hanno ricordato un sogno che ho sempre avuto. La cucina fatta di cultura e ricerca. Ma io, che sono un “assaggiatore” della vita non sarei mai riuscito a percorrere fino in fondo quella strada. In un letto di ospedale, quelle foto mi hanno dato una nuova energia (unʼaltra), ho provato anche un senso dʼinvidia per quellʼuomo che non so quanto sia stato

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capito per quello che ha ridato alla sua terra. Perchè noi dobbiamo restituire alla terra quello che le prendiamo. Dobbiamo ridare al nostro universo la piccola parte che usiamo per noi. Quello con Josko Sirk è stato un incontro tra percorsi. Due viottoli di campagna che si incrociano e proseguono nella unica, stessa direzione. Lʼho rivisto allʼinaugurazione di una mostra dʼarte ma non solo, unʼincontro tra lʼarte e lʼospitalità delle trattorie di questa zona: ogni artista che espone è abbinato ad un locale o a unʼazienda agricola in uno scambio di immagini e sapori. È la magia del Collio Cormonese. Tra la gente, tanti amici artisti, tanti sguardi tranquillamente curiosi e poi lʼabbraccio di Aldo Rupel, per lʼoccasione traduttore dei testi del catalogo e dei discorsi al tavolo della presentazione. Dopo un giro in galleria, con gli occhi pieni di immagini familiari, un assaggio di ciò che questa terra offre generosamente. Josko rimane uno dei protagonisti più grandi e mi saluta con lo stesso sorriso di sempre.

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È una giornata calda di luglio e aspettiamo il presidente dellʼAssociazione allʼingresso. È un vecchio edificio, forse un ex magazzino navale, a due passi dai centinaia di approdi sulle rive di Trieste. Il presidente è un omone dallʼaspetto molto curato, con i capelli tagliati a spazzola; fuma una sigaretta dietro lʼaltra. Ci fa accomodare nellʼ“ufficio” di segreteria ed apre la finestra. “Quando mi hanno rieletto, perchè non cʼera nessuno disposto a venire qui giornalmente, ho chiesto come condizione di poter fumare dentro” - ci anticipa, quasi scusandosi di quel viziaccio. Poi ci illustra un poʼ la vita di questʼassociazione. Il quadro che ne viene fuori è quello di una specie di club per anziani marittimi, con la passione per le navi e tutto quello che ci gira intorno: documenti, foto, libri ecc... Li vedo riunirsi nelle sere dʼinverno, un giorno alla settimana, a parlare del più e del meno, con qualche discorso anche sulla nautica o a chiedere informazioni sulla salute di qualcuno dei membri e se per caso uno dei conoscenti se nʼè andato, ripercorrerne la vita, le avventure, gli imbarchi... Il presidente ci accompagna in una grande stanza dove sono esposti numerosi modelli di navi di ogni epoca, ma con particolare attenzione per quelle costruite nel secolo scorso e le navi bianche, molte di queste realizzate nel cantiere di Monfalcone nel dopoguerra, che hanno solcato tutti i mari con migliaia di emigranti a bordo. Partivano dalla stazione marittima di Trieste verso le

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Americhe o lʼ Estremo Oriente. Molti modelli sono di navi militari, sommergibili, dragamine, corazzate. Poi ci fa vedere unʼaltra stanza dove ci sono centinaia di libri e documenti, i registri dei Lloyds di Londra, dove sono segnate tutte le unità navali del mondo. E poi documenti rari, lastre fotografiche, fotografie e cartoline, stivate in una bellissima cassettiera appesa. Un oggetto appartenuto a qualche ufficio marittimo, che veniva usato come schedario; e poi ancora oggetti navali, curiosità, tutto odoroso di carta vecchia, di muffa, di legno stagionato. Quella mattina il tempo si è fermato, sommerso dai ricordi, accarezzato dalla storia e anche da qualche tragedia del mare. Eravamo venuti (il segretario del Sindaco ed io) per chiedere in prestito alcuni modelli di navi bianche, possibilmente costruite a Monfalcone, poichè dovevamo esporle allʼinaugurazione del rinovato Palazzetto Veneto, che diventerà un museo. Il Presidente, ad un complimento del segretario riguardo la sua verve, ci precisa diverse volte che lui ha settantaquattro anni. “Cosa ve ne pare?” - ci chiede, e noi rispondiamo quasi in coro: “però, complimenti!” Ci offre ampia disponibilità sui modelli, consigliandone qualcuno di particolare. Poi, mi viene in mente di fargli una domanda: “ma quando lei non ci sarà più, perchè stufo di venire qui ogni giorno o

