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XXVII

XXVII

IX.

La moglie tornò tardi nella notte. Entrò in punta di piedi, ma egli l'udì venire: aprì gli occhi e subito li richiuse. Essa voleva mandar via Gherassim e rimanere lei a vegliarlo. Ivan Ilijc riaprì gli occhi e disse: — No. Vattene. — Soffri molto? — Sempre lo stesso. — Prendi dell'oppio. Egli acconsentì e lo prese. La moglie se ne andò. Fino alle tre stette in uno stato di torpore affannoso. Gli pareva che lo mettessero a forza in un sacco stretto, nero e fondo, e ve lo spingessero senza riuscire a farcelo entrare del tutto. Ed egli aveva paura e voleva entrarci, ma tuttavia lottava e resisteva. A un tratto si liberò e cadde, e allora si svegliò. Gherassim era sempre lì, seduto ai piedi del letto, dormicchiando tranquillo e paziente, come al solito. Egli era sdraiato, con i piedi smagriti coperti dalle calze e appoggiati alle spalle di Gherassim: la solita candela, con l'abat-jour e lo stesso dolore che non dava mai tregua. — Vattene, Gherassim — mormorò egli. — No: resto qui. — No, vattene. Egli ritirò le gambe, si voltò su un fianco, appoggiandosi al braccio, e cominciò a compiangere sè stesso. Aspettò appena che Gherassim fosse andato nella camera accanto, e non potendo più trattenersi si mise a pian-

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gere come un bambino. Piangeva sul suo stato senza speranza, sulla sua tremenda solitudine, sulla crudeltà della gente, sulla crudeltà di Dio, sull'assenza di Dio. «Perchè hai fatto tutto questo? Perchè mi hai condotto a questo punto? Perchè, perchè mi torturi così atrocemente?». Non aspettava risposta e piangeva perchè non ci era nè ci poteva essere una risposta. Il dolore si faceva di nuovo più forte, ma egli non si mosse, non chiamò. Diceva dentro di sè: «Su dunque, su, colpiscimi! Ma perchè? Che cosa Ti ho fatto? Perchè...». Poi tacque, non soltanto smise di piangere, ma trattenne il fiato e si fece tutto intento ad ascoltare, ad ascoltare non una voce che dicesse delle parole, ma la voce dell'anima che gli parlava dentro in un nuovo giro di pensieri. «Che vuoi?» fu la prima cosa chiara che gli riuscì di udire espressa con parole. «Che vuoi? che vuoi?», ripeteva la voce dentro di lui. «Che voglio? Non soffrire, vivere», rispondeva egli. Di nuovo concentrò la sua attenzione al punto da non sentir quasi più il dolore. «Vivere? ma vivere come?», chiedeva la voce dell'anima. «Vivere come son vissuto prima, bene, piacevolmente». «E prima vivevi tu bene e piacevolmente?», chiedeva la voce. Egli si mise a vagliare i migliori momenti della sua piacevole vita. Ma, strana cosa, tutti questi migliori momenti della sua piacevole vita ora non gli sembrava-

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no più come gli erano sembrati allora. Tutti, meno i primi ricordi dell'infanzia. Là, nell'infanzia c'era qualcosa di così realmente lieto che valeva la pena di rivivere quei momenti se fosse potuto tornare indietro. Ma l'essere che aveva potuto gustare quella gioia ora non esisteva più: erano soltanto ricordi di un altro individuo. Ma appena giungeva al periodo della sua vita, il cui risultato era l'uomo di oggi, Ivan Ilijc vedeva che quelle che allora erano sembrate gioie si tramutavano ai suoi occhi in qualcosa d'insulso, anzi di disgustoso. E quanto più si allontanava dall'infanzia, quanto più si avvicinava al presente, tanto più insulse ed incerte erano quelle gioie. Il mutamento cominciava dalla scuola di diritto. Là c'era ancora qualcosa di veramente buono: là c'era ancora allegria, là c'era amicizia, là c'erano speranze. Ma nelle classi superiori già questi buoni momenti erano più rari. Poi, nel tempo in cui prima aveva prestato servizio presso il governatore, di nuovo apparivano alcuni buoni momenti: erano i ricordi del suo amore per la fidanzata. Poi tutto questo cambiò e diventò sempre peggio: e quanto più si andava avanti i buoni momenti erano più rari. Il matrimonio... delusioni e sgomento, e l'alito cattivo della moglie, e sensualità, e finzione! E quel lavoro d'ufficio monotono, e quelle preoccupazioni di denaro, e così per un anno, e due, e dieci, e venti, e sempre lo stesso. E quanto più si andava avanti, più tutto era monotono. Come se io fossi disceso a poco a poco da una montagna immaginandomi di salire su di una montagna.

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Così era. Nel mondo si aveva l'opinione che io salissi sulla montagna, e invece la vita mi sfuggiva... Ed ecco ora sono pronto, muoio. «Che cosa è mai questo? Perchè? Non può essere! Non può essere che la vita sia così insulsa, così bassa. E se è così bassa e insulsa perchè morire, e morire soffrendo? C'è qualcosa che non va. «Forse non son vissuto come dovevo? — gli venne in mente a un tratto. — Ma come può essere se ho sempre fatto tutto ciò che conveniva fare? — chiedeva a se stesso, ma subito scacciava da sè quest'unica spiegazione di tutta la bruttura della vita e della morte come qualcosa di assolutamente impossibile. «Che cosa vuoi adesso? Vivere? Vivere come? Vivere come vivevi al tribunale, quando l'usciere annunziava: Entra la Corte? — Entra la Corte, la Corte entra, ripeteva fra sè. Era lui la Corte —. Ma io non ho alcuna colpa! — esclamò con rabbia. Colpa di che? Smise di piangere, e voltando il viso al muro si mise a pensare a un'unica cosa: perchè, a che scopo tutto quest'orrore?». Ma per quanto pensasse non trovava una risposta. E quando gli veniva, come gli veniva spesso, il pensiero di non esser vissuto come doveva, subito si ricordava tutta la correttezza della sua vita e scacciava questo strano pensiero.

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