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per qualche altro impegno o, speriamo di no, da qualche acciacco, chi la sostituirà?” “Purtroppo dietro di me cʼè solo una generazione di 50/60 anni e poi il vuoto.” Tutto andrà nel dimenticatoio, in qualche magazzino, a far compagnia a chissà quali oggetti anchʼessi dimenticati o messi da parte. E così un pezzo di storia perderà la sua importanza e finiranno nellʼoblio anche i protagonisti. Dopo questo incontro una riflessione ha aperto un pensiero pessimista ma credo vero: buttare via tutto, tutti gli oggetti modelli compresi. In fondo le navi sono oggetti che non ci sono più, demolite o affondate. È come se tenessimo i modelli di camion, autobus, treni che hanno trasportato persone e cose ma che ormai hanno esaurito la loro storia. Siamo pieni di libri che non leggiamo, fotografie che non guardiamo, oggetti che non usiamo. E allora via tutto. Mio fratello, appassionato di fotografia, realizzò trentʼanni fa qualche migliaio di diapositive 6x6 con una Hasselblad, un mito che solo pochi si potevano permettere. Non le ha mai guardate. Riposano da trentʼanni nei contenitori di quel tempo. Nessuno avrà la pazienza di guardarle perchè non cʼè interesse, tutte le informazioni arrivano dalla Rete. Siamo sommersi dalle immagini e dai dati che ci arrivano da tutte le parti.

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Abbiamo bisogno di vuoto. Come nelle foto di Hiroshi Sugimoto. È un fotografo che ha esposto le sue opere in una grande mostra a Villa Manin di Passariano. Geniale. Mi è piaciuto perchè ribalta il concetto di fotografia come testimone della realtà. Lui fotografa le statue di cera del museo di Madame Trussaud a Londra. Le illumina in maniera personale e le riprende in bianco e nero. I personaggi, pur essendo morti, rivivono nelle statue e la foto sembra fatta quandʼerano ancora in vita, compresi Napoleone ed Enrico VIII con le sue sei mogli. Oppure fotografa le sale cinematografiche americane degli anni ʻ20 e ʼ30, nel buio di una proiezione, con lo schermo riflettente di luce e la platea completamente vuota. E così è la sala la protagonista, non il film. Ritorna il concetto di ribaltamento della realtà. Con nuove meraviglie. Il vuoto è il protagonista assoluto. E così ho iniziato a buttare via un oggetto al giorno. Di tutti i tipi. Prima gli inutili, poi i più kitchs poi, via via gli altri, più significativi o utili ma inutilizzati e dimenticati. Piano piano ho un senso di leggerezza sempre più grande. Non mi mancano.

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È come se mano a mano che li getto via mi liberassero la pelle e la facessero respirare. Gli oggetti posso essere vitali solo in particolari circostanze. Alex Bellini arrivò in studio un tardo pomeriggio di settembre, poco prima della chiusura. Con quel suo sorriso disarmante ci chiese, con una cortesia non del luogo, se noi realizzavamo scritte adesive. ”Ecco un altro confuso” - pensammo tutti. Era stata una giornata pesante, una di quelle in cui capitano tutti con le richieste più svariate: gigantografie per stand, pieghevoli per club privée, cartelli per lavanderie automatiche, annunci immobiliari, biglietti augurali personalizzati e “tutto per ieri”. Paola e Domenico, grafici tuttofare ma anche front office, non ne potevano più. Paola sollevò lo sguardo dal video e squadrò quel tizio con una chiavetta USB in mano che non prometteva niente di buono. Io stavo trafficando con qualcosa, tipo preventivi e simili, e vedendo la situazione mi avvicinai cercando di capire a che ora avremmo finito quella sera... Presi la chiavetta e la aprii su un computer disponibile: la prima foto che apparve era quella dʼun imbarcazione tipo canoa, con un tizio barbuto che remava sorridendo. Feci immediatamente un percorso a ritroso nel tempo chiamando Paola a guardare la foto e ricordando assieme la trasmissione di Radio2, Caterpillar, dove Cirri e

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Solibello, un anno prima, seguivano in diretta, ogni venerdì, lʼimpresa di un navigatore solitario che stava attraversando lʼOceano Atlantico a remi... Improvvisamente lo studio si accese e lʼinteresse per quel personaggio timido e sbarbato diventò totale. Alex aveva compiuto unʼimpresa storica, che noi avevamo seguito con grande interesse per radio e adesso lo avevamo, chissà per quale strano destino, in studio che ci chiedeva delle scritte adesive per la sua barca. Erano i marchi dei suoi sponsor che finanziavano una seconda impresa, quella che si apprestava a realizzare adesso: lʼattraversata del Pacifico, sempre a remi. Davanti a certe imprese, compiute per di più da uomo solo, bisogna inchinarsi. Il nostro lavoro sembrava un giochino da femminucce in confronto ad una fatica simile. Alex, oltretutto, è una persona semplice, timida, “un montanaro con la passione del mare”, come dice lui. Potrebbe raccontarci la sua avventura, durata oltre 200 giorni, come se fosse stata una vacanza avventurosa, ma pensando allʼOceano non è così. Duro allenamento e una grandissima forza dʼanimo non sono sufficienti per unʼimpresa così. Ascoltando per radio le fasi dellʼarrivo in Brasile, un venerdì pomeriggio, Alex comunicò che sarebbe sbarcato il giorno dopo, con lʼaccoglienza festosa della gente brasiliana, la Marina Militare e compagnia… Solibello disse: “ma Alex, domani non andiamo in onda!

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Non è che potresti posticipare lʼarrivo a lunedì, così facciamo una trasmissione in diretta e siamo più contenti?” Ora, qualsiasi persona, atleta, personaggio o no, dopo oltre 200 giorni di Atlantico in solitaria, tra tempeste, difficoltà di ogni genere, stremato dai remi, dimagrito, con la moglie che lo aspetta in porto assieme ad una folla festosa, li avrebbe mandati in mona, come si dice da noi, assieme a tutti i bulldozer della radio! Bellini - il carattere è anche nel nome - no. Lui si fece ancora due giorni di remi, e possiamo immaginare dove arrivò, per poi approdare il lunedì in tempo per la trasmissione e fare il collegamento in diretta. Questo è Alex, che ora ci sorride in un poster insieme a Renato e Giulia, che gli hanno personalizzato “con due scritte adesive” la sua barca. La sua seconda traversata a remi, questa volta del Pacifico lʼabbiamo sentita più da vicino, ricevendo, praticamente ogni tre giorni, una e-mail con il resoconto dellʼavventura...

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Renato, Alex Bellini e Giulia

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Venerdì santo. Un tempo, da bambino, erano i giorni più tristi dellʼanno. Frequentando da chierichetto la chiesa del paese, quei giorni erano scanditi dalla Passione di Gesù, con i riti della settimana santa. Oggi, a cinquantacinque anni, alle ore 3 del pomeriggio, mi sono fermato con un pensiero. È un pomeriggio freddo e piovoso, con una pioggia fitta e insistente; sto andando allʼospedale di Udine per una ecografia di controllo. Finora non ho pensato allʼesame, anzi, per essere preciso, non ci penserò fino al momento in cui il medico insisterà a passare lʼecografo colmo di gel sul mio fianco destro. In quel momento il cuore prende consapevolezza di ciò che sto facendo. E se ci fosse qualcosa che non va? E se sul computer si manifestasse una macchia più scura o qualcosa di anomalo e il dottore mormorasse: “mmm,qui...cʼè qualcosa... ma... non è chiaro...” Il mondo precipiterebbe di nuovo. Basta così poco? Sì, basta così poco per far riaffiorare tutto il percorso di una malattia. Sono le due del pomeriggio e io penso alla crocifissione, a quel pomeriggio di sole caldo che si trasforma in un temporale improvviso, quando Gesù sembra non respirare più. Da bambino ero veramente abbattuto e triste prima di Pasqua. E dopo, la domenica, si slegavano le campane e

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si festeggiava la resurrezione. Si potevano finalmente gustare le “pinze”, le focacce pasquali fatte dalle mamme il giovedì e che dovevano rimanere intatte fino alla domenica (quella sì era una passione). Oggi è Venerdì Santo e lʼesame è andato benissimo, slego le mie campane e sono felice. Nel Duomo di San Sebastian, una splendida località di villeggiatura nel nord della Spagna, mi soffermo un poʼ più a lungo su un crocifisso. Una lama di luce, in una navata un poʼ scura, ne mette in evidenza tutta la sua tragicità. Un uomo, cadavere appeso come un coniglio o un animale, inchiodato su due assi di legno. Ci meravigliamo delle immagini televisive di scene di guerra, con cadaveri sulle strade o scene di fucilazione. Rabbrividiamo allʼesecuzione, con un coltello piantato nella carotide, del primo prigioniero americano in mano ai talebani. Internet ci ha mostrato tutto ormai. È come se la scena televisiva sancisse che quellʼavvenimento è vero poichè è stato trasmesso. La violenza non si nasconde nemmeno davanti ai bambini, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Eppure Gesù Cristo, da duemila anni si mostra come un animale macellato, con il sangue e tutto il resto. Il film di Mel Gibson, La Passione di Cristo, evidenziava tutta la violenza del calvario di un uomo, massacrato di botte, frustato a sangue, inchiodato ancora vivo e appeso.

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Questo corpo lo abbiamo visto per duemila anni cosĂŹ. E tutta la religione cristiana evidenzia questo momento tragico e violentissimo. Ho pensato che questo simbolo religioso, riportato ai giorni nostri, sia un uomo su una sedia elettrica, nel momento della sua esecuzione. Con i muscoli facciali tirati, la testa fumante dalla corrente scaricata e i nervi tesi fuori dai muscoli. Come se questo simbolo (anche se non sanguinolento) venisse posto in ogni luogo sacro sopra un altare, nelle nicchie delle navate. Dipinto in tutte le maniere, stampato a colori sui libri religiosi... Un problema potrebbero essere le collanine, i simboli in oro e le riproduzioni da appendere nelle aule scolastiche... Oppure, che cosa insegnare ai bambini al mattino: farsi il segno della sedia?

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Posso scrivere sul Moleskine con la mia Montblanc bicolore, ultimo residuato di almeno 4 o cinque esemplari “morti” in svariate modalità. Mi ricordo, per esempio, un esemplare Meisterstück bordeaux, volato via dal taschino di una camicia estiva che aveva cominciato a sventolare troppo, a 140 allʼora, sullo scooter in autostrada. Fulminea la caduta, fulmineo il pensiero di un camion che seguiva, ignaro di appiattire, poco dopo, 300 mila lire di biro. Oppure lʼavventura fantozziana nella campagna friulana dove, scorgendo da lontano un furgone conosciuto di una ditta di Monfalcone, in evidente difficoltà in una stradina di campagna, mi fermo per prestare aiuto allʼautista, mio conoscente. Imbrattandomi le scarpe per raggiungerlo vedo che si è impantanato profondamente. ”Cosa succede?” “Eh... sono venuto a fare la pipì e adesso... vedi... avrei bisogno di una spinta…” Mi metto dietro, lui alla guida, motore su di giri, partenza, schizzi, come secchiate di fango, la Montblanc che avevo nel taschino, chinandomi, mi cade e si immerge nel fango, lʼuomo che mi saluta con un gesto dal finestrino e ringraziandomi sʼallontana... Rimango attonito, infangato e solo, in mezzo a quel campo, senza rendermi conto del danno... In quel periodo facevo il rappresentante e quindi la

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giornata era compromessa. Torno a casa svuotato (letteralmente) di tutto. Sono cose che capitano... anche con gli occhiali. Il dramma dei miei occhiali vale bene un capitolo di questo scritto! Da quando ho incominciato a portare gli occhiali da lettura, il problema non è stato che non ci vedevo più, ma la quantità di occhiali che ho distrutto in questi pochi anni. Da vista e da sole, la strage è la stessa. Le modalità sono diverse solo per un particolare: gli occhiali da vista sono legati ad una cordicella al collo che provoca più danni di una femmina di cinghiale con prole! Questi cordini sʼimpigliano dappertutto, diventano come elastici di una fionda e quando si sganciano, scagliano fusto e lenti molto in là... verso le gomme di un auto, ad esempio, in acqua, davanti ad un piede che sta per toccare terra, eccetera... Come, ad esempio, un paio di occhiali da vista, con il fusto in titanio sottilissimo, a cui avevo applicato, anzichè il solito cordino, un filo da pesca trasparente, proprio per renderli più invisibili possibile. Infatti, una sera, scendendo dalla macchina pieno di cartelline, borse, fogli e quantʼaltro, impigliandosi non so dove, presero il volo verso il centro della strada, spaccandosi in due. Panico. Un pezzo lo trovo subito ma mi manca lʼaltra metà che, essendo trasparente, ha pensato bene di rimanere invisibile fino allʼarrivo di unʼauto...

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Con quei duecento euro avrei potuto comperare qualsiasi altra cosa (non una Montblanc!) che sarebbe durata sicuramente di più. Un paio da sole (Rayban, bellissimi) ebbero un destino beffardo. Sempre lo scooter di prima, in un rettilineo, ad una velocità sostenuta, li avevo nel taschino, visto che non cʼera molto sole e per il solito effetto bandiera della camicia, mi cadono. Me ne accorgo subito e freno bruscamente. Gli occhiali per effetto della velocità mi “sorpassano” strisciando a terra e attraversano la strada. Una strada piena di traffico ma in questo caso nessun veicolo dallʼaltra parte li schiaccia. Faccio inversione di marcia e mi fermo per raccoglierli, tenendomi leggermente verso il centro della strada per proteggerli... Non riesco però a controllare lo scooter per scendere e gli occhiali finiscono sotto la ruota davanti. Il mio amico ottico, ogni volta che mi vede, chiama suo fratello per renderlo partecipe dei miei racconti su come ho ridotto lʼennesimo paio di occhiali. Potrei tranquilamente fare il collaudatore, testando nelle situazioni più estreme ogni fusto ed ogni lente. Certi oggetti, che fanno parte della mia vita quotidiana, non riescono a mantenersi integri per molto tempo, oppure giocano a nascondino, tipo le chiavi o funzionano, nonostante tutto, tipo il telefonino.

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Trentadue anni per rincontrarsi di nuovo. Trentadue anni dal servizio militare in Piemonte. Una manciata di giorni insieme, quattro ragazzi di posti diversi, uniti per forza, che si scoprono con lʼanima simile. Qualche scherzo, qualche foto che ci ritrae mentre fingiamo di essere quattro generali della II Guerra Mondiale mentre elaborano qualche strategia militare, pochi ricordi ma nitidi. Tasselli indelebili di un mosaico. Poi la vita scorre, con la storia più intensa, con la tecnologia più veloce che mai, che fagocita tutto. I sentimenti, il tempo dei ricordi, la corsa per vivere senza specchietto retrovisore. Passano i postumi del ʻ68, gli anni di piombo, la crisi economica, il crollo del Muro, Internet. Ma un filo sottilissimo ed impercettibile ci tiene legati. Qualche telefonata, qualche e-mail ed eccoci allʼappuntamento tanto aspettato. Lucio, il nostro “generale in capo” è una persona che in tutti questi anni non ha mai perso di vista il suo obiettivo di riunirci, di riformare quel quartetto. Da ogni parte del mondo mi sono arrivate le sue cartoline. Il suo lavoro lo portava soprattutto negli States e penso che lui ne era felice. Valentino è il mio “vicino di casa”, poichè abitiamo ad una ventina di chilometri di distanza. Ma in questi anni non ci siamo mai visti nè sentiti. Cʼè voluto un livornese per farci riunire. Saverio, animo mite, è di Lanciano, vicino a Chieti.

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Il luogo dellʼappuntamento è la stazione di Bologna, proprio davanti al cratere della bomba del terrorismo nero dei NAR. Ci riconosciamo tutti, subito. Quattro uomini maturi con i segni della vita (o meglio con le misure della “vita” abbondanti). Siamo uomini normali sullʼorlo della pensione ma che hanno cavalcato i mitici anni ʻ70/ʻ80 partecipando a concerti rock, viaggiando per il mondo, sognando e ripudiando lʼAmerica. Siamo uomini come tanti altri ma ora “sappiamo”. Trasmettiamo ai nostri figli lʼentusiasmo dei nostri anni. A pranzo, il nostro “generale in capo” ci ha preparato una sorpresa. Torta celebrativa e spumante, cappellini con le 4 stelle per noi, e 5 per lui: Ubi Maior... Abbiamo gli stessi occhi, vitali e sinceri come trentʼanni fa. Occhi che hanno visto di tutto, registrato nel bene e nel male lo scorrere della storia. Occhi che hanno pianto e che hanno riso mille volte. Riprendiamo un discorso interrotto a quel tempo, con alle spalle una montagna di discorsi fatti, di persone incontrate, di figli, di amori, di affetti. Tutto è filtrato dal tempo di vivere, da milioni di emozioni vissute. La vita ci è rotolata addosso e noi, comunque, ne siamo stati protagonisti attivi. La cosa strana è che non parliamo dei ricordi, dei tempi del militare ma, come se ci fossimo conosciuti oggi,

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raccontiamo quello che stiamo facendo adesso, le nostre esperienze di vita. Prima di riprendere il treno di ritorno, in sala dʼaspetto, cʼè un militare in divisa, senza mostrine (vuol dire che appena partito per il servizio militare) che aspetta il treno insieme ai genitori. Non si vedono più i militari, visto che la divisa non è più obbligatoria. È un segno inequivocabile che ci arriva alla fine di una giornata carica di ricordi. Lo osserviamo e ci rivediamo giovanissimi, ai piedi della vita. Ora gli anni si sentono, forse per la prima volta. Tutto questo tempo trascorso si manifesta improvvisamente, come fosse un registratore di cassa che tira le somme. Noi abbiamo pagato... finora.

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Strategia militare

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Le rondini ci sono ancora, con i loro giri ampi ricordano le sere dʼestate nelle piazze assolate. Sono in pensiero per Giulia, che sta diventando matta con il lavoro a Trieste ma ce la farà. Lei è tosta, quando deve risolvere problemi. É ancora la mia cucciola ma dimostra di crescere sempre. Sono steso sul letto dʼospedale per il solito controllo (anticipato a 4 mesi anzichè 6), forse un poʼ più attento, visto che qualche cellula risulta recidiva e bisogna tenerla dʼocchio. Ho subito fatto amicizia con un fotografo vecchia maniera e con un rappresentante di scarpe. Due persone tradite dal proprio lavoro. Il fotografo ricorda che negli anni passati lavorava molto per lʼospedale: tutte le foto scattate dai medici, durante gli interventi, le stampava lui. Ora, con lʼavvento del digitale, ha perso completamente queste lavorazioni. Il suo amore per la pellicola è stato, suo malgrado, rimpiazzato dalle nuove tecnologie. A nessuno importa più la qualità dellʼimmagine e dei colori. Tutte le attrezzature non digitali, acquistate con grandi sacrifici negli anni, non valgono nulla. La sua esperienza non la cerca più nessuno. Il rappresentante di scarpe è sfiduciato. Lavora per uno dei marchi italiani più grossi, che ha trasferito la produzione in Cina. Mi dice:” capirei se dovessimo combattere con il prezzo, ma le nostre calzature hanno un prezzo imposto di 130 euro e le paghiamo a malapena 5, io ho una provvigione

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di 1 euro al paio.” E i nostri artigiani italiani? Chiudono tutti. Due mondi diversi che convergono nella crisi attuale, con i problemi di tutti e le ansie per il futuro. Siamo davanti ad una recessione senza eguali. Il crollo improvviso di unʼeconomia basata sul nulla, generata da una speculazione immobiliare da parte dellʼAmerica, ci sta travolgendo come un terremoto, senza via di scampo. Ci rendiamo conto solo ora della frenesia del possesso che ci ha avvelenato negli ultimi decenni. Una vita al di sopra delle possibilità, senza un attimo per pensare al nostro “essere”. Siamo pieni di sovvrastrutture inutili, sommersi da oggetti che sembravano vitali e nel momento in cui li possediamo, di colpo perdono ogni significato. La ricerca, la cultura e la scienza, messe allʼultimo posto nella scala delle priorità e così via. E allora, estremizzando, mi viene in mente lʼacqua del deserto libico. Doppiamente preziosa: per la nostra vita nel Sahara ma anche perchè fossile, cioè limitata nella quantità. Una volta esaurito il pozzo, fine. Le considerazioni fatte negli anni, come un cerchio che sta per chiudersi, ritornano alle passeggiate da studenti dellʼArte, dove il nostro prof. ci faceva osservare le cose piccole, apparentemente insignificanti ma preziose per il vivere. Ora, quando guarderemo le macerie di questo terremoto

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insieme ai nostri figli, dovremo rispondere a diverse domande. Dovremo sperare che da loro parta un nuovo Rinascimento, che quei pochi semi bianchi che ancora abbiamo, servano loro per far crescere un nuovo mondo, piÚ semplice, piÚ in armonia con la natura. La riga rossa non è solamente per tirare le somme del nostro vissuto ma, come a scuola, per evidenziare gli errori nei compiti. Manca comunque il voto.

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Prima Edizione: Aprile 2011 Media Com Monfalcone Progetto grafico ed impaginazione: Cinzia Pastorutti Fabrizio Prosperi

Revisione dei testi: Marina Tuni

Stampato dalle Poligrafiche S.Marco di Cormons in 300 copie

Le Foto sono di: Licio Comisso Maurizio Frullani Livio Comisso MEDIACOM

Il carattere del testo è un Helvetica medium, in occasione dei suoi 100 anni


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